Scarica Propedeutica al latino universitario, A. Traina - G. Bernardi Pierini Riassunto e più Appunti in PDF di Lingua Latina solo su Docsity! Una lingua può essere studiata da due punti di vista diversi: sincronico (attraverso il tempo, ossia come una serie di rapporti successivi - DINAMICO - oggetto: fasi di una lingua) e diacronico (a prescindere dal tempo, ossia come un complesso di rapporti simultanei - STATICO - uno stato di lingua). Indoeuropeo Nella prima metà dell’800 si scoprì, grazie al metodo comparativo, che non solo il latino e il greco avevano un’affinità genetica, ma anche altre lingue europee e asiatiche vi erano affini e risalivano quindi a una lingua “comune” chiamata “indogermanico (dai tedeschi) / indoeuropeo (dagli altri)”. Indoeuropeo è un concetto linguistico: identifica un insieme di varietà dialettali parlate da tribù a struttura patriarcale, in una zona settentrionale del continente euroasiatico, tra il IV e il III millennio a.C. In seguito migrazioni: si spargono i dialetti soppiantando le lingue indigene, le quali reagirono mediante l’influsso di sostrato, e differenziandosi poi ulteriormente in una serie di lingue, che sono, da oriente a occidente: sanscrito, iranico (e persiano), armeno, slavo, baltico, greco, germanico, italico o osco-umbro, latino, celtico, tocario (Turkmenistan), ittita (Asia minore). Latino presenta peculiarità soprattutto morfologiche e lessicali in comune con l’italico e il celtico, lessicali con l’indoiranico. Le fasi del Latino Pare che il latino abbia avuto punti di contatto con la lingua dei Siculi, il che proverebbe in epoca preistorica la diffusione dei protolatini fino in Sicilia. Ma, in epoca storica, il latino è ormai solo la lingua della città di Roma, con poche varianti dialettali note. Confinava: a sud e a est con l’Osco, a nord con l’Etrusco (probabilmente non indoeuropeo e di cui subì un moderato influsso), e lo stesso alfabeto latino è derivato da un alfabeto greco occidentale (quello calcidico di Cuma) ma attraverso un intermediario etrusco che ha lasciato le sue tracce. Tanto influsso del greco: mediante il commercio, la tecnica e la cultura. Certo è che durante la sua espansione, l’impero Romano estesa la lingua latina prima in tutta Italia, poi nella parte nord- occidentale dell’impero, ma non potè far breccia nell’oriente ellenizzato. Pochi i latinismi nel bizantino mentre tanti grecismi nel latino. Latino preletterario (sino al principio del III a.C - scarse iscrizioni, qualche frammento indiretto); Latino arcaico (da Livio Andronìco -II a.C- fino ai primi del I secolo a.C); Latino classico (I a.C, età di Cesare e Cicerone); Latino augusteo (14 d.C morte di Augusto, rappresentato soprattutto dai poeti augustei e in prosa da Livio); Latino postclassico o imperiale (primi due secoli dell’impero -180 d.C morte di Marco Aurelio-): caratterizzato dal progressivo convergere di lingua poetica e prosastica e dal divergere progressivo di lingua letteraria e lingua parlata; Latino cristiano (particolare forma di latino imperiale attestato negli scrittori cristiani a partire dalla fine del II secolo d.C: grecismi, semitismi, volgarismi; Tardolatino o basso latino, in parte parallelo al latino cristiano, negli ultimi secoli (524 morte di Boezio). Le differenze chiaramente anche sul piano sincronico o orizzontale: se prendiamo uno stato qualunque del latino in una fase qualunque, eccetto quella preletteraria, noteremo diversi strati o livelli stilistici: lingua letteraria, lingue tecniche, lingua d’uso, lingua volgare. La lingua letteraria era sistemata su una prima biforcazione tra lingua della prosa e lingua della poesia: mentre la prima a sua volta si atteggia diversamente nell’oratoria, nella storiografia ecc. la seconda conosce il tono alto dell’epica e della tragedia, il tono medio dell’elegia, il tono umile della commedia e della satira. Mentre i greci plurilinguismo, poiché ogni genere era poi caratterizzato da un dialetto, per i romani questo era molto più difficile, poiché erano banditi dal purismo dell’Urbs. Quindi questa differenza sui vari piani stilistici era ricercata dai poeti latini a livello lessicale: utilizzando diversi sinonimi: quindi differenza stilistica e non semantica. ESEMPIO: Equus (medio), Sonipes (poesia elevata, “destriero”), Caballus (“ronzino”). Nonostante i diversi ricambi, quindi termini tecnici che entravano in lingua d’uso, dal basso termini volgari ed espressivi entravano in lingua letteraria, capitava anche il contrario. Quindi no compartimenti stagni: anche se le differenze restavano nette. Anzi, il solco tra lingua letteraria e lingua parlata sempre più profondo nell’epoca imperiale. 1 Ad aggravarlo poi sarà l’enorme vastità di territorio in cui la lingua era parlata, ma soprattutto la caduta dell’impero romano (476 d.C). Siamo all’alba delle lingue romanze o neolatine: da est a ovest rumeno, italiano, francese, spagnuolo, portoghese (estinte: dalmatico) o ridotte a dialetti (sardo, ladino, provenzale). Il latino letterario fu conservato, per quanto imbarbarito e cristianizzato, dalla Chiesa Cattolica, per tutto il medioevo depositaria della cultura; quindi Latino Medievale o mediolatino, che fu la lingua colta e internazionale dell’Europa occidentale. Questo, in età merovingia, toccò il suo momento più basso; poi grazie a Carlo Magno, che chiamò dotti dall’Italia, dove non si era del tutto spenta la tradizione scolastica, e dall’Irlanda, mai occupata dai Romani quindi il latino era quello relativamente corretto dei missionari, si conservarono le strutture fonetiche e morfologiche. Maggior cedimento nella sintassi e nel lessico. Latino Umanistico: sembra la primavera, ne è un autunno. Decade col decadere del grande ideale unitario dell’Europa Medievale e con la Riforma Protestante, che spezza l’unità religiosa; i Nazionalismi si affermano a spese dell’idea imperiale: due colpi mortali per il latino. Resta, dell’umanesimo quattrocentesco, una prosa volta a volta agile e vigorosa, poesia delude. La pronuncia. Tre cause di differenziazione: storiche, geografiche, sociali. Intendiamo per pronunzia classica del latino solo quella del ceto colto della città di Roma nel I secolo a.C: è la pronunzia di Cesare e di Cicerone, che può valere, con poche varianti, anche per tutto il tempo che va da Plauto a Tacito, e interessa quindi la parte più significativa della letteratura latina pagana. Per ricostruirla abbiamo vari mezzi: testimonianze dirette dei grammatici antichi, quando descrivono i suoni della loro lingua o correggono gli errori dei loro contemporanei; testimonianze indirette degli antichi scrittori quando fanno giochi di parole o usano figure di suono, soprattutto onomatopee; scritture fonetiche delle iscrizioni, spesso incise da scalpellini che scrivevano come pronunciavano; trascrizione di parole latine in greco e viceversa; termini latini passati in epoca antica in altre lingue, specie nel germanico. Dittonghi: tutti i dittonghi si pronunziano come tali, cioè come sono scritti, purché si badi che il secondo elemento non fa sillaba e non può portare accento, quindi sono tutti discendenti, cioè accentati sulla prima vocale. Ae < *ai La chiusura di ae in ē era dialettale, come oe > ē Anche il dittongo au tendeva a chiudersi in ō nel latino rustico, il che provocò una serie di doppioni latini e italiani, i cosiddetti allòtropi, di cui il primo di tradizione dotta il secondo di tradizione orale. Il mediolatino eliminò i dittonghi ae e oe anche graficamente. La restaurazione si deve agli umanisti. La Y La ipsilon o i greca è una lettera greca che indica un suono estraneo al latino, e fu aggiunta al suo interno solo nel I secolo a.C per trascrivere in nomi greci; prima trascritta con la lettera U. Il titolo della commedia di Plauto era Ampitruo di fronte alla forma classica, fedelmente traslitterata dal greco, Amphitryon. Questa si pronuncia ü, come in greco, cioè la U francese o lombarda. Ma tale pronunzia era dotta. Per il popolo la pronunzia della Y oscillò sempre tra I e U. Il Sonus Medius: per Quintiliano denomina il Sonus Medius come un suono intermedio fra la U e la I: troviamo infatti resa con un’oscillazione grafica tra u e i una vocale breve, sia tonica sia, soprattutto, atona, dinanzi a labiale in lubet (u breve) / libet (i breve), optumus/optimus, carnufex/ carnifex. La grafia più antica era U, fu l’analogista Cesare a generalizzare la i, ma la u rimase come segno di arcaismo. U Semivocale Noi distinguiamo tra U e u da una parte e V e v dall’altra; i latini no, usavano V per la maiuscola e in seguito, con lo sviluppo della minuscola, u, e scrivevano quindi VIVO, VNVS, uiuo, unus. I segni U e V entrarono nell’uso solo come Pierre de La Ramée (Petrus Ramus 1515-1572) da cui presero il nome di lettere ramiste. 2 La risposta oggi viene da una più completa e adeguata concezione del fatto linguistico; esso non si identifica con la pura e semplice produzione di suoni ma, per la sua natura sociale la sua funzione di comunicare, si vale nel rapporto bipolare parlante-uditore di una sua precisa economia. In tale rapporto la funzione dell’uditore non è meno importante di quella del parlante: in una determinata comunità di parlanti (lingua) anche le strutture uditive sono socializzate. Così avviene che tra tutte le innumerevoli possibilità di tipi fonetici realizzabili (suoni) solo un numero esiguo venga utilizzato in fase di rapporto linguistico (fonemi), e cioè poco più di una ventina, come risulta dai nostri alfabeti. Di tutte le caratteristiche fonetiche inerenti ai fonemi prodotti solo alcune sono tipizzate e accolte dall’uditore: per esempio nelle lingue neolatine o anglosassoni non interessa che una r sia del tipo apicale (normale, come in italiano) o uvulare (la r moscia), ma solo che sia riconoscibile come r, anzichè, poniamo, una s o una t. Per l’accento, alcune comunità linguistiche usano nella sillaba accentata la variazione d’intensità e non quella d’altezza, e viceversa. Questo però non vuol dire che entrambe le cose, altezza e intensità, non siano presenti entrambe in una lingua: l’una o l’altra caratteristica è dominante (assume quindi valore distintivo) in una lingua, l’altra non viene utilizzata. La natura dell’accento latino. Melodica fu la natura dell’accento greco in epoca classica, o meglio la coscienza che essi ne ebbero. Accento, in greco prosodìa, era distinto in acuto, grave, circonflesso, e si richiamava a considerazioni melodiche: acuta è la sillaba che acuisce il suono, ossia lo innalza sopra le altre, grave quella che rispetto all’acuta è di tono più basso (perciò grave definisce la sillaba atona, e l’accento grave non è in realtà un accento bensì il segno che indica l’assenza d’accento; perispòmena è la sillaba che consente, per la lunghezza della sua vocale, una modulazione della voce che dal tono alto scende al tono basso: indicata con ^. I latini adottarono in toto la terminologia greca dell’accento: accentus, acutus, grauis, flexus o circumflexus. Ragionevole concludere che il latino classico (240 a.C - fino ai primi secoli dell’impero) ebbe un accento melodico. Il disgregarsi dell’unità romana non fu riconducibile solo a vicende politiche e amministrative, ma anche linguistiche, e condusse infatti col tempo alla formazione delle lingue romanze. Prevalsero alla fine le nuove strutture uditive delle rinnovate comunità di parlanti e la coscienza dell’intensità su quella della melodia. Così tutte le lingue romanze posseggono ancora un accento intensivo. Fonemi e sillabe. La sillaba è l’elemento di base della lingua, di cui costituisce, dal punto di vista fonologico, la più piccola unità dotata di autonomia: essa si compone di uno o più fonemi: ossia di suoni elementari, che assumono una loro funzione distintiva (fonologica) nell’ambito della sillaba. Il più importante tipo di fonema è quello che siamo abituati a identificare con la vocale, che in realtà è una distinzione arbitraria. Chiameremo vocale il fonema di base, senza il quale la sillaba non può costituirsi e che può da solo costituire la sillaba. Questo fulcro della sillaba che è la vocale può essere attorniato da altri fonemi: le consonanti, e queste possono aversi sia a entrambi i lati della vocale, sia soltanto prima, sia dopo; ed è molto importante distinguere le consonanti in base la posizione che occupano nell’ambito della sillaba: consonanti d’inizio e di chiusura. Quattro tipi sillabici: -a- di amo: sola vocale -mo di amo: consonante iniziale + vocale -al di alto: vocale + consonante di chiusura -fal di falso: consonante iniziale + vocale + consonante di chiusura. LA SILLABA è UN SEGMENTO DELLA CATENA PARLATA, COSTITUITO DA UNA VOCALE, CHE PUÒ COMBINARSI CON UNA CONSONANTE PRECEDENTE O CON UNA SEGUENTE O CON TUTTE E DUE INSIEME. 5 Durata e quantità. Quantità: è una durata, è la dimensione temporale del suono, il quale si prolunga più o meno nel suo tempo di emissione; e si attribuisce, comunemente, una possibilità di durata ai soli fonemi vocalici mentre non si usa, come si dovrebbe, la nozione della durata consonantica. Tutti i fonemi, in quanto sono entità fisiche, hanno la dimensione della durata: tutti i fonemi e non soltanto le vocali, ma anche le consonanti. Se però tutti i fonemi hanno una durata, non tutti hanno una quantità, perché i due termini non sono equivalenti. La durata è un fatto obiettivo, esiste anche quando l’orecchio non la percepisce. La quantità è la durata che l’orecchio percepisce e la coscienza valuta e, come tutti i fatti uditivi, è un fatto relativo, legato allo sviluppo che può assumere, in una collettività linguistica, la sensibilità percettiva delle strutture uditive. La quantità è una durata relativa: quando si afferma che il senso della quantità varia da lingua a lingua, si deve intendere che da una collettività a un’altra varia tale relatività. Se si tiene presente la distinzione dei fonemi secondo la loro posizione nell’ambito della sillaba, si può osservare che la durata assoluta dei fonemi è condizionata appunto da tale posizione: la fonetica sperimentale ha dimostrato che la durata è massima nella vocale, minore nella consonante di chiusura, minima -e anzi istantanea- nella consonante d’inizio. Nell’economia fonologica dei latini erano percepite e apprezzate dall’orecchio le durate della vocale e della consonante di chiusura, non quella della consonante d’inizio: le une, cioè, assumevano un valore distintivo e quindi si traducevano in quantità, ciò che non accadeva con l’altra, certamente anche in ragione della sua durata istantanea, che ne rendeva difficile l’apprezzamento ma soprattutto perché al sistema linguistico dei Latini non serviva tale apprezzamento. Questo spiega poi la scomparsa del senso quantitativo nelle lingue romanze: con il sorgere e l’affermarsi di nuovi elementi distintivi che venivano a surrogarne le funzioni, la quantità ha progressivamente perduto quel valore distintivo che era essenziale per il latino. Considerata l’assoluta mancanza di valore quantitativo che caratterizza in latino la consonante iniziale di sillaba, i quattro tipi di sillaba descritti prima si riducono a due: -(1+2): sillabe senza consonante di chiusura (a-mo); -(3+4): sillabe con consonante di chiusura (al- fal-). Le sillabe del primo tipo si dicono aperte, le altre chiuse: sono aperte le sillabe che escono in vocale, chiuse le sillabe che escono in consonante. La quantità di sillaba Data la durata relativa della quantità rispetto a quella assoluta della durata i valori quantitativi non si possono esprimere in cifre obiettive: per i Latini non esistevano che due tipi di quantità: breve e lunga, definite unicamente dalla loro reciproca opposizione. Solo la coesistenza delle due quantità diverse ne rendeva sensibile la diversità. Non venivano apprezzate le quantità dei singoli fonemi ma soltanto la quantità complessiva dei fonemi dentro la sillaba: es. nella prima sillaba di imperator, non la quantità della i distinta da quella della consonante di chiusura m, bensì unitariamente la quantità dell’insieme im. Solo nel caso di sillaba aperta, dove l’unico valore quantitativo è costituito dalla vocale, si realizzava una coincidenza piena tra quantità di fonema e quantità di sillaba: per es. nella sillaba ra di imperator, dove r è privo di quantità. C’erano dunque per gli antichi solo sillabe brevi e sillabe lunghe, o meglio sillabe sentite come brevi e sillabe sentite come lunghe. In sillaba aperta la quantità della sillaba coincide con la quantità della vocale: la sillaba aperta è breve se la vocale è breve, è lunga se la vocale è lunga. In una sillaba chiusa la quantità della sillaba è costituita dalla somma della quantità vocalica e della quantità della consonante di chiusura. Così nella sillaba fac- di factos bisogna sommare alla quantità di a la quantità di c. La a in questo caso è breve; della c non ci interessa conoscere lo specifico valore quantitativo, che è certamente esiguo: importa che questo piccolo valore però, sommato alla quantità breve di a, dà all’insieme sillabico una quantità sicuramente maggiore della breve, ossia una quantità che rientra automaticamente nell’ordine delle lunghe. Se poi si considera una sillaba chiusa in cui la vocale sia, già essa, lunga, per es. la seconda sillaba di factōs, è intuitivo che l’aggiunta della quantità di s non faccia che ribadire la quantità lunga della vocale. Rispetto a fac- la sillaba tōs ha obiettivamente una durata maggiore, ma nel sistema prosodico 6 latino ciò non ha nessuna importanza perchè basta il fatto che di fronte a una quantità breve come quella di fa- tanto făc- quanto tōs- si qualificano all’orecchio come non brevi, cioè lunghe. Una sillaba chiusa è sempre lunga, a prescindere dalla quantità della vocale che essa contiene. A) Vocale breve in sillaba aperta (făcere) = Sillaba BREVE B) Vocale lunga in sillaba aperta (fēci) = Sillaba LUNGA C) Vocale breve in sillaba chiusa (făctos) = Sillaba LUNGA D) Vocale lunga in sillaba chiusa (făctōs) = Sillaba LUNGA A) È breve la sillaba aperta con vocale breve B) Tutte le altre sillabe sono lunghe. È facile chiarire ora perché il dittongo è sempre lungo: per definizione il dittongo non può essere detto come una successione di due vocali nella stessa sillaba: due vocali non possono che costituire due sillabe, come nella parola āēr “aria”; il dittongo è costituito dall’unione di una vocale sillabica (ă di aes “bronzo”) con una vocale asillabica (e di aes). Con ciò si intende distinguere la vocale vera e propria, di per sé breve, dal fonema aggiunto, che è del tutto considerabile, come funzione prosodica, alla consonante di chiusura. Il dittongo, in sostanza, è in tutto e per tutto una sillaba chiusa -perciò lunga del tipo B. Confini sillabici e quantità di posizione. Nel determinare i confini tra sillaba e sillaba il latino non differisce troppo dall’Italiano: a) per la norma generale che assegna due consonanti consecutive a due sillabe diverse (VIR/ TUS, SVM/MVS), le consonanti graficamente composte in un unico segno vanno scomposte e ripartite fra due sillabe: (EXITVS = EC/SI/TVS; GAZA = GAD/SA); b) una -i- intervocalica non solo è sempre consonantica (salvo che si trovi in parole mutuate dal greco) ma era sempre pronunciata doppia, come assicurano gli stessi latini, perciò anch’essa va così divisa fra due sillabe (MAIVS = MAI/IVS); c) h non influisce mai sui confini sillabici: va sempre ignorata; d) la cosiddetta “s impura” della tradizione italiana non dà nessun impedimento alla norma generale (MA/GIS/TER) e) se le consonanti consecutive sono più di due solo l’ultima appartiene alla sillaba seguente (DEXTER = DECS/TER), salva però l’unità del gruppo muta cum liquida (MA/ GIS/TRUM); f) qu-, che è sempre seguito da vocale, erroneamente viene ritenuto un digramma; in realtà rappresenta la labiovelare sorda (q) accompagnata da u consonantica; e poiché proprio la natura di questa u condiziona la qualità labiale della velare precedente, il gruppo è assolutamente inscindibile: A/QVA, E/QVVS; g) gu- prevocalico rappresenta con la g la labiovelare sonora, seguita da u consonantica, solo quando sia preceduto da n; in mancanza della nasale precedente, g è la velare pura, u la vocale: AN/GUIS ma AR/GV/O, EC/SI/GU/I/TAS Il nesso occlusiva (consonanti che si articolano occludendo il passaggio alla colonna d’aria con le labbra -labiali: p, b- o col velo palatino -velari: c, g- o con i denti -dentali: d, t- e sono definite mute perché non pronunciabili se non appoggiate a una vocale) + liquida costituisce in latino un unico gruppo consonantico, iniziale di sillaba e privo perciò di valore quantitativo: la normale sillabazione di una parole come patrem è pă/trem. Le leggi dell’accento latino L’accento latino non può risalire oltre la terzultima sillaba (Legge del trisillabismo): questa legge accomuna latino e greco. Non tutte le ultime tre sillabe sono accentabili: bensì solo la penultima e la terzultima; non l’ultima, che deve sempre essere di tono grave (Legge della Baritonèsi): distingue il latino dal greco: le parole bisillabiche vanno accentate senz’altro sulla prima sillaba. 7 făllo: fefĕlli davanti a l palatale (= seguita da i o geminata - consonante doppia o più lunga del normale-) l’apofonia è quella prescritta; davanti a l velare (= seguita da a, o, u, o da altra consonante) l’esito è invece ŭ, sia in sillaba aperta sia in sillaba chiusa. dŏlus: sedŭlus sălto: exsŭlto ——————————————————————————————————————————— L’apofonia latina svolge un ruolo molto importante anche nell’evoluzione dei dittonghi interni - ai- e -au-. La tendenza della lingua è quella di evolvere ai in ae (ciò che avviene regolarmente in sillaba iniziale o finale: *caido > caedo, *rosai > rosae), au in ō (aurum > ital. oro; faucem > ital. foce). Ma poiché il dittongo è in sostanza una sillaba chiusa con vocale breve, la vocale ă dei dittonghi ai e au subisce anch’essa, in sillaba interna, il trattamento riservato normalmente ad ă in sillaba chiusa. Perciò, per esempio, caedo (da *caido) e claudo si ha la seguente evoluzione: *decăido > decĕido *exclăudo > exclĕudo con la formazione dei dittonghi ei, eu: questi hanno poi subìto un’ulteriore evoluzione che, indipendentemente dall’apofonia, toccò in latino a tutti i dittonghi ei e eu originari: ei > ī, eu > ū. *deceido > decīdo *excleudo > exclūdo. Questi dunque gli esiti dell’apofonia latina, comparsi certamente in epoca preletteraria, quindi anteriori al III sec. a.C. Accade tuttavia che ci siano parole con assenza di apofonia in casi nei quali sussistono tutte le condizioni che avrebbe dovuto provocarla. făcio confĭcio calefăcio ăgo exĭgo perăgo păro impĕro compăro nĕco enĭco enĕco anăs anĭtes anătes La terza colonna presenta esempi di parole completamente sottratte al mutamento apofonico, per motivi che trovano uno la propria giustificazione. Calefăcio per esempio non è un vero composto ma un giustapposto; cale- si comporta come elemento proclitico, cosicché fa- non è propriamente una sillaba mediana e, come le sillabe iniziali, resta immune dall’apofonia. Perăgo è un composto formatosi in un’epoca in cui l’apofonia aveva cessato di essere operante; Lo stesso si deve dire per compăro, senonché l’italiano comp(e)rare testimonia con sicurezza che nel latino vi era un composto apofonico *compero; allora compăro si spiega come ricomposizione analogica, ossia come una reazione della lingua che restituisce al composto il vocalismo del verbo semplice in nome della coscienza etimologica. Enĕco, coesistente con enĭco, stessa situazione: enĭco usato nella lingua “popolare” dei comici mentre enĕco nel latino classico, colto. Anătes e anĭtes: per i casi obliqui (genitivo, dativo, ablativo) di anăs le forme apofoniche sono rarissime, soppresse da quelle che restituiscono il vocalismo originario non in base a una reazione etimologica ma, del tutto casualmente, per una tendenza innata della lingua che viene definita assimilatrice: la ă interna al posto della ĭ apofonica è provocata dall’assimilazione al timbro della vocale iniziale. 10 Altri casi in cui l’apofonia resta inoperante: i composti di ămo, adămo, deămo, redămo, esempi di composizione tardiva; da quelli di ĕdo: comĕdo, exĕdo ecc, nei quali il mantenimento del timbro e fu senza dubbio favorito dalle voci atematiche ēs, ēst, ēsse. L’apofonia non ha mai turbato una ŏ nei composti verbali (uŏco, fŏdio, effŏdio, mŏrior, emŏrior ecc.) Nel complesso dunque, l’apofonia latina tende a portare i timbri più chiari (a, e) verso i timbri più scuri (i, u): in termini di meccanica fonatoria, tende a restringere progressivamente la camera di risonanza che si forma nella cavità orale fra la lingua e il palato duro (a e i: serie palatale) o fra la lingua e il velo palatino (a o u: serie velare). Si tratta di un indebolimento della vocale, una riduzione, che può portare anche alla scomparsa, o sincope, della vocale interessata. Esempi di sincope - che hanno portato alla costituzione di numerosi doppioni- calidus/caldus, ualide/ualde, solidus/soldus. Natura e cause dell’apofonia latina. L’apofonia latina non incide sui valori grammaticali e semantici della parola che ne è interessata: conficio rispetto a facio non comporta alcuna variazione nella categoria morfologica e il passaggio del significato da fare a compiere dipende esclusivamente dalla prefissazione (con), non dall’oscuramento di a in i. La grande differenza tra l’apofonia indoeuropea e quella latina è proprio questa: la prima è funzionale, la seconda è meccanica; l’una investe nello stesso tempo il dominio fonetico e quello morfologico semantico, l’altra è puramente fonetica. Per quanto irrilevante sul piano funzionale, l’apofonia meccanica si rivela tutta preziosa ai fini dell’analisi prosodica: siccome il meccanismo interessa solo le vocali brevi, basterà constatarne la presenza per essere sicuri della quantità breve della vocale, sia in quella d’origine sia in quella risultante (a parte l’esito dei dittonghi). Ricorda che l’apofonia meccanica è una tendenza, non una legge. È sempre vero che le vocali lunghe sono esenti dall’apofonia, perché le vocali lunghe, dotate di maggiore durata e quindi “robustezza”, hanno maggiore capacità di resistere alla forza che tenderebbe a modificare il loro timbro, mentre invece le vocali brevi sono turbate da una forza: qual è questa forza turbatrice? Nella maggior parte delle lingue le sillabe immediatamente vicine alla sillaba accentata sono le più deboli: in queste sillabe atone, infatti, si verificano comunemente gli indebolimenti e le sincopi. La condizione di debolezza coincide con quella dell’atonia, la forza perturbatrice si identifica con quella stessa dell’accento, che, reclamando per la propria sillaba un aumento dell’altezza e dell’intensità, contemporaneamente ne depaupera le sillabe atone e, fra queste, anzitutto la precedente e la seguente. L’apofonia meccanica, d’altra parte, risale a un’epoca preletteraria: se ne deve concludere che la sede dell’accento nel latino preletterario non era regolata dalla legge della penultima, e così nasce il problema della localizzazione di questo accento preistorico. L’accento latino di epoca preletteraria aveva la sua sede fissa nella prima sillaba, qualunque fosse la lunghezza della parola. Altri fatti di vocalismo Vari fenomeni evolutivi, oltre l’apofonia meccanica, caratterizzano il comportamento delle vocali latine nel passaggio dall’epoca preistorica o protostorica allo stadio che si definisce comunemente classico. Alcuni turbamenti che colpiscono la parola nella sua parte finale, e proprio perché incidono sulla struttura fonetica della desinenza, a cui il latino affida funzioni morfologiche essenziali, assumono un rilievo morfologico di primo piano. Perché, ad esempio, l’imperativo di capio viene a coincidere con quello di lego (capĕ, legĕ), contribuendo a unificare due categorie di temi verbali che all’origine sono nettamente distinti? -Il tema di capio esce in -i e l’imperativo, al singolare, coincide col tema puro, dunque era *capi. Ma il preistorico accento iniziale, oltre a modificare la vocale breve della sillaba postonica, poteva influire anche sopra la sillaba più lontana, quella finale; pare indubbio che sia responsabile, in misura rilevante, dell’apertura in ĕ d’un originario -ĭ. Così da *capĭ > cap ĕ, e per la stessa ragione si è costituita la categorie dei nomi neutri in -e della terza declinazione, che formano anch’essi il nominativo con il puro tema *mari > marĕ. 11 -L’influsso dell’accento protosillabico da un lato e dall’altro la tendenza delle sillabe finali a ridurre la durata della propria vocale spiega le apocopi di -ĕ nei tipi duc(e) illic(e) e le sincopi nel tipo Maecenat(i)s, fonti di ossitonia. Quando poi la sincope colpisce una -ĭ che appartiene al tema (*art(ĭ)s > ars, *urb(ĭ)s > urbs; che -ĭ sia tematica è assicurato dal genitivo plurale: arti-um, urbi-um, il nominativo viene esteriormente assimilato a quello dei temi consonantici (*reg-s > rex) e così resta vanificata la distinzione tra parisillabi e imparisillabi della terza declinazione. -Il genitivo locativo crolla di fronte alla storia dell’evoluzione fonetica: la desinenza del caso locativo, -ĭ, si agglutinava ai temi della prima declinazione, in -ă, e della seconda, in ŏ/ĕ, provocando così la formazione dei dittonghi -ai (attraverso ăĭ) e, rispettivamente, -ei. La naturale evoluzione di -ai in -ae e di -ei in ī portò alla completa omofonia tra locativo e genitivo. Accanto a questi fenomeni di evoluzione qualitativa (che cioè riguardano il timbro della vocale) altri tipi di evoluzione sono almeno parzialmente controllabili nell’ambito della lingua storicamente documentata e interessano in particolare la quantità. -Legge dell’abbreviamento giambico -> da ricondurre più a ragioni ritmiche che fonetiche. In base a questa legge, bisillabi di struttura giambica ∪ — tendono a trasformarsi in pirrìchi ∪ ∪. -Norma per cui una vocale lunga tende ad abbreviarsi se, nella stessa parola, è seguita da un’altra vocale (uocalis ante uocalem corripitur -è abbreviata-), come nel passaggio da *Romā-i a Romăi. In età arcaica questa norma gradualmente si generalizza lasciando intatto solo il genitivo in ăĭ accanto a quello evoluto in -ae, la desinenza iēi della quinta declinazione (diēi rispetto a rĕi), le voci di fīo prive di r (fīo, fīam, ma fĭeri, fĭerem) e, parzialmente, i genitivi pronominali in -īus (istīus, totīus, ma anche ĭus in poesia). -Altro tipo di abbreviamento: i polisillabi uscenti in consonante diversa da -s abbreviano la vocale dell’ultima sillaba. Così amăt e audĭt rispetto a amās, amāre, audīmus, audītis ecc. tribunăl rispetto a tribunālis. In particolare, davanti a -m l’abbreviamento è più antico: nella desinenza del genitivo plurale, -ŏm (poi oscuratasi in -ŭm) l’abbreviamento della quantità originaria è un fatto già compiuto alle origini del latino storico; così è anche per l’accusativo singolare dei temi in -ā (rosăm), e per le voci verbali: legebăm, legăm, legerĕm. L’età arcaica ha sviluppato dunque anche qui una tendenza riduttiva già insita nella lingua, trovando i suoi limiti solo nella presenza di -s, nei casi di ossitonia (sempre illìc, adhùc, ecc), talora nel monosillabismo (sempre sāl, pār, ma con -m e -t, cioè in desinenze flessionali, il comportamento non è diverso dai polisillabi: rĕm, fĭt). Alcuni esiti italiani del vocalismo latino In fase preromanza il latino perse le distinzioni quantitative e ridusse il suo vocalismo alle cinque gradazioni timbriche a e i o u. In epoca classica alla diversa quantità delle vocali intermedie e e o corrispondeva un diverso grado di apertura: cosicché ĕ e ŏ suonavano aperte, mentre ē e ō suonavano chiuse. Altrettanto doveva accadere per ĭ ī, ŭ ū, anche se noi oggi non siamo in grado di percepirne la differenza. Ma è certo che ĭ e ŭ dovevano essere molto vicine a ē e ō. La semplificazione del sistema vocalico tardolatino ebbe come conseguenza l’unificazione dei timbri ĭ ē e ŭ ō. Per questo in italiano corrispondono i timbri chiusi e e o; e questo permette, quando la parola latina sia passata in italiano per via naturale (cioè orale) di riconoscere la quantità breve di i e u latine, grazie alla semplice constatazione che in italiano vi corrispondono e e o. Ital. metto < lat. mĭtto Ital. croce < crŭcem pero < pĭrum giogo < iŭgum nero < nĭgrum vergogna < uerecŭndia vede < uĭdet foga < fŭga vedova < uĭdua noce < nŭcem vescovo < epĭscopum torre < tŭrrem vezzo < uĭtium volto < uŭltum 12 confectus), il semplice al derivato (nouŏs/nouitas, manus/manica), il nominativo ai casi obliqui della terza declinazione (flumen/fluminis, cinis/cineris), l’infectum al perfectum a raddoppiamento (cado/ cecĭdi, caedo/cecīdi, pario/peperi). Ma c’è un altro elemento che apparentemente limita l’irriducibilità della radice: cfr. iug-um, con-iug- em ma iung-ere; frag-or, frag-ilis, frēg-i ma frang-ere. Questa -n- (o -m-) che troviamo nella radice dei verbi si chiama infisso nasale e serviva originariamente a indicare il dinamismo del processo verbale (e perciò era proprio dell’infectum, essendo il perfectum per sua natura statico). Questo valore in latino si è conservato solo nella coppia cub-o “sto sdraiato” / -cumb-o, “mi sdraio”, tant’è vero che l’infisso nasale è potuto passare per analogia al perfectum, e/o al participio perfetto: iunxi iunctus, finxi, punctus ecc. La desinenza è quella forma variabile che indica la posizione della parola nella flessione (nominale o verbale), ossia, da un punto di vista sintattico, la sua funzione nella proposizione. Le desinenze specificano il genere, il caso e il numero dei sostantivi, la persona e il numero nei verbi: time-o timŏr timē-s timōr-ĭs timĕ-t timōr-ī timē-mŭs timōr-ĕm timē-tĭs timŏr timen-nt timōr-ĕ La desinenza può mancare, come nel nominativo timor (a prescindere dall’alternanza quantitativa della o: questa è infatti un’alternanza secondaria. Il paradigma originario era *timōs, *timŏsis; poi la lunga è passata dal nominativo ai casi obliqui e la -s- si è rotacizzata: *timōs, timōris; infine la r è passata dai casi obliqui al nominativo abbreviando la o: timŏr, timōris). In tal caso si ha la desinenza zero, e la parola può essere ridotta al puro tema, come nella II sing. dell’imperativo presente (timē), nel vocativo singolare della II declinazione (dominĕ) o nei nominativi neutri della III declin. (flumĕn). Tolta la desinenza resta il tema (detto anche radicale); esso si può definire come la forma che serve di base alla flessione della parola. Nel caso di timēre è *timē; di timor è *timōr- <*timōs-; di timidus è *timido-, ecc. Il tema consta della radice e di uno o più suffissi: *tim-ē- (la vocale che termina il tema si chiama vocale tematica o predesinenziale), *tim-os-, *tim-id-o- (qui i suffissi sono due: il suffisso aggettivale -id- e la vocale tematica -o-. Inoltre i suffissi possono raggrupparsi per formare temi morfologicamente e semanticamente più definiti. Per es. *tim-ē-bā- (tema dell’imperfetto indicativo), *ex-tim-e-sc-e- (tema dell’infinito presente dell’incoativo extimesco, formato dal tema verbale *timē- più il suffisso incoativo -sc-). Anche i suffissi (comprese le vocali tematiche) possono presentare alternanze vocaliche: dic-end- us / dic-und-us < *dic-ond-os. Si noti ancora in ex-timescere, o ex-agitare, la presenza del prefisso ex- (i prefissi premessi a un tema verbale si denominano meglio preverbi). Esempi di prefissi nominali: in-sa-nus, dis-par, ecc. Anche i prefissi possono accumularsi, ma assai più raramente dei suffissi: in-e-morior, sub-in- uideo, super-e-uŏlo. SI tratta spesso di giustapposti, originariamente separati o separabili. Radice, tema, affissi (cioè prefissi e suffissi) e desinenze sono astrazioni. Reale è la parola, nella cui unità fonetica essi sono fusi in modo da non essere sempre ben riconoscibili, per due motivi: 1) le modificazioni fonetiche dovute all’apofonia (concutere <* com-quăt-i-se), all’alterazione della vocale in sillaba finale (timidus <* tim-id-ŏ-s), alla contrazione (dēbeo <* dē-hab-e-o, cōgo <* co-a-go: fusione di prefisso e radice; amo <* am-ā-o, timidīs <* tim-id-o-is: fusione di suffisso e desinenza), alla caduta della consonante finale (timidā < *tim-id-ā-d), all’assimilazione consonantica (scripsī <* scrib-s-ai), all’epéntesi -aggiunta di un suono all’interno di una parola per ragioni diverse; è detta anaptissi se il suono è una vocale- (exemplum < *ex-em-lo-m), alla sincope e alla semplificazione dei gruppi consonantici (pōno <* posno < *po-sĭn-o); 15 2) L’assenza dei suffissi tematici e/o della desinenza: per es. nella seconda persona singolare dell’imperativo presente tim-ē si ha il puro tema verbale dell’infectum, senza desinenza (cioè con desinenza zero rispetto alla II pers. plur. tim-ē-te); nel vocativo timid-ĕ si ha il puro tema nominale con grado vocalico e (rispetto agli altri casi caratterizzati dalla vocale tematica o e dalla desinenza). La flessione nominale: temi e desinenze. Anche se noi siamo soliti parlare di declinazioni, sarebbe più corretto parlare di temi, essendo il tema l’elemento distintivo della flessione, sia nominale che verbale. Spesso, si è detto, la vocale tematica si fonde con la desinenza; ma esiste un caso, il genitivo plurale, in cui togliendo la desinenza -(r)um, si ottiene il tema di tutte e cinque le declinazioni: I rosā-rum: temi in -ā- II dominō-rum: temi in -o/e- (la -e- compare solo al vocativo) III puppi-um: temi in -i- reg-um: temi in consonante IV manu-um temi in -u- V diē-rum: temi in -e- I e II sono temi in vocale a/o/e; III e IV sono temi in semivocale, sonante e consonante; V tema misto. La terza declinazione comprende due temi principali: in -i- e in consonante (anche se sporadicamente si possono trovare temi in -ū- e in -ou-). Ognuno dei due temi aveva una flessione propria ma poi le due flessioni andarono unificandosi, con prevalenza di quella dei temi in consonante. Ma dei temi in -i- rimasero larghe tracce, oltre che nel genitivo plurale nell’accusativo singolare in -im (uim, puppim), nell’ablativo singolare in ī, nel nominativo, accusativo neutro plurale in -ia (maria, acria ecc.), nell’accustivo plurale in -īs. Le principali anomalie della flessione nominale. Il genitivo singolare in ĀS dei temi in -Ā. È originariamente il genitivo singolare indoeuropeo, conservato in greco e sopravvissuto in latino come residuo di una norma più antica; il genitivo in -ae < -ai < -āī è innovazione analogica del genitivo in -ī dei temi in -o/e. Attestazioni rarissime, tranne nel giustapposto pater (mater, filius, filia) familias, talora scritto paterfamilias. Se il genitivo è preposto, si rompe la formularità e allora si trova la forma usuale familiae. Le forme in -as sono limitate all’epica arcaica, dove hanno funzione di arcaismi, nei patronimici greci. La loro funzione stilistica è ereditata dai genitivi in -āī. Se sul piano diacronico familias è anteriore a familiāī, sul piano sincronico è familiāī, non familias, a godere il prestigio stilistico dell’arcaismo. Il genitivo plurale in -VM dei temi in -O/E La forma in -um < -ōm è quella originaria, e quella in -ōrum < -ōsom è recenziore ed analogica del genitivo plurale dei temi in -ā-. Il vocativo di DEVS Sino all’età di Augusto non s’incontra nessuna forma che valga come vocativo di deus; a partire da Orazio compare, ma raramente e in poesia, diue. Di dee si conoscono solo due attestazioni letterarie. Le interpretazioni che riguardano questa mancanza sono insufficienti: Wackernagel affermò che la mancanza del vocativo di deus è spiegabile col fatto che gli antichi, in quanto politeisti, si rivolgevano alla singola divinità col solo teonimo, mentre usavano regolarmente il vocativo plurale dī, e che in seguito, con il monoteismo cristiano, erede del monoteismo ebraico, nacque la necessità del vocativo singolare. In realtà si dovrebbe pensare (Svennung) a motivi fonetici. Non a caso sia in greco che in latino i nomi a struttura fonetica identica a deus, ovvero reus e meus, mancano anch’essi di vocativo. Dee, Ree, Mee si sarebbero facilmente contratti divendo rispettivamente *dē, *rē, *mē e rischiando di confondersi con dē, rē, mē. 16 I plurali eterogenei dei temi in -O/E. Il caso classico è il doppio plurale loci/loca. Originariamente questa opposizione tra il plurale in -i e quello in -a era diversa: si trattava nel primo caso di un plurale singolativo, nel secondo caso collettivo: l’uno distingue, l’altro ammassa. In latino l’opposizione è più ridotta e sopravvive morfologicamente in doppioni come cliui/cliua, colli/colla, loci/loca. Semanticamente l’opposizione è viva in qualche passo del latino arcaico ma altrove i due plurali sono interscambiali. Lo stesso è avvenuto in italiano, che ha esteso l’antitesi fra i due tipi di plurale: frutti/frutta (passato poi al femminile), bracci/braccia, membri/membra, labbri/labbra. VIS / SUS / BOS Vīs è difettivo per quanto tutti i grammatici latini ne diano il paradigma completo. Il suppletivismo uis roboris, così diffuso nella nostra tradizione scolastica, pare sia stato effettuato da Luigi Ceci. Fu infelice innovazione in quanto uis e robur indicano due concetti che si toccano ma non si ricoprono. Sūs è un tema in -ū-, come grūs. Doppia forma del dativo-ablativo plurale, sūbus / suibus: la prima etimologica, la seconda analogica degli altri sostantivi della terza. Bōs è un tema in -ou-, come Iu(ppiter) Iou-is. La forma fonetica del genitivo plurale è boum <*bou- om (con caduta di u davanti a o); bouum è analogica. Al dativo-ablativo plurale *bou-bus dava būbus; bōbus può aver subito l’influsso di bōs. Parisillabi e Imparisillabi. La regola dei parisillabi e imparisillabi è puramente empirica, e si fonda sul fatto che i temi in -i hanno lo stesso numero di sillabe nel nominativo e nel genitivo singolare (puppis puppis, cladēs cladis), mentre i temi in consonante, col nominativo sigmatico (*regs > rex regis, princeps, principis) o asigmatico (consul consulis, *homon > homo > hominis, honos > honor > honoris ecc) hanno una sillaba in più nel genitivo. Tuttavia altri temi in -i- sono divenuti imparisillabi in seguito alla apocope o sincope della vocale tematica al nominativo singolare. Sono: 1 i neutri in -āli- e -āri- (es. *animāl(i) > animal animālis); 2 gli aggettivi (e aggettivi sostantivati) in -ās e -īs (es. *nostrā-t(i)s > nostrāts > nostrāss > nostrás nostrātis); 3 alcuni monosillabi (es. *part(i)s > *parts > *parss > pars partis). Per analogia molti altri monosillabi, originariamente in consonante, hanno assunto il genitivo in - ium: dens dentis, mas maris <*masis. Queste tre categorie sono definite temi misti. Alcuni temi in consonante si presentano come parisillabi. Sono di due tipi: -pater mater frater, temi in -r- che in indoeuropeo avevano l’alternanza ē/ĕ/zero. Il latino, secondo le leggi della sua fonetica, ha abbreviato la vocale al nominativo (patĕr) e negli altri casi ha generalizzato il grado zero (patr-is, gen.plur. patr-um); -iuuenis senex canis panis mensis, antichi imparisillabi che la lingua ha reso parisillabi o aggiungendo il suffisso -i- al nominativo o ricavando i casi obliqui da un tema diverso. La flessione verbale. Premesso che la desinenza dell’infinito è -se > -re (per rotacismo) e che la seconda persona singolare dell’imperativo presente è uguale al puro tema, i verbi latini possono raggrupparsi all’ingrosso in due categorie: Tematici *am-ā-se > amāre *leg-ĕ-se > legĕre amā legĕ *mon-ē-se > monēre *aud-ī-se > aud-īre monē audī 17 separare, nonostante la diversa quantità della u, dal suffisso -ūrus del participio futuro: in entrambi i casi si spiegherebbe l’origine del valore desiderativo, proiettato verso il futuro. IV. CAUSATIVI. Detti anche fattitivi, perché causano o fanno fare l’azione espressa dalla radice. Sono temi in -ē- caratterizzati dal vocalismo radicale o: mon-e-o “faccio ricordare”, noc-e-o “faccio danno”. Pe rendere il concetto di “far fare” il latino ricorse: -a composti con facio del tipo calefacio “faccio riscaldare”, feruefacio “faccio bollire”, madefacio “faccio bagnare”; -a verbi di vario significato (fugo, “faccio fuggire”, exerceo “faccio lavorare”, arcesso, advuoco, “faccio venire”; -a perifrasi varie, elencate nella sintassi (iubeo con l’infinito, curo col gerundivo, facio/efficio ut, afficio con l’ablativo ecc.) La formazione del perfectum. -UI -RADDOPPIAMENTO -ALTERNANZA VOCALICA RADICALE -SIGMATICO Il perfectum latino è una forma sincretica, ovvero riunisce in sé morfologicamente due diverse forme verbali indoeuropee: il perfetto propriamente detto e l’aoristo. Esso indica originariamente l’azione giunta a compimento e si oppone all’infectum, che indica l’azione incompiuta o in via di svolgimento. I. IL PERFETTO IN -VI. È la formazione più tipica del latino ed è proprio dei temi in vocale lunga, dopo la quale il suffisso assume la forma semivocalica -ui: amā-ui; implē-ui, audī-ui; inoltre si trova in alcuni verbi la cui radice termina in una vocale lunga (per natura o alternanza) ma che formano il tema dell’infectum mediante vari suffissi: nō-sco, nō-ui, pā-sco, pā-ui ecc. Quando la vocale tematica è breve (per alternanza: ā/ă, ē/ĕ), il suffisso assume la forma vocalica - ui (dom-ui, sec-ui, mon.ui, doc-ui) in quanto la vocale breve per apofonia si assimila alla u del suffisso: *domă-ui > *domŭ-ui > dom-ui. La brevità della vocale tematica riappare al participio perfetto: domĭtus, monĭtus, sectus, doctus. La u del suffisso poteva cadere dopo vocale lunga con conseguente contrazione vocalica, donde una serie di forme sincopate: audīuisti > audisti; (ital. “udisti”) audīuit > audĭit > audìt (ital. “udì”) audīuisset > audīsset (ital. “udisse”); amāuisti > amasti (ital. “amasti”); amāuerunt > amārunt (ital. amarono); nōueram > nōram ecc. II. PERFETTO A RADDOPPIAMENTO. Prosegue in gran parte il perfetto indoeuropeo. La vocale del raddoppiamento era ĕ (mentre nel raddoppiamento del presente era ĭ: bĭ-bo, si-sto, gi-gno, disco < di-dc-sco, sī-do < *si-sd-o. Si hanno casi di assimilazione alla vocale radicale: mo-mordi, spo-pondi <*spo-spondi, cu-cŭrri, pu-pŭgi, tu-tŭdi, ecc. Il raddoppiamento si perdeva nei composti: cecĭdi ma in-cĭdi; peperi ma com-peri, pepuli ma im- puli ecc. Poche le eccezioni: si conservano per ragioni fonetiche i perfetti bisillabici (dedi / ad-didi, ste-ti /ad-stiti) e si ha qualche caso di ricomposizione coi perfetti didici (con-, per-didici), poposci (de-poposci) e cucurri (ac-, con-, de-, in-cucurri accanto a ac-, de-curri ecc.), in questi ultimi due per evitare l’omofonia col presente. La scomparsa del raddoppiamento nei composti ha avuto tre conseguenze: l’omofonia con alcune forme del presente (compĕrit, concĭdit ecc), la formazione di un altro tipo di perfetto nel composto (cecini ma con-cinui, peperci ma compersi, pepigi ma com-pēgi), il passaggio del perfetto senza raddoppiamento dal composto al semplice (parsi accanto a peperci, pēgi accanto a pepigi ecc.) 20 III. IL PERFETTO AD ALTERNANZA VOCALICA RADICALE. Prosegue in parte il perfetto indoeuropeo in parte l’aoristo. L’alternanza può essere solo quantitativa o anche qualitativa. IV. IL PERFETTO SIGMATICO. Esce in -sī. Risponde all’aoristo sigmatico greco e interessa la maggior parte dei verbi la cui radice termina in consonante: velare (dic-o/dix-i, luc-eo e lug-eo/lux-i ecc.), dentale (interamente assimilata: lud-o/òus-i, sent-io/sens-i ecc.), labiale (serp-/serps-i), e parzialmente assimilata (scrib- o/scrips-i); sibilante (ger-o <*ges-o /gess-i); nasale (man-eo/mans-i). Resta un numero esiguo di perfetti che si distinguono dai relativi presenti solo per la desinenza (coincidendo dunque con essi nella III pers. sing. e nella I plur.): bĭbo/bĭbi, pando/pandi, (com)prehendo/(com)prehendi, uerto/uerti ecc. I Verbi anomali. SUM E POSSUM Sum è caratterizzato da tre fatti: -la desinenza della prima persona sing., -m, è forse l’unico residuo latino della desinenza -mi dei verbi atmatici indoeuropei; -l’alternanza e/zero della radice *es-/s: dal grado e derivano le forme atematiche (es <*ess, est, estis, este, esse, etc.), l’indicativo futuro e imperfetto (con rotacizzazione: ero <*eso, eram <*esam); dal grado zero le altre forme; -il suppletivismo del perfectum, fui, derivato da una radice indoeruopea che indica il divenire. Il più importante dei composti di sum è possum <*pot(e)-sum (o *pot(i)s-sum). Il primo elemento è potis, “potente, capace”, da una radice indoeuropea diffusa in greco e in latino. Il perfectum, potui, è da un verbo di stato *poteo il cui infectum riaffiora nel latino volgare per normalizzare alcune forme anomale di possum. VOLO, NOLO, MALO Volo è caratterizzato da due fatti: -l’alternanza vocalica radicale *uel-/uol-, che non è indoeuropea ma ubbidisce a una legge fonetica latina. Il timbro della vocale dipende dalla natura della -l- seguente: seguente: se l è palatale, cioè davanti a i o l, resta ĕ; se l è velare, cioè davanti ad a, o, u, e consonante, ĕ > ŏ > ŭ (ma, dopo u, ŏ si conserva salvo davanti a l + consonante). Dunque: *uel-o > uolo *uel-am > uolam *uel-s > *uell > uel (?) *uel-īm > uel-ĭm *uel-t > *uolt > uult *uel-se > uelle *uel-ŏmos > *uolŭmus *uel-tes > *uoltis > uultis *uel-onti > uolunt -L’altro fatto è il suppletivismo nella II pers. sing. del presente indicativo, dove il posto forse lasciato vuoto da *uels è stato preso da uis <* ueis, che ha la medesima radice di in-uī-tus. Nolo e Malo sono rispettivamente composti da *nĕ-uŏlo > *nĕŏlo > nōlo e *mag(i)s-uŏlo > māuŏlo > *māŏlo > mālo. FERO Oltre all’atematismo (esteso alle forme passive fer-ris fer-tur fer-ri ecc.) fero non presenta altre caratteristiche che il suppletivismo del perfectum, comune al greco. Come si è detto, tuli <*tetuli <*te-tol-ai era l’originario perfetto di tollo, poi integrato nella flessione di fero. Tollo, avendo sviluppato l’accezione secondaria di “sollevare” ricevette in cambio il perfetto sustuli, composto di subs (“dal basso in alto”) e tuli. Anche lātus <*tlā-tos è della radice di tollo con diversa gradazione vocalica. EO, NEQUEO, QUEO Anche eo, come sum, presenta un’alternanza vocalica radicale indoeuropea e/zero: *ei-/ĭ-. 21 Il latino ha esteso dovunque il grado pieno, tranne al supino ĭtum e al nominativo singolare del participio presente ĭens. Ma all’interno del grado pieno *ei- si è instaurata un’alternanza secondaria tutta latina, e-/ī-, dovuta al fatto che davanti a vocale i cadeva, mentre davanti a consonante il dittongo ei si chiudeva in ī. Dunque: *ei-o > eo (ha sostituito l’originario *ei-mi, conservato in greco) *ei-s > īs *ei-t > ĭt *ei-mos > īmus (e dunque nei composti abīmus, redīmus) *ei-tes > ītis (=^) *ei-o-nti > eunt (la forma atematica sarebbe stata *int) *ei-bam > ībam *ei-bo > ībo *ei-am > eam ei > ī *ei-te > īte *ei-to > ĭto *ei-se > īre *ei-sem > īrem *ei-ond-om > eundum Il participio presente aggiunge un’alternanza e/o del suffisso. Il nominativo singolare ha il grado ĭ radicale e il grado e suffissale: *ĭ-ent-s > iens; gli altri casi hanno il grado ei radicale e il grado o suffissalle: *ei-ont-is > euntis. Discussa l’origine dei composti queo e nequeo. EDO Il primo a essere normalizzato mediante la progressiva scomparsa delle forme atematiche, che avevano per di più lo svantaggio di confondersi con quelle di sum: *ed-s > *ets > *ess > ēs *ed-t > est (la forma fonetica sarebbe *ēs <*ess, perché dt > ss > s. La -t è stata reintrodotta come desinenza. Lo stesso le forme seguenti). *ed-tis > estis *ed > ēs *ed-te > este *ed-to > esto *ed-se > esse *ed-sem > essem. Problemi di Sintassi. Il locativo. L’indoeuropeo aveva un sistema di otto casi; oltre i sei del latino vi era lo strumentale e il locativo. In latino questi due casi sono stati eliminati e le loro funzioni sintattiche inglobate nel caso ablativo. Ecco perché è legittimo parlare di ablativo strumentale e ablativo locativo. La desinenza caratteristica del locativo era -ĭ: essa compare nei temi in -o/e- (Tarentī <*Tarentei) e in consonante (rurī, Carthaginī); nei temi in -ā- si è mutata in -e (Romae < Romā-i, divenso dunque dal genitivo Romāĭ). Le forme locative sono ormai dei fossili emarginati dalla flessione, degradati ad avverbi locali e temporali: hīc, ubī, ibī, peregrī ecc. I pronomi indefiniti. Esaminiamo ora gli indefiniti che rispondono al concetto di “uno, alcuno, qualcuno”. Essi sono più numerosi che in italiano, perché devono in parte supplire alla mancanza dell’articolo indeterminativo. Quīdam (da *quis-dam) individua ma non specifica; Alĭquis (da alius e quis) afferma l’esistenza di persona o cosa non individuabile; Quispiam (da quis-piam) è l’indefinito della probabilità; 22 In impero ut ueniat, per es. ueniat non è dovuto a ut, antico avverbio che può anche mancare, ma al valore volitivo dell’enunciato (che costituisce un’unità psicologica, indipendentemente dalla forma in cui si esplica il rapporto sintattico. L’importanza della paratassi è anche stilistica, come tipo di organizzazione sintattica che caratterizza una lingua più libera e immediata, soprattutto la lingua d’uso e la lingua poetica. Principali congiunzioni subordinanti dal punto di vista etimologico, premettendo che si può parlare di un eventuale stadio paratattico solo per quelle di origine non relativa, giacché la correlazione relativa (is/qui, ibi/ubi, tam/quam, tum/cum) sembra risalire all’indoeuropeo. QVOD, QVIA Quod è il neutro del pronome relativo, probabilmente un originario accusativo di relazione. Quia è il neutro plurale del tema in -i- del relativo-indefinito-interrogativo, ma, diversamente da quod, il suo punto di partenza per il valore causale sarà stato il valore interrogativo, ancora attestato nel composto arcaico quiánam, “perché mai?” CVM, QVONIAM Cum < quom è anch’esso di origine relativa, con desinenza comune a molte particelle latine (dum, num, tum, col quale ultimo è in relazione. Dal valore temporale, “nel momento che”, “quando” si è sviluppato il causale “dal momento che”, “poiché” e il valore concessivo-avversativo, quando sovraordinata e subordinata indicano azioni antitetiche. Il congiuntivo si stabilizzerà in epoca classica per distinguere tali valori da quello temporale, caratterizzato dall’indicativo. Eredita il valore causale di cum il composto quoniam <*quom-iam (con dissimilazione della prima m e vocalizzazione di i, come in etiam <*et-iam. QVIN, QVOMINVS Quin è di origine interrogativa, composta da quī, ablativo del tema in -i- e dalla particella interrogativa nĕ, poi apocopata. Il valore interrogativo di “come no?”, “perché no?” è ancora vitale in interrogazioni retoriche volitive, donde il passaggio a particella rafforzativa con l’imperativo. Quominus è un giustapposto di origine relativa: “per cui (quō) non (minus)”, non ancora saldato nel latino arcaico. Nel latino classico si fonde a spese di quin, con verbi e locuzioni implicanti l’idea di impedimento. NĒ Siamo abituati a sentire nē come la negazione di ut, ma nē non è che una forma rafforzata della particella negativa nĕ, conservatasi solo in composti: nĕ-que, ne-uter, nĕ-oinom > non. La lingua ha riservato non alla negazione oggettiva, nē alla negazione volitiva (quindi con l’imperativo e il congiuntivo). DVM, DONEC Dum è una particella temporale (come cum e tum) di discussa etimologia, indicante durata: “in questo tempo, per ora, intanto”; la ritroviamo in enclisi negli avverbi inter-dum “fra questo tempo, frattanto”, non-dum, “non in questo tempo, non ancora”, uix-dum, “a stento per ora, appena” ecc. e negli imperativi (in prevalenza durativi): agé-dum “fa un po’”, manē-dum “aspetta un po’”, tacē-dum “sta un po’ zitto”. Non ci sono esempi sicuri di dum come avverbio temporale. Donec <* dōnĕque, è forse connesso con dēnique; se è così il valore congiunzionale di “finché” sarebbe derivato da quello avverbiale di “alla fine”. SIMVL(ATQVE) Questa volta l’origine paratattica è trasparente: simul (antico neutro di similis, dalla radice indoeuropea che designa l’unità è avverbio indicante contemporaneità: “a un tempo, nello stesso tempo”, e quindi predisposto a collegare due proposizioni concomitanti. Più comune il giustapposto simulatque, di origine coordinante. 25 MODO Mŏdŏ < mŏdō è l’ablativo di modus, usato avverbialmente: “limitatamente, soltanto”, donde il valore condizionale di “purché”. LICET Se modo è di origine nominale, licet è di origine verbale, né ha mai perso il suo carattere di verbo. Dal fatto di trovarsi unito paratatticamente a un congiuntivo concessivo, gli viene il valore di congiunzione concessiva. La sua natura verbale di presente condiziona i tempi del congiuntivo, di norma principali. SI, NI, NISI, QVASI Sī < sei è una particella di origine pronominale: il suo primo significato, “così”, conservatosi nella formula si dis placet “così piace agli dei” è poi passato al composto sic <* sei-ce. Si s’accompagna al congiuntivo volitivo; più spesso all’eventuale e naturalmente all’indicativo. Sembra questo il punto di partenza per lo sviluppo del valore ipotetico e ipotattico di “se”. Senza la particella si, il periodo ipotetico paratattico è ampiamente attestato in tutti i suoi tipi. Nī è da *ne-i, cioè è composto dalla negazione nĕ e dalla particella epidittica -i. È dunque una negazione rafforzata, presente nel secondo elemento di quid-ni?, “perché no?” e nel primo di nī- mirum, “non (è) strano”. Nĭsĭ < *nĕ-sei: la negazione, premessa e conglobata a si, nega l’ipotesi in blocco, mentre in si non, in quanto posposta e isolata, può negare un singolo elemento dell’ipotesi. Un altro composto di si è quasi <* quam-sei. 26 PROPEDEUTICA AL LATINO UNIVERSITARIO RIASSUNTO 27