Scarica Riassunti cantari Morgante di Luigi Pulci e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! CANTARE 4 1 Gloria in excelsis Deo e in terra pace, Padre, e Figliuolo, e Spirito Santo; Benedicimus te, Signor verace, Laudamus te, Signor, con umil canto; Poi che per tua benignità ti piace L’abate nostro qui consolar tanto, E le mie rime accompagnar per tutto, Tanto che il fior produca al fin buon frutto. 2 Era nel tempo ch’ognun s’innamora1, E ch’a scherzar comincian le farfalle, E ’l Sol, ch’avea passata l’ultim’ora, Verso Murrocco chinava le spalle; La luna appena corneggiava ancora, De’ monti l’ombra copriva ogni valle, Quando Rinaldo all’abate ritocca, Che ’l nome suo non tenessi più in bocca. 3 Rispose: Chiaramonte è il nome mio; Benignamente a Rinaldo l’abate. Dopo alcun giorno, acceso dal desio, Disse Rinaldo: Io vo’ che voi ci diate Omai licenzia col nome di Dio: Io ho a Parigi mie gente lasciate, Per ch’io non credo, che ’l dì mai veggiamo, Di ritrovar colui che noi cerchiamo. 4 L’abate, ch’era prudente e saputo, Disse: Rinaldo, benchè duol mi fia, Chè mai qui mi saresti rincresciuto, Credo che questo buon concetto sia; Io son contento poi ch’io t’ho veduto: So che questa sarà la parte mia Di rivedervi più ch’egli è ragione; Però vi do la mia benedizione. Queste ottave del Cantare Quarto del poema "Morgante" di Luigi Pulci descrivono una conversazione tra Rinaldo e l’abate, durante la quale Rinaldo chiede al religioso di poter partire per cercare Orlando. L'abate, dopo aver compreso le ragioni di Rinaldo, gli dà la sua benedizione per la partenza. Le prime due ottave sono una preghiera di lode a Dio e all'abate, mentre le restanti ottave descrivono la conversazione tra i due personaggi. 5 Se di vedere Orlando è il tuo pensiero, Vattene in pace, caro mio fratello; Dio t’accompagni per ogni sentiero, O come fece Tobbia Raffaello. Disse Rinaldo: Così priego e spero; Rivedrenci nel ciel su presso a Quello, Che de’ suo’ servi arà giusta merzede, Che combatton quaggiù per la sua fede. 6 Rinaldo si partì da Chiaramonte, E Ulivieri e Dodon, sospirando; Va cavalcando per piano e per monte, Per la gran voglia di vedere Orlando: Quando sarà quel dì, famoso conte, Dicea fra sè, ch’io ti rivegga, quando? Non mi dorrà per certo poi la morte, S’io ti ritrovo, e riconduco in corte. 7 Era dinanzi Rinaldo a cavallo, Ed Ulivier lo seguiva e Dodone, Per un oscuro bosco sanza fallo: Dove si scuopre un feroce dragone Coperto di stran cuoio verde e giallo, Che combatteva con un gran lione2; Rinaldo al lume della luna il vede, Ma che quel fussi drago ancor non crede. 8 Ed Ulivier più volte aveva detto, Siccom’avvien chi cavalca di notte: Io veggo un fuoco appiè di quel poggetto, Gente debbe abitar per queste grotte: Egli era quel serpente maladetto, Che getta fiamma per bocca ta’ dotte3, Ch’una fornace pareva in calore, E tutto il bosco copria di splendore. Nel brano, il protagonista Rinaldo chiede all'abate il permesso di lasciare il suo convento per andare a cercare Orlando. L'abate gli dà il suo benestare e la sua benedizione. Rinaldo, accompagnato dai suoi compagni Ulivieri e Dodone, attraversa un bosco dove incontra un feroce drago che combatte con un leone e vede un fuoco proveniente dalle grotte vicine. Accompagnare significa andare con un compagno. In questo canto al centro vi stanno una serie di compagni (dal leone selvatico fino alla ragazza fuori senna). 9 E 'l leon par che con lui s’accapigli, E colle branche e co’ denti lo roda, Ed or pel collo or nel petto lo pigli: Il drago avvolta gli aveva la coda, E presol colla bocca e cogli artigli, Per modo tal che da lui non si snoda: E non pareva al lione anco giuoco, Quando per bocca e’ vomitava fuoco. 10 Baiardo cominciò forte a nitrire, Com'e’ conobbe il serpente da presso: Vegliantin d’Ulivier volea fuggire, Quel di Dodon si volge a drieto spesso, Chè ’l fiato del dragon si fa sentire; Ma pur Rinaldo innanzi si fu messo, E increbbegli di quel lion, che perde Appoco appoco, e rimaneva al verde4. 11 E terminò di dargli al fin soccorso, E che non fussi dal serpente morto: Baiardo sprona e tempera col morso, Tanto che presso a quel drago l’ha porto, Che si studiava co’ graffi e col morso, Tal che condotto ha il lione a mal porto; Ma invocò prima l’aiuto di sopra, Che cominciassi sì terribil opra. 12 E adorando, sentiva una voce, Che gli dicea: Non temer, baron dotto, Del gran serpente rigido e feroce; Tosto sarà per tua mano al di sotto. Disse Rinaldo: O Signor mio, che in croce Moristi, io ti ringrazio di tal motto; E trasse con Frusberta a quel dragone, E mancò poco e’ non dètte al lione. Le ottave del quarto canto del Morgante di Pulci descrivono una scena in cui Rinaldo, insieme al suo cavallo Baiardo, interviene per salvare un leone dalle grinfie di un drago. Il leone è in difficoltà perché il drago lo ha attaccato e lo ha avvolto con la coda, e lo sta tenendo fermo con i suoi artigli e vomitando fuoco dalla bocca. Baiardo, il cavallo di Rinaldo, riconosce il pericolo e comincia a nitrire. Vegliantino d'Ulivieri e Dodon, i compagni di Rinaldo, cercano di fuggire, ma Rinaldo decide di intervenire. Cavalca verso il leone e il drago, e con l'aiuto di Baiardo riesce a sconfiggere il drago e a salvare il leone. Durante la battaglia, Rinaldo invoca l'aiuto di Dio e sente una voce che gli assicura che riuscirà a sconfiggere il drago. In sintesi, le ottave del quarto canto del Morgante di Pulci narrano una vicenda fantastica in cui Rinaldo dimostra il suo coraggio e la sua abilità nel combattimento. La scena è caratterizzata da un forte senso di avventura e di meraviglia. 13 Parve il lion di ciò fusse indovino, E quanto può dal serpente si spicca, Veggendosi in aiuto il Paladino: Frusberta addosso al dragon non s’appicca, Perchè il dosso era più che d’accia’ fino: Trasse di punta, e il brando non si ficca, Che solea pur forar corazze e maglie, Sì dure aveva il serpente le scaglie. 14 Disse Rinaldo : E’ fia di Satanasso Il cuoio che ’l serpente porta addosso, Poi che di punta col brando nol passo, E che col taglio levar non ne posso ; E lascia pur la spada andare in basso, Credendo a questo tagliare al fin l’osso: Frusberta balza, e faceva faville; Così de’ colpi gli diè forse mille. 15 E quel lione lo teneva pur fermo, 31 Rinaldo il colpo schifò molto destro, E fe’ Baiardo saltar com’un gatto: Combatter co’ giganti era maestro, Sapeva appunto ogni lor colpo ed atto; Parve il randello uscissi d’un balestro: Rinaldo menò il pugno un altro tratto: E fu sì grande questo mostaccione, Che morto cadde il gigante boccone. 32 E poco men e’ non fe, com’e’ suole Il drago, quando uccide il leofante, Che non s’avvede, tanto è sciocco e fole14, Che nel cader quell’animal pesante L’uccide, che gli è sotto, onde e’ si duole; Così Rinaldo a questo fu ignorante, Che quando cadde il gigante gagliardo, Ischiacciò quasi Rinaldo e Baiardo. Rinaldo sconfigge il gigante con un pugno al viso e lo uccide. Le ottave descrivono le gesta di Rinaldo e la sua abilità nel combattere i giganti, infatti conosceva ogni loro atto, ogni loro colpo. Rinaldo cade sotto il gigante che ha appena ucciso. 33 E con fatica gli uscì poi di sotto, E bisognò che Dodon l’aiutassi. Disse Rinaldo: Io non pensai di botto15 Così il gigante in terra rovinassi, Ond’io n’ho quasi pagato lo scotto16: E’ disse ch’all’odor d’un cervio trassi: Alla sua capannetta andiamo un poco, Dove si vede colassù quel fuoco. 34 Allor tutti smontaron dell’arcione, Alla capanna furono avviati, Vidono il cervio; diceva Dodone: Forse che mal non sarem capitati. Fece d’un certo ramo uno schidone. Rinaldo intanto tre pani ha trovati, E pien di strana cervogia un barlotto, E disse: Il cervio mi sa di biscotto. 35 Erano i pan com’un fondo di tino, Tanto ch’a dirlo pur mi raccapriccio: Disse Rinaldo: Se c’è ’l pane e ’l vino, Ch’aspettian noi, Dodon? qua sa d’arsiccio. Dicea Dodone: Aspetta un tal pochino, Tanto che lievi la crosta su ’l riccio. Disse Rinaldo: Più non l’arrostiano, Chè ’l cervio molto cotto è poco sano. 36 Disse Dodone: I’ t’ho inteso, Rinaldo: Il gorgozzul ti debbe pizzicare17; Se non è cotto, e’ basta che sia caldo: E cominciorno del cervio a spiccare: Rinaldo sel mangiava intero e saldo, Se non che la vergogna il fa restare; E de’ tre pan fece paura a uno18, Chè col barlotto non beve a digiuno. Rinaldo e Dodone si dirigono verso la capanna del gigante, dove trovano del pane, del vino e un cervo. Dodone consiglia di lasciare il cervo crudo perché la sua carne cotta potrebbe essere poco salutare, ma Rinaldo lo mangia comunque. Infine, Rinaldo beve del vino dal barlotto trovato nella capanna. Topos della convivialità e del cibo 37 Poi che fu l’alba in levante apparita, Si dipartiron da quella capanna. Dicea Dodon: Questa fu buona gita, Poi che da ciel sopravvenne la manna, E quel gigante ha perduta la vita: Vedi che pure ingannato è chi ’nganna. Quel bacalare19, Ulivier, ti percosse A tradimento, or si sta per le fosse. 38 Disceson di quel monte alla pianura, E il lor lione innanzi pure andava; Dicea Rinaldo: Questa è gran ventura! Ed Ulivier con lui se n’accordava: Tanto ch’uscirno d’una valle oscura, Ove poi nel dimestico s’entrava; Cominciorno a veder casali e ville, E sopra campanil gridar le squille20. 39 E poco tennon più oltre il cammino, Che cominciorno a trovar de’ pastori Presso ad un fiume, ch’era lor vicino, E poi sentiron gran grida e romori: Baiardo aombra, e così Vegliantino: Ed ecco uscir d’una valletta fuori Una gran turba, che s’era fuggita, Ed a veder parea gente smarrita. 40 Rinaldo allora a Dio si raccomanda; E ’ntanto appresso s’accosta un Pagano: Allor Dodon di subito domanda: Che caso è questo in questo luogo strano, Che par che tanto romor qua si spanda? Per cortesia, non vogli esser villano. Rispose il Saracin presto a Dodone: Io tel dirò, e non sanza cagione. Dopo aver sconfitto il gigante, i tre cavalieri riprendono il loro viaggio verso Carrara, città in cui combatteranno contro un altro drago. Nel frattempo incontrano dei pastori vicino a un fiume e sentono delle grida e vedono una folla di persone fuggire da una valle. Un Pagano si avvicina loro e Dodone gli chiede spiegazioni sulla situazione. 41 Del mio dir so che ti verrà pietade: Per una figlia nobile e serena Quasi è disabitata una cittade, Perch’una vipra crudel ci avvelena: Il Re Corbante, per la sua bontade, La sua figliuola detta Forisena A divorar vuol dare a questa fera; La sorte tocca a lei, vuol che lei pera. 42 E di noi altri ha già mandati assai: Ognidì ne vuol due, sera e mattina. Dimmi, rispose Rinaldo, stu sai, Questa città come ella c’è vicina? Rispose il Saracin: Tu la vedrai Tosto la terra misera e meschina; Ma guarda che tal gita non sia amara; Ella è qui presso, e chiamasi Carrara. 43 Io ve n’avviso per compassione, Ch’io ho di voi per Macometto Iddio, Che voi non vi lasciate le persone, Poi che d’andarvi mostrate desio; La città troverete in perdizione, E molto malcontento il signor mio, Per questa cruda fiera e maladetta, Che debbe divorar la giovinetta. 44 Com'egli è dì, se ne viene alle porte: Se da mangiar non gli è portato tosto, Col tristo fiato ci conduce a morte: Convien ch’un uom gli pogniam là discosto. Questa fanciulla21 gli è tocca la sorte, E ’l padre suo di mandarla ha disposto: Il popol grida, e quella fiera rugge, Tanto ch’ognun per paura si fugge. Queste ottave del quarto canto del Morgante di Pulci narrano di un episodio in cui Rinaldo, Uliviero e Dodon incontrano un pagano che li avvisa di una città vicina, Carrara, dove una vipera sta uccidendo i cittadini e il re Corbante ha deciso di dare in pasto alla bestia la propria figlia, Forisena. Inoltre, il re ha ordinato che ogni giorno due cittadini vengano sacrificati alla vipera. Il pagano chiede ai tre cavalieri di non avventurarsi nella città, ma di avvisare il signore della città della loro presenza e del pericolo che corrono. Tuttavia, i cavalieri decidono di aiutare la città e si dirigono verso Carrara. 45 Credo che sia sol pe’ nostri peccati, Perchè Corbante uccise un suo fratello, Che fu tra noi de’ cavalier nomati Il più savio, il più giusto, forte e bello; Noi consentimmo a tutti questi aguati, Però che il regno apparteneasi a quello: La vipera è venuta a purgar certo Questo peccato, e rendeci tal merto. 46 Ed è tra noi chi tiene opinione, Che lo spirito suo drento vi sia In questa fiera, di questo garzone. Disse Rinaldo: Di tua cortesia Io ti ringrazio, aiutiti Macone Da questa fiera fella e tanto ria; Ma dimmi, Saracin, questa donzella Com' ella è giovinetta, e s’ell' è bella? 47 Disse il Pagan: Non domandar di questo, Chè non si vide mai cosa sì degna; Un atto dolce, angelico e modesto, Di virtù porta e di beltà l’insegna; Ne’ quindici anni entrata, e va pel resto.22; Il popol pur di camparla s’ingegna: Se tu credessi quella bestia uccidere, Tu puoi far conto il reame dividere. 48 Disse Rinaldo: Io non cerco reame, Io n’ho lasciati sette in mio paese; Io mi diletto un poco delle dame; Se così bella è la figlia cortese, A quella fiera taglierò le squame. E poi si volse al famoso marchese, E disse: Andianne, chè la dama è nostra, Alla città che ’l Saracin ci mostra. Il Saracin rivela che la vipera potrebbe essere stata inviata come punizione per il peccato commesso da Corbante e dal popolo contro il fratello di Corbante. Rinaldo, il protagonista, si offre di uccidere la vipera per salvare la giovane ragazza che il popolo vuole salvare. Il pagano dice a Rinaldo che se riuscirà ad uccidere la bestia, potrà ottenere metà reame, ma Rinaldo nega di cercare il potere e dimostra il suo interesse per le donne. Topos del cavaliere che aiuta le fanciulle. 49 Com’e’ furno in Carrara i paladini, Ognun volgeva a guardargli le ciglia; Preson conforto tutti i Saracini, E del lion ne prendean maraviglia. Rinaldo giunse al palagio a’ confini23, E salutò Corbante, e poi la figlia; Corbante disse: Tu sia il ben venuto, Se per la fiera a dar mi vieni aiuto. 50 Allor Rinaldo rispose: O Corbante, Il nome mio è ’l guerrier del lione, E credo in Apollino, e Trevigante, E non vorrei pel nostro Iddio Macone Avere a capitar certo in Levante, Poi ch’io senti’ della tua passione. Quel disse forte, e quest’altro bisbiglia: Anzi poi ch’io senti’ della tua figlia. 51 Ulivier gli occhi alla donzella gira, Mentre Rinaldo in questo modo parla; Subito pose al berzaglio la mira24, E cominciò cogli occhi a saettarla, E tuttavolta con seco sospira: Questa non è, dicea, carne da darla A divorare alla fiera crudele, Ma a qualche amante gentile e fedele. 52 Corbante aveva intanto così detto: Sia chi tu vuoi, o famoso guerriere, Basta sol che tu credi in Macometto: Se tu credessi, gentil cavaliere, Uccider questa fiera, io ti prometto Di darti mezzo il reame e l’avere: E se tu ’l vuo’ ancor tutto, i’ son contento, Pur che mi tragga fuor d’esto tormento. Corbante chiede aiuto a Rinaldo per uccidere la fiera e liberare il regno, offrendo in cambio metà del regno e la ricchezza a Rinaldo. Uliviero, uno dei paladini, è attratto dalla bellezza della figlia di Corbante, ma Rinaldo si concentra sull'uccidere la fiera. L’unica cosa che Corbante chiede a Rinaldo è di credere in Maometto. 69 Ma quel lion, ch’egli avevan menato, Si stette sempre di mezzo a vedere, Perchè, se fussi d’alcun domandato Di questo fatto, il voleva sapere. Era Dodon già di terra levato, Ma Ulivier pur si stava a giacere; I Saracin corrien fuor della porta, Faccendo festa che la fiera è morta. 70 Venne Corbante con molta brigata, A veder come questo fatto er’ito; Vede la bestia in terra rovesciata, Vede Dodon sanguinoso ferito; Vede Ulivier colla mano affocata, Che morto gli parea, non tramortito; Vede la terra per la fiera arsiccia, Della qual cosa assai si raccapriccia; 71 Vede la testa del fiero dragone, Che gli parve a veder mirabil cosa; Vede Rinaldo turbato, e Dodone, Perch’Ulivieri in terra si riposa; Ebbe di questo gran compassione; Vedevagli la gamba sanguinosa, E non sapea con che parole o gesti Si condolessi, o ringraziassi questi. 72 Abbracciò infin Rinaldo lacrimando; E poi Dodon, dicendo: Baron degni, Come potrò mai ristorarvi, o quando? Da Macon credo che tal grazia vegni, Che in queste parte vi venne mandando; Ecco la vita e tutti i nostri regni, E la corona collo scettro nostro; Disposto sono, ogni cosa sia vostro. Quando muore il mostro, i saracini accorrono verso il luogo del combattimento, tra cui anche Corbante, che esprime la sua compassione per Uliviero e offre il suo supporto a Rinaldo e ai suoi compagni. Corbante dice che questa grazia viene da Maometto. La scena si conclude con un abbraccio tra Rinaldo e Corbante e con la promessa di quest'ultimo di concedere loro ogni cosa che desiderano, tra cui il regno del paese. 73 Ma sempre piangerò, se questo è morto, Che par sì degno e gentil cavalieri. Disse Rinaldo: Re, dàtti conforto, Chè pianger di costui non fa mestieri; Il tuo parlare assai ci mostra scorto Che tu sia grato, e giusti i tuoi pensieri: La tua corona e ’l regno l’accettiamo, E come nostro a te lo ridoniamo. 74 Non aveva Rinaldo appena detto, Ch’Ulivier cominciossi a risentire; E risentito, il re veggendo appetto E tanta gente, cominciò a stupire, Come chi nuove cose per obbietto Vede in un punto, e non sa che si dire: Ma a poco a poco rivocò la vita, Ed ogni ammirazion fu disparita. 75 Al popolo era orrore e maraviglia, Veggendo quel c’han fatto i paladini; Era venuta, per veder, la figlia Del re Corbante con que’ Saracini, Che ’l Sol, quand' è più lucente, simiglia, E tutti gli atti suoi paion divini: Ed Ulivier questa donzella guarda, Che non s’accorge ancor che ’l suo cor arda. 76 Il re Corbante al popol comandava Ch’alla città portato sia il serpente; E poi Rinaldo per la man pigliava, E torna alla città colla sua gente: E come e’ giunse alla terra, ordinava Di lasciar parte d’un tanto accidente Al secol nuovo; e quella fiera morta Col capo fe appiccar sopra la porta. Rinaldo abbraccia Corbante e Dodone e afferma che la corona e il regno appartengono a loro. Uliviero improvvisamente si riprende, ma è sorpreso dalla folla intorno a lui e dalla vista della figlia di Corbante, una giovane donna bella come il sole. Corbante ordina che il drago morto sia portato nella città, e Rinaldo e la sua compagnia tornano in città, dove appendono la testa del drago sopra la porta. 77 E lettere scolpite in marmo d’oro: Nel tal tempo, dicea, qui capitorno Tre paladini (e scrisse i nomi loro, Perchè in secreto gliel manifestorno), che liberarno il popol da martoro Per questa fiera, a cui morte donorno, Ch’era apparita là mirabilmente, E divorava tutta la sua gente. 78 E come il giorno alla fanciulla bella Toccava di dover morir per sorte, Che i tre baron vi capitorno in sella, Che liberata l’avean dalla morte. Per lunghi tempi si potea vedella La storia, e l’animal sopra le porte, Che così morto faceva paura A chi voleva entrar dentro alle mura. 79 E nel palagio Rinaldo menoe35, E grande onor gli fece lietamente; E’ medici trovava, e comandoe Che medicassin diligentemente Ulivieri e Dodon, che bisognoe Ch’ognun più giorni del suo mal si sente; E Forisena intanto, come astuta, Dell’amor d’Ulivier s’era avveduta. 80 E perchè Amor mal volentier perdona, Ch' e’ non sia alfin sempre amato chi ama36, E non saria sua legge giusta e buona, Di non trovar merzè chi pur la chiama, Nè giusto sire il buon servo abandona; Poi che s’accorse questa gentil dama Come per lei si moriva il marchese, Subito tutta del suo amor s’accese. Si parla della guarigione di Ulivier e Dodon grazie alle cure dei medici e della scoperta di Forisena dell'amore di Ulivier per lei. Questo dimostra come l'amore non possa essere controllato e che anche se una persona non vuole amare qualcun altro, potrebbe comunque accendersi dell'amore per quella persona. E perchè Amor ec. Ampliamento del verso di Dante: Amor, che a nullo amato amar perdona. 81 E cominciò cogli occhi a rimandare Indrieto a Ulivier gli ardenti dardi, Ch’Amor sovente gli facea gittare, Acciò che solo un foco due cori ardi: Venne a vederlo un giorno medicare, E salutòl con amorosi sguardi: Chè le parole fur ghiacciate e molle, Ma gli occhi pronti assai com’Amor volle. 82 Quando Ulivier sentì che Forisena Lo salutò così timidamente, Fu la sua prima incomportabil pena Fuggita, ch’altra doglia al suo cor sente L’alma di dubbio e di speranza piena; Ma confirmato assai par nella mente D’essere amato dalla damigella: Perchè chi ama assai, poco favella. 83 Videgli ancor, poi che più a lui s’accosta, Il viso tutto diventar vermiglio, E brieve e rotta e fredda la proposta Nel condolersi del crudele artiglio Dell’animal che per lei car gli costa, E vergognosa rabbassare il ciglio: Questo gli dette massima speranza, Chè così degli amanti è sempre usanza. 84 Ella avea detto: Il mio crudo destino, I fati, il cielo e la spietata sorte, O qual si fussi altro voler divino, M’avean condotta a sì misera morte; Tu venisti in Levante, paladino, Mandato certo dall’eterna corte A liberarmi, e per te sono in vita: Dunque io mi dolgo della tua ferita Ulivieri, a sua volta, sospetta di essere amato da Forisena dopo aver notato i suoi sguardi amorosi. Le ottave descrivono quindi il reciproco innamoramento tra i due personaggi, e Forisena esprime la sua gratitudine verso Ulivieri per averla salvata dalla morte. Le ottave mettono in evidenza l'importanza dell'amore e della gratitudine come motivazioni per i personaggi, e la descrizione dei loro sguardi e delle loro parole suggerisce la complessità dei loro sentimenti, che rimandano alla poesia d’amore di Petrarca e Dante (innamoramento attraverso gli occhi, lo sguardo, il saluto) 85 Queste parole avean passato il core A Ulivieri e pien sì di dolcezza, Che mille volte ne ringrazia Amore, Perchè conobbe la gran gentilezza: Are’ voluto innanzi al suo signore Morir, chè poco la vita più prezza, E poco men che non dissi, niente; Pur gli rispose vergognosamente. 86 Io non fe’ cosa mai sotto la luna, Che d’aver fatto io ne sia più contento; S’io t’ho campata da sì rea fortuna, Tanta dolcezza nel mio cor ne sento, Che mai più simil ne sentii alcuna: So che t’incresce d’ogni mio tormento; Altro duol c’è, che chiama altro conforto: Così m’avessi quella fiera morto. 87 Intese bene allor quelle parole La gentil dama, e drento al cor le scrisse, Sì presto insegna Amor nelle sue scole; E fra sè stessa sospirando disse: Di quest’altro tuo duol ancor mi duole; Forse non era il me’ che tu morisse: Non sarò ingrata a sì fedele amante, Ch’io non son di diaspro o d’adamante. 88 Partissi Forisena sospirando, Ed Ulivier rimase tutto afflitto, Della ferita sua più non curando, Chè da più crudo artiglio era trafitto; Guardò Rinaldo, e quasi lacrimando, Non potè a lui tener l’occhio diritto, E disse: Vero è pur, che l’uom non possa Celar per certo l’amore e la tossa37. Ulivieri, felice di scoprire che la damigella lo ama, si sente grato ad Amore per la dolcezza che ha portato nella sua vita. Forisena, a sua volta, si rende conto di provare affetto per Ulivieri e promette di non essere ingrata verso di lui. La scena si conclude con Ulivieri che ammette apertamente il suo amore per la damigella e Rinaldo che, notando la sofferenza del suo amico, riconosce che l'amore e la sofferenza sono sentimenti difficili da nascondere. L’ultima frase deriva da un proverbio che dice: «Amore, sonno e rogna non si nascondono». 89 Come tu vedi, caro fratel mio, Amor pur preso alfin m’ha co’ suo’ artigli; Non posso più celar questo desio; Non so che farmi o che partito pigli: Così sia maladetto il giorno ch’io Vidi costei: che fo? che mi consigli? Disse Rinaldo: Se mi crederai, Di questo loco ti dipartirai. 90 Lascia la dama, marchese Ulivieri: Non fu di vagheggiar nostra intenzione, Ma di trovare il Signor del Quartieri38; E ’l simigliante diceva Dodone: Tanto si cerchi per tutti i sentieri, Che noi troviamo il figliuol di Millone: Ulivier consentia contra sua voglia, Chè lasciar Forisena avea gran doglia. 91 E poi che fu dopo alcun dì guarito, Così Dodone insieme39 s’accordaro Lasciar Corbante per miglior partito, E che si facci de’ lor nomi chiaro, Sì ch’e’ possi saper chi l’ha servito; Ed oltre a questo ancor deliberaro Tentar se il re volessi battezarsi Col popol suo, e tutti Cristian farsi. 92 Avea Corbante fatti torniamenti, E giostre40 e balli, e feste alla Moresca Per onorar costor colle sue genti; Ed ogni dì nuove cose rinfresca, Perchè partir da lui possin contenti: Ma a Ulivier pur par che ’l suo amor cresca. Finalmente Rinaldo un dì chiamava Il re Corbante, e in tal modo parlava. CANTARE 6 1 O Padre nostro che ne’ cieli stai, Non circumscritto1, ma per più amore Ch’a’ primi effetti di lassù tu hai, Laudato sia il tuo nome e ’l tuo valore: E di tua grazia mi concederai Tanto, ch’io possi finir sanza errore La nostra istoria: e però, Padre degno, Aiuta tu quest’affannato ingegno. 2 Era il Sol, dico, al balcon d’oriente, E l’aurora si facea vermiglia, E da Titon suo antico un poco assente; Di Giove più non si vedea la figlia, Quella amorosa stella refulgente, Che spesso troppo gli amanti scompiglia; Quando Rinaldo giù calava il monte, Dove era Orlando suo famoso conte. 3 Come’egli ebbe veduta la cittade, Disse a Dodone: Or puoi veder la terra Dov'è la dama c’ha tanta beltade; Vedi che 'l re Corbante già non erra, Ch’io veggo de' Pagan gran quantitade: Quivi è quel Manfredon che gli fa guerra. Mentre che dice questo, e Ulivieri Conobbe Orlando sopra il suo destrieri. 4 Vide ch’a spasso con Morgante andava, E che faceva le genti ordinare Per la battaglia che s’apparecchiava, E già faceva stormenti sonare: Ma del gigante ammirazion pigliava, E cominciollo a Rinaldo a mostrare: Quell'è Morgante, e il conte Orlando è quello Ch’è presso a lui: non vedi tu Rondello? Le ottave del sesto canto del Morgante di Pulci descrivono un incontro tra Rinaldo e Orlando, due famosi personaggi dell'epopea carolingia. Rinaldo, sceso dal monte dove si trovava, incontra Orlando che sta organizzando le truppe in vista di una battaglia. Insieme a loro c'è anche il gigante Morgante, che suscita ammirazione in Rinaldo. Ulivieri, un altro paladino, riconosce Orlando che sta cavalcando il suo destriero. Rinaldo, felice di rivedere suo cugino, decide di continuare il suo viaggio con lui e gli altri paladini per raggiungere Caradoro e affrontare i Saraceni. 6 Com'entrati fur poi drento alle mura, Domandorno del re subitamente, Dicendo: Cavalier siam di ventura, Dal re Corbante mandati al presente. I terrazzan fuggivan per paura Di quel lione sanza dir lor niente: Rinaldo tanto innanzi cavalcoe, Che in sulla piazza del re capitoe. 7 E com'e’ furon veduti costoro, Subito fu portata la novella Dentro al palazzo al gran re Caradoro. Rinaldo intanto smontava di sella, Ulivieri, e Dodon non fe dimoro; Ognun dintorno di questo favella: Questo debbe esser, dicean, quel barone Ch’è appellato il guerrier del lione. 8 Meridiana, ch’era alla finestra, Fece chiamar sue damigelle presto, Che d’ogni gentile atto era maestra; Fecesi incontro col viso modesto, Con accoglienza sì leggiadra e destra, Che nessun più non arebbe richiesto Tra le ninfe di Palla o di Diana, Che sì facessi allor Meridiana. 9 Rinaldo quando vide la donzella, Tentato fu di farla alla franciosa2; A Ulivieri in sua lingua favella: Quant’io non vidi mai più degna cosa. Disse Ulivieri: E’ non è in cielo stella, Ch’appetto a lei non fussi tenebrosa. Rinaldo presto rispose: Io t’ho inteso, Che ’l vecchio foco è spento, e ’l nuovo acceso. 10 Non chiamerai più forse, come prima, La notte sempre e ’l giorno Forisena, Ch’ad ogni passo ne cantavi in rima: Non sente al capo duol chi ha maggior pena; Veggo che del tuo amor l’hai posta in cima, E se’ legato già d’altra catena. Ulivier disse: S’io vivessi sempre, Convien sol Forisena il mio cor tempre. Queste ottave del sesto canto del Morgante di Pulci descrivono l'arrivo di Rinaldo, Ulivieri e Dodone nella città del re Caradoro. Rinaldo, dopo aver visto Orlando e Morgante, entra nella città con i suoi compagni e chiede subito del re. Quando la notizia del loro arrivo giunge al palazzo del re Caradoro, la figlia Meridiana viene mandata ad accoglierli e Rinaldo è colpito dalla sua bellezza. Rinaldo e Ulivieri poi hanno una breve conversazione sulla nuova fiamma di Rinaldo e sul fatto che Ulivieri non ha ancora dimenticato la sua amante Forisena. 11 Eron3 saliti già tutta la scala, E grande onor da quella ricevuto; Che insino a mezzo gli scaglion giù cala, E rendutogli un grato e bel saluto: Intanto Caradoro in su la sala Con tutti i suoi baroni era venuto: Rinaldo e gli altri baciaron la mano, Come è usanza a ogni re pagano. 12 Fece ordinar di subito vivande, E’ lor destrier fornir di strame e biada; Per la città la lor fama si spande, E per vedergli assai par che vi vada: Venne la cena, e fuvvi altro che ghiande. Ulivier pure alla donzella bada; Poi che cenato fu, re Caradoro In questo modo a dir cominciò loro: 13 Io vi dirò, famosi cavalieri, Quel che ’l mio cor da voi desia e brama: Per tutt’i nostri paesi e sentieri Dell’oriente risuona la fama Di vostra forza, e de’ vostri destrieri, E questa è la cagion che qua vi chiama. Come vedete, ogni campagna è piena Di gente qua per darci affanno e pena. 14 Ed ecci un re famoso, antico e degno, Che innamorato s’è d’esta mia figlia, E vuol per forza lei con tutto il regno; E molti ha morti della mia famiglia: Ogni dì truova qualche stran disegno Per oppressarci, e ’l mio campo scompiglia; E per ventura un cavalier errante V’è capitato con un gran gigante. 15 Con un battaglio in man d’una campana, Sia ch’armadura vuol, che ne fa polvere; E molti già di mia gente pagana Ha sfracellati, e dato lor che asciolvere4: Ovunque e’ giugne, la percossa è strana, Non c’è papasso5 che ne voglia assolvere: Io 'l vidi un giorno a un dar col battaglio, Che ’l capo gli schiacciò come un sonaglio. Il re Caradoro li invita a cena e poi chiede il loro aiuto. Il re è sotto l'assedio di un altro sovrano, Manfredonio, che vuole la figlia di Caradoro e il suo regno. Il re spiega che la sua gente è stanca e in difficoltà, ma ha trovato un alleato in un misterioso cavaliere errante (Orlando), che ha un gigante come compagno e che è temuto dai suoi nemici. Rinaldo e i suoi compagni accettano di aiutare il re e di unirsi alla lotta contro il nemico. 16 Se con quel cavalier vi desse il core A corpo a corpo, chè così combatte, E col gigante d’acquistare onore, Le genti mie non sarebbon disfatte. Ed io vi giuro pel mio Dio e Signore, S’alcun di voi di questi ignun6 abbatte, Ciò che saprete domandare, arete, Se ben la figlia mia mi chiederete. 17 Era presente a quel Meridiana, E una ricca cotta7 aveva indosso D’un drappo ricco all’usanza pagana, Fiorito tutto quanto bianco e rosso Com'era il viso di latte e di grana8, Ch’arebbe un cor di marmo ad amar mosso: Nel petto un ricco smalto9 e gemme e oro Con un rubin che valeva un tesoro. 18 E un carbonchio10 ricco ancora in testa, Che d’ogni scura notte facea giorno: Avea la faccia angelica e modesta, Che riluceva come ’l Sol d’intorno. Ulivier, quanto guardava più questa, Tanto l’accende più il suo viso adorno: E fra suo cor dicea: Se tu farai Quel che dicesti, re, tu vincerai. 19 Rinaldo vide Ulivier preso al vischio11 Un’altra volta, e già tutto impaniato; E dicea: Questo ne vien tosto al fischio; Conobbe il viso già tutto mutato: Vedeva gli occhi far del bavalischio12. Disse in francioso un motto loro usato: A ogni casa appiccheremo il maio13, Chè come l’asin fai del pentolaio14. 20 Ma non vagheggi a questa volta, come Solevi in corte far del re Corbante; Chè se ti piace il bel viso e le chiome, Piace la spada a costei del suo amante: Queste son dame in altro modo dome, Non c’è più bell'amar che nel levante. Ulivier sospirò nel suo cor forte, Quasi dicessi: Sol non amai in corte. Re Caradoro ha chiesto aiuto a Rinaldo e Uliviero per sconfiggere il re Manfredonio. Se i due cavalieri accettano, Re Caradoro promette di concedere loro qualsiasi cosa desiderino, compresa la mano della sua figlia in matrimonio. Durante la cena, Ulivieri si innamora della figlia di Re Caradoro e Rinaldo lo avverte di non concentrarsi solo sulle apparenze e di non perdere di vista l'importanza della battaglia imminente. 21 E ricordossi allor di Forisena, Che del suo cor tenea le chiavi ancora, Ma non sapeva, omè, della sua pena: Prima consenta il ciel, dicea, ch’i’ mora, Che sciolta sia dal cor quella catena, Che scior non puossi insino all’ultim’ora; E se fra’ morti poi vorran gli Dei Che amar si possi, amerò sempre lei. 22 Non si diparte amor sì leggiermente, Che per conformità nasce di stella15; Dovunque andremo in levante o in ponente, Amerò sempre Forisena bella: Però che ’l primo amor troppo è possente, Non son del petto fuor quelle quadrella, Ch’io non credo che morte ancor trar possa, Prima che cener sia la carne e l’ossa. 36 Se non chi a torto quistion meco piglia, O ver chi fussi traditor perfetto. Il conte Orlando ha seco maraviglia, Poi gli rispose: Vegnamo all’effetto; Se vuoi combatter sanz’altra famiglia A corpo a corpo, mettiti in assetto; Chè in altro modo combatter non voglio: Farò di te come degli altri soglio. 37 Disse Dodon: Tu sarai forse errato. Il gigante gli fece la risposta: Tu non cognosci il mio signor pregiato, Però facesti sì strana proposta; Io non son come tu, barone, armato, E proverrommi con teco a tua posta. Dodone allora pazienzia non ebbe, E pure stato il miglior suo sarebbe. 38 La lancia abbassa con molta superba,22 E percosse Morgante in su la spalla; E’ si pensò traboccarlo in su l’erba: Morgante non lo stima una farfalla, Ed appiccògli una nespola acerba, Tanto che tutto pel colpo 23traballa: E come e’ vide balenar Dodone,24 Se gli accostava, e trassel dell’arcione. 39 Al padiglion ne lo porta il gigante: A Manfredonio Dodon presentava; Manfredon rise, veggendo Morgante, E per Macon d’impiccarlo giurava. Morgante in drieto volgeva le piante, Torna ad Orlando ch’al campo aspettava. Rinaldo irato ad Orlando dicia: Io ti farò, cavalier, villania. 40 Aspettami, se vuoi, tanto ch’io vada A qualche cosa a legar quel lione, Poi proveremo la lancia e la spada Per quel c’ha fatto il gigante ghiottone. Rispose Orlando: Fa’ come t’aggrada, O lancia, o spada, o cavallo, o pedone. Rinaldo smonta, e la bestia legava, Poi verso Orlando in tal modo parlava: Queste ottave del sesto canto del Morgante di Pulci descrivono una scena in cui diversi cavalieri si sfidano in una gara di destrezza e forza. In particolare, si parla di come Ulivieri abbia aiutato a preparare i cavalli per la gara e di come Dodone abbia montato il suo cavallo in modo un po' maldestro. Si menziona poi come Rinaldo, Orlando e Morgante si incontrino e discutano, con Orlando che non riconosce subito il cugino Rinaldo. Viene poi descritto un confronto tra Dodone e Morgante, durante il quale Dodone colpisce Morgante con la lancia, ma Morgante risponde con forza e lo stacca dal cavallo. Infine, si parla di come Manfredonio si arrabbi per il comportamento di Morgante e di come Rinaldo decida di legare il leone prima di affrontare Orlando stesso in una gara di destrezza e forza. 41 Non potrai nulla del lion più dire; Oltre provianci colle lancie in mano, Vedrem se, come mostri, hai tanto ardire; Chè il can che morde, non abbaia invano. Volse il destrier, per tornarlo a ferire. Orlando al suo Rondel gira la mano, Del campo prese, e con molta tempesta Si volse in drieto colla lancia in resta. 42 Non domandar quel che facea Baiardo, Con quanta furia spacciava il cammino; E Rondello anco non pareva tardo, Anzi pareva quel di Vegliantino: Rinaldo aveva al bisogno riguardo25 Dov’e’ ponessi la lancia al cugino; Ma cognosceva ch’egli è tanto forte, Che pericol non v’è di dargli morte. 43 A mezzo il petto la lancia appiccoe, Orlando ferì lui similemente; E l’una e l’altra lancia in aria andoe; Non si cognosce vantaggio niente; E l’uno e l’altro destrier s’accoscioe, E cadde in terra pel colpo possente: Tanto che fuor della sella saltorno I duo baroni, e le spade impugnorno. 44 E cominciorno sì fiera battaglia, Che far comparazion non si può a quella; Perchè Frusberta e Cortana26 anco taglia, E ’l suo signor, che con essa impennella,27 Disaminava e la piastra e la maglia; Rinaldo sempre all’elmetto martella, Perchè e’ sapeva ch’egli è d’acciaio fino, Che fu d’Almonte nobil Saracino. 45 Pur nondimen si voleva aiutare, Però che Orlando vedea riscaldato,28 E conosceva quel che sapea fare Il suo cugin, quand’egli era adirato; Ma Cristo volle un miracol mostrare, Acciò che ignun di lor non abbi errato: E perchè de’ suoi amici si ricorda, Il fier lione spezzava la corda. Rinaldo sfida Orlando in un duello corpo a corpo. Nel mezzo della battaglia, i due cavalieri si scontrano con le loro lance, ma nessuno dei due ha il sopravvento. La battaglia continua con spade e asce fino a quando un miracolo si verifica: la corda con cui Rinaldo aveva legato il leone si spezza e l'animale si unisce alla lotta. 46 Venne a Rinaldo, ed Orlando dicia: Per Dio, baron, di te mi maraviglio: Questa mi par da chiamar villania; Ma questa volta non hai buon consiglio, Chè a te e lui caverò la pazzia. Rinaldo in drieto volgea presto il ciglio: Vide il lione, e funne malcontento, E cominciò questo ragionamento: 47 Aspetta, cavalier, tanto ch’io possi Questo lion rimenare alla terra; La mia intenzion non fu, quand’io mi mossi, Di venir qui col lione a far guerra. Rispose Orlando: Qual cagion si fossi Non so, ma in fine è l’errato chi erra; S’io ti volessi guastar il lione, Guarda 'l battaglio c’ha quel compagnone. 48 Disse Rinaldo: Noi farem ritorno, Tu al tuo re, ed io nella cittade, E domattina come scocca il giorno,29 Ritornerò per la mia lealtade; E chiamerotti, com’io fe’, col corno, E proverremo chi arà più bontade; Questo di grazia, baron, ti domando: Tanto che fe contento il conte Orlando. 49 E torna con Morgante al padiglione, E per la via si doleva con quello, E dicea: Maladetto sia il lione! S’avessi Vegliantin, come ho Rondello, Partito non saria questo barone; O segnato l’arei del mio suggello, S’avessi la mia spada Durlindana: E duolsi assai ch’egli aveva Cortana. 50 Ulivieri e ’l signor di Montalbano Si ritornorno verso la cittate. Or ritorniamo al traditor di Gano, Ch’avea per molte parte spie mandate: Ed ecco un messaggiero a mano a mano A Carador con letter suggellate; E per ventura al marchese s’accosta, Dicendo: In cortesia, fammi risposta Le ottave del sesto canto del Morgante di Pulci descrivono la continuazione della battaglia tra Rinaldo e Orlando, che è stata interrotta dal miracolo del leone che spezza la corda. Rinaldo e Orlando si rinfocolano e continuano a combattere, ma poi decidono di fermarsi e tornare ai rispettivi accampamenti. Rinaldo propone un duello per il giorno successivo per dimostrare chi sia il miglior guerriero. Nel frattempo, Gano continua ad agire contro i paladini, inviando spie a Caradoro con lettere suggellate. 51 Come si chiama la terra, e ’l paese, E ’l suo signor, se Dio ti dia conforto; Io ho paura indarno avere spese Le mie giornate, e di scambiare il porto. A lui rispose il famoso marchese: Alla domanda tua non vo’ far torto; Non so il paese come sia chiamato, Ma ’l suo signor ti sarà ricordato. 52 Sappi che ’l re si chiama Caradoro, E la figliuola sua Meridiana; Per lei tal guerra ci fanno costoro Che tu vedi alloggiati alla fiumana. Disse la spia: Macon ti dia ristoro, E guardi sempre d’ogni morte strana; E finalmente al palazzo n’andoe A Caradoro, e da parte il chiamoe. 53 Disse: Macon ti dia gioconda vita; Io son messaggio di Gan di Maganza, E quando feci da lui dipartita, Questo brieve mi diè,30 ch’è d’importanza; Vedi la 'mpronta sua qui stabilita, Perchè tu abbi del fatto certanza. Carador riconobbe quel suggello Del conte Gan, traditor crudo e fello. 54 La lettera apre e ’l suo tenore intese. La lettera dicea: Caro signore, Sappi, re Carador, quel ch’è palese, Che venuto è Rinaldo traditore Nella tua terra e nel tuo bel paese; Io te n’avviso, ch’io ti porto amore; E seco ha Ulivier, che è uom di razza, Col suo compagno Dodon della mazza. 55 E nel campo è di Manfredonio Orlando, E l’un dell’altro ben debbe sapere; E so che tutt’a due vanno cercando, O Carador, di farti dispiacere: Vengonvi insieme alla mazza guidando; Quanto fia tempo, vel faran vedere: Non piace al nostro re qua tradimento, Però ch’io ti scrivessi fu contento. Successivamente, un messaggero arriva, inviato dal traditore Gano, per informare il re Caradoro della presenza di Rinaldo, Orlando e degli altri cavalieri nella sua terra. I cavalieri vengono descritti da Gano come traditori. 56 Ed ha con seco menato un gigante, Che se s’accosta un giorno alle tue mura, cavalieri per sconfiggere il suo nemico, il re Manfredonio, che vuole la figlia di Caradoro (Meridiana) e il suo regno. Re Caradoro offre a Rinaldo e Uliviero la mano della figlia in matrimonio se accettano di sfidare in un duello il re Manfredonio e il suo Orlando. Successivamente, un messaggero arriva, inviato dal traditore Gano, per informare il re Caradoro della presenza di Rinaldo, Orlando e degli altri cavalieri nella sua terra. I cavalieri vengono descritti da Gano come traditori. Durante una gara di destrezza e forza, Rinaldo, Orlando e Morgante si incontrano e discutono, e Morgante viene ferito da Dodone. Avviene uno scontro tra Orlando (che non sapeva) e Rinaldo (che sapeva) interrotto però dal leone che spezza la corda. Rinaldo e Orlando decidono di fermarsi e Rinaldo propone un duello per il giorno successivo. Nel frattempo, Gano continua ad agire contro i paladini, inviando spie a Caradoro con lettere suggellate. Rinaldo, intanto, invia un messaggio segreto ad Orlando per incontrarsi con lui in città e discutere un piano per sconfiggere i nemici comuni. CANTARE 7° 1 Osanna, o Re del sempiterno regno, Che mai non abbandoni i servi tuoi, E perdonasti a quel che gustò il legno1 Che gli vietasti già per gli error suoi; Aiuta me, sovvien tanto il mio ’ngegno, Che basti al nostro dir come tu puoi, Sicch’io ritorni alla mia storia bella, Cogli occhi volti a te come a mia stella. 2 Rinaldo il conte Orlando rimirava; Orlando non sapea di tale effetto, E Ulivieri spesso sogghignava; Non gli cognosce, ch’avevon l’elmetto. Allor Rinaldo a parlar cominciava: A questi dì trovammo in un boschetto Tre cavalier cristian feroci e forti, E tutt’a tre gli abbiam lasciati morti. 3 Per certo oltraggio, che ci vollon fare, A corpo a corpo insieme ci sfidammo, E cominciamo le spade a menare; Finalmente di forza gli avanzammo; Credo ch’e’ lupi gli possin trovare, Chè nel boschetto morti gli lasciammo: Ma cavalier parean da spada e lancia, Ch’eron venuti del regno di Francia. 4 Orlando, quando udì queste parole, Rispose presto: Bene avete fatto; Tutti son rubator, non me ne duole; Io n’ho già gastigati più d’un tratto: Così sempre a’ nimici far si vuole: Ma dimmi, cavaliere, ad ogni patto I nomi lor, per veder s’io cognosco Di questi alcun ch’uccidesti in quel bosco. 5 Disse Rinaldo: Egli ha nome Ulivieri L’un di costor, che dice era marchese; L’altro da Montalban quel buon guerrieri. Ch’aveva fama per ogni paese: Credo che ’l terzo anco era cavalieri, Dodon chiamato figliuol del Danese. Orlando udendol si maravigliava, Ma del lion con seco dubitava. Conversazione tra Orlando e Rinaldo con quest’ultimo che lo beffa facendogli credere che i paladini (tra cui Ulivieri e Dodone) erano morti. Questo per ritardare e rendere più gioiosa la sorpresa del riconoscimento. 6 Seguì più oltre il suo ragionamento Rinaldo: Io intendo mostrarvi i cavagli. Orlando disse: Ne son ben contento, Ch’e’ nomi lor non posso ritrovagli. Vanno a veder: Orlando ebbe spavento, Subito come comincia a guardagli, Perchè conobbe presto Vegliantino, E disse: Il ver pur dice il Saracino. 7 Alla sua vita mai fu più doglioso, E poco men che in terra non cadea: Ulivier, che il vedea sì doloroso, Drento all’elmetto con seco ridea: Tornano in sala, e ’l paladin famoso Vendetta farne fra sè disponea, E disse: S’altro tu non vuoi parlarmi, A Manfredonio al campo vo’ tornarmi. 8 Disse Rinaldo: Alquanto v’aspettate. E menò in una camera il barone; E poi che l’arme sue s’ebbe cavate, La sopravvesta e l’altre guernigione, Mostrava le divise sue sbarrate;2 Trassesi l’elmo, e così il Borgognone: Orlando, quando Rinaldo suo vede, Per gran letizia tramortir si crede. 9 Abbraccia mille volte il suo cugino; Ulivieri abbracciava il suo cognato ; Diceva Orlando: O giusto Iddio divino, Che grazia è questa, ch’io t’ho qui trovato! Poi domandò dell’altro paladino: Dodon dov’è, che tu m’hai nominato? Disse Rinaldo: Sappi che Dodone È quel che venne preso al padiglione. 10 Morgante vide costoro abbracciare, E disse al conte: Per tua gentilezza, Chi son costor non mi voler celare, Chè tu gli abbracci con tal tenerezza. E poi ch’udì Rinaldo ricordare, Ed Ulivieri, avea grande allegrezza, E ’nginocchiossi, e per la man poi prese Rinaldo presto e ’l famoso marchese. Avviene il riconoscimento tra Orlando e Rinaldo che si abbracciano (con Morgante che osserva la scena) e la scoperta che si trattava di uno scherzo progettato da Rinaldo. Abbraccia mille volte il suo cugino; Ulivieri abbracciava il suo cognato: queste affermazioni di letizia e tenerezza imprimono al racconto una tonalità calda ed affettuosa. 11 E pianse allor Morgante di buon core. Re Caradoro in zambra era venuto; Dicea Rinaldo: Cugin di valore, Per mio consiglio, se a te par dovuto, Non tornerai nel campo; i’ ho timore Che Manfredon non t’abbi conosciuto, O come a Carador Gan gli abbi scritto: Ma Dodon nostro ove riman sì afflitto? 12 Disse Morgante: Lascia a me il pensiero; Io lo condussi al padiglion di peso, Così l’arrecherò qui come un cero. Orlando disse: Morgante, io t’ho inteso, E del tuo aiuto ci farà mestiero. Morgante più non istette sospeso; Disse: A me tocca appiccar tal sonaglio, 3 Ma ogni cosa farò col battaglio. 13 A Manfredonio andò cautamente, E per ventura giugneva il gigante, Che Dodon era a Manfredon presente, Che lo voleva impiccar far davante Al padiglion; Dodone umilmente Si raccomanda: in questo ecco Morgante, E disse a Manfredon: Che vuoi tu fare? Manfredon disse: Costui fo impiccare. 14 Non lo impiccar, disse Morgante presto: dice Brunoro ch’io ’l meni alla terra, E dè’ saper per quel ch’e’ faccia per questo; Tu sai ch’egli è fidato, e ch’ e’ non erra. Rispose Manfredon: Venga il capresto, Io vo’ impiccarlo come s’usa in guerra; Sia che si vuole, o seguane al fin doglia, Ch’io mi trarrò, Morgante, questa voglia. 15 Dicea Morgante: Il tuo peggio farai, Chè si potrebbe disdegnar Brunòro; E se tu perdi lui, tu perderai Me e il tuo stato col tuo concistoro: Io il menerò, se tu mi crederai; Credo ch' accordo tratti Caradoro; E forse ti darà la sua figliuola, Ch’io n’ho sentito anch’io qualche parola. Morgante chiede notizie di Dodone, il paladino che era stato catturato dai nemici, e promette di liberarlo. Rinaldo e Orlando, preoccupati per la sua sorte, chiedono a Morgante di non tornare al campo nemico per non essere riconosciuto e ma Morgante vuole portare Dodone al sicuro. Morgante si dirige quindi al campo nemico e chiede a Manfredonio di non impiccare Dodone, offrendo di portarlo via e di farlo giudicare da Brunoro. Morgante propone anche di mediare un accordo tra Manfredonio e Caradoro per il matrimonio della figlia di Caradoro (Meridiana) con Manfredonio. 16 Manfredon disse: Per lo Iddio Macone È già due dì ch’io giurai d’impiccarlo, Come tu vedi, innanzi al padiglione; Non è Macone Iddio da spergiurarlo. Allor chiamava il suo Cristo Dodone, Che non dovessi così abbandonarlo. Morgante, udendo far questa risposta, A Manfredon più dappresso s’accosta. 17 Il padiglione squadrava dintorno, Vide ch’egli era un padiglion da sogni; Prima pensò d’appiccarli un susorno4 Al capo, e dir ch’a suo modo zampogni; Poi disse: Questo sare’ poco scorno, E credo ch’altro unguento qui bisogni: E finalmente il padiglion ciuffava Di sopra, e tutte le corde spezzava. 18 Dette una scossa sì fiera e villana, Ch’arebbe fatto cader un castello; O s’egli avessi scossa Pietrapana, Arebbe fatto come fece a quello: Così in un tratto il padiglion giù spiana, E d’ogni cosa ne fece un fardello, E Manfredonio e Dodon vi ravvolse, E fuggì via, e ’l suo battaglio tolse. 19 E in su la spalla il fardel si gittava, Dall’altra man col battaglio s’arrosta;5 Il capo a questo e quell’altro spiccava Di que’ Pagan che volevon far sosta: Talvolta basso alle gambe menava, Tanto che ignuno a costui non s’accosta, E teste e gambe e braccia in aria balzano: La furia è grande, e le grida rinnalzano. 20 Subito il campo è tutto in iscompiglio, E corron tutti come gente pazza; Morgante fece il battaglio vermiglio Di sangue, e intorno con esso si spazza: A chi spezza la spalla, e a chi il ciglio; E Manfredon quanto può si diguazza,6 E grida, e scuote, e chiamava soccorso: Dodon più volte l’ha graffiato e morso. Manfredonio rifiuta la proposta di Morgante di liberare Dodone. Così Morgante distrugge il padiglione e inizia a combattere contro il battaglione di Manfredonio, causando caos e disordine 31 Ed accordârsi che si stessi saldo. Tutta la notte stetton con sospetto; Morgante, ch’era di potenzia caldo, La sera al conte Orlando aveva detto: Poi ch’egli è morto Manfredon ribaldo, Non sarà prima dì, ch’io vi prometto Ch’io voglio andar col mio battaglio solo Tra que’ Pagani in mezzo dello stuolo, 32 Ed arder le trabacche e’ padiglioni; Colla granata gli voglio scacciare; Vedrete che bel fumo da’ balconi, E tutto il campo a furia spulezzare: Io gli farò fuggir come ghiottoni; Le pecchie soglion pel fuoco sbucare: Io porterò il battaglio e ’l fuoco meco, Vedrete poi che mazzate di cieco. 33 Mancato è il capo, male sta la coda; Adunque male star dee tutto il dosso; Per gli occhi a tutti schizzerà la broda:13 Io schiaccerò la carne, i nervi e l’osso, Quand’io darò qualche bacchiata soda; So ch’al principio n’arò molti addosso, Ma tutti poi gli vedrete fuggire. Orlando per le risa è ’n sul morire. 34 E disse: Va, ch’io ne son ben contento; E poi si volse ove Carador era, E sì dicea: Questo ragionamento So che saranno parole da sera,14 Che come fumo ne le porta il vento; O distruggonsi al Sol qual neve o cera; A me par, Caradoro, da vedere Quel che fa il campo e le Pagane schiere. 35 Se per sè stessi si dipartiranno, Lasciagli andar, che mi par più sicuro; Però che sempre è nel combatter danno, E solo Iddio sa il tutto del futuro: Vedrem pur che partito piglieranno, E staremci doman qui drento al muro; Non si partendo il dì, poi gli assaltiamo, Chè in ogni modo te salvar vogliamo. Le ottave del settimo canto del "Morgante" di Pulci raccontano la strategia che il gigante Morgante propone a Orlando per sconfiggere i Pagani che si trovano di fronte a loro. Morgante propone di andare da solo con il suo esercito e di attaccare i pagani di notte, incendiando i loro padiglioni e le loro tende. In questo modo, Morgante prevede che i Pagani fuggiranno spaventati e che avranno molte difficoltà a combattere. Orlando, divertito dalle parole di Morgante, acconsente al suo piano e gli dice che resteranno al sicuro all'interno del muro se i Pagani non si ritireranno durante il giorno. 36 Poi ci darai la tua benedizione, E cercheremo ancor meglio il levante. E così disse Rinaldo e Dodone, E Ulivier, ma non v’era Morgante. Vannosi a letto con questa intenzione, Ch’avevon tutti cenato davante; E Caradoro avea massimo onore A tutti fatto e con allegro core. 37 Morgante avea mangiato quel che vuole, Un gran castron, che gli fu dato arrosto; Andossi prima a letto che non suole, Chè com’e’ disse fare era disposto; Nè prima in oriente appare il Sole L’altra mattina, ch’e’ si leva tosto; Prese il battaglio e certo fuoco in mano, Ed avviossi nel campo pagano. 38 I Saracin trovò ch’erano armati, Ma pure il fuoco in un lato appiccoe, Dov'eran i destrier sotto i frascati, Tanto che molti di quegli abbrucioe; Ma furon presto scoperti gli aguati, E in mezzo a più di mille si trovoe: E tutto il campo a furia sollevossi; Ognuno addosso al gigante cacciossi. 39 E gli feciono intorno un rigoletto,15 Che lo faranno cantare in tedesco; Al ponte di Parisse era in effetto, In mezzo a’ Saracini, e stava fresco: Chi getta lance, e chi sassi nel petto, Pure al battaglio stavano in cagnesco;16 Ma tanta gente alla fine v’è corso, Che bisognava a Morgante soccorso. 40 E tuttavia più la turba s’affolta: Era sì grande e sì grosso il gigante, Ch’ognun che getta facea sempre colta. Pur molti morti n’aveva davante; Chè chi toccava il battaglio una volta, Lo sfracellava dal capo alle piante: E spesso tondo il battaglio girava, E cento capi per l’aria balzava, Queste ottave del settimo canto del poema "Morgante" di Luigi Pulci raccontano di come Morgante, il gigante cristiano, decida di attaccare da solo il campo dei Pagani, con il suo battaglio e il fuoco. Nonostante le iniziali resistenze, Morgante riesce a bruciare molte delle tende dei nemici, causando il panico e la fuga dei Pagani. In seguito, Rinaldo, Dodone e Ulivieri decidono di attendere il giorno seguente per vedere quale decisione prenderanno i nemici. Nel frattempo, Morgante va a letto presto e il mattino seguente si dirige nel campo nemico con il suo battaglio e il fuoco in mano. Qui, viene attaccato dagli uomini dei Pagani, ma riesce a difendersi abbastanza bene da solo. Tuttavia, il numero dei nemici aumenta fino a quando Morgante ha bisogno di soccorso. La folla diventa così grande che il gigante ha bisogno di aiuto per difendersi. Nonostante tutto, Morgante riesce comunque a infliggere molte perdite ai nemici. Finalmente il personaggio Morgante acquista una grande rilievo in queste ottave. In questo cantare alla furia repressa di Morgante, definita all’ottava 31° “potenzia caldo”, gli viene finalmente permesso di sfogarsi. Queste imprese conferiscono a Morgante un’ossatura da vero protagonista, un gigante prepotente però difficile da disciplinare. 41 Tanto che ’l cerchio faceva allargare; Alcuna volta menava frugoni,17 Che si sentien le corazze sfondare, E pesta loro i fegati e’ polmoni; Quando si sente arnese sgretolare E d’ogni gamba farne due tronconi: E grida e mugghia il gigante feroce, Tanto ch’assai ne stordisce la voce. 42 E pareva ogni volta che mugghiava, Quando Cristo Quem quæritis diceva, Ch’ognuno a quella voce stramazzava; E tanti morti d’intorno n’aveva, Ch’ognun discosto alla fine lanciava, E chi con archi, e chi dardi traeva: Tal che Morgante di molte uova succia18 Per le ferite, e com’orso si cruccia. 43 Egli era come a dare in un pagliaio, E già tutto è forato come un vaglio, E si volgeva com’un arcolaio A’ Saracin che facieno a sonaglio;19 E mai non uccideva men d’un paio, Quando e’ menava più lento il battaglio: E più di cinque mila n’avea morti, Ma ricevuto da lor mille torti. 44 Avea nel dosso migliaia di zampilli, Che gettan sangue già per le punture, Certi stramazzi, certi sergozzoni,24 In dieci colpi n’uccise ben venti; E chi partiva insin sotto agli arcioni, Chi 'nfino al petto, e ’l manco infino a’ denti; E le budella balzavan per terra: Mai non si vide tanta crudel guerra. 55 Orlando nostro sprona Vegliantino, Giunse d’un urto tra quel popol fello, Che più di cento caccia a capo chino; Poi cominciava a toccare a martello;25 Non tocca il polso sopra il manichino; Facea de’ Saracin come un macello Ed avea detto: Non temer, Morgante; Cesare è teco,26 ove è ’l signor d’Angrante. Arriva sul punto di battaglia Orlando e la guerra è descritta in modo crudo e violento, con immagini di teste mozzate, corpi mutilati e budella che balzano per terra. In particolare, si descrive l'abilità di Orlando nel combattimento, che uccide venti saraceni in dieci colpi. 56 Queste parole avean sì sbigottiti I Saracin, ch' assai del popol fugge, E buon per que’ che son prima fuggiti, Tanto i nostri baron già ciascun rugge: E’ ne facean gelatine e mortiti;27 Appoco appoco la turba si strugge: E Ulivieri e Dodon giunti sono Con romor grande, che pareva un tuono. 57 E Manfredonio in sul campo scontrava; La lancia abbassa, chè lo conosceva: Re Manfredonio il cavallo spronava, E Ulivieri allo scudo giugneva, E ’nsino alla corazza lo passava Tanto che tutto d’arcion lo moveva: E si gran colpo fu quel che gli diede, Ch’Ulivier nostro si trovava a piede. 58 Ed ogni cosa la donzella vide, Ch’era venuta con sua gente al campo, E fra sè stessa di tal colpo ride; Ulivier come un lion mena vampo, E per dolore il cor se gli divide, Dicendo: Appunto al bisogno qui inciampo; Caduto son dirimpetto alla dama, Donde ho perduto il suo amore e la fama. [p. 130 modifica] 59 Guarda se a tempo la trappola scocca; Non si potea racconsolar per nulla: Sempre fortuna alle gran cose imbrocca,28 E ’nfin sopra la soglia ci trastulla: Non domandar se questo il cor gli tocca. Per gentilezza allor quella fanciulla Se gli accostava, e diceva: Ulivieri, Rimonta, vuoi tu aiuto? in sul destrieri. 60 Or questo fu ben del doppio lo scorno, E parve fuoco la faccia vermiglia; Are’ voluto morire in quel giorno. Meridiana pigliava la briglia, Dicendo: Monta, cavaliere adorno. Or questo è quel ch’ogni cosa scompiglia, E per dolor dubitò sanza fallo, Non poter risalir sopra il cavallo. Entrano in scena Manfredonio da una parte e dall’altra Dodone e Ulivieri. Quest’ultimo cade a terra dopo aver subito un colpo mortale da Manfredonio. La sorte non lo favorisce infatti Ulivieri cade a terra proprio davanti a Meridiana, la quale tuttavia gli offre gentilmente aiuto. 61 Morgante aveva ogni cosa veduto, Come Ulivier dal gran re Manfredonio Del colpo della lancia era caduto, E la donzella vi fu testimonio; E disse: Io proverò, come è dovuto, S’io gli potessi appiccar questo conio:29 Io intendo d’Ulivier far la vendetta. E ’nverso Manfredon presto si getta. 62 Meridiana, che ’l vide venire, Gridava: In drieto ritorna, Morgante! E Manfredonio correva assalire, Per far vendetta del suo caro amante. Morgante pur lo veniva a ferire, E com'e’ giunse, gridava il gigante: Tu sei qui, re di naibi, o di scacchi;30 Col mio battaglio convien ch’io t’ammacchi. 63 Disse la dama: La battaglia è mia; E se ci fussi al presente qui Orlando, Non mi faresti sì gran villania; Tirati addrieto, io ti darò col brando: Venuto è qua colla sua compagnia, La fama e ’l regno di tormi cercando. Morgante in drieto alla fine pur torna, Per ubbidir questa fanciulla adorna. 64 Trovò Dodone in luogo molto stretto, Ch’era venuto tra cattive mane; Pur s’aiutava questo giovinetto, E cominciava a dar mazzate strane, A questo e quello spezzando l’elmetto, Tanto che gli elmi faceva campane, Quando egli assaggian di quel suo picciuolo;31 Ma dà di sopra come all’oriuolo. 65 E rimaneva il segno ov’e’ percuote; Quanti ne tocca il battaglio feroce, Non si ponea più le mani alle gote, Chè ne facea com’e’ fussi una noce; Alcuna volta facea certe ruote, Ch’a più di sette domava la voce; Com’un nocciol di pesca ogn’elmo stiaccia, E fa balzar giù capi e spalle e braccia. Morgante, che ha assistito alla scena, si offre di vendicare Ulivieri e si lancia in battaglia contro Manfredonio, ma viene fermato dalla donzella che rivendica il duello per sé stessa. Nel frattempo, Dodone combatte coraggiosamente contro i Saraceni e li sconfigge con il suo piccolo ma potente battaglio. 66 E rimisse Dodon sopra il destrieri; Dodon gridava al popol soriano: Io ne farò vendetta, e d’oggi e d’ieri, Quando impiccar mi volea quel villano. In questo tempo il famoso Ulivieri Era pel campo colla spada in mano, E dove Manfredon combatte, arriva, Colla donzella florida e giuliva. 67 Un' ora o più combattuto questi hanno, E non si vede de’ colpi vantaggio: Ulivier tutto arrossì, come fanno Gli amanti presso alla dama, il visaggio: E disse: Dama, non ti dar più affanno, Lascia pur me vendicare il mio oltraggio: Io vorrei esser morto veramente, Quand’io cascai, che tu v’eri presente. 68 Alla mia vita non caddi ancor mai, Ma ogni cosa vuol cominciamento. Disse la dama: Tu ricascherai, Se tu combatti, cento volte e cento, E sempre avvenir questo troverai A cavalier che sia di valimento: Usanza è in guerra cascar del destriere, Che tu comporti ogni amoroso incarco, E sia contento di qui far partita, E in ogni modo conservar la vita. 78 La dipartenza, perch’e’ non ci avanza Tempo, ch’io veggo morir la tua gente, Tra noi sia fatta, e questo sia bastanza, Poi che più oltre il Cciel non ci consente; E quel gioiel terrai per ricordanza, Ch’io t’ho donato, sempre in oriente: E se fortuna e ’l ciel t’ha pure a sdegno, Aspetta tempo, e miglior fato e segno. 79 Quest’ ultima parola al cor s’affisse A Manfredonio udendo la donzella, Che mai più fermo in diaspro si scrisse: Volea parlare, e manca la favella; Ma finalmente pur piangendo disse: Aspetta tempo, e miglior fato e stella, Poi ch’al ciel piace, e tórnati in Soria; Quanto son vinto da tal cortesia! 80 Quando sará quel dì, quando fia questo? Or quel che non si puó, voler non deggio. Io tornerò, per non t’esser molesto; Ricórdati di me, ch’altro non chieggio: Col popol mio, con quel che c’è di resto, Chè molti morti pel campo ne veggio, Ritornerò sanza speranza alcuna, Nel regno mio, se così vuol fortuna. Alla fine Manfredonio, sconsolato, accetta la proposta di Meridiana e decide di ritornare con il suo popolo nel suo regno (Siria). Manfredonio porterà sempre con sé il diamante che Meridiana gli dona come ricordo dell’amore costante provato per lei. 81 E per tuo amor terrò questo gioiello, Questo sempre sarà presso al mio core: S’io ho peccato, lasso meschinello, Contro al tuo padre, contro al mio signore, Incolpane colui ch’è stato quello Che m’ha condotto dove vuole, Amore; E in ogni modo a te chieggio perdono, E viver per tuo amor contento sono. 82 E poi si volse al marchese Ulivieri, E chiese a lui perdon del cadimento: Ulivier gli perdona volentieri, Chè del suo dipartir troppo è contento, Perchè eran due gran ghiotti a un taglieri; Ed era stato alle parole attento Che dette avea Meridiana a quello, E confermato e postovi il suggello. 83 E poi ch’egli ebbe lagrimato alquanto, Re Manfredonio al fin s’accommiatava; E la donzella con sospiri e pianto, Addio dicendo, la man gli toccava: E dèi pensar se si cavorno il guanto. Ulivier presto Orlando ritrovava, E dicea ciò ch’egli avea fermo e saldo: E molto piacque ad Orlando e Rinaldo. 84 Venne per caso quivi Caradoro, E intese come l’accordo era fatto. Morgante insieme veggendo costoro, Inverso lor col battaglio era tratto, E quel che fussi saper vuol da loro; Ma col battaglio non dava di piatto. Orlando disse: Non far più, Morgante. Allor più forte combatte il gigante. 85 Re Manfredonio e la sua compagnia Contento è di lasciar Meridiana, Diceva Orlando, e tornarsi in Soria. Morgante allora il battaglio giù spiana, E disse: Orlando, questa era tra via; E dette a uno una picchiata strana: Un altro ammacca, che parve di cera: Ed anco questo ne’ patti non era. 86 Orlando disse: Il battaglio giù posa, Assai morti n’abbiam per questo giorno. Re Manfredon sua gente dolorosa Per tutto il campo raguna col corno: E così la battaglia sanguinosa A questo modo quel dì terminorno; Come nell’altro dir seguirò poi, Cristo vi guardi, e sia sempre con voi. Dopo aver chiesto perdono a Ulivieri per averlo abbattuto e aver detto addio a Meridiana con lacrime e sospiri, Manfredonio si prepara a partire per tornare in Siria insieme ai suoi uomini. Nel frattempo, Morgante aveva ancora intenzione di combattere ma viene fermato da Orlando, che lo convince a smettere. La battaglia termina con molte perdite da entrambe le parti e Morgante continua la sua avventura con Orlando e Rinaldo. Riassunto del 7° Nel primo passo, Rinaldo fa uno scherzo a Orlando facendogli credere che i paladini, tra cui Ulivieri e Dodone, erano morti, ma poi c'è il riconoscimento tra i due cugini. Morgante chiede notizie di Dodone che era stato catturato dai nemici e vuole andare a salvarlo. Arrivato sul posto, Morgante chiede a Manfredonio di non impiccare Dodone ma lui rifiuta e comincia una battaglia tra Morgante e i saraceni. Morgante stava distruggendo tutto creando un fardello (involto) in cui Manfredonio sta riavvolto come un fegatello (metafora gastronomica), poi viene gettato in un fiume e pensavano che fosse morto. Nel secondo passo, Morgante torna da Orlando, raccontandogli l’accaduto e propone una strategia per sconfiggere Manfredonio e i saraceni. Morgante decide di andare da solo e di notte, incendiando i padiglioni e le tende degli infedeli. In questo modo, Morgante pensa che i saraceni fuggiranno spaventati. Il giorno seguente Morgante si scontra con i pagani e riesce a infliggere numerose perdite nei loro confronti. In questo cantare, finalmente Morgante si rende protagonista esprimendo tutta la sua furia (viene definito “potenzia caldo” ottava 31). In questo modo viene fuori il vero carattere di Morgante, un gigante prepotente ma difficile da disciplinare. Le descrizioni sono vivaci e dettagliate, mostrando la brutalità della battaglia e il coraggio di Morgante, nonché l’abilità di Pulci nel descrivere le scene di combattimento. Tuttavia si rende conto di aver bisogno di aiuto. Entra in scena Orlando e con lui la guerra si fa ancora più cruda e violenta, con immagini di teste mozzate, corpi mutilati, budella che balzano per terra. In particolare, si descrive l’abilità di Orlando nel combattimento che uccide 20 saraceni in 10 colpi. Entrano in scena anche Manfredonio, Dodone e Ulivieri. Dodone combatte per vendicarsi di quando Manfredonio voleva impiccarlo. Uliveri viene colpito duramente da Manfredonio. Ulivieri cade a terra proprio davanti a Meridiana, la quale decide di aiutarlo. Morgante che ha assistito alla scena si offre di vendicare Ulivieri e si lancia in battaglia contro Manfredonio ma viene fermato da Meridiana che vuole il duello per sé. Anche Ulivieri, dopo 1 ora di battaglia tra Meridiana e Manfredonio, prova a unirsi nel combattimento ma Meridiana glielo vieta. A un certo punto, Meridiana riflette sul suo comportamento e si rende conto di essere stata troppo spietata nei confronti di Manfredonio (“Non fu lodata mai d’esser crudele, Alcuna donna al suo amante fedele”) che non vuole essere ingrata verso Manfredonio, lasciandolo libero di morire se questo è il suo desiderio. Meridiana lo invita però a tornare a casa con il popolo e di sciogliere l’amore che prova per lei. Manfredonio respinge l'offerta di Meridiana di tornare a casa e sceglie di continuare a combattere fino alla morte perché il nodo dell’amore che prova per lei non può essere sciolto se non dalla morte. Alla fine Manfredonio, sconsolato, accetta la proposta di Meridiana e decide di ritornare con il suo popolo nel suo regno (Siria). Manfredonio porterà sempre con sé il diamante che Meridiana gli dona come ricordo dell’amore costante provato per lei. Dopo aver chiesto perdono a Ulivieri per averlo abbattuto e aver detto addio a Meridiana con lacrime e sospiri, Manfredonio si prepara a partire per tornare in Siria insieme ai suoi uomini. Nel frattempo, Morgante aveva ancora intenzione di combattere ma viene fermato da Orlando, che lo convince a smettere. La battaglia termina con molte perdite da entrambe le parti e Morgante continua la sua avventura con Orlando e Rinaldo. CANTARE 10 76 Ch’era scudier compagno di Terigi; E mentre che cavalca, s’è abbattuto, Forse sei leghe discosto a Parigi, Dove giaceva un bel vecchio canuto. Questo era, trasformato, Malagigi, Tal che Rinaldo non l’ha conosciuto, Sur una riva appoggiato alla grotta, Orlando pone al suo parlar l’orecchio, Di maraviglia credette stupire; Ma poi diceva: Un pulcin fra ’l capecchio Par che mi stimi Rinaldo al suo dire: E così indrieto a Rinaldo scrivea, Che del suo minacciar beffe facea. 87 E che quando e’ partì da re Carlone, Esser dovea per certo un poco in vino; Però scambiò la sua spada e ’l ronzone;34 E che sia ver, che dormi pel cammino. Poi gli diceva per conclusione: Perchè tu se’, Rinaldo, mio cugino, Voler con teco quistion non m’aggrada, Però ti mando il cavallo e la spada. 88 Ma se ’l mio indrieto non rimanderai, Io ti dimosterrò che me ne duole; E se quistion di nuovo cercherai, Tu sai ch’io so far fatti, e tu parole: E poco meco alfin guadagnerai, Chè sai che gnun non temo sotto il sole: Or tu se’ savio, e so che tu m’intendi; Il mio cavallo e la spada mi rendi. 89 Tornato Ruinatto a Montalbano Colla risposta del suo car signore, Subito il brando suo gli pose in mano, E consegnò Baiardo il corridore; Rinaldo sbuffa come un leo silvano, Per quel che scrisse il roman senatore, E rimandava indrieto un suo valletto, A dir così, chiamato Tesoretto: Rinaldo invia una lettera ad Orlando minacciando ritorsioni se non gli vengono restituiti il cavallo e la spada. Orlando, dal canto suo, si meraviglia del contenuto della lettera e sospetta che Rinaldo sia ubriaco e che si sia addormentato durante il cammino. Orlando, gli promette di restituirgli i beni, ma vuole a sua volta la sua spada e il suo cavallo. Rinaldo, ricevuti Baiardo e la spada, sbuffa per quello che ha scritto Orlando e rimanda indietro un suo valletto (assistente) di nome Tesoretto. 90 Che non volea la spada rimandare, Nè Vegliantin, se non gli promettea Con lui doversi in sul campo provare, Che di minacce sa che non temea; E che nel pian lo voleva affrontare Di Montalban coll’armi, conchiudea. Tesoretto n’andò presto ad Orlando, E la ’mbasciata venne raccontando. 91 Orlando, ch’era e discreto e gentile, Ma molto fier quand’egli era adirato, Tanto che tutto il mondo avia35 poi vile, A Carlo tutto il fatto ha raccontato, E come fece la risposta umíle, Credendo aver Rinaldo umiliato: Ma poi ch’egli è per questo insuperbito, D’andarlo a ritrovar preso ha partito. 92 E che non ricusò battaglia mai, Che non intende aver questa vergogna. Carlo diceva: A tuo modo farai; Se così sta, combatter ti bisogna. Orlando disse a Tesoretto: Andrai Al prenze, e dì ch’io non so se si sogna; Ma se davver m’invita alla battaglia, Doman lo troverrò, se Dio mi vaglia. 93 E che m’aspetti, com’e’ dice, al piano, Dal campo un poco de’ Pagan discosto. Tesoretto ritorna a Montalbano, E disse quel che Orlando avea risposto. Armossi col nipote Carlo Mano, Poi che lo vide al combatter disposto; Però che Carlo molto Orlando amava, Così nel suo segreto il prenze odiava. [p. 201 modifica] 94 Are’ voluto Carlo onestamente Un dì Rinaldo dinanzi levarsi, E conosceva Orlando sì possente, Che dice in questo modo potre’ farsi. Rinaldo era inquieto e ’mpaziente, Nè Carlo volse di lui mai fidarsi, Rispetto avendo alle sue pazze furie; Poi gli avea fatte a’ suo’ dì mille ingiurie, Rinaldo si era infuriato e aveva risposto che non avrebbe restituito gli oggetti a meno che Orlando non accettasse di battersi con lui in duello. Orlando, molto offeso, ha accettato la sfida e si è preparato per la battaglia. Carlo Magno decide di supportare Orlando nella battaglia, nonostante abbia sempre odiato suo nipote Rinaldo per le sue pazze furie. La sfida viene accettata e la battaglia è imminente. 95 E tratto la corona già di testa. E’ si perdona per certo ogni offesa, Ma sempre pur nella memoria resta, E così l’uno all’altro contrappesa. Carlo pensossi di farne la festa, Veggendo Orlando e la sua furia accesa; Orlando tolse Rondello e Cortana, Chè non ha Vegliantin nè Durlindana. 96 Meridiana e Morgante n’andorno Con Carlo e con Orlando, per vedere; I paladini assai lo confortorno, Che non si lasci il signor del quartiere Combatter col cugin suo tanto adorno, Ma contrappor non puossi allo ’mperiere; E molto Carlo Man fu biasimato, Quantunque s’è con lor giustificato. 97 Tutta la corte s’avviava drieto, Per veder questi due baron provare; Morgante avea, come savio e discreto, Isconfortato molto il loro andare: Gano il sapea, e molto n’era lieto, Dicendo: Orlando so che l’ha ammazzare Quel traditor di Rinaldo d’Amone, Il qual d’ogni mal mio sempre è cagione. 98 Altri dicien pur de’ baron di corte: Carlo mi par che perda il sentimento; Se muor Rinaldo, e ’l Conte sia più forte, Non una volta il piangerà, ma cento; Se ’l prenze dessi ad Orlando la morte, Carlo a suo' dì non sarà più contento; Vennon pur ier di paesi lontani, Per salvar noi dall’oste de’ Pagani: 99 E tutto il popol rallegrato s’era; Ora è in un punto perturbato e mesto: Erminion colla sua gente fera Non s’è partito, e car gli sarà questo. Così si parla in diversa maniera, Tanto è che ’l caso a ciascuno è molesto, E sopra tutto la gente pagana Si condoleva con Meridiana. 108 Orlando intanto a Rinaldo s’accosta, E dice: Se’ tu, cugino, ostinato Combatter meco? Se vuogli, a tua posta Piglia del campo, e ciascun sia sfidato. Rinaldo non gli fece altra risposta, Se non che presto il cavallo ha voltato. Carlo diceva: Io ne son malcontento; Dicea di fuor, ma nol diceva drento. 109 Mai non si vide falcon peregrino Voltarsi così destro, o altro uccello, Come Rinaldo fece Vegliantino, O come il conte Orlando fe Rondello: Maravigliossi il gran re saracino Dell’atto fiero e valoroso e bello: Rinaldo volse a Vegliantino il freno, E così il conte, in manco d’un baleno. Carlo Magno, nonostante le obiezioni del signor d’Inghilterra che gli sconsiglia il duello, consente alla battaglia di avvenire. Infine, Rinaldo e Orlando si preparano per il duello, con Rinaldo che volge Vegliantino, il suo cavallo, e Orlando che fa lo stesso con Rondello. 110 Un mezzo miglio s’eran dilungati, E ritornavan con tanta fierezza Ch’e’ Saracin dicien tutti ammirati: Folgore certo va con men prestezza; Se questi son pel mondo ricordati, È ben ragione, e se Carlo gli apprezza. Erminion tenea ferme le ciglia, Chè gli parea veder gran maraviglia. 111 Ma quello Iddio che regge il mondo e’ cieli, Mostrò ch’egli è di giustizia la fonte, E quanto egli ama i suoi servi fedeli: Mentre che Vegliantin va inverso il conte, Par che in un tratto se gli arricci i peli, E volse indrieto a Rinaldo la fronte, Come se ’l suo signor riconoscessi, E d’andar contra a lui si ritenessi. 112 Gridò Rinaldo: Che diavolo è questo? Voltati in drieto; che fai tu, rozzone? Orlando gittò via la lancia presto: In questo apparve alla riva un lione, Il qual poi ch’ognun vide manifesto, Ebbe di questo fatto ammirazione. Il fer lione a Orlando n’andoe, Ed una zampa in alto su levoe; 113 Nella qual’era una lettera scritta, Che Malagigi a Orlando mandava; Orlando la pigliò colla man dritta, E come l’ebbe letta, sogghignava. Rinaldo colla mente irata e afflitta Di Vegliantin di subito smontava; Vide il lion, che gli pareva strano, E come Orlando il brieve aveva in mano. 114 Maravigliato inverso lui venia. Orlando a dir gli cominciò discosto, Come Malgigi ingannati gli avia, E tutto il fatto gli contava tosto; E poco men che per la lor follia Non avea l’un di lor pagato il costo. Quando Rinaldo la lettera intende, Tosto il cavallo e ’l brando al conte rende. Mentre si avvicinano di nuovo al campo di battaglia, Vegliantino improvvisamente si ferma perché riconosce il suo padrone (Orlando) e Rinaldo lo rimprovera. Ma poi tutti vedono un leone che si avvicina a Orlando e gli dà una lettera che Malagigi gli ha inviato. Orlando spiega a Rinaldo che Malagigi li ha ingannati e Rinaldo gli restituisce la spada e il cavallo. La scena sottolinea il tema della giustizia divina, che premia i servi fedeli di Dio e punisce i peccatori. 115 E ringraziò l’eterno e giusto Dio, Ch’avea questo miracol lor mostrato; E disse: Or mi perdona, cugin mio, E Carlo e gli altri, ch’io ho troppo errato; Ma Gesù Cristo nostro umile e pio Veggo ch’al fin m’ha pur ralluminato: E riguardando ove il lione era ito, Non lo riveggon, ch’egli era sparito. 116 Carlo e’ baroni avien tutto veduto, E come Malagigi scrive loro, Che fu quel vecchio che trovò canuto, Ch’avea scambiati i cavalli a costoro; E ringraziava Iddio c’ha proveduto, Che duo baron non si dessin martoro. Erminion, che vedea tutto aperto, Parvegli questo un gran miracol certo. 117 E cominciò a dolersi di Macone, Dicendo: Tu se’ falso veramente, E quel che ci ha mandato quel lione, È il vero Dio e padre onnipotente; S’io ti fe’ sacrificio o orazione Alla mia vita mai, ne son dolente, E in ogni modo Cristo vo’ adorare: E cominciò con Carlo a lacrimare. 118 O Carlo avventurato, o Carlo nostro, Ogni grazia per certo a noi procede, Per quel ch’io veggo omai, da Gesù vostro; Veggo ch’egli ha de’ buon servi mercede, E ’l gran miracol ch’egli ha qui dimostro, E che Macone è falso e chi gli crede: Da ora innanzi, degno Carlo Mano, Io mi vo’ battezar colla tua mano. 119 Carlo abbracciò con molta affezione Il re, che tutto parea cambiato Nel volto, e pien di molta contrizione; E disse: Cristo sia sempre laudato; Se vuoi ch’io ti battezzi, Erminione, Andianne al fiume che ci è qui da lato; E così finalmente andorno al fiume, E battezzòl secondo il lor costume. Dopo aver letto la lettera, Rinaldo chiede scusa per il suo errore. Tutti ringraziano Dio per il miracolo. Erminione ripudia Maometto dicendo che è un dio falso e decide di convertirsi al cristianesimo. Carlo battezza Erminione nel fiume vicino. Poi Carlo torna a Parigi e viene organizzata una grande festa alla corte. Gano si rammarica per l’esito di questa guerra. 120 Così fu battezzato il re Pagano, E battezzossi il famoso ammirante, Ch’era stato all’assedio a Montalbano, Com’io già dissi, detto Lionfante; E s’alcun pur non si vuol far Cristiano De’ Saracini, ritornò in levante. Carlo a Parigi con gran festa torna, Dove co’ suoi baron lieto soggiorna. 121 Ma il traditor di Gan, ch’era fuggito Fuor di Parigi, e stava di nascoso, Poi ch’egli intese come il fatto era ito, Drento al suo cor fu molto doloroso; E pensa come Carlo abbi tradito, E giorno e notte non truova riposo; Sente che in corte si faccia gran festa, La qual cosa più ch’altro gli è molesta. RIASSUNTO 10° CANTARE 48 E accordossi con Rinaldo insieme, Che non gli fia la vita perdonata; E Malagigi ha perduta ogni speme, Però che Carlo un’ostia consecrata Gli ha messo addosso, chè dell’arte teme Di Malagigi; e la prigion guardata In modo avea, che non si può aiutare, Nè con ingegni o spirti liberare. 49 Diceva Orlando: Io per me son disposto Insieme con Astolfo ire a morire. Disse Rinaldo: Ed io; facciam pur tosto, Però che non è tempo da dormire. Come il Sol fu nell’ocean nascosto, Subito l’arme si fecion guernire; E Ricciardetto con seco menorno, E cavalcâr la notte insino al giorno. 50 La mattina per tempo capitati Furon fuor delle porte di Parigi, E non si sono a gnun manifestati, Ma stettonsi nascosi in San Dionigi: E certi viandanti son passati; Orlando drieto mandò lor Terigi, A domandar se novelle sapieno Di corte, e quel che i paladin facieno. 51 Fugli risposto: Niente sappiàno, Se non ch’egli è certo mormoramento, Ch’un de’ baroni impicca Carlo Mano Questa mattina per suo mancamento; Le forche qua su la strada veggiàno. Altre novelle non sentimmo drento. Terigi presto ritornava al conte, E di Parigi le novelle ha conte. 52 Disse Rinaldo: E’ fa pur daddovero; Ben debbe goder or quel traditore. Diceva Orlando: E’ fallerà il pensiero, Se tu mi segui, cugin, di buon cuore. Disse Rinaldo: Morir teco spero, E ’l primo uccider Carlo imperadore, Prima ch’Astolfo, come Gano agogna, Vegga morir con tanta sua vergogna. Rinaldo, Orlando e Ricciardetto si incontrano a Montalbano e decidono di aiutare Astolfo partendo quando è buio. E’ una tendenza questa, quella di partire quando la luce scompare. Malagigi, il mago di corte, non può aiutare a causa della sua prigionia. Orlando e Rinaldo decidono di andare a Parigi e salvare Astolfo. Arrivati a Parigi, si nascondono a San Dionigi e apprendono da alcuni viandanti che Carlo Magno ha programmato di impiccare uno dei suoi baroni quel mattino. Terigi, mandato da Orlando, conferma la notizia e i paladini decidono di agire per salvare Astolfo. Rinaldo propone di uccidere Carlo Magno prima che Astolfo sia giustiziato. 53 Io trarrò a Gano il cuor prima del petto, Ch’i’ sofferi veder mai tanto duolo; Così la fede, Orlando, ti prometto, Io verrò teco in mezzo dello stuolo Così sbandito sanza alcun sospetto, S’io vi dovessi morto restar solo. E così insieme congiurati sono Di mettersi alla morte in abbandono. 54 E stanno alla veletta,9 per vedere Qualunque uscissi fuor della cittade; Così Terigi, ch’era lo scudiere, Aveva gli occhi per tutte le strade: Ognuno in punto teneva il destriere, Ognun guardava come il brando rade. Diceva Orlando a Terigi: Sarai Sul campanile, e cenno ci farai. 55 Ma fa che bene in ogni parte guardi, Acciò che error per nulla non pigliassi: Se tu vedessi apparire stendardi, O che alle forche nessun s’accostassi, Subito il dì: chè noi non fussin tardi, Che ’l manigoldo intanto lo ’mpiccassi: Ma, a mio parer, sanza dimostrazione S’ingegnerà mandarlo Ganellone. 56 Gan la mattina per tempo è levato, E ciò che fa di bisogno ordinava; Insino al manigoldo ha ritrovato: Non domandar com’e’ sollecitava. I paladini, ognun molto ha pregato, Ma Carlo chi lo priega minacciava, Perch’ostinato era farlo morire, Tanto che pochi volean contraddire. 57 Avea molto pregato l’Ammirante, Che con Erminion si fe cristiano: Questo era quel famoso Lionfante, Che prese Astolfo presso a Montalbano: Meridiana pregava e Morgante, Ma tutto il lor pregare era al fin vano. Gan da Pontieri in su la sala è giunto, Dicendo a Carlo: Ogni cosa è già in punto. Terigi, lo scudiere di Orlando, è incaricato di tenere d'occhio le strade della città e di segnalare loro qualsiasi novità. Carlo è irremovibile nella sua decisione di farlo morire. Gano, quindi, annuncia che tutto è pronto per l'esecuzione di Astolfo. 58 E taglia a chi pregava le parole, Dicendo: O imperador, sanza giustizia Ogni città le barbe scuopre al sole;10 Per non punire i tristi e lor malizia, Vedi che Troia e Roma se ne duole, E sanz’essa ogni regno precipizia; La tua sentenzia debbe avere effetto, E non mutar quel ch’una volta hai detto. 59 Carlo rispose: Gan, sia tua la cura: Fa che la giustizia abbi suo dovere; Quel che bisogna, a tutto ben procura. Gan gli rispose: E’ fia fatto, imperiere, Di questo sta colla mente sicura; Se Astolfo prima volessi vedere Ch’io ’l meni via, il trarrò di prigione, Per isfogarti a tua consolazione. 60 Rispose Carlo: Fatelo venire. Astolfo innanzi a Carlo fu menato; Carlo comincia iratamente a dire, Poi ch’a’ suoi piè se gli fu inginocchiato: Com’hai tu avuto, Astolfo, tanto ardire, Con quel ribaldo, tristo, scellerato, Venire a corte, e già circa tre mesi Mettere in preda tutti i miei paesi? 61 Perch’io avevo Rinaldo sbandito, Quand’io pensai tu mi fussi fedele, A Montalban con lui ti se’ fuggito, E fatto un uom micidiale e crudele; Del tuo peccato è tempo sia punito, Che si scostassi di Parigi aspetta, Tanto che fussi giunto allo scaglione: Dicendo: Quanto più si scosta Gano, Tanto più salvo poi l’aremo in mano. 71 Lasciali pur alle forche venire, Chè se noi gli assaltassim così tosto, Nella città potrebbon rifuggire; Io vo’ che ’l traditor tarpiam discosto:13 Astolfo in modo alcun non dee morire; Noi giugnerem più a tempo che l’arrosto:14 Forse verrà a veder lo ’mperadore, E vo’ colle mie man cavargli il cuore. 72 I Maganzesi so che sgomberranno, Come vedranno scoperto il Quartieri, O ’l Lione sbarrato mireranno. Così si furno accordati i guerrieri, E come i can cogli orecchi alti stanno, Per assaltare o lepretta o cervieri. Gan traditor con molto oltraggio e pena Astolfo in verso le forche ne mena. Emergono due prospettive: quella di chi è presente e talvolta partecipa al supplizio e quella dei paladini che dall’alto vigilano e preparano il salvataggio in un crescendo di suspense. Astolfo viene condotto verso le forche, ma i paladini decidono di aspettare che Gano si allontani per assaltare i Maganzesi e salvarlo. 73 Non potre’ dire il signor d’Inghilterra Come schernito sia da quella gente; Per non vederla, gli occhi spesso serra, E come agnello ne venía paziente, Già tanto tempo in corte stato è in guerra Sì degno paladin tanto eccellente, Morti a’ suoi dì con le sue proprie mani, Per salvar Carlo, migliaia di Pagani. 74 O Carlo imperador, quanto se’ ingrato! Non sai tu quanto è in odio a Dio tal pecca? Non hai tu letto, che per tal peccato La fonte di pietà su in ciel si secca? E con superbia insieme mescolato, Caduto è d’Aquilon nella Giudecca15 Con tutti i suoi seguaci già Lucifero; Tanto è questo peccato in sè pestifero. 75 Tu hai sentito pur che Scipione,16 Sendo di senno vecchio e giovan d’anni, A Annibal tolse ogni reputazione, Di che tanto acquistata avea già a Canni: Furno i Romani ingrati alla ragione, Onde seguiron poi sì lunghi affanni: Questo peccato par che ’l mondo adugge, E finalmente ogni regno distrugge. 76 Questo peccato scaccia la giustizia, Sanza la qual non può durare il mondo; Questo peccato è pien d’ogni malizia, Questo peccato a gnun non è secondo; Gerusalem17 per questo precipizia, Questo peccato ha messo Giuda al fondo; Questo peccato tanto grida in cielo, Che ci perturba ogni sua grazia e zelo. 77 Quel c’ha fatto per te già il paladino, Credo tu ’l sappi, ma saper nol vuoi, Mentre che fu tra ’l popol saracino; So che tra gli altri assai lodar quel suoi.18 Non ti ricordi, figliuol di Pipino, De’ beneficj, e penter non val poi: E pur se fatta ha cosa che sia atroce, Del tuo Gesù ricordati già in croce; 78 Che perdonava al popol che l’offende, Raccomandalo al padre umilemente: Astolfo in colpa ginocchion si rende, E chiede a te perdon pietosamente: E pur se ’l giusto priego non t’accende, Di grazia ti domanda finalmente, Che per le man di Gan non vuol morire, E tu nol vuoi di questo anco esaudire. 79 E non sai ben che se quel guida a morte Astolfo, così guida te, Carlone, E’ tuoi baroni, e tutta la tua corte. Fa che tu creda sempre a Ganellone; Ben ti conducerà fuor delle porte, Quando fia tempo, ancor questo fellone: E pel consiglio suo ti fai crudele E ’ngrato contro al servo tuo fedele. Sembra esserci un intervento del narratore che menziona una serie di personaggi storici-peccatori mettendo in luce le conseguenze dei loro peccati. In questo modo, l’autore fa riferimento all’ingratitudine di Carlo e alle possibili conseguenze del suo comportamento. 80 Astolfo, poi che si vide condotto Presso alle forche, e gnun per sè non vede; Un pianto cominciò molto dirotto, Quando in sul primo scaglion pose il piede, E’ Maganzesi il sospingean di sotto; E disse: O Dio, è spenta ogni merzede, Non è pietà nel mondo più nè in cielo, Pe’ tuoi fedel che credon nel Vangelo. 81 S’io ho tre mesi assaltato alla strada Per disperato, e pien di giusto sdegno, Consenti tu ch’alle forche ne vada? Io ho tanto assaltato il Pagan regno, E tanti per te morti colla spada, Che di misericordia ero pur degno: Com’un ladron m’impicca Carlo Mano, E per più ingiuria il manigoldo è Gano; 82 Quel che t’ha fatti mille tradimenti, E mille e mille e mille alla sua vita, E tanti ha già de’ tuoi Cristiani spenti! Ov’è la tua pietà, s’ella è infinita? A questo modo ch’io muoia or consenti? Per la tua deità, ch’è in ciel gradita, Per la tua santa e gloriosa Madre, Abbi pietà del mio misero padre; 83 Se per me stesso non l’ho meritato, Per le sue opre degne e giuste e sante: Ma tu sai pur, se pel tempo passato Combattuto ho nel Ponente e Levante, Tal ch’i’ pensavo d’avere acquistato Altra corona o carro trionfante, Altri stendardi di più gloria e fama: Or col capresto Gan ladron mi chiama. 84 Avino era venuto, per vedere Quel che veder non vorrebbe per certo; Ma ’l grande amor lo sforza, e più tenere Non potè il pianto, tanto avea sofferto. Guardava Astolfo contr’al suo volere Le forche in alto, e ’l camin gli pare erto, Fece le spalle pel gran duol più gobbe; Raccomandògli sopra ogni altra cosa Il vecchio padre, e la sua cara sposa. 94 Talvolta gli occhi volgeva a Parigi; Quando guardava inverso Montalbano; Non sa che ’l suo soccorso è in San Dionigi. Diceva allor, per dileggiarlo, Gano: Che guardi tu? se ne vien Malagigi? E’ fia qui tosto, egli è poco lontano: Perchè con meco Astolfo, così adiriti? Ch’e’ liberar ti farà da’ suoi spiriti. 95 E nondimeno un’ostia, com’io dissi, Gli avea cucito di sua mano addosso Nella prigion, chè caso non venissi Che Malagigi l’avessi riscosso, Acciò che in ogni modo quel morissi. Diceva Astolfo: Omè! che più non posso Risponder, traditor, quel che tu meriti De’ tuoi peccati presenti e preteriti. Nonostante la sua sofferenza, Astolfo rifiuta di rispondere alle provocazioni di Gano, che ha posto un'ostia sul suo petto per assicurarsi che morisse se fosse stato liberato. 96 Gan lo schernia di nuovo con parole, E pure al manigoldo raccennava; E ’l manigoldo tira come suole. Astolfo a poco a poco s’avviava, Però che solo un tratto morir vuole, E così finalmente s’accordava: I Maganzesi pur gridan dintorno E sbuffan beffe con ischerno e scorno. 97 Orlando in questo Astolfo in alto vide, E disse: Tempo non è da star saldo: Non senti tu quel tumulto e le gride? E ’l simigliante diceva Rinaldo: Io veggo il manigoldo che l’uccide, E già il capresto gli acconcia il ribaldo: Non aspettiam che gli facci più ingiuria. Così di San Dionigi escono a furia. 98 Rinaldo punse in su’ fianchi Baiardo, Che non si vide mai saltar cervietto, Ch’a petto a questo non paressi tardo; Così faceva Orlando, e Ricciardetto: Non è lion sì presto o liopardo; Terigi drieto seguiva, il valletto: Rinaldo scuopre il Lione sbarrato, Orlando ha il segno del Quartier mostrato. 99 Astolfo pure ancora stava attento, Come chi spera insino a morte aiuto; Vide costor che venien come un vento, Non come strale o come uccel pennuto: Furno in un tratto i lupi tra l’armento, Che quasi ignun non se n’era avveduto; Ma poi che Orlando e Rinaldo conosce, Fu posto fine a tutte le sue angosce. 100 E’ parean proprio un nugolo di polvere; Giunse in un tratto la folgore e ’l tuono. Il manigoldo si facea già assolvere Al duca Astolfo, e chiedeva perdono, Che gli volea poi dar l’ultimo asciolvere; E messo avia la vita in abbandono, E domandava di grazia, in che modo Far gli dovessi che scorressi il nodo. Rinaldo decide di intervenire e cavalcando il suo destriero Baiardo, seguito da Orlando e Terigi, si avvicina alla scena. Astolfo rimane in attesa di aiuto, quando vede i tre cavalieri arrivare come un vento. Infine, il manigoldo (Gano) chiede perdono ad Astolfo e cerca di risolvere la situazione. 101 Guarda fortuna in quanta estremitate Condotto avea col capresto alla gola Il paladin di tanta degnitate, Che non facea di morir più parola! Avea mille vittorie già acquistate, E domandava ora una cosa sola, Che ’l manigoldo acconciassi il capresto, Per modo che scorressi il nodo presto. 102 Giunto che fu tra’ Maganzesi Orlando: Ah popol traditor! gridava forte; E misse mano a Durlindana il brando. Rinaldo grida: Alla morte, alla morte! E poi si venne alle forche accostando; Trasse Frusberta, e legami e ritorte Tagliò in un colpo, e le forche, e la scala; E ogni cosa in un tratto giù cala. 103 Mai non si vide colpo così bello, Tanto fu l’ira, la rabbia e ’l furore; Astolfo cadde leggier come uccello, Tanto in un tratto riprese vigore; Il manigoldo si spezza il cervello; Gan da Pontier fuggiva, il traditore; Avin che ’l vide, drieto a lui cavalca, Ma non potieno uscir fuor della calca. 104 Orlando è in mezzo di que’ di Maganza, E mena colpi di drieto e davante Con Durlindana, e faceva l’usanza: Quanti ne giugne, al ciel volgon le piante. E Ricciardetto, c’ha molta possanza, Molti n’uccide col brando pesante; Com’un leon famelico ognun rugge: Gan da Pontier verso Parigi fugge. 105 E’ si vedea in un tratto sbaragliare I Maganzesi, e fuggir per paura Chi qua chi là, pur che possa campare. Trasse Rinaldo un colpo per ventura, Un Maganzese morto fe cascare E tolsegli il cavallo e l’armadura; E rassettava Astolfo d’Inghilterra. E corron tutti poi verso la terra. Nella confusione della battaglia, Astolfo viene quasi impiccato dal manigoldo, ma riesce a salvarsi grazie all'intervento di Orlando. Alla fine, i paladini sconfiggono i Maganzesi e Gano prova a fuggire verso Parigi. 106 I Maganzesi innanzi si cacciavano Come il lupo suol far le pecorelle, E questo e quello e quell’altro tagliavano, E braccia in terra balzano e cervelle; Fino alle mura i colpi raddoppiavano, Cacciando i brandi giù per le mascelle; Altri avean fessi insin sopra gli arcioni, Chi insino al petto, e chi insino a’ talloni. 107 Astolfo poi ch’a caval fu montato, Tra’ Maganzesi a gran furor si getta, Gridando: Popol crudo e rinnegato, Gente bestiale, iniqua e maladetta, Io ti gastigherò del tuo peccato; E con la spada facea gran vendetta, E molta avea di quella turba morta, Prima ch’entrati sien drento alla porta. 108 Ricciardetto era a Ganellone a’ fianchi, E col caval lo seguia a tutta briglia: Dunque convien che ’l traditore arranchi, Ch’io vo’ in sul carro con esso mandarlo. Rinaldo ha deciso di prendere Carlo per il braccio e di spogliarlo della corona, per poi farlo girare per la città su un carro. Carlo, che ha sentito le minacce di Rinaldo, si è nascosto nella casa di Orlando insieme ad Alda. Nel frattempo, Gano cerca di fuggire ma viene catturato da Ricciardetto e poi consegnato a Orlando. Rinaldo vuole uccidere Gano, ma Orlando lo convince ad aspettare la presenza di Carlo per poterlo punire insieme a lui sul carro. 117 Per tutta la città tutto quel giorno Cercato fu di Carlo; e finalmente, Non si trovando, al palagio n’andorno, E ’l conte Orlando è in suo luogotenente: Alda la bella col suo viso adorno La notte se n’andò celatamente, Ed ogni cosa diceva al suo sposo Com’ell’avea lo ’mperador nascoso. 118 Orlando disse: Fa che tu lo tenga Celato tanto, che passi il furore, E fa che in modo nessun non avvenga, Che nulla manchi al nostro imperadore; Acciò che ignun disagio non sostenga, Ch’egli è pur vecchio e mio padre e signore. Così diceva: e fa che sia segreto; Vedi s’Orlando nostro era discreto. 119 E’ gl’increscea di Carlo quanto puote, E di Rinaldo dubitava forte; E per pietà ne bagnava le gote, Che non gli dessi alla fine la morte, Perch’era vecchio, e lui pur suo nipote. E sa che guasta sarebbe la corte. Così furno alcun giorno dimorati, E’ Maganzesi morti, e chi scacciati. 120 Rinaldo pure Orlando ritoccava, Che si dovessi con ogni supplizio Uccider Gan, che così meritava, E che dovessi a lui dar quest’uffizio: Astolfo d’altra parte il domandava Di grazia in luogo di gran benefizio, Che di sue ingiurie far volea vendetta: Orlando rispondea, che Carlo aspetta. 121 E che farebbe sì crudel giustizia Di lor, ch’ognun ne sarebbe contento. Gan nel suo core avea molta tristizia, E dubitava di molto tormento, Come colui ch’è pien d’assai malizia. Orlando, ch’era savio a compimento, E di Rinaldo conoscea l’umore, Lasciava pur raffreddarlo nel core. Orlando cerca di proteggere Carlo e chiede ad Alda di tenerlo nascosto fino a quando non sarà pacata l’ira di Rinaldo. Nonostante le pressioni di Rinaldo e Astolfo che volevano uccidere Gano, Orlando chiede ancora di aspettare la cattura di Carlo. 122 Dopo alcun giorno, quando tempo fue, Gli cominciò così parlando a dire: Di Carlo, omai, dimmi che credi tue? Per disperato dovette morire; Ucciso si sarà colle man sue; Fuor di Parigi non si vide uscire: E quel che più mi dà perturbazione, È che stanotte il vidi in visione. 123 E’ mi pareva, a vederlo nel volto, Che fussi tutto afflitto e doloroso, Di quel color ch’è l’uom quando è sepolto; La barba e ’l petto tutto sanguinoso, E tutto il capo arruffato e ravvolto; E con un atto molto disdegnoso Mi guardassi nel viso a mano a mano Un Crocifisso ch’egli aveva in mano. 124 Dond’io n’ho tutto questo giorno pianto, Chè, come desto fu’, disparì via. Ed io temendo mi levai; e ’ntanto Feci priego alla Vergine Maria, Al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo, Che ’nterperetar dovessi quel che sia: E parmi aver nella mente compreso, Che Carlo è morto, e Cristo abbiamo offeso. 125 Non si dovea però volerlo morto, Però che pur tenuta ha la corona Già tanto tempo, e pur si vede scorto Quanto Dio amassi la sua stirpe buona, Chè dal Ciel lo stendardo gli fu porto, Che non fu dato al mondo mai a persona: Temo ch’offeso non abbiam Gesue Pe’ suoi gran merti e per le sue virtue. 126 E credo che sarebbe utile ancora, Che si mettessi per Parigi un bando, Che chi sapessi ove Carlo dimora O vivo o morto, lo venga insegnando: E come giusto imperador s’onora, Che si venissi il sepolcro ordinando: Però che il ciel, se ha conceputo sdegno Della sua morte, mostrerà gran segno. Rinaldo riferisce di aver avuto una visione in cui Carlo appare afflitto e sanguinante, con un crocifisso in mano, il che suscita timori e dubbi sulla sua colpevolezza (“E parmi aver nella mente compreso, Che Carlo è morto, e Cristo abbiamo offeso”). Rinaldo suggerisce l'idea di emettere un bando per cercare di trovare il corpo di Carlo e, nel caso in cui sia morto, propone di seppellirlo con i giusti onori, al fine di placare l'ira divina che potrebbe portare conseguenze negative sul regno e sulla stirpe. 127 Quando Rinaldo le parole intende, Subitamente nel volto cambiossi, E di tal caso sè molto riprende, Dicendo: Io non pensai che così fossi; E nel suo cor tanta pietà s’accende, Che gli occhi già son lacrimosi e rossi, E disse: Orlando, quel che detto m’hai Mi pesa troppo, e dolgomene assai. 128 Ma non pensai però, che tanto male Di questo caso seguitar dovessi; Ma dopo il fatto il penter poi non vale: A me par verisimil s’uccidessi, Perchè pur sendo di stirpe reale, Arà voluto uccidersi lui stessi, Piuttosto ch’altri vi ponessi mano, Come di Annibal sai che letto abbiàno. 129 Mandisi il bando, al mio parere, e tosto, Che lo riveli sanza alcun sospetto Chi l’ha tenuto o tenesi nascosto; Però che di dolor mi s’apre il petto, E d’onorarlo per Dio son disposto Siccome imperador magno e perfetto: E sempre piangerò questo peccato, A Montalbano, e segreto staroe. 6 E manderotti lettere poi scritte Che parrà che sien fatte nella Mecche:2 Dirò che le mie gente sieno afflitte, E che punite omai sien tante pecche; E molte altre parole a te diritte: Ch’io vo’ tornare a dir salamalecche,3 Peccavi, Domin, miserere mei Delle mie colpe e de’ processi rei. 7 Tu mostrerai le lettere palese; Rinaldo crederà ch’io sia lontano, E ch’io non torni più ’n questo paese: Un dì ch’egli esca fuor di Montalbano, Subito insieme saremo alle prese, E so ch’io l’uccidrò con la mia mano; E come morto fia, sai che ’l tuo regno Sicuro è poi, e tu, imperator degno. La preghiera iniziale è rivolta alla Vergine Maria, che viene invocata come fonte di pietà e di grazia, madre dei peccatori e avvocata degli uomini. Il narratore descrive la sua ammirazione per la Vergine e chiede di non abbandonarlo mentre scrive la storia che sta per raccontare. Rinaldo vuole uccidere Gano. Tuttavia, Carlo decide di graziare Gano, suscitando il disappunto del popolo. Rinaldo malcontento ritorna insieme a Riciardetto a Montalbano. Gano decide segretamente e sotto il consenso di Carlo di ritornare a Montalbao perché Gano riesce a convincere Carlo che Rinaldo è la sua minaccia maggiore. Gano propone di scrivere delle lettere false che sembrano provenire dalla Mecca, in cui ammette la sua colpa e chiede perdono per i suoi errori. Queste lettere verranno mostrate a Rinaldo, che crederà che Gano sia lontano e non si accorgerà del suo ritorno a Montalbano. Il progetto di Gano è quello di assaltare Rinaldo non appena quest’ultimo esca da Montalbano, per poi ucciderlo, garantendo così la sicurezza del regno di Carlo. RIASSUNTO 11 E 12 Queste ottave del Morgante di Pulci raccontano l'incontro tra Astolfo e Gano di Maganza, che aveva intenzione di uccidere Astolfo. Gano lo accusa di essere un traditore della corte di Carlo Magno. Astolfo non risponde, ma Gano lo consegna a Carlo Magno, suggerendogli di farlo impiccare per i suoi peccati. Carlo lo mette quindi in prigione a Parigi in attesa di giustizia. Rinaldo, è triste per la situazione di Astolfo e cerca di trovare un modo per aiutarlo. Quando arriva Orlando, Rinaldo lo avvisa della situazione. Rinaldo, Orlando e Ricciardetto si incontrano a Montalbano e decidono di aiutare Astolfo partendo quando è buio. È una tendenza questa, quella di partire quando la luce scompare. Malagigi, il mago di corte, non può aiutare a causa della sua prigionia. Orlando e Rinaldo decidono di andare a Parigi e salvare Astolfo. Arrivati a Parigi, si nascondono a San Dionigi e apprendono da alcuni viandanti che Carlo Magno ha programmato di impiccare uno dei suoi baroni quel mattino. Terigi, mandato da Orlando, conferma la notizia e i paladini decidono di agire per salvare Astolfo. Rinaldo propone di uccidere Carlo Magno prima che Astolfo sia giustiziato. Terigi, lo scudiere di Orlando, è incaricato di tenere d'occhio le strade della città e di segnalare loro qualsiasi novità. Carlo è irremovibile nella sua decisione di farlo morire. Gano, quindi, annuncia che tutto è pronto per l'esecuzione di Astolfo. Otton, padre di Astolfo era fuggito da Parigi per la pena del figlio. Astolfo viene portato davanti a Carlo, che lo accusa di aver tradito la sua fiducia e di aver causato danni al regno. Astolfo risponde con umiltà e tristezza, chiedendo perdono per i suoi peccati e definendosi peccatore. Astolfo chiede pietà e cerca di attirare l’attenzione su sui meriti (ad esempio quando Astolfo combatté per Carlo in Spagna); poi cita anche suo padre, Otton, ricordandogli di quando aveva servito Carlo fedelmente. Molti paladini pregano Carlo di risparmiare la vita di Astolfo, ma Carlo rifiuta le loro richieste. Emergono due prospettive: quella di chi è presente e talvolta partecipa al supplizio e quella dei paladini che dall’alto vigilano e preparano il salvataggio in un crescendo di suspense. Astolfo viene condotto verso le forche, ma i paladini decidono di aspettare che Gano si allontani per assaltare i Maganzesi e salvarlo. Sembra esserci un intervento del narratore che menziona una serie di personaggi storici-peccatori mettendo in luce le conseguenze dei loro peccati. In questo modo, l’autore fa riferimento all’ingratitudine di Carlo e alle possibili conseguenze del suo comportamento. Astolfo si chiede se c'è pietà nel mondo per i fedeli cristiani che credono nel Vangelo. Astolfo si lamenta di essere stato ingiustamente condannato e chiede a Dio di avere pietà di suo padre e di lui stesso. Avino, un altro personaggio della storia, guarda la scena con dolore e Astolfo cerca disperatamente di evitare di salire sul patibolo. Astolfo viene maltrattato dai suoi rapitori, alcuni lo deridono e Gano lo insulta e lo minaccia. Astolfo cerca di temporeggiare perché spera che qualcuno lo salvi. Il modo in cui viene trattato Astolfo ricorda la crocifissione di Cristo, infatti la scena è caratterizzata dalla tensione e dalla violenza fisica. Nonostante la sua sofferenza, Astolfo rifiuta di rispondere alle provocazioni di Gano, che ha posto un'ostia sul suo petto per assicurarsi che morisse se fosse stato liberato. Rinaldo decide di intervenire e cavalcando il suo destriero Baiardo, seguito da Orlando e Terigi, si avvicina alla scena. Astolfo rimane in attesa di aiuto, quando vede i tre cavalieri arrivare come un vento. Infine, il manigoldo (Gano) chiede perdono ad Astolfo e cerca di risolvere la situazione. Nella confusione della battaglia, Astolfo viene quasi impiccato dal manigoldo, ma riesce a salvarsi grazie all'intervento di Orlando. Alla fine, i paladini sconfiggono i Maganzesi e Gano prova a fuggire verso Parigi. Anche Astolfo partecipa alla battaglia combattendo contro coloro i quali lo volevano morto (“Gente bestiale, iniqua e maladetta, Io ti gastigherò del tuo peccato”). Ricciardetto stava seguendo Gano. Appena Carlo Magno capì che Astolfo era stato salvato grazie all’intervento dei paladini, si toglie la corona dalla testa e comincia a preoccuparsi perché sa che Rinaldo lo voleva morto. Rinaldo ha deciso di prendere Carlo per il braccio e di spogliarlo della corona, per poi farlo girare per la città su un carro. Carlo, che ha sentito le minacce di Rinaldo, si è nascosto nella casa di Orlando insieme ad Alda. Nel frattempo, Gano cerca di fuggire ma viene catturato da Ricciardetto e poi consegnato a Orlando. Rinaldo vuole uccidere Gano, ma Orlando lo convince ad aspettare la presenza di Carlo per poterlo punire insieme a lui sul carro. Orlando cerca di proteggere Carlo e chiede ad Alda di tenerlo nascosto fino a quando non sarà pacata l’ira di Rinaldo. Nonostante le pressioni di Rinaldo e Astolfo che volevano uccidere Gano, Orlando chiede ancora di aspettare la cattura di Carlo. Rinaldo riferisce di aver avuto una visione in cui Carlo appare afflitto e sanguinante, con un crocifisso in mano, il che suscita timori e dubbi sulla sua colpevolezza (“E parmi aver nella mente compreso, Che Carlo è morto, e Cristo abbiamo offeso”). Rinaldo suggerisce l'idea di emettere un bando per cercare di trovare il corpo di Carlo e, nel caso in cui sia morto, propone di seppellirlo con i giusti onori, al fine di placare l'ira divina che potrebbe portare conseguenze negative sul regno e sulla stirpe. Rinaldo è disperato ed è convinto che Carlo Magno, pur di non cadere nelle mani dei nemici, si sia suicidato. Rinaldo, pentito della sua ira, pensava già di onorare al meglio l’imperatore attraverso la costruzione di una scultura d’oro. Orlando approva il bando proposto da Rinaldo e Alda confessa di aver tenuto nascosto Carlo Magno, che è vivo ma era molto afflitto. Rinaldo si rallegra; Carlo e Astolfo si perdonano a vicenda, scusandosi per i propri errori. Il cantare 12° inizia con una preghiera rivolta alla Vergine Maria, che viene invocata come fonte di pietà e di grazia, madre dei peccatori e avvocata degli uomini. Il narratore descrive la sua ammirazione per la Vergine e chiede di non abbandonarlo mentre scrive la storia che sta per raccontare. Rinaldo vuole uccidere Gano, tuttavia Carlo decide di graziare Gano, suscitando il disappunto del popolo. Rinaldo malcontento ritorna insieme a Riciardetto a Montalbano. Gano decide segretamente e sotto il consenso di Carlo di ritornare a Montalbano perché Gano riesce a convincere Carlo che Rinaldo è la sua minaccia maggiore. Gano propone di scrivere delle lettere false che sembrano provenire dalla Mecca, in cui ammette la sua colpa e chiede perdono per i suoi errori. Queste lettere verranno mostrate a Rinaldo, che crederà che Gano sia lontano e non si accorgerà del suo ritorno a Montalbano. Il progetto di Gano è quello di assaltare Rinaldo non appena quest’ultimo esca da Montalbano, per poi ucciderlo, garantendo così la sicurezza del regno di Carlo. CANTARE 18° (le avventure di Morgante e Margutte) 1 Magnifica, Signor, l’anima mia E lo spirito mio di tua salute: E tu, per cui fu detto Ave Maria, Esaltata con grazia e con virtute, O gloriosa Madre, o Virgo pia, Coll’altre grazie che m’hai concedute, Aiuta ancor con tue virtù divine La nostra storia, infin ch’io giunga al fine. 2 Io dissi che ’l Soldan mandato avea Al re Gostanzo, e scritto che venisse A veder la giustizia che facea; Ma come il messo par che comparisse, Subito il re la lettera leggea, E ’ntese quel che ’l traditore scrisse: La lettera ad Orlando pose in mano, Dicendo: Questo ha scritto il tuo Soldano. 3 Quando ebbe tutto inteso il conte Orlando, Si volse al re Gostanzo sbigottito, E disse: A Dio e a te mi raccomando: Vedi come il Soldan m’ha qui tradito; Aiuto in questo caso ti domando. Rispose il re: Tu non arai servito A questa volta ingrato, Orlando mio, Ch’io ti darò soccorso, pel mio Dio. 4 Io farò centomila in un momento Cavalier della tavola ritonda: E se più ne volessi anche altri cento, Gente e tesoro il mio reame abbonda: Non dubitar, tu sarai ben contento, E vo’ che quel ribaldo si sconfonda; E mandò bandi, e messaggieri, e scorte, Ch’ognun venissi presto armato a corte. E morto appiè del cavallo è giù ito: Il Veglio presto salì in sul destriere Di quel Pagan, come il vide cadere. 15 E tra la turba si mette pagana, Tanto che molto Rinaldo il commenda: Quanti ne giugne la sua mazza strana, Tanti convien che morti giù ne scenda. Il mamalucco, ch’aveva l’alfana, Non si stava anco, chè v’era faccenda; E tutta quella gente si sbaraglia, Che, più che gente, era o ciurma o canaglia. Rinaldo, accompagnato da Veglio, incontra un giustiziere che sta andando a liberare due cristiani imprigionati a Babilonia. Il giustiziere dice loro che i prigionieri sono paladini e uno di loro è il marchese che ha rapito la figlia di Soldano. Quando il giustiziere arriva sul suo cavallo, Rinaldo lo affronta e lo uccide, insieme ad un altro Pagano. Veglio aiuta Rinaldo a combattere contro la folla di Pagani. 16 Il Veglio pur colla mazza di ferro Ritocca e suona, e martella e forbotta,1 Ch’era più dura che quercia o che cerro: Alcuna volta n’uccide una frotta. Rinaldo si scagliava come un verro Dove e’ vedeva la gente ridotta; E rompe, e urta, e taglia, e straccia, e spezza Ciò che trovava, per la sua fierezza. 17 Chi fuggì prima se n’andò col meglio; Ch’a tutti il segno faceva Frusberta, Ed ogni volta con la mazza il Veglio Diceva a molti che dava l’offerta: A questo modo, chi dormissi, sveglio. E rilevava la mazza su all’erta: E tutti in volta rotta si fuggieno, Anzi sparivan come fa il baleno. 18 Poi cominciò Rinaldo al Veglio a dire: Io vo’ ch’a Babillona presto andiamo, Perché il Soldan farà color morire. Rispose il Veglio: Tuo servo mi chiamo; Però comanda, ch’io voglio ubbidire, E vo’ che sempre insieme noi viviamo: Dove tu andrai, io sarò sempre teco, E basti solo un cenno, o — Vienne meco. 19 Missonsi tutti a tre presto in cammino, Il Veglio con Rinaldo e ’l mamalucco: Rinaldo, come al campo fu vicino, Dicea: Se del veder non son ristucco, Io veggo tanto popol saracino, Che non ne fu più al tempo di Nabucco: D’insegne e padiglion coperto è il piano; Non so se amici si son del Soldano; 20 Ma ’l campo, ch’assediò Troia la grande, Non ebbe la metà di questa gente, Tante trabacche e padiglion si spande; Forse il Soldan vorrà fare al presente A que’ prigion gustar triste vivande; Ma pel mio Dio ch’io lo farò dolente! Questo con seco diceva Rinaldo, E venía tutto furioso e caldo. Rinaldo, Veglio e il mamalucco (mercenario) si avvicinano a Babilonia, dove i paladini sono imprigionati. Rinaldo e Veglio si dimostrano abili guerrieri, uccidendo numerosi nemici con la loro mazza e la spada. Veglio, in particolare, dimostra una grande abilità con la sua mazza di ferro, che uccide più nemici con un solo colpo. Veglio è devoto a Rinaldo e pronto a seguirlo ovunque vada. 21 Orlando disse un giorno a Spinellone: Io vo’ che noi veggiamo i prigion nostri; Ch’era col re Gostanzo un gran barone: Andiamo, e pregherrem che ce gli mostri, Sanza cavargli fuor della prigione. Disse il Pagan: Sempre a’ comandi vostri Sarò parato, e se non ci è d’avanzo, Sarebbe da menarvi il re Gostanzo; 22 Chè so che gli fia caro di vedere Due paladin di tanto pregio e fama. Orlando disse: Troppo m’è in piacere. E Spinellone il re Gostanzo chiama: Nella città ne vanno, a non tenere Più che bisogni lunga questa trama; E la licenzia lor dette il Soldano, E pon le chiavi al re Gostanzo in mano. 23 Alla prigion se n’andorno costoro: Come Ulivier sentiva aprir la porta, A Ricciardetto disse: Ecco coloro Che vengono arrecarci altro che torta: Questo sarà per l'ultimo martoro: E molto ognun di lor se ne sconforta. Orlando, quando Ulivier suo vedea E Ricciardetto, parlar non potea. 24 Il re Gostanzo disse: Or m’intendete, Se voi volete adorar Macometto, Della prigione scampati sarete; Se non, che domattina, io vi prometto, Ch’al vento insieme de’ calci darete. Rispose alle parole Ricciardetto: Se ci darà pur morte il Soldan vostro, Contenti siam morir pel Signor nostro. 25 E se ci fussi il mio caro fratello Rinaldo, non saremo a questo porto, O ’l conte Orlando ch’è cugino a quello; Ma spero, poi ch’ognun di noi fia morto, Contro a questo crudel signore e fello Vendicheranno ancor sì fatto torto; E piangeranne Babillona tutta, Chè so per le lor man sarà distrutta. Orlando e Spinellone vanno a visitare i prigionieri cristiani (Ricciardetto e Ulivieri) e il re Gostanzo offre loro la libertà in cambio della conversione all'Islam. Ricciardetto risponde che preferisce morire per la sua fede cristiana, ma spera che la morte dei paladini imprigionati verrà vendicata con la distruzione di Babillona. 26 Ma ben mi duol, che innanzi al mio morire Non vegga il mio fratello e ’l cugin mio; E tuttavolta me gli par sentire, Come forse spirato dal mio Dio. Orlando non potè più sofferire, Chè d’abbracciargli avea troppo disio: E mentre che ciò dice Ricciardetto, Alzava la visiera dell’elmetto. 27 E disse: Tu di’il ver ch’egli è qui presso Orlando, che non t’ha mai abbandonato. Ulivier guarda, e dice: Egli è pur desso! E Ricciardetto l’ha raffigurato; Subito il braccio al collo gli ebbe messo, Ed Ulivieri abbraccia il car cognato. Per tenerezza gran pianto facevano, E Spinellone e ’l re con lor piangevano. 28 Poi molte cose insieme ragionaro: Orlando disse, ignun non dubitassi, Acciò che il re Gostanzo e Spinellone Ritornin con lor genti in lor paesi; Morti questi baron ch’abbiam prigione, Noi saren poi da tanti meno offesi; Che s’io mi fo nimico al re Gostanzo, Per al presente non ci veggo avanzo. 38 In questo mezzo Antea potre’ pigliare Quel Montalban che Gano ha consigliato: Rinaldo so che non dee mai tornare, Credo che ’l Veglio l’abbi ora ammazzato: A luogo e a tempo si potrà mostrare Al re Gostanzo che m’abbi ingiuriato, Ch’io non vo’ far vendetta con mio danno, Ma aspettar tempo, come i savi fanno. 39 Salicorno riprese le parole: E’ non ha tempo mai chi tempo aspetta; Per nessun modo triegua non si vuole: Io vo’ con queste man farne vendetta, Prima che molti dì ritorni il sole: Della giustizia che in punto si metta, Questo mi piace, e facciasi pur presto. E tutti in fine s’accordaro a questo. 40 Al re Gostanzo va tosto una spia, E dice ciò che ordina il Soldano; Il re Gostanzo a Orlando il dicia; Orlando disse: In punto ci mettiamo, Ch’a’ prigion fatto non sia villania; E tutti si schierorno a mano a mano. In questo tempo il Soldano ordinava Ciò che bisogna, e ’l giustizier chiamava. Soldano, temendo ulteriori attacchi, propone una tregua con i cristiani, tuttavia Salicorno, un suo fedele sostenitore, rifiuta la tregua e vuole vendetta immediata contro i cristiani. Dopo una discussione, si arriva alla decisione di procedere con l'esecuzione dei due baroni prigionieri e di prepararsi per la battaglia imminente. Una spia informa il re Gostanzo delle decisioni del suo avversario, e Orlando accetta di affrontare la situazione prontamente. 41 E misse bandi per le sue città, Ch’ognun ch’avessi armadura o cavallo Venga a veder la giustizia che fa, Che si farà il tal giorno sanza fallo: Un giovane, ch’avea molta bontà, Sentendo questo, venne a vicitallo, Chiamato Mariotto, un gran signore, Ch’era figliuol del loro imperadore. 42 Trentamila menò quel Mariotto, Onde al Soldan fu questo molto caro, Armati stranamente a cuoio cotto: Ben centomila a caval ragunaro In punto al modo lor di tutto botto, E di mandar la giustizia ordinaro; Il giustizier con molta gente andoe Alla prigione, e’ due baron legoe. 43 Poi gli legò a cavallo in sulla sella Pur sopra i lor destrier con le loro armi; Perchè il Soldano in tal modo favella: Che tu gli meni amendue armati parmi. E ’l giustizier, ch’al suo dir non appella, Rispose: Così avea pensato farmi. Questo non era il giustiziere usato, Chè ’l Veglio, com’io dissi, l’ha ammazzato. 44 Di nuovo un’altra spia ne va volando, Che la giustizia uscirà presto fore; E Spinellone insieme con Orlando Rassetton le lor genti a gran furore. Il re Gostanzo al Conte vien parlando: E’ ci sarà fatica, car signore, Racquistar questi con ispada o lancia, Tanto in sul crollo son della bilancia. 45 Era a veder molta compassione, I due baron, come ciascun si lagna: O conte Orlando, o Rinaldo d’Amone, Dove è la tua possanza tanto magna? Non aspettar più, vien col gonfalone, Però che noi daren tosto alla ragna. Queste parole van dicendo forte, Chè gran paura avevon della morte. Successivamente, Soldano fa venire il giovane Mariotto, figlio dell'imperatore, con una grande schiera di cavalieri armati, e il giustiziere lega i due prigionieri sui loro destrieri per portarli al cospetto di Soldano. Una spia informa il re Gostanzo e Spinellone e Orlando cominciano a preparare i loro uomini. Nel frattempo, i due prigionieri esprimono la loro paura per la morte imminente e chiedono aiuto ad Orlando e Rinaldo. 46 Già eron gli stendardi apparecchiati, E Mariotto è innanzi alla giustizia; Già fuor della città son capitati: Evvi il Soldan ch’avea molta letizia, E sempre per la via gli ha svergognati: Ribaldi, traditor, pien di malizia! Ma Ricciardetto a ogni sua parola Diceva: Tu ne menti per la gola. 47 Chè tu se’ tu ribaldo e traditore; Ma ne verrà Rinaldo in qualche modo, E caveratti con sue mani il core, Chè promettesti, e rimanesti in sodo, Renderci a lui, crudele e peccatore. Dicea il Soldano: Tu arai presto un nodo Che ti richiuderà cotesta strozza; Ma prima ti sarà la lingua mozza. 48 Orlando e ’l re Gostanzo hanno veduto E Spinellon, che la giustizia viene, E che ’l Soldan con essa è fuor venuto; Ognun la lancia in su la coscia tiene: Fannosi incontro, e Spinellon saputo3 Verso quel Mariotto: E’ non è bene, Dicea, che questa giustizia si faccia, Acciò ch’al nostro Dio non si dispiaccia. 49 Perchè il Soldan, secondo intender posso, Promisse pure a Rinaldo aspettarlo; Ed or che così a furia si sia mosso, Troppo mi par che sia da biasimarlo: Ed oltr’a questo, e’ vi verrà qua addosso, Come questo saprà, subito Carlo, E ne verrà Rinaldo e ’l suo fratello, E fa gran cose per campar costoro, Ed io combatto qui pedon per loro. 60 Nè posso ancor rimontare a cavallo, Dond’io fu’ tratto da un Salicorno: Tutti color del contrassegno giallo Pel mio signor combatton questo giorno. Disse Rinaldo: Io vorrei sanza fallo Sapere il nome tuo, barone adorno. Disse il Pagano: Spinellon mi chiamo, E molto Orlando e Rinaldo suo amo. Spinellone (pagano) si presenta a Rinaldo (che ammirava molto) e gli spiega che la battaglia è stata causata dalla richiesta di Soldano di giustiziare due baroni cristiani, così il re Gostanzo ha deciso di intervenire per difenderli. 61 Allor gridò Rinaldo: O Saracino, Io son Rinaldo, e son qui capitato Per ritrovare Orlando mio cugino; Monta a cavallo: e ’l Pagano è montato: Menami ove combatte il paladino. E Spinellon fu tutto consolato, E disse: Vincitor saremo omai, Andianne dove Orlando tuo lasciai. 62 E tanto per lo campo insieme vanno, Che lo condusse ove combatte Orlando, Ch’era pien tutto di sangue e d’affanno. Disse Rinaldo: Posa un poco il brando, Dimmi, i prigion, cugin mio, come stanno? Allora Orlando il vien raffigurando: Abbracciò questo, e pianse per letizia, E del Soldan contoe la sua tristizia. 63 Poi disse: Tempo non è farsi festa, Qui si conviene i prigioni aiutare. Non va lion per fame per foresta, Come Rinaldo cominciò a mugghiare, A questo e quello spezzando la testa, Le strette schiere faccendo allargare: Qui il Veglio e Spinellone e ’l Conte sono, E paion tutti a quattro insieme un tuono. 64 Nè prima detton tra le schiere drento, Che si vedeva sbaragliar la gente; Ch’egli eran quattro lupi in un armento, E pur s’alcun non fugge, se ne pente, Ch’ogni cosa abbattevon come un vento: E inverso il gonfalon subitamente, Dove è il Soldan, con gran furor n’andorno; Or qui le spade ben s’insanguinorno. 65 Era il Soldan sopra un caval morello, Co’ mamalucchi suoi quivi ristretto; Giunson costoro insieme a un drappello, Gridando: Muoia il Soldan maladetto! Ma come il Veglio ha conosciuto quello, Prese una lancia, e posesela al petto, E disse: Io vo’ veder se la tua morte Si serba a me per distino o per sorte. Rinaldo e Spinellone si dirigono verso il campo di battaglia dove Orlando sta combattendo e lo trovano in difficoltà e si uniscono alla battaglia contro Soldano e i suoi uomini. 66 Quando il Soldan vide abbassar la lancia, Subito anch’egli il suo caval moveva, Perch’e’ vedeva che costui non ciancia, E nello scudo del Veglio giugneva; Pensò passargli la falda e la pancia: L’asta si ruppe, come il ciel voleva, E in molti pezzi per l’aria trovossi, Chè quel che è distinato tòr non puossi. 67 Ebbe pur luogo alfin la visione, Ch’una montagna gli cadeva addosso: Chè, come il Veglio allo scudo gli pone, Subito lo passò, ch’era pur grosso, E la corazza, e lo sbergo, e ’l giubbone Che è di catarzo,6 e poi la carne e l’osso; E con la furia del caval l’urtoe, Tanto ch’addosso al Soldan rovinoe. 68 Ma il caval si rizzò del Veglio tosto; Quel del Soldan col suo signore è in terra, E morto l’uno e l’altro a giacer posto: Così il giudicio del ciel mai non erra; Era così preveduto e disposto. Or qui fu quasi finita la guerra: Morto il Soldano, ognun verso le porte Correva sbigottito di tal morte. 69 Rinaldo, che ’l Soldan vide cadere, Diceva al Veglio: Per la fede mia, Che non era di matto il suo temere; Vedi che luogo ha pur la profezia! Or oltre in rotta si fuggon le schiere, Dunque mostrian la nostra gagliardia. E vanno trascorrendo ove e’ vedieno I Saracin che indrieto si fuggieno. 70 Rinaldo il giustizier trasse per morto Di sella con un colpo con Frusberta, Onde e’ gli disse: Tu m’hai fatto torto; A questo modo il mio ben far non merta, C’ho dato aiuto a’ prigioni e conforto. Disse Rinaldo: Dove e’ sien m’accerta, E in questo modo camperai la vita, Se no, da me tu non farai partita. Veglio affronta Soldano in un duello e lo uccide, causando la fuga dei saraceni. Rinaldo poi uccide il giustiziere, che aveva tradito i cristiani, ma gli offre la salvezza se rivelerà dove sono i prigionieri. 71 Il giustiziere allor Rinaldo mena, Dove i prigion si stavan dall’un canto Afflitti, dolorosi, con gran pena, Ed avean fatto quel giorno gran pianto; Tanto che più gli riconosce appena: Che pagheresti voi, ditemi il quanto, Dicea Rinaldo, allor chi vi scampassi? Ed Ulivier, come e’ suol, cheto stassi. 72 Ma Ricciardetto rispose: Niente; Noi non abbiam danar nè cosa alcuna; Siam qui condotti sì miseramente, Sanza speranza, come vuol fortuna: Ma se qui fussi Rinaldo al presente, Non temeremo di cosa nessuna; O se ci fussi il conte Orlando appresso, Che di camparci pur ci avea promesso. 73 Disse Rinaldo: Siete voi Cristiani? Rispose Ricciardetto: Sì, messere, E paladin già fummo alti e sovrani. Rinaldo più non si potea tenere: Alla visiera si pose le mani, Acciò che in viso il potessin vedere; Donde ciascun lo riconobbe presto, E ’l sommo ben di quel Signore eterno. 84 Color che cantan, che paion di foco, Con l’alie intorno alla sedia vicini? Rispose Orlando: Qui ti ferma un poco, Sono altre spezie di spirti divini, Ed ha ciascuno ordinato il suo loco: Que’ primi, Cherubini e Serafini; E gli altri, Troni, che sì presso stanno, Sìcche tre gerarchie que’ cori fanno. 85 Gli altri che seguon questo primo coro De’ Serafin, Cherubini e de’ Troni, Virtute e Potestà son con costoro; Ma innanzi a questi le Dominazioni, Poi Principati, e gli Arcangel con loro, Ed Angel par che d’un canto risuoni. Disse il Pagan: Come tu m’hai diviso Costor, così gli veggo in paradiso. Spinellone, morente, dopo essere stato battezzato da Orlando, vede il paradiso aperto e Orlando gli spiega chi sono i personaggi che sta vedendo: Gesù e la Madonna, gli apostoli e gli altri personaggi biblici tra cui Adamo, gli apostoli, i profeti, i martiri e i santi. 86 Ah! disse Orlando, e’ non passerà molto Che tu gli potrai me’ vedere in cielo; Dirizza i tuoi pensier, la mente, e ’l volto A quel Signor con puro amore e zelo, E ’ncréscati di me, che resto involto In questo cieco mondo al caldo e al gielo. E poi gli diè la sua benedizione, E l’anima spirò di Spinellone. 87 Rimase Orlando tutto consolato Del dolce fin che Spinellone ha fatto, E tutto collo spirito elevato, Tanto che Paul pareva al ciel ratto, Chiamando morto chi in vita è restato: Intanto Salicorno è quivi tratto, E scaccia ognun che innanzi se gli affronta: Orlando in sul caval presto rimonta, 88 E grida: A drieto tornate, canaglia, È altro che un Pagan quel che vi caccia? E’ rispondieno: Egli è nella battaglia Questo gigante, che Giove minaccia; E’ ci divora, non ferisce o taglia, Tanto ch’ognuno ha rivolta la faccia. Orlando pur gli sgrida e svergognava, E in questo quivi Rinaldo arrivava. 89 E Salicorno avea già domandato: Dov’è Rinaldo? io vorrei pur trovarlo. Orlando, come lo vede appressato, Diceva: O Salicorno, or puoi provarlo: Ecco colui, ch’hai tanto minacciato: Questo è Rinaldo tuo, col quale io parlo. E volsesi a Rinaldo e disse seco: Questo gigante vuol provarsi teco. 90 Quando il gigante vedeva Rinaldo, Parvegli un uom nell’aspetto gagliardo, E tutto stupefatto stava saldo: Guarda il Cristiano, e guardava Baiardo, E raffreddossi, che parea sì caldo; Disse: Baron, s’ogni tuo effetto guardo, Non vidi mai il più bel combattitore, Ma tu se’il capo d’ogni traditore. 91 Tu uccidesti già de’ miei consorti Quel Chiariel, che fu tanto nomato. De’ miei fratelli due n’avete morti, E Brunamonte sai che l’hai ammazzato Con mille tradimenti e mille torti; E Mambrin ch’era del mio sangue nato, E Gostantin con inganno uccidesti, E meritato hai già mille capresti. 92 Noi siam rimasi sei fratei carnali; Ma punirotti io sol, traditor fello. Rinaldo stava tuttavia in sull’ali, Come il terzuol, per dibattersi a quello; E disse: Badalon, se tanto vali, Come ti fe cader qui il mio fratello? Dunque tu chiami traditor Rinaldo, Che sai che tu se’ il fior d’ogni ribaldo? Orlando, dopo aver assistito alla morte del suo amico Spinellone, affronta il gigante Salicorno insieme a Rinaldo. Salicorno accusa Rinaldo di essere un traditore e gli rimprovera di aver ucciso alcuni dei suoi fratelli e parenti. Rinaldo, però, lo sfida a combattere per dimostrare la sua colpevolezza. 93 Disse il gigante: Orlando, io mi ti scuso, Non può ciò comportar nostra natura; Costui mi par co’ giganti poco uso: Chè s’io comincio per la sua sciagura, Gli forbirò col mazzafrusto il muso. Rinaldo, che smarrita ha la paura, Gli volle dar col guanto nel mostaccio, Se non che Orlando gli pigliava il braccio. 94 E disse: Fate battaglia reale. Rispose Salicorno: I’ ho combattuto Tutto dì d’oggi, e fatto tanto male, E Spinellone e Gostanzo abbattuto, Che far con esso or battaglia campale O in altro modo non sare’ dovuto; Ma domattina in sul campo saremo, E so che ’l lume e’ dadi pagheremo.7 95 Rinaldo fu contento; e Salicorno In Babillona si tornava drento, E così i nostri al padiglion tornorno. Diceva il Veglio: Ignun mio guernimento Non mi trarrò, Rinaldo, insino al giorno: Così ti priego che tu sia contento. Rispose Orlando: Il tuo consiglio parmi Di savio. E non si vollon cavar l’armi. 96 Il Veglio, come pratico, in aguato Con una schiera quella notte sta. Or Salicorno, come addormentato Crede sia il campo, uscì della città; Verso Rinaldo n’andava affilato, Chè di tradirlo pensato seco ha; Ma nell’uscir nella schiera scontrossi Del savio Veglio, e la zuffa appiccossi. 97 E cominciossi la gente a ferire: Questo romor ne va pel campo presto; Ma pur Rinaldo si stava a dormire: Baiardo che la notte stava desto, Comincia presso a Rinaldo anitrire: Non si sentendo, spezzava il capresto, E corse sanza sella, così ignudo,