Scarica Riassunti completi dei libri di linguistica generale e sociolinguistica e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! LA LINGUISTICA: UN CORSO INTRODUTTIVO 1. IL LINGUAGGIO VERBALE 1.1 LINGUISTICA, LINGUE, LINGUAGGIO, COMUNICAZIONE La linguistica è la scienza che studia la lingua e si può dividere in due sottocampi: 1. la linguistica generale che si occupa di che cosa sono, come sono fatte e come funzionano le lingue e 2. la linguistica storica, la quale si occupa dell’evoluzione delle lingue nel tempo e dei loro rapporti tra lingua e cultura. Parole analoghe a generale, possono essere teorica, sincronica, descrittiva. Si contrappone alla linguistica generale la glottologia, che copre la linguistica storica e lo studio delle lingue antiche. L’oggetto della linguistica sono lingue storico-naturali, ovvero le lingue nate spontaneamente durante la storia (italiano, francese, romeno, svedese, russo, cinese, latino, sanscrito, tigrino). Le lingue storico-naturali vengono chiamate linguaggio verbale umano, esso è specie-specificato, cioè facoltà innata dell’homo sapiens, nonché il più raffinato metodo di comunicazione che abbiamo Non c’è differenza tra lingue e dialetti, perché tutti i sistemi linguistici sono manifestazione del linguaggio verbale umano. La distinzione tra lingue e dialetti è basata su considerazioni sociali e storico-culturali. In linguistica si usano i segni, un segno è qualcosa che si usa per comunicare qualcos’altro→ comunicare: mettere, rendere in comune. La sociolinguistica studia l’interazione fra lingua e società, la variazione dei comportamenti linguistici e come le lingue si articolano in varietà. Tutto può comunicare qualcosa, ogni fatto culturale è suscettibile di essere interpretato da qualcuno e quindi dare qualche informazione. La comunicazione è un passaggio di informazione. L’ingrediente fondamentale è l’intenzionalità: c’è comunicazione quando un emittente fa passare un’informazione e che viene percepito da un ricevente, altrimenti c’è un semplice passaggio di informazione. Ci sono tre categorie all’interno del fenomeno generale della comunicazione, a seconda dell’emittente e del ricevente e dell’intenzionalità del comportamento. A) Comunicazione in senso stretto: 1. Emittente internazionale; 2. Ricevente intenzionale (linguaggio verbale, gesti, segnalazioni, sistemi artificiali); B) Passaggio di informazione: 1. Emittente non intenzionale; 2. Ricevente intenzionale (parte non verbale, posture del corpo, paralinguistica, orme di animali, sintomi di condizioni fisiche); C) Formulazione di inferenze: 1. Nessun emittente (solo in presenza di oggetto culturale che viene interpretato come volto a fornire un’informazione); 2. Interpretante (case dei tetti aguzzi e spioventi→nevica molto; modi di vestire→ maniche corte/lunghe) 1.2 SEGNI, CODICE Il segno è l’entità fondamentale della comunicazione e vi sono differenti tipi, una tassonomia (classificazione) è data dall’intenzionalità e motivazione, il grado di rapporto naturale tra le due facce del segno: 1. INDICI (sintomi): motivati naturalmente, non intenzionali→ sono basati sul rapporto causa/condizione scatenante > starnuto = avere il raffreddore; nuvole scure = pioggia 2. SEGNALI: motivati naturalmente/usati intenzionalmente→ sbadiglio volontario = sono annoiato; canto di uccello = segnalo la mia presenza 3. ICONE: motivati analogicamente/intenzionali→ basati sulla simile struttura o forma, riproducono la proprietà dell’oggetto designato > carte geografiche, mappe, orari del treno 4. SIMBOLI: motivati culturalmente intenzionali→ rosso del semaforo = fermarsi; colomba = pace 5. SEGNI (in senso stretto): non motivati/intenzionali→ suono del telefono di linea occupata; segnali stradali, comunicazione gestuale La motivazione che lega il qualcosa al qualcos’altro diventa sempre più convenzionale o immotivato. Aumenta la specificità culturale dei segni in senso lato. I segni linguistici sono quindi un modo per comunicare un’informazione in senso stretto, c’è dunque un emittente che emette intenzionalmente un segno per un ricevente. Per codice si intende l’insieme di corrispondenze fissati fra qualcosa e qualcos’altro che fornisce le regole di interpretazione dei segni. Tutti i sistemi di comunicazione sono dei codici. I segni linguistici costituiscono il codice lingua. 1.3 LE PROPRIETÀ DELLA LINGUA La prima proprietà è la biplanarità: in un segno ci sono due facce o due piani compresenti. Il significante (espressione) è la parte fisicamente percepibile del segno, mentre il significato (contenuto) è la parte non materialmente percepibile, l’informazione veicolata dalla faccia percepibile. Il significante è ogni modificazione fisica a cui sia associabile un significato, uno stato concettuale o mentale: quest’ultimo è il contenuto. Un codice è un insieme di corrispondenze fra significati e significanti e un segno è l’associazione di un significante e un significato. fatti segnici comunicazione (in senso stretto) passaggio di informazione artificiale (segnalazioni stradali) animale (latrati, danze delle api) umana verbale naturale non verbale C’è una proprietà filogenetica (specie umana) del parlato: la scrittura si è sviluppata dopo il parlato. Le prime attestazioni scritte risalgono a 5 millenni prima di Cristo e quelli di un sistema di scrittura ai sumeri (3500 a.C.): tavolette di argilla contenenti una grafia con segni a forma di cunei (transizioni commerciali ritrovate a Uruk in Mesopotamia). La scrittura alfabetica nasce sotto forma di scrittura consonantica che non registra le vocali dai Fenici (1300 a.C.) in Siria. Dalla scrittura fenicia derivano l’alfabeto ebraico, aramaico (arabi) e greco, da cui derivano l’alfabeto cirillico e latino (europei). - C’è una differenza tra i sistemi semiografici e glottografici. I primi non fanno uso di simboli linguistici, i secondi sì. I primi possono essere pittografie (disegni motivati) e ideografie (concetti o idee). I secondi si dividono in sistemi fonografici (senza basi fonetiche, morfemi) o fonetici (suoni di linguaggio). I sistemi logografici o fonografici forniscono rappresentazioni complete delle unità rilevanti per la propria lingua di riferimento, anche se qualsiasi sistema non sarà mai completamente fonografico o logografico. LOGOGRAFIA→ Ogni carattere sta per un morfema, sistemi di scrittura con componenti logografiche (cinese, egiziano, sumero). Il cinese ha migliaia di caratteri e combinandoli tra loro si hanno un sacco di significati. Ogni carattere denota un morfema e una sillaba. SILLABOGRAFIA→ ogni carattere sta per una sillaba. Ogni carattere rappresenta una combinazione di fonemi diversa, una sillaba diversa, senza la possibilità di distinguere quali elementi grafici rappresentano certi fonemi. Un esempio è il giapponese: usa un sistema di scrittura misto che comprende logogrammi cinesi e sillabogrammi. ABJAD→ ogni carattere sta per una consonante. È un sistema di scrittura che non segna le vocali anche se sono dotati di segni di vocalizzazione che rimangono opzionali. Il fenicio era un abjad, come l’arabo, l’ebraico, siriano... In arabo le parole hanno un morfema lessicale triconsonantico discontinuo e da un morfema grammatico formato da uno schema vocalico discontinuo. Il sistema di scrittura nota le sole consonanti e procede da destra a sinistra. Le vocali (a,u,i) possono essere brevi, lunghe e se le prime sono implicite, le altre hanno un prolungamento se è presente una consonante. ABUGIDA→ ogni carattere sta per una combinazione sillabica di consonante e vocale. Gli elementi grafici che rappresentano le consonanti e le vocali della combinazione sono distinguibili. Si ha un carattere di base che denota una consonante accompagnata da una vocale non marcata a cui si aggiunge un elemento grafico per denotare altre vocali. Lo usano l’hindi, sanscrito, etiopico. ALFABETO→ ogni carattere sta per una consonante o per una vocale. Ci sono le vocali e le consonanti. Il primo alfabeto è stato quello greco da cui discendono il latino e il cirillico. GRAFIA DI TRATTI → ogni carattere rappresenta e riproduce una certa conformazione articolatoria e sta per il fono o i foni prodotti da tale conformazione. Un sistema importante è il coreano. Le origini del linguaggio sono molto antiche, addirittura agli ominidi. È possibile che qualche sorta di comunicazione orale era presente nell’homo habilis e nell’homo erectus, il linguaggio verbale era presente nell’homo neanderthalensis e a fortiori nell’homo sapiens sapiens. Infatti, esistevano i prerequisiti biologici della comunicazione. Il canale fonico-acustico e l’uso parlato della lingua presentano vantaggi biologici e funzionali rispetto al canale visivo e all’uso scritto. Purché sia presente l’aria, possono essere utilizzati in qualunque circostanza ambientale e consentono la trasmissione anche in presenza di ostacoli fra emittente e ricevente e a distanza; Non ostacolano altre attività, possono essere riutilizzati in concomitanza con molte altre prestazioni fisiche e intellettive. Sono adatti all’impiego del linguaggio per accompagnare e guidare le azioni; Permettono la localizzazione della fonte di emittenza del messaggio; La ricezione è contemporanea alla produzione alla produzione del messaggio avviene in diretta; L’esecuzione parlata è più rapida di quella scritta; Il messaggio può essere trasmesso simultaneamente a un gruppo di destinatari diversi e può essere colto da ogni direzione; Il messaggio è evanescente, non permane, ma lascia subito il passaggio ad altri messaggi; L’energia specifica è ridotta, il parlare è concomitante con la respirazione e ne può essere considerato entro certi termini. Il parlare è dotato di specializzazione. Nelle società moderne lo scritto ha una priorità sociale: avere una forma scritta è un requisito indispensabile per una lingua evoluta e a pieno titolo. È nato come raffigurazione del parlato ma poi si è sviluppato con aspetti e caratteri in parte propri. Non tutto ciò che fa parte del parlato può essere reso e avere un corrispondente nel parlato, non sono la traduzione l’uno dell’altro. La linearità è una caratteristica del significante, dove il significante viene prodotto, si realizza e si sviluppa in successione nel tempo e nello spazio. Successione lineare tale che non possiamo decodificare il segno, capire completamente il messaggio se non dopo che siamo stati attualizzati l’uno dopo l’altro tutti gli elementi che lo costituiscono. Altri segni sono globali, vengono percepiti come un tutto. L’ordine in cui si susseguono le parti del segno è fondamentale per il significato del segno medesimo. La linearità implica anche monodimensionalità del segno, così che il significante si sviluppi in una sola direzione ed è reso possibile anche dalla doppia articolazione. Un’altra particolarità è la discretezza dei segni, la differenza fra gli elementi, le unità della lingua non costituiscono una materia continua, ma c’è un confine preciso fra un elemento e un altro, distinti e separabili. Le classi di suoni sono separabili, sono per esempio differenti pollo con la p e bollo con la b. Una conseguenza della discretezza non possiamo intensificare il significante per intensificare il significato con grida: ahi detto a bassa voce definisce un minimo dolore, AHI ad alta voce è un grande dolore. L’onnipotenza semantica dice che con la lingua è possibile dare un’espressione a qualsiasi contenuto, un messaggio formulato in qualunque altro codice o sistema di segni sarebbe traducibile in lingua, ma non viceversa. Essa si riferisce al fatto che con la lingua si può parlare di tutto anche se risulta difficile dire tutto ed è più prudente parlare di plurifunzionalità. La lingua permette di adempiere a una lista molto ampia di funzioni diverse. Le funzioni a cui serve la lingua formano una lista aperta e si possono menzionare: 1. Esprimere il pensiero dando forma esterna a contenuti mentali. Alcune correnti privilegiano la linguistica generativa, altre privilegiano la lingua come strumento di comunicazione; 2. Trasmettere informazioni; 3. Instaurare, mantenere, regolare attività cooperative e rapporti sociali; 4. Manifestare, esternare i propri sentimenti e stati d’animo; 5. Risolvere problemi; 6. Creare mondi possibili. Lo schema proposto da Jakobson identifica sei classi di funzioni, sulla base di un modello generale dell’evento comunicativo. La comunicazione implica la presenza di fattori collegati a delle funzioni, ogni funzione sarebbe incentrata su 6 fattori costituendo il criterio di riconoscimento della funzione: un messaggio linguistico che esprime sensazioni del parlante ha funzione emotiva; uno volto a specificare aspetti del codice o a calibrare il messaggio ha funzione metalinguistica; uno volto a fornire informazioni sulla realtà sarebbe referenziale; uno volto a far agire il ricevente sarebbe conativa; uno volto a verificare il canale di comunicazione avrebbe funzione fatica; uno volto a mettere in rilievo le potenzialità del messaggio sarebbe poetica; Ogni messaggio realizza tutte e sei le funzioni contemporaneamente anche se una delle funzioni è di norma predominante facendo diventare il messaggio parte di una delle 6 funzioni. Con la lingua si può parlare della lingua stessa o si può parlare della lingua come metalingua→ la lingua di cui parla la metalingua viene chiamata ‘lingua-oggetto’ e viene affibbiata la proprietà di riflessività. Essa è caratterizzante del linguaggio verbale umano: non ci sono altri codici di comunicazione che consentono di formulare messaggi su sé stessi. Questa capacità si sviluppa tardi nel bambino, una parola lunga per lui potrebbe essere ‘treno’. Un’altra proprietà della lingua è la produttività. Con la lingua è sempre possibile creare nuovi messaggi mai prodotti prima e parlare di nuove esperienze o anche di cose inesistenti. È possibile produrre messaggi sempre nuovi e anche associare messaggi già usati in situazioni nuove. La produttività è resa possibile dalla doppia articolazione che permette una combinatorietà illimitata di unità più piccole. Prende la forma di creatività regolare (produttività infinita basata su un numero limitato di regole). La ricorsività da modo a uno stesso procedimento di applicare un numero illimitato di volte, se sono date le condizioni a cui questo si applica. da una parola posso ricavarne un’altra mediante l’aggiunta di un suffisso e questa regola di suffissazione è ricorsiva (da atto, si passa ad attuale, attualizzare, attualizzabile...). Le unità minime di seconda articolazione (poche) si combinano in unità minime di prima articolazione (tante) che si combinano in parole (tantissime) che si combinano in frasi (in numero illimitato). Il distanziamento è un’altra proprietà del linguaggio umano. Essa riguarda il modo di significazione della lingua ed è importante per quanto concerne la differenza fra il linguaggio umano e i sistemi di comunicazione animali. C’è la possibilità di poter formulare messaggi relativi a cose lontane nello spazio o nel momento in cui si svolge un’azione. Un gatto può comunicare che ha fame in quel momento attraverso i versi, ma non può in alcun modo comunicare che ieri aveva fame. Questa nozione coincide con un altro aspetto, quello della libertà da stimoli che consiste nel fatto che i segni linguistici mandano a una elaborazione concettuale della realtà esterna e che inducano ad emettere messaggi. La lingua è indipendente dalla situazione immediata e dalle sue costrizioni interne ad essi. Anche questa distingue il linguaggio umano da quello animale. 1.4 PRINCIPI GENERALI PER L’ANALISI DELLA LINGUA I termini sincronia e diacronia si impiegano per indicare due diverse condizioni della lingua. Per diacronia si intende la considerazione delle lingue e degli elementi della lingua lungo lo sviluppo temporale, nella loro evoluzione storica. Per sincronia si intende la considerazione delle lingue e degli elementi della lingua facendo un taglio sull’asse del tempo e guardando a come essi si presentano in un determinato momento agli occhi e all’esperienza dell’osservatore, nel loro presente e nei rapporti in cui si trovano, prescindendo dall’evoluzione. È impossibile separare la parte sincronica da quella diacronica, perché un qualunque elemento è quello che è in virtù degli altri elementi. La sincronia assoluta non esiste. Un’altra differenza è data dalla distinzione tra sistema astratto e realizzazione concreta. Si è realizzata tra le coppie langue e parole, sistema e uso e competenza ed esecuzione. Con il primo termine di tutte e 3 le coppie si intende l’insieme di conoscenze mentali, di regole nel codice lingua che consentono la capacità di produrre messaggi in una certa lingua. Con il secondo termine si intende l’atto linguistico individuale, la realizzazione concreta di un messaggio verbale in una certa lingua. La lingua come sistema si manifesta nell’esperienza fattuale sotto forma di atti di parole, ciò che interessa al linguista è la langue anche se deve partire dalla parole, che gli fornisce i dati osservabili da cui ricavare le leggi del sistema. Porre al centro la langue, significa porre l’astrazione e l’idealizzazione come momento necessario dell’analisi scientifica. Comprende una distinzione tra astratto, sociale e costante La terza distinzione è quella fra asse paradigmatico e asse sintagmatico. Anch’essa venuta in auge dopo Saussure e concerne un duplice instaurarsi di rapporti nel funzionamento del sistema linguistico e nella produzione di messaggi verbali. Si implica una scelta di paradigma: l’elemento che compare effettivamente esclude tutti gli altri elementi che potrebbero comparire in quella posizione e con i quali quell’elemento ha rapporti sull’asse paradigmatico. Il primo asse riguarda le relazioni a livello del sistema, l’asse sintagmatico riguarda le relazioni a livello delle strutture che realizzano le potenzialità del sistema. Le strutture, le combinazioni dei segni linguistici e come vanno viste sono oggetto di questi due assi. La prima fornisce i serbatoi da cui attingere le singole unità linguistiche, la seconda assicura che le combinazioni di unità siano formate in base alle restrizioni adeguate per ogni lingua. L’organizzazione dà luogo alla distribuzione degli elementi della lingua, permettendo di riconoscere classi di elementi che condividono le stesse proprietà distribuzionali in opposizione a quelli che hanno distribuzione diversa. Esistono 4 livelli di analisi per capire com’è fatta una lingua, stabiliti in base alla biplanarità e della doppia articolazione, che identificano 3 strati del segno linguistico: lo stato del significante come mero significante, lo strato del significante in quanto portatore di significato e lo strato del significato. Ci sono tre livelli di analisi relativi al piano del significante: uno per la seconda articolazione (fonetica e fonologia), due per la prima articolazione (morfologia e sintassi) e uno relativo al solo piano del significato (semantica). Ci sono dei sottolivelli di analisi linguistica: la grafematica (modi in cui la realtà fonica è tradotta nella scrittura) e la pragmatica e testualità (riguarda l’organizzazione dei testi in situazione). 2. FONETICA E FONOLOGIA 2.1 FONETICA La parte della linguistica che si occupa di come sono fatti i suoni delle lingue è la fonetica, che tratta quindi la componente fisica e materiale della comunicazione verbale. La fonetica si distingue in tre campi: la fonetica articolatoria (studia i suoni del linguaggio in base al modo in cui vengono articolati, prodotti dall’apparato fonatorio umano), la fonetica acustica (studia i suoni del linguaggio in base alla loro consistenza fisica e modalità di trasmissione, onde sonore che si propagano in un mezzo) e la fonetica uditiva (studia i suoni del linguaggio in base al modo in cui vengono ricevuti). I suoni del linguaggio vengono prodotti mediante l’espirazione, quindi con un flusso d’aria egressivo: l’aria muovendo dai polmoni attraverso i bronchi e la trachea raggiunge la laringe. Esistono suoni che si realizzano mediante inspirazione o senza la partecipazione dei polmoni. Nella laringe ha inizio il tratto vocale e l’aria incontra le corde vocali, le quali durante la respirazione silente restano separate e rilassate, nella fonazione (produzione dei suoni del linguaggio). Possono scontrarsi e tendersi, riducendo e bloccando il tal modo il passaggio dell’aria. Questi cicli costituiscono le vibrazioni. Il flusso d’aria passa nella faringe e poi nella cavità boccale. Nella parte superiore della faringe, la parte posteriore del palato può lasciare aperto oppure chiudere, spostandosi all’indietro, il passaggio che metto in comunicazione la faringe con la cavità nasale. Nella cavità orale sono importanti la lingua (radice, dorso, apice), il palato (velo, alveoli), i denti e le labbra. Anche la cavità nasale partecipa quando il velo e l’ugola si trovano in posizione di riposo e permettono il passaggio dell’aria attraverso il naso. In ogni punto tra la glottide e le labbra al flusso d’aria espiratoria può essere frapposto un ostacolo al passaggio, ottenendo così suoni e rumori che costituiscono il linguaggio. Il luogo in cui viene articolato un suono costituisce un punto importante per la classificazione dei suoni e del linguaggio, mentre un secondo parametro fondamentale è dato dal modo di articolazione, ovvero il restringimento relativo che in un certo punto del percorso si frappone o no al passaggio del flusso d’aria. Un terzo parametro è dato dal contributo della mobilità di singoli organi all’articolazione dei suoni. In base al modo di articolazione si ha opposizione tra i suoni del linguaggio: suoni prodotti senza la frapposizione di ostacoli che creino perturbazioni fra la glottide e il termine del percorso e suoni prodotti mediante la frapposizione di un ostacolo parziale o totale al passaggio dell’aria in qualche punto del percorso (presenza o assenza di vibrazione delle corde vocali). I primi tipi di suoni costituiscono le vocali, i secondi le consonanti. I suoni prodotti con vibrazione delle corde vocali sono detti sonori, quelli senza sono detti sordi. Le vocali sono tutte sonore, le consonanti possono essere sia sorde che sonore. Le consonanti sono caratterizzate dal fatto che vi è frapposizione di un ostacolo al passaggio dell’aria. A seconda che il blocco sia parziale o totale e che faccia uscire più o meno aria, ci sono le REALTA' FISICA Fonetica e fonologia→ morfologia e sintassi→ lessico e semantica MONDO ESTERNO COGNITIVAME NTE CODIFICATO consonanti occlusive e fricative, che vengono chiamate in questo modo perché l’avvicinamento degli organi articolatori provoca un rumore di frizione. Le approssimanti esistono quando l’avvicinamento degli organi articolatori non arriva a provocare una frizione sensibile, sono approssimanti le semiconsonanti e le semivocali. Se ci sono suoni che iniziano come occlusivi e finiscono come fricativi è perché sono consonanti composte e costituite da due fasi, le quali messe insieme si chiamano affricate. Intervengono anche i movimenti o atteggiamenti della lingua, o la partecipazione della cavità nasale alla produzione del suono. Ci sono consonanti laterali (aria che passa solo ai due lati della lingua) e vibranti (rapidi contatti intermittenti tra lingua e un altro organo articolatorio). Possono essere chiamate liquide. Si hanno consonanti nasali quando il passaggio dell’aria avviene attraverso la cavità nasale. Le consonanti possono essere articolate anche in base all’energia articolatoria che forma le consonanti più forti e quelle più deboli. Ci può essere l’aspirazione, ovvero un intervallo di tempo fra il rilascio dell’occlusione o della tenuta della consonante e l’inizio della vibrazione delle corde vocali caratteristica delle vocali producendo così le consonanti aspirate. Le consonanti vengono articolate anche in base al punto dell’apparato fonatorio in cui sono articolate. Ci sono le consonanti (bi)labiali (prodotte dalle labbra o tra), quelle labiodentali (fra l’arcata dei denti superiore e il labbro inferiore); quelle dentali (a livello dei denti); alveolari (dalla lingua contro o vicino agli alveoli); palatali (dalla lingua contro o vicino al palato duro); velari (dalla lingua contro o vicino al velo); uvulari (dalla lingua contro o vicino all’ugola); faringali (fra la base della radice della lingua e la parte posteriore della faringe), glottidali (direttamente nella glottide a livello delle corde vocali). Si può prendere in considerazione la lingua che creerebbe altri tipi di suoni come per esempio dorso-palatali a seconda del punto della lingua che si considera. Ci sono le consonanti retroflesse, articolate flettendo all’indietro la punta della lingua o apice, verso la parte anteriore del palato. CHIUSE Alte SEMICHIUSE Medioalte SEMIAPERTE Mediobasse APERTE Basse Le vocali sono suoni prodotti senza che si frapponga alcun ostacolo al flusso dell’aria del canale orale. Non sono definite né dagli organi, né dal modo di articolazione, ma dalle diverse conformazioni che assume la cavità orale a seconda delle posizioni che prendono gli organi mobili e in particolare la lingua. Per classificare e identificare i suoni vocalici occorre infatti far riferimento, in primo luogo, alla posizione della lingua e precisamente al suo grado di avanzamento o arretramento e di innalzamento o abbassamento. Le vocali possono essere anteriori (articolate con la lingua in posizione avanzata), posteriori (articolate con la lingua in posizione arretrata) e centrali. Le vocali possono essere alte, medie (medio-alte e medio-basse) e basse. Ci possono La posizione in cui vengono articolate le vocali può essere rappresentata in uno schema chiamato trapezio vocalico. Consonantico→ fonemi prodotti con frapposizione di un ostacolo al flusso dell’aria: tutte le consonanti. Sonorante→ fonemi prodotti con passaggio d’aria relativamente libero e senza turbolenza nel flusso d’aria nel passaggio attraverso il cavo orale, e con vibrazione delle corde vocali: le vocali, semivocali e le consonanti nasali, laterali e vibranti; la pressione dell’aria nella cavità orale per produrre fonemi è simile a quella esterna ed è minore di quella richiesta per la produzione dei fonemi (ostruenti). Sonoro→ fonemi prodotti con vibrazione delle corde vocali. Continuo→ fonemi prodotti con una costrizione nella cavità orale, che consente al flusso dell’aria che esce dalla bocca di poter essere protratto nel tempo, finchè c’è aria espiratoria a disposizione (fricative, laterali, vibranti e semivocali). Nasale→ fonemi prodotti con abbassamento del velo e conseguente passaggio del flusso d’aria attraverso il canale nasale (consonanti nasali). Rilascio ritardato→ fonemi realizzati in due momenti: uno in cui l’aria è trattenuta nella cavità orale e uno in cui è rilasciata. Fonemi che iniziano con un’articolazione occlusiva e terminano con un’articolazione fricativa (consonanti affricate). Laterale→ fonemi prodotti con passaggio del flusso d’aria ai lati della cavità orale (consonanti laterali). Arretrato→ fonemi prodotti con il corpo della lingua ritratto rispetto alla posizione neutra (consonanti velari e semivocale posteriore). Anteriore→ fonemi prodotti con una costrizione nella zona alveolare o in un luogo anteriore a questa (bilabiali, labiodentali, dentali). Coronale→ fonemi prodotti con la parte anteriore della lingua sollevata rispetto alla posizione neutra (dentali, alveolari, palatali). Arrotondato→ fonemi prodotti con labbra protese in avanti. Alto→ fonemi prodotti con la lingua sollevata rispetto alla posizione neutra. Basso→ fonemi prodotti con la lingua abbassata rispetto alla posizione neutra. Tutte le vocali si caratterizzano per i tratti [+sillabico], [-consonantico] e [+sonorante]. I tratti distintivi sono utilizzati nelle regole fonologiche, formate così: A→ B/_C ------- A diventa B nel contesto seguita da C. A subisce il cambiamento, B il risultato del cambiamento e il contesto del fenomeno è C. n →m/_ [p, b, m] (es. in-previsto→ imprevisto, in-battuto→ imbattuto, in-modesto→ immodesto) Gli inventari fonematici delle lingue del mondo sono costituiti da alcune decine di fonemi: l’inglese ne ha 34, 36 il francese, 38 il tedesco, 24 lo spagnolo. Gli autori non sono sempre d’accordo circa gli inventari fonematici delle lingue e i fonemi possono variare fino anche a 140. L’italiano standard ha 30 fonemi (28 secondo alcuni) e 45 se si calcolano le consonanti lunghe. Ci sono diverse problematiche: occorre soffermarsi sulla fonia e non sulla grafia, la quale potrebbe essere fuorviante. È problematico lo statuto delle consonanti lunghe (doppie o geminate) perché bisognerebbe aumentare di 15 il numero dei fonemi italiani. Ci sono inoltre nella pronuncia molte differenze regionali, alcuni fonemi hanno uno statuto non chiaro, variato, differenti nelle regioni e non formano un numero alto di coppie minime (basso rendimento funzionale). Al nord la fricativa dentale è realizzata sonora in posizione intervocalica, mentre in toscano possono essere distinte in sonora e sorda (nella parola chiese). L’opposizione fra vocali medio-alte e medio-basse che si attua solo in posizione tonica è tipica della varietà tosco-romana ma è ignota in altre regioni. La consonante nasale ha nello standard realizzazione (dorso) velare solo davanti a consonante velare, ma al nord tende ad essere realizzata velare ogni nasale che si trova alla fine di una sillaba. Il raddoppiamento fonosintattico consiste nell’allungamento della consonante iniziale di una parola quando questa sia preceduta da una delle parole di una serie che provoca il fenomeno. Variabile nelle regioni. Convenzioni di trascrizione↓ La trascrizione fonetica si pone fra parentesi quadre, la fonematica fra barre oblique; In IPA non si adottano le convenzioni ortografiche o interpuntive in uso nella scrittura: no maiuscole, apostrofi, virgole, punti fermi, punti esclamativi; L’accento è indicato solo sulle parole plurisillabiche, con un apice posto prima della sillaba su cui esso cade; La lunghezza viene notata con due punti posti dopo il simbolo del fono. In italiano sono lunghe le vocali toniche in sillaba aperta. Sono brevi tutte le vocali atone e le vocali toniche in sillaba chiusa o nelle parole ossitone; Le consonanti doppie o si raddoppia il simbolo corrispondente o con due punti posti dopo il simbolo; Le consonanti affricate o si ripete il simbolo della parte occlusiva o si pongono due punti dopo il simbolo della parte occlusiva; Se la vocale tonica è preceduta da consonanti doppie, l’accento si rende o con un apice posto tra primo e secondo simbolo consonantico, o con un apice posto prima del simbolo consonantico che è seguito da due punti [k:]. Le sillabe sono costituite attorno a una vocale: una consonante o una semivocale ha sempre bisogno di appoggiarsi a una vocale, che costituisce il picco sonoro detto nucleo della sillaba. In certe lingue anche alcune consonanti possono fungere da apice di sillaba, caratterizzate dal tratto +sillabico. La struttura fonica della parola è data da un’alternanza continua tra foni tesi e chiusi, con minore sonorità e foni più rilassati e aperti con maggiore sonorità. Ogni sillaba è formata da almeno una vocale e da un numero di consonanti, una vocale da sola può costituire una sillaba. Esistono delle restrizioni fonotattiche sulla distribuzione e combinabilità dei fonemi e sulle sequenze possibili in ogni lingua, che danno luogo a restrizioni sulla struttura sillabica. In italiano la struttura sillabica canonica è CV, V, VC, CCV, CVC, CCCV. Non sono possibili in italiano strutture CVCC che esistono invece in inglese o in tedesco. Non sono possibili strutture molto complesse come per esempio CCCVCCC. Le doppie consonanti chiudono la sillaba che le precede, in quanto il primo membro viene assegnato alla sillaba precedente e il secondo alla seguente. Le vocali della sillaba che reca l’accento sono lunghe se la sillaba è aperta. In una sillaba la parte che precede la vocale è detta attacco, la vocale stessa è il nucleo e la parte che segue è detta coda. Nucleo e coda insieme assieme costituiscono la rima. Le sillabe con coda si chiamano chiuse, quelle senza coda si chiamano aperte. Il dittongo è la combinazione di una semivocale e una vocale, la quale costituisce l’apice sillabico. La sequenza voc+ semivoc è un dittongo discendente, semivoc+voc è un dittongo ascendente. Se si combinano due semivocali con una vocale si creerà un trittongo. Nella linguistica inglese è consuetudine trattare i dittonghi discendenti come un’unica entità fonica, una sorta di vocale composta costituita da due diverse fasi vocaliche. 2.3 FATTI PROSODICI (O SOPRASEGMENTALI) Esiste una serie di fenomeni fonetici e fonologici che riguardano la catena parlata nella sua successione lineare, i rapporti tra foni che si susseguono e hanno la sillaba e la successione di sillabe come contesto basilare di azione. Questi fenomeni si chiamano tratti soprasegmentali o prosodici perché concernono nel complesso l’aspetto melodico della catena parlata e ne determinano l’andamento ritmico. I fondamentali sono l’accento, il tono, l’intonazione, lunghezza, durata relativa. L’accento è la forza o intensità di pronuncia di una sillaba relativamente ad altre sillabe, che fa sì che in ogni parola una sillaba (tonica) presenti una prominenza fonica rispetto alle altre (atone). Non in tutte le lingue si ha lo stesso rilievo o è ottenuta nello stesso modo, anche se in genere è dovuta a un aumento della pressione dell’aria nel canale orale. In italiano l’accento è fondamentalmente dinamico o intensivo, dipendente dalla forza con cui sono pronunciate le sillabe: la sillaba tonica è tale grazie a un aumento del volume della voce; in altre lingue l’accento è piuttosto musicale, in altre è connesso con la durata della vocale. L’accento prosodico non va confuso con quello grafico, impiegato per indicare nella grafia la posizione dell’accento fonico nelle parole ossitone e anche per altri scopi come indicare la differenza fra monosillabi omofoni o la differenza di timbro delle vocali intermedie, con le quali l’accento grave può indicare la vocale aperta o medio-bassa e quello acuto la vocale chiusa o medio-alta. L’accento grafico circonflesso è usato nell’ortografia per indicare la vocale i, si segna di norma solo sulle parole plurisillabiche tronche e su alcuni monosillabi, mentre le parole piane o sdrucciole non hanno accento grafico. La posizione dell’accento può essere libera o fissa, può avere valore pertinente e opporre distinguendole due o più parole tra loro segmentalmente del tutto uguali: si parla di valore fonematico dell’accento intendendo che l’accento in base alla posizione della sillaba su cui cade ha valore distintivo oppositivo. In italiano l’accento è libero e può trovarsi sull’ultima sillaba di una parola, chiamandola tronca; sulla penultima è piana; sulla terzultima è sdrucciola; sulla quartultima è bisdrucciola, quintultima trisdrucciola Clitici→ elementi che nella catena fonica non possono rappresentare la sillaba prominente e recare quindi accento proprio, dovendosi appoggiare su un’altra parola (articoli, pronomi personali). Esistono a volte anche gli accenti secondari, ovvero emergenze relative di altre sillabe che fanno da contrappeso alla sillaba tonica. Il tono è l’altezza relativa di pronuncia di una sillaba dipendente dalla tensione delle corde vocali e della laringe e quindi dalla velocità e frequenza delle vibrazioni delle corde vocali. Il tono riguarda l’altezza musicale. In molte lingue tonali, il tono può avere valore distintivo, distinguendo parole diverse per il resto foneticamente del tutto eguali (tonemi) (← cinese, svedese). In cinese mandarino [ma] con tono alto costante è la parola mamma, [ma] con tono ascendente è lino, [ma] con tono basso discendente-ascendente è cavallo e [ma] con tono alto discendente è bestemmiare e infine ce n’è uno con tono neutro che funge da particella interrogativa posposta alla frase. parole e dei morfemi lungo l’asse del tempo. Gran parte dei morfemi è dovuta ai mutamenti fonetici. Ci sono casi in cui un morfema lessicale in certe parole derivate viene sostituito da un morfema dalla forma totalmente diversa, ma con lo stesso significato (cavallo ed equino), questo fenomeno si chiama suppletivismo. Nella stessa categoria ci sono anche i casi in cui l’origine della base lessicale è in diacronia la stessa ma che per stratificazione storica si hanno due morfi diversi, uno che mantiene la forma originaria e l’altro che ha subito le modificazioni della normale trafila di sviluppo fonetico→ il nome della città è Ivrea, ma i suoi abitanti si chiamano eporediesi, perché viene dal latino Eporedia. (vd. appunti lezioni) 3.2 TIPI DI MORFEMI I morfemi si individuano in due modi: attraverso la classificazione funzionale (in base alla funzione svolta, al tipo di valore) e una classificazione posizionale (basata sulla posizione che assumono all’interno di una parola e sul modo in cui essi contribuiscono alla sua struttura). DENTALE→ dent- reca significato referenziale ed è un morfema lessicale; -al e -e recano significato alla struttura della lingua; -al è un morfema lessicale e -e è un morfema flessionale. La prima distinzione è tra i morfemi lessicali (formano una classe aperta) e grammaticali, quest’ultimi si dividono poi in derivazionali (formano una classe chiusa, derivano da altre parole) e flessionali (formano una classe chiusa, danno luogo alle diverse forme di una parola). La distinzione tra morfemi lessicali e grammaticali è chiara e applicabile senza problemi, in italiano è questo il caso di molte parole funzionali (articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni). Si fa distinzione tra morfemi liberi (= morfemi lessicali) e legati (=morfemi grammaticali): i secondi non appaiono mai in isolamento ma solo in combinazione legati con altri morfemi. Gli affissi sono sempre morfemi legati, ci sono anche i morfemi semiliberi. La derivazione dà luogo a parole regolandone i processi di formazione e la flessione a forme di una parola regolandone il modo in cui si attualizzano nelle frasi, costituendo gli ambiti della morfologia. La derivazione agisce prima della flessione, prima costruiamo parole a cui poi applichiamo flessioni. La derivazione non è obbligatoria, mentre la flessione sì. I morfemi grammaticali si dividono in classi diverse a seconda della collocazione che assumono rispetto al morfema lessicale o radice, che costituisce la testa della parola e fa da perno nella sua costruzione. Una parola piena deve contenere un morfema lessicale e da solo può costituire una parola piena autonoma. Le parole funzionali costituite da un solo morfema sono vuote. I morfemi grammaticali possono essere chiamati affissi (morfema che si combina con radice). Gli affissi che stanno prima della radice si chiamano prefissi, quelli che stanno dopo suffissi. I suffissi con valore flessionale si chiamano desinenze. I prefissi in italiano sono solo derivazionali. Gli infissi sono gli affissi inseriti dentro la radice, che in italiano non esistono propriamente. I circonfissi sono morfemi discontinui, formati da due parti (una prima e l’altra dopo la radice). La trascrizione morfematica si può scrivere tra graffe. In alcune lingue esistono affissi che si incastrano dentro la radice, chiamati transfissi, per esempio in arabo. Le parole in arabo, infatti, si formano a partire da una radice triconsonantica discontinua e da un morfema grammaticale costituito da uno schema vocalico discontinuo. (Vd appunti, ktb) Ci sono dei morfemi, nei quali i morfi non sono isolabili e sono chiamati sostitutivi, perché si manifestano con la sostituzione di un fono ad un altro fono. Consistono in mutamenti fonici della radice e sono inseparabili da essa, esempio in inglese nei plurali /feet o /geese. Il morfema zero esiste quando una distinzione marcata nella grammatica di una certa lingua viene a non essere rappresentata in alcun modo nel significante. I morfemi soprasegmentali determinano un valore morfologico e si manifesta attraverso un tratto soprasegmentale come il tono. Certi valori morfologici in certe lingue vengono affidati a processi, come la reduplicazione (ripetizione della radice lessicale). Alcuni morfemi grammaticali hanno più di un significato o valore, nella forma italiana buone vale insieme femminile e plurale. Il valore di indicare una classe flessionale ha uno statuto problematico nello stabilire la natura di un morfema perché indica una classe formale di appartenenza di una parola, i morfemi si chiamano cumulativi. Un caso complesso di morfema cumulativo è il cosiddetto amalgama, che si crea fondendo due morfemi in maniera tale che nel morfema risultante non è possibile distinguere i due morfemi all’origine della fusione. Un esempio è la preposizione in francese au, dove i due elementi che la compongono non si separano e diventano invisibili e quindi il significato è unico. In italiano un esempio è l’articolo i. 3.3 DERIVAZIONE E FORMAZIONE DELLE PAROLE I morfemi derivazionali mutano il significato della base cui si applicano. Essi permettono la formazione di un numero teoricamente infinito di parole a partire da una base lessicale. In ogni lingua esiste una lista finita di moduli di derivazione che danno nascita a famiglie di parole che hanno una stessa radice lessicale. Socio→ sociale- socializzare- socializzabile- socializzabilità La vocale tematica è quella iniziale della desinenza dell’infinito dei verbi, essa ha un suo significato e può essere di natura speciale e del tutto esteriore, in quanto indica l’appartenenza della forma a una determinata classe di forme della lingua. Si può considerare -al un allomorfo che crea un aggettivo, formato da due morfemi, o si può considerare facente parte della radice lessicale. Nella parola sociologia ci sono due morfemi lessicali: soci- e -log-. Soc- funziona come un prefisso perché si attacca davanti a un’altra radice lessicale per modificarne il significato, si chiama quindi prefissoidi. Esistono anche i suffissoidi, ovvero morfemi con significato lessicale ma che si comportano come suffissi nella formazione delle parole. Essi possono essere chiamati semiparole o confissi. Essi vengono per lo più dalle lingue classiche e danno luogo a parole che vengono chiamate composti (neo)classici. Il prefissoide auto- può formare molte parole e sono quasi tutte relazionate alle macchine, anche se veniva usato con parole come autonomia, autocritica. Le parole invece come nazionalsocialismo sono parole composte, come lavavetro, asciugamano. Le parole composte sono molte in tedesco, come Strassenbahnhaltestelle (← posto di fermata della ferrovia della strada). Le parole composte non vanno confuse con le unità lessicali plurilessematiche o plurilessicali, che sono costituite da sintagmi fissi che rappresentano un’unica entità di significato (gatto selvatico). Le unità lessicali plurilessematiche possono comprendere classi diverse di elementi, fra cui i verbi sintagmatici (andare via, mettere sotto) o i binomi coordinati (sale e pepe, anima e corpo, usa e getta). Esistono anche le formazioni bimembri (nave scuola, parola chiave) che sono unità lessicali in cui il rapporto tra le due parole non ha raggiunto il grado di fusione tipico delle vere parole composte e i due elementi vengono rappresentati separatamente nello scritto. Anche la lessicalizzazione delle sigle e l’unione di parole diverse che si fondono con accorciamento formano parole. Le sigle (acronimi) sono formate dalle lettere iniziali delle parole piene (SMS ‘short message service’), mentre quando la sigla è compatibile con la struttura fonologica della parola in italiano, diventa essa stessa una parola autonoma (NATO, IVA). Le parole macedonia derivano dall’unione con accorciamento (cantautore, ristobar, smog). La composizione permette la formazione di parole nuove a partire da una radice lessicale, una parola composta contiene più radici lessicali e la maggior parte in italiano appartiene alla classe di parola dei nomi (N+N, N+Agg, Agg+N, V+N, V+V, Prep+N, V+Avv, Avv+Agg, Avv+V, Avv+Avv). La testa del composto dà inizio alla classe della parola e gli conferisce una flessione e un significato. I composti con una testa vengono chiamati endocentrici, quelli senza esocentrici. Se l’individualità dei costituenti non è preservata i composti sono stretti, quelli larghi la mantengono. I composti subordinativi sono quelli in cui i costituenti sono legati tra di loro da una relazione che modifica, quelli coordinativi non hanno una relazione modificato/modificatore tra i costituenti. È di tipo copulativo (composti dvandva). La morfologia flessionale può essere marcata al termine del composto sul secondo elemento o internamente sul primo elemento, o su entrambi. Esistono composti invariabili dove non c’è flessione possibile. La regola più produttiva è quella che forma testa a sinistra e flessione dopo la prima radice lessicale. Il più importante processo di formazione delle parole in italiano è la suffissazione (zion, ment, tor, ità, abil, ist), si formano anche attraverso la prefissazione che non muta la classe grammaticale di appartenenza della parola (in, s, dis, ad, a, ri). Con l’alterazione si creano parole che aggiungono al significato della base lessicale un valore generalmente valutativo e associato a particolati contesti pragmatici (diminutivo, peggiorativo, accrescitivo, vezzeggiativo). Ci sono casi di omonimia e i verbi formati con questi metodi sono chiamati parasintetici. (da pag 112 a 116) La conversione è la presenza di coppie di parole, un verbo e un nome o aggettivo, aventi la stessa radice lessicale ed entrambi privi di suffisso, fra i quali non è possibile stabilire quale sia la parola primitiva e quale la parola derivativa. Quando la coppia è costituita da un verbo e un aggettivo, il termine primitivo è l’aggettivo perché il verbo indica l’azione di far assumere lo stato e la qualità denotata dall’aggettivo. Questo è attivo in inglese. Dal punto di vista della storia derivazionale, si danno i seguenti tipi morfologici di parole: Parole basiche o primitive (mano); Parole alterate (manona); Parole derivate (maniglia); Parole prefissate (rimaneggiare); Parole composte (corrimano); Unità plurilessematiche (mano morta) PROCESSO DI DERIVAZIONE DI UNA PAROLA↓ di misura per la sintassi, è l’entità linguistica che funziona come un’unità comunicativa e che costituisce un messaggio o blocco comunicativo nel discorso. Una frase contiene una predicazione riguardo a qualcosa, attribuisce una qualità o un modo di essere o d’agire. Ogni verbo autonomo coincide con una frase. Le frasi senza verbo sono chiamate frasi nominali (‘buona questa torta’). Una frase semplice costituita da un’unica predicazione si chiama proposizione. L’analisi avviene con la scomposizione o segmentazione. Gli alberi etichettati permettono di rendere visiva la struttura della frase nel suo sviluppo lineare e nei rapporti gerarchici che si instaurano fra i costituenti. Ogni nodo rappresenta un sottolivello di analisi della sintassi e reca il simbolo della categoria a cui appartiene il costituente di quel sottolivello. Questo è l’indicatore sintagmatico della frase. La distribuzione è l’insieme dei contesti in cui gli elementi rilevanti per la sintassi. Sono parole funzionali che occorrono davanti a un nome e svolgono la funzione di determinare il referente da esso indicato. 4.2 SINTAGMI Il sintagma è la minima combinazione di parole che funziona come un’unità della struttura frasale. Sono costruiti attorno a una testa, rappresenta il minimo elemento che da solo possa costituire sintagma, funzionare da un determinato sintagma. Se si elimina, il gruppo di parole viene a perdere la natura di sintagma di quel tipo. Un sintagma nominale è un sintagma costruito attorno a un nome: N è la testa di SN. I pronomi possono sostituire un nome e possono essere la loro testa. Le posizioni prenominale che postnominale sono ricorsive. La posizione postnominale Agg può essere sostituito da un SPrep. Un nome funziona da SN ma una preposizione non funziona da SPrep. Si possono avere sintagmi aggettivali, sintagmi avverbiali. MOBILITÀ→ un gruppo di parole che rappresenta un sintagma se le parole che lo costituiscono si muovono congiuntamente all’interno di una frase. SCISSIONE→ un gruppo di parole rappresenta un sintagma se può essere dal resto della proposizione costruendo una struttura chiamata frase scissa. ENUNCIABILITÀ IN ISOLAMENTO→ un gruppo di parole rappresenta un sintagma se da solo può costituire un enunciato, se può essere pronunciato in isolamento. COORDINABILITÀ→ consente di riconoscere quando 2 o più gruppi di parole rappresentino sintagmi di uno stesso tipo. Sintagmi diversi sono dello stesso tipo se possono essere coordinati. I sottocostituenti dei vari tipi di sintagmi possono dare luogo a sintagmi complessi, dotati di una strutturazione interna a vari sottolivelli. La teoria X-barra individua i diversi ranghi di complessità di un sintagma (x) con l’indicazione di opportune barre o con apici. Ogni apice indica un sottolivello di crescente complessità interna del sintagma. Ogni costituente deve comparirvi al rango gerarchico in cui interviene a contribuire al valore generale della frase. I sintagmi preposizionali possono porvi senso a livelli diversi e devono essere agganciati all’opportuno nodo. (a) Gianni ha letto un libro con gran piacere (b) Gianni ha letto un libro con la copertina blu (c) Gianni ha letto un libro per tutta la notte Ogni fine di frase cambia il significato. In un albero, ogni elemento che sta sul ramo di destra di un nodo modifica l’elemento che sta sulla sua sinistra sotto lo stesso nodo. 4.3 FUNZIONI SINTATTICHE, STRUTTURAZIONE DELLE FRASI E ORDINE DEI COSTITUENTI Il sintagma assume determinati valori funzionali richiesti e necessari per l’interpretazione semantica delle frasi. Il modo in cui i costituenti si combinano nel dare luogo alle frasi è governato da principi complessi che interagiscono tra loro nel determinare l’ordine in cui si susseguono gli elementi e la gerarchia dei loro rapporti. Ci sono 3 ordini diversi di principi che intervengono nel determinare il funzionamento della sintassi. Funzioni sintattiche→ ruolo che i sintagmi assumono nella struttura sintattica della frase in cui i SN possono valere da soggetto o oggetto, i SPrep possono valere da oggetto indiretto o da complemento, i SV possono valere da predicato. Soggetto, Predicato verbale e oggetto sono le tre fondamentali, più complementi ( specificazione, termine, mezzo, modo, tempo, luogo). Esse vengono assegnate a partire da schemi valenziali, che costituiscono l’embrione iniziale della strutturazione delle frasi e ne configurano il quadro minimale. Il verbo è associato alle valenze (argomenti) che sono implicate dal tipo di significato del verbo, avendo uno schema valenziale. I verbi possono essere monovalenti (camminare), bivalenti (interrogare) o trivalenti (dare). Esistono anche verbi zerovalenti, come quelli metereologici, e tetravalenti (tradurre). Il soggetto è la prima valenza di ogni verbo, la seconda coincide con la funzione sintattica di oggetto. Si possono trovare dei costituenti che realizzano altri elementi, che si chiamano circostanziali e non rientrano nelle configurazioni di valenza dei predicati verbali e quindi non fanno parte delle funzioni sintattiche fondamentali, ma aggiungono informazioni che sono più salienti dal punto di vista comunicativo della frase. L’elemento centrale della frase è il verbo e determina la struttura della frase. Il termine valenza introdotto da Tesniere ha avuto significato anche in chimica, in linguistica indica appunto il numero di elementi linguistici la cui presenza all’interno di una frase è necessaria affinchè la stessa frase risulti formata. 4 è il numero massimo di valenze per il verbo. Ci sono i verbi monovalenti e intransitivi da un lato e dall’altro quelli bi, trivalenti e transitivi dall’altro. Ci possono essere quindi frasi semplici e anche più complesse. I ruoli semantici concernono il modo in cui il referente di ogni sintagma contribuisce e partecipa all’evento rappresentato dalla frase. Se si guarda la frase come una rappresentazione di una scena, non è più vista dalla prospettiva del significante ma da quella del significato. Le parti volte sono ruoli semantici, 0-roles ‘ruoli theta’. Non esiste un procedimento formale. AGENTE→ è il ruolo semantico dell’entità animata che si fa intenzionalmente parte attiva che provoca ciò che accade. PAZIENTE→ è il ruolo semantico dell’entità che è coinvolta senza intervento attivo, in quanto subisce o è interessata passivamente da ciò che accade o si trova in una certa condizione. SPERIMENTATORE→ è il ruolo semantico dell’entità toccata da un certo stato o processo psicologici. BENEFICIARIO→ è il ruolo semantico dell’entità che trae beneficio dall’azione a vantaggio della quale va a ricadere quanto succede nell’avvenimento. STRUMENTO→ è il ruolo semantico dell’entità inanimata mediante la quale avviene ciò che accade, o che interviene nell’attuarsi dell’evento o che è fattore non intenzionale dell’azione. DESTINAZIONE→ è il ruolo semantico dell’entità verso la quale si dirige l’attività espressa dal predicato o che costituisce l’obiettivo o la meta di uno spostamento. LOCALITÀ → ruolo semantico dell’entità in cui sono situati spazialmente l’azione, stato, processo. PROVENIENZA→ ruolo semantico dell’entità dalla quale un’entità si muove in relazione all’attività espressa dal predicato. DIMENSIONE→ ruolo semantico dell’entità che indica una determinata estensione nel tempo, nello spazio, nella massa. COMITATIVO→ ruolo semantico dell’entità che partecipa all’attività svolta dall’agente. Anche per i predicati ci sono diversi ruoli semantici: PROCESSO, AZIONE, STATO... i ruoli semantici agiscono al di sotto della struttura sintattica diversa. Tra funzioni sintattiche e ruoli semantici ci sono rapporti preferenziali→ l’agente sarà il soggetto, il paziente sarà il complemento oggetto. In una frase passiva invece l’agente sarà il complemento d’agente e il paziente è soggetto. I verbi che possono stare al passivo sono transitivi, quelli che non possono sono intransitivi. I verbi inaccusativi richiedono il verbo essere e quelli inergativi richiedono il verbo avere. A seconda della frase che vogliamo dire, nella nostra mente scegliamo determinate parole per formarla. L’embrione è la prima frase che dà il quadro strutturale di riferimento (a), il verbo fornisce un’interpretazione semantica attraverso l’assegnazione di ruoli semantici ai diversi elementi che contiene (b), i ruoli semantici vengono tradotti in funzioni sintattiche (c), infine viene espresso un indicatore sintagmatico retto dai principi della teoria X-barra. L’organizzazione pragmatico-informativa: si distinguono le frasi dichiarative (affermazione generica con valori specifici), interrogative (pongono una domanda), esclamative (esprimono un’esclamazione marcate dall’intonazione), imperative o iussive (esprimono un ordine, istruzione con imperativo, congiuntivo o infinito negativo). Il tema è ciò su cui si fa un’affermazione, l’entità attorno a cui si predica qualcosa, indica e isola il dominio per cui vale la predicazione. Il rema è la predicazione che viene fatta, l’informazione che viene fornita a proposito del tema (topic and comment) Luisa (tema) va a Milano (rema) Dato è l’elemento della frase da considerare noto o perché precedentemente introdotto nel discorso o perché facente parte delle conoscenze condivise. Nuovo è l’elemento portato come informazione non nota. Il dato coincide con il tema e il nuovo con il rema. Le dislocazioni a sinistra spostano davanti alla frase uno degli elementi che la costituiscono, si può mandare in posizione di tema l’oggetto. Lo fa anche la costruzione passiva, che muta anche la correlazione fra ruoli semantici e funzioni sintattiche. Esiste anche la dislocazione a destra e la frase scissa, consistente nello spezzare una frase in due parti portando all’inizio della frase un costituente e facendolo seguire da una frase relativa. Il focus è il punto di maggior salienza comunicativa della frase, l’elemento su cui si concentra l’interesse del parlante e che fornisce la massima quantità di informazione nuova. Fa parte del rema→ Carla al mattino prende il caffè. Può essere contrastato. Può essere evidenziato attraverso la frase scissa, avverbi o particelle focalizzatori. ITALIA→ In Italia non si parla solo l’italiano, ma bisogna tener conto delle minoranze linguistiche parlate da gruppi consistenti di parlanti in alcune aree del paese (tedesco, francese, sloveno, ladino, neogreco, albanese, serbo-croato, provenzale, catalano,parlate zingare, sardo e friulano). È dubbio anche lo statuto dei dialetti italiani (piemontese, lombardo, veneto, siciliano ecc.) perché avrebbero le carte in regola per essere considerati sistemi linguistici. Inoltre, ci sarebbero 30 lingue indigene presenti in Italia. Le lingue romanze vengono considerate una lingua a sé, mentre in altri gruppi linguistici sistemi con una distanza strutturale del tutto analoga a quella fra le diverse lingue romanze vengono a volte considerati varietà della lingua stessa (cinese). L’unico modo per il riconoscimento delle lingue è raggrupparli in famiglie e si compara il lessico fondamentale (200 termini circa) designanti nozioni comuni, non esposti a interferenze fra le lingue e quindi diagnostici per il lessico ereditario indigeno e quindi troviamo lo stesso significante. L’italiano ha stretti rapporti con le lingue provenienti dal latino e fa parte delle lingue romanze (italiano, francese, spagnolo, portoghese, romeno, gallego, catalano, occitano, retoromanzo). Il ramo romanzo forma la grande famiglia delle lingue indoeuropee. Si parla anche di phylum. A seconda dei gradi di parentela si possono riconoscere dei rami che a loro volta si possono dividere in gruppi e in sottogruppi. L’italiano è quindi una lingua del sottogruppo italo-romanzo del gruppo occidentale, del ramo neolatino della famiglia indoeuropea. La linguistica riconosce 18 famiglie linguistiche, più alcune lingue isolate di cui non si è riusciti a provare la parentela con altre lingue (pag. 230). Andrebbero aggiunte anche delle lingue pidgin (creole) che sono nate dall’incontro e mescolanza in situazioni particolari di lingue diverse e distanti N.B. Un pidgin è un sistema linguistico semplificato che non ha parlanti nativi e si sviluppa in un creolo quando diventa lingua materna di una comunità→ tok pisin, WAPE, chinese pidgin english, russenorsk (pidgin) | (creolo)→ krio, giamaicano, mauriziano. Solo poche lingue possono essere considerate grandi lingue che vengono parlate da milioni e milioni di persone. I parlanti nativi di una lingua sono coloro che hanno imparato una lingua dalla socializzazione primaria e che la possiedono come lingua materna. Molte lingue si stanno estinguendo. L’importanza delle lingue si misura in base al numero di paesi e nazioni in cui una lingua è ufficiale, all’impiego della lingua nei rapporti internazionali, nella scienza, tecnica e commercio, all’importanza politica ed economica, alla tradizione letteraria e culturale ed al numero di parlanti. 1. Cinese mandarino 902 (+21%) 2. Hindi-urdu 457 (+32%) 3. Inglese 384 (+24%) 4. Spagnolo 366 (+32%) 22. Italiano 70 (+5,7%) Dall’inizio del terzo millennio il 60% delle lingue note sia parlato dal solo 4% della popolazione, l’85% delle lingue hanno meno di 100.000 parlanti ciascuna. Per esempio, in Papua Nuova Guinea si stima che siano parlate 860 lingue. In Europa sono parlate lingue di 5 diverse famiglie linguistiche: le lingue indoeuropee, uraliche del ramo ugrofinnico (ungherese, finlandese, estone, lappone, mordvino), altaiche (turco, tataro), caucasiche (georgiano, ceceno, àvaro), semitiche (afro-asiatica), maltese (lessico di provenienza italo- siciliana), basco. (pag. 235-238) 6.2. TIPOLOGIA LINGUISTICA La tipologia linguistica individua che cosa c’è di uguale e di diverso nel modo in cui le diverse lingue storico-naturali sono organizzate, attuando scelte compatibili nella realizzazione di fatti o fenomeni universali. La tipologia è connessa con lo studio di universali linguistici, proprietà ricorrenti nella struttura delle lingue. Esso non è tale solo se è manifestato o posseduto da tutte le lingue conosciute. Non deve essere contraddetto dalle caratteristiche di nessuna lingua, un universale può trovare il suo fondamento nelle proprietà che caratterizzano il linguaggio verbale umano come sistema semiotico o nelle restrizioni connesse alla base materiale, fisica del linguaggio, ma anche essere frutto dell’osservazione empirica. Un tipo linguistico è un insieme di tratti strutturali correlati gli uni con gli altri ed equivale a un raggruppamento di sistemi linguistici aventi caratteri comuni. UNIVERSALI ASSOLUTI→ tutte le lingue hanno vocali e consonanti, vocali orali, inventario di fonemi vocalici costituito da /i/, /a/, /u/, sillabe con struttura CV, parole, sintagmi e frasi, sistema pronominale composto da 3 persone e 2 numeri, costruzione negativa, costruzioni che dispongono i costituenti di frase tema-rema, termini specifici. UNIVERSALI IMPLICAZIONALI→ se ci sono vocali nasali ci sono anche orali, se ha opposizioni tra consonantiche le ha anche per le vocali, se c’è flessione c’è derivazione, se la derivazione e la flessione seguono o precedono la radice allora la derivazione si trova tra la radice e la flessione, se c’è il genere c’è il numero, se il verbo si accorda nel genere si accorda nel numero, se ha affissi discontinui ha pre-suffissi, se ha un ordine VSO ha preposizioni, se ha VSO la forma flessa di un ausiliare precede il verbo, se SOV allora la forma flessa segue il verbo, se il PCO segue il verbo anche il NCO lo segue, se il verbo si accorda con il costituente al caso ergativo si accorda anche al caso assolutivo. GERARCHIE IMPLICAZIONALI→ (numero) singolare > plurale > duale > triale > paucale; (classi di parole) verbo > nome > aggettivo > avverbio; (accessibilità del sintagma nominale per la frase relativa) soggetto > OD > OI > obliquo > genitivo > oggetto di comparazione; (animatezza) pronomi 1 e 2 persona > pronomi 3 persona > nomi propri > nomi comuni umani > nomi comuni animati > nomi comuni inanimati; (termini di colore) bianco e nero > rosso > giallo o verde > giallo e verde > blu > marrone > viola, rosa, arancione e grigio. La struttura della parola individua i tipi linguistici diversi e li classifica. Si distinguono 4 tipi morfologici di lingua. Una lingua isolante è una lingua in cui la struttura della parola è la più semplice: ogni parola è costituita da un solo morfema e il rapporto morfemi:parole è 1:1 (indice di sintesi)→ si ottiene dividendo il numero dei morfemi per il numero delle parole. Tali lingue isolano in blocchi le singole parole ed esprimono significati complessi scindendoli in lessemi semplici. Non presentano morfologia flessionale e hanno poca morfologia derivazionale. Spesso le parole sono monosillabiche vietnamita, cinese, hawaiano, inglese ( suffisso plurale dei sostantivi, suffisso comparativo di maggioranza, superlativo relativo, terza persona del presente, marcature, -ing). Vietnamita→ sàch = libro; hay = bello Una lingua è agglutinante quando le parole hanno una struttura complessa, formate dalla giustapposizione di più morfemi e presentano un indice di 3:1 o superiore. I morfemi di solito hanno valore univoco e una sola funzione e sono facilmente distinguibili turco, ungherese, finlandese, basco, giapponese, esperanto. Turco→ ellerimde = nelle mie mani; kataplarimi = i miei libri La lingua flessiva presenta parole complesse, costituite da una base lessicale semplice o derivata e da affissi flessionali che sono morfemi cumulativi, veicolando più valori grammaticali insieme e sommando diverse funzioni. L’indice è 2:1 o tra 2:1 e 3:1, ma ci sono fenomeni di allomorfia e fusione che amalgamano singoli morfemi e li rendono non separabili con qualche difficoltà. Tali lingue vengono spesso chiamate fusive greco, latino, russo, italiano, francese, inglese Italiano→ buon-o; bont-à; Russo→ stàr-uju = vecchia C’è un sottotipo introflessivo dove i fenomeni di flessione avvengono anche dentro la radice lessicale: i morfemi flessionali e derivazionali sono dei transfissi vocalici che si inseriscono dentro una base discontinua triconsonantica→ un esempio è l’arabo, dove a partire dalla radice triconsonantica k-t-b (scrittura/scrivere) possiamo avere altre forme come kataba (scrisse), kutub (libri). Il prefisso al- marca la determinatezza del nome equivalendo a un articolo determinativo. Le lingue polisintetiche sono quelle che hanno la struttura della parola più complessa, hanno la parola formata da più morfemi attaccati insieme ma presentano la peculiarità che in una stessa parola ci siano più radici lessicali e morfemi pieni. Le parole di queste lingue corrispondono a ciò che nelle altre lingue sarebbero delle frasi intere. L’indice è 4:1 o superiore→ lingue amerinde, australiane, groenlandese, eschimese. Illuminiippuq = è a casa sua Illu sananiqarsimaqqaarpuq = la casa fu costruita per prima Queste lingue sono a volte anche chiamate incorporanti, che per alcuni sarebbero un sottotipo di lingue polisintetiche. Le lingue isolanti sono lingue analitiche, quelle agglutinanti e polisintetiche sono sintetiche, mentre quelle flessive sono in una posizione intermedia tra analiticità e sinteticità. L’ordine basico è un criterio importante. I costituenti sintattici fondamentali sono quelli che realizzano il soggetto, verbo, predicato, CO e complemento diretto. SOV è l’ordine più frequente, il secondo per frequenza è SVO. Per terzo abbiamo VSO e il quarto è VOS. Gli altri due ordini marginali sono OVS e OSV, il quale è rarissimo. L’italiano come tutte le lingue romanze, inglese, germaniche, slave, greco ecc. è una lingua SVO, mentre il tedesco è discusso in quanto alcuni dicono che sia SOV mentre altri SVO. SOV sono anche il turco, giapponese, curdo, mentre VSO sono arabo, gallese... Il latino potrebbe essere considerato una lingua SOV ma anche una lingua a ordine libero. Gli ordini principali sono questi perché il soggetto coincide con il tema e inoltre agiscono due principi: 1. Il principio di precedenza, fra i costituenti nominali il soggetto deve precedere l’oggetto; 2. Il principio di adiacenza, per cui verbo e oggetto devono essere contigui, in ragione della loro stretta relazione sintattico-semantica e della dipendenza diretta del secondo dal primo. Gli universali implicazionali sono principi validi che collegano fra loro le posizioni di diversi elementi nella frase e nei sintagmi. 1. Lingue VO, che costruiscono a destra con l’ordine operando/operatore; 2. Lingue OV che costruiscono a sinistra o a ‘testa finale’, con l’ordine operatore/operando Le prime vorrebbero anche l’aggettivo dopo il nome. Il turco costruisce a sinistra, mentre il gaelico costruisce a destra. In ogni lingua c’è sempre un’incoerenza tipologica. La variazione è evidente in sincronia, in un dato periodo temporale. Ci sono usi diversificati e si adatta ai vari contesti d’impiego possibili in una cultura e società e permette di esprimere anche significati sociali e valori simbolici per natura. Deve essere funzionale ai diversi bisogni comunicativi. Il campo linguistico è la sociolinguistica che studia che cosa accade quando un sistema linguistico è calato nella realtà concreta degli usi che ne fanno i parlanti nelle loro interazioni verbali e che mette in relazione la lingua con la società e con gli usi linguistici delle persone. Costituisce una varietà di lingua, per individuarla occorre far riferimento ai fatti linguistici, aspetti formali, fatti sociali, extralinguistici. Una variabile sociolinguistica è un punto che ammette realizzazioni diverse equipollenti ciascuna delle quali è in correlazione con qualche fatto extralinguistico ( gli/ le/ ci). Possono essere considerate variabili le coppie di lessemi sinonimici del significato denotativo e collegati a diversi ambiti dell’uso della lingua. Le varianti possono essere correlate con diversi fattori sociali e sono 4: la diatopia, diastratia, diafasia, diamesia. La diatopia riguarda la variazione nello spazio geografico, attraverso i luoghi in cui una lingua è parlata e in cui i suoi parlanti risiedono o provengono; la diastratia riguarda la variazione nello spazio sociale, attraverso classi o strati sociali e i gruppi di parlanti e reti sociali in una società; la diafasia riguarda la variazione attraverso le diverse situazioni comunicative; la diamesia riguarda la variazione attraverso il mezzo o il canale della comunicazione. Le varietà diatopiche dell’italiano sono gli italiani regionali con le differenze nella fonetica, fonologia e morfologia: la pronuncia dell’affricata palatale intervocalica nel nord, sud e centro per esempio. I geosinonimi sono termini differenti usati in diverse regioni d’Italia per designare lo stesso oggetto o concetto (padre/babbo – anguria/cocomero). Sono frequenti anche i regionalismi semantici, ovvero i significati particolari assunti da un lessema in una determinata area (salire/portare su). Il suffisso -aro è di Roma, mentre in toscano è -aio; il suffisso -illo è napoletano, in Sicilia si dice scatolo, invece di scatola. L’italiano della Svizzera cambia anche nel lessico: nota (voto di scuola), training (tuta). Sono ben note anche le differenze lessicali fra l’inglese in UK e quello degli USA: underground/subway; film/movie. Il tedesco tra Germania e Austria: pomodoro è Tomate/Paradeiser; Fahrrad/Velo. Ci sono elementi nella lingua che sono scorretti e questi fenomeni vengono utilizzati da coloro che non hanno una buona istruzione scolastica o un cattivo padroneggiamento della lingua, quindi danno il via all’italiano popolare. Nella dimensione diafasica ci sono due sottogruppi: l’asse dei registri e quello dei sottocodici. I registri dipendono dal carattere formale o informale dell’interazione comunicativa e dal ruolo reciproco di parlanti; i sottocodici sono le varietà diafasiche dipendenti dall’argomento di cui si parla e dalla sfera di contenuti ed attività a cui si fa riferimento. I registri hanno delle situazioni informali, come gli indicatori di registro informale fenomeni di fusione; sono di registro basso e informale parole come bici, tele, cine o ‘sto per questo. È rilevante l’uso degli allocutivi. È tipico dei registri bassi l’uso di termini espressivi volgari: che palle, sfiga, questa lezione è una pizza. È tipico dei registri alti l’uso di termini aulici come parvenza, sembiante. I sottocodici sono caratterizzati da termini tecnici o scientifici (tecnicismi) nei rispettivi settori: linguistica, medicina, economia... →esempi: SMS, Art.3 della Costituzione della Repubblica Italiana, messaggio pubblicitario, saggio scientifico, racconto orale di un parlante semicolto Nella variazione diamesica vediamo come la lingua parlata tende a coincidere con il registro informale e quella scritta con quello formale. Si possono distinguere un modo fonico e uno grafico, uno parlato e uno scritto. L’insieme di variazione della lingua lungo cui si articola una lingua storico-naturale in un periodo temporale può essere chiamato architettura. ASSE ORIZZONTALE→ dimensione diatopica ASSE VERTICALE→ dimensione diastratica ASSE OBLIQUO→ dimensione diafasica L’insieme delle varietà di lingua presenti costituisce il repertorio linguistico e le varietà che lo formano possono essere varietà della stessa lingua o di lingue diverse: si hanno repertori monolingui o plurilingui→ le lingue del Camerun: stato indipendente dal 1960 e la popolazione è di circa 18 milioni di abitanti. Ci sono 239 lingue e le lingue indigene appartengono a 5 gruppi principali: fulbe, ciadico, paleosudanese, francese e inglese. Ci sono 14 lingue tutelate di cui 5 con più di 250.000 parlanti; 22 lingue parlate alla radio, 9 lingue veicolari. Una lingua standard è una lingua codificata, dotata di una norma con un repertorio di manuali di riferimento e di testi esemplari, con una tradizione letteraria prestigiosa. È adottata come modello scolastico, ritenuta dai parlanti della comunità la buona e corretta lingua. Il termine dialetto designa i dialetti sistemi linguistici imparentati con la lingua standard, ma aventi una loro struttura storia autonoma: dialetti italiani o italo-romanzi, che sono lingue ‘sorelle’ dell’italiano. Nel medioevo c’erano i volgari romanzi, come il fiorentino. Ci sono le lingue di minoranza, lingue parlate da gruppi di dimensione demografica ridotta rispetto al resto della popolazione del paese che costituiscono minoranze linguistiche. In Italia esistono 3 minoranze linguistiche riconosciute alla fine della Seconda guerra mondiale (tedescofona, francofona, slovena) e una dozzina di lingue o varietà di lingua minoritarie riconosciute dalla legge nazionale. (pag 287, 288) Nei repertori plurilingue è raro che i diversi sistemi linguistici compresenti stiano sullo stesso piano negli usi e atteggiamenti della comunità parlante e svolgano le stesse funzioni. In una situazione di bilinguismo in cui le due lingue coprano ambiti e ruoli differenti e ci si riferisce alla diglossia→ una delle lingue è impiegata nello scritto e nell’uso formale e ufficiali, insegnata a scuola ma non parlata in famiglia, l’altra è impiegata nelle conversazioni quotidiane e negli usi informali. Si parla di dilalia quando le lingue vengono impiegate anche nel parlato quotidiano ed è per la maggioranza della popolazione lingua della socializzazione primaria. L’interferenza linguistica riguarda l’influenza e l’azione che un sistema linguistico può avere su un altro e il termine è usato per coprire una gamma di fenomeni che avvengono e che consistono nel trasposto di materiali linguistici da una lingua a un’altra. può riguardare i livelli di analisi ed è evidente nei parlanti bilingui. Il prestito è una parola che viaggia da una lingua a un’altra ed è materiale linguistico di superficie, l’uso non implica il bilinguismo. Il lessico di una lingua è un insieme composito anche in relazione alla provenienza dei suoi elementi di lessemi provenienti da altre lingue, detti forestierismi. I prestiti subiscono quasi sempre un adattamento nella fonetica, nella morfologia e nel significato diventando integrati nella lingua che li accoglie. Quando ciò che passa da una lingua a un’altra non è una parola o espressione nei suoi aspetti formali, ma il suo significato o la sua struttura interna si parla di calchi→ ferrovia – eisenbahn. La commutazione di codice riguarda invece i fenomeni che avvengono sul piano del discorso ed è tipico del comportamento di parlanti bilingui. Il termine indica l’uso alterato di due lingue diverse nella stessa interazione comunicativa da parte di una stessa parlante, si manifesta nel passaggio del discorso da una lingua a un’altra. Può avvenire in linea di principio fra due qualunque della varietà di lingua presenti in un repertorio e a disposizione di un parlante, fra una lingua e dialetto. 8. CENNI DI STORIA DELLA DISCIPLINA 8.1 FINO ALL’OTTOCENTO La linguistica è ritenuta una disciplina giovane ed è dall’800 che la linguistica si sviluppa come specializzazione autonoma, profilandosi nella sua fase iniziale come studio storico delle lingue indoeuropee. Più giovane ancora è la linguistica generale, il cui atto di nascita coincide con la pubblicazione delle lezioni ginevrine di Ferdinand de Saussure: Cours de linguistique general nel 1916. Gli elenchi di parole di egizi e sumeri testimoniano l’esistenza di una consapevolezza e di un sapere sulle lingue. Platone (428-348 a.C) ha scritto il Cratilo, il quale è dedicato alla discussione della natura e dell’uso del linguaggio. Si muove dalla discussione delle teorie della scuola dei sofisti (rapporto tra parole e cose) agli argomenti contro il fatto che i nomi e le cose vengano dati per natura o per consuetudine. Panini, filosofo indoeuropeo, fa una descrizione grammaticale basata su categorie e principi che sembrano anticipare metodi e assunti formali dello strutturalismo del ‘900. Fornisce un’analisi fonologica e morfologica del sanscrito mediante un sistema di regole e operazioni che combinano elementi di base in sequenze complesse. Fra il III secolo a.C. e il II d.C. si sviluppa in Cina una tradizione filologica di analisi e commento dei caratteri dell’alfabeto cinese e del loro rapporto con parole e significati, mentre in Grecia le riflessioni sul linguaggio contrassegnano anche il pensiero di Aristotele. Aristotele sostiene una prospettiva convenzionale tra rapporto e realtà. Contribuisce a dare forma a una teoria delle principali parti del discorso, della flessione e dei casi grammaticali. Ai grammatici greco-latini si deve la fissazione delle nozioni fondamentali che per una ventina di secoli rimarranno il fulcro della trattazione grammaticale e la classificazione delle cosiddette parti del discorso in 8 categorie. Dionisio Trace e Apollonio Discolo di Alessandria d’Egitto, Marco Terenzio Varrone, Elio Donato, Prisciano sono importanti. Nei secoli bui del medioevo vanno menzionati Isidoro di Siviglia che nelle sue opere fornisce una summa enciclopedica delle conoscenze del mondo antico come rappresentante nelle parole. La teoria grammaticale dei modisti vede le parole manifestarsi mediante i modi di significare, che ne attualizzano la specificazione semantica in relazione ai diversi contesti. Ci sono importanti trattati grammaticali dell’islandese dedicato ai rapporti tra ortografia e fonetica risalenti al ‘200. Dante è importante per i suoi scritti, come il Convivio, la Divina Commedia e il De Vulgari Eloquentia. Nel XVI secolo si assiste alla fioritura della grammatica e si sviluppano le lingue volgari rispetto al latino. Ci sono autori italiani importanti come Giulio Cesare Scaligero, Pierre de la Ramée, Francisco Sanchez. Vengono prodotte le prime grammatiche del volgare toscano, spagnolo, francese in latino, portoghese, inglese, tedesco, ecc. Venivano precedute da trattati concernenti l’ortografia. Il ‘600 vede innestarsi le radici di alcuni principi di fondo che caratterizzano la moderna linguistica scientifica. La scuola giansenista era importante ed è stata sottolineata da Chomsky. Si PRIMA LEZIONE DI SOCIOLINGUISTICA- GAETANO BERRUTO 1. I FATTI SOCIOLINGUISTICI 1.1 L’UNIVERSO DEI COMPORTAMENTI LINGUISTICI Le persone sono in ogni circostanza produttrici o riceventi di messaggi linguistici. Comportamenti linguistici, del tipo più diverso sono una parte costitutiva molto importante e pervasiva della vita sociale e se li esaminiamo con maggior attenzione, possiamo constatare che, per ciò che concerne l’uso della lingua, tutti i casi hanno due aspetti in comune che si manifestano in ciascuno. a) In primo luogo, in tutti i casi si tratta di manifestazioni del linguaggio verbale in cui la lingua si presenta sotto aspetti e in forme un po’ diversi dall’uso corretto della lingua standard. b) In secondo luogo, e grazie appunto a questa loro diversità, i casi hanno in comune che ciascuno presenta e rivela significati particolari che riguardano la società; ciascuno contiene fenomeni che ci danno informazioni sulle persone, sui parlanti, sulle loro caratteristiche sociali, sui tipi di azione che essi compiono, sulla situazione in cui essi sono e agiscono; ciascuno riflette la collocazione della lingua e dei comportamenti linguistici nella società, offrendoci quindi anche informazioni su di essa. Possiamo quindi dire che tutti in qualche modo costituiscono manifestazione di variazione linguistica (a), che reca, o a cui è connesso, significato sociale (b). Vediamo ora da vicino i singoli casi da 1 a 8, cercando di individuare in ciascun caso ciò che vi è di interessante dal punto di vista linguistico, e i punti che eventualmente si discostano dalla norma linguistica corrente. 1.1.1 Frasi di elaborati scolastici di allievi della scuola elementare in Salento Venne un bimbo povero che la sua mamma era malata- La penna che io scrivo è nera Il tratto che balza agli occhi nelle due frasi riportate in 1 è il modo in cui è introdotta e costruita la frase relativa. In entrambe le frasi la relativa che la sua mamma era malata (che modifica bimbo) in 1a, e rispettivamente che io scrivo è nera (che modifica penna) in 1b, è introdotta dall’elemento connettore che, dando luogo a un costrutto diverso da quello previsto dall’italiano standard. Nella grammatica standard infatti che, considerato pronome relativo, può normalmente introdurre una proposizione relativa solo quando occupa le funzioni di soggetto o complemento oggetto: ma qui nel primo esempio l’elemento relativizzato svolge la funzione di complemento di specificazione, e nel secondo di complemento di mezzo. Si tratta quindi di casi in cui lo standard prevede l’impiego di cui, forma invariabile, eventualmente preceduta da preposizione: un bimbo povero la cui mamma era malata, la penna con cui io scrivo. La costruzione della relativa che troviamo in 1a e 1b estende invece a tutti i casi il che, che a questo punto diventa un introduttore generico di frase dipendente subordinata, lo stesso che si ha per esempio in frasi oggettive e soggettive, e anche in frasi finali, ecc., e che quindi sembra più una congiunzione subordinante tuttofare che un pronome relativo. Da un lato allora la costruzione della proposizione relativa diventa in un certo senso più semplice e più regolare, ma dall’altro si perdono distinzione e mercature di funzione, di numero e di genere. Tale maniera di costruire la frase relativa compare frequentemente negli usi trascurati, nel parlato non sorvegliato, nel comportamento linguistico di persone poco attente alla lingua; cioè nelle varietà substandard di italiano, e in particolare nel cosiddetto italiano popolare, quello dei parlanti incolti che hanno spesso come lingua primaria il dialetto. Ecco, dunque, che abbiamo una variazione correlante con fattori sociali, e quindi dotata di significato sociale. 1.1.2. Battute di due personaggi del film Amore tossico Pure te te sei messa a vvende, eh? - È annato a ppijà ‘na bira Nell’esempio 2 è evidente che la lingua in gioco non è l’italiano standard, ma una varietà di lingua che sembra fortemente dialettale. Le due battute sono connotate come italiano romano o dialetto romanesco. La cosa è evidente sia per quanto riguarda la scelta di parole (il lessico) sia soprattutto per la forma delle parole (morfologia: te invece di tu, vvende per vendere) e la pronuncia (la fonetica: il raddoppiamento della consonante iniziale di parole precedute dalla preposizione a). Se alcuni dei tratti elencati sono tipici dell’italiano com’è parlato in genere nell’Italia centro-meridionale, la degeminazione della consonante vibrante e in parte le forme apocopate dell’infinito localizzano decisamente queste battute come romane. Anche qui abbiamo dunque una variazione che correla con una caratterizzazione geografica, e che porta quindi significato sociale, qualificando la produzione linguistica come parlato tipicamente romano. Merita anche riflessione il fatto che tratti di battute di un dialogo cinematografico: il cinema in questo caso tenta di riprodurre e mimare la realtà linguistica del contesto in cui è ambientata l’azione narrata. 1.1.3. Frammento di scambio comunicativo allo sportello della stazione di Porta Nuova, tra un italiano e un immigrato extracomunitario L’aspetto appariscente nello scambio di battute in 3 (dove il carattere maiuscolo indica un volume alto della voce, i due punti indicano allungamento della vocale e un + indica pausa) è certamente il passaggio dall’italiano all’inglese, che interviene come ‘lingua franca’ per assicurare il passaggio dell’informazione fra parlanti di lingue diverse. U è un immigrato extracomunitario che vuole fare un biglietto ferroviario e S è l’impiegato allo sportello. U ha evidentemente una conoscenza imperfetta 1.1.4. Conversazione in autobus di studenti di Nichelino, Torino Balza agli occhi l’uso meno sorvegliato della lingua, tipico delle situazioni molto informali. Si tratta infatti di parlato conversazionale spontaneo, improvvisato, senza pianificazione in anticipo e disordinato. Tratti evidenti sono le interruzioni e le sovrapposizioni di diversi parlanti, le frequenti ripetizioni, l’impiego di parole che fanno riferimento al contesto (o elementi ‘deittici’), riprese pronominali prive di antecedente. Tale contesto è ben noto agli interlocutori che, quindi, non hanno difficoltà a riconoscerlo, anche in assenza di un riferimento esplicito. Il sintagma verbale gli fa è poi un tratto diffuso in particolare sia nell’italiano giovanile che nelle varietà basse di alcuni italiani regionali. Riprese pronominali anaforiche e deittiche prive di antecedente esplicito sono tratti caratteristici del parlato informale di molte lingue. Oltre a questi tratti tipici del parlato non pianificato, hanno evidenza nel brano elementi lessicali propri del linguaggio giovanile, alcuni di carattere addirittura gergale, come pippe; e come le esclamazioni minchia e cazzo, termini entrambi proveniente dal linguaggio volgare, impiegati col valore desemantizzato di meri rafforzativi, o come segnali di articolazione del discorso. Da notare anche la battuta in inglese di S1, che testimonia dell’ampia acclimatazione dell’inglese presso giovani studenti. 1.1.5. Messaggio al telefono cellulare di un giovane torinese Minkia! ma quanto sei pg per sta cosa? portati da studiare ;) ciao cibe L’esempio 5 è un messaggio breve, un SMS mandato col telefono cellulare. Vi appaiono ovviamente caratteristiche tipiche dello stile dei messaggi, dovute all’economia di spazio, come qui la sigla pg (preso giallo) e l’abbreviazione cibe (ci becchiamo), o all’espressività spesso marcata di questo tipo di testo, qui presente con la cosiddetta faccina o, più tecnicamente, icona emotiva (emoticon). È però anche evidente la presenza del linguaggio giovanile, del lessico e dei modi espressivi della comunicazione fra giovani e adolescenti: appunto preso giallo, termine del gergo giovanile torinese e ci becchiamo; si nota inoltre l’esclamazione di apertura minkia, qui scritta con il k al posto nel nesso ch per rappresentare la consonante occlusiva velare sorda, termine in origine volgare, ma in buona parte desemantizzato. Abbiamo dunque qui un uso della lingua tipico di una fascia sociale specifica, i giovani, e allo stesso tempo tipico di un dominio e modo d’impiego particolare, appunto i messaggi scritti al cellulare. Le ‘diversità’ che troviamo in questo caso rispetto alla lingua comune hanno dunque un duplice significato sociale: rimandano alla collocazione sociale e demografica dei parlanti/scriventi e a un mondo comunicativo particolare. 1.1.6. Tre colloqui A. U telèfunu u pavu iù (Parlante catanese) B. Però ha detto che col mangiare l’è mia ul massim= (conversazione tra giovani donne in Canton Ticino, Svizzera) C. Che ben du pist gros da du machan l’assaggiatore di polpette (Un bambino di Luserna, Trento, che chiacchiera con i compagni) In 6 troviamo un fenomeno molto diverso, e simile a quello che avevamo già incontrato: quella che con termine tecnico si chiama la commutazione di codice (in inglese, code-switching), vale a dire il passaggio da un sistema linguistico a un altro sistema linguistico all’interno dello stesso discorso di uno stesso parlante. I sistemi linguistici in gioco in 6a e 6b sono la lingua italiana e un dialetto. In 6c il fenomeno linguistico è lo stesso, ma più precisamente si tratta di enunciazione mistilingue: una stessa frase con costituenti presi da lingue diverse. Una delle lingue è sempre l’italiano, ma l’altra lingua non è più uno dei dialetti italiani, bensì stavolta è un dialetto tedesco. Dov’è dato trovare un comportamento linguistico di questo genere, alternanza nel discorso di italiano con un dialetto tedesco? Dovremo andarlo a cercare nelle aree di minoranza, quelle zone del nostro paese in cui la parlata tradizionale locale non è uno dei dialetti italiani, ma una varietà di un’altra lingua, un dialetto provenzale o tedesco: una varietà dunque di lingua minoritaria o anche parlata alloglotta. 1.1.7. Nell’esempio 7 abbiamo un manifesto pubblicitario apparso nelle vie di Torino. L’aspetto più appariscente è l’impiego del dialetto piemontese (nostr lait a parla piemonteis, il nostro latte parla piemontese). Fino a non molti anni or sono, sarebbe stato assai poco frequente, e un po’ strano, trovare messaggi pubblicitari in dialetto; ma la collocazione del dialetto negli atteggiamenti e nelle valutazioni della comunità parlante è evidentemente cambiata nel corso degli ultimi dieci anni, e un sintomo di questa rinnovata percezione del dialetto sta certamente anche nel suo impiego nella pubblicità. Come si vede, nel nostro manifesto, gli slogan pubblicitari sono in dialetto (con la traduzione sotto fra parentesi), mentre la ragione sociale dell’azienda è in italiano. Il dialetto ha qui ovviamente la funzione di sottolineare la genuinità locale del prodotto e di creare una specie di complicità fra il produttore e i cittadini piemontesi. Si fa dunque leva sul significato sociale in senso più ampio associato alla varietà ‘dialetto’, come garante di identità e coesione socioculturale della comunità piemontese. 1.1.7. Manifesti pubblicitari in dialetto Vi è, tuttavia, un altro genere di fatti, rispetto a quelli che abbiamo esaminato in 1.1., che sono dotati di rilevanza e di spiccato interesse quanto ai rapporti fra lingua e società. Un esempio è la tabella che ci mostra in che percentuale su un campione di circa 20.000 famiglie italiane, si parla italiano, dialetto, entrambi o un’altra lingua in famiglia. Dati di questo genere richiedono di essere interpretati con una certa cautela, in quanto appunto riguardano autodichiarazioni di comportamento, e non osservazioni dirette della realtà. E i comportamenti linguistici sono sempre suscettibili di essere sottoposti a ideologizzazione, che può in parte offuscare la realtà dei fatti. Senza contare che non sempre, specie in alcune situazioni dove i confini fra le varietà non sono così netti, i parlanti possono avere consapevolezza netta di che cosa sia ‘italiano’ e che cosa sia ‘dialetto’. Tutto questo non vuol dire che si tratti di dati inaffidabili. Tutt’altro. L’importante è ce chi li analizza e interpreta sia conscio del problema che abbiamo accennato. In ogni caso essi non solo ci forniscono i lineamenti generali della situazione, ma consentono anche di constatare quelli che sono i valori e gli atteggiamenti linguistici prevalenti nella comunità: se per esempio solo il 22,6% dei veneti dice di usare prevalentemente l’italiano in famiglia, ciò è naturalmente molto significativo quanto ai rapporti fra italiano e dialetto in Veneto. D’altra parte, rilevamenti basati su autodichiarazioni di comportamento, e quindi mediati, sono la sola maniera per ottenere una specie di fotografia dei comportamenti linguistici di una comunità altrimenti inattingibile, essendo per ovvie ragioni impraticabile l’osservazione diretta e continua dei comportamenti linguistici effettivi di numeri consistenti di parlanti. Dati di questa natura costituiscono anche una delle basi empiriche fondamentali di quel settore della sociolinguistica che spesso va sotto il nome di ‘sociologia del linguaggio’, o ‘sociologia delle lingue’, che si occupa di quali lingue e varietà di lingua sono parlate in una data comunità, di quali sono i loro rapporti, di come il loro uso sia associato a variabili sociali, e via discorrendo. Mentre la sociolinguistica in senso stretto studia produzioni linguistiche mettendole in correlazioni con fatti sociali, e i suoi dati empirici sono concreti ‘messaggi linguistici’, testi o parti di testo, la sociologia del linguaggio studia la funzione e la distribuzione dei sistemi linguistici negli usi dei parlanti, e i suoi dati empirici sono comportamenti linguistici dichiarati o giudizi e affermazioni sulle lingue. 1.2.1. Usciamo dai confini dell’Italia, con un’occhiata alle stime sulla consistenza demografica (numero di parlanti) e sulla diffusione internazionale delle lingue. La prima colonna è basata sul numero di parlanti nativi di ogni lingua, cioè dei parlanti che hanno quella lingua come lingua materna, appresa nella socializzazione primaria e parlata in famiglia. Nella cifra stimata quindi sono anche compresi i gruppi di emigrati (per lo più di prima generazione) che, pur non compresi nella popolazione autoctona residente nella madrepatria, hanno conservato la lingua d’origine; è in base a questa considerazione che il numero di italofoni nativi (sorvolando sulla differenza fra chi ha come lingua della socializzazione primaria l’italiano e chi ha, o aveva, come lingua della socializzazione primaria uno dei dialetti italiani) può essere portato a circa 70 milioni di parlanti, aggiungendo agli italofoni in patria i gruppi molto consistenti di emigrati in Europa e Oltremare che hanno conservato la lingua d’origine. I primi due posti qui sono occupati dalle due lingue principali dei due paesi di gran lungo più popolosi del mondo, la Cina e l’India; la densità demografica dei singoli paesi è ovviamente il fattore dominante, quanto a numero di parlanti nativi. Vi è poi in percentuale la differenza fra i parlanti nativi di ogni lingua e i numeri totali di parlanti fluenti (a cui si aggiungono coloro che possiedono la lingua in causa con lingua seconda). Chiaramente, questa percentuale dà un’idea, sia pur grossolana, della portata internazionale e sovranazionale di una lingua. Com’era ovvio aspettarsi, aumenta di molto il rango dell’inglese. Importante è anche il numero dei paesi in cui ogni lingua è parlata da gruppi significativi di parlanti fluenti, e rappresenta un primo indicatore della diffusione plurinazionale di una lingua. Oltre all’ovvia predominanza dell’inglese, sono da notare su questo parametro le ampie diffusioni delle grandi lingue di cultura dell’Europa occidentale, francese, spagnolo e tedesco. 1.3. Perché la sociolinguistica Possiamo ora passare a una definizione più precisa della disciplina. Sarà apparso evidente che per molti aspetti la sociolinguistica si configura come una specie di linguistica di secondo livello, che presuppone la linguistica, presuppone cioè che sappiamo come sono fatte e come funzionano le strutture interne del linguaggio; e interviene ad analizzare e spiegare che cosa succede a queste strutture quando le vediamo calate nella società e nelle concrete situazioni comunicative. In altre parole, fare sociolinguistica significa aggiungere allo studio a tavolino delle unità, delle strutture e delle regole della lingua, lo studio dei comportamenti dei parlanti che queste unità, regole e strutture adoperano nella quotidiana vita comunicativa. Lo studio di che cosa succede alla lingua quand’è considerata non come sistema astratto, bensì come strumento di concreti comportamenti comunicativi, può peraltro illuminare aspetti della struttura e del funzionamento della lingua che altrimenti passerebbero inosservati: la lingua è sì un sistema costruito secondo i propri principi, ma risente anche delle caratteristiche degli utenti e delle situazioni d’uso. In qualche modo la lingua riflette dentro di sé anche i parlanti, se vogliamo dire così. In questo suo procedere, la sociolinguistica ha scoperto e dato una sistemazione a molti dati che sono del tutto indifferenti per la linguistica teorica, la linguistica del sistema, o su cui la linguistica interna ha poco da dire, ma che hanno rilevanza e significato sociale, e rappresentano il riflesso della società e dei fatti sociali sulla lingua. Dall’altro lato, la sociolinguistica in quanto ‘linguistica realistica’ si presenta come una linguistica incentrata sui concreti parlanti, sulla produzione in situazioni e non sulle strutture astratte, sul sistema linguistico in quanto tale. In base a entrambe queste constatazioni, risulterà evidente come la sociolinguistica possa quindi avere un certo richiamo anche come linguistica per così dire impegnata, attenta ai problemi tipicamente sociali. Tali aspetti pratici e applicativi hanno avuto una parte importante nella prima fase della vita della sociolinguistica come settore disciplinare a sé stante. Una delle principali tematiche che portò alla nascita di un’area di ricerca come la sociolinguistica fu infatti negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso il dibattito sulla ‘teoria dei due codici’ e sulla cosiddetta ‘deprivazione verbale’, legata al nome del sociologo inglese dell’educazione Basil Bernstein, con la scoperta del fatto che molti dei problemi educativi dei bambini proveniente dalle classi sociali svantaggiate, e il loro stesso insuccesso scolastico, dipendevano da problemi inerenti al linguaggio. Secondo Bernstein i bambini delle classi operaie avrebbero avuto a disposizione soltanto un ‘codice ristretto’, cioè un modo di utilizzare la lingua fortemente legato al contesto situazionale specifico e poco capace di elaborazione astratta, che confliggeva con il ‘codice elaborato’ tipico della cultura ufficiale. Al di là delle discussioni di pedagogisti, sociologi e linguisti scatenatesi sulla validità generale di questa teoria, è indubbio che il dibattito contribuì potentemente a porre in primo piano sulla scena scientifica problemi che coinvolgevano intimamente linguaggio e società. Non sarà inopportuno un rapido sguardo alla formazione e allo sviluppo di quest’area disciplinare. Nel formarsi della sociolinguistica, nella seconda metà degli anni Sessanta, sono confluite, assieme alle problematiche relative ai rapporti fra linguaggio e sociologia dell’educazione, le ricerche americane di Labov, Gumperz e Fishman. A Labov si devono la scoperta di quella che è stata chiamata l’ordinata eterogeneità dei comportamenti linguistici e le prime analisi specifiche dell’importanza della variazione nella lingua, del suo significato e della sua sistematicità. Le sue ricerche avevano come campo i minuti comportamenti linguistici dei parlanti, indagati nelle più dettagliate variazioni e sfumature di pronuncia, gli spunti di Gumperz muovevano da un’altra direzione ancora, incentrata sull’interazione verbale e sull’analisi degli eventi comunicativi nelle diverse società e culture. Su un piano più sociologico, confluivano verso la nascente, e ora neonata, sociolinguistica i lavori di Fishman sui problemi dei rapporti fra le lingue nei paesi plurilingue e sulle vicende sociali delle lingue, che inauguravano quel settore che in seguito è venuto a essere definito come ‘sociologia del linguaggio’, e più recentemente come ‘sociologia delle lingue’ (ancora più recentemente, tende ad essere chiamata ‘ecolinguistica’). In Europa, e in particolare in Italia, la sociolinguistica trovò un fertile terreno d’aggancio con la rinomata tradizione preesistente di studi dialettologici. Fra le molte anime odierne della sociolinguistica, è comunque agevole riconoscere due fondamentali correnti. L’una, la sociolinguistica variazionista o correlazionale, si collega direttamente all’insegnamento di Labov. L’altra, la sociolinguistica detta interpretativa si rifà principalmente all’insegnamento di Gumperz. Il criterio fondamentale che distingue le due impostazioni sta nella direzione causale che esse pongono nella relazioni tra i fatti sociali e i fatti linguistici: mentre nella sociolinguistica variazionista la direzione è dai fatti sociali a quelli linguistici, che vengono descritti e spiegati appunto in termini di correlazione con variabili sociali, nella sociolinguistica interpretativa la direzione è opposta, dai fatti linguistici a quelli sociali: il comportamento verbale viene considerato esso stesso una fonte e una causa, almeno parziale, dei rapporti e fatti sociali, un certo numero dei quali vengono visti come creati dal comportamento linguistico stesso. 2. COME DESCRIVERE, ANALIZZARE E SPIEGARE I FATTI SOCIOLINGUISTICI 2.1 COME SI CONDUCE UNA RICERCA SOCIOLINGUISTICA: QUESTIONI, CONCETTI, METODI 2.1.1. Un buon metodo per cominciare a entrare nell’apparato concettuale della sociolinguistica e per fare una prima conoscenza dei suoi metodi è quello di mettersi nei panni di chi debba condurre una ricerca sociolinguistica, e cercare di affrontare, in maniera simulata, i problemi che via via si presentano. Il primo nodo da sciogliere è naturalmente la scelta del tema, dell’argomento o problema su cui svolgere l’indagine. Tutti i temi che in qualche modo possono rivelare qualcosa circa i rapporti fra linguaggio verbale e società, che possono mostrarci significati sociali dell’uso e del comportamento Bisogna aver presente a questo punto un altro fatto di carattere generale e preliminare: qual è, grosso modo, la distribuzione di L e D nella popolazione di una località, una regione ecc.? Si pongono qui due questioni interrelate. La prima è di carattere sostanziale: se L e D sono compresenti nella comunità parlante, questo non vuol certo dire tuttavia che tutti i membri della comunità padroneggino entrambe le varietà. La seconda questione è di carattere definitorio: se almeno un certo numero di parlanti possiedono sia L che D, questo vuol dire che c’è in Italia una sorta di bilinguismo. In che misura la compresenza di L e D permette di parlare di bilinguismo? Cominciamo dalla seconda questione: pare ragionevole parlare di bilinguismo quando fra due o più varietà di lingua usate presso un gruppo o una comunità parlante esista una differenza strutturale piuttosto evidente, ed entrambe abbiano una loro storia autonoma. Anche se non è agevole ‘misurare’ la distanza strutturale fra sistemi linguistici, pare fuor di dubbio che nella maggioranza delle situazioni italiane la distanza fra la lingua italiana e il dialetto locale sia sufficiente per consentire di parlare di bilinguismo, o almeno di un tipo particolare di bilinguismo, appunto, quello ‘lingua standard-dialetto’. Se è così, allora è pienamente giustificato trattare il rapporto fra L e D anche in termini di bilinguismo. Più precisamente, allora, il panorama di sfondo in cui si dovrà inserire la nostra indagine sarà quello di una comunità in cui vi è diffuso bilinguismo L/D, nel senso almeno che una parte dei parlanti è monolingue in L, e una parte è bilingue in L/D. Se esista effettivamente anche una parte dei parlanti che sia monolingue in D, che cioè non sappia o sappia poco e male l’italiano e si esprima in tutte le circostanze della vita quotidiana in dialetto, è cosa questionabile, potendo variare da regione a regione; e si tratterà in ogni caso di una minoranza poco più che trascurabile e marginale. 2.1.4. Ora che le premesse di inquadramento generale della ricerca sono poste, occorre affrontare questioni strettamente metodologiche, di raccolta dei dati. Come raccogliere i dati? E quali e quanti dati? L’obiettivo generale della ricerca, studiare l’uso di italiano e dialetto nella conversazione, impone che i dati primari debbano essere interazioni verbali autentiche, conversazioni in diversi domini situazionali e fra diversi parlanti. In linea di principio, la gamma più disparata possibile di domini situazionali diversi e un campione di parlanti il più ampio possibile. Per rendere però praticamente percorribile la ricerca, che non potrà estendersi selvaggiamente a qualunque situazione e qualunque parlante, occorre scegliere dei tipi di situazione e dei tipi di parlanti da considerare specialmente rappresentativi per il genere di problemi che ci interessa. Poiché nel caso piemontese la dialettofonia è largamente minoritaria, e l’italofonia è da ritenere il comportamento non marcato in tutte le situazioni, cioè il caso di default, occorrerà scegliere anche tipi di situazione che siano presumibilmente favorevoli a far emergere l’impiego del dialetto. Per quanto riguarda i parlanti, occorrerà che il campione lasci spazio a tutte le variabili sociodemografiche che sappiamo correlare con la dialettofonia vs. italofonia: differenti classi di età, differenti gradi di istruzione, differenti attività lavorative e stili di vita e orizzonti di riferimento, ecc. Inoltre, data la grande differenza esistente fra ambiente urbano/grandi centri e campagna/piccoli centri, sarà bene procedere ad almeno due raccolte parallele di dati, l’una in ambiente urbano, l’altra in qualche piccola località della provincia. Quanto alla tecnica materiale di raccolta dei dati, per avere materiale il più autentico possibile, il meno filtrato dal fatto stesso di raccoglierlo e dalla presenza nella situazione di un osservatore/raccoglitore, la cosa migliore sarebbe poter registrare interazioni verbali a microfono nascosto, all’insaputa di coloro che vengono registrati. Tale metodo presenta tuttavia qualche problema, non solo di fattibilità concreta, ma anche di etica della ricerca e di qualità della registrazione. Uno dei padri della sociolinguistica, William Labov, nella sua pionieristica ricerca sulle variazioni di pronuncia a New York City per raccogliere il materiale per lo studio del comportamento del fonema /r/ andava per esempio in giro per i grandi magazzini Saks, Macy’s e Klein’s chiedendo informazioni su un reparto che si trovava al quarto piano. Essendo, tuttavia, concentrato su un singolo fenomeno fonetico, poteva permettersi di non registrare magnetofonicamente, annotandosi semplicemente per iscritto la risposta ottenuta circa la /r/. (vd saggio) Per ottenere dialetto elicitato in una situazione decisamente sfavorevole alla dialettofonia e con un relativo controllo della registrazione nascosta, in ricerche effettivamente compiute in Piemonte sono state richieste in dialetto indicazioni stradali a sconosciuti: è interessante notare che mentre in località di provincia nel Piemonte orientale la richiesta in dialetto otteneva spesso (anche se non sempre) risposte in dialetto (cosa particolarmente significativa se si tiene in conto che l’intervistatore era giovane), un analogo tentativo condotto nel centro di Torino è immediatamente abortito: la richiesta in dialetto di un giovane provocava stupore, non gli si rispondeva o gli si rispondeva in italiano in malo modo, con commenti sulla ‘stranezza di questi giovani’. Poiché non si mira a indagare un fenomeno linguistico particolare, sul quale raccogliere materiale mirato, le nostre registrazioni potranno consistere di interazioni di qualunque genere e su qualunque argomento. Se la registrazione è palese, e il ricercatore partecipa attivamente all’interazione, la registrazione di parlato spontaneo si avvicina allora all’intervista vera e propria. In questo caso, sarà comunque utile che il ricercatore cerchi di indirizzare l’andamento della conversazione in maniera tale da raccogliere la maggior quantità di materiale parlato spontaneo e da assicurare una certa comparabilità con i dati di altre registrazioni nella stessa ricerca. 2.1.5. Poniamo di aver risolto tutte le questioni relative al campionamento e alla raccolta dei materiali; e di aver in archivio una quarantina di ore di registrazione di conversazioni di vario genere con diversi tipi di parlanti. Ammettiamo anche che intervengano nelle registrazioni 48 parlanti diversi, rappresentativi dei due sessi, di diversi strati sociali e di quattro diverse classi di età. In un’indagine che si profila di tipo essenzialmente qualitativo, senza scopi statistici, possiamo trattare con una certa nonchalance la questione del campionamento dei parlanti intervistati; tuttavia, questa dovrebbe invece essere adeguatamente impostata in una ricerca di carattere quantitativo, con finalità socio-statistiche, come spesso si fa in sociologia del linguaggio, badando non solo che tutte le variabili sociodemografiche basilari siano tenute presenti in maniera coerente, ma anche che le diverse sottoclassi che si ottengono incrociando le variabili siano numericamente tali da permettere di trarre conclusioni affidabili. Si presenta ora il problema di come utilizzare il materiale. Per renderlo utilizzabile, bisogna ‘fissarlo’, cioè procedere a una trascrizione delle registrazioni effettuate. Il lavoro di trascrizione è una parte molto importante della ricerca sul campo, in quanto oltre a essere la premessa necessaria per rendere analizzabile il materiale raccolto consente anche al ricercatore un primo contatto con i dati grezzi, gli dà la possibilità di farsi una prima idea dello stato delle cose, e gli permette di scoprire nuove piste di indagine, magari non previste nel piano iniziale della ricerca ma che emergono dal materiale empirico stesso. Occorre quindi accettare di impiegare per la trascrizione tutto il tempo, e la pazienza, occorrenti. Si calcola che, a seconda della qualità e del genere (lunghi monologhi vs. frequenti sovrapposizioni, per esempio) della registrazione e della quantità e accuratezza di dettagli voluti dalla trascrizione, il tempo richiesto dalla trascrizione scientifica di parlato spontaneo possa andare da dieci volte circa il tempo della registrazione stessa (un’ora e quaranta per trascrivere dieci minuti di parlato) ad anche venti volte. Le cose cambiano molto, per esempio, se conduciamo un’indagine incentrata sulla fonetica e con finalità fonetiche specifiche, nel qual caso come minimo occorrerà impiegare una grafia speciale quale quella dell’IPA (alfabeto fonetico internazionale); nel caso in cui non si abbiano obiettivi di analisi fonetica, ma si badi alla morfologia, alla sintassi, al lessico, alla struttura della conversazione, basterà impiegare la grafia convenzionale. Più importante è, tuttavia, dar conto di certi elementi tipici dell’interazione parlata. Si ricorre in questo caso a convenzioni di trascrizione detta conversazionale. Una trascrizione conversazionale tende a rappresentare anche i principali aspetti non linguistici di ciò che avviene nel parlato reale: sovrapposizioni di parlanti e di turni, interruzioni, esitazioni e pause, comunicazione paralinguistica che accompagna la produzione verbale (come riso, aumento del volume di voce, ecc.), tratti soprasegmentali rilevanti (come curve intonative particolari, ecc.). 2.1.6. Già in uno scambio di portata e complessità molto ridotta è possibile assegnare ai passaggi di codice precise, anche se a volte piuttosto sottili, funzioni discorsive: la scelta di L o di D per i diversi segmenti del discorso non è affatto neutra e indifferente, ma fornisce per così dire un sovrappiù di significato alle diverse enunciazioni. Naturalmente, questo è solo un esempio delle funzioni che la commutazione di codice può svolgere: in linea di principio, il passaggio da una lingua un’altra può ricoprire una gamma molto ampia di valori pragmatici. Oltre a segnalare punti tematici rilevanti o particolari nella struttura e nell’andamento della narrazione, la commutazione può infatti svolgere funzioni connesse ai partecipanti e ai loro ruoli nell’interazione, come l’adeguamento all’interlocutore (spesso la scelta della lingua della conversazione è oggetto, si dice, di ‘negoziazione’ fra i parlanti, per cui uno dei partecipanti può accettare la scelta proposta a un certo punto dall’altro), la ripetizione o la citazione; o realizzare atti linguistici particolari, come imprecazioni, insulti, affermazioni polemiche o scherzose, battute comiche o sarcastiche, ecc.; o anche segnalare essa stessa il cambiamento del carattere attribuito alla situazione comunicativa (per esempio, nel caso che la commutazione avvenga a seguito dell’ingresso di un altro parlante nell’interazione verbale o semplicemente sulla scena dell’interazione). Una condizione, o una causa, della commutazione può poi anche essere – e anche in questo caso presenta una sua motivazione situazionale e un suo valore pragmatico –, ovviamente, la semplice necessità di riempire lacune lessicali o l’esigenza di formulare meglio un determinato concetto, nella lingua che per parlare di quell’argomento è più fluente per un dato parlante. Ma la lista delle possibili funzioni della commutazione è ampia e aperta: molto dipende dalle comunità parlanti in cui essa ha luogo come uno dei comportamenti esibiti nella conversazione quotidiana. 2.1.7. Ma c’è un’altra prospettiva secondo cui analizzare il pezzo di conversazione L/D: interrogarsi, invece che sulle funzioni svolte, sulla grammatica del passaggio da un codice all’altro. Il cambiamento di lingua può avvenire in qualunque punto del discorso? È insensibile alla strutturazione sintattica di quelle che viene detto? Ci sono punti particolari, nella catena verbale, in cui il passaggio è favorito oppure vietato? Può avvenire all’interno di singole frasi? Per rispondere a domande di questo genere, dobbiamo passare a un’analisi linguistica, e più precisamente sintattica, della commutazione di codice. A proposito di questo problema, uno dei dialoghi riportati ci permette di fare alcune prime considerazioni: la commutazione avviene preferibilmente al confine tra una frase e l’altra, e l’articolazione sintattica sembra dunque un confine importante per l’alternanza di codice; il passaggio da un sistema linguistico all’altro tuttavia avviene spesso in concomitanza con un cambiamento di pianificazione e struttura sintattica, con una frase che inizia in un codice ma subito s’interrompe e viene formulata diversamente nell’altro codice. Si apre qui l’interessante capo del code-mixing, o intrasentantial code-switching, o enunciazione mistilingue. Casi topici di enunciati mistilingui sono per esempio: ‘j’ai acheté an American car’. In questo esempio, prodotto da un parlante del Canada francofono, abbiamo una frase con il predicato verbale in francese e il sintagma nominale complemento oggetto in inglese. La frammistione di elementi di due lingue in una stessa frase è soggetta a regole e restrizioni sintattiche o è del tutto libera e causale? I linguisti si sono a lungo interrogati sull’esistenza di principi regolativi dell’enunciazione mistilingue e soprattutto, dato che la risposta più condivisa è che tali principi esistano, su quali realmente siano. La sociolinguista americana Carol Myers- Scotton ha elaborato un importante modello teorico che prevede l’azione di precisi principi secondo un modello ignoto alla lingua standard, e tipico invece di quello che viene chiamato ‘italiano popolare’. La frase relativa in italiano è un bell’esempio di variabile sociolinguistica a livello sintattico. La dimensione diastratica di variazione può essere concepita come un asse verticale che va dalle varianti e dagli insiemi di varianti più ‘in alto’ nella scala sociale a quelle più ‘in basso. Le forme verso l’alto dell’asse diastratico sono socialmente accettate, e dotate di prestigio, le forme verso il basso sono socialmente riprovate, non hanno prestigio, e possono essere fonte di discriminazione sociale. L’italiano popolare è la tipica varietà ‘bassa’. La varietà nota come italiano popolare non sempre, tuttavia, risulta ben distinguibile da altre varietà di lingua su altri assi, in quanto un certo numero di tratti linguistici devianti dallo standard e dalla norma scolastica si ritrova presso più varietà. Ci sono comunque dei tratti linguistici, ai diversi livelli di analisi, fonetica e fonologia, morfologia, sintassi, lessico, semantica e pragmatica, che costituiscono indicatori precisi di italiano popolare: un tratto che ricorre sicuramente solo in italiano popolare è l’estensione del pronome clitico ci, che nella grammatica standard ha i due valori di pronome obliquo di 1a persona plur. e di pronome locativo, a pronome personale obliquo di 3a persona, generalizzato anche agli impieghi allocutivi (vale a dire come pronome con cui ci si rivolge a un interlocutore). Un paio di esempi tipici: quello lì che non ci ho portato quella roba; dove oltre al nostro ci per gli va notata anche la costruzione marcatamente non standard della relativa e l’uso insistito del dimostrativo deittico quello, che rimanda al contesto situazionale concretamente presente. 2.2.2. All’inizio del nostro viaggio nella sociolinguistica abbiamo già fatto conoscenza diretta anche della seconda grande dimensione di variazione. L’assunto di base questa volta è: ‘la lingua varia attraverso lo spazio’. A seconda della provenienza geografica della popolazione che parla una certa lingua, si hanno insieme di varianti che sono connesse a questo o quel luogo di provenienza e/o di vita, e che quindi la indicano e manifestano nel comportamento linguistico del parlante. La diversificazione geografica è evidente nelle grandi lingue parlate come lingue standard e ufficiali in più paesi, nelle quali non solo si sono venute a creare una pronuncia e una parte del lessico tipiche e diverse da paese a paese, ma anche si possono dare diversi standard e diverse norme per i diversi paesi nei quali la lingua è lingua materna della popolazione ed è lingua ufficiale: il tedesco per esempio ha tre standard, uno di Germania, uno austriaco e uno svizzero. Tali lingue vengono chiamate ‘lingue policentriche’ (o ‘pluricentriche’). In questi casi si creano dunque delle vere e proprie varietà statali di lingua. L’inglese trapiantato nelle colonie dell’America settentrionale a partire dal Seicento ha assunto man mano una propria fisionomia, differenziandosi dal British English nella pronuncia e in tutta una serie di elementi lessicali: nell’inglese d’America (spesso chiamato General American, standard americano basato sulla varietà più diffusa e di prestigio delle Midlands) elevator è quello che in British English è lift “ascensore”. Diffusa in tutte le lingue, e particolarmente rilevante per l’italiano, è tuttavia la differenziazione tra le diverse regioni geografiche in cui una lingua è parlata. La differenziazione geografica è di solito specialmente evidente nel lessico e nella fonetica: è a questi livelli che si situano in primo luogo le variabili sociolinguistiche sensibili a questa dimensione. Tale dimensione di variazione è detta ‘variazione diatopica’. La dimensione diatopica di variazione è macroscopica in italiano, e lo era ancora di più di alcuni decenni or sono. Si apre qui tutta la tematica dei cosiddetti italiani regionali. In 1.1.2. abbiamo visto un esempio di enunciato fortemente marcato come romano o romanesco; e in effetti c’è in questo caso il problema di trovare un confine preciso fra l’italiano e il dialetto. A seconda del peso che intendiamo dare ai fatti morfologici, possiamo assegnare i due enunciati o a italiano regionale romano fortemente marcato o a dialetto romanesco poco marcato. Si può anche aggiungere che la seconda battuta appare più dialettale della prima, poiché presenta anche il tratto fonetico, tipico dei dialetti centrali, dell’assimilazione regressiva del nesso consonantico -nd-, mentre nella prima tale tratto non è realizzato. Si diceva che la variazione diatopica è (ancora) molto pervasiva in italiano. L’italiano per esempio è una lingua ricca di geosinonimi, cioè di parole diverse nelle diverse parti d’Italia per designare lo stesso oggetto o lo stesso concetto, anche parole di lessico di base molto frequenti nella comune vita quotidiana: parole come papà/babbo o anguria/cocomero. Le differenze di pronuncia tra i diversi italiani regionali sono ancor più rilevanti. Va da sé che un indicatore essenziale di regionalità rimane la cadenza o curva intonativa dell’enunciato; sulla variazione diatopica nell’intonazione peraltro sono a disposizione molti meno studi approfonditi rispetto alla variazione diatopica agli altri livelli di analisi. Per la morfologia derivazionale, è per esempio ben nota la specializzazione rispettivamente toscana/standard, romana e settentrionale delle varianti del suffisso -aio. Per la morfologia flessionale, si hanno per esempio assegnazioni diverse di genere grammaticale, come lo scatolo, la sale e una male, il travo. È altresì caratteristico l’impiego di pronomi clitici soggetto in italiano toscano. Nell’italiano centro-meridionale un altro tratto morfosintattico, una variabile sociolinguistica che merita un cenno, è il cosiddetto ‘accusativo preposizionale’, vale a dire la marcatura del complemento oggetto con la preposizione a quando sia costituito da sintagmi con un referente [+umano]: chiama a Pietro, senti a me (con estensioni anche a sintagmi col tratto [+animato]: lascialo stare al cane). Un aspetto interessante della dinamica degli italiani regionali consiste nel fatto che le differenze fra di essi, e quindi la marcatezza diatopica relativa, stanno rapidamente attenuandosi presso le giovani generazioni, specie per quel che riguarda la fonetica. Grazie ai fenomeni di standardizzazione e omogeneizzazione della pronuncia che hanno segnato la seconda metà del secolo scorso, oggi la maggioranza dei giovani in ambiente urbano mostra una pronuncia o tendenzialmente standard, con scarsa e sporadica presenza di tratti marcati regionalmente, o composita, con la compresenza di tratti da ricondurre a diversi italiani regionali. 2.2.3. Un terzo assunto generale di base circa le dimensioni della variazione sociolinguistica è il seguente: ‘la lingua varia attraverso le situazioni comunicative’. Anche con questo genere di variazione abbiamo già fatto conoscenza, in particolare in 1.1.4. e 1.1.5., quando abbiamo commentato usi della lingua tipici rispettivamente della conversazione informale amicale e dei messaggi scritti al telefono cellulare. A seconda del tipo di situazione in cui avviene la comunicazione verbale e dei caratteri e fattori che la contrassegnano, infatti, assistiamo a realizzazioni linguistiche anche molto diverse, che riflettono il modo in cui i fattori esterni influiscono sulla caratterizzazione della situazione comunicativa e allo stesso tempo la modalità con la quale il parlante interpreta e codifica con il suo stesso comportamento linguistico una determinata situazione. In ogni lingua esistono modi per designare cose e costrutti che sono tipici del parlare comune, e altri che, con lo stesso valore referenziale, sono invece tipici di un linguaggio ricercato oppure di un linguaggio tecnico: in italiano, per esempio, comprare è termine di lingua comune, acquistare è un suo sinonimo in un linguaggio un po’ più formale, acquisire un altro sinonimo in linguaggio più ricercato e tecnico. Per questa dimensione di variazione si parla di ‘variazione diafasica’, nella quale intervengono molteplici fattori, e si tratta di una dimensione molto complessa. Spesso si distinguono all’interno della dimensione della diafasia due grandi sottocategorie, connesse in maniera essenziale rispettivamente con il carattere sociale della situazione e con il tipo di rapporto esistente o che si istituisce fra parlante e interlocutore e con la sfera contenutistica e con l’argomento del discorso. Per la prima sottocategoria si parla di variazione di registro, o anche variazione stilistica; per la seconda sottocategoria la terminologia è più fluttuante, anche se spesso si parla di variazione di sottocodice o anche di variazione settoriale, e ‘sottocodici’ o ‘linguaggio settoriali’ sono in sociolinguistica le varietà connesse con questa sottocategoria della dimensione diafasica. Tra, per esempio, lo vuoi ‘sto caffè? E prende il caffè che ha ordinato? Diremo allora che c’è una differenza di registro, mentre fra dolore muscolare e mialgia c’è una differenza di sottocodice. All’interno della dimensione diafasica si situa tuttavia un’importante altra sottodimensione di variazione, che per certi aspetti trascende di fatto l’ambito della stessa diafasia, anche se il fattore principale che correla con essa sta nella situazione comunicativa, e per la precisione nel mezzo o canale ‘fisico’ attraverso cui passa la comunicazione verbale. Si tratta della differenziazione fra uso parlato e uso scritto della lingua, dipendente per molti aspetti dalle caratteristiche strutturali e di realizzazione che il mezzo o canale impone alla codificazione del messaggio linguistico; spesso ci si riferisce a questo genere di variazione, che a rigore si situerebbe all’interno della dimensione diafasica, come a una quarta dimensione fondamentale di variazione, la ‘variazione diamesica’. Si noti che le tre, o quattro, dimensioni fondamentali di variazione della lingua che abbiamo visto, diastratia, diatopia, diafasia e diamesia, sono tutte sincroniche, che si situano lungo un unico taglio orizzontale nell’asse del tempo: ogni lingua in un certo momento temporale e periodo storico sconosce fatti di variazione diastratica, diatopica, diafasica (e diamesica; ammesso che la lingua abbia una forma e un uso scritti; non tutte le lingue hanno anche un impiego scritto). Vi è in effetti una quarta (o quinta) importante dimensione di variazione della lingua: le lingue variano attraverso il tempo, ed esiste quindi la ‘variazione diacronica’, che viene peraltro a confluire con il grande fenomeno del cambiamento o mutamento linguistico, e che in quanto tale fuoriesce dall’ambito di azione della sociolinguistica. 2.2.4. Vista la pervasività della variazione, che pare essere un carattere costitutivo della vita stessa delle lingue e del rapporto fra le lingue e i parlanti, viene infine spontaneo interrogarsi su quali siano le cause generali e profonde di tale variazione. Una delle risposte che si possono dare è che la variazione risponde a bisogni innati nella specie umana di differenziazione e di identificazione, e ha quella che in biologia si chiamerebbe una funzione adattativa. Una duplice funzione adattativa, si potrebbe dire. Infatti, la variazione linguistica, con le sue varie sfumature che si aggiungono ai valori comunicativi referenziali del codice lingua, consente allo strumento lingua di rispondere nella maniera più flessibile e funzionale ai bisogni sempre diversificati e sempre più complessi della vita e dei rapporti sociali. Allo stesso tempo, la variazione linguistica può essere utilizzata, conferendole determinati valori simbolici, come un importante mezzo e veicolo di formazione, affermazione e trasmissione dell’identità socioculturale degli individui umani. 3. IL RAGGIO E I CAMPI DI AZIONE DELLA SOCIOLINGUISTICA 3.1. L’ARCHITETTURA DELLA LINGUA I linguaggi settoriali, detti anche linguaggi speciali o lingue speciali, sono microcosmi linguistici facenti parte di ogni lingua, costituiti fondamentalmente da elementi specifici, quasi gergali, espressioni tecniche o gruppi di vocaboli utilizzati nei vari settori professionali o sociali: medicina, informatica, economia, sport ecc. spesso sono poco noti o del tutto sconosciuti al parlante medio, chi è al di fuori del mondo professionale in cui un determinato linguaggio viene usato; ma in altri casi parte della terminologia specifica di un settore socio- professionale si è diffusa anche tra il parlante medio, quanto meno nei suoi elementi di base: si pensi per esempio a termini come inflazione, o auto catalitica. Altre volte invece risulta molto difficile comprendere un linguaggio tecnico; pensiamo ad esempio a parte della terminologia medica, o al gergo utilizzato dai giovani, in cui i comuni termini della lingua italiano vengono usati con altri significati. La lingua comune e i linguaggi settoriali non sono scomparti isolati, ma convivono come varietà di lingua usate da uno stesso parlante in contesti comunicativi diversi, sempre in stretto contatto e con continui scambi di lessico. Gli scambi lessicali tra linguaggi settoriali e linguaggio comune sono estremamente proficui per entrambi, arricchendo entrambi di vocabolario e, quindi, di ampiezza espressiva. Dal punto di vista del rapporto tra linguaggio e società, ci si può domandare la ragione dell’esistenza dei linguaggi settoriali, se questi sono complicati, astrusi per la maggior parte dei parlanti. È evidente che i linguaggi settoriali creano delle barriere linguistiche se usati per comunicare con ‘non addetti ai lavori’. Se, invece, consideriamo i linguaggi settoriali nella loro vera natura, cioè per lo scopo per il quale sono nati, allora nemmeno le lingue speciali costituiscono barriere linguistiche, o modi comunicativi usati strumentalmente per confondere l’interlocutore, ma sono risorse che la lingua nel suo complesso fornisce per comunicare in modo chiaro ed efficace tra addetti ai lavori. L’uso di un lessico specifico e settoriale è, quindi, uno strumento indispensabile per un passaggio di informazioni che descriva in modo preciso, univoco e appropriato la realtà. 3.3. Sociolinguistica e comunicazione mediata dal computer Un settore che ha acquisito recentemente notevole importanza o interesse anche dal punto di vista sociolinguistico è quello dell’uso della lingua ni nuovi tipi di comunicazione verbale introdotti dalle moderne tecnologie elettroniche, e in particolare dalla diffusione del pc. La pervasività della comunicazione via computer, sia nelle forma di e-mail che nella forma di chat, induce a dedicare una riflessione a questo particolare uso del linguaggio, che sta cambiando le modalità di comunicazione in alcuni loro aspetti tutt’altro che marginali. L’email e la chat, insieme ai brevi messaggi scritti inviati col telefono, stanno diventando per molti un modo di comunicare che sostituisce in parte la comunicazione orale, con il trasferimento nello scritto di modi d’uso della lingua tipici del parlato. La posta elettronica presenta una vasta gamma di tipi di testo e di variazioni in relazione alla situazione comunicativa: dall’estrema formalità all’estrema informalità. In questo caso l’e-mail e la chat quasi si sovrappongono dal punto di vista della situazione comunicativa, tenendo, però, sempre in conto la caratteristica di sincronicità della comunicazione, tipica solo della chat. La tradizionale divisione tra scritto e parlato viene, però, in qualche modo superata nella scrittura mediata dal computer. Si tratta, infatti, di una comunicazione scritta con una forte componente interattiva, che configura una varietà di lingua a sé. oltre a fenomeni di abbreviazione e contrazione del lessico, sono frequenti espedienti, anche semplicemente di punteggiatura, per rendere nello scritto caratteristiche che appartengono alla sfera emotiva dei parlanti/scriventi (eh, punti esclamativi, puntini di sospensione, virgolette ecc.). Appare tuttavia chiaro che l’e-mail informale, se pur presenta tratti tipici del parlato, ha spesso un struttura macrosintattica molto vicina a quella della produzione scritta. Sembra quindi riduttivo considerare la comunicazione mediata dal computer come un mero sostituto di una conversazione parlata; essa pare invece dare luogo a una varietà di lingua a sé con caratteristiche dal punto di vista macrosintattico, lessicale, paralinguistico e anche soprasegmentale. La chat è caratterizzata, a differenza dell’e-mail, dalla simultaneità della comunicazione, gli argomenti trattati sono quasi esclusivamente di vita quotidiana, con un registro informale o molto informale. Proprio la simultaneità dello scambio implica la rapidità nella digitazione del testo (l’altra persona aspetta in tempo reale una risposta, un commento) che spiega i frequenti errori di battitura non corretti. Inoltre, è più evidente l’uso di una varietà di lingua informale con scarsa pianificazione del discorso, l’uso di esclamativi come ah! di continuativi generici come va be’, dai, ecc. In conclusione, la varietà linguistica della comunicazione mediata dal computer può trovare una collocazione specifica e unica nel continuum tra lingua scritta e lingua parlata. Essa costituisce infatti una sorta di spazio varietistico tridimensionale: si tratta di messaggi grafici che riproducono alcuni caratteri strutturali e tratti del parlato e che sono caratterizzati da una forte intenzione di interattività, che conferisce loro uno stile particolare; una loro peculiarità è appunto che grazie alla loro specifica natura sfruttano possibilità non convenzionali permesse appunto dal mezzo grafico e dal canale digitato. Ma la comunicazione mediata dal computer presenta almeno un duplice motivo di interesse per la sociolinguistica. Oltre ai temi accennati, che riguardano l’articolazione della lingua in varietà, vi è anche la questione delle lingue presenti nella comunicazione mediata dal computer, e in particolare delle lingue in internet. Per esempio, un aspetto interessante della lingua degli sms è anche la ricorrenza del gioco verbale che fa ricorso a impasti dialettali o multilingui. Quanto a internet, la pervasività dell’inglese è ovvia. Molto meno ovvio, e anzi per molti aspetti insospettato, è invece trovare una presenza tutt’altro che insignificante dei dialetti nei siti del web. 3.4.Lingua dei giovani e lingua delle donne 3.4.1. L’età e il sesso sono due fattori sociodemografici che correlano in maniera interessante con il comportamento linguistico dei parlanti, come del resto c’era da aspettarsi, costituendi tali due variabili non un mero dato demografico-biologico bensì una categorizzazione dei componenti di un società ricca di implicazioni socio-culturali. Molte ricerche sociolinguistiche si soffermano sui rapporti fra queste due variabili sociali e le variabili sociolinguistiche, e in generale i comportamenti linguistici esibiti. Per quel che riguarda la variabile età, in situazioni a noi familiari essa risulta correlare molto significativamente per esempio con la dialettofonia: se dobbiamo trovare un parlante tipicamente dialettofono, in Italia, dovremo andarlo a cercare fra gli anziani, mentre se vogliamo trovare un parlante sicuramente non dialettofono lo cercheremo in una giovane (studentessa, abitante in città). In tutti i repertori con dislivelli di prestigio notevoli fra una lingua o varietà alta e una lingua o varietà bassa, i giovani, salvo situazioni particolari, saranno più esposti e più orientati alla lingua o varietà alta. Quanto all’identificazione di varietà di lingua, e tipi di comportamenti verbali, specifici delle classi di età, la ricerca in Italia sinora si è soffermata solo marginalmente, e più per opera di sociopsicologi che di sociolinguisti, sul rapporto fra invecchiamento/vecchiaia e prestazione linguistica; mentre nell’ultimo quindicennio è diventato tema alla moda quello della ‘lingua dei giovani’. Esiste un ‘linguaggio giovanile’, e se sì che genere di varietà è? Su queste cose si p scritto molto anche in Italia, dove si è andati alla ricerca di modi comunicativi e caratteri linguistici propri dei giovani, con numerose indagini empiriche sul campo. Le ricerche hanno condotto certamente all’identificazione di un certo numero di tratti molto ricorrenti nel comportamento linguistico giovanile (soprattutto parlato), anche se recentemente non si sono fatte nuove scoperte significative in proposito. Il risultato più evidente è il riconoscimento dell’esistenza di un ‘lessico giovanile’, un insieme di lessemi espressivi, metaforici, disfemistici, a volte neologismi coniati all’occasione; in buona parte gli stessi nelle varie regioni d’Italia, ma con un certo ammontare di termini tipici di questa o quell’area o città. Questo può configurare il cosiddetto linguaggio giovanile come una sorta di gergo. È infatti (socio)linguisticamente definibile come gergo una varietà di lingua che è marcata al tempo stesso in diafasia (in quanto è impiegata solo in determinate situazioni) e in diastratia (in quanto si forma all’interno di un certo gruppo sociale, e ne diventa contrassegno tipico); che è caratterizzata da un lessico proprio, spesso difficilmente decodificabile da non appartenenti al gruppo; che non ha strutture grammaticali sue proprie, ma è sempre ‘ospitata’ all’interno di un’altra lingua; e che funge da importante contrassegno dell’identità del gruppo, contrapponendolo come alternativo alla società comune. La sua incidenza nel comportamento linguistico di adolescenti e giovani non va però sottovalutata: si tratta certo di un lessico molto appariscente, per i suoi caratteri di forte espressività anticonformista e di incomprensibilità e stranezza per chi non faccia parte del gruppo, ma la cui presenza effettiva nel parlato quotidiano dei giovani è tutto sommato non così ampia. D’altra parte, oggi è ovviamente molto incrementato, nel lessico giovanile, il peso e il ruolo dei neologismi anglicizzanti connetti con internet e i telefoni cellulari. Dall’incrocio fra espressività iconoclasta del linguaggio giovanile e libertà disinibita e ludica di espressione connessa con il mezzo particolare è nata poi una caratteristica molto evidente della lingua dei giovani nelle chat lines: la marcata volgarità e l’esagerazione pornolalica e coprolalica. 3.4.2. La variabile ‘sesso del parlante’ è stata oggetto di attenzione per la sociolinguistica fin dai suoi albori. Oggi si fa riferimento alle differenze nel comportamento linguistico fra uomini e donne in termini di ‘variazione di genere’, intendendo per ‘genere’ il correlato sociale della proprietà biologica di essere maschio o femmina, la codificazione sociale e l’insieme dei ruoli connessi al sesso. È infatti evidente che i caratteri sociolinguisticamente interessanti dell’essere uomo o donna, anche se esistono ovviamente differenze nelle produzioni linguistiche rispettive causate meramente da fatti biologici e anatomici, non hanno nulla a che fare con il sesso naturale, ma dipendono dalla definizione sociale assegnata ai ruoli reciproci. Occupandosi della correlazione fra genere e variazione linguistica, i sociolinguisti hanno presto notato quello che è stato definito sociolinguistic gender pattern, ‘schema sociolinguistico del genere’, secondo cui le donne sarebbero più sensibili allo standard, al modello di prestigio e, quando esistono varianti socialmente favorite e varianti socialmente sfavorite, tenderebbero più degli uomini a utilizzare le prime. Tale stereotipo è perfettamente congruente con la maggior attitudine alla dialettofonia presso gli uomini rispetto alle donne nella situazione italiana. Si badi tuttavia che il fatto che le donne mostrino maggior attenzione allo standard non è sempre vero in tutte le situazioni indagate, e che per lo più le differenze fra uomini e donne nella scelta delle varianti sono piccole. E spesso le differenze sono interrelate con differenze di classe sociale in maniera tutt’altro che perspicua. Labov nella sua analisi della variazione ha trovato per esempio uno schema abbastanza ricorrente: è solo nella classe sociale più alta della stratificazione da lui adottata (la upper middle class) che gli uomini presentano più varianti non standard delle donne. Labov ha anzi osservato che in generale per quanto riguarda la variabilità sociolinguistica le donne «si sono dimostrate o ‘più alte’ o ‘più basse’ di tutti gli uomini (sono tutti femminili i valori estremi, verso l’alto e verso il basso). Quindi sono donne quelle che presentano o il massimo della conservazione, o il massimo dell’innovazione». Per continuare a usare sue parole, «senza dubbio le donne sono parlanti ‘accurate’ quando non ci sono cambiamenti in atto»; ma se ci sono mutamenti in atto, le donne possono anche essere i parlanti meno accurati, vale dire all’avanguardia nella realizzazione delle forme innovative. Il modo apparentemente contraddittorio delle donne di comportarsi rispetto alle variazioni che indicano mutamenti in atto, secondo Labov, ha la sua spiegazione nella constatazione che «le donne che sono anticonformiste non sono in tutto» mentre «le donne che sono conformiste lo sono in tutto». Vediamo dunque che l’attenzione della sociolinguistica, nell’analizzare la relazione fra genere e variazione, si sposta dalla mera considerazione statica della dialetto vengono entrambi adoperati nella conversazione ordinaria. La terza proprietà, ‘B è la varietà della socializzazione primaria’, è connessa con la seconda proprietà, e riguarda la funzione di lingua come veicolo della prima educazione, impiegata per rivolgersi ai bambini piccoli e in famiglia, e quindi trasmessa direttamente di generazione in generazione. Nella diglossia, B è la lingua della socializzazione primaria; mentre nella dilalia succede il contrario, la lingua della socializzazione primaria è la varietà A; e nel bidialettismo possono essere presenti nella socializzazione primaria sia l’una che l’altra varietà. Infine, la quarta proprietà, ‘chiara differenziazione funzionale fra A e B’, che a prima vista può sembrare in contraddizione o sovrapposizione con la seconda proprietà, in realtà coglie il fatto che una netta differenziazione funzionale si può dare anche se le lingue o varietà si spartiscono e sono compresenti in certi domini d’uso. Il fatto che italiano e dialetto siano tutt’e due impiegati nella conversazione quotidiana non toglie che ci sia fra loro una netta differenza di raggio d’azione e di funzioni svolte, e che certi impeghi e domini siano esclusivi dell’italiano. Mentre non pare oggi che vi siano domini o classi di situazioni esclusivo ambito del dialetto. Il dialetto non è mai ‘obbligatorio’, mentre l’italiano, in certi ambiti, lo è. Quindi, mentre va da sé che c’è una spiccata differenziazione funzionale nella diglossia, c’è anche nella dilalia, in cui le funzioni di A e di B sono solo parzialmente in sovrapposizione. La differenziazione invece è molto meno evidente, o dubbia, nel bidialettismo, dove il ricoprimento funzionale fra le varietà pare piuttosto alto. 3.6. Plurilinguismo e contatto linguistico 3.6.1. Il plurilinguismo è una situazione di fatto molto diffusa al mondo, a qualunque livello di comunità linguistica si faccia riferimento. Situazioni bi- o plurilingui sono anzi da ritenere le più normali, essendo il caso marcato piuttosto quello del monolinguismo. Lo studio del plurilinguismo presenta tematiche e problematiche di portata ampia e differenziata. In effetti, una qualche esperienza di plurilinguismo fa parte della vita quotidiana di ciascuno di noi, nella moderna società postindustriale e della comunicazione; anche di chi sia rigidamente monolingue. Non solo possiamo entrare in contatto con il dialetto sempre, – e i dialetti italo- romanzi sono sistemi linguistici diversi rispetto alla lingua standard, cosicché si può sostenere a ragione che è diffuso nel nostro paese un certo tipo di bilinguismo, sia pure con i caratteri un po’ particolari rispetto al bilinguismo propriamente detto – ma anche e soprattutto nelle comunità urbane è dato sempre più frequente entrare in contatto con le multiformi lingue dell’immigrazione straniera. Inoltre, la diffusione della comunicazione mediata dal computer porta fette sempre più ampie della popolazione a contatto almeno scritto con l’inglese, lingua della globalizzazione. Il plurilinguismo rappresenta dunque un’esperienza comune anche nel nostro paese, che era tradizionalmente considerato un paese in sostanza monolingue. Sono evidenti i numerosi aspetti di rilevanza che il plurilinguismo e i repertori plurilingui hanno per la sociolinguistica: correlano decisamente con fattori sociali non solo la distribuzione delle diverse lingue nella società e presso i parlanti e la presenza delle lingue nei diversi domini, ma anche le funzioni che esse svolgono e il loro impiego, sotto forma di scelta di codice o di alternanza di codice o di commutazione di codice, nella conversazione ordinaria. Sono anche particolarmente interessanti i fenomeni di influenza di una lingua su un’altra, di mescolanza e di mistilinguismo che sono indotti dal contatto linguistico. Il contatto fra sistemi linguistici è naturalmente coessenziale col plurilinguismo, e può condurre alla formazione di varietà di contatto o di vere e proprie lingue miste. Contesti estremamente plurilingui e frammentati, come quello del Camerun, sono anche il terreno ideali di coltura per la formazione di lingue di contatto e di lingue miste, e per la pidginizzazione e formazione di lingue pidgin. Le lingue di contatto sono spesso varietà rudimentali, semplificate o interlingue approssimative di una delle lingue materne dei gruppi che sono in contatto o di un’altra lingua che funge da lingua franca; situazioni sociolinguistiche speciali in cui un contatto particolarmente intensivo porti a una versa e propria fusione delle grammatiche di due lingue in contatto o in cui vi sia un marcato plurilinguismo senza contatti intensivi e con la necessità di uno strumento comunicativo d’emergenza per la comunicazione elementare possono dare luogo a fenomeni ‘catastrofici’ come la formazione di una vera e propria lingua mista, nel primo caso, o la formazione di pidgin, nel secondo caso. Una di queste lingue di contatto può essere considerato il cosiddetto Fremdarbeiteritalienisch «italiano dei lavoratori stranieri», rintracciato negli anni Ottanta del Novecento nei centri urbani della Svizzera germanofona. Si tratta di un insieme di varietà di italiano L2, con fenomeni di semplificazione, interferenza dal tedesco e parziale ristrutturazione, utilizzata in diversi ambienti lavorativi come lingua veicolare d’occasione fra lavoratori stranieri immigrati di diversa provenienza e fra questi e i loro colleghi di origine italiana. Il fenomeno è molto interessante, e in qualche modo sorprendente, perché nel caso di immigrazioni plurime in paesi industriali ciò che tende a formarsi come lingua elementare veicolare fra gli immigrati di diversa provenienza è semmai sempre una varietà rudimentale della lingua dell’ambiente ospite. In situazioni di contatto molto intenso fra due lingue, in cui vengano a un certo punto meno le ragioni ‘esterne’ del contatto, possono crearsi delle vere e proprie lingue miste. ‘Lingua mista’ è un termine tecnico assai specifico, che non si può adoperare correttamente per tutti i casi in cui vi sia passaggio di materiali da una lingua a un’altra, col risultato di produzioni verbali che contengano materiali e regole dell’una e dell’altra ma senza che si sia costituita una nuova grammatica, ma va riservato a quei casi in cui si sia formata una nuova lingua con la fusione grammaticale e lessicale di due lingue preesistenti. È il caso della Media Lengua, parlata nell’Ecuador centrale da un migliaio di parlanti nativi, derivata dalla fusione di spagnolo, lingua coloniale e lingua indigena. In situazioni di contatto fra parlanti di parecchie lingue diverse e molto lontane fra loro, e con occasioni di comunicazione ridotte e limitate a questioni pratiche e ‘di sopravvivenza’, si possono formare i pidgin. I pidgin sono spesso annoverati fra le lingue miste, ma in realtà non si tratta di lingue miste, bensì di nuove lingue, valide per la comunicazione essenziale e quindi funzionalmente ridotte e con un certo ammontare di semplificazione, che prendono materiali vari delle lingue che sono venute in contatto, e in particolare da una di questa lingue, ma li rielaborano e ristrutturano, spesso attraverso processi e fenomeni di ‘grammaticalizzazione’, dando luogo a grammatiche proprie, diverse da quelle di ciascuna delle lingue implicate nel contatto. Un pidgin presuppone di solito che vi sia stata ‘ibridazione terziaria’, cioè che il pidgin venga trasmesso da parlanti non nativi a parlanti non nativi: i parlanti di una lingua A apprendono il pidgin B sentendolo parlare da parlanti di lingue C e D, che si rivolgono a loro in B; e non ha normalmente parlanti nativi, essendo nato come lingua seconda sussidiaria utilizzata per la comunicazione essenziale con parlanti di altra lingua materna. La lingua che fornisce al pidgin la maggior parte del materiale lessicale è detta lingua lessicalizzatrice; e i pidgin vengono classificati in relazione ad essa. Avremo dunque pidgin a base inglese, pidgin a base portoghese, a base francese, ecc.; i pidgin non si possono tuttavia affatto considerare varietà della loro lingua lessicalizzatrice, in quanto, a causa sia dei fenomeni di ristrutturazione della grammatica che degli apporti di materiale lessicale estraneo, non sono reciprocamente comprensibili con questa. Parlanti inglesi non capiscono i pidgin a base inglese, e così via. Quando un pidgin per così dire ‘fa carriera’, si stabilizza, viene a essere sempre più usato, incrementa il raggio delle sue funzioni e comincia a essere impiegato da gruppi significativi anche come lingua della socializzazione primaria in famiglia, acquisendo quindi parlanti nativi, gente che lo ha come L1, prima lingua, si sviluppa in ‘creolo’. Corrispondentemente all’ampliamento delle funzioni e del raggio comunicativo, i creoli conoscono anche un’elaborazione e una complessificazione grammaticale e lessicale, sempre tuttavia nelle linee che sono proprie dei pidgin. I creoli possono diventare lingue scritte, scolastiche, ufficiali e nazionali. Trattando di diglossia, abbiamo incontrato per esempio il creolo a base francese di Haiti: ora, il créole, è a Haiti lingua nazionale e ufficiale, accanto al francese. Le lingue pidgin e creole presentano un panorama affascinante non solo dal punto di vista sociolinguistico, in termini delle condizioni sociali che ne hanno favorito o determinato la formazione, ma anche dal punto di vista della linguistica teorica, in quanto si tratta di sistemi linguistici che nascono per così dire allo tato brado, in ambiente naturale e spontaneo, al di fuori di ogni pianificazione e codificazione esterna. Esse permettono quindi al linguista di osservare e teorizzare come avvenga per così dire in natura il processo che porta a una nuova lingua, alla creazione di una grammatica. 3.6.2. I problemi più salienti dal punto di vista strettamente sociolinguistico posti dalle situazioni di plurilinguismo si possono ridurre a tre campi fondamentali: i conflitti fra lingue nei paesi bilingui e multilingui; il bilinguismo da emigrazione; e i problemi delle minoranze linguistiche. Quanto al primo punto, è più frequente che la compresenza di lingue a livello statale dia luogo a conflitti e lotte non solo culturali, ma politici, e a volte addirittura a terrorismo e a guerre. Le emigrazioni sono certamente, nel mondo moderno, il più pervasivo dei fenomeni sociali e demografici che creano plurilinguismo. Il bilinguismo da emigrazione è estremamente interessante perché implica un reciproco aggiungersi l’una all’altra di due lingue. L’emigrazione infatti non solo crea bilinguismo negli emigrati stessi, per i quali l’esposizione alla lingua o alle lingue del paese e della comunità ospite provoca sempre in misura più o meno spiccata l’apprendimento e l’adozione della lingua della comunità che li accoglie (dando luogo ai casi di ‘bilinguismo isolato’), facendo quindi diventare bilingui gruppi prima dell’emigrazione eventualmente monolingui; ma anche introduce in qualche modo una nuova lingua, la lingua portata dagli immigrati, al repertorio globale della comunità parlante meta dell’immigrazione. Le questioni linguistiche connesse all’immigrazione straniera in Italia sono diventate un campo fra i più frequentati dalla linguistica italiana: negli ultimi anni si è persino formata una branca della linguistica, chiamata ‘linguistica acquisizionale’, dedicata allo studio delle strategie di apprendimento dell’italiano come L2 in contesto naturale e delle varietà di interlingua sviluppate dai parlanti non nativi. 3.7.Le minoranze linguistiche Le minoranze linguistiche sono le comunità storiche, di antico insediamento, in uno stato, nelle quali sia tradizionalmente parlata una lingua diversa da quella che è la lingua ufficiale prevalente dello stato. In quanto tali, sono presenti in gran parte dei paesi moderni, e spesso danno luogo a conflitti e problemi sociopolitici di varia natura connessi col plurilinguismo e col contatto linguistico. La lingua parlata da una minoranza linguistica viene spesso detta ‘lingua minoritaria’ o ‘lingua di minoranza’; ma sono entrati in uso anche termini come ‘lingua regionale’ e soprattutto ‘lingua meno diffusa’. I principali problemi sociolinguistici delle lingue di minoranza hanno a che fare con il mantenimento, la tutela e la promozione della lingua da un lato e con la tematica della decadenza linguistica e della morte delle lingue dall’altro, essendo le lingue delle minoranze ‘deboli’, soggette a regressione strutturale e funzionale e a perdita di parlanti e quindi lingue minacciate di scomparsa nel giro di poche o tante generazioni. Una serie importante di studi è stata quindi dedicata al fenomeno della decadenza, obsolescenza e morte delle lingue e ai tratti sia linguistici che sociolinguistici che si manifestano nel processo di language decay. Una prima nozione che per essere definita richiede l’intervento di parametri nettamente sociolinguistici è qui il concetto stesso, cruciale, di ‘morte di una lingua’. Quand’è che una lingua si estingue, dev’essere considerata morta? Pare intuitivo collegare la questione direttamente con i parlanti, e dire che una lingua è morta quando non ha più parlanti. La morte di una lingua coinciderebbe quindi con la morte del suo ultimo parlante. Ma questo sposta il problema su che cosa voglia veramente dire essere parlante di una lingua, e se i parlanti che garantiscono l’esistenza in vita di una lingua debbano semplicemente essere competenti in quella lingua o debbano usarla di fatto almeno in alcune 1. TIPOLOGICO-> le lingue possono essere di 4/5 tipi: POLISINTETICHE, INTROFLESSIVE, FLESSIVO-FUSIVE, ISOLANTI E AGGLUTINANTI 2. GENEALOGICO-> Le lingue sono divise per FAMIGLIE LINGUISTICHE. Per moltissimi secoli si pensava che tutte le lingue del mondo derivassero dell'ebraico (teoria monolingue). Ciò accadde perché si prese per vero il racconto dell'XI Libro della Genesi (Torre di Babele). 1800-> Franz Bopp e Rasmund Rask, indipendentemente l'uno dall'altro, inventarono il metodo storico comparativo. Esso si basa sull'utilizzo di fonti storiche: Il linguista raccoglie i dati forniti relativamente a un determinato fenomeno linguistico, compone i risultati della ricerca con altre lingue, e se le lingue mostrano delle caratteristiche simili e delle evoluzioni fonetiche e simili, allora sono imparentate. PER DECIDERE SE IL DUE LINGUE FANNO PARTE DELLA STESSA FAMIGLIA CI SI DEVE BASARE SUI FONI, NON SUL LESSICO. Le lingue europee appartengono alla macro-famiglia indoeuropea divisa in: - TRE GRANDI FAMIGLIE-> LINGUE ROMANZE GERMANICHE E SLAVE - TRE PICCOLE FAMIGLIE-> LINGUE BALTICHE ZINGARICHE CELTICHE - DUE LINGUE ISOLATE-> ALBANESE e NEOGRECO LINGUE ROMANZE Il territorio in cui si sono sviluppate le lingue romanze si chiama ROMANIA, che si divide in ROMANIA OCCIDENTALE e ROMANIA ORIENTALE. La linea di demarcazione tra romania orientale e occidentale corre in Italia seguendo la linea Spezia-Rimini che separa i dialetti settentrionali da quelli centro meridionali. A nord-ovest abbiamo le parlate romanze occidentali e Sud Est e le parlate romanze orientali. DOMINIO OCCIDENTALE GRUPPO IBEROROMANZO-> CASTIGLIANO, CASTIGLIANO, CATALANO, PORTOGHESE, GALIZIANO. GRUPPO GALLO ROMANZO-> FRANCESE, OCCITANO O PROVENZALE CORSO E SARDO. GRUPPO RETOROMANZO-> -> ROMANICIO SVIZZERO, LADINO, FRIULANO, DIALETTI DELL'ITALIA SETTENTRIONALE. GRUPPO ITALO ROMANZO-> L'ITALIANO, LE SUE VARIANTI DIALETTALI E IL CORSO. DOMINIO ORIENTALE ITALIANO VARIANTI DIALETTALI CENTRO MERIDIONALI GRUPPO BALCANO ROMANZO-> DALMATICO, ISTRIOTO, RUMENO Il Rumeno si divide in 4 grandi varietà: 1. DACORUMENO 2. MACEDORUMENIO 3. MEGLENORUMENO 4. ISTRIORUMENO LINGUE SLAVE Le lingue slave si dividono in tre gruppi: SLAVE ORIENTALI-> SCRITTE TUTTE ALFABETO CIRILLICO-> RUSSO, BIELORUSSO E UCRAINO SLAVE OCCIDENTALI-> SCRITTE TUTTE IN ALFABETO LATINO-> POLACCO, CECO, SLOVACCO, SORABO SLAVE MERIDIONALI-> BULGARO, MACEDONE, SERBO, CROATO, SLOVENO LINGUE GERMANICHE Si dividono in tre gruppi, di cui uno totalmente estinto: LINGUE GERMANICHE ORIENTALI-> (ESTINTO) AVARO LINGUE GERMANICHE OCCIDENTALI-> TEDESCO, AFRIKAANS, FRISONE, OLANDESE, YDDISH, FIAMMINGO, INGLESE LINGUE GERMANICHE SETTENTRIONALI-> ISLANDESE, SVEDESE, DANESE, NORVEGESE, FERINGIO LINGUE CELTICHE Derivano dal celtico comune: CELTICO CONTINENTALE-> ESTINTO CELTICO INSULARE-> parlato nelle isole britanniche. Vanno distinte 2 varietà di celtico insulare: 1. LINGUE GAELICHE: IRLANDESE, MANICIO, SCOZZESE 2. LINGUE BRITANNICHE: GALLESE, CORNICO, BRETONE LINGUE BALTICHE Derivano dal baltico comune: LITUANO LETTONE ANTICO PRUSSIANO SOCIOLINGUISTICA (MODULO 4) - SAGGI TABARCHINO- TOSO Il linguista Fiorenzo Toso si pone il problema se il Tabarchino sia una minoranza come grandezza linguistica o sociolinguistica, quest'ultimo infatti è risultato esente dalla legge 482, (legge a tutela le minoranze linguistiche). Il tabarchino si trova in Sardegna. Carloforte e Calasetta rappresentano un caso significativo della presenza linguistica Genovese nel Mediterraneo come conseguenza delle vicende storiche circa l'espansione economica dell'antica Repubblica. L'influsso linguistico genovese è particolarmente evidente nelle odierne parlate della Corsica, della Sardegna settentrionale, dell'isola di Sant'Elena. Nel caso dei tabarchini, il mantenimento del genovese come lingua comunitaria si appoggia storicamente motivazioni complesse date - dalla diversa specializzazione economica rispetto al resto della Sardegna - dall'inserzione di questi centri all'interno di un sistema economico, facendo capo da sempre a Genova e la Liguria. La popolazione conservò il genovese come elemento costitutivo di un'identità complessa: il tabarchino, per quanto sia rimasto notevolmente fedele all'originale impronta genovese aggiornandosi rispetto al modello metropolitano (al punto che la parlata conserva pochissime caratteristiche arcaiche) si è arricchito col tempo di elementi lessicali che sono il riflesso di diversi contatti intrattenuti con altre popolazioni nel Mediterraneo. L’'identità tabarchina è il frutto di una costruzione secolare: importante è la vicenda dei primi pescatori di corallo originari dalla Riviera tra Genova e Savona trasferitisi a tabarca per rendere economicamente proficuo l’impianto dell'insediamento militare voluto da Carlo V per il controllo e la costa magrebina, Tabarca, mantenne sempre la vocazione alla pesca, ma a essa si affiancò la più redditizia gestione dei traffici commerciali. Tabarca divenne così un porto di importante una realtà extraterritoriale nella quale passavano merci e capitali ingenti. La crisi economica che seguì indusse i maggiorenti locali a negoziare il trasferimento di una parte della popolazione in Sardegna, dove la nuova monarchia sabauda incentivò l'impianto di colonie destinate a ripopolare la fascia costiera nel 1738. Carloforte non nacque dunque da un pugno di profughi, come voleva la leggenda, ma da un progetto pianificato di insediamento gestito da imprenditori tabarchini e genovesi. - I tabarchini rimasti in Africa dovettero scontare l'occupazione, le deportazioni che si protrassero per alcuni decenni. - I tabacchini di Spagna, rimasti isolati rispetto alle altre comunità, furono lentamente assorbiti dalla realtà locale e l'uso il genovese scomparve a Nueva tabarca all'inizio del 900 - i tabarchini rimasti in Tunisia prosperano per tutto l'Ottocento grazie al loro status di minoranza, assumendo spesso funzioni importanti nell'economia e nella politica locale. Le complesse relazioni tra Liguria, Sardegna e Tunisia conobbero una svolta nel 1798 con l'assalto di Carloforte da parte dei Corsari tunisini e la deportazione di gran parte della popolazione. La storia di Carloforte e Calasetta nell'Ottocento, dopo l'episodio della deportazione è caratterizzata da un grazioso sviluppo economico. - Calasetta sviluppò la propria originaria vocazione agricola attraverso la monocultura della vite con le esportazioni di vino da taglio in quantità industriale verso l'Italia e la Francia. - Carloforte mise a frutto la propria posizione geografica, la predisposizione del commercio della popolazione, convertendosi per disegni decenni come principale porto mercantile. la Sardegna dopo Cagliari. Carloforte divenne il punto di imbarco dei prodotti minerari del Sulcis gestiti dai capitali genovesi. Il trasferimento del minerale affidato alla marineria locale Richiamò Una forte immigrazione da varie aree del Mediterraneo e rappresentò una risorsa importantissima per il paese. a) Dal diverso stato di conservazione del Galloitalico in ciascuna Colonia e delle cause che hanno potuto determinare tale diversa vitalità. b) Dalle particolari condizioni di simbiosi linguistica fra galloitalico e siciliano c) Dalla diversa valutazione del Gallo italico nella coscienza degli stessi parlanti e di conseguenza, del loro atteggiamento innanzi al siciliano da un lato e delle lingue letterarie dall'altro. I. NOVARA DI SICILIA: A Novara di Sicilia il galloitalico è ancora parlato in tutti i quartieri e in tutti gli strati sociali. La maggioranza della popolazione locale, mentre nei rapporti abituali all'interno della Comunità adopera il galloitalico, fuori paese e anche nei rapporti coi forestieri parla un dialetto generico di tipo Messinese, anche se con abitudini articolatorie chiaramente Gallo italiche, caratterizzate soprattutto dalla mancanza di una netta opposizione fra consonanti Scempie e doppie e da una forte nasalizzazione delle vocali. N.B. questa situazione di bilinguismo è comune anche alle altre isole Gallo Italiche della Sicilia, Aidone e Nicosia comprese, in cui parlanti capiscono di possedere un dialetto particolare e incomprensibile per la popolazione esterna e quindi parlano con i forestieri in italiano o in siciliano. Oltre al fenomeno di bilinguismo, vi è il fenomeno dello stigma, i parlanti Gallo italici comprendono quanto il loro dialetto sia troppo isolato e aberrante rispetto all'ambiente linguistico circostante: ciò li pone, dinnanzi ai siciliani in condizioni di netta inferiorità. Da qui derivano i loro tentativi di assimilare con maggiore rapidità possibile la lingua nazionale e lo sforzo costante di evitare ad ogni costo che i bambini riprendono il Gallo italico degli adulti. II. AIDONE: la popolazione aidonese ha una più precisa coscienza del suo bilinguismo. Infatti, il dialetto galloitalico viene denominato il VERNACOLO e distinto dal dialetto, che è la parlata abituale presso l'esiguo ceto medio e quello dei professionisti, consistente in dialetto di tipo ennese. Coloro i quali parlano abitualmente il vernacolo sono più propensi a parlare il dialetto fuori dall'ambiente familiare, dal posto di lavoro e soprattutto nei rapporti con i forestieri. È importante sottolineare come il diverso uso e la diversa vitalità del Gallo italico è in relazione non solo con la variante DIASTRATICA, ma pone anche una variante DIAGENERAZIONALE E DI GENERE. Poiché l'antico dialetto, mentre si mantiene ancora abbastanza saldo presso le donne e ai vecchi, in bocca agli uomini di età media e ai giovani ha già alterato i suoi tratti caratteristici, soprattutto per via dei contatti e degli scambi con gli ambienti più disparati, dovuti alle migrazioni degli elementi maschili nell'area settentrionale o all'estero. La donna Novarese è intelligente, dinamica e vivace. Lei si occupa del governo della famiglia e prende le iniziative più importanti. Il linguista Tropea intervista una donna di 45 anni, Tindera Bertolami che si rivela una fonte notevolmente conservativa. Grazie a questa fonte Tropea riesce a capire che vi è una variante di genere all'interno del dialetto di Aidone; infatti, le donne conservano una peculiarità dell'antico Vocalismo Novarese che distingue oggi le loro parlate da quella degli uomini nel loro linguaggio. La A tonica è vicina a consonante nasale viene pronunciata e, leggermente più aperta, più o meno intensamente nazionalizzata, mentre in bocca maschile essa suona a indifferente. tropea inoltre indaga sulle sorti di -l-, -n-, -r- -r- a seconda del genere hanno diverse realizzazioni: possono oscillare o dileguarsi. - -l-, -r-: la ristorazione agisca in misura più ridotta nei suffissi rispetto ai casi in cui le due consonanti si trovano nella parte radicale della parola. Il suffisso, nonostante la possibilità dell'immediato riscontro che offre con la forma corrispondente del siciliano, agirebbe nella coscienza linguistica del novarese come un modulo ancora abbastanza saldo e compatto. Tale da porre valida resistenza alla tendenza innovativa. - -n- nei suffissi: delle sorti opposte ha la nasale. Quest'ultima, infatti, marciò verso il rispetto, orazione e si presentò in fase più avanzata rispetto ai casi di ripristino di -r-, -l- nella stessa posizione. III. NICOSIA: analogia a Novara di Sicilia e Aidone. In conclusione, i dialetti di Nicosia, Novara, di Sicilia e Aidone presentano particolarità dovute alla totale marginalizzazione dal loro territorio. I dialetti entrano sempre più a contatto con il siciliano; quindi, il destino di quest'ultimi è di essere soppiantati dal siciliano, però, ovviamente mantenendo alcuni tratti di parlate Gallo italiche. UN PARADOSSO SOCIOLINGUISTICO: IL CASO BOVESIA. - CHILA’, DE ANGELIS I dialetti, romanzi della Calabria Centro meridionale presentano una serie di impresti lessicali e di calchi strutturali dall'italo greco diffusi in questi territori sin dai tempi della colonizzazione magnogreca, in seguito rafforzata dalle immigrazioni in età bizantina. Il greco di Calabria è ridotto a partire dal 1920 a un'enclave di pochi villaggi in provincia di Reggio Calabria, la cosiddetta BOVESIA. Nei pochi centri superstiti, il greco è parlato come lingua primaria solo da uno sparuto gruppo di anziani, specie a Gallicianò e Roghudi nuova. Se tale area si configura come un ultimo avamposto della grecità calabra, ci attenderemmo che i dialetti romanzi bovesi presentassero un numero di grecismi lessicali, morfo sintattici pari o maggiore rispetto ai restanti dialetti calabresi, in quanto il contatto tra le due varietà, la greca e la romanza è evidentemente stato più duraturo. Di fatto anche il bovese conserva una serie di tratti strutturali di probabile o certa derivazione greca: perdita dell'infinito, assenza di avverbi di modo in -mente con rispettivi aggettivi. Tutti i fenomeni dotati ancora di una piena vitalità del romanzo della Bovesìa. Tuttavia, un'altra serie di fenomeni di matrice Italo greca sembrerebbe attestata in centri esterni all'area bovese, in particolare in alcune aree del versante Ionico aspromontano e costiero della provincia Reggina. L’ARTICOLO DEFINITO DAVANTI AI NOMI PROPRI Il primo dei fenomeni strutturali in oggetto riguarda la presenza dell'articolo definito con una sottoclasse di nomi propri in alcuni dialetti e l'aria ionica reggina. Nel dialetto reggino di San Luca, l'articolo definito non solo è preposto ai nomi propri di persona, ma anche dinnanzi a una serie di microtoponimi indicanti i nomi delle antiche rughe. Un analogo uso sembrerebbe riscontrabile anche in alcuni dialetti salentini. È evidente che queste varietà romanze non hanno ristretto l'impiego dell'articolo definito rispetto al suo uso Italo greco, dato che nelle varietà bovese e nel greco salentino questo è preposto una serie onomastica più ampia. Il tratto strutturale in esame è invece del tutto assente nel romanzo bovese attuale, dove, conformemente alla quasi totalità dei dialetti meridionali, i nomi propri non sono preceduti dall'articolo. IL DATIVO ALLA GRECA Un altro fenomeno morfosintattico di derivazione greca riguarda il DATIVO ALLA GRECA, ossia il sincretismo tra i casi genitivo e dativo a favore del solo genitivo, espressi in questa varietà romanza per via analitica mediante la proposizione i. Oggi i costrutti sincretici sono documentati in maniera ampia e sistematica in alcuni centri al di fuori dell'area della bovesia. [sɪ ˈdεttɪ ɪ mʊdˈdɪːcɪ ɪ nʊ passɪˈr ttɔ ʊ] (Samo) [sɪ kkatˈtaɪ̯ɪ ˈfɪɟɟɪ=ta nʊ ʤʊˈkattʊlʊ] Il ruolo sintattico dell’Oggetto Indiretto è espresso in questi dialetti dal caso genitivo. Ciononostante, è opportuno rilevare come la sua codifica non sia mai esclusivamente affidata alla sola preposizione di, ma risulti sempre suddivisa tra questa e un clitico dativale a carico del verbo che, a seconda delle varietà, risulta nelle forme si, nci o nzi e vale “a lui; a lei; a loro”. A proposito dei dialetti romanzi interni alla Bovesìa, invece, Ledgeway segnala la non obbligatorietà degli enunciati sincretici, sostenendo che questi possono alternare con costrutti di derivazione romanza in dipendenza da fattori principalmente pragmatici. Più specificamente, la presenza del sincretismo individuerebbe enunciati in cui l’Oggetto Indiretto è rappresentato da un’entità nota a chi parla, laddove la codifica di un Oggetto Indiretto [ noto] risulterebbe sistematicamente affidata‒ al caso dativo, [la ˈmaːcɪna nʧɪ la ˈvɪndʊ a nʊ stʊˈdεntɪ] (Bova) [la ˈmaːcɪna nʧɪ la ˈvɪndʊ dɪ nʊ stʊˈdεntɪ] A seguito di inchieste condotte nel 2019, il sincretismo sembrerebbe ad oggi non più presente nelle varietà romanze della Bovesìa. L'alternanza tra costrutti sincretici e non va ricondotta a una fase più arcaica del dialetto bovese, testimoniato dallo stesso Rohlfs. L’azione del sincretismo si fa gradualmente meno sistematica, fino a scomparire. Una ragione dell’assenza di tale fenomeno nel bovese potrebbe essere legata al fatto che il sincretismo ha intaccato solo superficialmente l'impianto grammaticale del dialetto romanzo locale, il che è prova della mancanza di un contatto prolungato tra le due varietà. IL TIPO SINTATTICO “IL PADRE MIO” Altro fenomeno di possibile ascendenza greca è relativo al posizionamento del possessivo con i nomi di parentela. Rispetto all’enclisi del possessivo con tali classi di nomi diffusa centro meridionali, (Sorema/soreta) le varietà della Sicilia e dell'estrema Calabria meridionale propongono il possessivo al nominale escludendo l'articolo (me/to Soru). Questo costrutto appare nettamente minoritario, sovrastato da quello con gli inglesi del possessivo che giungono alla sezione meridionale della Calabria fino ai dialetti dell'area ionica. Secondo Franceschi questo tipo sintattico ricorrerebbe da un calco dell’italo-greco. Una possibile obiezione a tale ipotesi riguarda il fatto che l’ordine art. def. + N+ poss, non è esclusivo di questi dialetti, ma si ritrova in numerose varietà centro-meridionali. TERRASINI-RUFFINO Terrasini si trova tra Palermo e Trapani, e fino al 1836 era amministrativamente divisa in due nuclei abitativi: FAVAROTTA e TERRASINI. Questi due nuclei abitativi erano caratterizzati da attività economiche diverse: l’una dedita alla pesca e l’altra all’agricoltura. I due comuni erano divisi da un VADDUNI (guado) nel quale sorgeva il torrente Gìfina. Il confine naturale ha fatto sì che si perpetrassero diverse caratteristiche riguardanti differenze linguistiche. DIFFERENZE FONETICHE - R+ CONSONANTE-> ESEMPIO: ERBA nella parte alta (dei contadini) il nesso rimane intatto: IEIVA verificare la distribuzione DIAFASICA delle varianti-> legata alla situazione comunicativa identificare le varianti di prestigio identificare e spiegare eventuali cambiamenti diacronici nell'uso delle varianti. Negli anni in cui il linguista da avvio alle sue ricerche, vi è una rivoluzione linguistica in atto: nell’inglese britannico, la variante considerata standard è la variante con 0, cioè con la r non pronunciata; La stessa cosa avveniva nell'area nord orientale degli Stati Uniti,il New England, fino al 1930 l'inglese di New York condivideva lo stesso modello di tipo britannico. Quando il sociolinguista effettua le sue ricerche nel 1960, i newyorkesi stavano cambiando la loro pronuncia, passando da una pronuncia di tipo britannico, con R NON PRONUNCIATA ad una pronuncia relativamente diffusa negli Stati Uniti, con la R PRONUNCIATA. Questo cambiamento è dipeso dalla direzione economica della città, per cui una nuova classe imprenditoriale (proveniente da Boston) stava imponendosi sul mercato economico newyorkese; con l'ingresso di questi nuovi ricchi è cambiata anche la pronuncia. Labov cerca di capire se questo cambiamento sia legato a variabili sociali, in particolare a variabili DIASTRATICHE. Per questa inchiesta vengono presi TRE grandi centri commerciali che in quell'epoca rispecchiavano tre classi sociali diverse: 1. Saks (Fascia alta) 2. Macy’s (fascia media) 3. S. Klein (fascia bassa) L'idea di fondo è che se c'è una variazione di tipo sociolinguistico questa differenza si deve riflettere anche nella lingua dei frequentatori di questi tre centri commerciali. Ci sono due possibilità estreme nella pronuncia della R La r viene pronunciata-> chiamata variante con R La r non viene pronunciata-> chiamata variante con 0 La grande novità di questo studio riguarda il metodo di inchiesta che si basa sul PARADOSSO DELL'INTERVISTATORE: si pensa che il metodo migliore per registrare dati linguistici sia l'inchiesta. Tuttavia, questo metodo ha una controindicazione. il parlante davanti un intervistatore si trova a disagio, quindi molto spesso non realizza il suo parlato spontaneo, ma utilizza una lingua più ricercata che si avvicina alla norma. Facendo ciò, la maggior parte delle volte il parlante mediamente colto cade negli IPERCORRETTISMI. Nel corso dell'intervista a New York, Labov sceglie il metodo dell'INTERVISTA NASCOSTA-> i ricercatori fanno finta di essere clienti di questi grandi centri commerciali-> con dei microfoni nascosti vanno da un commesso, gli chiedono dove si trovi un certo abbigliamento, sapendo che la risposta sarà FOURTH FLOOR. Ciò succede perché le parole FOURTH FLOOR contengono entrambe le varianti TH ed R. Le aspettative sono che la pronuncia alta sia la più frequente nel grande magazzino che riflette lo Stato sociale più elevato e che invece la pronuncia zero si ritrovi negli Stati più bassi. Le classi più alte preferiscono la variante nuova, quella con R pronunciata che proviene da fuori da New York. Nell'inchiesta di Labov a New York viene introdotta la variabile DIAFASICA, in questo caso non si misura sull'asse formale ed informale, ma sulla VELOCITÀ DELL'ELOQUIO, vale a dire che gli intervistatori dopo aver ricevuto la risposta da parte del commesso riformulano la domanda in modo che il commesso ripeta FOURTH FLOOR più lentamente. In questo caso succede che tutti i gruppi sociali, a prescindere dai tre magazzini e dalla variabile diastratica tendono a pronunciare la R molto più nell’eloquio lento che in quello veloce: VELOCITÀ E LENTEZZA DELL'ELOQUIO POSSONO ESSERE PARAGONATE A FORMALITÀ E INFORMALITÀ.