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Riassunti Gestione del portafoglio, Dispense di Finanza

Ottimo per superare l'esame di gestione del portafoglio

Tipologia: Dispense

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Caricato il 10/07/2019

dannyagarri
dannyagarri 🇮🇹

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Scarica Riassunti Gestione del portafoglio e più Dispense in PDF di Finanza solo su Docsity! LA FORMAZIONE DEI PREZZI NEI MERCATI MOBILIARI - CAP. 3 I valori mobiliari sono attività/passività finanziarie che hanno questa denominazione in quanto possono essere smobilizzati prima della loro scadenza naturale attraverso la negoziazione nel mercato secondario, la loro appartenenza alla categoria degli strumenti finanziari è sancita sotto il profilo giuridico. Gli investimenti si distinguono in: - Reali= acquisto da parte di un’impresa di un bene destinato alla produzione; - Finanziari= acquisto da parte di un investitore di strumenti rappresentativi di rapporti di credito/debito o di partecipazione o di gestione/copertura dei rischi cioè di attività finanziarie. Al di là della classificazione, l’investimento in generale può essere definito come un consumo differito nel tempo. La presenza di consumi correnti, descrive attraverso la disuguaglianza C1>C0 nella quale C1 rappresenta i consumi futuri e C0 i consumi correnti, può essere formalizzata nel modo seguente:  = (1 + ∗ ) Dove: “r” rappresenta l’extraconsumo, inteso come rendimento e “t” il tempo. Poiché l’individuo è portato privilegiare i consumi correnti rispetto a quelli futuri, esso è disposto a rinviare i consumi correnti solo se il loro differimento nel tempo viene adeguatamente compensato da un “ritorno positivo” definibile come extraconsumo e identificabile nel rendimento dell’investimento nell’attività finanziaria. L’inclinazione della retta, superiore ai 45°, spiega appunto il comportamento dell’individuo in termini di priorità dei consumi correnti rispetto a quelli futuri. La misura puntuale dell’extraconsumo è resa complessa dal fatto che l’individuo opera in condizioni di incertezza. L’incertezza evoca il concetto di rischio che può essere inteso come l’aleatorietà della misura dell’extraconsumo e può essere espresso in termini di variabilità del risultato atteso. In linea di principio il rischio può anche risultare nullo. L’assenza o la presenza del rischio porta a distinguere 2 tipi di attività finanziarie nelle quali è possibile investire: - Le attività finanziarie prive di rischio, tipicamente identificabili nelle obbligazioni che, grazie all’elevato standing creditizio dell’emittente, garantiscono al possessore la certezza del pagamento degli interessi e del rimborso del capitale; - Le attività finanziarie rischiose identificabili nelle azioni e nelle obbligazioni non rispondenti alle caratteristiche di cui sopra. {L’attività priva di rischio è assimilata a un titolo di Stato senza cedola e a b/t. Ciò detto, rimane il fatto che, nella realtà dei mercati finanziari, anche un titolo di Stato senza cedola e a b/t non può essere considerato un’attività finanziaria priva di rischio in quanto soggetto al rischio monetario della perdita del potere d’acquisto, al rischio di mercato relativo alla volatilità del prezzo e, al limite, al rischio di credito}. Al variare delle attività finanziarie, varia anche la natura dei rendimenti. Le attività finanziarie prive di rischio, infatti, offrono un rendimento atteso relativamente certo, misurato dal risk free rate, mentre le attività finanziarie rischiose sono caratterizzate da un rendimento atteso più elevati e fortemente incerto, misurato dalla somma del risk free rate e del c.d. risk premium (premio per il rischio). Il valore del premio per il rischio non è uniforme, bensì varia da titolo a titolo risultando tanto più alto quanto più elevata è la percezione del rischio da parte del mercato in termini di aleatorietà dei frutti futuri attesi. La relazione tra rendimento e rischio piò essere approssimata facendo riferimento ai dati storici ai relativi fatti registrati in passato, nell’arco di una periodo temporale omogeneo e sufficientemente esteso, dalle diverse attività finanziarie, in particolare da quelle risk free e da quelle rischiose. Se il tasso d’interesse nel futuro dovesse risultare superiore al tasso d’interesse degli investimenti finanziari, la decisione di differire i consumi nel tempo e, quindi, di investire non avrebbe motivo di essere assunta in quanto il montante alla scadenza dell’investimento avrebbe un potere di acquisto non sufficiente ad assicurare un livello di consumi futuri a quella data superiore al livello dei consumi correnti. Il rischio monetario o rischio di perdita del potere d’acquisto riguarda indistintamente sua le attività finanziarie prive di rischio sia le attività finanziarie rischiose, dunque, deve essere necessariamente valutato. Questa può essere individuata nel calcolo del rendimento reale atteso. Rendimento reale atteso è espresso dalla differenza tra rendimento atteso e il tasso d’inflazione atteso. La sua determinazione richiede una previsione dell’inflazione futura. A questo fine risulta determinante il rendimento reale delle attività fin. prive di rischio in quanto espressivo del livello minimo sotto il quale i rendimenti reali non dovrebbero andare posto che il rendimento delle attività rischiose deve essere aumentato, rispetto al rendimento delle attività prive di rischio, del premio per il rischio. La relazione tra il prezzo di un valore mobiliare e i relativi profili del rendimento e del rischio può essere formalizzato come segue:  =  (1 + ) Dove:  è il prezzo del valore mobiliare corrispondente al capitale iniziale investito;  i frutti attesi dell’investimento nel valore mobiliare; r il tasso di attualizzazione rappresentativo del gradi di rischio connesso all’investimento. I CRITERI DI VALUTAZIONE E GLI INDICATORI DEL RENDIMENTO DEI TITOLI OBBLIGAZIONALI - CAP. 4 Il rendimento può essere inteso come l’insieme dei frutti prodotti da un’obbligazione in rapporto al capitale investito e con riferimento alla durata dell’investimento. Quindi gli elementi da considerare sono: il capitale, i frutti, e il tempo. Relativamente all’origine, i frutti sono classificabili come frutti relativi alla componente da: a) interessi; b) capitale. Dove (1 + ) è il c.d. fattore di capitalizzazione (FCr,n). Quindi possiamo riscrivere la precedente formula così:  =  ∗ , Inoltre, possiamo definire () come fattore di sconto (FSr,n). In regime di interesse composto, il tasso d’interesso è il seguente: =  − 1 =   − 1 Il regime di interesse semplice può essere utilizzato per la valutazione di investimenti in titoli obbligazionari che non producono frutti intermedi. Posto che il tasso d’interesse è solitamente calcolato su base annua, l’eventualità che l’investitore debba effettuare un confronto tra diverse alternative di investimento caratterizzate da durate diverse rende indispensabile ipotizzare, relativamente ai titoli in questione con scadenza inferiore all’anno, il reinvestimento alla stessa scadenza per il numero di volte necessarie a traguardare l’anno. Questo modo di procedere se da un lato assicura il rispetto del principio dell’omogeneità dell’orizzonte temporale di riferimento ai fini della corretta valutazione del risultato di investimenti in titoli con durate diverse, dall’altro equivale a ragionare secondo la logica del regime finanziario dell’interesse composto. Per gli investimenti in titoli senza cedola di durata superiore all’anno si fa ricorso al regime dell’interesse composto. Dunque, il regime dell’interesse semplice è pienamente adeguato solo per la valutazione di investimenti in titoli senza cedola con scadenza a un anno. Esso, comunque, ha una sua utilità anche per la valutazione di investimenti in titoli senza cedola con scadenza inferiore all’anno, purché considerati a sé stanti. Con logica dell’attualizzazione possiamo calcolare il capitale iniziale come segue:  =  (1 + ) Tipologie di titoli: - Senza cedola= BOT (Buoni Ordinari del Tesoro) e CTZ (Certificati del Tesoro Zero coupon); - Con cedola a tasso fisso= BTP (Buoni del Tesoro Poliennali); - Con cedola a tasso variabile= CCTeu (Certificati di Credito del Tesoro ancorati all’Euribor), da considerare espressivi dei CCT (Certificati di Credito del Tesoro ancorati al rendimento dei BOT); - Con cedola indicizzati= BTP€i (Buoni del Tesoro Poliennali indicizzati all’Inflazione Europea), i BTPItalia (Buoni del Tesoro Poliennali indicizzati all’Inflazione Italiana); - Con cedola con rimborso del capitale per ammortamento= i BOC (Buoni Ordinari Comunali), i BOP (Buoni Ordinari Provinciali) e i BOR (Buoni Ordinari Regionali). NB: Il termine Euribor è l’acronimo di “Euro Inter Bank Offered Rate” che rappresenta il tasso medio al quale le banche sono disponibili a prestarsi fondi in euro nel mercato interbancario a varie scadenze comprese tra 1 settimana e 12 mesi. I parametri di misurazione portano a valutazioni riguardanti i rendimenti netti o i rendimenti lordi a seconda che si tenga conto o meno della tassazione dei frutti. La normativa interessa 3 aspetti distinti, quello della tassazione: - Dei frutti; - del Patrimonio investito; - delle transazioni. Con riferimento agli investimenti in obbligazioni le relative negoziazioni sono escluse da qualsiasi forma di imposizione. Per quanto riguarda la tassazione dei frutti, essa si realizza con modalità diverse a seconda: dei percipienti e dei frutti medesimi. Dal 1° punto di vista, i percipienti sono rappresentati dalle 2 seguenti categorie di soggetti: - Soggetti che svolgono attività commerciale; - Soggetti persone fisiche e altri soggetti che operano al di fuori di un’attività commerciale. Dal 2° punto di vista i frutti sottoposti a tassazione sono riconducibili alle 2 seguenti tipologie di redditi: - Redditi che derivano dall’impiego finanziario di un capitale in eventi certi e che sono rappresentati dagli interessi e dai c.d. scarti di emissione (costituiti dalla differenza tra il valore di rimborso e il prezzo di emissione), i quali sono denominati redditi di capitale; - Redditi che derivano dall’impiego finanziario di un capitale in eventi incerti e che sono rappresentati dalle plusvalenze valutate al netto delle minusvalenze e dai proventi aleatori in genere, i quali sono denominati redditi diversi di natura finanziaria. Relativamente alla 1° categoria di soggetti, sia i redditi di capitale sia i redditi diversi di natura finanziaria concorrono, al pari di tutti gli altri elementi positivi e negativi di reddito, formare il reddito imponibile d’impresa. Passando alla 2° categoria di soggetti, se da un lato è basato sulla logica di un’imposta sostitutiva da applicare sia ai redditi di capitale sia ai redditi diversi di natura finanziaria, dall’altro presenta, in sede di applicazione dell’imposta, significativi elementi di differenziazione a seconda che si tratti dell’una o dell’altra tipologia di redditi. La logica dell’imposta sostitutiva si traduce nella tassazione di entrambe le categorie di redditi attraverso una ritenuta a titolo definitivo, con un’aliquota che dal 1° luglio 2014 è pari al 26%. L’applicazione dell’aliquota unificata prevede alcune deroghe, infatti, i frutti prodotti dai titoli di Stato italiani, dai titoli di Stato dei paesi inseriti nella c.d. white list, dai titoli emessi dagli enti pubblici territoriali sia italiani sia dei Paesi appartenenti alla white list, dai buoni fruttiferi postali il livello dell’aliquota è pari al 12.50%. Fermo restando l’assoggettamento all’imposta sostitutiva in base all’aliquota prevista a seconda degli strumenti finanziari considerati, tali redditi possono essere, a discrezione dei percipienti, indicati nella dichiarazione dei redditi (regime della dichiarazione) oppure delegati per l’applicazione dell’imposta agli intermediari finanziari presso i quali gli strumenti fin sono in amministrazione o in custodia (regime del risparmio amministrato) oppure nell’ipotesi rappresentata dal risultato maturato dalla stessa gestione (regime del risparmio gestito). Mentre relativamente ai redditi di capitale la regola dettata dalla normativa è quella dell’assoggettamento all’aliquota d’imposta vigente al momento del diritto a percepirli relativamente ai redditi diversi di natura finanziaria il principio fissato dalla stessa normativa è quello dell’assoggettamento all’aliquota d’imposta vigente al momento del loro realizzo. L’applicazione di quest’ultimo principio comporta che le plusvalenze maturate prima della data di entrata in vigore della nuova aliquota siano assoggettate a quest’ultimo nell’ipotesi che il realizzo avvenga successivamente alla medesima data. D’altra parte, relativamente alle minusvalenze sono previste, nel caso del ricorso al regime dichiarativo o al regime amministrato, percentuali di detrazione commisurate all’aliquota vigente al momento del loro realizzo. A parziale mitigazione della particolare onerosità dell’innalzamento dell’aliquota d’imposta per i redditi diversi di natura finanziaria, la normativa in materia prevede la facoltà per gli investitori di optare per un sistema di carattere transitorio, noto con il termine affrancamento, che sostanzialmente consente di sottoporre le plusvalenze e le minusvalenze all’aliquota d’imposta vigente al momento della loro maturazione a condizione che le plusvalenze maturate fino a quella data e valutate al netto delle eventuali minusvalenze siano sottoposte all’imposta sostitutiva con aliquota pari a quella in vigore alla medesima data. Passando a considerare la tassazione del patrimonio investito, essa si realizza attraverso l’applicazione di un’imposta di bollo che può essere applicata in misura proporzionale o in misura fissa. Facendo riferimento alla normativa in vigore, l’imposta di bollo si applica in forme diverse a seconda dello strumento finanziario oggetto della comunicazione alla clientela da parte degli intermediari finanziari gestori del rapporto. In particolare si distinguono: - Le comunicazioni riguardanti i prodotti finanziari anche non soggetti all’obbligo di deposito (rientrano le comunicazioni relative alle obbligazioni, ai titoli di stato, agli strumenti derivati, ai buoni fruttiferi postali avente valore >5.000€) relativamente alle quali è prevista una misura proporzionale con un’aliquota pari al 2*1000 da calcolare sul valore di mercato o, in mancanza, sul VN o di rimborso o, in mancanza anche di questi, sul costo di acquisto degli strumenti con una misura annua massima di 14.500€ per i clienti diversi dalle persone fisiche; - Gli estratti di c/c bancari e postali e i rendiconti dei libretti di risparmio bancari e postali relativamente ai quali è prevista una misura fissa differenziata in relazione alla natura giuridica dei clienti intestatari, in particolare pari a un importo annuo di 100€ nel caso di clienti diversi dalle persone fisiche e di 34,20€ nel caso di clienti persone fisiche con una fascia di esenzione per questi ultimi in corrispondenza di rapporti con una giacenza media fino a 5.000€; - Le comunicazioni ricevute ed emesse dai fondi di previdenza complementare e obbligatoria e dai fondi sanitari relativamente alle quali la normativa prevede l’esenzione dall’imposta in esame. Per quanto riguarda le obbligazioni, la comunicazione oggetto dell’imposta di bollo rientra nella categoria delle comunicazioni riguardanti i prodotti finanziari. NB: i BTP sono titoli di Stato a tasso fisso che presentano le seguenti caratteristiche: cedole semestrali posticipate; scadenza a 3, 5, 7, 10, 15 o 30 anni; rimborso del capitale in un’unica soluzione alla scadenza al VN; emissione con meccanismo dell’asta marginale. Con riferimento alle obbligazioni a tasso fisso, gli indicatori di rendimento risultano: il TRN, il TRI e il TRES. (I primi due non rispondono alla logica finanziaria dell’attualizzazione, quindi il parametro di valutazione del rendimento più appropriato è il TRES).  Tasso di rendimento nominale – TRN *+% = ,-./0$% Tale identità vale solo per i titoli che hanno maturato cedole annuali. Con riferimento ai titoli che producono cedole semestrali, il TRN su base annuale viene determinato, trascurando l’aspetto finanziario della capitalizzazione degli interessi, come segue: *+% = 12 ∗ 2$% In riferimento al titolo che matura cedole semestrali, il TRN su base semestrale è ricavabile così: *+%12 = *+%34352 = 12$% La funzione del TRN è circoscritta all’informazione sul livello del tasso contrattuale dovuto dall’emittente del titolo obbligazionario. L’indicatore in esame, dunque, ha una valenza essenzialmente giuridica. Alla povertà informativa, corrisponde la presenza di una serie di limiti che rendono l’indicatore in esame inadatto per stimare correttamente il rendimento di un’obbligazione. I limiti riguardano: - Il non corretto apprezzamento del valore del capitale investito rappresentato non dal VN del titolo obbligazionario, bensì dal suo prezzo di acquisto; - L’incompletezza dei frutti considerati, segnatamente a seguito della mancata considerazione dei frutti da capitale; - L’assenza di qualsiasi riferimento all’aspetto del profilo finanziario.  Tasso di rendimento immediato – TRI *+6 = ,-./0 177 Anche nel caso del TRI l’identità vale solo per i titoli che maturano cedole annuali. Diversamente, nel caso dei TRI, relativamente ai titoli che producono cedole semestrali, appare opportuno tener conto anche della capitalizzazione di queste ultime, segnatamente utilizzando il teorema dell’equivalenza dei redimenti. Questo teorema si fonda sull’assunto che, ipotizzando la presenza di mercati perfetti, un investimento a 1 anno deve produrre il medesimo montante e, quindi, il medesimo rendimento di un investimento a 6 mesi rinnovato per altri 6 mesi allo stesso tasso del 1° semestre. Sulla base di tale assunto, risulta possibile determinare il rendimento annuale equivalente disponendo del rendimento semestrale. La dimostrazione di quanto sopra può essere sviluppata come segue: - Ipotizzando C0=1. - Un investimento di durata annuale garantirebbe alla scadenza il seguente montante: M1=C0*(1+r)=1+r - Mentre un investimento semestrale darebbe dopo 6 mesi un montante pari a: M*0.5=C0*(1+rsem)=1+ rsem - Il quale, reinvestito per altri 6 mesi, determinerebbe un montante pari a: M*1= M*0.5*(1+rsem)=(1+ rsem)2 , che risulterebbe pari al montante derivante dall’operazione di investimento pari a 1 anno. - Ne consegue che esprimendo l’uguaglianza dei montanti (M1 e M*1) delle due alternative di investimento secondo la seguente identità: 1+r=(1+ rsem)2 con alcuni passaggi algebrici è possibile determinare il rendimento annuale equivalente conoscendo il rendimento semestrale: r=(1+ rsem)2-1 e rsem=√1 + − 1 Detto ciò avremo: rsem= TRIsem= 9:;<=:;>>? e rannuale= TRIannuale= (1+ TRIsem)2-1 Le relazioni tra TRN e TRI sono le seguenti: - Se Psecco<VN allora TRI>TRN, (quotato sotto la pari); - Se Psecco>VN allora TRI<TRN, (quotato sopra la pari). Calcolare il TRI come segue: TRIannuale=TRIsem*2 non appare finanziariamente corretto in quanto trascura completamente la capitalizzazione degli interessi semestrali. Quindi bisogna formularlo come segue: TRIannuale=(1+TRIsem)2-1 Dall’analisi svolta si desume che il TRI, rispetto al TRN, presenta 2 principali pregi, rappresentati l’uno dalla considerazione al denominatore del prezzo del titolo anziché del suo VN con conseguente migliore apprezzamento del capitale investito, l’altro dalla valutazione dell’aspetto della capitalizzazione dei frutti intermedi tramite il tasso annuale equivalente con conseguenze maggiore rispetto della logica finanziaria. I pregi in esame si traducono in altrettanti limiti se valutati in termini più generali. In particolare, i limiti riguardano: - L’apprezzamento non del tutto corretto del valore del capitale investito misurato dal prezzo di acquisto del titolo, ma espresso in termini di corso secco anziché di corso tel quel; - L’incompletezza dei frutti considerati, segnatamente a seguito della perdurante mancata considerazione dei frutti da capitale; - La parzialità del riferimento all’aspetto del profilo finanziario, valutato in relazione alla capitalizzazione delle eventuali cedole semestrali, ma non relativamente all’aspetto più generale degli importi e dei tempi di maturazione dei singoli flussi di cassa relativi ai frutti intermedi e finale. La presenza di questi limiti porta a suggerire l’utilizzo del TRI solo come indicatore del rendimento di investimenti di obbligazioni caratterizzati da orizzonti temporali brevissimi o brevi. Il TRI, d’altra parte, appare un indicatore di misurazione del rendimento estremamente facile da apprezzare. In particolare il TRI permette di cogliere agevolmente che, al mutare dei rendimenti, i prezzi devono necessariamente variare in senso contrario. La relazione tra i prezzi e i rendimenti dei titoli obbligazionari a cedola fissa e più in generale di tutti i titoli obbligazionari si configura come una relazione inversa la quale può essere rappresentata mediante una curva convessa e inclinata negativamente.  Tasso di rendimento effettivo a scadenza – TRES Il TRES è l’unico tasso che rende uguale la somma dei VA dei frutti intermedi e finale prodotti da un titolo obbligazionario a tasso fisso al prezzo di acquisto espresso in termini di corso tel quel del titolo stesso. Esso è definito anche tasso interno di rendimento o tasso implicito. 5 @45 =  (1 + *+AB) Le formulazioni sin qui descritte valgono per il calcolo del TRES sia di obbligazioni con cedole annuali, sia di obbligazioni con cedole semestrali. Relativamente a queste ultime la determinazione del rendimento su basse annuale comporta che i periodi siano considerati in termini non interi (0.5,1,1.5,2,…). L’alternativa è quella di calcolare il TRES su base semestrale di convertire poi quest’ultimo nel TRES annuale attraverso il procedimento dell’equivalenza dei rendimenti. Il TRES non si presta a essere determinato mediante un semplice calcolo, bensì comporta il ricorso a una logica definibile “per tentativi”. La relativa metodologia parte dalla fissazione di un determinato tasso di rendimento sulla base di tale tasso perviene al confronto della somma dei flussi attualizzati con il valore del prezzo tel quel di acquisto del titolo. Posto r* uguale al tasso di volta in volta “tentato”: - Se ∑ D(∗)E > 5 @45 si replica l’operazione applicando un tasso di attualizzazione più elevato di quello utilizzato; - Se ∑ D(∗)E > 5 @45 si replica l’operazione applicando un tasso di attualizzazione più basso di quello utilizzato. Immaginando l’ipotesi di acquisto all’emissione di un’obbligazione a tasso variabile tipo CCTeu, le componenti di frutto che contribuiscono a formare il rendimento sono le seguenti: - La cedola iniziale, semestrale o annuale, che essendo fissata e resa nota dall’emittente al momento dell’emissione, si configura come una componente certa; - Le cedole successive (irif+s)*100 essendo composte dalla somma di una componente variabile e ignota denominata irif in quanto espressiva del tasso di riferimento generalmente relativo a uno strumento finanziario a b/t di durata corrispondente alla frequenza delle cedole e di una componente fissa e nota denominata s in quanto espressiva dello spread inteso come margine di maggiorazione rispetto a tale tasso in relazione principalmente al rischio legato alla durata nominale solitamente protratta del titoli, si configurano come una componente aleatoria per il fatto di essere certe nel temo di maturazione, ma incerte nell’importo; - Il capitale di rimborso che, essendo il rimborso previsto al VN in un’unica soluzione alla scadenza, si configura come una componente certa e, quindi, programmabile sia nell’importo sia nel tempo di maturazione. Nell’ipotesi di un holding period coincidente con la durata del titolo, il profilo finanziario di un’obbligazione a tasso variabile tipo CCTeu risulta, convenendo di esprimere il prezzo di acquisto in termini di prezzo tel quel, la cedola iniziale e le cedole successive in termini di loro valore assoluto e il capitale di rimborso a scadenza in termini di VN. NB: i tassi irif sono indicati con una doppia numerazione nella quale il primo numero vuole significare la successione temporale degli stessi tassi, mentre il secondo numero vuole indicare la successione temporale delle cedole (irif x,y). Ne consegue che il TRET è quell’unico tasso che tede uguale la somma dei VA dei frutti certi e incerti prodotti dall’obbligazione a tasso variabile al suo prezzo di acquisto espresso in termini di corso tel quel. 5 @45 = H(1 + *+A*)T +  (UGV + W) ∗ 100(1 + *+AB)X + 100(1 + *+A*) Anche nel caso del TRET tali identità valgono per il calcolo del rendimento sia di obbligazioni con cedole annuali sia di obbligazioni con cedole semestrali. Considerazioni simili possono farsi per la determinazione del TRET di obbligazioni a tasso variabile acquistate non all’emissione, ma nel mercato secondario con cedola in corso di maturazione. La determinazione del TRET comporta la previsione del valore nel tempo del tasso di riferimento irif in quanto componente fondamentale delle cedole successive alla prima. Il TRET, se da un lato offre gli stessi pregi del TRES, dall’altro presenta limiti ancora maggiori dello stesso TRES. Il TRET, infatti, oltre a conservare i limiti già evidenziati a proposito del TRES, presenta l’ulteriore limite di ipotizzare valori delle cedole da determinare del tutto diversi da quelli che effettivamente si manifesteranno. Il TRET deve essere configurato come un indicatore di rendimento ex ante, con la conseguenza che le indicazioni da esso offerte sottovalutano o sopravvalutano il risultato che effettivamente sarà conseguito ex post. Il TRET, d’altra patte, ha un’importante funzione interpretativa nel senso che, opportunatamente scomposto, consente di cogliere la maggiorazione di rendimento offerta dall’obbligazione a tasso variabile rispetto alla componente dello stesso rendimento rappresentata dal tasso di riferimento. Sotto questo profilo, ipotizzando di prendere in considerazione un titolo obbligazionario a tasso variabile con cedole annuali ancorate al rendimento di strumenti finanziari di durata parimenti annuale, il TRET può essere articolato nelle seguenti 2 distinte componenti; - Il tasso di riferimento (irif) che rappresenta il rendimento dello strumento finanziario a b/t di riferimento; - Il margine finanziario (mf) che rappresenta la differenza tra il rendimento dell’obbligazione a tasso variabile e il rendimento dello strumento finanziario a b/t di riferimento. Il margine finanziario consente di misurare il premio per il rischio che il mercato chiede per la sottoscrizione di un titolo di durata più lunga di quella dello strumento finanziario a b/t al cui rendimento la cedola del medesimo titolo a protratta scadenza è commisurata. Sotto questo profilo la misura del margine finanziario si presta a essere messa a confronto con quella dello spread stabilito in misura fissa dall’emittente al momento dell’emissione in maniera da verificare, a seconda che il margine finanziario sia maggiore o minore dello stesso spread, se il mercato chiede un premio per il rischio più elevato o, rispettivamente, più basso di quello offerto dall’emittente l’obbligazione a tasso variabile ed espresso dal medesimo spread. Va da sé che le valutazioni del mercato dovrebbero riflettere le aspettative sulle componenti di rischio coperte dal differenziale di rendimento rispetto al tasso di riferimento con conseguente richiesta di un premio per il rischio più alto o più basso dello spread a seconda che le aspettative siano più pessimistiche o, rispettivamente più ottimistiche rispetto a quelle implicitamente formulate dall’emittente. Il ragionamento proposto, peraltro, si fonda sull’ipotesi della costanza del tasso di riferimento, ipotesi che presenta un’eventuale astrattezza. Ne consegue che, nel concreto, il TRET può variare sia a causa delle variazioni relative alla componente riguardante i valori attesi del tasso di riferimento sia a causa delle variazioni relative alla componente concernente la misura del margine finanziario. Il calcolo del TRET presuppone innanzitutto la stima del valore delle cedole successive a quella iniziale. Da questo punto di vista, applicando il criterio che prevede la replica del tasso di riferimento implicito nell’ultima cedola maturata, il valore percentuale di tutte le cedole successive a quella iniziale può essere ottenuto sommando l’irif con lo spread. Il margine finanziario è così calcolato: mf= TRET-irif. Se mf>spread allora vi è una valutazione da parte del mercato più pessimistica. A riprova di ciò è sufficiente considerare che se il mercato portasse alla formazione di un prezzo di aggiudicazione sopra alla pari, allora il TRET si ridurrebbe e quindi si avrebbe mf<spread. GLI INDICATORI DEL RENDIMENTO DELLE OBBLIGAZIONI INDICIZZATE Passando a considerare le obbligazioni indicizzate, gli indicatori di rendimento risultano il tasso di rendimento indicizzato (TRIN) e il tasso di rendimento reale (TRR). Il TRIN e il TRR si configurano come indicatori non alternativi, bensì complementari. Il TRIN, infatti, rappresenta un parametro di valutazione del rendimento ineccepibile dal punto di vista pratico. Il TRR, al contrario, si configura come un indicatore di rendimento agevole da calcolare in termini operativi, ma inadeguato con riferimento alla rigorosità concettuale. Il punto di partenza per la determinazione del TRIN è costituito dalla scomposizione dl rendimento delle obbligazioni in parola in materia da individuare le componenti di frutto specifiche sempre sulla falsariga della distinzione tra i frutti certi e frutti aleatori. A questo fine i titoli di Stato italiano indicizzati che possono essere presi in considerazione sono i BTP€i e i BTPItalia. I BTP€i sono titoli di Stato caratterizzati da un meccanismo di indicizzazione collegato a un indice dei prezzi al consumo espressivo dell’inflazione europea. I BTP€i presentano le seguenti caratteristiche: cedole semestrali posticipate variabili determinate tramite il prodotto tra il tasso d’interesse annuo fisso stabilito dal MEF al momento dell’emissione e diviso per 2 e il valore del capitale rivalutato con riferimento al periodo intercorso tra la data di godimento e la data di pagamento delle cedole, valore calcolato moltiplicando il VN del medesimo capitale per un coefficiente di indicizzazione alla data di pagamento di ogni cedola espressivo dell’inflazione rilevata nel semestre di riferimento all’interno dell’area dell’Euro dall’Indice Armonizzato dei Prezzo al Consumo; scadenza a 5, 10, 15, 30 anni; rimborso del capitale in un’unica soluzione alla scadenza al valore rivalutato, nell’ipotesi di deflazione a un valore non inferiore al VN. I BTPItalia sono titoli di Stato caratterizzati da un meccanismo di indicizzazione collegato a un indice dei prezzi al consumo espressivo dell’inflazione italiana. I BTPItalia presentano le seguenti caratteristiche: cedole semestrali posticipate variabili determinate tramite il prodotto tra il tasso d’interesse annuo fisso comunicato dal MEF al momento dell’emissione e fissato in via definitiva dallo stesso MEF alla fine del periodo di collocamento in ogni caso in misura non inferiore a quella inizialmente indicata e diviso per 2 e il valore del capitale con riferimento al periodo intercorso tra la data di godimento e la data di pagamenti di ciascuna cedola, valore calcolato moltiplicando il VN del medesimo capitale per un coefficiente di indicizzazione alla data di pagamento di ogni cedola espressivo dell’inflazione rilevata nel semestre d riferimento in Italia dall’Indice nazionale dei Prezzi al Consumo per le Famiglie di Operai e Impiegati; scadenza a 4, 6, 8 anni; rimborso del capitale in un’unica soluzione alla scadenza al VN; riconoscimento sempre alla scadenza agli investitori persone fisiche che hanno acquistato i titoli in esame durante il periodo del loro collocamento e che li detengono ininterrottamente per tutta la loro durata, di un premio di fedeltà pari al 4*1000 del VN acquistato. Immaginando l’ipotesi di acquisto all’emissione di un’obbligazione indicizzata tipo BTP€i, le componenti di frutto che contribuiscono a formare il rendimento sono le seguenti: - Le cedole (rc*Criv,k), annuali o semestrali, le quali, essendo calcolate moltiplicando il tasso d’interesse stabilito in termini di tasso reale al momento dell’emissione per il valore del capitale rivalutato relativamente al periodo intercorso tra la data di godimento e la data di pagamento di ciascuna cedola, valore a sua volta determinato attraverso il prodotto del capitale espressivamente a ogni singola cedola, si configurano come una componente aleatoria in quanto certe nel tempo di maturazione, ma incerte nell’importo; - Il capitale di rimborso (Cind=Cvn*CIpc,n) che, essendo previsto in un’unica soluzione alla scadenza ed essendo determinato moltiplicando il capitale espresso al VN alla data della suddetta scadenza per il valore del suddetto coefficiente di indicizzazione alla stessa data, si configura anch’esso come una componente aleatoria in quanto certo nel tempo di maturazione, ma incerto nell’importo. Dalla descrizione di tali componenti, alle quali anche in questo caso occorre aggiungere la componente non specifica rappresentata dal tasso di investimento dei frutti intermedi, è possibile pervenire in maniera agevole alla rappresentazione del profilo finanziario di un’obbligazione a tasso fisso con rimborso del capitale per ammortamento tipo BOC. Ne consegue che il TREM è quell’unico tasso che rende uguale la somma dei VA dei frutti prodotti dall’obbligazione a tasso fisso con rimborso del capitale per ammortamento al suo pezzo di acquisto espresso n termini di corso tel quel. Sotto il profilo formale il TREM può essere rappresentato attraverso la seguente identità: 5 @45 =  (H + )(1 + *+A\) Una precisazione deve essere fatta relativamente all’ultilizzo del TREM per il calcolo del rendimento di obbligazioni con rimborso del capitale per ammortamento che presentano la cedola variabile, anziché la cedola fissa. In questo caso, infatti, il TREM conserva la sua piena validità, ma le cedole periodiche diventano una componente aleatoria in quanto programmabili solo nei tempi di maturazione e non anche nell’importo con conseguente necessità di ricorrere a criteri analoghi a quelli illustrati in precedenza con riferimento al calcolo del TRET. Il TREM risponde alla necessità di calcolare un rendimento in grado di superare l’aspetto di aleatorietà legato alle modalità di rimborso del capitale per ammortamento. In ogni caso esso rimane un indicatore di rendimento ex ante e ciò in quanto caratterizzato dai limiti, propri come già visto di tutti indicatori riconducibili alla logica del tasso di rendimento a scadenza, della conservazione del titolo sino alla data di rimborso dell’ultima quota capitale e del reinvestimento dei frutti intermedi al tasso implicito rappresentato dallo stesso TREM. Questo aspetto è ancor più vero nel caso che le obbligazioni con rimborso del capitale per ammortamento siano a cedola variabile in quanto in tali circostanze ai limiti prima indicati si aggiunge l’ulteriore limite collegato alle modalità di determinazione delle cedole ignote. I CRITERI DI VALUTAZIONE E GLI INDICATORI DELLA LIQUIDITA’ DEI TITOLI OBBLIGAZIONARI - CAP.5 La liquidità deve essere intesa come l’attitudine di un’obbligazione a produrre rapidamente ed economicamente un ritorno per l’investimento in termini di flussi di cassa. La liquidità può essere di 2 tipologie: - Naturale, intendendo per tale la capacità dei titoli obbligazionari tenuti in portafoglio di produrre “naturalmente” alle scadenze previste FdC per interessi e FdC per capitale; - Artificiale, intendendo per tale la possibilità degli stessi titoli obbligazionari di essere venduti nel mercato secondario prima della loro scadenza con conseguente realizzazione “artificiale” del FdC connesso al prezzo di acquisto. Con riferimento alla liquidità naturale, le determinanti sono da ricercare esclusivamente tra le caratteristiche tecniche dei titoli, con specifico riferimento ai profitti della durata e dell’emittente- le obbligazioni con un maggior grado di liquidità naturale sono quelle a b/t emesse da emittenti di elevata e comprovata solvibilità. Con riferimento alla liquidità artificiale, le determinanti non attengono solo i profili tecnici dei titoli, bensì comprendono anche le caratteristiche del mercato nel quale gli stessi titoli possono essere negoziati. I titoli che presentano un maggior grado di liquidità artificiale sono i titoli scambiati all’interno di mercati secondari nei quali le negoziazioni risultano spesse, ampie, continue e intense a seguito sia della loro quantità e del loro volume sia della presenza di un numero rilevante di operatori. In presenza di tali circostanze è evidente che i FdC relativi allo smobilizzo anticipato dei titoli rispondono ai requisiti della rapidità e dell’economicità in quanto realizzabili in maniera tempestiva e con costi di transazione contenuti e a prezzi in linea con le quotazioni esistenti al momento dell’effettuazione dell’operazione di vendita. Da tutto ciò consegue che le obbligazioni più liquide in assoluto sono quelle che cumulano un elevato grado di liquidità naturale e un elevato grado di liquidità artificiale. La valutazione della liquidità totale di un titolo viene attuate mediante l’applicazione di indicatori: in primis, indicatori di liquidità naturale, in secondo luogo, indicatori della liquidità artificiale. Ciò è dovuto per il fatto che la liquidità naturale influenza in maniera non trascurabile la liquidità artificiale. GLI INDICATORI DELLA LIQUIDITA’ NATURALE Gli indicatori della liquidità naturale non cambia al mutare della tipologia dei titoli obbligazionari presi in esame. Tali indicatori possono essere distinti in: - Elementari= che stimano il grado di liquidità naturale di un titolo obbligazionario in termini di un unico valore a scadenza, con riferimento all’unico o all’ultimo periodo di rimborso del capitale a seconda che tale rimborso avvenga in un’unica soluzione alla scadenza oppure per ammortamento; - Sofisticati= che stimano il grado di liquidità naturale di un titolo obbligazionario in termini di media, considerando a tal fine solo i periodi di maturazione dei FdC per capitale; - Completi= che stimano il grado di liquidità naturale di un titolo obbligazionario in termini di media, ma considerando a tal fine tutti i periodi di maturazione sia dei FdC per interessi che per capitale. L’ordine proposto consente di seguire un percorso che porterà a individuare nella duration il parametro più appropriato per la valutazione della liquidità naturale di un titolo obbligazionario.  Gli indicatori elementari Durata nominale (DN). La DN misura il tempo intercorrente tra la data di emissione del titolo e la data di rimborso del capitale oppure la data di rimborso dell’ultima quota di capitale. DN=t1-t0 La DN ha un significato essenzialmente giuridico-contrattuale. Inoltre, il significato della DN circoscritto alla valutazione della liquidità naturale delle obbligazioni di nuova emissione. Durata residua (DR). La DR misura il tempo intercorrente tra la data di acquisto di un titolo obbligazionario nel mercato secondario e la data di rimborso del capitale oppure la data di rimborso dell’ultima quota di capitale. DR=tn-ta La DR presenta una maggiore appropriatezza esclusivamente per il fatto che essa si presta a misurare le frazioni di periodo mancanti alla scadenza ultima di rimborso del capital con riferimento non solo al momento dell’emissione, bensì a qualsiasi momento della vita di un titolo obbligazionario. A parte questo, la DR presenta gli stessi limiti già evidenziati per la DN.  Gli indicatori sofisticati Vita media probabile (VMP). La VMP è espressa dalla media aritmetica ponderata delle scadenze dei rimborsi delle quote di capitale, utilizzando come fattore di ponderazione le stesse quote di capitale valutate al loro valore nominale. Ipotizzando che un titolo obbligazionario sia caratterizzato da un piano di ammortamento che prevede il rimborso del capitale in più soluzioni a certe date, per singole quote di capitale di pari importo, la VMP è pari a: $\ =   ∗    La formulazione si riferisce all’ipotesi di calcolo della VMP per un’obbligazione di nuova emissione. L’indicatore in esame, se da un lato ha un’indubbia significatività con riferimento ai titoli obbligazionari che prevedono il rimborso del capitale per ammortamento, dall’altro non assume alcuna valenza relativamente ai titoli che rimborsano il capitale in un’unica soluzione a scadenza. In tal caso, infatti, il valore della VMP coincide con quello dell’unica scadenza in cui l’intero capitale viene rimborsato e, quindi, offre la medesima indicazione della DN o della DR a un’obbligazione già in circolazione. La VMP, se messa a confronto con gli indicatori della DN e della DR, ha l’unico pregio di esprimere un’indicazione di durata non in termini di un unico valore a scadenza, bensì di un valore medio. Per il resto, essa rappresenta limiti analoghi a quelli evidenziati in precedenza. La VMP, se da un lato prende in considerazione tutte le scadenze di rimborso delle quote di capitale, dall’altro trascura completamente le scadenze nelle quali maturano le cedole. Per quanto riguarda poi il rispetto della logica finanziaria relativa ai tempi di maturazione dei FdC esso continua a mancare del tutto in quanto la VMP esprime tali flussi con riferimento al loro VN, anziché al loro VA. Vita media matematica (VMM). La VMM è espressa dalla media aritmetica ponderata delle scadenze di rimborso delle quote di capitale, utilizzando come fattore di ponderazione le stesse quote di capitale valutate al loro VA, quest’ultimo calcolato usando come tasso di attualizzazione il tasso interno di rendimento rappresentato, nel caso di specie, dal TREM. La VMM di un’obbligazione in corso di emissione è così formulata: $\\ = ∑  ∗ (1 + )∑ (1 + ) Tale circostanza è riferita a un tasso di attualizzazione corrispondente al TRES del titolo. Ne consegue che, cambiando tale tasso, la condizione di equilibrio viene subito meno. In particolare, in presenza di un aumento dei tassi d’interesse e, (quindi, del TRES), la D diminuisce, e viceversa. L’aumento del TRES determina una riduzione dei VA dei FdC tanto più pronunciata quanto più lontana nel tempo è la loro scadenza. Ne deriva un aumento del peso relativo dei VA dei FdC più ravvicinati e un conseguente sbilanciamento dell’asse del tempo sul quale i contenitori degli stessi VA sono appoggiati. Essendo uno sbilanciamento conseguente a un maggior peso relativo dei contenitori posti alla sinistra del baricentro finanziario, l’asse del tempo potrà trovare un nuovo equilibrio solo attraverso uno spostamento del suo fulcro nella stessa direzione. Un effetto esattamente contrario si sarebbe verificato nell’ipotesi opposta di una diminuzione dei tassi d’interesse de mercato e, quindi, del TRES. La D delle obbligazioni con cedola fissa emessa da uno stesso emittente presenta le seguenti 4 proprietà: - è direttamente correlata con la DR, a parità del TRES e del livello e della frequenza delle cedole; - è inversamente correlata con il livello delle cedole, a parità della DR e del TRES e della frequenza delle cedole; - è inversamente correlata con la frequenza delle cedole, a parità della DR e del TRES; - è inversamente correlata con il TRES, a parità della DR e del livello e della frequenza delle cedole. GLI INDICATORI DELLA LIQUIDITA’ ARTIFICIALE Le relative valutazioni riguardano sia aspetti qualitativi attinenti la struttura e il funzionamento del mercati sia aspetti quantitativi concernenti gli scambi. Con riferimento agli aspetti qualitativi, i profili dei mercati secondari sono: - la forma organizzativa; - l’efficienza; - lo spessore; - l’ampiezza; - l’elasticità. Per quanto riguarda la forma organizzativa, essa discende dalle modalità con le quali si intrecciano i soggetti, le procedute e gli strumenti nella fase del trading e del post trading e si traduce nelle 2 principali tipologie rappresentate dai mercati order driven e dai mercati quote driven. È opinione comune e condivisa che i mercati secondari quote driven sono caratterizzati da una liquidità maggiore rispetto ai mercati secondari order driven e ciò grazie alla presenza dei dealers. Infatti, quest’ultimi soprattutto e operanti nella veste dei dealers market makers, assicurano la presenza costante di proposte di acquisto e di vendita a prezzi fissati, circostanza quest’ultima che non si verifica nei mercati order driven nei quali la realizzazione degli scambi presuppone il reciproco combinarsi delle proposte di acquisto e di vendita formulate a prezzi necessariamente diversi e in tempi spesso non coincidenti dai soggetti scambisti. Nel mercati quote driven la liquidità può essere resa problematica dall’eventuale ampiezza degli spread tra i prezzi delle proposte di vendita e i prezzi delle proposte di acquisto. Un efficace correttivo al verificarsi di tale circostanza è rappresentato dall’organizzazione dei mercati in questione attraverso una struttura di dealers o di dealers market makers caratterizzata da un numero relativamente elevato di operatori e da relazioni concorrenti molto intense. Per ciò che riguarda l’efficienza, essa può essere valutata da diversi punti di vista, in particolare, con riferimento ai costi che la struttura dei mercati comporta per gli operatori oppure in rapporto alla capacità dei prezzi di riflettere le informazioni, assumendo, nel 1° caso, la denominazione di efficienza operativa e, nel 2° caso, quella di efficienza informativa. I mercati secondari che presentano un’elevata efficienza operativa sono anche in grado di garantire una migliore liquidità in quanto caratterizzati da costi di transazione più contenuti. Allo stesso modo, con riferimento alla 2° forma di efficienza, i mercati secondari caratterizzati da una buona efficienza informativa presentano un’altrettanta buona liquidità in quanto favoriscono l’afflusso delle proposte di acquisto e di vendita e, quindi, l’intensificazione degli scambi. Passando a considerare lo spessore, esso attiene la quantità degli ordini di acquisto e di vendita dei titoli a prezzi vicini a quelli ai quali gli stessi titoli sono scambiati o profondi e, nel caso di ordini numerosi, la fattispecie dei mercati non spessi o non profondi. È intuitivo comprendere che i mercati secondari spessi presentano condizioni di liquidità superiori in quanto la presenza di molteplici ordini a prezzi differenziati favorisce la realizzazione degli scambi in modo rapido ed economico. Venendo all’ampiezza, essa concerne l’entità degli ordini di acquisto e di vendita dei titoli, portando a configurare, nel caso di ordini di importo elevati, la fattispecie dei mercati ampi e, nel caso di ordini di importo ridotto, la fattispecie dei mercati sottili. I mercati secondari ampi sono maggiormente liquidi in quanto la presenza di ordini per quantitativi importanti rende più agevole la realizzazione degli scambi in condizioni di rapidità e di economicità. Infine, l’elasticità è concerne la velocità e l’intensità di reazione degli ordini alla dinamica dei prezzi, portando a configurare, nel caso di un adeguamento rapido e consistente della quantità degli ordini ai mutamenti dei prezzi, la fattispecie dei mercati elastici e, nel caso contrario, di un adeguamento lento e limitato delle medesime quantità, la fattispecie dei mercati rigidi. I mercati secondari elastici sono caratterizzati da una liquidità più elevata in quanto la capacità degli ordini di adeguarsi velocemente e intensamente alla fluttuazione dei prezzi migliora le opportunità di conclusione degli scambi sotto il duplice profilo dei tempi e dei costi. Tutte le caratteristiche fin qui analizzate non sono apprezzabili con immediatezza in quanto la loro natura è qualitativa. In quest’ottica si spiega l’opportunità di integrare l’analisi delle caratteristiche in parola con il ricorso a indicatori quantitativi che consentono una valutazione più diretta del contributo che può dare un mercato secondario alla liquidità artificiale di un titolo obbligazionario. Tali indicatori riguardano il numero dei contratti conclusi, il volume dei titoli scambiati espresso in termini di quantità degli stessi e il loro controvalore determinato moltiplicando tali quantità per i relativi prezzi. Sotto questo profilo, più elevati risultano il numero dei contratti, i volumi scambiati e i controvalori maggiore è la capacità di un mercato secondario di assicurare la liquidabilità, in termini rapidi ed economici, dei titoli in esso negoziati. I CRITERI DI VALUTAZIONE E GLI INDICATORI DEL RISCHIO DEI TITOLI OBBLIGAZIONARI - CAP.6 Il rischio può essere inteso come la variabilità del risultato dell’investimento obbligazionario. Tale risultato può essere espresso con riferimento al risultato atteso oppure al risultato realizzato. Ne consegue una diversa accezione del concetto di rischio in termini di rischio ex ante e di rischio ex post. In una logica ex ante il rischio può essere definito in termini di “possibile” variabilità dei risultati ottenibili dall’investimento obbligazionario a seguito del manifestarsi di molteplici e diversi fattori di aleatorietà. In una logica ex post il rischio può essere qualificato in termini di “accertata” variabilità dei risultati passati come comprovato dallo scostamento tra il risultato conseguito e il risultato atteso oppure dalla dispersione dei valori osservati in un determinato periodo di tempo intorno al valore medio di periodo. Nel caso dei titoli obbligazionari si possono distinguere 2 principali categorie di rischio: il rischio di credito e il rischio di mercato. Il rischio di credito attiene la solvibilità dell’emittente; in particolare, nella sua situazione economica, finanziaria e patrimoniale. Il rischio di mercato riguarda l’andamento del mercato obbligazionario; e può essere a sua volta scomposto in rischi di mercato: in senso stretto e in senso lato. I rischio di mercato in senso stretto sono conseguenti al fatto che l’investimento in obbligazioni comporta l’assunzione di una posizione in titoli. Da ciò consegue un’esposizione alle incertezze riguardanti l’andamento futuro delle variabili di prezzo del mercato rappresentate fai tassi d’interesse e anche dai tassi di cambio. In questo senso emerge la distinzione tra: il rischio d’interesse e il rischio di cambio. Il rischio d’interesse riguarda l’impatto sulla posizione in titoli prodotto dalle variazioni dei tassi d’interesse. La determinante di tale rischio risulta l’andamento degli stessi tassi d’interesse. In rischio di cambio riguarda l’impatto sulle posizioni in titoli determinato dalle variazioni dei tassi di cambio. La determinante di tale rischio risulta l’andamento degli stessi tassi di cambio. I rischi di mercato in senso lato sono anch’essi legati all’assunzione di una posizione in titoli e si configurano come un insieme vasto ed eterogeneo di rischi conseguenti al procedere più o meno fluido degli scambi, ma rappresentativi anche di mutamenti dello scenario di riferimento che può influire sul mercato obbligazionario. I rischi di mercato in senso lato, riconducibili al fatto che gli scambi possono essere conclusi con o senza frizioni sono: il rischio di controparte, di regolamento e di liquidità. Per altro verso, i rischi di mercato in senso lato, dipendenti dai mutamenti del contesto di riferimento che possono influenzare il mercato obbligazionario sono: il rischio monetario e di paese. Il rischio di controparte riguarda l’eventualità che i soggetti in contropartita dei quali un investitore realizza operazioni di scambio di obbligazioni nel mercato secondario possono non essere in grado di conseguire i titoli o il denaro a seguito del loro stato di insolvenza. La determinante di tale rischio risulta la complessiva situazione di solvibilità o di non solvibilità delle singole controparti misurata con riferimento all’equilibrio o meno del complesso delle loro condizioni economiche, finanziarie e patrimoniali. Per quanto riguarda il rischio di regolamento la possibile inadempienza delle controparti dipende non dall’aspetto soggettivo bensì dall’aspetto oggettivo rappresentato da una sopravvenuta difficoltà di carattere esogeno che impedisce il puntuale regolamento delle transazioni. Per quanto riguarda l’orizzonte temporale, i rating possono essere a l/t o b/t. l’espressione di sintesi è rappresentata dai simboli alfanumerici che ciascuna agenzia di rating propone in maniera diversa, però sono ravvisabili alcuni tratti comuni che riguardano i seguenti aspetti: - l’utilizzo delle lettere in ordine alfabetico e in numero decrescente per segnalare gli emittenti o le obbligazioni con il rischio di credito progressivamente più elevato; - il ricorso, in affiancamento alle lettere, ai numeri in ordine crescente o ai segni algebrici in ordine decrescente per indicare gli emittenti o le obbligazioni con il rischio più basso o, rispettivamente, più alto; - l’espressione del rating a l/t e quello a b/t attraverso 2 distinte scale di simboli; - l’individuazione degli emittenti o delle obbligazioni con un basso grado di rischio di credito (investmente grade) e degli emittenti o delle obbligazioni con un alto grado di rischio di credito (speculative grade). L’attività delle agenzie di rating non si esaurisce con l’attribuzione del rating, ma si sviluppa attraverso un lavoro di valutazione dinamica e di monitoraggio sistematico del rischio di credito i cui momenti essenziali sono il rating outlook e il rating watch. Il rating outlook riguarda la possibile evoluzione nel m/p del rating attribuito a un emittente o i a un’emissione. Il giudizio prospettico può essere positivo, negativo, stabile o in evoluzione. La natura di tale giudizio non implica l’inevitabilità del cambiamento o del mantenimento del rating in essere. Il rating watchs sono qualificati come positivi, negativi o in evoluzione a seconda che la società di rating preveda che l’accertamento dell’evento e dei suoi effetti possa portare a un innalzamento del rating (upgrade) o a un suo declassamento (downgrade) oppure a una decisione che al momento appare ancora incerta. L’attività di rating esterno viene sviluppata secondo differenti modelli di business. Il 1° modello, denominato issuer-pay model prevede che siano gli emittenti ai quali è attribuito il rating a remunerare la relativa attività attraverso il pagamento di commissioni alle agenzie di rating. Ne consegue che queste ultime possono offrire il servizio di rating gratuitamente agli investitori e al mercato in genere. Peraltro, il modello presenta il rischio di una possibile situazione di conflitto d’interessi collegata al fatto che i soggetti valutatori sono remunerati dai soggetti valutati. Il 2° modello, denominato subscription model prevede, al contrario del 1°, che siano gli investitori e gli operatori di mercato in genere a remunerare l’attività di rating sempre tramite il pagamento di commissioni alle agenzie omonime. Ne deriva il venir meno della gratuità del servizio di rating per il mercato con conseguente rischio di limitazione della disponibilità del rating ai principali investitori istituzionali in quanto unici soggetti in grado di sostenere l’onere delle commissioni. A fronte di ciò il modello in esame non comporta la possibile situazione di conflitto d’interessi prima descritta. Le agenzie di rating sono esposte alla registrazione e alla vigilanza da parte dell’European Securities and Markets Authority (ESMA). Gli indicatori indiretti non discendono da alcun processo di valutazione analitica del merito del credito, bensì riflettono le aspettative in materia degli operatori del mercato, configurandosi, come una misurazione del rischio di credito implicita e non immediatamente percepibile. Essi si indentificano con i prezzi di strumenti finanziari il cui modello di pricing riflette le valutazioni del mercato sul merito creditizio degli emittenti le obbligazioni. Tra tali strumenti, i più significativi ai fini dell’apprezzamento del rischio di credito dei suddetti emittenti sono i credit default swap (CDS). I cds sono strumenti derivati appartenenti alla categoria dei credit derivatives, cioè degli strumenti che hanno come sottostante il merito di credito opportunatamente certificato di un prenditore di fondi. I cds sono contratti, tipicamente con durata pari a 5 o 10 anni, tramite i quali un soggetto titolare di un credito trasferisce il rischio collegato a tale credito a un altro soggetto nell’ipotesi che il terzo possa risultare insolvente. A fronte di questo trasferimento del rischio si determina ovviamente una prestazione contrapposta tra i contraenti. Mentre il soggetto titolare del credito riconosce alla controparte un corrispettivo fisso articolato su più prestazioni periodiche fino alla scadenza del contratto e determinato applicando un quantum espresso in basis point (c.d. cds spread) al valore nozionale del crdito, la controparte si impegna nei confronti del soggetto titolare del credito a corrispondergli tale valore nozionale nel caso dell’accertata insolvenza del terzo, cioè del verificarsi del c.d. credit event (rappresentato dal fallimento). In pratica i cds sono una specie di contratto di assicurazione sul rischio d’insolvenza, tanto è vero che il soggetto titolare del credito che trasferisce il rischio di credito è qualificato come protection buyer mentre il soggetto che si assume il medesimo rischio nell’ipotesi dell’accertata insolvenza del terzo p qualificato come protection seller. In questo senso il corrispettivo fisso periodico che il protection buyer riconosce al protection seller si può configurare come un premio il cui valore viene evidentemente determinato in funzione del rischio di credito oggetto del trasferimento e della contestuale protezione, in particolare con riferimento alla probabilità che tale rischio si manifesti concretamente attraverso l’insolvenza del debitore. Indicatori interessanti possono venire dal confronto tra il cds spread relativo a ciascun emittente privato e lo spread espresso dal mercato obbligazionario sotto forma di differenza tra il tasso di rendimento effettivo dei titoli obbligazionari e il tasso di rendimento di uno strumento finanziario risk free della medesima durata. In conclusione, dunque, il cds spread valutato di per sé e attraverso le descritte modalità di comparazione, rispetto allo spread espresso dal mercato obbligazionario, configura un indicatore indiretto del rischio di credito che si aggiunge all’indicatore diretto rappresentato dal rating. Il cds spread ha il vantaggio, rispetto al rating, di non risultare condizionato da valutazioni di tipo soggettivo e di essere tempestivo e continuo. Il rating, per altro verso, ha il pregio di essere a disposizione di tutti gli investitori e di risultare facilmente accessibile, caratteristiche che invece non sono proprie dell’indicatore generato dal mercato dei cds il quale è alla portata solo degli investitori istituzionali. Tra l’altro, il mercato dei cds è un mercato non regolamentato fatto da poche grandi banche internazionali che operano come dealers market makers, con caratteristiche di forte opacità e nel quale le operazioni originate da finalità di copertura del rischio si trovano coesistere con operazioni su cds motivate da chiari intenti speculativi riferibili a vere e proprie scommesse sul default dell’uno o dell’altro emittente. La rilevanza di quest’ultimo aspetto è tale che, a livello di UE, è stato emanato un regolamento sulle vendite allo scoperto e sui cds entrato in vigore il 1/11/2012 il quale ha introdotto il divieto dei naked cds relativamente ai titoli degli emittenti sovrani appartenenti alla medesima UE. Valutato nel suo insieme il mercato mondiale dei cds continua a presentare molteplici limiti e lacune. In presenza di questa situazione, è inevitabile che l’attendibilità del cds spread come misura del rischio di credito si riduca e l’interpretazione in tal senso dei relativi valori non possa essere immediata bensì necessiti di un’attenta interpretazione. Ciò spiega le sollecitazioni provenienti in particolare dalle autorità di controllo affinché il mercato dei cds sia regolamentato e, quindi, acquisti caratteristiche di migliore funzionalità e di maggiore trasparenza relativamente ai prezzi fatti e alle quantità scambiate. Quello che è certo è che i 2 indicatori non devono essere considerati alternativi l’uno all’altro, bensì complementari. Per quanto concerne le banche, il rating interno, inteso come l’attribuzione delle imprese affidate a una determinata classe di rischio, si configura come un passaggio propedeutico ed essenziale per arrivare a quantificare il rischio di credito e, quindi, per assumere le decisioni di affidamento e per sviluppare 2 principali politiche riguardanti: l’una la stima delle possibili perdite, l’altra la determinazione del “giusto” prezzo del credito, cioè del tasso d’interesse corrispondente al grado di rischio delle singole imprese al quale ciascuna impresa, se ritenuta meritevole di credito, può essere affidata. Determinato il rating interno e valutata positivamente la possibilità dell’affidamento, il processo di concessione dei singoli prestiti bancari prevede le seguenti 2 tappe: - previsione della perdita; - determinazione del tasso d’interesse. La previsione della perdita riguarda 2 distinti aspetti: quello della perdita attesa e quello della perdita inattesa. La perdita attesa è intesa come la perdita che la banca stima di conseguire mediamente su un credito. Essa è ritenuta prevedibile e misurabile nel senso che dipende dalla probabilità di insolvenza del soggetto da affidare e dal tasso di perdita del credito stesso valutati al momento della concessione del credito. Posto che la probabilità d’insolvenza è implicita nelle classi di rischio costruite attraverso il processo del rating interno, la perdita attea può essere identificata con il valore medio ponderato della distribuzione del valore del tasso di perdita all’interno della classe di rischio nella quale la banca ha inserito il soggetto da affidare. Tale valore medio solitamente viene ricavato con riferimento a una serie storica significativa di valori della specie, fermo restando che, trattandosi di un valore atteso dovrebbe essere calcolato attraverso una media ponderata dei valori previsti utilizzando come fattore di ponderazione la probabilità del loro verificarsi. IL RISCHIO D’INTERESSE Dato che la variazione determina una modifica sia dei prezzi dei titoli sia delle condizioni alle quali possono essere reimpiegati i frutti intermedi prodotti dagli stessi titoli, l’analisi si presta a essere condotta scomponendo il rischio d’interesse in rischio: di volatilità e di reinvestimento. - Il rischio di volatilità riguarda la variazione del prezzo dei titoli obbligazionari al variare dei tassi d’interesse. Data la natura inversa della relazione che lega i prezzi e i tassi d’interesse, il rischio si manifesta in positivo, cioè attraverso un aumento dei prezzi, se i tassi d’interesse scendono e in negativo, cioè attraverso una diminuzione dei prezzi, se i tassi d’interessa salgono. - Il rischio di reinvestimento riguarda il mutamento delle condizioni di reimpiego dei frutti al variare dei tassi d’interesse. Il rischio di reinvestimento si manifesta in positivo, cioè attraverso un miglioramento delle condizioni di reimpiego, se i tassi d’interesse salgono e in negativo, cioè attraverso un peggioramento delle condizioni di reinvestimento, se i tassi d’interesse scendono. Al di là di questa differenza, le modalità di manifestarsi del rischio di volatilità e del rischio di reinvestimento dipendono da fattori comuni riconducibili da un lato alle obbligazioni oggetto dell’investimento, in particolare alla loro tipologia e alle loro caratteristiche tecniche, dall’altra al comportamento degli investitori, segnatamente con riferimento alla durata di volatilità del loro holding period. Sotto il 1° profilo, sia il rischio di volatilità che quello di reinvestimento si manifestano in maniera e in misura differenti in funzione: - Del titolo obbligazionario considerato (a tasso fisso, variabile, senza cedola); - Del livello delle cedole e della loro frequenza, con riferimento alle obbligazioni a tasso fisso; - Della loro durata, con riferimento a tutte le obbligazioni. Sotto il 2° profilo, si rileva la relazione inversa o diretta che lega la durata dell’holding period al rischio di volatilità e, rispettivamente, al rischio di reinvestimento. In particolare, più breve risulta la durata del periodo di investimento maggiore è la rilevanza del rischio di volatilità e minore è la rilevanza del rischio di reinvestimento. Ritornando alla contrapposta natura degli effetti prodotta dalle variazioni dei tassi d’interesse sulle componenti rischio di volatilità e sulla componente rischio di reinvestimento, vi è la possibilità per gli investimenti di effettuale scelte di investimento che consentono di compensare la divergente manifestazione delle 2 componenti per arrivare a contenere o, al limite, ad annullare il rischio d’interesse nel suo complesso. Il rischio di volatilità può essere inteso e misurato come la variazione percentuale istantanea del prezzo tel quel delle obbligazioni originata da una variazione dei tassi d’interesse di mercato, identificando questi ultimi con i tassi di rendimento delle medesime obbligazioni posto che, nell’ipotesi di mercati privi di imperfezioni, il livello di tali tassi deve essere allineato al livello dei tassi d’interesse di mercato di pari durata. ΔP=P*-P ΔP[%]=(P*-P)/P dove: P* è il P calcolato a seguito della Δ del tasso; P è il P prima della Δ Se il tasso d’interesse di mercato (es. TRES) cambia, in aumento, allora: 1) Il rischio di volatilità si manifesta in negativo e tale manifestazione interessa sia le obbligazioni a cedola fissa, sia quelle a cedola variabile; 2) La portata del rischio in esame risulta diversa per le 2 categorie di obbligazioni, in particolare è più alta per le obbligazioni a tasso fisso rispetto a quelle a tasso variabile e ciò in quanto in queste ultime il meccanismo della variabilità delle cedole successive alla prima assicura una certa protezione rispetto alla variazione in aumento dei tassi d’interesse di mercato; 3) Tale protezione non è totale, in quanto il meccanismo di variabilità delle cedole non è istantaneo e non recupera per l’intero la variazione dei tassi d’interesse di mercato; 4) Ne consegue che anche le obbligazioni a tasso variabile sono soggette al rischio di volatilità e che per tali obbligazioni l’entità di tale rischio dipende dall’efficacia del meccanismo di variabilità delle cedole, nel senso che tanto più tale meccanismo recupera la variazione dei tassi d’interesse di mercato con tempestività e con completezza, tanto più il rischio di volatilità è contenuto; 5) L’unica obbligazione a tasso variabile che non presenta rischio di volatilità è quella caratterizzata da un meccanismo di variabilità delle cedole che consente di recuperare la variazione dei tassi d’interesse d mercato istantaneamente e per l’intero; 6) Un’obbligazione del genere si configura come una pura astrazione teorica in quanto non trova alcun riscontro concreto, se non altro per l’evidente disinteresse degli emittenti a proporre un titolo le cui condizioni risulterebbero totalmente aleatorie. Se il tasso d’interesse di mercato cambia, in diminuzione, allora: 1) Il rischio di volatilità si manifesta in positivo e tale manifestazione interessa sia le obbligazioni a cedola fissa, sia quelle a cedola variabile; 2) La portata del rischio in esame risulta diversa per le 2 categorie di obbligazioni, in particolare è più alta per le obbligazioni a tasso fisso rispetto a quelle a tasso variabile. Sia il titolo a cedola fissa che quello a cedola variabile presentano variazioni assolute e variazioni relative più rilevanti nell’ipotesi che i tassi d’interesse di mercato scendano piuttosto che in quella in cui salgano. Dunque, si delinea un comportamento difforme dei prezzi delle obbligazioni al variare in pari misura dei tassi d’interesse di mercato in una direzione o nell’altra. La rilevanza di tale asimmetria, peraltro, non è uniforme, bensì dipende dall’entità della variazione dei tassi di mercato, risultando tanto minore quanto più contenuta risulta tale variazione. Quindi, le variazioni sono di portata maggiore nell’ipotesi della riduzione dei tassi d’interesse di mercato rispetto a quella del loro aumento e tale asimmetria è correlata direttamente all’entità della variazione degli stessi tassi risultando particolarmente significativa nel casi di variazioni elevate e contenuta nel caso di variazioni ridotte. Al di là della variazione iniziale, i tassi d’interesse di mercato potrebbero anche continuare a salire o a scendere. Se i tassi d’interesse di mercato continuano a salire i prezzi continuano a scendere, ma con variazioni marginali decrescenti; mentre se i tassi d’interesse di mercato continuano a scendere i prezzi continuano a salire, ma con variazioni marginali crescenti. Dunque, si delinea una 2° asimmetria della funzione che lega i prezzi e i rendimenti. Considerazioni: 1) Posto che il rendimento e il prezzo delle obbligazioni sono legati da una relazione inversa, tale relazione presenta 2 asimmetrie; 2) La 1° asimmetria riguarda il fatto che, a parità di variazioni dei tassi d’interesse di mercato in aumento o in diminuzione, le variazioni dei prezzi sono di diversa entità nel senso che risultano più marcate se i tassi in parola diminuiscono piuttosto che se gli stessi tassi aumentano; 3) La 2° asimmetria riguarda il fatto che, nell’ipotesi che i tassi d’interesse di mercato continuino a salire o a scendere con variazioni di pari entità, le corrispondenti variazioni dei prezzi in diminuzione sono marginalmente decrescenti, mentre le corrispondenti variazioni dei prezzi in aumento sono marginalmente crescenti; 4) In termini di rischio di volatilità ciò significa che, a parità di variazione dei tassi d’interesse di mercato, il rischio in esame è più accentuato se i suddetti tassi scendono e risulta marginalmente decrescente o crescente a seconda che i medesimi tassi continuano ad aumentare o, rispettivamente, a diminuire. [È utile precisare che ciò equivale ad affermare che le variazioni dei prezzi delle obbligazioni e, quindi, il rischio di volatilità sono di diversa entità a seconda del livello iniziale del TRES, risultando tanto più accentuati quando più tale livello è basso e tanto più tale livello è alto]. Dalla rappresentazione emerge una funzione il cui andamento discendente esprime a relazione inversa tra P e r e la cui forma convessa riflette le 2 asimmetrie descritte. In particolare: - La 1° asimmetria è rappresentata dalla relazione: p*-p3>p*-p1 - La 1° asimmetria è rappresentata dalle relazioni: p1-p2<p*-p1 e p3-p4>p*-p3 Considerazioni in riferimento al confronto tra titolo con cedola e titolo senza cedola: 1) Il rischio di volatilità risulta più elevati, a parità di altre condizioni, nei titoli senza cedola rispetto a quelli con cedola, siano essi a cedola fissa o a cedola variabile; 2) La ragione di tale maggiore rischiosità va identificata nell’assenza, nei titoli senza cedola, dei frutti intermedi, assenza che, porta a una composizione dello stesso rendimento totale determinata dalla componente per capitale, con conseguente più rilevante escursione dei prezzi, sempre rispetto ai titoli con cedola, al variare dei tassi d’interesse di mercato; 3) Da tutto ciò deriva, a parità di altre caratteristiche dei titoli considerati, una scalettatura delle diverse tipologie di obbligazioni in termini di rischio di volatilità che vede le obbligazioni senza cedola più rischiose di quelle con cedola fissa, a loro volta più rischiose di quelle con cedola variabile; A parità di altre caratteristiche dei titoli, la D risulta: - Direttamente correlata con la durata residua così come il rischio di volatilità è tanto più elevato quanto maggiore è la stessa durata residuale; - Inversamente correlata con il livello della cedola così come il rischio di volatilità è tanto più elevato quanto più basso è tale livello; - Inversamente correlata con la frequenza delle cedole così come il rischio di volatilità è tanto più elevato quanto più bassa è tale frequenza; - Inversamente correlata con il livello del TRES così come il rischio di volatilità è tanto più elevato quanto più basso è tale livello. L’utilizzo della D come indicatore del rischio di volatilità può essere spiegato prendendo in considerazione la funzione che lega il prezzo e il rendimento delle obbligazioni, segnatamente di quelle a cedola fissa, e approfondendone lo studio matematico. Giungendo alla formulazione della MD, che è pari a: \] = ]1 + Inoltre: - = −\] ∗ - In particolare, emerge che: - Il rischio di volatilità, espresso da Y== è spiegato da 3 componenti: dr, il segno “–“, ^; - La componente dr misura le variazioni dei tassi d’interesse di mercato che si immagina si traducano in variazioni di analogo segno e di analoga entità del TRES; - Il segno meno spiega la nota relazione inversa che lega le variazioni dei tassi d’interesse di mercato e del TRES con le variazioni dei prezzi; - La componente ^ identifica la MD, la quale si configura come un indicatore che, per date variazioni dei tassi d’interesse di mercato e del TRES, consente di apprezzate le variazioni dei prezzi e, quindi, il rischio di volatilità; - La MD, dunque, appare un indicatore più appropriato della D ai fini della misurazione del rischio in parola. La MD permette di arrivare a una stima del rischio di volatilità, ma non a una sua puntuale determinazione. Considerazioni sulla MD: 1) La MD si conferma essere un indicatore che consente di stimare il rischio di volatilità, ma non di determinarlo in termini puntuali; 2) Ne consegue che l’utilizzo della MD comporta errori di misura che dipendono dal fatto che, utilizzando tale indicatore, si ragiona in termini di derivata 1° della funzione che lega il prezzo ai rendimento e, quindi, si tratta come lineare una funzione che, invece, è curvilinea; 3) Gli errori non sono uniformi e, quindi, necessitano di essere precisati in termini di entità e di natura; 4) Con riferimento all’entità, essa è tanto più elevato quanto maggiore risulta la variazione dei tassi d’interesse di mercato e, a parità di variazione, più rilevante in caso di loro diminuzione che in caso di loro aumento; 5) Tali difformità non sono dovute a ulteriori limiti dell’indicatore della MD, bensì riflettono le asimmetrie di comportamento della funzione che lega i prezzi ai rendimenti; 6) Con riferimento alla natura, considerato che i prezzo stimati risultano sempre inferiori ai rezzi effettivi, essa risulta diversa a seconda del segno della variazione dei tassi d’interesse di mercato, traducendosi, in particolare, in una sovrastima della diminuzione dei prezzi se i tassi variano in aumento e in una sottostima dell’aumento dei prezzi se i tassi variano in diminuzione. Le considerazioni possono essere generalizzate ricordando alla rappresentazione grafica riportata in figura, la quale, mostrando la funzione che lega il prezzo al rendimento delle obbligazioni a tasso fisso e la sua derivata prima nella forma della retta tangente alla suddetta funzione in corrispondenza di una determinata coppia di valori di p e di r, offre una visione chiara e precisa degli errori di stima che l’utilizzo dell’indicatore della MD comporta, sia in termini di entità sia in termini di natura. La relazione tra P e r di un’obbligazione a tasso fisso è espressa da una funzione convessa, mentre, procedendo alla stima delle variazioni del prezzo attraverso la MD, di fatto si approssima la funzione curvilinea per mezzo di una retta, più propriamente tramite la tangente alla curva nel unto corrispondente ai valori iniziali del prezzo e del rendimento (p0 e r0). Da ciò consegue l’inevitabilità di commettere errori di stima i quali sono misurati dalla distanza verticale tra la curva espressiva della funzione e la retta a essa tangente. Esaminando il movimento lungo la curva è agevole riscontrare che l’entità degli errori aumenta mano a mano che le variazioni del rendimento diventano più elevate e risulta marginalmente più rilevante se i tassi d’interesse di mercato diminuiscono piuttosto che se aumentano. Con riferimento alla natura degli errori, emerge quanto segue: - In caso di aumento del tasso di rendimento di equilibrio da r0 a r1, il prezzo effettivo del titolo obbligazionario scende, muovendosi lungo la curva, da p0 a p*, mentre, ricorrendo alla MD e muovendosi di conseguenza lungo la retta tg, lo stesso prezzo diminuisce fino a p, con conseguenti sovrastima della riduzione del prezzo ed errore misurato dalla lunghezza del segmento p*p1; - All’opposto, in caso di diminuzione del tasso di rendimento di equilibrio da r0 a r2, il prezzo effettivo del titolo obbligazionario sale, muovendosi lungo la curva, da p0 a p**, mentre, ricorrendo alla MD e muovendosi di conseguenza lungo la retta tangente, lo stesso prezzo aumenta solo fino a p, con conseguenti sottostima dell’incremento del prezzo ed errore misurato dalla lunghezza del segmento p**p2. In conclusione, la D e la DM si configurano come indicatori in grado di assicurare un buon apprezzamento del rischio di volatilità delle obbligazioni con cedola fissa, ma solo nell’ipotesi che l variazioni dei tassi d’interesse di mercato e, quindi, del TRES risultino abbastanza contenute. Nei limiti indicati, la D e la MD possono essere considerati indicatori adeguati del rischio di volatilità dei titoli in questione. Le conclusioni a cui si è pervenuti con riferimento alle obbligazioni con cedola fissa valgono anche per le obbligazioni senza cedola, ma non sono estendibili alle obbligazioni con cedola variabile. Quest’ultima categoria di obbligazioni, infatti, presenta alcune specificità le quali condizionano la possibilità della D e della MD di assicurare una corretta stima del rischio di volatilità. Il irif rappresenta il rendimento dello strumento finanziario a b/t di riferimento e mf espresso dalla differenza tra il rendimento dell’obbligazione a tasso variabile e il rendimento dello strumento finanziario a b/t di riferimento, rappresenta il premio per il rischio richiesto dal mercato per la sottoscrizione di un titolo di durata più lunga di quella dello strumento finanziario in questione. Con riferimento alle variazioni di irif: - = − ]G_`a1 + ∗ -UGV Nella quale r è il TRET e la duration rispetto a irif viene determinata attraverso la derivata prima del prezzo rispetto a irif: - = − ]2V1 + ∗ -bc Nella quale r è il TRET e la duration rispetto a mf viene calcolata come se il titolo fosse un’obbligazione a tasso fisso. NB: la Dirif pur essendo ricavata al pari della D mediante il calcolo della derivata prima della funzione di riferimento, si differenzia dalla stessa D in quanto non si configura nei termini di una media aritmetica ponderata di periodi e, quindi, non può svolgere alcun ruolo di indicatore della liquidità naturale. Invece, Dmf risulta uguale alla D in un’obbligazione a tasso fisso in quanto viene determinata ipotizzando la costanza di irif. La misura complessiva del rischio di volatilità, comunque, dipende dalla somma dei 2 effetti considerati nelle espressioni precedenti. Ne deriva una formalizzazione della stima del rischio in esame nelle obbligazioni a tasso variabile secondo l’identità di seguito rappresentata: - = − ]G_`a ∗ -UGV + ]2V ∗ -bc1 + Dove r è il TRET. 7) Inoltre, in presenza di variazioni dei tassi d’interesse di mercato molto ridotti, la misura dell’errore tende a 0 e risulta trascurabile; 8) La C contribuisce a spiegare il rischio di volatilità in misura marginale dato che esso risulta in gran parte determinato dalla MD. Invece, M2 può essere configurata come la varianza delle scadenze dei FdC attualizzati. Essa è così formulata: \X = ∑ (  − ])X ∗ (1 + ) @ Dove P = ∑ D()E La relazione che lega la C a la M2 è la seguente: C=D+D2+M2 La D e la MD consentono di cogliere e di spiegare la maggior parte del complessivo rischio di volatilità di un titolo obbligazionario. Dunque, C e la M2 si configurano come indicatori di 2° istanza, in particolare allorché la D e la MD non consentono di discriminare tra un titolo e l’altro. In tal caso il grado di curvatura della funzione che lega il prezzo al rendimento o la varianza delle scadenze dei FdC espressi in VA rappresentano elementi di valutazione decisivi per l’assunzione delle decisioni d’investimento. In particolare, in presenza di titoli obbligazionari che presentano gli stessi valori in termini di rendimento, di D e di MD, la scelta dell’investitore dovrebbe cadere sui titoli che presentano la maggiore C. In questo modo, l’investitore riuscirebbe a contenere la caduta dei prezzi dei titoli nell’ipotesi che i tassi d’interesse di mercato salgano e ad amplificare il loro innalzamento nell’ipotesi opposta. Considerazioni: - Gli indicatori del rischio di volatilità si prestano a essere usati secondo una successione ben precisa; - L’utilizzo degli indicatori della C e della M2, in ogni caso, risulta utile in linea generale per affinare la misura del rischio di volatilità, in particolare per cogliere gli effetti positivi o negativi connessi alla maggiore o, rispettivamente alla minore dispersione delle scadenze dei FdC espressi in VA. La D può essere utilizzata come indicatore: - Della liquidità naturale; - Del rischio di volatilità dei titoli obbligazionari; - Per gestire il rischio d’interesse nel suo complesso, in particolare, per assicurare la copertura dello stesso tramite la compensazione dei contrapposti effetti che la variazione dei tassi d’interesse di mercato produce sulle sue 2 componenti. Teorema dell’immunizzazione= è la dimostrazione di come sia possibile proteggere dal rischio d’interesse un investimento in un titolo obbligazionario con cedola fissa non conservato fino alla sua scadenza, in particolare, realizzando un rendimento alla fine dell’investimento esattamente pari a quello stimato all’inizio dell’investimento stesso. L’illustrazione del teorema presuppone l’introduzione del tasso di rendimento di periodo (TREP), costituisce una modalità di calcolo attraverso la quale si vuole quantificare il risultato dell’investimento alla fine del periodo di detenzione di un titolo. Il TREP è un normale tasso di rendimento a scadenza che, diversamente dagli altri tassi di rendimento, viene calcolato in riferimento non alla data ultima di rimborso del capitale del titolo, bensì a quella in cui termina l’holding period dell’investitore. Ne consegue che esso rappresenta un tasso di rendimento ex post riferibile solo a uno specifico investitore e allo specifico titoli oggetto dell’investimento. Il TREP può essere formalizzato e calcolato attraverso 2 modalità. Secondo una 1° modalità, il TREP può essere rappresentato come il tasso di rendimento che eguaglia al montante del prezzo d’acquisto la somma del montante dei frutti intermedi e del prezzo alla fine dell’holding period (PHP): (1 + )l= =  (1 + )l=j +m l= H.R  ≤ o Dove: l= = ∑ D()ESpq m H.R  > o Alternativamente, il TREP può essere espresso come il tasso che eguaglia al prezzo di acquisto la somma dei VA dei frutti intermedi e del prezzo alla fine dell’holding period:  =  (1 + ) +m l=(1 + )l= H.R  ≤ o Le determinanti del TREP sono da un lato i frutti intermedi e il tasso al quale essi sono reinvestiti e dall’altro il prezzo alla fine dell’holding period. Ne consegue che in entrambe le identità il TREP si dimostra capace di catturare sia la componente rischio di reinvestimento attraverso la misura del tasso di reinvestimento dei frutti intermedi, sia la componente rischio di volatilità tramite la misura del prezzo alla fine dell’holding period. Dunque, il TREP emerge come una misura appropriata al fine di tenere conto della complessiva manifestazione del rischio d’interesse. In particolare, la copertura dal rischio in esame si intende realizzata nell’ipotesi che l’investitore riesca a realizzare un TREP, cioè un risultato ex post, esattamente pari al TRES, cioè al risultato ex ante. L’eventuale divergenza tra il TREP e il TRES, infatti, non può che dipendere dalle variazioni dei tassi d’interesse di mercati e, quindi, degli effetti che queste variazioni producono sulla componente del rischio di volatilità e sulla componente del rischio di reinvestimento. Ipotizzando che l’oggetto dell’investimento sia rappresentato da un titolo obbligazionario a tasso fisso con rimborso del capitale in un’unica soluzione a scadenza e che l’holding period dell’investitore non coincida con la DR del titolo. L’illustrazione del teorema dell’immunizzazione deve portare alla dimostrazione che per l’investitore è possibile realizzare un TREP uguale al TRES e che tale circostanza si realizza in corrispondenza dell’investimento in un titolo avente una D che coincide con l’holding period desiderato dall’investitore stesso. L’illustrazione del teorema può essere fatta in 2 tempi diversi, partendo da un approccio intuitivo e successivamente sviluppando un approccio formale. L’approccio intuitivo si fonda sulla valutazione del valore nel tempo del montante di un investimento in un titolo obbligazionario ipotizzato in precedenza in corrispondenza di 3 distinte ipotesi di andamento dei tassi d’interesse di mercato. In particolare le ipotesi sono le seguenti: - Stabilità dei tassi d’interesse di mercato; - Aumento dei tassi d’interesse di mercato; - Diminuzione dei tassi d’interesse di mercato. Ricorrendo alla rappresentazione grafica, l’andamento del montante dell’investimento in esame nelle 3 ipotesi risulta quello delineato in figura. Dall’analisi della figura emerge che: Il montante dell’investimento presenta valori diversi nelle 3 ipotesi di andamento dei tassi d’interesse di mercato, fatta salva la presenza di un punto d’incontro delle 3 curve in cui il montante assume lo stesso valore. Il corrispondenza di tale punto il TREP è uguale al TRES e ciò in quanto i tassi d’interesse di mercato sono rimasti stabili, oppure che siano variati ma poi si sono compensati. Tale punto d’incontro corrisponde a un holding period dell’investitore pari alla D del titolo oggetto dell’investimento. Più precisamente tale holding period dovrebbe identificarsi non con un valore puntuale della stessa D, bensì con un suo simile che viene definito duration windows. Per il resto la dinamica del montante necessita di essere spiegata in relazione alle diverse ipotesi di andamento dei tassi d’interesse di mercato: 1) Nell’ipotesi di loro diminuzione e di holding period inferiori alla D, il montante risulta superiore rispetto all’ipotesi della loro stabilità (quindi TREP>TRES) e ciò in quanto l’effetto positivo che si produce sulla componente rischio di volatilità è più rilevante dell’effetto negativo che si produce sulla componente rischio di reinvestimento; (caso contrario: Nell’ipotesi di loro aumento e di holding period inferiori alla D, il montante risulta inferiore rispetto all’ipotesi della loro stabilità (quindi TREP<TRES) e ciò in quanto l’effetto negativo che si produce sulla componente rischio di volatilità è più rilevante dell’effetto positivo che si produce sulla componente rischio di reinvestimento); 2) Nell’ipotesi di loro diminuzione e di holding period superiori alla D, il montante risulta inferiore rispetto all’ipotesi della loro stabilità (quindi TREP<TRES) e ciò in quanto l’effetto positivo che si L’assenza di una perfetta coincidenza tra la curva dei rendimenti per scadenza e le singole combinazione (Scadenza - TRES), può essere imputata a imperfezioni dei mercati di negoziazione e/o diversi gradi di liquidità dei titoli negoziati. In assenza di imperfezioni e di differenti livelli di liquidità, un titolo la cui combinazione (scadenza - TRES) si collocasse al di sotto della yield curve sarebbe sovra- prezzato, presentando un rendimento inferiore a quello che la scadenza del titolo indicherebbe come equo. La conoscenza della yield curve ha dunque il vantaggio di permettere l’identificazione del prezzo equo (fair price) che un titolo obbligazionario dovrebbe assumere. In alcuni casi, anziché rappresentare la relazione rendimento-scadenza, si preferisce rapportare il rendimento alla duration dei titoli. La curva così ottenuta è definita curva dei rendimenti per duration (o anche yield to duration); quest’ultima può essere considerata più precisa della curva dei rendimento per scadenza (o anche yield to maturity) in quanto la YTD consente di associare il rendimento offerto dai titoli al rischio sopportato. La YTM e la YTD assumono che il rendimento e, quindi, il prezzo di un titolo dipendano rispettivamente dalla scadenza e dalla duration del titolo stesso. Nota quindi la scadenza del titolo, la curva dei rendimenti per scadenze permette di identificare il rendimento equo corrispondente e, conseguentemente, il prezzo equo del titolo stesso. Tuttavia, esiste una diversa logica di determinazione del prezzo di un titolo, basata sul presupposto che per “prezzare” un’obbligazione sia necessario interpretare la stessa alla stregua di una combinazione di titoli senza cedola. Si prenda in considerazione un ipotetico BTP con vita residua triennale e cedole semestrali pari a 3. Un profilo finanziario di questo tipo può essere replicato combinando 6 distinti titoli senza cedola. Data la coincidenza tra l’investimento nel titolo con cedole e la combinazione di 6 titoli senza cedola, l’ipotetico BPT in esame deve assumere un prezzo equivalente alla somma dei prezzi dei 6 titoli senza cedola: tr= = ∑ (G5 1u3 7Y53),GNG . Sulla base di questa ipotesi il fair value del BTP non viene calcolato attualizzando i suoi 6 cash flow a un unico tassi di rendimento. Occorre trattare ciascun flusso come il VN di un ipotetico titolo senza cedola: i singoli flussi vengono quindi attualizzati ciascuno a un differente tassi di interesse. Al fine di procedere alla stima del prezzo del titolo occorre però disporre di una particolare curva definita curva zero coupon o term structure, la quale identifica le relazioni “scadenza-rendimento” che valgono per i soli titoli zero coupon. Questo criterio presuppone quindi che il prezzo di un titolo obbligazionario non dipenda dalla sua scadenza, ma dai singoli cash flow assimilabili a tanti titoli zero coupon. Il modello di pricing dei titoli analizzato viene definito valutazione dei titoli sulla curva zero coupon. Uno dei principali problemi associati alla valutazione dei titoli sulla term structure è che tale curva non è immediatamente disponibile nel mercato, poiché l’esistenza di titoli zero coupon è limitata alle scadenze brevi. Esistono diversi modi per stimare la curva dei tassi zero coupon, il più diffuso è il metodo del bootstrapping. Osservando un mercato in anni diversi è possibile riscontrare diverse conformazioni della relazione fra rendimento e scadenze del titolo; le configurazioni tipo sono le curve dei rendimenti con andamento: crescente, piatto e decrescente. LA TEORIA DELLE ASPETTATIVE La teoria delle aspettative riconduce la forma della curva dei rendimenti zero coupon alla sola aspettativa degli investimenti circa l’andamento futuro dei tassi d’interesse. Per questa teoria l’aspettativa degli investitori identifica l’unico fattore che influenza la forma della curva. Una curva dei rendimenti zero coupon:  Crescente è riconducibile a una aspettativa di futuro incremento dei tassi d’interesse;  Decrescente è riconducibile a una aspettativa di futuro ribasso dei tassi d’interesse;  Piatta è riconducibile a una aspettativa di invarianza dei tassi d’interesse. La teoria delle aspettative permette di estrapolare, nota la curva zero coupon, le stime dei tassi forward impliciti nell’andamento della curva. Un investitore che intende effettuare un investimento a 2 anni può: - Acquistare un titolo ZCB con scadenza pari a 2 anni; - Acquistare a pronti un titolo con scadenza pari a 1 anno e alla scadenza investire il montante ottenuto in un altro titolo con scadenza sempre annuale. Per la teoria delle aspettativa, queste 2 operazioni di investimento devono conseguire lo stesso rendimento alla scadenza dei 2 anni. Analiticamente: d1 + ,XeX = d1 + ,e ∗ d1 + c,Xe I termini , e ,X sono noti, l’unica incognita è rappresentata da c,X. Quest’ultima, analiticamente, è pari a: c,X = d1 + ,XeXd1 + ,e − 1 Se si dispone di una curva dei rendimenti continua, la teoria delle aspettative permette di calcolare qualsiasi tipo di tasso forward. NB: Se c,X > , allora la curva dei rendimenti si presume crescente, e viceversa. LA TEORIA DEL PREMIO PER LA LIQUIDITA’ La teoria del premio per la liquidità nega l’assioma “curva crescente - tassi futuri al rialzo”, ipotizzando che la curva dei rendimenti zero coupon incorpori non solo l’aspettativa sui tassi, ma anche la presenza di un premio, che gli investitori richiedono per investire in titoli a più lunga scadenza e minore liquidità. Questo assunto trova conferma nel comportamento degli investitori razionali avversi al rischio: questi ultimi, consci della maggiore rischiosità dei titoli a più lunga scadenza e con minore liquidità, pretendono che i titoli paghino un rendimento che incorpori non solo le aspettative di andamento futuro dei tassi, ma anche la maggiore rischiosità. Per la teoria del premio per la liquidità tale uguaglianza non dovrebbe essere rispettata, poiché la prima operazione, comportando maggior rischio, dovrebbe garantire al termine dei 2 anni un maggior rendimento. Analiticamente: d1 + ,XeX > d1 + ,e ∗ d1 + c,Xe Poiché la teoria del premio per la liquidità ipotizza la presenza di un premio per il rischio positivo, i tassi forward ottenuti applicano tale teoria sono inferiori a quelli estrapolati dalla teoria elle aspettative. In conclusione, poiché i tassi d’interesse incorporano anche il premio per la liquidità, con questa teoria non è più possibile ricavare i tassi d’interesse attesi dal mercato conoscendo la sola curva dei rendimenti corrente, in quanto occorre conoscere anche i premi per la liquidità richiesti dal mercato. LA TEORIA DELLA SEGMENTAZIONE DEI MERCATI La teoria della segmentazione dei mercati ipotizza che gli investitori esprimano delle preferenze per specifici intervalli di scadenza dei titoli. La curva dei rendimenti può quindi essere vista come un insieme di segmenti di scadenze. La teoria in esame ipotizza che i rendimenti all’interno di ciascun segmenti di scadenza siano determinati dalle condizioni di domanda e offerta interne al segmento. In pratica, vi sarebbe una separazione tra i diversi segmenti della curva, essendo ciascuno di questi “popolato” da diversi gruppi di investitori. Quest’ultimi sarebbero disposti ad abbandonare il loro segmento preferito solo nel caso in cui il passaggio a un altro segmento fosse accompagnato dal pagamento di un premio. In sintesi, la teoria della segmentazione dei mercati ipotizza che l’andamento della curva dei rendimenti ZCB sia riconducibile non solo alle aspettative circa l’andamento futuro dei tassi di interesse, ma anche agli extrarendimenti richiesti dagli investitori per abbandonare il segmento preferito. Tali extrarendimenti non sono, a differenza di quanto ipotizzato nella teoria del premio per la liquidità, crescenti al crescere delle scadenze dei titoli. Il metodo del bootstrapping prevede di calcolare i tassi ZCB relativi a scadenza per le quali non sono disponibili titoli senza cedola, utilizzando i titoli con cedola i cui flussi di cassa intermedi vengono attualizzati ai tassi ZCB disponibili. Si ipotizzi che esistano 4 titoli ZCB di cui sono noti la vita residua in termini di anni e il rendimento in termini di TRES. Sulla base di queste informazioni, è possibile definire l’andamento della curva dei tassi ZCB siano a 2 anni; oltre tale scadenza non è possibile tracciare la curva, a causa dell’assenza di titoli senza cedola con maturity maggiore. Supponendo, però, che sul mercato esista un ipotetico BTP con vita residua pari a 2 anni e 6 mesi, prezzo pari 100,53€ e cedole semestrali pari a 1,75€. Al fine di determinare il tasso ZCB relativo alla scadenza 2,5 anni, i tassi ZCB relativi alle scadenze 0,5; 1; 1,5; 2 anni vengono utilizzati per attualizzare i primi 4 flussi del BTP. Noto il prezzo di mercato di quest’ultimo (100,52€), è possibile impostare la seguente equazione a una incognita:  = 7(M,X)k,v + 7(M,w)T + 7(M,X)T,v + 7(M,XN)x + 7y(z)x,v → x=3,31% Grazie a questo procedimento si è riusciti ad ampliare il segmento noto della curva ZCB. Avendo a disposizione altri BTP con vita residua progressivamente crescente, e attualizzando i flussi di questi titoli usando i tassi ZCB già disponibili, è possibile ricavare l’intera curva dei tassi ZCB. muoversi in direzione opposta. La perfetta correlazione negativa coincide quindi con un valore della correlazione pari a -1. Tale valore assicura il massimo beneficio di diversificazione. I valori estremi del coefficiente di correlazione sono „ ∈ [−1; +1]. A completamento dell’analisi svolta, si propone una semplice regola che, sfruttando il grafico della linea di regressione, permette di interpretare la natura della correlazione intercorrente tra i rendimenti di una coppia di titoli. Date le combinazioni dei rendimenti dei 2 titoli, disposte queste ultime sul piano cartesiano e disegnata la linea di regressione, il coefficiente di correlazione:  Ha segno uguale alla pendenza della linea;  Presenta un valore numerico tanto + elevato, quanto maggiore è la vicinanza dei punti alla linea stessa. Terminati gli approfondimenti in tema di covarianza e di coefficiente di correlazione, è possibile procedere all’esame della formula di calcola della deviazione standard del portafoglio. Ipotizzando di voler calcolare il rischio, in termini di varianza, del portafoglio P composto dai generici titoli 1 e 2, gli elementi necessari per procedere al calcolo sono i seguenti:  La deviazione standard dei rendimenti del titolo 1;  Il peso assunto in portafoglio dal titolo 1;  La deviazione standard dei rendimenti del titolo 2;  Il peso assunto in portafoglio dal titolo 2;  La correlazione tra i rendimenti dei 2 titoli. Nel caso specifico, la formula della varianza è la seguente: |}X = ({ ∗ |)X + ({X ∗ |X)X + 2 ∗ { ∗ {X ∗ | ∗ |X ∗ „.X. Da essa si estrapola facilmente la formula di calcolo della deviazione standard: |} = Š|}X. In alternativa, noto che: „.X = 9ZT.x‡T∗‡x  .€,X = „,X ∗ | ∗ |X, le formule di calcolo della varianza e della deviazione standard possono essere scritte anche nei modi seguenti: |}X = ({ ∗ |)X + ({X ∗ |X)X + 2 ∗ { ∗ {X ∗ .€,X e |} = Š|}X. Queste formule permetto di evidenziare alcune importanti proprietà:  La deviazione standard del portafoglio è pari alla media ponderata delle deviazioni standard dei 2 titoli, sono nel caso un cui i rendimenti di questi ultimi siano perfettamente correlati positivamente.  Quando la correlazione è < di +1, la deviazione standard del portafoglio risulta minore della media ponderata delle deviazioni standard dei rendimenti dei singoli titoli; man a mano che la correlazione si riduce il beneficio di diversificazione è progressivamente più accentuato;  Tale beneficio è massimo quando la correlazione tra i rendimenti dei titoli è pari a -1. Date le caratteristiche di 2 generici titoli di cui siano noti rendimenti attesi, deviazioni standard dei rendimenti e coefficiente di correlazione, occorre individuare, per ogni combinazione dei 2 titoli, il rendimento atteso e il rischio del portafoglio da essi composto. Infatti, affinché l’investitore avverso al rischio possa procedere alla selezione del portafoglio ottimale, occorre identificare le combinazioni rendimento atteso- rischio di tutti i portafogli costruiti mixando i 2 titoli. Un portafoglio è definito efficiente se non esiste un altro portafoglio che abbia stesso rischio e maggiore rendimento atteso (o, alternativamente, se non esiste un altro portafoglio che abbia stesso rendimento atteso e minor rischio). Tali portafogli rappresentano le migliori soluzioni che l’investitore può costruire per ogni livello di rischio ritenuto tollerabile o, alternativamente, per ogni livello di rendimento atteso ricercato. Si noti che in caso di correlazione perfettamente positiva non sono ravvisabili benefici di diversificazione: il rischio è infatti rappresentato, per ogni portafoglio, dalla semplice media ponderata dei rischi dei singoli titoli. Quando la correlazione è < a +1, l’insieme delle combinazioni rischio- rendimento atteso assume un andamento curvilineo (iperbole). Cominciano ad essere manifesti i primi effetti della diversificazione: si evince, infatti, che a parità di composizione del portafoglio una riduzione della correlazione determina una riduzione della deviazione standard del portafoglio, senza produrre effetti sul rendimento atteso. Si noti che anche in questo caso tutti i portafogli ottenuti come combinazione dei titoli A e B sono portafogli efficienti: il principio media-varianza non è in grado di evidenziare la dominanza di nessun portafoglio sugli altri. Anche in tal caso la linea dei portafogli fattibili coincide con l’insieme dei portafogli efficienti. Si ipotizzi che il coefficiente lineare tra 2 titoli sia pari a 0.7. Anche il questo caso la combinazione rischio-rendimento atteso dei portafogli assume un andamento curvilineo (iperbole), ma gli effetti della diversificazione sono più evidenti. Inoltre, nell’ultimo caso non tutti i portafogli fattibili sono anche efficienti: il principio media-varianza permette infatti di riconoscere alcuni portafogli come dominati. La linea dei portafogli fattibili evidenzia l’esistenza di portafogli con rischio inferiore al σ del titolo meno volatile. Da ciò deriva che gli unici portafogli efficienti sono quelli le cui combinazioni rischio-rendimento atteso si collocano nella parte superiore della curva, ovvero dal punto di svolta H sino a B. In sintesi:  Il tratto di curva AB rappresenta l’insieme dei portafogli fattibili;  Il tratto di curva AH rappresenta l’insieme dei portafogli dominati;  Il tratto di curva HB rappresenta la linea dei portafogli efficienti, denominata frontiera efficiente. Un investitore avverso al rischio dovrebbe evitare di investire il 100% del suo capitale nel titolo A, poiché combinando opportunamente i 2 titoli è possibile raggiungere il portafoglio T che promette, a parità di deviazione standard, un rendimento atteso superiore a quello che titolo A. anche quando la correlazione assume un valore nullo o valori negativi, l’andamento dell’insieme dei portafogli fattibili non si modifica: il ramo di iperbole si sposta sempre più verso sinistra, come manifestazione di un più accentuato effetto di riduzione del rischio. IL MODELLO DI MARKOWITZ NEL CASO GENERALE DI N TITOLI IN PORTAFOGLIO Dalle precedenti considerazioni si evince l’insegnamento fondamentale della portfoglio selection: combinando titoli rischiosi si produce un insieme di alternative di investimento (insieme dei portafogli fattibili); alcune di queste combinazioni appaiono non efficienti e vengono quindi trascurate, altre invece sono efficienti e compongono la frontiera efficiente. Noti:  I rendimenti attesi E(ri) di ognuno dei titoli in portafoglio;  I pesi Xi assunti dai medesimi titoli; il rendimento atteso E(rp) di un portafoglio composto da N titoli viene calcolato come semplice media ponderata dei rendimenti attesi dei singoli titoli usando come fattore di ponderazione i loro pesi all’interno del medesimo portafoglio. Maggiore attenzione richiede invece la stima del rischio del medesimo portafoglio. La presenza di un numero maggiore di titoli non ne modifica la struttura analitica, ma comporta che aumentino i termini sotto radice e ciò soprattutto per l’esigenza di stimare le correlazioni (o le covarianze) per ogni possibile coppia dei titoli in portafoglio. Introdotto il tema della numerosità dei termini di correlazione, si può analizzare la formula analitica di calcolo del rischio di un portafoglio in presenza di un numero di titoli superiore pari a N. |} = Š∑ ∑ {G{…|G|…„G,……G Tornando alla teoria di Markowitz, dopo la stima di E(rp) e di σp è necessario analizzare come dall’insieme delle combinazioni dei titoli si estrapoli l’insieme dei portafogli efficienti. È evidente che la maggiore numerosità dei titoli potenzialmente acquisibili rende più ampio lo spettro dei portafogli fattibili. Al fine di analizzare la forma assunta dallo spazio delle combinazioni dei portafogli fattibili e dalla frontiera efficiente, si fa ricorso a un esempio grafico. Si ipotizzi che un investitore venga chiamato a identificare le migliori strategie di investimento operando una scelta tra 3 soli titoli. Le combinazioni di A, B e C, danno luogo a una nuvola di punti che si colloca in uno spazio che assume la forma di un ramo di iperbole. L’insieme dei portafogli fattibili assume tale forma anche nel caso generico di N titoli in portafoglio. Il bordo superiore (quello concavo) delimitante l’insieme di tali portafogli rappresenta la frontiera efficiente, cioè l’insieme dei portafogli preferibili in quanto dominati su tutti gli altri. Si noti che qualsiasi portafoglio la cui combinazione rischio-rendimento atteso si collochi al di sotto del ramo FB è inefficiente; l’area al di sopra della frontiera efficiente rappresenta invece l’insieme delle combinazioni impossibili: non esiste infatti alcuna combinazione di titoli che permetta di raggiungere tale area; solo l’eventuale aggiunta di un nuovo investimento potrebbe determinare un innalzamento di tale frontiera.  Il rendimento atteso di ogni mercato;  Il rischio di ogni mercato  La correlazione tra i rendimenti di ogni coppia di mercati. A questo punto, grazie a strumenti di ottimizzazione è possibile determinare direttamente i punti componenti la frontiera efficiente, senza quindi ricavare quest’ultima come confine superiore dell’insieme dei portafogli possibili. Tali modelli ottimizzazione funzionano in questo modo:  Una volta definito un livello di rendimento atteso;  Posto il vincolo che la somma dei pesi di ciascun mercato sia pari al 100%;  Posto il vincolo che il peso percentuale attribuito a ciascun mercato sia maggiore o uguale a 0; essi riescono a identificare i pesi da attribuire ai mercati in modo da minimizzare il rischio. Ripetendo questo procedimento + volte, si riescono a ottenere i vari punti che costituiscono la frontiera efficiente, senza la necessità di esplicitare anche le combinazioni rischio-rendimento atteso dei portafogli inefficienti. MITI, FALSE CREDENZE E LIMITI DEL MODELLO DI MARKOWITZ Sebbene il modello rappresenti un criterio di selezione degli investimenti estremamente attraente, non mancano gli elementi di debolezza che tendono a ridurne il concreto utilizzo. Una prima fonte di perplessità è direttamente identificabile nelle ipotesi concernenti il comportamento degli investitori:  L’ottimizzazione basata sul principio media-varianza ignora qualsiasi preferenza verso indicatori statistici diversi dal rendimento atteso e dalla deviazione standard;  Il modello suppone che gli investitori siano caratterizzati da un unico orizzonte temporale;  La deviazione standard è una misura di rischio troppo semplificata. Le ragioni di diffusione di tale modello vanno ricercate nella difficoltà di sviluppare modelli in grado di rimuovere le ipotesi semplificatrici e contestualmente preservare la facilità di implementazione. È poi possibile identificare una seconda fonte di perplessità. Il percorso elaborato da Markowitz presenta alcune debolezze che rendono il modello incapace di adeguarsi alla prassi operativa dei soggetti impegnati nel processo di costruzione del portafoglio:  I portafogli efficienti hanno spesso composizioni irragionevoli; sono concentrati in poche attività e/o attività di scarsa rilevanza assumono pesi eccessivamente elevati;  I portafogli efficienti sono instabili, sono cioè sufficienti piccole variazioni nelle stime di rendimento atteso, rischio e correlazione per produrre ampie modifiche nella loro composizione;  A causa degli errori nelle stime dei parametri, i portafogli efficienti potrebbero rivelarsi ex post tutt’altro che tali. IL CAPITAL ASSET PRICING MODEL - CAP.10 PREMESSA Il tema della frontiera efficiente esaminato nel precedente capitolo rappresenta la premessa necessaria anche per lo sviluppo del capital asset pricing model (CAPM). Il CAPM è un modello di equilibrio dei mercati che consente di individuare una precisa relazione tra rendimento e rischio per tutte le attività rischiose. LE IPOTESI DEL CAPM Il CAPM si basa su una serie di ipotesi che possono essere distinte in 2 blocchi: le ipotesi comuni al modello di Markowitz e le ipotesi aggiuntive. Le ipotesi aggiuntive sono le seguenti:  L’orizzonte uniperiodale adottato da ogni investitore è lo stesso per tutti gli investitori;  Ogni investitore può investire oppure prendere a prestito senza nessuna limitazione a un medesimo tasso privo di rischio; tale tasso è uguale per tutti gli investitori;  Gli investitori hanno aspettative omogenee circa i rendimenti attesi, le varianze e le covarianze dei rendimenti attesi di tutte le attività rischiose nelle quali essi possono investire;  Non esistono tasse, né costi di transazione e altre imperfezioni del mercato. Nell’analizzare le ipotesi aggiuntive del CAPM è importante evidenziare in particolare 2 aspetti. Il 1° consiste nel fatto che viene introdotta la possibilità di investire o prendere a prestito al tasso privo di rischio, combinando così un investimento rischioso con un investimento o un indebitamento al tasso risk free. Il 2° elemento importante è che in base alle ipotesi aggiuntive formulate dalla CAPM, la frontiera efficiente stimata è esattamente la stessa per tutti gli investitori. Ciò si deve in particolare alle ipotesi 4 e 6, per le quali tutti gli investitori valutano i possibili investimenti alternativi sulla base del medesimo orizzonte temporale e sulla base delle stesse stime circa rendimenti attesi, varianze covarianze dei rendimenti. Se le stime di tutti gli input coincidono e l’orizzonte temporale è il medesimo, inevitabilmente qualsiasi investitore riceverà la medesima frontiera efficiente. LA COMBINAZIONE TRA TITOLO FREE RISK E TITOLO RISCHIOSO Una delle ipotesi centrali della CAPM prevede la possibilità di investire e indebitarsi senza limiti al tasso privo di rischio. Un possibile esempio di attività priva di rischio è rappresentata da un titolo di Stato zero coupon, come il BOT. L’ipotesi di poter investire o indebitarsi a un tasso privo di rischio può tradursi nell’ipotizzare che l’investitore, oltre che in titoli rischiosi, possa investire anche in un’attività come il BOT a un anno, e contemporaneamente nell’ipotizzare che sia possibile qualora lo si desideri indebitarsi a un tasso identico a quello dei medesimi BOT a un anno. Consideriamo quali soluzioni di investimento si possono ottenere combinando l’attività free risk con un generico titolo i con rendimento |G. Nel caso dell’attività free risk, il rendimento atteso sarà certo e pari a rf e la deviazione standard del rendimento atteso stesso sarà 0. Consideriamo ora un portafoglio di valore complessivo pari a 1 e in cui una quota pari a X sia investita nel titolo risk free e una quota pari a 1-X sia investita nel titolo rischioso i. Il rendimento atteso di un portafoglio così composto è: Ad }e = { ∗ V + (1 − {) ∗ A( G). Considerando che la deviazione standard dei rendimenti del titolo risk free è nulla, la deviazione standard dei rendimenti del portafoglio P è pari a: |= = Š0 + (1 − {)X|GX + 0 = (1 − {)|G In altri termini, sia il rendimento sia il rischio crescono linearmente al crescere della quota investita nel titolo rischioso i. Dal punto di vista grafico, le possibili configurazioni di rendimento atteso e rischio sono rappresentate nella figura seguente. L’equazione della retta rappresentata in tale grafico è data da: Ad }e = V + Ž(`)ja‡` ∗ |= dove rf è l’intercetta sull’asse delle ordinate e il coefficiente angolare è dato da: Ž(`)ja‡` . Tale coefficiente angolare può essere interpretato come la remunerazione per unità di rischio offerta dal titolo i. È possibile considerare sia i casi in cui il peso dell’attività è positivo (e quindi si investe nell’attività risk free) sia quelli in cui tale peso è negativo: ciò equivale concettualmente a indebitarsi al tasso privo di rischio. Dal punto di vista grafico, i punti compresi fra rf e I rappresentano i portafogli in cui si investe nel titolo i e nel titolo risk free, mentre quelli a destra di I rappresentano i portafogli costruiti indebitandosi al tasso risk free e investendo un importo maggiore del valore del portafoglio nel titolo i. in questo caso, data la strategia particolarmente aggressiva adottata, sia il rendimento atteso sia il rischio potranno risultare superiori a quelli dello stesso titolo i. LA DETERMINAZIONE DEL PORTAFOGLIO RISCHIOSO OTTIMALE E LA CAPITAL MARKET LINE Combinando l’attività risk free con titoli diversi, è possibile ottenere chiaramente configurazioni rischio - rendimento atteso diverse, come raffigurato. Dalla figura emerge per esempio che è più efficiente combinare l’attività risk free con il titolo K che con il titolo I. In termini + formali, si può affermare che combinando l’attività risk free con il titolo K si possono ottenere combinazioni che dominano quelle ottenibili mediante combinazioni dell’attività risk free con il titolo I. Ad }e = V + A( 2) − V ∗ „G2 |G|2 Questa relazione si differenzia dalla precedente della CML proprio per la comparsa del coefficiente di correlazione che esprime la correlazione tra i rendimenti del singolo titolo i e del portafoglio di mercato. Quest’ultima equazione è nota come security market line (SML) ed è tipicamente espressa: A( G) = V + A( 2) − V ∗ ‘G Dove il termine ‘G = „G2 ‡`‡< è il coefficiente beta del singolo titolo o del portafoglio e rappresenta la misura del solo rischio sistematico del titolo o del portafoglio. Una possibile formulazione alternativa del beta si basa sul concetto di covarianza. Dato che in generale la covarianza fra 2 variabili A e B è pari a: .€ (’, “) = „”,t|”|t allora l’espressione del beta può essere scritta anche come: ‘G = „G2 ‡`‡< =•`<–`–<‡<x . Questa formulazione alternativa può consentire una seconda spiegazione intuitiva del concetto di beta. Infatti, è possibile dimostrare che la variazione dei rendimenti del portafoglio di mercato può essere ottenuta come la media ponderata delle covarianze fra ogni titolo e il portafoglio di mercato: |2X = ∑ {G ∗ |G2G . Ciò significa che il contributo dato dal singolo titolo alla varianza dei rendimenti del portafoglio di mercato dipende solo dalla covarianza fra i suoi rendimenti e il rendimento di portafoglio. Graficamente, la SML è rappresenta dalla seguente figura. Le ordinate rappresentano i rendimenti attesi e l’intercetta sull’asse delle ordinate è pari al tasso privo di rischio. Sull’asse delle ascisse il rischio è misurato dal beta. Anche in questo caso la retta dovrà passare dal punto che rappresenta il portafoglio di mercato, che avrà coordinate [E(rm); 1], dato che il suo beta è pari a 1, e quindi il coefficiente angolare della SML sarà semplicemente pari a E(rm) – rf. Una modalità alternativa per esprimere la relazione rendimento atteso – rischio ricavata dal CAPM è quella di ragionare in termini di excess return (o premio per il rischio) che consiste nel differenziale di rendimento atteso rispetto al tasso privo di rischio. Partendo dall’equazione della SML, si può scrivere infatti anche A( G) − V = ‘GA( 2) − V che significa che l’excess return di ogni titolo deve essere pari all’excess return del portafoglio di mercato moltiplicato per il beta del titolo. L’excess return in questo caso rappresenta la ricompensa che l’investitore vuole ricevere per investire in un titolo rischioso, e sarà quindi proporzionale al rischio sistematico del titolo o del portafoglio stesso. UN’APPLICAZIONE DEL CAPM: LA DETERMINAZIONE DEL TASSO DI RENDIMENTO ATTESO PER UN TITOLO AZIONARIO NEI DIVIDEND DISCOUNT MODEL Fra le numerose possibili applicazioni del CAPM, una che riveste particolare rilievo consiste nella individuazione di un giusto tasso di sconto per la valutazione dei titoli azionari mediante i dividend discount model. Considerando il modello a crescita costante dei dividenti, il prezzo del titolo risulta essere dato da:  =^[yTj— dove r rappresenta un opportuno tasso di sconto che dovrà essere superiore al tasso privo di rischio e comprendere un opportuno premio per il rischio. Come quantificare correttamente tale tasso di sconto? Il CAPM fornisce una risposta. Conoscendo il beta del titolo, è possibile stimare quale possa essere il giusto rendimento atteso del titolo e utilizzare tale valore come tasso di sconto all’interno del modello in esame. IL MARKET MODEL La distinzione fra rischio sistematico + di grandissima importanza nella valutazione dei titoli azionari. In un articolo di poco precedente a quello in cui introdusse il CAPM, Sharpe ipotizzò che i rendimenti dei singoli titoli potessero essere spiegati mediante un’equazione del tipo: G = 0G + ‘G 2 + ˜G dove 0G , ‘G sono coefficienti da stimare, 2 è il rendimento di un indice del mercato azionario e ˜G è un termine casuale con media zero. Tale relazione viene comunemente indicata come market model e la retta definita dall’equazione sopra riportata è detta retta caratteristica (characteristic line). Utilizzando come valore di riferimento un beta pari a 1, i titoli possono essere divisi in:  Titoli aggressivi, caratterizzati da un valore di beta > di 1; tali titoli sono soggetti a variazioni dei rendimenti + che proporzionali rispetto al rendimento dell’indice di mercato;  Titoli difensivi, caratterizzati da un valore di beta compreso tra 0 e 1; il rendimento di tali titoli varia palesando variazioni meno che proporzionali rispetto a quelli dell’indice. Una possibile modalità per stimare i termini dell’equazione è mediante una regressione sulla base di dati storici. In questo caso l’equazione della retta di regressione consente di stimare i coefficienti alfa e beta che dall’equazione della characteristic line si desume che:  ™G rappresenta il rendimento del titoli i-esimo quando il rendimento dell’indice è nullo, e coincide quindi con l’intercetta sull’asse delle y;  ‘G rappresenta l’inclinazione della retta di regressione. Il market model qui presentato ha almeno apparentemente una somiglianza con il CAPM. In realtà, tuttavia, vi sono importanti differenze tra market model e CAPM. In primo luogo, è diversa la finalità. Il CAPM punta a spiegare come si formano i prezzi dei titoli, mentre il market model può essere adottato per esempio come una possibile modalità per semplificare i calcoli nel tentativo di costruire una frontiera efficiente con un numero elevato di titoli. Infatti, con n titoli da considerare è necessario stimare n rendimenti attesi, n varianze e xjX termini unici di correlazione (covarienze). Se si ipotizza invece che i rendimenti dei titoli siano spiegabili sono sulla base della loto correlazione con un unico fattore comune rappresentato dall’indice di mercato, allora è possibile calcolare le covarianze tra i rendimenti di qualsiasi t di titoli solo sulla base dei loro 2 beta e della varianza dei rendimenti dell’indice di mercato. Infatti la correlazione fra i 2 titoli deriva solo dal legame di entrambi con un fattore comune, espresso attraverso il beta, mentre la componente specifica di rischio potrà essere trascurata. Il market model rappresenta in realtà una delle possibili modalità per spiegare i rendimenti dei titoli azionari sulla base di uno o + fattori: esso è in particolare un modello a fattore singolo, o unifattoriale. Una seconda fondamentale differenza è che il concetto di portafoglio di mercato utilizzato dal CAPM è concettualmente ben diverso dall’indice di mercato azionario su cui si costruisce il market model. Il portafoglio di mercato del CAPM è costituito dal complesso di tutte le attività rischiose di qualsiasi tipo negoziate sui mercati, abbracciando quindi un complesso di attività ben + ampio dei soli titoli azionari. Ciò significa anche che i beta del market model e del CAPM sono, in linea generale, diversi, anche se con formule molto simili, perché mentre il beta del CAPM è dato da: ‘G = |G2|2X Il beta del market model è dato da: ‘G = |G,2|2X Nella realtà, tuttavia, i beta stimati sulla base del market model sono molto spesso utilizzati come stime dei beta del CAPM. La principale ragione di tale semplificazione è la difficoltà di ricostruire nella pratica quell’aggregato potenzialmente assai ampio che il CAPM definisce come portafoglio di mercato, e che dovrebbe includere tutte le attività finanziare rischiose negoziabile sul mercato, ponderate per il loro valore di mercato. RISCHIO SISTEMATICO E RISCHIO SPECIFICO SULLA BASE DEL MARKET MODEL Il market model può essere utile per illustrare i concetti di rischio sistematico e rischio specifico. Secondo il market model, il rendimento di un titolo azionario può essere spiegato come: G = 0G + ‘G 2 + ˜G Dove il 1° termine è una costante, il secondo rappresenta la componente di rendimento spiegata dal legame con l’andamento del mercato e il termine ˜G individua la componete casuale specifica del singolo titolo. Dato che il rendimento ri è una variabile aleatoria data dalla somma di una costante e di 2 variabili aleatorie, la varianza di tale variabile dipenderà soltanto dalle 2 componenti aleatorie presenti nella formula. È possibile dimostrare che la varianza complessiva del rendimento del generico titolo i può essere scomposta come: |GX = ‘GX ∗ |2X + |šX dove i 2 termini al secondo membro rappresentano rispettivamente la componente della varianza dei rendimenti dovuta al rischio sistematico e quella spiegata dalla componente specifica. Sulla base di queste relazioni è possibile procedere a rettificare i beta prospettici aumentando i beta dei titoli con grado di indebitamento oppure con variabilità dei risultati economici superiore alla media. In ogni caso l’entità della correlazione da apportare deve essere stimata empiricamente. LE ESTENSIONI DELLA VERSIONE BASE DEL CAPM E LO ZERO-BETA CAPM Il CAPM nella sua versione base si caratterizza per alcune ipotesi fortemente semplificatrici, e numerosi lavori successivi si sono concentrati sull’analisi degli effetti della rimozione di tali ipotesi, valutando gli effetti dell’estensione del modello base dal CAPM. In questa sede ci concentreremo sulla cosiddetta versione zero-beta del CAPM, che illustra cosa accade abbandonando l’ipotesi che sia possibile investire sia indebitarsi senza limiti a un medesimo tasso priva di rischio. Le ipotesi si poter sia investire senza limiti a un medesimo tasso privo di rischio, è tuttavia una delle ipotesi del CAPM + facilmente contestabili. È discutibile infatti immaginare che tutti i soggetti possono indebitarsi allo stesso tasso a cui possono investire. Se si abbandono quindi questa ipotesi, vi sarebbero 2 rette tangenti diverse da considerare: una, con intercetta pari al tasso di investimento risk free, consentirebbe di individuare le combinazioni ottimali fra investimento al tasso privo di rischio e portafogli rischiosi; l’altra, con un’intercetta superiore e pari al tasso a cui è possibile ottenere finanziamenti rfin, consentirebbe di costruire le combinazioni efficienti di portafogli rischiosi e indebitamento. Come mostra la figura, ciò farebbe sì che l’insieme dei portafogli efficienti si trovi:  Nel 1° tratto, tra rf e T, sulla retta costruita combinando un investimento risk free con il portafoglio T;  Nel 2° tratto, tra T e Z, su una porzione della frontiera efficiente;  Nel 3° tratto, oltre Z, sulla retta costruita combinando un indebitamento al tasso rfin con il portafoglio Z. Come conseguenza, investitori con diversi gradi di avversione al rischio potrebbero individuare il loro portafoglio ottimale in ognuno di questi 3 comparti. Non esisterebbe quindi + un solo portafoglio rischioso ottimale utilizzato da tutti gli investitori per costruire il proprio portafoglio ideale e personalizzato. In questo caso il portafoglio di mercato M è semplicemente dato dalla aggregazione di tutti i portafogli scelti dagli investitori in uno dei 3 possibili tratti, ma perde la caratteristica di portafoglio ottimale. In aggiunta una possibile critica + radicale delle ipotesi del CAPM base consiste nel mettere in discussione l’estensione stessa di un’attività priva di rischio. Anche se adottando un orizzonte temporale annuale si può affermare che un titolo di Stato zero coupon garantisce un rendimento certo in termini nominali, ma non in termini reali. Ciò significa che se i tassi d’inflazione sono incerti, anche tale attività finanziaria non può essere pienamente considerata come priva di rischio. In questo caso vale una relazione simile a quella originaria, ma in cui al tasso privo di rischio occorre sostituire il rendimento atteso del portafoglio zero-beta, che è un particolare portafoglio costruito in modo tale che il suo rendimento abbia correlazione nulla rispetto al rendimento del portafoglio di mercato. Secondo la versione zero-beta del CAPM, quindi, la SML prende la forma: A( G) = A( u) + ‘G[A( 2) − A( u)] Dove A( u) è il rendimento atteso del portafoglio zero-beta. Dato che tale rendimento atteso sarà + alto del tasso risk free, la nuova SML risulterà caratterizzata da un’intercetta + elevata rispetto alla SLM della versione base del CAPM. Inoltre, dato che l’intercetta sull’asse delle ordinate è + elevata, l’inclinazione della SML risulterà minore. L’ARBITRAGE PRICING THEORY CAP.11 I MODELLI MULTIFATTORIALI Un modello multifattoriale è un modello che ipotizza che il rendimento di un titolo azionario possa essere spiegato sulla base dell’andamento di + fattori comuni che influenzano l’andamento di tutti i titoli del mercato. In generale, l’espressione del rendimento del generico titolo azionario i assume una forma del tipo: G = 0G + œG, + ⋯ + œG, + ˜G Dove i coefficienti ai e bin sono costanti e Fi e Fn sono u fattori che si ritiene spieghino l’andamento dei titoli azionari ed ˜G è un termine casuale che esprime la componente del rendimento del titolo non spiegabile con i fattori comuni. In generale, un modello multifattoriale può assumere forme assai diverse, e i fattori che si possono considerare possono essere molto differenti. Alcuni studi hanno privilegiato fattori di tipo macroeconomico e finanziario. Un approccio completamente diverso è quello invece che ricorre a caratteristiche dell’impresa che sembrano giocare sul piano empirico un ruolo importante. Questi 2 semplici esempi forniscono un piccolo accenno della varietà di modelli multifattoriali potenzialmente costruibili. A un livello + intuitivo, un modello multifattoriale può essere usato, per esempio, per stimare in modo preciso ed efficiente le correlazioni fra coppie di titoli sulla base dei legami del singolo titolo con i fattori e delle correlazioni fra i pochi fattori comuni. Soprattutto, un modello multifattoriale può essere utilizzato per controllare il grado di rischio di un portafoglio, valutandone l’esposizione ai diversi fattori di rischio macroeconomici esistenti e stimandone così la potenziale variabilità. Identificare, quindi, un modello multifattoriale che sia efficace nello spiegare la dinamica di un mercato consente di comprendere meglio i profili di rischio e l’esposizione del proprio portafoglio. È per questo che i modelli multifattoriali sono potenzialmente rilevanti non solo sul piano teorico, ma anche sul quello operativo. L’APT: UN’INTRODUZIONE E IL CONCETTO DI ARBITRAGGIO L’APT (Arbitrage pricing theory) consente di ottenere i rendimenti attesi di equilibrio dei titoli azionari ricorrendo a ipotesi molto diverse rispetto a quelle necessarie per la derivazione del CAPM, e sulla base di un meccanismo molto + realistico di riequilibrio dei mercati. In particolare, le ipotesi chiave dell’APT sono 2:  È possibile vendere i titoli allo scoperto;  I rendimenti storici dei titoli azionari possono essere descritti da un modello fattoriale, che può essere sia unifattoriale sia multifattoriale. Relativamente alla prima ipotesi, si tratta di chiarire sia il concetto di vendita allo scoperto sia quello di arbitraggio. Iniziando dall’arbitraggio, esso può essere definito come un’operazione mediante la quale un investitore può costruire un portafoglio che richiede un investimento pari a 0 e che garantisce in tutti i possibili scenari futuri un flusso di casso positivo, o al + un flusso positivo in alcuni scenari e nullo negli altri. L’arbitraggio è quindi una strategia di investimento che a fronte di un investimento nullo consente di ottenere un profitto, senza correre il rischio di sopportare perdite in alcuni dei possibili scenari che si possono verificare. Come è possibile immaginare che queste transazioni siano sufficientemente grandi da far muovere i prezzi di mercato? Per chiarire meglio tale aspetto dobbiamo introdurre l’altro concetto, cioè quello della vendita allo scoperto. La vendita allo scoperto è, di norma, una strategia speculativa che scommette il ribasso di un titolo azionario. Lo speculatore vende oggi un titolo che non possiede per ricomprarlo a una data futura, scommettendo su un ribasso del prezzo del titolo che gli consentirebbe di ricomprarlo a un prezzo inferiore. Ma come è possibile vendere oggi un titolo che non si possiede? È necessario ricorrere al prestito titoli, ovvero a una operazione per la quale un soggetto si fa prestare per un certo periodo un titolo azionario con l’impegno di rendere un titolo azionario identico a una data futura. Il meccanismo connesso alla presenza di investitori che realizzano arbitraggi è quindi un meccanismo di riequilibrio del mercato completamente diverso da quello del CAPM, che si basa sulle ricomposizioni del portafoglio da parte di investitori che cercano di ottenere la migliore possibile combinazione fra rendimento atteso e deviazione standard dei rendimenti. È ora possibile esporre come, sulla base di un simile meccanismo, l’APT consenta di determinare i rendimenti attesi dei titoli rischiosi. LE IPOTESI SULLA FORMAZIONE DEI RENDIMENTI STORICI DEI TITOLI Come punto di partenza, l’APT ipotizza che i rendimenti dei titoli azionari siano sensibili ad alcuni fattori comuni. In particolare, il rendimento del singolo titolo può essere espresso mediante una formula del tipo: G = A( G) + ‘G, + ⋯ + ‘G, + ˜G si può verificare risolvendo questo sistema di equazioni che entrambe sono soddisfatte per: ž = jŸxŸTjŸx; žX = ŸTŸTjŸx Quanto dovrà rendere 1 euro investito in questo portafoglio che, avendo beta 0, non è esposto al rischio sistematico? Dovrà produrre un rendimento pari al rendimento dell’investimento zero beta, ovvero Œ. Dato che il rendimento atteso del portafoglio complessivo non sarà che la media ponderata dei 2 portafogli di partenza, la condizione che deve valere affinché non siano possibili arbitraggi è quindi che i rendimenti dei 2 portafogli che hanno beta uguale abbiamo rendimento atteso uguale, che può essere espressa come: žA( ) + žXA( X) = Œ Sostituendo a ž , žX i valori ricavati sopra, e con pochi passaggi algebrici si può ottenere che questa condizione è soddisfatta quando: A( ) − Œ‘ = A( X) − Œ‘X Dato che questa condizione non dipende da alcuna particolare caratteristica dei portafogli 1 e 2, può essere replicata anche per i portafogli 2 e 3,3 e 4,..n-1 e n. per la proprietà transitiva, dovrà quindi essere: A( ) − Œ‘ = A( X) − Œ‘X = A( M) − Œ‘M = ⋯ A( ) − Œ‘ E quindi, per qualsiasi portafoglio generico P, il rapporto fra il premio al rischio e il beta deve essere pari a una costante, che possiamo indicare con Œ: A( =) − Œ‘= = Œ Da cui si ottiene immediatamente: A( =) = Œ + ‘=Œ che è esattamente la relazione che si intendeva dimostrare. È importante sottolineare che la relazione di equilibrio appena individuata vale ed è stata dimostrata nel caso di portafogli diversificati. Ma se la relazione individuata vale solo per i portafogli diversificati, cosa accade per i singoli titoli? È possibile dimostrare intuitivamente che affinché tale relazione valga per tutti i possibili portafogli diversificati è necessario che essa valga per quasi tutti i singoli titoli. Immaginiamo, infatti, che il titolo Alfa non rispetti la relazione di equilibrio. Se si costruisce un portafoglio bene diversificato in cui tutti i titoli, escluso Alfa, rispettano la condizione di equilibrio, a livello di portafoglio il peso di Alfa sarà così piccolo che la relazione varrà comunque anche a livello di portafoglio. Se anche il titolo Beta, Gamma e Delta non rispettassero la condizione, anche il portafoglio diversificato comprendete tali titoli continuerà verosimilmente a rispettare la condizione, perché se è ben diversificato il peso dei 4 titoli continuerebbe a essere troppo basso per modificare sensibilmente le caratteristiche del portafoglio. Se però ci fossero troppi titoli che deviano dall’equilibrio, sarebbe possibile costruire almeno qualche portafoglio che comprendendoli tutti finirebbe con non rispettare + la condizione di equilibrio. Per questo affinché la relazione valga per tutti i portafogli diversificati esistenti occorre che essa sia rispettata anche dalla maggioranza dei singoli titoli e violata solo da pochi titoli particolari. Sulla base di questo ragionamento, la relazione del rendimento atteso di equilibrio ricavata sopra per i portafogli diversificati può essere scritta anche con riferimento al generico titolo i e diventa: A( G) = Œ + ‘GŒ. Una domanda legittima che può sorgere concerne il modo in cui il premio al rischio può effettivamente essere stimato. Una possibile risposta intuitiva e semplificata è che si può procedere costruendo un insieme molto grande di portafogli con beta pari a 1. Se si conosce il rendimento del portafoglio zero beta si può osservare che il rendimento atteso di un portafoglio con beta pari 1 dovrebbe essere pari a: A( =) = Œ + ‘=Œ = Œ + 1 ∗ Œ = Œ + Œ E quindi Œ è pari alla differenza fra il rendimento atteso del portafoglio con beta pari a 1 e il rendimento zero beta oppure, se esiste, il rendimento risk free. L’APT A UN FATTORE E IL CAPM Si consideri l’APT nel caso particolare in cui si ipotizza che:  i rendimenti dei titoli dipendano da un solo fattore;  il fattore comune prescelto sia il rendimento dell’indice di mercato;  esista un’attività priva di rischio, e quindi Œ = V In questo caso, si può dimostrare che la generica relazione: A( G) = Œ + ‘GŒ assume la forma: A( G) = V + ‘GA( 2) − V L’ultima equazione presentata fa comprendere con in questa particolare versione l’APT non sia necessariamente in contrasto con il CAPM. È però fondamentale cogliere almeno alcune delle importanti differenze che esistono fra i 2 approcci:  in 1° luogo, la formulazione proposta è solo una delle possibili forme che l’APT può assumere;  inoltre, l’APT non ha bisogno per essere sviluppato, a differenza della CAPM, di quella entità non osservabile rappresentata dal portafoglio di mercato. Anche nel caso in cui l’andamento del mercato sia ritenuto il fattore comune rilevante, esso è identificato con l’indice di mercato e non con il portafoglio di mercato;  il meccanismo che riposta il mercato in equilibrio nei 2 modelli è completamente differente; nel CAPM il processo di riequilibrio è legato al principio di dominanza. Nell’APT invece il riequilibrio del mercato è legato al concetto di arbitraggio: se la relazione di equilibrio non è rispettata, esiste un’opportunità di arbitraggio; l’arbitraggista che inizia a sfruttarla determina flussi di domanda e di offerta dei portafogli in disequilibrio in modo tale da ripristinare l’equilibrio stesso;  la relazione fra rendimento atteso e rischio ricavata in equilibrio vale per il CAPM per tutti i portafogli e per tutti i titoli esistenti; invece l’APT ricavata sui portafogli diversificati e da qui estesa a quasi tutti i titoli senza poter essere tuttavia applicata con certezza a tutti i titoli esistenti. L’ESTENSIONE DELL’APT AL CASO DI + FATTORI La relazione fra rendimento atteso e beta propria dell’APT può essere estesa anche al caso in cui vi sono + fattori rilevanti, e assume nel caso di + fattori la forma: A( G) = Œ + ‘GŒ + ‘GXŒX + ⋯ + ‘GŒ Dove ‘G sono i beta del titolo rispetto a ognuno degli n fattori e Œ sono i premi per il rischio associati a ogni fattore. Proprio per questo la stessa relazione può essere scritta anche come: A( G) = Œ + ‘G[A( ) − Œ] + ‘GX[A( X) − Œ] + ⋯ + ‘G[A( ) − Œ] I termini Œ possono essere definita come il premio al rischio dei cosiddetti factor portfolios, ovvero quei portafogli che hanno beta pari a 1 per un solo fattore e beta pari a 0 per tutti gli altri. La formula multifattoriale sopra presentata può essere utilizzata anche per calcolare il rendimento atteso dei singoli titoli, in modo analogo a quanto accade nel caso del CAPM con la SLM e pur ricordando come detto che sul piano teorico l’APT non vale per la totalità dei titoli azionari esistenti, ma solo per quasi tutti. Come si può intuire, questa possibile formulazione multifattoriale rappresenta un segno evidente della flessibilità dell’APT, che unisce a questo la capacità di non dover ricorrere ad alcune delle ipotesi forti tipiche del CAPM né al concetto di assai incerta definizione operativa di portafoglio di mercato. LE STRATEGIE DI GESTIONE DEI PORTAFOGLI AZIONARI E OBBLIGAZIONARI CAP.12 PREMESSA L’analisi e la valutazione dei singoli titoli e dei portafogli svolta in precedenza rappresenta la base concettuale sulla quale si innesta la strategia di gestione dei portafogli azionari e obbligazionari. LE STRATEGIE DI GESTIONE DEI PORTAFOGLI MOBILIARI: UNA CLASSIFICAZIONE SEMPLIFICATA Le strategie di gestione dei portafogli azionari e obbligazionari sono solitamente distinte fra strategie passive e strategie attive. Tale distinzione si può basare essenzialmente su tre elementi:  La tipologia di obiettivo perseguito;  Il grado di libertà del gestore nella definizione delle politiche di investimento;  L’importanza assunta dall’analisi e valutazione dei singoli titoli e dall’andamento atteso del mercato ai fini della riuscita della strategia. Con il termine di strategia passiva possiamo identificare una strategia di gestione del portafoglio caratterizzata dalla finalità di conseguire un certo ben definito rendimento obiettivo sulla base di precise regole di gestione cui il gestore accetta di attenersi. In una strategia passiva pura, la necessità di attenersi a certe regole gestionali per conseguire il rendimento obiettivo rende poco p per nulla rilevanti le visioni personali del gestore circa l’andamento futuro del mercato: pertanto una strategia passiva pura è caratterizzata da costi di analisi e di valutazione + limitati che nel caso di una strategia attiva. Dalla formula analizzata si comprende molto bene che il gestore di un portafoglio obbligazionario che intende per esempio diminuire la MD di portafoglio può agire sia sostituendo all’interno del portafoglio titoli con MD elevata con altri titoli con MD minore, sia riallocando i pesi del proprio portafoglio dai titoli con MD alta ai titoli con MD bassa. In modo analogo, anche il TRES di portafoglio può essere approssimato mediante una media ponderata dei TRES dei singoli titoli. In questo caso però si rende necessario un secondo fattore di ponderazione basato sulla MD del singolo titolo. Il TRES di portafoglio approssimato è quindi dato da: *+AB= =  *+ABG ∗ $\G$\= ∗ \]G\]=  G La formulazione del TRES di portafoglio appena applicata si può utilizzare anche qualora si intenda misurare le conseguenze di uno shock di tassi d’interesse. Nel caso + semplice in cui tutti i titoli siano soggetti a una variazione omogenea, si ha evidentemente ∆*+AB= = ∆ . Nel caso invece in cui i titoli siano soggetti a variazioni differenziate, si può calcolare la variazione media del TRES del portafoglio come: ∆*+AB= =  ∆*+ABG ∗ $\G$\= ∗ \]G\]=  G Si noti che utilizzare tale formula per determinare la variazione del TRES di portafoglio equivale di fatto a calcolare la variazione del valore del portafoglio stesso come una media ponderata delle variazioni del valore dei singoli titoli. I PORTAFOGLI AZIONARI: IL BETA COME INDICATORE DI RISCHIO Per quanto riguarda la valutazione del rischio e del rendimento atteso dei singoli titoli azionari, il beta è rappresentato dal rapporto fra la covarianza fra i rendimenti del titolo e i rendimenti del portafoglio di mercato e la varianza dei rendimenti del mercato: ‘G = .€G,2|2X Nel caso di un portafoglio, il beta può essere calcolato semplicemente come media ponderata dei beta dei singoli titoli in portafoglio: ‘= =  {G ∗G ‘G Il gestore che intende per esempio aumentare il beta del proprio portafoglio azionario può puntare o sulla sostituzione di titoli in portafoglio con beta basso con titoli non compresi nel portafoglio con beta alto, oppure può modificare i pesi dei titoli già presenti in modo da incrementare il peso dei titoli con beta maggiore a sfavore di quelli con beta minore. Un caso interessante da considerare ai fini delle strategie di portafoglio è rappresentato dall’impatto sul beta di portafoglio della presenza di una quota investita in liquidità a breve termine. Se si accetta l’ipotesi che il rendimento offerto della liquidità non sia correlato con il rendimento dell’indice di borsa rispetto al quale di calcola il beta, la liquidità può essere considerata con un certo grado di semplificazione come un’attività con beta pari a 0. In questo caso il beta complessivo del portafoglio sarà dato dalla media ponderata dei beta delle sue 2 componenti: ‘= = {G5 ∗ ‘G5 + {5G@4GYGà ∗ ‘5G@4GYGà Si intuisce che aumentare o diminuire il peso della liquidità ha l’effetto di diminuire o aumentare rispettivamente il beta complessivo del portafoglio. Per questa ragione agire sulla quota di liquidità presente può rappresentare una possibile modalità per il gestore per modificare in modo attivo il profilo di rischio del portafoglio obbligazionario. I BENCHMARK: FINALITA’ E MODALITA’ DI COSTRUZIONE LE FUNZIONI DI BENCHMARK Il benchmark rappresenta un portafoglio di titoli considerato rappresentativo di un certo comparto del mercato mobiliare, e che può essere quindi utilizzato per esprimerne l’andamento. Vi possono essere però modalità diverse per costruire un indicatore rappresentativo dell’andamento di un mercato azionario o obbligazionario. Prima di addentrarsi nelle modalità di costruzione del benchmark, occorre in ogni caso chiarire per quali finalità esso può essere utilizzato. Una prima finalità è appunto quella di fornire sia al pubblico degli investitori finali, sia ai gestori professionali un’indicazione generale sull’andamento di certi comparti del mercato azionario o obbligazionario. Le info che si possono desumere analizzando i rendimenti storici dei benchmark sono quindi estremamente importanti nel definire la politica di asset allocation, ovvero la scelta dei pesi da assegnare ai diversi possibili mercati nei quali investire al fine di conseguire, per un dato livello di rischio tollerabile, il massimo rendimento atteso. Un secondo ruolo dei benchmark è rappresentato dalla possibilità di utilizzare tali indicatori per una polita di gestione passiva finalizzata alla replica del benchmark stesso. In questo caso quindi il gestore di portafoglio identifica un benchmark e si prefigge l’obiettivo di ottenere una performance il + possibile in linea con quella dell’indice stesso. Infine, il benchmark è di grandissima importanza anche quando il gestore si pone l’obiettivo non di seguire semplicemente l’andamento del mercato, ma di superarlo, fidando sul fatto di disporre di capacità superiori alla media del mercato nell’individuare titoli sotto o sopravalutati o nel prevedere le fasi di rialzo o di ribasso del mercato stesso. Anche in questo caso, infatti, così come nel caso della gestione passiva, il confronto a posteriori della performance del gestore con quella del benchmark rappresenta una delle modalità fondamentali per poter fornire una valutazione compiuta sul suo operato. Si può quindi intuire l’importante ruolo che i benchmark rivestono in materia di risparmio gestito sia nel rapporto fra gli intermediari finanziari responsabili dei servizi di gestione e i loro clienti sia, all’interno degli stessi intermediari, nei rapporti con i gestori. Sotto il 1° profilo, il cliente può valutare + consapevolmente la qualità del servizio di gestione ricevuto confrontando la performance a consuntivo ottenuta dai prodotti di risparmio gestito di cui si serve con il rispettivo benchmark. Sotto il 2° profilo i benchmark possono essere utilizzati per valutare l’operato dei diversi gestori. In particolare è frequente che il sistema di incentivi dei medesimi gestori si basi in misura significativa sui risultati ottenuti nei confronti del benchmark prescelto. LA COSTRUZIONE DI UN BENCHMARK: LE SCELTE FONDAMENTALI E I CRITERI DA RISPETTARE La costruzione di un benchmark richiede di definire un paniere di titoli, + o meno ampio, che possa essere considerato rappresentativo dell’andamento di un determinato comparto del mercato mobiliare. La tipologia di comporto considerata può essere assai varia. In ogni caso, nel definire le caratteristiche di tale paniere di titoli e quindi le modalità di costruzione del benchmark e di calcolo della sua evoluzione nel tempo le scelte chiave si riferiscono in generale a 3 elementi:  Quali titoli devono essere inclusi nel paniere (la composizione del benchmark);  Quale peso assegnare a ognuno dei titoli all’interno del paniere (la ponderazione dei titoli nel benchmark);  Se e come considerare nel calcolo del rendimento del benchmark i flussi di cassa intermedi prodotti dai titoli nel paniere. I requisiti ideali di un benchmark possono essere identificati, limitandosi ai fondamentali, nella rappresentatività, nella replicabilità, nell’oggettività e nella trasparenza. Il requisito della rappresentatività richiede che 2 titoli inclusi riflettano in maniera adeguata le opportunità di investimento disponibili sul mercato; pertanto un benchmark è tanto + rappresentativo quanto + ampio e significativo è il campione di titoli prescelto. Il requisito della replicabilità comporta che i titoli componenti il benchmark siano concretamente utilizzabili e movimentabili da parte dei gestori. Ciò significa che dovrebbero in linea teorica non essere compresi nel benchmark i titoli azionari o obbligazionari poco liquidi, sia perché può essere + difficile negoziarli, sia perché anche quando ciò riuscisse tali titoli sarebbero soggetti a maggiori costi di transazione che penalizzerebbero il risultato del gestore passivo. In questo senso emerge un potenziale trade off con il requisito della rappresentatività. Se infatti al crescere del numero di titoli inclusi aumenta la rappresentatività del benchmark, a tempo stesso può diminuire la sua replicabilità. Infatti, + l’indice tende a includere la totalità dei titoli esistenti, maggiore è la probabilità di includere titoli poco liquidi e quindi tali da rendere meno agevole o + onerosa la replica del benchmark. Da ultimo, i requisiti dell’oggettività e della trasparenza fanno riferimento alla necessità che il benchmark sia composti e calcolato secondo regole non arbitrarie (oggettività) e comprendibili alle diverse parti in gioco. Il rispetto di questi requisiti richiede che siano noti non solo i criteri per il calcolo delle variazioni giornaliere del valore dell’indice di mercato, ma anche le rigole in base alle quali decidere per esempio quali titoli siano sufficientemente liquidi da essere inclusi nel benchmark e quali no. LA COSTRUZIONE DEGLI INDICI PER IL MERCATO AZIONARIO Relativamente alla composizione del benchmark, è possibile distinguere fra indici generali e indici parziali. I primi includono la totalità dei titoli negoziati su un certo comparto di mercato, mentre i secondi ne includono soltanto una parte. In particolare, negli indici parziali il sottoinsieme di titoli può essere costruito o selezionando i titoli guida di un certo mercato, sulla base di criteri di capitalizzazione e di liquidità degli scambi, creando così un indice di blue chips, oppure selezionando i titoli appartenenti a un dato settore. LA COSTRUZIONE DEGLI INDICI PER IL MERCATO OBBLIGAZIONARIO Considerando in primo luogo la composizione del benchmark, si possono distinguere in linea teorica indici parziali e indici generali; tuttavia, considerando la numerosità e varietà delle emissioni obbligazionarie presenti sul mercato, nella pratica gli indici sono di fatto sempre indici parziali, che possono essere costruiti sulla base di numerosi criteri. Fra questi meritano di essere segnalati in particolare:  La tipologia dell’emittente;  Le caratteristiche tecniche dei titoli;  La vita residua dei titoli;  La liquidità dei titoli. La tipologia dell’emittente è importante perché il rendimento offerto da un titolo obbligazionario dipende non solo dal livello dei tassi d’interesse di mercato, ma anche dal rischio di credito dello specifico emittente. Per comprendere l’andamento del mercato obbligazionario mediante un indice di mercato è opportuni selezionare una classe di titoli caratterizzata da un livello di rischio di credito sufficientemente omogeneo. La modalità + semplice è quella di costruire un indice basato unicamente sui titoli di Stato. Costruire un indice di soli governament bond può consentire anche di selezionare una componente del mercato che è di norma + liquida rispetto al mercato delle obbligazioni societarie. Definire un indice capace di sintetizzare l’andamento del mercato e di fungere da efficace benchmark richiede anche di selezionare titoli con caratteristiche tecniche sufficientemente omogenee. Ciò porta tipicamente a concentrarsi su titoli a reddito fisso che non abbiano particolari opzioni a favore dell’emittente oppure del sottoscrittore. Volendo costruire un indice di mercato obbligazionario, si ritiene si solito utile concentrarsi su titoli che abbiano vita residua almeno di un anno, in quanto, quando il titolo è ormai troppo prossimo alla scadenza, esso finisce con l’essere negoziato a prezzi che esprimono + l’andamento dei tassi d’interesse a breve termine che non quello dei tassi del mercato obbligazionario. La prassi prevalente è quindi quella di eliminare un titolo dall’indice quando la sua vita residua arriva alla soglia dei 12 mesi. Il problema della liquidità per i titoli obbligazionari è importante per almeno 2 ragioni. La prima consiste nel fatto che i titoli + liquidi sono scambiabili attivamente con continuità, e ciò può consentire di valutarli giornalmente sulla base dei prezzi di mercato, aumentando l’oggettività dell’indice. La seconda, è che titoli meno liquidi sono caratterizzati da differenziali denaro-lettura più elevati. Ciò significa che il gestore che intendesse mantenere il proprio portafoglio abbastanza simile a quello del benchmark subirebbe pesantemente tali differenziali ogni volta che si rendesse necessario ribilanciare in parte il portafoglio o che, dovesse investire i nuovi apporti ricevuti da sottoscrittori o disinvestire per fronteggiare i loro rimborsi. La maggiore incidenza dei costi di transazione tenderebbe quindi, a parità di altri fattori, a peggiorare la performance del portafoglio. Più semplice è la scelta circa la ponderazione dei titoli, per la quale si ricorre sempre alla modalità value weighted. Pertanto, il peso è proporzionale all’ammontare in circolazione di ogni titolo obbligazionario presente nel paniere, calcolato a valori di mercato. Si noti che il valore di tale ammontare può modificarsi nel tempo sia per il mutare del prezzo del titolo, sia per il variare del valore nominale. Da ultimo, per quanto concerne il trattamento dei flussi di cassa intermedi prodotti dai titoli, nel caso degli indici obbligazionari si ricorre sempre a indici di performance. ciò è quasi inevitabile, in quanto, nel determinare il rendimento complessivo conseguito dall’investitore, per le obbligazioni l’importanza delle cedole rispetto ai possibili guadagni in conto capitale è molto superiore rispetto a quanto accade nel caso dei dividendi per le azioni, con la conseguenza che un indice di rendimento che trascurasse le cedole sarebbe di fatto inutilizzabile. LA REALIZZAZIONE DI UNA STRATEGIA DI BENCHMARKING LE DIFFICOLTA’ NELLA REPLICA DEL BENCHMARK Apparentemente, la replica di un benchmark è elementare: si tratta semplicemente di acquistare tutti i titoli inclusi nel benchmark in proporzione pari ai pesi che essi hanno nell’indice. Scegliendo un benchmark value weighted, non servirebbe a prima vista neppure ribilanciare periodicamente il portafoglio per effetto del variare dei prezzi dei titoli. Infatti, se un titolo per esempio aumenta di valore, la sua capitalizzazione cresce, e ciò determina un aumento del suo peso tanto nel benchmark quanto nel portafoglio reale del gestore. In realtà, la replica dell’indice di mercato prescelto non è così agevole, poiché ostacolata da + fattori. Tra gli elementi che incidono in modo sistematicamente + sfavorevole per i gestori, il 1° è rappresentato dai costi di transazione che il portafoglio reale del gestore deve sostenere per l’acquisto e per la vendita dei titoli. Tali costi sono rappresentati sia dalle possibili commissioni fisse da pagare per ogni transazione, sia dai differenziali fra le quotazioni denaro e lettura che il gestore subisce. Infatti, nel valutare giornalmente l’andamento del benchmark i titoli sono valutati sempre a un unico prezzo, cioè al prezzo ufficiale di chiusura, o al prezzo di chiusura stimato dal trader interno alla società che calcola l’indice. Il 2° fondamentale elemento che può penalizzare la performance del portafoglio del gestore rispetto al benchmark è rappresentato delle commissioni di gestione. Infatti, se il portafoglio di titoli è rappresentato da un fondo comune di investimento o da una gestione patrimoniale, l’intermediario finanziario che gestisce ha diritto come contropartita per il servizio offerto alle commissioni di gestione, che non prelevate pro quota giornalmente dal patrimonio del fondo. Ciò significa che anche se prima di prelevare le commissioni di gestione il fondo avesse una performance identica a quella del benchmark, a fine anno il suo rendimento al netto delle commissioni risulterebbe inferiore rispetto a quello dell’indice di riferimento. Passando an analizzare gli elementi che possono avere impatto sia sfavorevole sia favorevole, il 1° riguarda il fatto che il portafoglio del gestore comprende anche una quota che è investita con in titoli azionari o obbligazionari ma in liquidità. Dato che tale quota tende ad avere sia rendimento sia rischio molto contenuti, se il benchmark del fondo è rappresentato al 100% da un indice di borsa il gestore tende a essere svantaggiato rispetto al benchmark nelle fai in cui il mercato sale e avvantaggiato invece nelle fasi in cui il mercato scende. Un 2° aspetto da considerare è che il gestore non può replicare perfettamente i pesi percentuali che i titoli hanno nel benchmark, dato che per negoziare gli stessi titoli deve rispettare determinati tagli minimi imposti dal mercato. Problemi significativi nel rispettare i pesi del benchmark possono anche derivare dalla necessità di non violare alcuni vincoli regolamentari. I problemi qui evidenziati valgono in larga parte sia per i portafogli azionari sia per i portafogli obbligazionari. Tuttavia, va notato che nel caso dei portafogli azionari vi è in genere un piccolo vantaggio a favore del gestore, nel senso che deve usualmente confrontarsi con un indice di prezzi invece che con un indice di performance. Tanto + elevati quindi sono i dividendi nei titoli compresi nel benchmark, tanto maggiore sarà l’entità di tale vantaggio. I LINEAMENTI GENERALI DELLE STRATEGIE DI REPLICA DEL BENCHMARK Per un’illustrazione semplificata delle possibili strategie applicabili per replicare un benchmark, si può distinguere tra strategia di replica perfetta o full replication, volta ad acquistare esattamente gli stessi titoli presenti nel benchmark in quote il + possibile aderenti a quelle dei pesi dei titoli nel benchmark, e strategie di replica mediante sampling, cioè basate sull’acquisto solo di un campione (sample) di titoli che consente di crere un portafoglio sufficientemente simile a quello del benchmark. La strategia di full replication è concretamente applicabile soprattutto quando l’indice da replicare contiene relativamente pochi titoli caratterizzati da grande liquidità, è stabile come composizione, e le dimensioni del portafoglio replicante sono sufficientemente grandi. Anche con queste condizioni, una strategia di replica perfetta può risultare + praticabile nel caso di portafogli azionari, dove il gestore si confronta con indici di soli prezzi, e dove quindi i dividendi incassati dal gestore e che compaiono del benchmark possono contribuire a compensare le commissioni di gestione. In ogni caso, con riferimento ai portafogli azionari, tale strategia si adotta unicamente quando si intende replicare un indice parziale di blue chips, che consente di mantenere il numero di titoli in portafoglio entro limiti ragionevoli. Se invece si intende replicare un indice generale, è inevitabile ricorrere al sampling. Perseguendo questa seconda strategia, il problema è come garantire che la composizione del portafoglio sia sufficientemente simile rispetto a quella dei benchmark. Nel caso dei portafogli azionari, il metodo + semplice consiste nel realizzare il campionamento stratificato che consiste nel suddividere il benchmark da replicare in gruppi di titoli. Ciò consente di conoscere quanto pesa ciascun settore nel benchmark e, all’interno di ogni settore, quanto pesano le aziende di grande e piccola dimensione. A questo punto si tenta di costruire un portafoglio di replica che abbia la medesima composizione per settore/classe dimensionale. Intuitivamente, questo metodo presuppone che si riesca a individuare con chiarezza le 2 o 3 principali dei rendimenti dei titoli. Infatti, il metodo in esame si fonda sulla convinzione che se il portafoglio di replica e il benchmark risultano identici per composizione sotto i profili chiave individuati, il loro rendimento debba essere pressoché identico. Tecniche + sofisticate di sampling si basano invece sul ricorso a modelli multifattoriali per la determinazione dei rendimenti dei titoli azionari. Come esposto in precedenza, secondo un modello multifattoriale, il rendimento di un singolo titolo i può essere spiegato in funzione della sua esposizione a una serie di fattori comuni che incidono sul complesso dei titoli presenti nel mercato. Conseguentemente, le leve a disposizione per una strategia attiva possono essere ricondotte a 3 diversi livelli:  La scelta dell’esposizione al rischio sistematico rappresentata dal beta del portafoglio;  La scelta della composizione settoriale o per gruppi di titoli del portafoglio;  La scelta dei singoli titoli da includere in portafoglio. La prima possibilità è quella che il gestore cerchi di ottenere risultati superiori al benchmark assumendo una diversa esposizione al rischio sistematico, e quindi modificando nel tempo il beta del portafoglio rispetto a quello del benchmark. In questo casa, il gestore punterà a costruire un portafoglio con beta superiore e 1 se prevede una fase di rialzo del mercato azionario, e un portafoglio con beta < di 1 quando le sue aspettative sull’andamento della borsa sono invece negative. Un gestore che agisce in questo modo è detto market timer, in quanto la possibilità di conseguire un differenziale di rendimento positivo rispetto al benchmark si fonda sulla sua capacità di prevedere correttamente il timing dei rialzi e dei ribassi del mercato. Un strategia di market timing pura non dovrebbe prevedere l’assunzione di altro rischio che quello sistematico. Si noti che la strategia di market timing può essere perseguita in diversi modi, sia modificando significativamente la composizione del portafoglio, sia agendo con i contratti derivati, sia modificando la quota investita in liquidità. Una strategia basata invece sulla modifica della composizione settoriale o per raggruppamenti omogenei di titoli del portafoglio gestito è detta di sector o group rotation. Occorre considerare però che spesso la modifica del peso relativo dei diversi settori può incidere anche sul beta del portafoglio, per esempio per effetto dell’aumento del peso di settori + ciclici con beta + alto e di una riduzione del peso di settori + stabili con beta minore; pertanto, non di rado questa strategia è di fatto combinata con una posizione attiva anche per quanto concerne il rischio sistematico del portafoglio. Da ultimo, una strategia che punta a mantenere il beta del portafoglio e l’esposizione settoriale in linea con il benchmark sviluppando invece scelte attive nella scelta dei singoli titoli con cui realizzare questi obiettivi è definita come disciplined stock selection, ovvero come selezione titoli disciplinata in quanto soggetta a 2 vincoli (beta e composizione settoriale) sopra citati. In questo caso quindi il gestore punta a sovra pesare rispetto al benchmark, fino a escluderli del tutto dal proprio portafoglio, i titoli con prospettive sfavorevoli. La scelta circa quale tipo di gestione attiva praticare dipende in 1° luogo dalla variazione da parte del gestore delle proprie capacità predittive in rapporto al mercato. È questo tipo di considerazioni che può portare per esempio a valutare se sia sensato tentare di operare come market timer oppure concentrarsi su un processo disciplinato di selezione dei singoli titoli, senza pretendere di prevedere in anticipo i movimenti al rialzo o al ribasso del mercato. LE MODALITA’ PER REALIZZARE UNA STRATEGIA ATTIVA O SEMIATTIVA: I PORTAFOGLI OBBLIGAZIONARI Nel caso dei portafogli obbligazionari la prima leva da considerare consiste nell’esposizione complessiva al rischio di tasso d’interesse misurata dalla duration. Il gestore attivo tenderà quindi ad assumere una D superiore a quella del benchmark quando si attende un ribasso dei tassi d’intesse: infatti, se esso si realizzasse, il portafoglio sarebbe destinato a registrare un rialzo del valore di mercato dei titoli + consistente rispetto al benchmark. Ribaltando il ragionamento, il gestore attivo adotterebbe una D inferiore rispetto a quella del benchmark. Secondariamente, è importante anche il profilo di composizione settoriale, nel caso dei portafogli obbligazionari è rilevante il peso attribuito ai diversi comparti della curva dei rendimenti per scadenze in quanto ciò può incidere sulla reazione del portafoglio all’eventualità di movimenti non paralleli della curva stessa. Da ultimo, anche qualora il gestore intenda mantenere D coincidente e composizione per classi di scadenze molto simile rispetto al benchmark, si pone il problema della selezione dei singoli titoli. Sotto questo profilo, egli ha numerose opportunità per differenziarsi dal benchmark, che riguardano per esempio:  La composizione per emittenti del proprio portafoglio;  Le caratteristiche tecniche delle emissioni prescelte. Il 1° aspetto consiste nel fatto che il gestore, che normalmente si confronta con un benchmark di titoli di Stato, ha la possibilità di includere nel portafoglio alcuni titoli di emittenti diversi. Tali titoli sono però esposti in modo significativo al rischio di insolvenza dell’emittente, che si può tradurre nel mancato o parziale pagamento degli interessi e nel mancato o parziale rimborso del capitale a scadenza. Questa esposizione può determinare scostamenti favorevoli rispetto al benchmark se le condizioni degli emittenti dei titoli + rischiosi rimangono relativamente solide, ma anche scostamenti molto negativi e improvvisi qualora il merito creditizio di alcuni emittenti di deteriori. Inoltre, nel processo di selezione il gestore può anche arrivare a inserire titoli con caratteristiche tecniche diverse da quelle dei titoli presenti nel benchmark. In linea teorica, è spesso possibile ricorrere a titoli a tasso variabile, manche a titoli caratterizzati da opzioni di rimborso anticipato da parte dell’emittente e a titoli strutturati contenti le + svariate tipologie di strumenti derivati. IL CONTROLLO EX ANTE DEL RISCHIO RISPETTO AL BENCHMARK Una volta definiti gli obiettivi e alcune possibili modalità di realizzazione di una strategia attiva oppure semiattiva, resta il problema di come il gestore possa controllare l’entità degli scostamenti rispetto al benchmark. Per analizzare le modalità con cui tale controllo può realizzarsi, occorre distinguere tra il controllo che può essere effettuato ex ante e quello effettuabile ex post, nella valutazione a consuntivo dell’andamento della gestione. Per quanto riguarda il 1°, le modalità si basano essenzialmente sugli stessi principi mediante i quali si può tentare di replicare i benchmark. Per esempio, nel caso dei portafogli azionari, un gestore che ritenesse sufficiente ragionare sul duplice criterio della composizione per settore e di quella per la capitalizzazione potrebbe scomporre il benchmark secondo questi 2 criteri e quindi analizzare sulla base della griglia risultante quali sono i settori/classi dimensionali che sta sotto o sovrapensando. Allo stesso modo, anche nel caso di un portafoglio obbligazionario uno schema potrebbe essere utilizzato per cogliere in prima approssimazione il posizionamento del proprio portafoglio in termini relativi rispetto al benchmark. Tuttavia, oltre a tentare di comprendere ex ante il grado di distanza fra la composizione del portafoglio gestito e quella del benchmark, si pone di norma il problema di valutare l’entità degli scostamenti a posteriori. Tale analisi a posteriori si basa tipicamente sulla rilevazione del tracking error e della tracking error volatility. IL CONTROLLO EX POST DEL RISCHIO RISPETTO AL BENCHMARK: LA TRACKING ERROR VOLATILITY La modalità + semplice per accertare a posteriori quanto un portafoglio si sia mosso in linea con il benchmark prescelto consiste nell’analizzare la storia dei rendimenti del portafoglio e del benchmark stesso. Si consideri l’esempio proposto nella tabella seguente, che riporta l’andamento nel tempo del valore di un portafoglio e del relativo benchmark da cui è possibile ricavare i rendimenti su base giornaliera. L’ultima colonna a destra presenta il tracking error, ovvero la differenza fra il rendimento del portafoglio e il rendimento del benchmark. I dati importanti che l’analisi di tale colonna offre sono 2. Il 1° è il tracking error medio, che risulta pari a 0. Esso consente di comprendere che il fondo ha conseguito una performance pari a quella del benchmark. Da questo dato, è evidente che non si può capire come tale performance sia stata ottenuta. Ciò può essere riscontrato analizzando la volatilità del tracking error, cioè calcolandone la deviazione standard: infatti, pur avendo tracking error medio pari a 0, un portafoglio che si è discostato dal benchmark in misura superiore presenterà una deviazione standard dei differenziali di rendimento + elevata. Tale deviazione standard è nota come tracking error volatility (TEV) e rappresenta la misura principale per valutare ex posti l’entità degli scostamenti rispetto al benchmark. La TEV misura dunque quello che si può definire come rischio attivo in quanto derivato dalle scelte di gestione attiva del gestore, o come rischio relativo di un dato portafoglio. Essa, al contrario, non fornisce alcune indicazione circa il rischio assoluto si un dato portafoglio considerato a sé stante, il quale è misurato tipicamente dalla deviazione standard dei rendimenti. Una maggiore TEV consente di individuare i portafogli che hanno assunto una polita di gestione significativamente differente rispetto al benchmark, senza che ciò voglia dire di per sé che il portafoglio è in senso assoluto + rischio del benchmark. La 3° ipotesi sulla quale si basa la possibilità di realizzare una strategia di immunizzazione consiste nel fatto che le variazioni dei tassi d’interesse siano le medesime per tutte le scadenze, ovvero, esprimendo il concetto in altri termini, che gli spostamenti della curva dei rendimenti siano paralleli. Il principio su cui si basa il teorema dell’immunizzazione consiste nel fatto che l’effetto di una variazione dei tassi d’interesse sul prezzo di un tiolo a tasso fisso sia controbilanciato nel tempo dall’effetto di segno opposto sul reinvestimento delle cedole provenienti dal medesimo titolo. È però intuitivo che i tassi d’interesse che indicono sul valore del titolo non sono i medesimi rilevati ai fine del reinvestimento delle cedole. Una variazione non parallela della curva dei rendimenti potrebbe determinare un effetto prezzo e un effe reinvestimento non perfettamente bilanciati, dato che essi sono in parte legati a tassi d’intesse riferiti a scadenze differenti. Questo effetto può risultare sia positivo sia negativo: ciò dipende sia da quale dei 2 effetti prevale nel caso specifico, sia da quale dei 2 effetti risulta favorevole all’investitore. In caso di rialzo dei tassi, infatti, l’effetto prezzo è negativo e quello reinvestimento è positivo; in caso di ribasso dei tassi si verifica l’opposto. Come nel caso precedente relativo al problema della pendenza della curva dei rendimenti, la possibilità che si verifichino variazioni non parallele della stessa curva non è necessariamente un ostacolo per chi intenda perseguire una strategia di immunizzazione, ma rappresenta semplicemente un fattore che può rendere + variabili i risultati conseguiti ex post attraverso tale strategia. Se finora sono stati messi in luce elementi che rendono + difficile la realizzazione di una strategia di immunizzazione oppure che ne rendono incerti i risultati, esiste anche un fattore che può essere sfruttato positivamente dal gestore. Esso consiste nella possibilità di costruire a ogni ribilanciamento, fra gli infiniti portafogli caratterizzati da una Dp pari all’holding period residuo, il portafoglio che si ritiene ottimale. La necessità di ricomporre il portafoglio può diventare anche un’opportunità, specie se il mercato risulta del tutto efficiente, consentendo quindi al gestore, in occasione di ogni ribilanciamento, di individuare e di acquistare titoli sottovalutati dal mercato stesso. DALL’IMMUNIZZAZIONE ALLA MASSIMIZZAZIONE DEL RENDIMENTO DI PERIODO In alternativa al perseguimento di un rendimento obbiettivo certo o quali certo mediante l’immunizzazione, un investitore potrebbe invece tentare di sfruttare le proprie previsioni circa l’evoluzione dei tassi d’interesse per conseguire al termine dell’holding period un rendimento di periodo superiore a quello ottenibile tramite la stessa immunizzazione. Si può dire che in questo caso l’obiettivo dell’investitore può essere rappresentato dalla massimizzazione del rendimento di periodo, entro i limiti di rischio che egli ritiene accettabili. Il modo con il quale impostare una strategia attiva che tende a realizzare questo obiettivo può essere meglio compreso mediante un confronto con la strategia di immunizzazione appena illustrata e immaginando per semplicità un portafoglio titoli costituito da un solo titolo e che, quindi si identifica con tale titolo. Riprendendo ora l’argomento attraverso la rappresentazione grafica riportata nella figura seguente, si può osservare che i montanti finali che si realizzano in caso di variazione dei tassi d’interesse coincidono sono in corrispondenza di un HP molto prossimo alla D del titolo. La giustificazione di tale fenomeno è intuitiva: nel caso di ribasso dei tassi, prima di t0+D l’effetto positivo sul prezzo conseguente al ribasso dei tassi non è stato interamente azzerato dall’effetto negativo connesso al reinvestimento delle cedole a tassi minori; viceversa, nel caso di rialzo dei tassi, l’effetto stavolta positivo del reinvestimento delle cedole a tassi superiori ha ormai + che compensati l’effetto negativo iniziale. Si può notare inoltre che quando il montante si trova sopra il sentiero a significa che l’investitore sta conseguendo un rendimento di periodo superiore al TRES iniziale. Infatti è facile osservare che:  A un montante + elevato deve corrispondere, a parità di investimento iniziale, un rendimento di periodo + elevato;  Detenendo il titolo per un HP < alla sua D, si ottiene un rendimento di periodo superiore al TRES iniziale se i tassi scendono e viceversa un rendimento di periodo < allo stesso TRES se i tassi salgono;  Detenendo il titolo per un HP > della sua D accede il contrario, nel senso che il rendimento di periodo che si ottiene è quindi superiore al TRES iniziale se i tassi aumentano e inferiore se i tassi diminuiscono; Nella realtà possiamo affermare che dato un certo HP, un investitore che non intenda immunizzare il portafoglio tenderà a:  Investire in un titolo con D + elevata del suo HP, se si attende un ribasso dei tassi;  Investire in un titolo con D < del suo HP, se si attente un rialzo dei tassi. Nel 1° caso, l’investitore spererà quindi di trovarsi al termine del suo HP in una situazione analoga a quella rappresentata dal punto X nella figura. Nel 2° caso, per ragioni speculari, spererà di trovarsi in condizioni analoghe a quelle raffigurate nel punto Y della medesimo figura. La differenza favorevole o sfavorevole fra il rendimento conseguito ex post e il TRES iniziale del titolo è tanto maggiore:  Quando maggiore è lo shock del livello dei tassi d’interesse;  Quando + ampia è la differenza fra HP dell’investitore e D del titolo, ovvero quando maggiore è la distanza dalle condizioni ideali di immunizzazione. È possibile dimostrare che il rendimento ex post effettivamente conseguito (ip) a seguito di uno shock di tassi pari a Δi è circa pari a: U} ≈ U + (1 − l̂=)∆U. Dove i0 è il TRES iniziale del titolo o del portafoglio detenuto. La formula fornita, nota come formula di Babcock, fornisce una buona stima del vero rendimento di periodo per valori di Δi relativamente contenuti. Il livello di approssimazione peggiora invece se la variazione istantanea dei tassi che si verifica è particolarmente significativa. Si noti però che la formula di Babcock si fonda sull’ipotesi che la variazione dei tassi di interesse sia uguale per tutte le scadenze, ovvero che si realizza un movimento parallelo della curva dei rendimenti. In questo scenario semplificato, essa consente di comprendere che la prima determinante del risultato di un gestore attivo volto a massimizzare il rendimento assoluto di periodo consiste nello scostamento fra la D del proprio portafoglio e la D richiesta per tentare di immunizzare il portafoglio. Non bisogna dimenticare però che nella realtà le determinanti della performance di un gestore attivo volto a massimizzare il rendimento di periodo sono + ampie e comprendono le scelte circa i pesi da attribuire ai singoli comparti per classi di scadenza, la scelta dei singoli titoli all’interno di ogni comparto, nonché eventualmente l’ulteriore rischio di credito assunto acquistando titoli con rating + basso. LA VALUTAZIONE DELLE PERFORMANCE CAP.13 PREMESSA La valutazione delle performance rappresenta un aspetto essenziale per monitorare e per analizzare i risultati della gestione di un portafoglio. Valutare la performance significa stabilire se e in quale misura il gestore di un portafoglio ha creato valore nel rispetto degli obiettivi prefissati. Per valutare la performance, quindi, è necessario in 1° luogo determinare il rendimento generato dal gestore. Se gli investitori sono avversi al rischio il rendimento non è però un indicatore sufficiente. È necessario valutare quale grado di rischio è associato a un determinato rendimento. Valutare la performance quindi significa anche determinare un concetto di rischio. Il passo successivo è quello di rendere aggregabili i 2 parametri attraverso il ricorso a indicatori di rendimento correnti per il rischio. Infine, sussiste il problema di verificare le modalità attraverso le quali la performance è stata raggiunta in maniera di accertare l’effettivo contributo apportato dal gestore. LA MISURAZIONE DEL RENDIMENTO: MENEY WEIGHTED RATE OF RETURN E TIME WEIGHTED RATE OF RETURN Il primo passo nel valutare le performance è determinarne il tasso di rendimento. Il rendimento di un’obbligazione o di un’azione è determinato dall’insieme dei frutti per interesse e per capitale prodotti dal titolo, in rapporto al capitale investito e in riferimento alla durata dell’investimento. Nel caso dei prodotti di risparmio gestito, il calcolo del rendimento si complica perché è necessario tener conto del fatto che ogni investimento è libero, in qualsiasi momento, di aumentare il patrimonio investito o di richiedere al gestore la restituzione di parte, o di tutto, il capitale affidato in gestione. Ciò significa che nel patrimonio gestito si possono verificare, ogni giorno, flussi di liquidità (conferimenti) o in uscita (riscatti) che inevitabilmente finiscono per influenzare il risultato finale.
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