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Riassunto Arte 3 - artisti, opere e temi, Sintesi del corso di Storia dell'arte contemporanea

Riassunto del libro per l'esame di storia dell'arte contemporanea.

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Scarica Riassunto Arte 3 - artisti, opere e temi e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! RIASSUNTO LIBRO ARTE CAPITOLO 1 Il Postimpressionismo L’avvento della tecnologia ridefinì il ruolo della pittura. Gli artisti erano entrati in contatto con la fotografia e questa divenne sempre più alla portata di tutti. Dunque, la pittura era stata sgravata dal compito di riprodurre la realtà dal momento che c’era un mezzo meccanico a svolgere questa funzione. Quindi, la pittura doveva avere una nuova funzione. Crisi ed evoluzione dell’Impressionismo Verso la fine dell’Ottocento alcuni giovani artisti che facevano parte del movimento impressionista come Seurat, Signac, de Toulouse-Lautrec e Gauguin spingevano verso il cambiamento. Questo gruppo apprezzava particolarmente Cézanne e furono definiti “Postimpressionisti”. Il termine fu coniato nel 1910 dal critico inglese Roger Fry, in occasione della mostra allestita a Londra intitolata “Manet and the Post – Impressionists”. Il dominio del colore Come reazione all’impressionismo vennero a crearsi due visioni dell’arte contrapposte: la prima voleva cogliere l’elemento espressivo del mezzo pittorico, mentre la seconda intendeva dare un fondamento scientifico alla pittura utilizzando i dettami della fisica del colore. Il primo atteggiamento dava peso all’esaltazione dell’emotività personale e considerava l’opera come un mezzo per esprimere la realtà interna; al contrario il secondo atteggiamento ricercava un’impersonalità scientifica e riteneva che l’opera doveva essere la descrizione di una realtà esterna, autonoma dalla persona che la dipinge e dalla società. Il Simbolismo come ingresso nel Novecento Il Simbolismo fu un movimento culturale sviluppatosi in Francia nel XIX secolo che si manifestò nella letteratura, nelle arti figurative e nella musica. Per quanto riguarda il campo letterario, la poesia simbolista esprimeva la protesta della materialità che si andava affermando nelle relazioni interpersonali. I poeti simbolisti aspiravano ad una poesia che evocasse mediante immagini simboliche degli stati di coscienza. I simbolisti instaurarono un rapporto nuovo con le droghe, la sessualità e la magia come mezzi per arricchire la creatività. Postimpressionismo come premessa alle Avanguardie Il Postimpressionismo funse da premessa alle Avanguarie Storiche, le quali porteranno fino alle estreme conseguenze il rinnovamento del linguaggio pittorico. I quattro artisti principali erano Cézanne, Gauguin, Seurat e Van Gogh; questi volevano liberare la pittura dalla necessità di ritrarre il mondo esterno, conferendole una propria autonomia. L’anno 1886 segnò la fine dell’Impressionismo con la mostra “Salon des Indépendants” di Parigi. Il Neoimpressionismo o Pointillisme Seurat e Signac rifiutarono l’emozione soggettiva come fonte dell’opera e ritennero che l’arte dovesse muoversi in parallelo con le ricerche ottiche. Questo legame con la scienza serviva a giustificare come ogni tono del colore dovesse essere suddiviso nelle sue componenti primarie e accompagnato dal suo complementare. Il luogo dove si componeva il colore non era più la tavolozza, ma il quadro stesso, su cui venivano giustapposti dei puntini. I soggetti perdevano d’importanza. Questa tecnica di giustapposizione deriva dalle ricerche fatte dal chimico Chevreul, il quale sperimentò l’accostamento di colori complementari, da cui ricavò delle leggi in seguito molto usate dai pittori. Georges Seurat Seurat fu protagonista della mostra del 1886 grazie alla sua opera “Un dimanche après – midi à l’ Île de la Grande Jatte”. Il critico Fénéon sulla rivista "L'Art Moderne" coniò in riferimento ad esso il termine Neoimpressionismo: con questo termine si intendeva trattare la luce come un’entità da analizzare e scindere sulla tela secondo un approccio obiettivo e scientifico. La tecnica pittorica di Seurat fu chiamata Pointillisme (Puntinismo), questo termine descriveva il metodo attraverso il quale l’artista componeva la tela, coperta da piccole macchie di colore, destinate a descrivere la scomposizione fisica della luce e la sua ricomposizione percettiva nella retina dell’osservatore. Un altro particolare che l’artista francese fece emergere nell’opera “Les Poseuses” fu la consapevolezza dell’autonomia della pittura dalla fotografia. Le figure sono immobili e tratte dal modello classico delle Tre Grazie. L’ambiente è lo studio del pittore e si vede comparire un quadro nel quadro, La Grande Jatte. Anche la cornice dipinta a puntini è parte integrante dell’opera. Georges Seurat “Un dimanche après – midi à l’ Île de la Grande Jatte” (1886) Il dipinto, terminato nel 1885 e poi ripreso in seguito per apporvi una trama fatta di piccole pennellate e puntini, è di dimensioni notevoli. Il soggetto è il passeggio domenicale all’isola della Senna, chiamata Grande Jatte; le figure dell’opera appaiono innaturali, sono disposte prevalentemente di spalle o di profilo e sono tutte in relazione geometrica ortogonale tra loro. Nel dipinto emerge una vena ironica che descrive una società formale: tutti sono imprigionati in abiti così rigidi da essere fuori luogo in una scena sul tempo libero. La composizione fu pensata e realizzata in studio, ma ogni parte del quadro era stata studiata con sopralluoghi dal vero. Nella composizione Seurat si è preoccupato soprattutto di curare l’armonia geometrica tra le linee verticali (alberi, persone in piedi), le linee oblique (ombre) e le curve. La donna con la scimmietta al guinzaglio è tratta dalle caricature di giornali satirici. Il centro dell’opera è occupato dalle uniche due figure in posizione frontale, che procedono verso lo spettatore. Lo sguardo della bambina è l’unico che sia rivolto a chi guarda il dipinto. In questo quadro l’immobilità dell’insieme valorizza la vibrazione della luce e dunque il sistema puntinista. Paul Cézanne Cézanne aveva un rapporto conflittuale col padre, il quale lo costrinse ad iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza. Successivamente l’artista ebbe dal genitore il permesso di recarsi a Parigi per intraprendere gli studi d’arte. Qui frequentò il libero atelier dell’Academie Suisse dove conobbe Pissarro, che lo formò come artista. In seguito incontrò Fiquet, una giovane modella che sposerà diversi anni dopo una volta ritornato nel suo paese natale. La vicenda artistica di Cézanne si svolse quasi tutta in Provenza e i suoi quadri vennero sempre rifiutati dai Salon ufficiali. L’artista ebbe una sua mostra nel 1895 presso una galleria privata ed iniziò a produrre capolavori solo durante la sua maturità. Egli era infatti metodico e riflessivo, alla continua ricerca di uno stile personale che gli consentisse di superare l’impressionismo. La struttura della visione della realtà reale, e la lotta nel paesaggio, che è innaturale. Inoltre l’artista affermava che l’arte è astrazione, bisogna dunque spremerla dalla natura sognando di fronte ad essa. Paul Gauguin, Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo? (1898) Gauguin in quest’opera accentuò l’approccio simbolico e la riflessione sulla natura dell’esistenza. Il quadro è concepito come un palcoscenico sul cui fondo domina la natura ed in cui al suo interno i personaggi sono collocati su piani diversi. Il dipinto può essere letto come un passaggio dalla nascita alla morte, cioè dalla piccola figura stesa a destra all’immagine di persona anziana sull’estrema sinistra. Accanto al neonato si possono vedere tre donne accovacciate; una posizione simile si trova anche nella figura anziana, suggerendo la ciclicità della vita. Al centro, un personaggio coglie un frutto, dividendo col suo corpo il quadro in due parti asimmetriche. L’allusione è a un paradiso tropicale e ad ogni sorta di pardes (giardino in ebraico), culla naturale dell’uomo. Da questo ne consegue il rapporto della figura centrale, seduta, con frutta e animali, con la cultura bucolica e la ripresa della tematica delle bagnanti nelle rappresentazioni delle donne: l’artista insiste sul legame uomo – natura. Accanto alla figura anziana c’è una giovane donna sdraiata che sembra ascoltare da lui esperienze di vita. Nel piano retrostante c’è una coppia che passeggia, come ad alludere al viaggio che uomo e donna compiono insieme nella vita; si trova infine più avanti un idolo orientale con le mani rivolte al cielo. Le tre domande del titolo vengono poste in un cartiglio in alto a sinistra e non hanno alcuna risposta. Il quadro sottolinea l’enigma della vita, anziché svelarne la soluzione. Vincent van Gogh Van Gogh fu uno degli artisti più influenti del suo tempo e le sue opere sono divenute il segno del disagio interiore del XX secolo. L’artista ricalca il tema del genio incompreso e quello della solitudine nell’epoca dell’uomo – massa. Egli inizialmente intraprese la stessa via di suo padre, cioè quella del pastore protestante; i suoi tentativi non andarono però a buon fine e così a partire dai primi anni Ottanta cominciò a dipingere. Nel 1886 van Gogh raggiunse suo fratello Theo a Parigi dove conobbe il gruppo impressionista. L’artista fu influenzato da quest’incontro tanto da abbandonare i colori scuri e i temi sociali. Nacque così la sua tavolozza chiara, accesa dai contrasti tra i colori complementari, e la pennellata allungata e scissa che segue il verso della cosa dipinta. Il punto cruciale nella pittura di van Gogh è l’incontro tra la sfera emotiva e la realtà. Egli era molto influenzato anche dalle stampe giapponesi. Nel 1888 van Gogh fuggì ad Arles dove aveva l’obiettivo di fondare l’atelier du Midi, una comunità di artisti. Qui convisse per un breve periodo con Gauguin che egli vedeva come un maestro. I due litigavano spesso a causa delle diverse visioni sullo scopo e sui metodi dell’arte: van Gogh non ammetteva i contorni tracciati col nero, le pennellate piatte e il simbolismo appariscente. Il disaccordo portò alla rottura e all’automutilazione del lobo dell’orecchio di van Gogh. L’artista morì suicida nel 1890 in un manicomio. L’opera matura di van Gogh si snoda in quattro anni. Tra i vortici del cielo notturno ne “La notte stellata” (1889) solo gli astri si presentano come punti fermi e, dunque, come elementi attorno ai quali possano gravitare il colore e il pensiero. Vincent van Gogh, Tre autoritratti (1887-88-89) Gli autoritratti di van Gogh sono una rappresentazione del modo in cui l’artista concepisce il suo ruolo: un personaggio non integrato nella società, ma proprio per questo capace di vedere più lontano. Ogni passo dell’evoluzione artistica di van Gogh è sottolineato da almeno un autoritratto. Nell’“Autoritratto con cappello di feltro”, eseguito nel 1887 appena dopo l’incontro con gli impressionisti, egli utilizza il divisionismo (fenomeno artistico Italiano caratterizzato dalla separazione dei colori in singoli punti o linee che interagiscono fra di loro in senso ottico). Nel dipinto van Gogh si presenta negli abiti di un parigino e la sua testa è circondata da una sorta di aureola che sta ad indicare una futura missione da compiere. L’aureola parte dal suo corpo, con gli stessi colori della giacca, per estendersi verso l’alto. Anche nell’“Autoritratto dedicato a Paul Gauguin” del 1888 è presente lo stesso effetto aureola. Quest’autoritratto fu eseguito ad Arles e, dunque, quando il pittore pensava di dover iniziare una missione salvifica come sacerdote di una comunità di artisti. Nel dipinto si notano i tratti somatici resi orientali e la rinuncia ai capelli, in segno di essenzialità monacale. Il verde acceso del fondo ricorda quello delle stampe giapponesi. La cravatta, segno di integrazione sociale, è sostituita da un medaglione simbolico. Nell’“Autoritratto” del 1889 l’aureola è stata sostituita da un andamento turbinoso della pennellata, a testimoniare la perdita dell’orientamento successiva a delle crisi nervose. Il divisionismo è scomparso a favore di una pittura fatta di variazioni solo sui toni del blu – verde e del rossiccio. Anche qui fondo e giacca hanno lo stesso colore: in tutte e tre le opere l’individuo non è nel mondo, ma è il mondo. Da questi autoritratti l’artista si manifesta, dunque, come un individuo dalla personalità multipla, che oscilla tra la coscienza di sé come pastore dell’umanità e la paura di essere incompreso. Vincent van Gogh, La camera dell’artista (1889) Van Gogh nel dipingere la stanza dove risiedeva ad Arles disse di aver voluto esprimere il riposo assoluto; ciò viene reso dalla semplicità dell’inquadratura e dalle tinte piatte separate tra loro, stese in maniera chiara e distinta, con pennellate prive di curve tormentate e compenetrazione tra i colori. Così come è dipinta, la stanza diviene dunque il riflesso dell’ordine mentale in cui van Gogh vorrebbe poter vivere ad Arles. Successivamente l’artista dipinse anche “La sedia di Vincent” e “La sedia di Gauguin”, conferendo a questi oggetti un valore simbolico e differenziandone lo stile. Ne “La sedia di Vincent”, l’autore del dipinto si rappresenta tramite pipa e tabacco lasciati sull’impagliata e sceglie il colore giallo, citato anche attaverso i girasoli nella scatola a sinistra che reca la sua firma. La stesura è densa e pastosa, mentre sono più piatte, unite nella giustapposizione dei complementari verde e rosso, le pennellate che ritraggono la sedia di Gauguin. In quest’altra opera van Gogh cita lo stile di Gauguin abbassando i toni e fornendo una visione notturna del lavoro dell’amico; così facendo ne suggerisce anche il senso della concentrazione all’interno di se stesso piuttosto che sull’ispirazione della natura. Henri de Toulouse-Lautrec Toulouse-Lautrec proveniva da una famiglia aristocratica ma nonostante ciò fu un assiduo frequentatore dei bassifondi metropolitani di cui effettuò una sorta di reportage grafico e pittorico. Fu autore di una visione caricaturale degli ambienti che frequentava. La sua opera più famosa è “Au Moulin Rouge”: sullo sfondo, al centro del quadro, si vede l’artista attraversare la scena. Al centro del dipinto, una famosa ballerina si pettina allo specchio e viene ritratta di schiena. In primo piano a sinistra sono ritratti alcuni personaggi parigini dell’epoca. In primissimo piano a destra c’è il viso di un’altra star del locale, la cui ombra anticipa i colori acidi della pittura fauve. Tutti assumono un tono inquietante e grottesco ed il tono dell’immagine è reso dal taglio prospettico del quadro. Il pittore usava un tratto sicuro e continuo. Le donne di Lautrec Toulouse-Lautrec realizzò per un editore un albo di dieci litografie a colori dal titolo Elles (quelle lì) che fu un fiaschio commerciale. L’artista coglie intimità femminili, mai in posa, gesti rapiti, colti quasi con empatia verso la modella. Toulouse-Lautrec riporta gesti quotidiani e banali, immagini private di donne pubbliche che vengono spiate senza alcun compiacimento, come se l’occhio dell’autore fosse l’obiettivo di una macchina fotografica. L’artista per queste opere usa prevalentemente toni chiari e pennellate veloci. Henri Rosseau, il “Doganiere” Rousseau fu un’artista privo di ogni formazione che aveva l’ambizione di imparare a dipingere come un’artista accademico e di essere un pittore realista. La sua opera più importante fu “La guerra” (1894): il soggetto, preso da una caricatura dell’epoca, è un’immagine apocalittica. La furia della discordia balza con il suo cavallo nero su un campo pieno di cadaveri. Ogni elemento è allegorico: i rami spezzati, le foglie che cadono, i corvi neri, la fiaccola incendiaria. In quest’opera c’è un implicito riferimento al dipinto di Delacroix “La libertà che guida il popolo”. I suoi dipinti più popolari appartengono alla serie delle giungle, dove una gran quantità di piante, foglie e fiori stilizzati riempiono la superficie della tela. Nel dipinto “Il sogno” una donna nuda è sdraiata su un divano, mentre tra le foglie un mago suona il flauto e tutt’intorno sono presenti belve e prede. Gli artisti delle Avanguardie riconobbero nel suo lavoro la possibilità di fuggire dalla civiltà moderna attraverso l’interiorità, senza ricorrere a mondi esotici. Il Simbolismo Il movimento simbolista coinvolse le arti visive, la letteratura e la musica degli ultimi due decenni del diciannovesimo secolo. Il simbolismo si propose come sistema di analisi della conoscenza, sistema etico ed estetico. Il movimento prese le mosse dalla fine della certezza riguardo all’affidabilità dei metodi conoscitivi connotati dalla razionalità. Il simbolismo si propose come reazione alla poetica realista e naturalistica che era legata ad una concezione razionalista e positivista della vita. Nel 1886 viene pubblicato sul quotidiano Le Figaro il Manifesto del Simbolismo di Jean Moréas. Il gruppo dei Nabis In Francia, nel 1899, venne fondato il gruppo dei Nabis, la cui concezione del ruolo dell’artista era implicita già nel nome, che in ebraico  significa “profeti”. Il gruppo si dichiarava erede di Gauguin, aveva infatti  una forte impronta mistica. Tra le opere principali di questo gruppo vi è ”Il talismano”, dipinto da Sérusier. L’artista traduce i suoi sentimenti di fronte  alla natura in un intrico cromatico astratto. Un altro componente del gruppo fu Denis, il quale ne “Le muse nel bosco sacro” definisce il luogo ideale in cui nasce l’arte come un mondo incontaminato dal tempo e popolato da  divinità ispiratrici. Famoso fu anche Bonnard, il cui impianto spaziale dei  suoi quadri non privilegia l’oggetto ritratto, ma la posizione spesso casuale  dalla quale lo vede l’osservatore. Così l’oggetto viene addirittura a mischiarsi cromaticamente con il resto del campo visivo. Il simbolismo in Italia: il Divisionismo Questa corrente ebbe varianti nazionali e fu definita in modi diversi: Jugendstijl nell’area germanica; Modern Style in Gran Bretagna; Liberty o Floreale in Italia; Modernismo in Catalogna. Gli elementi stilistici costanti Dal punto di vista stilistico, gli elementi costanti furono il ricorso all’asimmetria e l’ispirazione alla natura; per questo fu usata una linea avvolgente e serpentinata. Del repertorio iconografico dell’Art Nouveau fecero parte animali sinuosi come cigni e serpenti o vegetali come i tulipani. La linea era assunta come espressione di forza e dinamismo. Alla base di questo gusto stava una forte fiducia nel progresso ed è proprio per questo che alcuni studiosi fanno iniziare il Modernismo con l’Art Nouveau. Per questa corrente fondamentali furono gli influssi del revival neogotico, con le sue forme organiche e decorate, e dell’arte giapponese, con le sue strutture asimmetriche e i suoi colori piatti. Inghilterra e Scozia In Scozia l’architetto Mackintosh diede un’interpretazione personale dell’Art Nouveau, fondata sulla sintesi delle forme: gli arredi sono concepiti anticipando l’idea del componibile. Da qui emerge la prevalenza delle linee rette, le aperture quadrate e i volumi cubici facili da piegare a più funzioni. Nella Biblioteca della scuola d’arte di Glasgow (da lui realizzata) è impossibile distinguere gli elementi strutturali architettonici da quelli che hanno funzione di arredo. L’esterno e l’interno formano un unicum organico. L’asse Glasgow-Vienna Mackintosh fu molto influente in Austria, dove comparve nelle esposizioni della Secessione: è stato perciò identificato un asse Glasgow-Vienna caratterizzato dalla supremazia del volume sulla linea, dalla tendenza a pensare un design riproducibile e dalla logicità delle strutture come valore prevalente sulla loro piacevolezza. Wagner, guida della Secessione, ideò la Casa della maiolica, edificio d’appartamenti con il prospetto principale decorato con maioliche a motivo floreale. Allievo di Wagner fu Hoffman la cui opera più nota fu Palazzo Stoclet. Il rigore formale di Hoffman, frutto della semplificazione razionale delle forme, generò il Quadratstil (stile dei quadrati) diffuso nel linguaggio secessionista. Diversa fu la posizione di Loos, il quale rifiutava qualsiasi elemento decorativo. L’asse Londra-Belgio A Bruxelles L’Art Nouveau trovò le sue espressioni più forti. Un interprete significativo fu Horta, il cui Hotel Tassel è considerato uno dei manifesti dell’Art Nouveau: vi si trova la ridefinizione della pianta, l’utilizzo del ferro in funzione strutturale e decorativa e il ricorrere di motivi quali il colpo di frusta e il richiamo al mondo vegetale stilizzato. La coincidenza degli elementi decorativi con quelli strutturali risultava ancora più evidente nella Maison du Peuple (oggi distrutta), concepita sull’associazione di ferro e vetrate e secondo il principio generale secondo cui “la linea è forza”: ogni traccia architettonica o decorativa è funzionale, simbolica e rispecchia le forze della vita. Altra grande figura belga fu Van de Velde. Il concetto centrale della sua estetica era che la progettazione di una qualunque opera, partendo da una sedia fino ad arrivare a una casa, avesse la medesima dignità artistica. Francia A Parigi l’attenzione dell’Art Nouveau ricadde sulle strutture che arredano la città, per esempio chioschi ed edicole. Il risultato più noto furono le insegne per gli ingressi della metropolitana disegnati da Guimard, realizzati in ghisa per favorirne la resistenza. Germania In Germania l’influsso dell’Art Nouveau fu rappresentato da Endell che realizzò L’Atelier fotografico Elvira di Monaco, la cui caratteristica principale è la sinuosa stilizzazione del motivo dell’onda in facciata. Altra personalità importante fu Behrens, il quale rappresentò un personaggio fondamentale per le esperienze artistiche successive. Italia L’Art Nouveau in Italia arrivò in ritardo e alcune realizzazioni nel settore delle arti minori sono andate perdute anche per la connotazione negativa che questa corrente aveva assunto. L’Art Nouveau si definì Liberty dal nome del proprietario dei magazzini Liberty & Co. a Londra. Personalità di rilievo in Italia furono d’Aronco, che progettò il Palazzo delle Esposizioni a Torino; Basile, autore di Villa Igea a Palermo, e Sommaruga, che realizzò Palazzo Castiglioni a Milano. Antoni Gaudì Gaudì nel panorama dell’Art Nouveau ebbe una visione talmente individuale da costituire un caso a sé. L’artista aveva una venerazione per le antichità gotiche e considerava la natura fonte di ispirazione degli elementi strutturali e decorativi. La sua fortuna iniziò con l’interesse di Güell, ricco magnate. La sua prima costruzione fu Casa Vicens a Barcellona. Egli è inoltre l’autore della cattedrale Sagrada Familia di Barcellona, destinata a rimanere incompiuta. Güell gli commissionò la costruzione del suo palazzo (Palau Güell) in cui comparvero per la prima volta gli archi parabolici. L’evoluzione stilistica di Gaudì è evidente nella Casa Batllò, un grande edificio in cui gli elementi decorativi si integrano alla struttura; il tetto ricorda la schiena di un armadillo. Egli fu anche l’autore di Casa Milà, la cui facciata segue una successione di linee serpentinate, le finestre sembrano bocche di caverne e le inferriate dei balconi rielaborano motivi naturalistici. Il tetto è sostenuto da archi di differenti altezze, i quali raggiungono la massima forza portante con il minimo dello spessore. La tecnica costruttiva di Gaudì prescinde dalla razionalità e dall’economia delle norme edilizie. Nel Parco Güell i pilastri erano studiati in maniera da non necessitare di ulteriori rinforzi e qui Gaudì utilizza materiali sia di origine artigianale che industriale. Antoni Gaudì, Sagrada Familia La realizzazione della Sagrada Familia è sostenuta dalla teoria secondo cui la linea dritta è propria dell’uomo, mentre quella curva della natura e di Dio. Delle tredici guglie previste ne furono realizzate solo quattro, sovrastanti un portale che si estende a tutta la parte bassa della facciata e allacciate in alto da una fascia. L’insieme delle figure rappresentate testimoniano la volontà di esporre un’intera cosmogonia, che dalla complessità del mondo fisico conduce verso la semplicità di Dio. Ogni particolare costruttivo è studiato con una logica interna. CAPITOLO 3 La linea espressionista La poetica dell’espressionismo non prese corpo da un unico ceppo, ma bensì da tanti focolai localizzati soprattutto in Francia, Germania e Austria. L’espressionismo aveva l’intento di esprimere attraverso la pittura stati d’animo più che oggetti. Non si fa più riferimento all’occhio, al modo in cui si vede la realtà esterna, ma si presta invece attenzione all’introspezione, al modo in cui la sensibilità individuale coglie il mondo. Il termine Espressionismo nacque in contrapposizione a quello di Impressionismo e si decrive con esso uno stile legato alla soggettività. I punti fondamentali che Worringer, famoso critico, individua nell’arte espressionista sono: ritorno ai primitivi; rivalutazione dell’arte gotica tedesca; valorizzazione dell’arte popolare folkloristica; liberazione della forza del colore; distorsione ed esagerazione dei tratti figurativi; eliminazione dell’illusionismo prospettico; rappresentazione della natura in senso simbolico e panteistico, così da identificarla col principio divino. Edward Munch (R.) Munch è il più importante dei poeti norvegesi ed è uno dei due principali precursori della pittura espressionista. La sua vita fu segnata da fatti tragici; ebbe un rapporto difficile con le donne seguendo un atteggiamento misogino tipico degli intellettuali del suo tempo. Già da un quadro precoce come il Bacio si rivela come egli vedesse il rapporto tra maschi e femmine, e cioè come un amplesso in cui l’identità maschile poteva essere messa in pericolo, quasi assorbita da una donna-mantide. Munch fu anche un viaggiatore e conobbe le maggiori correnti artistiche europee: le sue fonti furono la linea curva dell’Art Nouveau e la pittura simbolista. Nel 1885 visitò Parigi per la prima volta dove venne influenzato da artisti come Toulouse-Lautrec, Degas, Van Gogh e qui vide una mostra con alcuni reperti Maya che lo impressionarono profondamente: i visi della sua pittura successiva, cosi scarni da sembrare teschi ne sono una prova. Al suo ritorno compose la sua prima opera “La Bambina Malata” che suscitò scandalo per la tecnica nervosa ed essenziale con cui era stata dipinta, creando sconcerto e disprezzo nella critica. Nel 1892 fu organizzata una mostra pubblica per le sue opere a Berlino che venne chiusa per lo scandalo suscitato dalla loro tecnica: una pittura disinvolta che lasciava ampi margini al non finito. La notorietà che gli derivò da quell’episodio lo convinse a rimanere in Germania, dove il suo periodo creativo più fertile si verificò durante la sua permanenza a Berlino. Il suo stile di vita vagabondo lo condusse ad una crisi nervosa dopo la quale dovette essere internato per alcuni mesi. Alla sua morte vi si trovarono ammassati un migliaio di quadri, sei sculture e un enorme quantità di grafiche; per volontà di Munch questo patrimonio venne lasciato alla città. Quanto ai temi affrontati da Munch, egli cercò di descrivere le proprie emozioni adattandole alla vita interiore di qualsiasi uomo. Per questo intendeva riunire tutte le sue opere in ciò che definì “il fregio della vita”. Munch ha espresso la sua ricerca in molte variazioni su di uno stesso tema, in soggetti sovente ripetuti con tecniche diverse: olio, tempera, acquerello. La sessualità è vissuta come ciò che conduce alla vita ma anche alla morte, come “supremo inganno”, lo si deduce dalla serie della Madonna: questa figura sensuale ma cadaverica, al confine tra passione fisica e malattia, in una prima visione è corredata da una cornice sulla quale sono dipinti spermatozoi che si indirizzano verso un feto: vita e morte, energiche e lontane da ogni realismo. L’insieme parve un’assurdità al pubblico. “La gioia di vivere” è un'altra scena di bagnanti i cui singoli brani vennero poi ripresi da numerose altre composizioni. Il quadro ritrae un esterno. Nel 1912-13 trascorse due lunghi periodi in Marocco; l’arte islamica con la sua negazione religiosa della figurazione e le sue superfici simmetriche, ripetitive, arabescate lo influenzarono molto. Il quadro “I tappeti rossi” esprime il desiderio di accogliere la sapienza e il lusso estetico della decorazione nella pittura a olio, evidente in quadri successivi come “La tavola imbandita”, “La famiglia del pittore” e “Madame Matisse con scialle di Manila”. Dal punto di vista dello stile, la forma circolare e la ripetizione ritmica sempre associate a sentimenti di vitalità primordiale divennero due costanti dell’opera di Matisse. Appaiono con particolare evidenza nei quadri “La danza” e “La musica”. Il primo segue un motivo già accennato nella Gioia di vivere e fu eseguito in molte versioni. Cinque corpi rosso-arancio si stagliano su un fondo verde e blu, formando un cerchio di figure nude che è impegnato in un girotondo vorticoso. La velocità è resa dal disegno ma anche dalla violenza delle associazioni di colore. Il secondo quadro descrive con gli stessi elementi una situazione di calma: ancora cinque corpi rossi che ora stanno seduti su un prato verde a livelli diversi, se nella Danza prevale un festone di linee curve, qui vincono le perpendicolari e i colori sono stesi in modo piu piatto e denso. Il risultato è che le figure sembrano tenute ferme e come tranquillizzate dal blu intenso cielo. Matisse è interessato ai rapporti tra colori. Egli non volle mai raggiungere l’astrazione. La toccò negli ultimi collages, ottenuti con ritagli di carta. Spiccano nella sua maturità due realizzazioni di dimensioni ambientali: il grande fregio che ripropone il tema della danza e “La Cappella del Rosario a Vence”, di cui l’artista ha progettato gli arredi. Per entrambe le opere Matisse scelse l’assoluta piattezza del colore e un disegno ridotto ai minimi termini. I gruppi dell’Espressionismo tedesco (R.) All’inizio del XX secolo in Germania si agitavano tensioni politiche e sociali. Lo Stato unitario aveva una struttura economica orientata a favorire le classi militari e nobiliari accompagnata da un rigido controllo sulla popolazione. In questo contesto veniva promossa un’arte ufficiale dedita a celebrare la storia della casa regnante. Gli artisti più giovani avevano assunto atteggiamenti di ribellione contro ogni forma di conformismo. Contro l’arte ufficiale incominciarono a insorgere diverse “secessioni” soprattutto nelle città che si posero al centro dei movimenti espressionisti: Monaco e Dresda. Va sottolineato che il paese era caratterizzato dal policentrismo, cioè non vi era la prevalenza di un centro unico. Le caratteristiche comuni a tutti gli espressionisti tedeschi furono un’aggressività sia estetica sia morale, un uso violento del colore, un’emotività esasperata, un desiderio di provocazione e di polemica sociale che nei Francesi non si trovano. Nel 1906 ci fu la prima esposizione di un gruppo di artisti di Dresda in cui Kirchner espose il manifesto "Il Ponte" (Die Brücke), una xilografia. Il nucleo si era coagulato l’anno prima grazie a quattro studenti, tre dei quali si dedicarono completamente alla pittura: Kirchner, Heckel e Schmidt-Rottluff. Heckel aveva suggerito ai compagni di definirsi “artisti del ponte” in tedesco Die Brücke, il ponte era quello ideale lanciato verso un futuro segnato dalla volontà di rivolta verso chiunque cercasse di uccidere l’impulso alla vita con un moralismo invecchiato. Erano convinti che l’arte potesse giocare un ruolo determinante nel ricondurre l’uomo moderno a valori meno corrotti di quelli a cui lo forzava la nuova società urbana. Quanto alle fonti i suggerimenti più intensi provennero dalle gallerie private della città, in questo contesto assunsero grande importanza la natura intatta del Mare del Nord, le ragazze acerbe e innocenti, il recupero delle tradizioni: questi artisti cercavano di ritornare alla pittura tedesca del ‘500. Tra le tecniche vennero privilegiate la scultura in legno e la xilografia, che si ottiene incidendo lastre di legno, inchiostrando le parti non incise, ponendovi sopra il foglio che risulta stampato a toni molto contrastanti. Il fascino di questa tecnica consiste nella sua incisività e precisione. Uno degli scopi programmatici di Die Brucke era quello di coinvolgere più persone possibili. Die Brucke si disperse nel 1913 dopo che ciascun artista ebbe maturato una propria espressività autonoma. I protagonisti di Die Brucke pubblicarono riviste e grazie a questo essi furono considerati gli iniziatori della produzione da parte degli artisti di propri organi di stampa. Ernst Ludwig Kirchner (R.) Kirchner faceva parte del gruppo Die Brücke. Egli incorrse in gravi depressioni che sfociarono nel suo suicidio del 1938. Si possono identificare tre fasi nella sua produzione. La prima caratterizzata da una pittura a pennellate larghe, morbide e con grande attenzione ai rapporti di colore. Ne fa parte “Marcella”, un ritratto di giovane prostituta giocato sui toni del verde acido, del viola e dell’arancione. Una ragazzina che non ha ancora il seno sta seduta su un letto con le mani che si incrociano sul pube come la protagonista di Pubertà di Munch, ma mentre quella si mostrava stupita e intimorita, questa già truccata e con lo sguardo reso adulto da occhiaie verdi appare allo stesso tempo aggressiva e rassegnata al ruolo violento che la donna può assumere in una società deviata. In un momento successivo la tecnica è a pennellate oblique e forti come pioggia. I colori sembrano essere impastati dal nero e da luci gialli artificiali. Protagonista è soprattutto la città. E’ il momento in cui vengono dipinti quadri come “Cinque donne nella strada” e “L’autoritratto come soldato”. In quest’ultimo contrapponendo aree blu, rosse, gialle e nere, il pittore si mostra come un reduce mutilato senza una mano, senza sguardo e senza una meta. Il terzo periodo fu quello speso a Davos, in Svizzera. La natura alpina appare nei quadri come un luogo mitico ed emozionante, i toni perdono asprezza e acquistano visionarietà colorando gli alberi di violetto e la neve di rosa. Il gruppo del Blaue Reiter (R.) All’inizio del XX secolo Monaco era una città vitale. Fu qui che nacque la prima Secessione nel 1892 e dove arrivarono artisti russi come Kandinskij e von Jawlenskij. Nel 1911 Kandinskij fondò assieme a Marc il gruppo artistico Blaue Reiter. Ai due si aggregarono Macke, Klee e von Jawlenskij. Il Blaue Reiter non si diede un programma vero e proprio, il gruppo aveva tre caratteristiche peculiari: la prima era quella di essere cosmopolita e di non accogliere i riflessi di una sola cultura nazionale; la seconda era quella di essere tendenzialmente interdisciplinare e di non limitare lo sguardo al solo campo della pittura, allargandolo, invece, alle innovazioni. La terza caratteristica risiedeva nei comuni intenti riguardo al linguaggio pittorico: da una parte si voleva attribuire al colore delle valenze simboliche, dall’altra un impianto ideale comune spingeva contro il naturalismo pittorico e verso l’affermazione dei valori spirituali, benchè centrati su un’idea dell’uomo più genericamente mistica e panteistica che legata a una religione rivelata specifica. Il percorso dal Blaue Reiter aveva in sé un’apertura all’universo del poetico, nonché la riscoperta del potere spirituale delle armonie decorative. Il movimento ebbe vita breve, ma il suo influsso fu enorme nella prima affermazione dell’Astrattismo. Il colore simbolo di Franz Marc (R.) Marc incontrò Macke, il quale gli aprì le porte dell’avanguardia e lo mise in relazione con gli altri artisti. Le sue considerazioni sul colore come veicolo simbolico lo portarono a uno stile molto personale. Appassionato della pittura di animali, egli intraprese ciò che amava definire “l’animalizzazione dell’arte”. Gli animali venivano riprodotti come presenze simboliche, essi rappresentavano per lui lo slancio vitale per il quale la natura è la massima espressione divina. Alexej von Jawlenskij, il ritratto come linguaggio (R.) Von Jawlenskij si trasferì a Monaco mentre negli anni successivi frequentò spesso Parigi dove ebbe modo di conoscere il lavoro di Matisse e di rimanerne colpito: le sue opere trattano il colore con la stessa intensità del maestro francese anche se il suo approccio cercava un certo simbolismo e l’estasi delle emozioni. Durante la prima guerra mondiale il suo misticismo religioso aumentò portando il ritratto femminile verso una progressiva stilizzazione. Solarità e movimento in Auguste Macke (R.) Il contatto con l’atmosfera artistica francese e con i paesaggi del Mediterraneo avvinse Macke profondamente: durante un viaggio a Parigi assorbì i suggerimenti dei Neoimpressionisti, dei Fauves, del Futurismo. L’amico Klee gli svelò un senso del colore più brillante, solare, meno irto di simbolismi rispetto ai compagni. In quel periodo dipinse molti acquerelli. Macke indirizzò la sua pittura verso atmosfere intimiste e soggetti tratti dalla vita quotidiana. Il suo stile è connotato da sfaccettature cromatiche giocate sugli effetti di trasparenza. L’espressionimo austriaco (R.) Agli inizi del Novecento, Vienna era un grande mosaico di etnie e di nazionalità in fermento. La città ospitò Freud, Schnitzler, Klimt e Mahler. Una Salon d’Automne del 1911, Il Salon de La Section d’Or del 1912. A queste parteciparono gli artisti che si erano avvicinati alle ricerche di Picasso e Braque: il gruppo dei Cubisti comprese Gleizes, Metzinger, Picabia, Herbin, Le Fauconnier, Lhote, Laurencin, Delaunay, Marcoussis, de la Fresnaye, Duchamp, Leger, Gris. A nessuna delle mostre principali cubiste parteciparono i due inventori del movimento, Picasso e Braque. Entrambi infatti percepivano le loro opere come profondamente radicali da essere comprensibili a pochi. Nella decisione di non esporre le loro opere si comprende come questi artisti fossero pienamente coscienti dell’aspetto innovativo della loro arte. Il termine Cubismo venne inventato a proposito della pittura di Braque: Matisse aveva visto dei paesaggi di Braque descrivendoli come fatti a piccoli cubi. L’atto di nascita del Cubismo come maniera di dipingere piatta, geometrica, tendente a una deformazione del soggetto viene identificato con le Demoiselles d’Avignon di Picasso. Il quadro rimase nello studio dell’artista dove colpì Braque. I due artisti in seguito divennero inseparabili creando spesso quadri difficili da attribuire all’uno o all’altro e inventando nuove tecniche. Il sodalizio finì proprio mentre il Cubismo stava diventando di moda. Apollinaire stilò le linee del Cubismo europeo. Le premesse di questo movimento furono il realismo di Coubert; il processo all’arte greca e all’ideale classico di bellezza assoluta svolta da Nietzsche; gli ultimi lavori di Cezanne; Derain come figura di passaggio tra il Fauvismo e il Cubismo. Caratteristiche fondamentali del movimento artistico sono l’idea che l’imitazione diretta della natura non è necessaria all’arte; la somiglianza della pittura al vero non ha più alcun valore; il soggetto dell’opera non conta più o conta appena; la pittura non deve rappresentare nulla, al pari di quanto accade per la musica; il Cubismo è una scuola artistica diversa dalle precedenti e adatta alla propria epoca. Per quanto riguarda le articolazioni interne invece, il Cubismo può essere: analitico, quando si conforma come l’arte di dipingere composizioni nuove con elementi presi dalla conoscenza. I protagonisti di questa forma particolare di Cubismo furono Picasso, Gleizes, Metzinger, Laurencin e Gris. Il Cubismo può essere anche fisico; in questo caso esso si ispira a elementi tratti dalla visione. Protagonista di questa forma di Cubismo fu Le Fauconnier. Infine il Cubismo può essere orfico; in questo caso è indirizzato alla resa della luce. Protagonisti di quest’altra forma di Cubismo furono Duchamp, Leger, Delaunay e Picabia. Pablo Picasso Picasso è l’artista più importante del XX secolo. La sua vita si può riassumere con uno schema cronologico. Egli nacque a Malaga ed aveva un padre pittore. L’artista esordì con l’opera “La prima Comunione”. Le date dal 1901 al 1904 segnano il cosiddetto periodo blu, durante il quale Picasso partì per Parigi, dove fu influenzato dagli impressionisti e da Toulouse – Latrec. La predilezione per il blu si inserisce nell’atmosfera culturale parigina influenzata dal simbolismo: il blu simboleggia la malinconia. Le date dal 1904 al 1906 segnano il cosiddetto periodo rosa in cui l’artista usa colori più chiari e pacati. I temi di questo periodo sono quelli circensi e il personaggio più ricorrente è Arlecchino, figura che ricorda la povertà, l’ambiguità e il nomadismo. In seguito, nel 1907, Picasso esegue il dipinto “Les Demoiselles d’Avignon”, che segna la nascita del Cubismo. Dal 1909 in poi stringe un sodalizio con Braque e riduce i colori della tavolozza ad ocra, grigi e marroni. L’introduzione di forme ovali dichiara la volontà di rompere con il tradizionale concetto del quadro – finestra, basato sulla forma quadrangolare. Questa fase è stata descritta come Cubismo analitico. Nel 1912 nasce il Cubismo sintetico e Braque e Picasso introducono la tecnica del collage, ripresa in seguito da molti artisti. Dal 1917 al 1924 Picasso abbandona il Cubismo per sviluppare i temi di una classicità in cui le figure appaiono monumentali e massicce. Determinante per questa fase fu il suo viaggio in Italia. Nel 1925 disegna “La danza” che chiude il periodo classico per aprire la cosiddetta età dei “mostri”, legata anche al Surrealismo. La fisionomia delle figure perde ogni legame col reale. Importantissimo fu il quadro Guernica del 1937. Da quest’anno in poi Picasso raggiunse un’intensa attività creativa, rivolta anche a scultura, ceramica e grafica. Numerosi in questo periodo furono i lavori sul rapporto tra il pittore e la modella. Dalla Spagna a Montmartre: i periodi Blu e Rosa Nel 1901 Picasso si stabilì a Montmartre. In questo periodo fu impressionato da alcune mostre come le retrospettive di Seurat, Gauguin e Toulose – Lautrec e una mostra di Van Gogh. L’artista nel periodo Blu dipingeva un’umanità povera, cupa e marginale. Nel suo dipinto “Madre e figlio” i soggetti indossano solo degli stracci. La descrizione dell’essenzialità passa anche attraverso il colore: la tavolozza si riduce ai toni del blu. Picasso quando cambiò colore, scelse toni rosa, beiges, marroni e bianchi. A riscattare la povertà restano solo i legami affettivi. Nel quadro “La famiglia di saltimbanchi” la figura del giullare funge da simbolo di libertà dalle regole sociali più opprimenti. “Il ragazzo con la pipa” è l’ultimo dipinto della serie rosa. Qui vi permane un’influenza simbolista, come appare dalla corona di rose. Pablo Picasso, Les Demoiselles d’Avignon Il soggetto del quadro sono cinque ragazze nude. Esse appaiono sfigurate da lineamenti asimmetrici. Il quadro dipinto nel 1906 - 1907 e conservato al Museum of Modern Art di New York, è considerato l’opera più innovativa di Picasso. Il dipinto riprende un bordello di Barcellona. Visi e corpi appaiono taglienti e segnati da angoli acuti e persino il melone sembra una falce. Non vi sono ombreggiature, né trucchi prospettici. I piani sono incastrati uno nell’altro, la ragazza accovacciata guarda avanti anche se il suo corpo è di schiena. Quella a sinistra ricorda l’arte egiziana, mentre le due di destra sono un riferimento alle maschere africane. Il pittore denunciava così un desiderio di ritorno alle origini dell’arte occidentale e alla semplicità espressiva pre-greca. Proprio per questo i colori sono ridotti a due, essendo tutti variazioni dell’ocra e del blu. L’opera è stata definita in base a numerosissimi bozzetti preparatori. Il punto saliente è l’incrocio della tradizione pittorica antica del gruppo di nudi femminili, con il tema volgare del bordello. I primi studi per il quadro mostrano anche due figure maschili, un marinaio e uno studente in medicina. Ciò, secondo alcuni commentatori, sarebbe il simbolo del rapporto inquieto dell’artista con la corporeità. Picasso scelse questo tema perché gli consentiva di affrontare il corpo femminile in maniera innovativa, ma legata all’arte dell’Antichità. Un accenno alla pittura antica è la natura morta con frutta, la quale essendo stilizzata fa capire il discostamento dell’artista dalla copia del vero. Nell’opera si vedono le ragazze quasi in una scena teatrale come suggerisce la tenda – sipario di sinistra, così come si offrono ai clienti prima di essere scelte. I clienti sono gli stessi spettatori; in questo modo Picasso mette gli spettatori dentro il quadro e crea uno spazio a quattro dimensioni che include il tempo e il nostro spazio. Il sodalizio con Braque L’altro protagonista delle riflessioni cubiste è Braque. Lui e Picasso prendono come punto di riferimento Cezanne. I due artisti applicano la scomposizione dei piani in maniera rigorosa, entrando dentro ogni oggetto e facendolo letteralmente a fette, in sezioni verticali ed orizzontali. Vengono effettuate nuove operazioni nel campo del quadro: la perdita degli effetti di chiaroscuro, la progressiva riduzione dei colori e il principio di simultaneità, ossia la sovrapposizione in una stessa immagine di molti punti di vista. Le opere, dunque, iniziarono ad essere concepite come piani sovrapposti. Il cubismo è frutto del distacco dal realismo comunemente inteso e dal rapporto con la natura. Insieme Picasso e Braque si dedicarono soprattutto alle nature morte, riducendo la tavola ai toni del bruno e dei grigi. Verso il collage I quadri di Picasso e Braque sono caratterizzati dal monocromo e dall’uniformità dei piani. La realtà non è più frammentata, ma ricomposta. L’oggetto è ricostruibile nella deflagrazione della pittura che ne proietta i frammenti a partire da un nucleo centrale verso i bordi esterni dell’opera. Successivamente Braque introdusse nel quadro anche lettere dell’alfabeto. A partire da questo spunto Picasso e Braque introdussero altre invenzioni come imitazioni di legno e di marmo illusionistiche o titoli di giornali incollati sulla tela invece che ridipinti: avviene uno scambio tra realtà suggerita nella scomposizione, riprodotta, e citata dal vivo con materiali inseriti nei collages. Questa è l’ultima tappa del percorso cubista; la realtà è entrata ormai fisicamente nel quadro. Picasso, Natura morta con sedia impagliata (1912) Con il collage Picasso fa riflettere sul concetto di rappresentazione: la realtà può essere imitata secondo la visione retinica degli Impressionisti oppure essere trasportata realmente dentro un quadro. Gli oggetti reali in questo caso sono un pezzo di tela cerata, carta e corda. L’ingresso di una cosa dentro un quadro offre piena libertà all’artista che si estende anche all’opera, giacchè ne dilata le proprie tradizionali dimensioni e modifica la conservò sempre contatti con il mondo intellettuale nella capitale. Nel 1909 Marinetti pubblicò il Manifesto del Futurismo sul quotidiano parigino “Le Figaro”. Il suo pensiero era nutrito dalle teorie sulla volontà di potenza e sull’oltreuomo enunciate da Nietzsche. I suoi esperimenti di scrittura sono stati una fonte rilevante per la letteratura del Novecento. Egli aveva un’eccezionale capacità provocatoria e la qualità del leader. Inoltre possedeva abbastanza denaro per organizzare una colossale promozione delle sue idee a livello internazionale. Marinetti aveva già ben compreso il potere della pubblicità, dei metodi di propaganda che fino ad allora erano stati usati solo per le comunicazioni commerciali. Fu il primo esponente delle Avanguardie a cercare il coinvolgimento di un pubblico che non fosse solo quello colto e specializzato. Questo connubio tra azione e scrittura ne ha fatto un precursore dell’arte fondata sul comportamento dell’artista e sul suo stesso corpo: invaghito di un ideale di arte totale, che avvolge e penetra tutti i settori della vita, cercò persino di dettare i comportamenti quotidiani di un futurista. Marinetti amava le macchine a cui attribuiva addirittura significati simbolici, attaccava la storia, il passato, la tradizione in ogni sua manifestazione. In campo politico era nazionalista, dichiarandosi a favore dell’intervento in guerra. Alcuni storici sostengono che gli atteggiamenti, gli slogan, i metodi più provocatori adottati dal Fascismo avessero avuto come matrice il suo pensiero estetico. Dal 1870 l’Europa aveva attraversato un periodo di pace e di equilibrio politico e la generazione cresciuta in quegli anni non aveva idea degli orrori della guerra. Questa era vissuta in senso romantico, astratto, patriottico. Nel 1914 si aprì lo scenario della Grande Guerra, lo spirito futurista fu vittima in molti sensi della guerra: alcuni suoi esponenti vi morirono, altri subirono violenti contraccolpi psicologici e il movimento non potè che esaurire parte della sua carica provocatoria. In un primo tempo Marinetti non pensava che le arti visive potessero essere un buon veicolo alle sue idee, poi coinvolse pittori e scultori e capì che il linguaggio visivo aveva maggiori possibilità di quello letterario di farsi conoscere a livello internazionale. A Milano Marinetti trovò alcuni giovani artisti che giudicò dotati di temperamento futurista: Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini. Nel 1910 uscì sulla rivista “Poesia” il Manifesto della pittura futurista firmato da Boccioni, Russolo, Balla, Severini e Carrà. Seguì il Manifesto della scultura. Quanto alla pratica artistica, di fronte a una teoria così centrata sul culto della modernità lo stile divisionista si mostrò inadeguato. Una fonte importante alla quale attinsero i pittori futuristi furono le fotografie sequenziali scattate da Marey e Muybridge. Il rapporto più importante e discusso del Futurismo avvenne con il Cubismo. Fu Severini che mise i colleghi in relazione all’ambiente artistico parigino e sollecitò un viaggio di aggiornamento sulle rive della Senna. Ciascun esponente ne trasse spunti personali ed elaborò una poetica autonoma dagli altri e anche dal pensiero di Marinetti. Il Cubismo insegnò ad infrangere gli oggetti rappresentati in pittura, a liberarsi dal puntinismo e a trattare il colore in modo meno sgargiante. Rispetto al Cubismo, comunque, i Futuristi trattarono sempre il soggetto dei loro quadri con una maggiore attenzione all’aspetto metaforico: tendevano a scegliere temi di forte spessore simbolico. Rispetto ai Cubisti, i Futuristi cercarono di immettere nelle loro opere la forza del movimento declinato su un doppio binario: il dinamismo proprio degli oggetti e quello interno ai soggetti, gli stati d’animo di chi percepisce. I Cubisti erano preoccupati di risolvere problemi formali legati al rinnovamento della rappresentazione e davano luogo a immagini tendenzialmente statiche, come è chiaro dai soggetti che prediligevano nature morte o ritratti. I futuristi desideravano invece mostrare la velocità e lo scontro di forze, a questo fine utilizzavano come soggetti le macchine, la città ecc. il Cubismo nacque dal lavoro di due uomini, Picasso e Braque, che erano restii a mostrare al pubblico le loro opere. Al contrario, i dipinti futuristi nascevano da un gruppo di artisti ansiosi di proclamare a voce alta la loro volontà di rivoluzionare il mondo. I futuristi, pur risultando esclusi dai Salon e dalle riviste più importanti del tempo, esposero alla galleria Bernheim Jeune di Parigi nel 1912, con una mostra che viaggiò in varie città del Nord Europa. Fu attraverso i Futuristi che l’Italia riuscì a inserirsi nel contesto delle avanguardie internazionali. L’Italia del periodo giolittiano ebbe un’enorme espansione industriale e subì mutamenti sociali, con la nascita di un proletariato urbano senza precedenti. I talenti più vivi in molti campi rimasero impigliati nel provincialismo o dovettero andare all’estero a farsi conoscere. Del resto la debolezza dello Stato Italiano nel difendere più che nel generare le tendenze culturali più vivaci, è stata un motivo per il quale il Futurismo ha avuto riconoscimenti minori rispetto al suo potenziale innovativo. Il contributo futurista alle avanguardie è stato a lungo sottovalutato. Gli storici dell’arte sono rimasti in seguito scandalizzati dall’adesione entusiastica alla guerra, dapprima e poi al fascismo da parte dei componenti del movimento. Nel campo della tecnica i Futuristi furono preveggenti riguardo all’uso di materiali comuni per la creazione delle opere d’arte prevedendo l’abbandono dei materiali classici e promuovendo l’utilizzo di materiali anomali quali fili metallici, di cotone, seta. Umberto Boccioni (R.) Boccioni visse in città diverse durante tutta l’età formativa e per questo crebbe con una mentalità priva di localismi e aperta alla cultura internazionale. La sua formazione artistica avvenne prevalentemente a Roma dove venne in contatto con le Avanguardie letterarie locali. In seguito si stabilì definitivamente a Milano. Il suo stile subì varie fasi fino all’approdo futurista, nel 1909. La sua produzione maggiore si inquadra dunque tutta nell’ambito di sette anni, fino alla morte. I suoi principi si sono espressi nel libro “Pittura scultura futuriste: dinamismo plastico”. Il suo primo capolavoro di impronta futurista fu “La città che sale”, un quadro che rappresenta un cantiere alla periferia di Milano. Il titolo allude alla costruzione di nuove aree ma anche al moto di ascesa metaforica dell’ambito urbano. L’ambiente e le figure si fondono in un insieme inscindibile dando corpo alla compenetrazione tra figura e sfondo. Il dipinto mostra l’inizio della ricerca, nelle parole di Boccioni di “una sintesi di quello che si ricorda e quello che si vede”. Nel 1911 compose “La strada che entra nella casa” in cui l’artista rappresentò la madre affacciata al balcone, ritratta mentre osserva la strada sottostante. Il rumore del traffico viene espresso mediante la frammentazione delle forme e il mutamento continuo dei punti di vista. “Stati d’animo I: Gli addii” rappresenta una locomotiva che sbuffa nel verde, connotata da un numero che ricorda le lettere dei quadri cubisti posto al centro del quadro: il centro dello spazio figurativo è spesso sottolineato da Boccioni come ciò da cui sorge l’intera immagine e come il fulcro da cui promanano onde di energia, linee forti e sinuose che descrivono il movimento. Gli Addii ha subito una doppia versione, prima e dopo il viaggio a Parigi: dal confronto si desume la rapida maturazione dell’artista e anche una più forte attenzione ai vissuti emotivi. Tutti questi diversi aspetti risultano esaltati in “Materia”, un nuovo ritratto della madre al balcone. Nel dipinto appare in modo evidente un’ulteriore tendenza di Boccioni che si esalta nella sua scultura: la ricerca delle linee di forza degli oggetti, colti in un doppio movimento: il loro proprio moto interno e quello compiuto da chi li vede nell’atto stesso di percepire. I suoi esperimenti scultorei iniziarono nel 1912, dando luogo a un’opera il cui titolo fu anche una dichiarazione d’intenti come “Antigrazioso” e “Sviluppo di una bottiglia nello spazio”: in quest’ultimo caso una bottiglia è stata smembrata secondo i principi cubisti, ma seguendo una sorta di aura. Il suo ultimo quadro impegnativo, “Il Ritratto del maestro Ferruccio Busoni”, torna alla staticità e ad una contrapposizione anche simbolica di piani e colori. Umberto Boccioni, Materia (1912) L’opera prende il titolo dalla comunanza lessicale tra i termini madre, materia e matrice; per questo il quadro assume una valenza simbolica. Lo stesso utilizzo di una tecnica divisionista che rende protagonista la luce, forza motrice della vita, nella poetica futurista ha risvolti simbolici. La figura assume una posizione frontale. Quest’opera è ispirata al ritratto di Cezanne “Madame Cezanne nella poltrona rossa”. In “Materia” il centro sono le dita intrecciate che spingono l’occhio di chi guarda verso i lati del dipinto, confondendo il rapporto tradizionale tra figura e sfondo. Le mani assumono il posto centrale e risultano il fulcro da cui partono vibrazioni concentriche. Spalle e schiena risultano appoggiate alle inferriate di un balcone, dal quale l’osservatore può assistere alla scena urbana che disegna un semicerchio intorno alle spalle. Le case della città rappresentano lo sfondo, dunque i confini tra la madre e il paesaggio, tra la figura e lo sfondo, si fondono. A sinistra si intravede un cavallo e, sulla destra, una figura umana in movimento. Le linee esterne che congiungono la testa del cavallo, i tetti degli edifici, la figura umana formano ancora un altro cerchio, che circoscrive quello formato dalle braccia della madre. Ne risulta una compenetrazione tra spazio interno, figura e spazio esterno. Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio (1913) L’opera è un bronzo che rappresenta un atleta e che suggerisce la marcia. A venire esaltati sono il coraggio di affrontare il futuro e la volitività con cui lo si guarda e ci si immagina di plasmarlo. La scultura è centrata sulla mobilità della linea curva per accentuare l’impressione di dinamismo; pur alludendo al corpo umano, l’opera risulta priva di braccia. L’utilizzo dei concavi e dei da una pittura espressionista e quindi da un’accentuazione del ruolo del colore, ma altri pionieri seguirono direzioni diverse: Malevic vi arrivò accentuando il valore simbolico e sintetico dell’immagine mentre Mondrian seguì le linee dettate dal Cubismo e ne accentuò il carattere formale. Come vedremo tutti e tre questi artisti condividevano comunque un credo mistico e la convinzione che l’arte dovesse veicolare una rivoluzione dello spirito. Alcuni antropologi sostengono che ogni forma di decorazione umana parte da una base realistica che poi va stilizzandosi. Altri studiosi sono invece convinti che la tendenza alla decorazione sia una sorta di forma innata del carattere umano e che essa prescinda da ogni copia dal vero. Per qualsiasi delle due posizioni si propenda, l’arte europea si è basata così fortemente sulla figura che l’Astrattismo non può che essere considerato una rivoluzione decisiva. L’Astrattismo segnò un approdo anche sul piano del pensiero estetico. Con l’emergere dell’Astrattismo l’arte perse anche il suo compito più comune quello di “rappresentare” o “raccontare” dal momento che fotografia, stampa si stavano rivelando mezzi assai più fedeli e adatti a quest’obiettivo. L’arte si pone come un puro veicolo espressivo. Gli Astrattisti ritennero fondamentale usare le loro stesse sensazioni per ricordare la spiritualità collettiva e talvolta la struttura politica della società anche attraverso un ripensamento dei modi del vivere quotidiano. Vassilij Kandinskij (R.) Kandinskij nato in Russia studiò economia e legge. In seguito si dedicò alla pittura. La sua giovinezza fu contrassegnata da molti spostamenti: nel 1900 fu a Monaco dove conobbe lo Jugendstijl, tra il 1906 e il 1907 trascorse un anno a Parigi a contatto con i Fauvisti; rientrato a Monaco la casa di campagna divenne luogo di incontro per i migliori artisti del momento; tornato in Russia si appassionò alle vicende della Rivoluzione. Era contrario allo stereotipo dell’artista caotico. La sua attività di pittore e di teorico fu accompagnata da un naturale talento di leader: fu epicentro dell’avanguardia russa. Lo si ricorda soprattutto per essere stato l’iniziatore dell’Astrattismo, con un Acquarello astratto che egli ascrisse al 1910, ma che i critici posticipano di almeno due anni. La datazione voluta dall’artista resta comunque un dato significativo poiché dimostra quanto egli fosse consapevole di essersi avviato per primo sulla via della non- rappresentazione. Durante la sua permanenza in Francia studiò Matisse e le teorie si Seurat. Kandinskij era interessato al colore libero dal disegno, come mezzo privilegiato per l’espressione dello spirito. A quel punto iniziò a privare i suoi dipinti della linea orizzontale, a dividere lo spazio in linee diagonali, a concepire lo spazio figurativo come un campo in cui si incontravano energie fisiche (colori, punti, linee). Nel 1909 diede via ai quadri intitolati “Improvvisazioni”, nel 1910 alle “Composizioni” e nel 1911 alle “Impressioni”. Teorico dell’Astrattismo (R.) Il passaggio a una produzione esclusiva di opere astratte fu lento come il rispetto dei principi teorici che aveva già enunciato ne “Lo spirituale nell’arte”. In questo piccolo libro, Kandinskij aveva proposto una schematizzazione dei colori secondo i loro risvolti psicologici e spirituali: il verde tranquillizzante, il giallo dinamico. I colori venivano poi associati alle direzioni lineari (diagonale, orizzontale) e in seguito alle forme geometriche. Altri aspetti salienti delle sue teorie riguardano l’assoluta libertà dei mezzi: l’artista è come un veggente che cammina nel buio, rivolgendo i suoi sguardi verso una realtà più profonda e nascosta di quella comunemente percepita. Dal punto di vista filosofico, la caratterizzazione dell’artista come profeta e guida, Kandinskij inscriveva le sue teorie in un contesto di religiosità multiforme: oltre al Cristianesimo si avvicinò al Buddismo e all’Induismo. Vassilij Kandinskij, Primo acquerello astratto (datato 1910 dall’artista) La prima fase astrattista della pittura di Kandinskij si caratterizza per un uso pastoso del colore. I contorni appaiono poco segnati e l’intera composizione assume un aspetto gestuale: sono la mano e l’occhio a guidare l’operato del pittore. A partire dal 1922 Kandinskij mutò sensibilmente anche il suo stile: iniziò a dare alle opere un reticolo geometrico più severo, una minore libertà del gesto. La pasta cromatica stessa risultò più piatta mentre gli elementi presenti sulla superficie andarono intersecandosi e connettendo in strutture più complesse. Due fasi diverse sono illustrate pertanto nelle due immagini: con il “Primo acquerello astratto”, Kandinskij arriva all’astrazione usando una tecnica che consente maggiore rapidità e scioltezza espressiva. L’artista concepisce uno spazio neutro e liquido, in cui forme circolari e segni leggeri galleggiano sulla superfice e sembrano dotati di vita propria. Il campo dell’opera è senza ordine apparente. L’arte si comporta come la musica, non è sottoposta all’obbligo di rappresentazione, è evotica. Vassilij Kandinskij, Composizione VIII (1923) Quest’opera mostra un’architettura delle forme, uno studio delle relazioni tra segni e colori. Ogni figura geometrica ha un ruolo preciso all’interno di un equilibrio generale. Gli organismi fluttuanti del “Primo acquerello astratto” hanno subito un processo di razionalizzazione e geometrizzazione, secondo le influenze Bauhaus. L’artista dagli esordi fondati su una linea liberty alla scoperta del colore in figurazioni espressioniste, giunge alla liberazione istintiva dalla figura e in seguito ad un’organizzazione del colore che non avesse più nulla dello scarabocchio infantile, ma proponesse piuttosto una geometria sofisticata. Il percorso si snoda puntando verso un fine preciso: la perdita dell’illusione di profondità, la fine del quadro- finestra. Kasimir Malevic (R.) Le opere di Malevic sono state lungamente nascoste dal regime sovietico. Solamente per un caso fortuito un gruppo di quadri di quest’artista è proprietà del museo di Amsterdam: l’artista si era recato a Berlino con i suoi lavori che dovevano essere esposti in tournèe in Germania. Un telegramma lo costrinse a ritornare in patria, dalla quale non riuscì più ad uscire. Una parte delle opere lasciate su solo tedesco fu distrutta o dispersa a causa del regime nazista, mentre la parte residua fu acquistata dal museo olandese. Sua fu la regia delle due mostre più importanti del periodo, Tramvai V e 0.10, che sancirono la nascita e l’eclissi del futurismo russo. Nel 1915 pubblicò il suo primo testo programmatico “Dal Cubismo al Suprematismo”. Retrodatò molte sue opere per avvalorare la sua supremazia. Il suprematismo (R.) Nei disegni che rappresentano il passaggio al suprematismo sono evidenti superfici colorate ben definite, rettangoli e un quadrato nero. La scenografia era costituita da un quadrato nero su un fondo bianco, ripetuto poi in un quadro del 1915 per l’Astrattismo geometrico che Malevic definì Suprematismo: un termine che voleva significare la distanza rispetto al Naturalismo e il necessario contatto dell’arte con una sovrarealtà spirituale. I suoi quadri del periodo suprematista si presentano come oggetti in sé, la cui intenzione è quella di suscitare sensazioni superiori a quelle dettate dai sensi fisici. Il quadro deve proporsi come fonte di emozioni e non di immagini illusorie. Nelle sue opere presero così a danzare forme geometriche semplici, senza sfumature di colori, correlate tra loro da rapporti armonici. Se queste sue forme rappresentano qualcosa, si tratta dei pensieri e dei ritmi della mente, è ciò che si trova una volta che si puntino i nostri i nostri occhi spirituali verso il mondo interiore e non verso quello esterno. L’elemento simbolico è fortissimo: cresciuto a contatto con l’arte religiosa, Malevic conservò il ricordo della sintesi estrema presente nelle decorazioni artigianali: la stessa sintesi che era propria delle icone, il tipo di pittura più comune al quale si ispirarono prima il “Quadrato nero su fondo bianco” e in seguito “Quadrato bianco su fondo bianco”. Lo stile suprematista trovò adepti che entrarono a far parte dell’associazione “supremos”. Dopo la guerra Malevic sviluppò le sue teorie, concepì una dilatazione tridimensionale dei quadri a scopo architettonico: nacquero così sculture dette architektony e i disegni preparatori detti planety. Si trattava di progetti di architetture abitative sopraelevate, spesso in forma di aereo da collocarsi persino sopra la terra. Il fine doveva essere quello di garantire attraverso nuove forme abitative per la collettività, anche una sensibilità umana più vibrante. Questo balzo in avanti di un’immaginazione a sfondo utopico non fu gradito ai vertici sovietici: dopo l’ascesa di Stalin al governo la parola d’ordine in fatto d’arte fu per opere direttamente propagandistiche. Negli stessi anni, dunque l’Astrattismo si trovò combattuto sia dalla Germania nazista sia dall’Unione Sovietica, in favore di stili più rassicuranti e conservatori. Malevic perse tutti gli incarichi. Dal 1935 fu interdetta la visione delle sue opere in Unione Sovietica fino al 1962. I quadri dell’ultimo periodo tornarono a una forma di realismo classicista ed è difficile giudicare se ciò sia stato frutto di un ricatto politico. Risulta ancora più strano che egli abbia preso a firmare le sue opere con un piccolo quadrato nero su fondo bianco, ricordo della sua opera più radicale. Queste contraddizioni sembrerebbero confermare che Malevic non tornò alla figura per una decisione autonoma ma in seguito a qualche forma di costrizione. Kasimir Malevic, Quadrato nero su fondo bianco (1915) una società che combini due elementi di equivalente valore, il materiale e lo spirituale. Una società di armoniose proporzioni. Tali convinzioni subirono un urto indelebile con l’avvento della seconda guerra mondiale e il trasferimento a New York dove l’artista maturò un’avversione ancora più decisa che in precedenza per il Surrealismo. Piet Mondrian: l’astrazione a partire dall’albero Se si segue lo sviluppo della pittura dell’artista se ne ottiene una visione progressiva verso l’astrazione. Esemplari sono le sue ricerche intorno alla forma dell’albero in cui dal naturalismo si passa ad una sintesi progressiva, fino ad una scomposizione, prima cubista poi astratta, in cui l’albero si perde. Il primo “Albero rosso” (1909 – 1910) mostra chiome arcuate, mentre dal terreno si sprigionano piccole fiamme di fuoco che si riverberano sul tronco e tra le fronde. Le linee curve ripetute e i motivi cromatici diventano elementi decorativi ridondanti sulla superfice dell’opera. Nel successivo “Albero grigio” (1911 – 1912) Mondrian opera un azzeramento cromatico, inoltre le chiome sono tese. E’ evidente il passaggio dalla natura alla geometria. Infine del “Melo in fiore” (1912) non rimane che il titolo in quanto si può appena rintracciare l’infiorescenza dell’albero nella zona centrale del quadro. L’albero diviene un’intersezione di linee verticali e orizzontali, anche se permangono delle linee curve che saranno poi eliminate nelle opere successive. Theo van Doesburg (R.) Van Doesburg decise tardi di proporsi come artista. La sua conversione all’astrazione completa avvenne grazie all’incontro con il connazionale Mondrian. I suoi risultati sono spesso indistinguibili da quelli dell’amico anche se i due vennero presto divisi da una discussione a causa del minore interesse di Van Doesburg per la Teosofia. De Stijl (R.) Van Doesburg fondò a Leida la rivista De Stijl che intendeva diffondere l’Astrattismo in pittura e un atteggiamento razionale nel design e nell’architettura. Esistono una vecchia e una nuova coscienza artistica: la prima si rivolge all’individuale; la seconda, quella nuova, si orienta all’universale: così recitava la rivista che si proponeva di spingere gli artisti a un abbandono dell’individualismo. Al suo posto occorreva perseguire un’ottica di benessere collettivo. Il gruppo De Stijl, dunque, rappresentò un primo esempio di trasposizione nella vita di tutti i giorni dei principi di un’arte in cui il rapporto mistico tra arte e numero si fa anche principio logico e teso a fini pratici. La rivista riuscì a diffondere una poetica che valorizzava la semplicità funzionale delle forme e di qui anche il rapporto con l’industria sulla scorta dei principi dell’Art Nouveau e anticipando quelli del Bauhaus. Il Bauhaus (R.) A Weimar cominciarono a circolare volantini che contenevano il manifesto- programma di una nuova scuola fondata nella cittadina tedesca. La città era parsa la sede adatta per costruirvi una Scuola d’arte di concezione nuova, in linea con le aperture del momento sia nel campo dell’arte, sia in quello della politica. Il Manifesto e programma del Bauhaus statale di Weimar fu curato da Gropius nel 1919. Sulla copertina c’è una xilografia di Feininger dal titolo Cattedrale, che raffigurava una cattedrale superata da una torre e tre raggi luminosi corrispondenti rispettivamente alla pittura, scultura e architettura. Le tre stelle indicano il rapporto strettissimo tra queste arti. Il Bauhaus a Weimar (R.) L’istituto nasceva per volontà dell’architetto Gropius. C’era la volontà di unificare il campo dell’artigianato e quello della pittura e della scultura considerato più alto, quindi staccato da ogni possibile fine pratico. Alla scuola venne dato il nome Bauhaus, inversione della parola tedesca Hausbau (costruzione di case), proprio a sottolineare l’intento di non dividere alcun aspetto della produzione artistica riunificando architettura, progettazione e belle arti. Nella sua prima formulazione tutti gli studenti dovevano seguire un corso semestrale propedeutico in cui studiavano i principi della forma e del colore, venivano a contatto con numerosi materiali ed erano incoraggiati a trovare una propria via creativa. Dopo questo semestre la selezione era durissima: anche per questo il Bauhaus ebbe sempre un numero di studenti limitato. Dopo i primi sei mesi gli studenti rimasti dovevano frequentare dei laboratori sul lavoro del legno, del metallo e altri materiali. Gropius riuscì a mettere insieme un novero di insegnanti notevole: Itten, un astrattista che insegnava soprattutto i rapporti tra la scala cromatica e quella dell’evoluzione spirituale. Nell’attività didattica stimolava la creatività dei ragazzi, invitandoli a esercizi di scrittura e disegno automatico, con l’intento di liberare le loro forze interiori nascoste. Convertitosi al culto esoterico della Mazdazhan che propugnava un’unione tra le forze del corpo e quelle della mente, incominciò a rasarsi la testa e a pretendere che l’intera scuola seguisse le regole dettate dal culto. Questo suo credo si trovò presto in contrasto con il razionalismo di Gropius: ne nacque una rottura per cui la sua cattedra fu presa da Moholy-Nagy. Fotografo, scultore e designer, egli era attratto da tutte le pratiche sperimentali che avvicinava con spirito scientifico. Il suo libro “Dal materiale all’architettura” dimostra il suo approccio rigoroso all’insegnamento e anche la sua preoccupazione di rendere l’arte un aspetto utile alla convivenza civile. Impostò la sua arte ad una sperimentazione meccanica basata sull’interazione tra luce, oggetto e movimento, nel tentativo di coinvolgere direttamente il pubblico. Tra gli insegnanti destinati a dettare le linee teoriche Gropius accolse Kandinskij, Klee e Feininger. Quest’ultimo, trasferitosi a Parigi e giunto in contatto con il circolo dei Cubisti, sviluppò un proprio stile in cui le forme naturali diventavano prismi e figure ritmiche. Al Bauhaus introdusse gli allievi alla tecnica della xilografia. Stolzl resse il laboratorio di tessitura, al quale poi lavorò Anni Albers. Josef Albers fu incaricato di insegnare un vasto spettro di discipline: decorazione su vetro, tipografia, architettura di interni. Nel frattempo sviluppò una sua pittura fondata sulle variazioni di colore e di ritmo in griglie geometriche più o meno fitte, ispirate alla musica e allo studio delle strutture primarie. Solo dopo iniziò a trasporre ad olio su tela dando inizio alla sua serie più famosa di “Omaggi al quadrato”, dove il colore è fattore di illusione percettiva. Proprio per questo egli scriveva sul retro dei suoi quadri il tipo di colore usato e la percentuale della sua diluizione. Albers considera il quadrato, per la purezza della sua forma, svincolato da contenuti emotivi. Il Bauhaus a Dessau (R.) Nel 1924 la scuola fu spostata nella città di Dessau. La nuova architettura basata su moduli cubici, estremamente logici e semplificati, era un manifesto della razionalità e dell’abbandono di ogni forma di accademismo, di ornamento non corrispondente alle forme interne della struttura. A questo punto la scuola cambiò anche parte dei suoi presupposti aumentando lo spazio dato al design e diminuendo quello dedicato a pittura e scultura. Le menti più lucide del paese dovevano partecipare alla ricostruzione industriale della Germania. Fu così che nacquero in quell’ambiente alcuni degli oggetti di design ancora oggi più noti e prodotti: molte sedie tra cui la Vasilij, disegnate da Breuer in stoffa e tubolari di ferro. Già nel 1923 era stata presentata la Casa am Horn: un prototipo di abitazione su progetto dell’architetto Muche, influenzata dall’estetica architettonica elaborata dal gruppo De Stijl. Vi venivano ripensati gli ambienti e le loro funzioni: grandi finestre e terrazze inducevano a un rapporto sempre più integrato tra interno e esterno dell’ambiente. Il primo docente del dipartimento architettura del Bauhaus fu Meyer che venne designato successore di Gropius si ritirò. Sotto la direzione di Meyer si accentuò ancora di più l’aspetto pratico della scuola. Nel 1930 essa venne trasferita a Berlino e la direzione passò all’architetto Van Der Rohe che la concepì come una scuola privata in grado di sostentarsi vendendo parte della produzione interna. Tuttavia l’idea attorno alla quale il Bauhaus era nato, l’integrazione di arte e vita e l’esigenza di diffondere a livello popolare le scoperte più elevate dello spirito, sopravviveva con troppa forza per non risultare fastidiosa agli occhi del Nazionalsocialismo. Le divisioni interne furono uno specchio esasperato di opposizioni politiche che anno dopo anno, sottrassero al Bauhaus la sua atmosfera di gioia, i mezzi di sostentamento e infine il permesso stesso di mantenere aperto l’organismo. Finiva così la scuola più famosa del XX secolo con un’emigrazione in massa dei migliori talenti verso gli Stati Uniti e con un doppio lascito morale: da una parte l’invito a concepire l’attività artistica come qualcosa che non si oppone ma fortifica la democrazia, dall’altra parte l’invito a una sperimentazione continua e interdisciplinare. CAPITOLO 7 Il Dadaismo, rivoluzione totale Fra tutte le avanguardie storiche il Dadaismo fu la più radicale; nacque in tempo di guerra, contro la guerra e contro tutta la cultura che l’aveva colore luminosi come nel “Quadro con centro di luce”, dove riuscì ad ottenere una sintesi tra l’estetica cubo-futurista e la protesta dadaista. Le sue composizioni di oggetti trovati si pongono alla radice di operazioni del Secondo Dopoguerra. Kurt Schwitters, Merzbau Schwitters inventò l’opera ambientale, cioè egli dilata il suo “quadro” in tutta la stanza che lo ospita. L’artista iniziò ad occupare il suo studio con una colonna centrale, che poi divennero tre. Nel giro di vent’anni questo ambiente divenne un luogo in cui Schwitters depositava i propri gesti e i propri oggetti più cari. La struttura crebbe in maniera disordinata, ma l’autore riusciva a distinguervi diversi spazi chiamati con nomi diversi. Questo labirinto percorribile si presentava come una gigantesca rappresentazione della mente. Il Merzbau venne raso al suolo a causa della guerra e le ricostruzioni tentate dallo stesso artista non ebbero più il medesimo fascino. Dada a New York (R.) A New York un gruppo di artisti ha incominciato a operare in uno spirito simile a quello Dada. Il loro luogo di ritrovo era la piccola galleria “291”, diretta da Stieglitz. La galleria era frequentata da giovani come Duchamp, Ray e Picabia. Si data l’emergere di uno spirito dadaista a New York attorno al 1915, ma un evento precedente consente di anticiparne ancora la nascita, l’Armory show, la prima vasta rassegna informativa che portò l’arte delle avanguardie europee in America. Picabia era stato un pittore prolifico e di diversi stili: neoimpressionista, fauvista, cubista ed astrattista. Anche nel seguito della sua vita avrebbe poi continuato a mutare il suo modo di dipingere, fino a fare quello dello spostamento tra gli stili una sorta di stile personale. A New York iniziò i suoi lavori ispirati al mondo delle macchine dove si mescolavano ruote, manovelle e ingranaggi: tutti questi meccanismi da una parte irridevano al culto della macchina, dall’altra alludevano a rapporti sessuali. L’opera più nota di questa serie è “I see again in Memory of My Dear Udnie”. Uno dei contributi più importanti di Picabia al Dadaismo è stato l’avere fondato nel 1917 la rivista itinerante “391”. Essa fu un luogo di incontro e di collegamento tra i differenti gruppi dadaisti, che anche attraverso questa pubblicazione, riconobbero di avere una matrice comune benchè fossero nati in luoghi diversi. Nel 1924 scrisse la sceneggiatura per il film di clair “Ent’Acte” che segnò il suo distacco dal movimento. Dagli anni trenta recuperò progressivamente uno stile realista. Man Ray Ray si dedicò al design e alla fotografia. Il suo incontro con Duchamp sfociò in un’amicizia e in una collaborazione di lavoro: anche per questo le sue sculture più note, gli “Oggetti d’affezione” erano vicini ai ready-made di Duchamp. Una normale baguette di pane viene ad esempio dipinta di blu, colore che non si annovera in natura tra le cose commestibili. Il titolo dell’oggetto è “Pain Bleu”, cioè “pane blu”, ma storpiando un pò la pronuncia, anche uno stupefatto (parbleu = perbacco), oppure il gioco è un paradosso visivo: “Cadeau” (regalo), è un ferro da stiro al centro della cui base sta saldata una fila di chiodi, che lo rendono inservibile. Il tema del mistero appare nell’ “Enigma di Isidore Ducasse”: questo era lo pseudonimo del Conte di Lautreamont, amato dai Dadaisti per l’ambiguità dei suoi aforismi. Ray ne trasse ispirazione per fotografare un involucro da lui preparato e legato con delle corde, un pacco inaccessibile che, appunto, doveva contenere la soluzione dell’enigma. L’ “Oggetto da distruggere” è un metronomo alla cui asta è stata fissata la fotografia di un occhio: l’allusione è al controllo ossessivo da parte di chi ci osserva al tempo della vita che batte e scade, forse anche allo sguardo divino, rappresentato nell’iconografia tradizionale da un occhio singolo. Come fotografo Ray portò alla luce tutte le possibilità di sperimentazione, facendo ritratti di sculture che valevano come opere in quanto tali: non dunque in quanto riproduzioni ma come produzioni dotate di una loro specifica autonomia. Sul piano tecnico la sua proposta più importante furono le cosiddette Rayografie, fotografie ottenute appoggiando oggetti sulla carta fotosensibile ed esponendoli alla luce per qualche istante. Questo procedimento era nato con la fotografia stessa ed era piuttosto comune dei fotografi già nel XIX secolo. Il merito di Ray consistette nell’avere proposto al pubblico le immagini così ottenute non più come fenomeni per stupire ma al pari di componimenti pittorici. Marcel Duchamp Il lavoro di Duchamp fu provocatorio ma anche complesso e denso di riferimenti a quella stessa tradizione artistica di cui fu critico. Cambiò il corso dell’arte contemporanea con le sue opere ma anche con l’attivissimo silenzio che ne caratterizzò gli anni maturi: dopo aver ammesso che, come artista, non aveva più nulla da dire, fu guida per altri artisti, critici e curatori di museo. Fu autore di dipinti, oggetti detti ready mades, fotografie in cui chiedeva a Ray di ritrarlo, dischi in movimento detti Rotorelief e l’installazione ambientale “Essendo dati 1) il gas 2) la cascata d’acqua”. Tutte le sue opere sono connotate da titoli a doppio senso che si presentano nella forma di giochi linguistici. Il nudo che scende le scale (R.) I suoi esordi come cubista non ebbero successo, ma il suo “Nudo che scende le scale”, esposto all’Armory Show suscitò polemiche: dipingere un nudo in movimento era rivoluzionario, in quanto privava il corpo dell’aura sacrale conferitagli dall’immobilità; se il nudo classico e fermo non desta alcuno scalpore ed è anzi, parte del vocabolario consueto dell’arte, il nudo in movimento diventa un segno irriverente. Resosi conto dei limiti dei linguaggi artistici convenzionali decise di affiancare queste pratiche ad altre, meno connotate dai legacci imposti da tradizioni secolari. Fontana (1917) (R.) Fu in questo spirito di innovazione tecnica che nacque “Fontana”; l’artista inviò a una mostra un orinatoio maschile prodotto in serie, che ribaltò appoggiandolo sulla parte più larga, intitolandolo Fontana e firmandolo con lo pseudonimo R. Mutt. La società degli Artisti Indipendenti di New York si rifiutò di esporre l’opera, ma questa ebbe ugualmente una grande risonanza. Presentare un orinatoio rovesciato significava, infatti, molte cose: portare l’accento sull’importanza che stavano rivestendo gli oggetti di produzione industriale nella vita comune, ma soprattutto mettere in evidenza di quanto conti il contesto espositivo per trasformare un manufatto qualsiasi in un’opera d’arte. Tutte questioni complesse a dispetto dell’apparente disarmante semplicità della Fontana. I ready – made (R.) Duchamp aveva già proposto operazioni di questo genere che definiva ready - made. Il primo oggetto di questa serie risale al 1913 ed era una “Ruota di bicicletta” montata al contrario su uno sgabello. L’opera si faceva beffe della struttura tradizionale delle sculture celebrative, dal momento che la base era incarnata da uno sgabello da cucina, e la statua era sostituita con una ruota privata della sua funzione; il movimento assumeva poi un significato dissacrante, dal momento che la possibilità da parte dello spettatore di fare girare la ruota toglieva alla scultura la sacralità di ciò che è immobile e non si può toccare. Quest’opera può essere messa all’origine dell’arte cinetica e interattiva, basata sulla partecipazione attiva dello spettatore. Duchamp divise i suoi ready - made in due categorie: da un lato stavano quelli rettificati, ovvero modificati in qualche particolare dal suo intervento, dall’altro gli oggetti che lasciava intatti, ricollocandoli soltanto in un contesto differente da quello originario. È il caso dello “Scolabottiglie”, acquistato e portato così com’era in una sede espositiva. Questa seconda categoria portava le sue provocazioni verso un nodo ancora diverso. Dall’Impressionismo in poi, infatti, erano nate gallerie, mostre periodiche, musei che oggi potremmo definire la radice dell’attuale sistema dell’arte. Già allora, quasi ogni cosa che riuscisse ad entrare in questi templi godeva immediatamente dello statuto di arte. Egli sottolineò un’altra questione cruciale: chi è l’autore dell’opera, colui che la esegue o colui che le attribuisce un valore? Duchamp distinse i suoi ready mades dagli object trouvès, gli oggetti di cui stavano iniziando a servirsi sempre più artisti: questi ultimi, venivano scelti per le loro qualità estetiche, evocative, mentre Duchamp sceglieva gli oggetti sulla base di un principio che definì di indifferenza visiva: ciò che contava non era la storia dell’oggetto, ma il fatto che esso venisse privato del suo normale valore d’uso per assumerne uno diverso. La poetica di Duchamp (R.) Si può leggere l’intera poetica di Duchamp come un dialogo dissacrante contro le convenzioni della storia dell’arte. L’orinatoio è stato visto anche come un grembo materno con connotazioni androgine, come un’unione di forme maschili e femminili. La stessa parola R. Mutt con cui è firmato, propose come obiettivo del movimento quello di coniugare la ribellione morale portata dal pensiero psicoanalitico di Freud con la ribellione sociale proposta dal pensiero di Marx. Le prese di posizione politica dei singoli aderenti, pro o contro il Comunismo, furono la causa più importante di divisione interna del gruppo Le tecniche e le attività del gruppo (R.) L’obiettivo dell’arte surrealista era quello di fare uscire allo scoperto un tipo di sapere capace di esprimere le complessità della psiche umana. A questo puntava la pratica collettiva dei cadavres exquis: il gruppo si disponeva intorno a un tavolo; un membro incominciava a disegnare poi ripiegava la carta e passava il foglio al vicino perché proseguisse il disegno senza sapere cosa precedeva. Risultavano immagini incomprensibili che erano insieme frutto del caso e dell’atmosfera psicologica in cui il gruppo aveva lavorato. Dal punto di vista tecnico queste premesse si espressero in due diversi filoni: da una parte una pittura fatta con mezzi tradizionali che aveva soggetti onirici, che conteneva sempre degli elementi incongrui rispetto alla rappresentazione della realtà. Dall’altra parte stavano tecniche non tradizionali tese a creare nell’artista uno stato di accesso ai propri contenuti inconsci. Fu importante la tecnica della scrittura automatica o automatismo psichico, che consisteva nel lasciare che il pennello o la penna disegnassero senza progetto, senza controllo, senza una guida mentale imposta al movimento della mano; né vennero sottovalutati altri mezzi scoperti dal Dadaismo come il collage, il fotomontaggio, l’assemblaggio di oggetti. La prima mostra collettiva di pittura surrealista ebbe luogo nel 1925 alla gallerria Pierre di Parigi nella quale vi esposero Arp, Ray, Picasso, De Chirico e Klee: un gruppo composito che attingeva a movimenti diversi. Altre esposizioni salienti furono tenute nel 1938 dove ciascun artista assemblò tra l’altro, un identico manichino femminile in maniera diversa e nel 1942, dove Duchamp riempì un salone antico di una ragnatela di fili che era anche metafora della difficoltà di capire l’arte moderna: per vedere i quadri i visitatori dovevano infatti infilarvicisi e attraversarla. Max Ernst (R.) Ernst visse dapprima un’esperienza espressionista e poi partecipò al Dadaismo. Si unì nel 1922 al gruppo surrealista. La cifra che caratterizza l’opera di Ernst è l’associazione improbabile e inattesa di elementi disparati, al fine di far emergere implicazioni erotiche, magiche o dissacratorie. Quest’ultima componente è molto chiara in un’opera-manifesto come “La Vergine che sculaccia il Bambino Gesù davanti a tre testimoni”: Breton, Eluard e lo stesso Ernst, cioè coloro che sarebbero stati promotori del Surrealismo, assistono da una finestra a una scena di vita quotidiana che rientra nei dogmi cristiani di Gesù-vero uomo oltre che figlio di Dio, ma che mai altro pittore aveva ritratto. il Surrealismo, dunque, parlava anche di ciò che la cultura dominante comunemente occulta. Ernst poi dipinse “L’elephant Celebes”, ispirato da un recipiente sudanese, trasformato in una specie di elefante con una testa da minotauro picassiano e una cresta fatta di materiali per disegno, ispirata a De Chirico. In basso è rappresentato un nudo femminile decapitato. Ernst si dedicò anche ad assemblaggio di oggetti e a collages ottenuti ritagliando le incisioni di romanzi illustrati, in modo da conferire un senso oscuro a immagini nate come prevedibili e melense. Introdusse per primo il frottage. Ciò che emerge da questa tecnica sono superfici screziate che possono risultare evocative per l’immaginazione di chi guarda. Negli anni 40 si trasferì negli Stati Uniti per un lungo periodo, dove intrecciò relazioni importanti. Si dedicò anche alla scultura con materiali tradizionali: creò prevalentemente in bronzo, esseri totemici come “Il Re che muove la regina”. Molto intensa fu anche la sua attività retorica: resosi conto della portata storica delle innovazioni tecniche dada-surrealiste, la descrisse nel saggio Al di là della pittura. Max Ernst, La vestizione della sposa (1939-1940) Nell’opera si alternano parti a frottage su corteccia (i capelli) e parti stese con un pennello morbido. La sposa ha un mantello che le ricopre anche il viso, conferendole un aspetto da civetta; l’uccello è simbolo di chi vede nel buio e dunque della saggezza e dell’eros. L’amore fisico avvicina la sposa allo stato di saggezza che consiste nel comprendere la legge dell’universo. Il quadro assume l’aspetto di un rito di iniziazione alla saggezza e di passaggio verso uno stadio superiore di conoscenza. Una damigella nuda, simbolo di verginità, viene scacciata dalla sposa con una mano e si ritrova a guardare indietro, verso il passato. La fuga prospettica del pavimento a scacchi conferisce profondità alla scena. Un uccello antropomorfo, simbolo del maschio, ha in mano una lancia spezzata che era segno dell’irrevocabilità del legame. Qui però assume anche il carattere di una castità che sta per essere perduta, come dimostra il fatto che la lancia punti verso il pube della sposa. Dietro la sposa sta un quadro che la ritrae quasi identica, ma in un paesaggio naturale. In basso a destra c’è una figura verdastra che ha quattro seni, il ventre gonfio della maternità e genitali maschili. Questa figura è un idolo della fertilità. L’androgino è simbolo dell’unità tra maschio e femmina. Juan Mirò (R.) Una delle tesi dei Surrealisti era che l’arte dei bambini fosse la manifestazione più fertile della mente, non ancora condizionata dall’educazione sociale. Mirò fu influenzato dal Surrealismo e modificò il suo primo stile cubo-realista iniziando a dipingere secondo modalità infantili, ovvero semplificando le forme. Ne “Il Cacciatore” pullulano forme di animali, strutture geometriche, occhi, forme astratte; l’effetto generale è di innocente allegria: una cifra costante di Mirò che ne distanzia la poetica dalle inquietudini di altri surrealisti. Va osservato che in questo come in tutti i quadri maturi di Mirò la superficie è cosparsa da immagini e ideogrammi, disposti senza alcuna gerarchia tra centro e bordi. Questa mancanza di simmetrie e centralità, la pittura a tutto campo definita dai critici all over, sarà una caratteristica fondamentale della pittura americana del dopoguerra. La creazione diventa per Mirò una sorta di gioco combinatorio: le varie immagini si mettono in rapporto le une con le altre senza un progetto preliminare. Mirò mantenne una sua anatomia dal gruppo surrealista. In un ciclo di grandi pitture a olio, queste sono quasi sempre coperte di un colore piatto, sulle quali talvolta si adagia un secondo strato di colore diverso. Egli fu anche uno dei primi artisti a criticare aspramente il sistema commerciale dell’arte. Nell’età più avanzata ebbe interesse per la scultura in bronzo e per la ceramica. Nel corso della sua prima visita negli Stati Uniti eseguì un murale di ceramica che fu il primo di una lunga serie: il più noto è quello eseguito nel 1956 presso la sede dell’UNESCO a Parigi, ma altri decorano la Harvard University, l’aeroporto di Barcellona e altre sedi: a partire dagli anni Settanta, l’artista si dedicò con sempre maggiore impegno a opere monumentali concepite per lo spazio pubblico. Salvador Dalì (R.) Dalì giunto a Parigi si legò al gruppo surrealista elaborando uno stile fondato su un immaginario. In “La persistenza della memoria” vediamo un paesaggio desolato, probabilmente ispirato a Port Lligat, il tratto di costa spagnola dove scelse di abitare dal 1930. Gli orologi si sciolgono come in un’improbabile dilatazione del tempo. Uno di essi si posa su un autoritratto che riconosciamo come tale in quanto riprende l’immagine di un quadro precedente: “Il grande masturbatore” dove il viso deformato dell’artista è assediato da un gigantesco insetto che lo succhia e viene rappresentato come un’architettura fantastica la cui unità si divide in figurazioni diverse: un fiore bianco, il busto di una donna, i fianchi di un uomo-bambola. In “Sogno causato dal volo di un’ape” un elefante ha gambe di ragno e una tigre nasce da un pesce a sua volta nota da un melograno. In altre opere come “La Venere a cassetti”, questo genere di trasformazioni oniriche è trasportato sul corpo dell’arte classica. Un tratto personale di Dalì fu il modo in cui utilizzò il proprio esibizionismo. Autoritratti e fotografie lo ritraggono vestito in modo appariscente con piccoli baffi rivolti in alto, capelli impomatati, sopracciglia ridisegnate. Renè Magritte (R.) Magritte visse la maggior parte della sua esistenza a Bruxelles comportandosi come un tranquillo borghese. Gli uomini con bombetta che ha ripetuto tante volte nei suoi quadri sono una sorta di autoritratto semplificato. In realtà la sua esistenza tranquilla non era che una difesa da un dramma vero: quando aveva 14 anni sua madre si suicidò e venne trovata annegata con una camicia da notte avvolta sul viso; si spiega così la frequente associazione nei suoi quadri tra donna e mare, nonché di figure avvolte da panni come in “La storia centrale” e “Gli amanti”. Si capisce anche l’identificazione della donna con la bara come nei “D’apres Madame Recamier de David” e “Le balcon de Manet”. Lo affascinava l’idea della possibile trasformazione di un tranquillo borghese, in un personaggio libero c’è un muro; a destra una tenda, dalla cui sommità appare la testa di una statua. L’opera è una citazione di “Ulisse e Calipso” di Böcklin. Una delle prime opere dedicate alle piazze d’Italia è “L’enigma dell’ora”. La tecnica è semplificata e l’attenzione è rivolta alla scena descritta, dove l’assenza di movimento dà l’impressione di un tempo fermo. A conferma di questo c’è la presenza di un’architettura classica, non databile, né riferibile ad un certo luogo. La serie delle Piazze d’Italia è connotata da spazi teatrali, in cui l’esistenza appare più recitata che reale. Gli spazi sono definiti da prospettive multiple con punti di fuga incongruenti tra loro: così l’occhio di chi osserva è impegnato in un’inquieta ricerca del giusto ordine in cui disporre le immagini. Il ritorno al mestiere In seguito de Chirico cominciò a copiare gli artisti classici invocando la tradizione e prendendo posizione contro le Avanguardie. Egli tornò indietro nel tempo alla pittura rinascimentale e trecentesca ed iniziò a preferire la tempera su tavola all’olio su tela. Alla metà degli anni Venti si spostò a Parigi, ma entrò in conflitto con Breton che non apprezzava le sue ultime produzioni. La produzione successiva agli anni Trenta si divide in due tipologie di lavoro: classicismo baroccheggiante da un lato e variazioni su temi metafisici dall’altro. L’artista morì a Roma. Giorgio de Chirico, Ritratto premonitore di Guillarme Apollinaire (1914) Il titolo dell’opera crea disorientamento, giacchè in primo piano non compare il protagonista, ma un busto antico, mentre Apollinaire è relegato nello sfondo, dipinto di profilo come un’ombra. Sulla sua tempia compare un enigmatico semicerchio bianco. Caso curioso fu che Apollinaire due anni dopo la realizzazione di quest’opera fu ferito in battaglia proprio in questo esatto punto. Degli occhiali neri oscurano lo sguardo del gesso antico, stampi da cucina a forma di pesce e conchiglia sono dipinti su un piano trasversale. La scena stessa sembra racchiusa in una scatola ribaltata, sulla quale si affaccia la figura del poeta. Inoltre la negazione della prospettiva e di qualsiasi rapporto di proporzione tra le parti, rendono ancora più oscura l’immagine. Il busto antico è una citazione greca che allude alla fonte mitica della poesia e alla figura del poeta – veggente, cantore di realtà non conoscibili attraverso i sensi (per questo è accecato). Il pesce e la conchiglia indicano il rapporto con il mare, che per l’artista si salda al ricordo della Grecia e dell’Italia. Giorgio de Chirico, Le Muse inquietanti (1916) L’opera mostra una piazza sul cui fondo compare il castello estense di Ferrara, ma anche una fabbrica con due ciminiere. Sulla destra, un palazzo ad arcate rievoca l’architettura classica. Medioevo, Rinascimento e tempi recenti così si mescolano tra loro, allo stesso modo in cui si uniscono, nelle opere di de Chirico, i riferimenti alla storia dell’arte e alla vita comune. In primo piano c’è una scatola multicolore che ricorda quelle fatte per contenere i dolciumi. In quest’opera Ferrara è solo il simbolo di una città che ebbe una corte, un potere, ma che ora è ridotta a involucro della propria memoria. L’immagine è costruita per dare lo spazio di una rappresentazione mentale: l’orizzonte, innaturalmente alto, pare far posto ad un palco teatrale. I colori e le ombre allungate alludono ad un crepuscolo estivo; questo è una metafora del tramonto di un’intera cultura, simboleggiata dalle sculture e dall’ambientazione. Le due figure in primo piano sono incroci tra differenti tradizioni: quella in piedi mostra una testa da manichino sartoriale innestata su una schiena muscolosa da statua classica e su una veste che ricorda una colonna dorica; quella seduta ricorda alcune figure di Picasso. La sua testa è svitata e accostata alle gambe. Al tramonto dell’Occidente le Muse recano disorientamento ed inquietudine. Alberto Savinio (R.) Legata a quella di De Chirico è la figura del fratello Alberto Savinio (pseudonimo di Andrea de Chirico). Egli si dedicò solo in un secondo momento alla pittura. Fu soprattutto la sua attività di scrittore ad influenzare la corrente metafisica. La sua pittura è abbastanza vicina a quella dei Surrealisti. Nelle sue opere assume un ruolo fondamentale la mescolanza tra ricordi sia colti che intimi. I personaggi umani assumono teste di animale come accade ne “La sposa fedele”, una Penelope che sembra attendere il suo Ulisse guardando il mare da un poggiolo. Il mare greco e i segni di un’infanzia lontana compaiono anche ne “La nave perduta”, dove viene toccato un tema ricorrente di Savinio: cose di casa e giocattoli i quali ammassati, posti fuori dal loro contesto usuale e aumentati di volume, assumono l’aura monumentale che si assegna alle memorie incancellabili. Le sue opere si caratterizzano per una trasgressione dei rapporti dimensionali. Quanto alla tecnica pittorica Savinio conferiva ai molteplici strati dell’opera, dal disegno alla superficie dipinta, una tecnica fatta di sovrapposizioni di segni policromi. Il periodo metafisico di Carlo Carrà (R.) Dopo una breve carriera futurista Carrà si staccò da quel movimento per cercarne l’opposto, l’immagine statica. Nel 1916 dipinse l’“Antigrazioso”, un dipinto che riprende in maniera polemica un titolo di Boccioni e mostra un atteggiamento opposto al dinamismo avventuristico. L’opera “Camera incantata” condensava molte suggestioni tipiche di Carrà: scatole chiuse e aperte accumulate in primo piano e ribaltate verso l’osservatore, la camera stessa concepita come il fondo di una scatola più grande, dove sono ammucchiati alla rinfusa oggetti di vario tipo. Carrà dispiegava il repertorio degli oggetti metafisici: lo stampo da pesce, i machini, ami e canne da pesca, solidi geometrici e strutture di misurazione; elementi oscuri nel significato, nella loro relazione e nella motivazione a trovarsi tutti insieme in queste stanze. Fra i quadri dipinti si ricorda anche “Idolo ermafrodito”, che riprende le tematiche del manichino, dell’uomo senza tempo e della mitologia. Vi si osserva un fantoccio di pezza sproporzionato, collocato in un ambiente troppo piccolo e dunque opprimente, evoca per la mancanza di genitali e per il saluto benedicente la figura di un angelo. Questa allusione alla sfera divina e all’atto dell’Annunciazione però si oppongono alla dimessa atmosfera dell’ambiente. CAPITOLO 10 L’Arte tra le due Guerre (R.) Con il boom economico favorito dai grandi investimenti per la ricostruzione postbellica il mercato dell’arte conobbe un momento di grande euforia. La floridezza economica si riflesse in una produzione più figurativa e conservatrice. È singolare che gli artefici del nuovo cambiamento fossero spesso gli stessi delle avanguardie storiche e che il fenomeno abbia coinvolto tutto il mondo. La conversione al Realismo ebbe alcune caratteristiche comuni: • Si diffuse in tutte le aree in cui precedentemente si erano affermate le Avanguardie • Non fu legata a una posizione politica precisa, ma a un desiderio comune di guardare l’arte del passato • Diede del mondo una visione apparentemente serena, ma nel profondo melanconica e inquieta • Fu del tutto spontanea Da “Valori Plastici” al Realismo Magico in Italia (R.) L’Italia ebbe un ruolo decisivo nel ritorno all’ordine internazionale. Nel 1918 il pittore Broglio fondò la rivista Valori Plastici che ne consentì una buona diffusione in Europa. Il concetto su cui si fondava Valori Plastici era il recupero del grande patrimonio classico. Le proposte di Valori Plastici culminarono in una mostra organizzata a Berlino nel 1921 dal titolo “I giovani italiani”, che diede al critico Roh l’occazione di coniare l’espressione Realismo Magico. Vi parteciparono Carrà e De Chirico tra gli altri. Negli anni 20 soprattutto in Germania e in Italia, la formula del Realismo magico ebbe molta fortuna: un ossimoro termini in apparenza contraddittori, che stava ad indicare una pittura dai soggetti reali eppure resi misteriosi soprattutto dalla loro staticità trattenuta. La corrente espresse queste sue prerogative decisamente contrarie a quelle che avevano informato le Avanguardie degli anni 10 e da De Chirico: questo era stato un sostenitore dei futuristi ma fu pronto a seguire le evoluzioni successive dell’arte italiana. Novecento Italiano Novecento Italiano nasce nel 1923 con sette pittori e la mostra presso la galleria privata milanese di Lino Pesaro. I sette artisti sono: Bucci, Malerba, Dudreville, Marussig, Oppi, Funi e Sironi. L’organizzatrice di questo gruppo era la critica d’arte Sarfatti. L’ascesa di Mussolini, di cui lei era amica, coinvolge in parte anche le sorti del movimento. La prima mostra del Novecento Italiano fu allestita nel 1926 al Palazzo della Permanente di • L’importanza del gesto di dipingere come espressione diretta dell’esperienza dell’artista. L’action painting Il termine dripping significa sgocciolamento: dal pennello o da barattoli pieni di colore l’artista lascia scendere gocce che avvolge in grovigli. La superficie da dipingere, tela o cartone, spesso di enormi dimensioni, viene disposta a terra e lavorata su tutti i lati. Il segno proviene dall’azione di tutto il corpo dell’artista: il colore scende libero e governato dalla gestualità del braccio. Da questa tecnica deriva la definizione di Action Painting. Lo spazio non presentava centro e l’immagine suggeriva una sua possibile continuazione oltre i bordi. Questo si intende per pittura all over, cioè a tutto campo. Il dipinto nasceva come dichiarazione di una visione della propria interiorità, ma anche del mondo esterno, come ambito d’azione per pulsioni e forze violente. Gli action painter fanno una ricerca introspettiva dell’esplorazione dell’io. Il legame tra artista ed opera è strettissimo. Jackson Pollock Pollock si formò alla scuola di Benton dove apprese una pittura statica, realista e precisa da cui si discostò completamente. Dopo disegni giovanili ispirati a Michelangelo, nei suoi dipinti apparvero teste stravolte, agglomerati scomposti di natura, brandelli di corpi o presenze totemiche. Egli aderì alla psicoanalisi dello psichiatra Jung, secondo il quale l’umanità condivide, nel suo inconscio collettivo, degli archetipi che hanno uno stesso significato per tutti. Inoltre Pollock era attratto dall’arte degli indiani d’America, in particolare dalle pitture di sabbia colorata dei Navajo. Dal 1947 in poi iniziò ad ingigantire i pennelli e a staccarli dalla tela. Per dipingere l’artista usava rotoli di cotone da vela, smalti industriali e vernici direttamente dal barattolo, servendosi di pennelli, stecche o siringhe. E’ il corpo dell’artista a determinare le linee della composizione. Queste tecniche erano state già utilizzate dai Surrealisti, ma fu Pollock che ne sfruttò la massima potenzialità. Inoltre fondamentale è la componente dell’improvvisazione: la tela diviene uno spazio in cui lasciare agire l’inconscio e il pulsare del ritmo vitale. Un artista come Pollock non ha una tela posta su un cavalletto, ma lo stesso artista è dentro la tela e ci può camminare dentro. La sua tecnica, cioè il dripping, era già stata avviata da Ernst. La pittura di Pollock non nasce dal caso ma da una necessità. L’artista esplora se stesso attraverso l’arte, assorbe ed espande i materiali che utilizza in maniera istintiva. Un critico disse che “l’azione di Pollock è direttamente arte”. Harold Rosenberg, critico d’arte che coniò tra l’altro il termine “action painting” nel 1952, affermò che “la tela non era più dunque il supporto di una pittura, bensì un evento” e “l’action paiting ha la stessa metafisica sostanza dell’esistenza dell’artista: la nuova pittura, insomma, “ha tolto via ogni separazione tra arte e vita”. Willem de Kooning Anche l’opera di de Kooning fu caratterizzata dal ricorso a una gestualità ossessiva. Nel suo caso, però, la figura non venne abolita e anzi divenne protagonista dei suoi quadri. Egli considerava un quadro mai finito in quanto lo ridipingeva, lo cancellava e lo trasformava continuamente. Nella sua opera più famosa “Woman I” una grande donna seduta occupa tutto lo spazio del quadro e impone il suo seno come una presenza più aggressiva che accogliente. I colori si mescolano direttamente sulla tela in modo rozzo; i contorni sono tracciati con il nero ma spesso vengono cancellati. In “Excavation” e in altre opere il corpo addirittura si frammenta, la tela si popola di gomiti, bocche, ginocchia. De Kooning si servì del quadro come mezzo per esprimere conflitto, disagio e sentimenti. Willem de Kooning, Woman I (1950 – 1952) Per quest’opera l’artista prende ispirazione dal quadro “Les Demoiselles d’Avignon di Picasso. De Kooning però taglia la figura e la ricompone arbitrariamente. Lo scollamento tra le parti della persona, la deformazione, uniti ai colori acidi e violenti, ai segni neri con cui l’artista aggredisce la tela, raccontano una donna moderna che sfida aggressiva, ma anche inquieta e solitaria, l’osservatore. Elementi significativi del dipinto sono i seni ingigantiti, la semplificazione del volto e il ghigno. Quest’opera rende evidente il fatto che la pittura di de Kooning non traccia alcuno schizzo preparatorio, ma risolve le sue opere dipingendo direttamente sulla tela con impasti di colore, su cui interviene con nuovi segni, in un processo creativo continuo. In quest’opera è come se l’artista creasse e distruggesse il corpo per mezzo della sua tecnica pittorica. Franz Kline Kline per la sua produzione scelse un Astrattismo dai toni drammatici: nei suoi quadri sciabolate di nero si stagliano su un fondo bianco, generando un violento contrasto e dando la sensazione di un conflitto. Nelle sue tele c’è la predominanza dell’azione diretta dell’artista. Il Color Field Non tutto l’Espressionismo astratto ha avuto una natura gestuale: a molti suoi protagonisti fu congeniale una pittura dall’emotività più controllata. La definizione per questa corrente è quella di Color Field perché le opere presentano campiture uniformi, piatte e liquide. Mark Rothko Rothko ne fu il rappresentante maggiore. Egli nella sua produzione matura decise di abbandonare la figura e concentrarsi su quelli che erano i fondi su cui dipingeva: stesure monocrome rotte da tre o quattro presenze quadrangolari dai margini sfumati. Il colore è opaco, diverso per spessore da zona a zona. I rapporti cromatici tra le aree sono tali da dare l’impressione che gli spazi avanzino o arretrino; le parti chiare assumono l’aspetto di bagliori e di taofanie, cioè apparizioni divine attraverso la luce. Le opere sono grandissime e verticali, bilanciate nei pesi visivi da un lavoro di studio tra le diverse intensità delle bande; la cura esecutiva si risolve in una sintesi estrema. L’artista dipinse a Houston, in Texas, un’intera cappella. Alle pareti ha apposto quadri di colore scuro, dal viola al nero, al rosso cupo. L’intento di Rothko era quello di generare emozioni attraverso variazioni di toni e colori. Mark Rothko, Rosso, bianco e bruno (1957) Il Color Field si differenzia dall’Action Painting per il mancato accento sulla corporeità e sul movimento. Il dipinto si compone di tre rettangoli sovrapposti di colori diversi. Questi non sono uguali e non hanno margini netti, ma sfumati. La parte di colore più forte è posta in alto. Le forme fluttuano su un fondo rosso e questo le rende instabili. L’occhio cade all’altezza della banda rossa da cui filtra una luce ovattata. Per questo genere di dipinti si può parlare di un senso di religiosità e di meditazione, in contrapposizione all’impulsività agitata di Pollock. L’informale europeo Anche in Europa si sviluppò la ribellione alla forma. Il corrispettivo europeo dell’Espressionismo astratto si differenziò per vari aspetti: il gigantismo americano fu assente; inoltre, le tracce fisiche della guerra sul suolo europeo conferirono all’arte un’impronta maggiormente drammatica; infine gli artisti europei prestarono più attenzione alla materia e a un uso rinnovato degli oggetti comuni. L’informale, termine coniato nel 1951 dal critico Michel Tapiè, si sviluppò seguendo due traiettorie: una valorizzava il segno-gesto ed è quella più vicina all’Action Painting americana, l’altra invece era materica e volta a valorizzare gli scarti, ma anche il colore a olio utilizzato come una pasta densa. L’informale esprime una situazione di crisi. Definizione di informale = la tendenza a liberarsi da schemi figurativi, formali o geometrici, e a risolvere l’urgenza espressiva in pura esplosione di segni, gesti e/o materia cromatica. Si afferma dappertutto in Europa nel secondo dopoguerra senza alcuna base teorica unitaria. La pittura si trasforma così in una modalità di approccio e di conoscenza del reale dinamica e fenomenica, dove anche il caso gioca un ruolo attivo. Il segno – gesto Iniziatore dell’informale è il pittore Wols, pseudonimo dell’artista tedesco Schulze. Nel dipinto “Il battello ebbro”, il cui titolo cita una poesia di Rimbaud, l’artista richiama nella forma un battello o anche una lisca di pesce, uno scheletro pieno di croci aggressive; nei movimenti del pennello si dimostra uno stato di tensione nervosa spasmodica in quanto le pennellate sono veloci, incisive e violente. Il quadro procura un senso di ebbrezza scoperte della scienza. Questo testo fu la premessa per la fondazione del movimento che definì Spazialismo in omaggio all’esplorazione dello spazio. La serie dei Buchi Alla pittura Fontana arrivò partendo dalla scultura e ciò spiega la sua attenzione per gli effetti che muovono la superficie del quadro. Famosa è la serie dei Buchi: la superficie del quadro si riempiva di crateri irregolari come cieli stellati. Il suo gesto sfregiava il supporto tradizionale con l’obiettivo di portare lo sguardo dello spettatore dentro e oltre il quadro. Il fondo può essere di un solo colore, ma anche ospitare pietre e sfumature che movimentano un paesaggio astratto. I grandi ovali denominati “Fine di Dio” rivelano il desiderio di esprimere il mistero della nascita e del ciclo vitale. Il senso della materia come madre potente si coglie nella versione scultorea dei crateri, le “Nature”, palle di terracotta o di bronzo forate da una cavità. Tramite i buchi l’artista vuole dare allo spettatore la possibilità di percepire l’infinito dietro la tela. La serie dei Tagli La serie dei “Tagli” portò la forma ad un’essenzialità minimale. L’artista tagliava la tela talvolta disponendo una ferita nel centro, più spesso eseguendone molte in una serie ritmica di linee. Il fondo può essere bianco, ma anche colorato e dai toni brillanti. I limiti tra pittura, scultura e decorazione sono superati. La luce passa nell’area del taglio dal suo tono massimo allo zero. La semplificazione condusse l’artista a privilegiare la stesura monocroma, che stemperava la violenza implicita nell’atto di lacerare il supporto. Le installazioni ambientali Nel 1949 Fontana creò presso la Galleria del Naviglio di Milano la prima opera ambientale in assoluto che si servisse della luce elettrica: una stanza in cui una lampada nera di Wood dava contorni violacei alle cose e allo spettatore un senso di disorientamento. L’artista inventò anche ambienti labirintici, la cui particolare architettura o decorazione metteva in crisi il sistema percettivo di chi li percorreva. Egli inoltre disegnò, piegando un tubo al neon, un arabesco di luce capace di ricordare i movimenti dei corpi nello spazio. Fontana perseguì l’obiettivo dell’essenzialità. Lucio Fontana, Concetto spaziale. Fine di Dio (1963) Fontana realizzò il ciclo “Fine di Dio” eseguendo 38 tele dai colori accesi, ovoidali e ricoperte di squarci e fori. Le aperture si espandono sulla tela, ma sono racchiuse entro un segno continuo che corre lungo il perimetro della tela stessa. Questa, bucata dal retro in modo che gli orli dei fori risultino sporgenti verso l’esterno, raggiunge la terza dimensione. Le varie incisioni, forature e squarci provocano variazioni di luce e di ombre sulla superficie. La tela sembra alludere e negare uno spazio sacrale, evocato nella forma e nel colore e negato dal gesto distruttivo dello squarcio della materia. La stessa enfasi distruttiva scopre una dimensione oltre i piani tradizionali del quadro, divenendo dunque creativa. Il gesto dell’artista rinnova le riflessioni sull’arte e la concezione dello spazio. CAPITOLO 13 Arte Concreta, Cinetica, Programmata e Optical Dalla metà degli anni 50 iniziarono a nascere movimenti che si contrapponevano all’espressionismo astratto e all’informale. Le reazioni recuperarono le eredità delle avanguardie storiche, portandole a uno stadio più analitico e radicale. Dal Futurismo e dall’Astrattismo geometrico russo, da De Stijl e dal Bauhaus nacque il troncone dell’Arte costruttiva, Cinetica, Programmata e Optical. Dall’eredità del Dadaismo e del Surrealismo si sviluppò il filone Neodadaista, Pop e Iperrealista. Dalle serate futuriste e dadaiste nacquero l’happening e la performance. Dal versante più intellettuale del dadaismo nacquero i diversi filoni dell’Arte concettuale. Astrattismo geometrico o Arte Concreta Van Doesburg usò l’espressione “arte concreta” al posto di Arte astratta: cioè arte che produce oggetti, non riproduce la natura e neppure astrae da essa, perché si pone come un’estetica che non ha legami con la natura esteriore né con i ricordi, ma con il pensiero. Nel 1946 ebbe luogo a Parigi il primo Salon des Realites Nouvelles che rilanciò le esperienze astrattiste. L’incomprensione del pubblico spinse al critico d’arte Seuphor a pubblicare un libro che servì a chiarire l’esistenza di due tipi di Astrattismo: • Uno basato su forme libere, nato da Kandinskij e derivato dal Fauvismo e dall’Espressionismo; • L’altro improntato sul razionalismo e basato su forme geometriche, nato da Delaunay, Mondrian e con radici nel Cubismo e in Seurat. Il credo fondamentale degli astrattisti era che ogni opera dovesse porsi in termini simili a un problema scientifico o ad un teorema. Questi artisti seguivano le indicazioni di un settore della psicologia di impronta sperimentale: la psicologia della forma o Gestalt. Barbara Hepworth Hepworth è considerata tra le figure più importanti della scultura inglese. Ella giunse ad un impianto astratto dei volumi, concepiti sia in legno che in pietra. Introdusse cavità e buchi nelle masse, traendo spunto dal paesaggio della Cornovaglia. In “Single Form” si nota l’estrema pulizia del materiale e l’utilizzo delle concavità come mezzi per creare macchie chiare e scure nella superficie. Victor Vasarely Vasarely iniziò una pittura basata sulle illusioni ottiche e sugli inganni visivi; nella sua produzione matura abbandonò ogni figurazione e si dedicò allo studio delle reazioni percettive a forme geometriche descritte con colori piatti e brillanti. Gli sforzi volti a indurre uno stato di instabilità percettiva denunciano il desiderio di attivare lo spettatore inducendolo a partecipare all’opera. Altro proposito era quello di rompere l’isolamento dell’arte e reintegrarla nella società come sua parte attiva. Di qui anche l’insistenza dell’artista su una produzione riproducibile, moltiplicabile attraverso la serigrafia, svincolata dal culto dell’opera unica e capace di entrare in ogni casa sotto forma di decorazione o oggetto. Max Bill Bill organizzò molte mostre astratto-geometriche. Fu il direttore della scuola di Ulm con l’intento di far rinascere il Bauhaus ed inoltre fu guida per una concezione dell’arte ricca di intenti educativi. Il suo approccio alla pittura e alla scultura fu di carattere matematico e logico. I lavori di Bill non sono lavori che vogliono suscitare emozioni, bensì essi trasmettono una freddezza assoluta dovuta allo scopo pedagogico che hanno. Max Bill, Otto coppie di colori complementari (1958) Il dipinto va letto anzitutto secondo una circolazione antioraria degli elementi: dapprima si osserva, alla sommità, una coppia di quadrati verde e rosso; poi ci sono due quadrati più piccoli viola e giallo; quindi due quadrati arancione e blu, ancora più piccoli; infine una coppia di quadrati bianco e nero. Il rettangolo centrale ripete a ritmo inverso ciò che si è osservato lungo il margine esterno. Seguendo questa volta il senso orario, si osserva che i due quadrati più piccoli hanno i colori di quelli che, nella prima serie, recavano la maggiore dimensione; segue in verticale la coppia viola-giallo, poi in orizzontale quella arancione-blu e in verticale quello bianco-nero. Il fine dell’opera è spingere al ragionamento per il tramite di uno stimolo visivo. L’Astrattismo geometrico in Italia In Italia l’Astrattismo geometrico ebbe i suoi centri nevralgici nel Nord. Magnelli condusse una ricerca fondata su forme fluide dove il colore rivela spesso un’origine naturalista. I suoi contrasti ammettono la linea curva e non implicano una rinuncia all’immaginazione. La città principale dell’Astrattismo geometrico fu Como. Rho era vicino alla logica consequenziale della scienza; ciò si osserva nella “Composizione” del 1940, nella quale ricerca un equilibrio cromatico e formale di impronta classica. Nel dopoguerra l’Astrattismo fu segnato anche dalla nascita del MAC (movimento dell’Arte Concreta). La sua prima cellula fu fondata nel 1948; la musica, arte visiva, teatro e altre discipline creative per favorire invece il flusso di persone, di tematiche e di metodi. Tra questi ricordiamo Wolf Vostell, Yoko Ono, Nam June Paik, Dick Higgins, Ben Patterson, George Brecht, Ben Vautier e Giuseppe Chiari. In quest’ambito vennero rivalutate forme di divertimento come il circo, il musical, la rivista e ogni sorta di rituale proveniente dalla cultura popolare. Va citata l’azione più spettacolare di Nam June Paik, destinato a essere ricordato come l’iniziatore della video arte. Dopo avere organizzato un concerto di pianoforte scoppiò in lacrime alla prime note di un brano di Chopin. Scese dal palcoscenico in platea, si lanciò su John Cage che era tra il pubblico, gli cosparse la testa di shampoo, gli tagliò la cravatta in segno di ammirazione e scappò via dal teatro. Poco dopo telefonò da un bar accanto per annunciare che la sua opera era terminata. In quegli stessi anni Ben Vautier buttò a mare l’idea di Dio, metaforicamente chiusa in una scatola, e impiantò un chiosco dove vendere la sua arte come fosse un ammasso di souvenir; in seguito Yoko Ono spinse il marito a trasformare in un happening pubblico persino il tentativo di concepire un figlio. Un’esperienza assimilabile a quella di Fluxus fu quella della internazionale situazionista. Fondata come gruppo e come rivista sopravvisse grazie all’attività del promotore Guy Debord. Il New Dada americano La definizione di New Dada venne applicata per la prima volta a quattro artisti: Kaprow, Twombly, Rauschenberg e Johns. Twombly si orientò verso una pittura di graffiti che ha punti in comune con l’Espressionismo astratto e l’Informale. Le sue superfici sono segnate da scarabocchi derivati dai graffiti per strada. Nei suoi dipinti il segno banale diventa un mezzo lirico per costruire brani di epica urbana. Nella sua opera Epitaffio (1960) accade ciò che succede su un muro frequentato da studenti: vi si stratificano segni in una scala che va dal graffio casuale alla poesia. Johns dipinse bandiere, bersagli, calchi anatomici, mappe geografiche degli Stati Uniti, lettere e numeri standard. Il soggeto doveva essere banale sia per contrapporsi al soggettivismo dell’Espressionismo astratto, sia per rispecchiare le cose di ogni giorno. Dal punto di vista tecnico la sua pittura unì la tecnica dell’encausto (tecnica pittorica attraverso la quale i pigmenti vengono mescolati ad un particolare tipo di cera, mantenuti liquidi dentro un braciere e stesi sul supporto con un pennello o una spatola e poi fissati a caldo con arnesi di metallo) a quella del collage: l’artista inzuppava alcuni giornali di una vernice, li incollava sulla tela, li copriva con molti strati di cera e colore. La superfice risultava, così, trasparente e mostrava le macchie di colore sottostante. Il lavoro di Johns si configura come un’indagine sulla natura del linguaggio figurativo. Anche in scultura l’atteggiamento fu lo stesso: le cose di tutti i giorni venivano trasfigurate attraverso l’impiego di materiali tradizionali. “Ale Cans” rappresenta due lattine di birra, delle quali una aperta, come se stesse a raccontarci la visita di un amico. Robert Rauschenberg Rauschenberg negli anni Cinquanta aveva esposto le serie dei Black Paintings, dei Red Paintings e dei White Paintings. Si trattava di monocromi neri, rossi o bianchi concepiti come pagine vuote sulle quali potevano riflettersi i segni di quanto accadeva intorno a loro. Erano carte assorbenti della vita e volevano riflettere l’accidentalità. Egli mise a punto la tecnica del Combine Painting: assemblaggi di oggetti di ogni tipo che prendono ispirazione dal sovrapporsi di informazioni di diversa natura, senza che venga rispettata alcuna gerarchia tra i messaggi culturali elevati e quelli comuni. In Odalisca una gallina impagliata diventa oggetto di adorazione come se sovrastasse un totem, al tempo stesso portatore di valori contemporanei e primitivi. Bed è un vero letto singolo con coperta e lenzuola che è stato trasformato in un quadro: l’artista lo ha appeso e “ripassato” con pennellate vigorose. L’opera è costruita tenendo conto dei rapporti di equilibrio tra ordine e disordine che regnavano nelle pale d’altare (opera pittorica religiosa): qui accade il contrario rispetto a quelle, dove la parte alta era il regno della simmetria e quella bassa il luogo del caos umano. Anche attraverso queste inversioni Rauschenberg rinnova il linguaggio artistico, sovvertendo le antiche regole. Secondo l’artista la pittura stessa è un oggetto, ed anche la tela. combine painting = espressione, coniata da Rauschenberg, usata per definire la tecnica artistica che combina l’uso del colore insieme a oggetti di varia natura (fotografie, oggetti d’uso, ritagli di giornali ecc.) sulla superficie del quadro. Queste opere, secondo l’artista, divengono organismi viventi, specchi in cui si riflette la vita. Robert Rauschenberg, Monogram (1955 - 1959) Con Monogram, il quadro bidimensionale, diventa un oggetto tridimensionale e posto su un piano orizzontale. L’opera è il risultato di una combinazione di immagini, oggetti e pittura, senza gerarchia. La superficie dell’opera è con un collage di legni, in parte dipinti a larghe pennellate, in parte utilizzate con porzioni delle loro lettere originarie. La pittura, dai colori forti, investe anche la capra al centro della composizione e il copertone, che risultano così legati al resto. C’è inoltre il valore della memoria, in quanto l’artista evoca il ricordo di una capra posseduta da bambino, ma anche storico, giacchè il monogramma del copertone unito alla capra allude alle lettere medievali decorate (in questo caso sarebbe una O). Rauschenberg introduce la quotidianità nelle sue opere e dichiara di voler integrare nella tela qualsiasi oggetto legato alla vita. La rivoluzione del linguaggio dell’arte si connota grazie alla mancanza di un assetto finito dell’opera, la quale, come la vita, è sempre in progresso. Contemporaneamente agli sviluppi del Neodadaismo americano, anche in Europa si coagularono gruppi di artisti le cui premesse estetiche erano simili. Il gruppo dei Nouveaux-realistes che redassero il loro primo manifesto nel 1960. Ciò che ne accomunava le poetiche era il fatto che le loro opere partissero da un brandello di archeologia del presente, un comune segno dei tempi da presentare al futuro. Ricordiamo le Compressioni di ferraglie scelte da Cesar e i manifesti cinematografici strappati dai passanti, recuperati dalla strada ed esposti da Raymond Hains e Jacques de la Villeglè che prediligevano quelli in cui l’immagine era ormai irriconoscibile; Mimmo Rotella amava i manifesti in cui restava visibile almeno parte del volto della star o della scritta pubblicitaria; ricordiamo ancora gli strumenti musicali incorniciati dopo essere stati ridotti in pezzi, in uno scatto d’ira da Arman e i suoi oggetti accumulati; Daniel Spoerri fermava le situazioni correnti applicando con la colla alla tavola i residui di un pasto; l’idea era quella di fermare un istante facendolo diventare eterno, di ribaltare i rapporti tra ciò che è poco importante e ciò che è oggetto di venerazione. Faceva parte del gruppo anche Jean Tinguely, autore di macchine antropomorfe costruite con vecchie parti di ferro e motori, costituiscono un commento al proliferare di meccanismi per svolgere in modo meccanico anche le funzioni più semplici dal disegnare al versare un po’ d’acqua. Nel frattempo Niki de Saint Phalle preparava tele con palloncini pieni di colore su cui poi sparava con una pistola, ottenendone conflagrazioni casuali, insieme allegre e violente, un po’ come sarebbero state le sue sculture femminili più tarde, note come Nanas. Yves Klein Klein aderì anch’esso al Nouveau Réalisme. Egli iniziò il suo percorso artistico andando in Giappone, dove divenne maestro di judo e venne ispirato dalla spiritualità buddhista. I suoi quadri erano monocromi arancioni, rosa, dorati o blu: questi colori gli sembravano adatti per parlare di luce ed infinito. Egli si concentrò soprattutto su una tonalità di blu, brevettato da lui stesso sotto la sigla di IKB (International Klein Blue): una mistura di pigmento e resina che consentiva al colore di rimanere vibrante come quando è sotto forma di polvere. Nel giorno del suo trentesimo compleanno Klein aprì presso la galleria parigina di Iris Clert la sua esposizione più memorabile, intitolata “le Vide”, (Il vuoto): la stanza, completamente vuota, ospitava solo la “sensibilità dell’artista” allo stato puro. In seguito Klein usò come pennelli viventi delle modelle a cui si chiedeva di cospargersi del colore blu nelle parti più femminili: seno, ventre e cosce, in modo che le Antropometrie che ne derivavano fossero inni alla fecondità e all’infinito riprodursi della vita. Altra opera dell’artista è il “Salto nel vuoto”, nel quale si vede Klein saltare verso l’alto da una finestra, con le braccia distese, frutto di un montaggio fotografico. Piero Manzoni Manzoni fondò a Milano, insieme agli artisti Castellani e Agnetti, la rivista Azimuth; il gruppo creò anche la galleria Azimut, centro nevralgico della creatività milanese per tutto il 1960. Il percorso personale di Manzoni fu volto a dissacrare la tipologia romantica dell’artista geniale. A ciò rispose con opere come i monocromi denominati Achromes, cioè “senza colori”: quadri imbiancati col caolino (roccia sedimentaria), fatti di stoffa, decorati con pieghe o pietre o panini che denunciavano l’inutilità del quadro. Manzoni inoltre esaltò e al tempo stesso derise la figura dell’autore creando opere di Fiato d’artista e scatolette di Merda d’artista. L’atto artistico viene ridotto ai suoi minimi termini, come per mettere in discussione la tradizione, ma al contempo affermare la necessità dell’arte per l’uomo di ogni tempo. Un giorno riunì presso una galleria un pubblico che invitò a “divorare l’arte”, cioè a mangiare uova firmate con il sigillo-impronta del suo pollice. Manzoni concepì inoltre “Socle du mond” (basamento del mondo), un parallelepido che rappresenta una sorta di piedistallo per reggere il globo terrestre che reca un iscrizione capovolta: come se tutto il mondo fosse una sua opera. Qui l’ironia artista – creatore divino raggiunge il massimo. Egli firmò anche persone viventi come opere sue e, per di più, chiunque salga su una sua “Base magica” (un normale tronco di piramide) può considerarsi temporaneamente una sua opera. Manzoni propose riflessioni sul fare artistico e sulla crisi del concetto di autore. Piero Manzoni, Merda d’artista (1961) La Merda d’artista è l’opera più conosciuta e più scandalosa di Manzoni. Essa fu acquistata dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Si tratta di una serie di confezioni simili a quelle di carne in scatola; ciascuna di esse reca una scritta in più lingue che attesta: “Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961”. La carta bianca che avvolge le scatolette è punteggiata dal nome dell’artista ripetuto continuamente in grigioverde. Sulla parte superiore ogni scatola è firmata e 1964 = culmine della Pop Art con la Biennale di Venezia. Andy Wahrol Warhol giunto a New York esordì come pubblicitario di successo. In seguito edificò la Factory: un centro di produzione artistica, in cui il maestro viveva con gli allievi e indicava loro che cosa dovevano o potevano fare. Qui molte persone collaborarono a creare film sperimentali, ma nacquero anche produzioni cinematografiche di successo. Warhol pubblicò una rivista, chiamata Interview, che ha dettato uno stile duraturo alla grafica e all’editoria di moda e di cinema. La sua produzione artistica fu influenzata dalla sua attenzione per la vita mondana, per gli oggetti e per le persone considerate più alla stregua di immagini viventi che di esseri con cui comunicare. Ciò che gli interessava era il modo in cui il mondo della comunicazione e del modo di vedere si trasformava intorno a lui, senza mai prendere una posizione etica. Egli espose come opere d’arte scatole di lucido da scarpe, serigrafie su cui riproduceva latte di zuppa precotta o bottiglie di coca cola, spesso ripetute in una serialità che è la stessa con cui i beni di consumo si presentano negli scaffali dei supermercati. Dipingeva ciò che si vede ogni giorno ma anche ciò che diventa oggetto di adorazione collettiva. È in questo spirito che riprodusse immagini di personaggi famosi tra cui Marilyn Monroe e Mao Xedong. Il procedimento che utilizzava toglieva ai volti ogni segno relativo a un momento specifico del tempo e li trasformava in icone: i lineamenti venivano semplificati accentuando con colori contrastanti la bocca, il naso, gli occhi e i capelli. Le immagini venivano serigrafate secondo il procedimento della quadricomia, lo stesso usato dalle riviste, ma i contorni non coincidevano perfettamente con le aree colorate. Questo serviva a mettere in evidenza come ciò che Warhol stava ritraendo non fosse una persona, ma la sua immagine pubblica. La partecipazione emotiva è ridotta al minimo. L’artista si limita a scegliere e a esaltare le immagini che ritiene rilevanti in quanto accompagnano e quindi influenzano la vita di tutti. Wahrol divenne egli stesso un mito. Fu spaventato da fenomeni di adorazione nei suoi confronti che si spinsero fino a risultati paradossali: un’ammiratrice cercò di ucciderlo, sparandogli. Questo determinò la parziale chiusura della Factory e la fine del suo periodo più attivo. Molte delle sue invenzioni hanno continuato ad esistere anche dopo la sua morte. Andy Wahrol, Marylin Monroe (Twenty Times) Con il viso di Marylin Monroe, ridotto a cifra e campi cromatici, Wahrol compone delle fasce decorative. L’artista parte dall’immagine dell’attrice tratta dal poster del film Niagara, operando un taglio sul corpo della figura, appena sotto il collo e sullo spazio attorno ai capelli per focalizzare l’attenzione dello spettatore sul volto. Su questo sono evidenziati il biondo platino dei capelli, la bocca rossa con colori non naturali, uniti al verde acido delle sopracciglia e del colletto del vestito, sulla pelle che vira tra grigio e viola. Le striature nere contribuiscono a rendere i volti moltiplicati di Marylin immagini già logorate dal tempo. L’attrice viene così concepita in una visione corrosa, già in qualche modo passata. Il processo di ripetizione del ritratto non ne conferma l’autenticità, ma crea un disorientamento. CAPITOLO 15 Le Neoavanguardie degli anni ’60 e ’70 Il successo dell’Espressionismo astratto e della Pop Art favorì la nascita di tendenze contrapposte, che facevano proprie le aperture tecniche della Pop Art medesima, per esempio la serialità e la mancanza di soggettivismo, ma che ne criticavano l’aspetto commerciale e l’indifferenza verso la nuova etica del consumismo. Queste nuove tendenze svilupparono l’eredità delle Avanguardie storiche e per questo vengono definite Neoavanguardie. Si possono individuare alcuni tratti comuni nei differenti movimenti: • L’attenzione rivolta soprattutto verso l’analisi del metodo, dell’idea, delle condizioni preliminari che determinano l’opera. • Il dissenso ideologico si trasformò in una protesta contro il sistema commerciale e si spinse contro la trasformazione delle opere in merce. • La protesta assunse i connotati di una fuga dai luoghi tipici dell’arte (musei e gallerie) e dai materiali tradizionali delle opere. • L’ampliamento delle tecniche portò a contaminazioni con altri ambiti creativi. • Spesso la realizzazione manuale dell’opera viene affidata ad altri. Il compito dell’autore si ferma alla fase progettuale. • La figura dell’artista visivo si avvicina a quella dell’architetto: la creatività non è più riconosciuta in quanto legata alla manualità ma all’inventiva e al senso interno delle opere. Il Minimalismo Il Minimalismo, fenomeno americano, è considerato il primo di atteggiamento di analisi del processo artistico. Il termine, coniato dal filosofo Richard Wollheim sulla rivista “Art in America” nel 1965, indica un’arte fondata sull’utilizzo di forme primarie ed elementari, spesso tratte dal mondo della produzione industriale e sviluppate in sequenze ripetitive. Vanno però aggiunti altri aspetti: anzitutto lo sviluppo della produzione in serie dei prodotti industriali e l’influenza della forma delle città americane, costruite secondo piani geometrici regolari. Stella fu precursore e promotore del Minimalismo. Per lui un dipinto è un oggetto fisico, non una metafora o un simbolo. Le sue prime opere erano dipinti in cui delle righe nere regolari erano separate da sottili intercapedini bianche. Egli semplificò la struttura del quadro fino ai minimi termini. Per rendere le opere ancora meno emozionali l’artista utilizzò smalti metallici e le montò su telai molto alti, che le facevano sembrare più oggetti tridimensionali che quadri. In seguito le strisce divennero colorate e iniziarono ad accogliere forme geometriche diverse. Stella non è interessato alle sensazioni e alle impressioni, ma alla dimensione analitica e riflessiva della pittura. Una mostra fondamentale per il Minimalismo fu “Shape and Structure”, tenutasi presso una galleria di New York nel 1965. Andre ha lavorato seguendo tipologie diverse in cui ricorre la presenza di un modulo che si ripete: cataste di legni vecchi, arrangiate in forma di torre e secondo un andamento alternato; costruzioni di mattoni refrattari; pavimenti di lastre quadrate di ferro, ottone o altri metalli. Le agglomerazioni che si generano non hanno legami fissi per cui le opere possono essere smontate e rimontate. Talvolta la scultura non si erge verso l’alto, ma rimane a livello del pavimento e può essere calpestata dallo spettatore: un modo per contestare il rispetto aulico tributato alle opere. Inoltre l’alternanza dei moduli produce un forte senso del ritmo e della combinazione. Infine, l’uso dei materiali nel loro aspetto naturale dava al lavoro il valore della sincerità opposto a quello di illusionismo criticando un caposaldo dell’estetica tradizionale. Judd progettò sculture con materiali sofisticati come il rame, l’acciaio e il plexiglas, nell’intenzione di mettere in evidenza le loro potenzialità sensoriali. Judd definiva le sue opere “oggetti specifici”, ovvero concepiti senza altra finalità che quella estetica, diversamente dagli oggetti commerciali. La maggior parte della sua produzione consiste in “mensole” disposte in serie e con variazioni di ritmo; la combinazione tra due o più materiali fa sì che esse appaiano diverse da diversi punti di vista e secondo il mutare dell’illuminazione. Secondo l’artista l’ordine è la componente fondamentale delle opere. Dunque, le sue produzioni sono monumenti al tema dell’ordine insito nella natura. Flavin si concentrò sui fenomeni luminosi generati da tubi al neon. La serie di “Monumenti a Vladimir Tatlin” è una successione di tubi al neon di diversa lunghezza che attraverso la loro accensione modificano lo spazio che li circonda: esso si espande attraverso la sua luce. Flavin ha usato il tubo al neon come fosse un segno e ne ha utilizzato la luce come fosse un colore. Un suo intervento noto fu quello fatto alla “Chiesa Rossa” di Milano. L’artista ha ideato per essa un sistema di colorazioni luminose che rispetta le simbologie cristiane: azzurro per la volta, luogo che allude al paradiso; giallo oro per il retro dell’altare, luogo dell’apparizione e della gloria divina; violetto per le zone che ricordano la Passione di Cristo. LeWitt si muove a cavallo tra l’arte minimale e quella concettuale. Egli è l’autore dello scritto teorico “Paragraphs on Conceptual Art” (1967) nel quale dichiara che il compito dell’artista è quello di formulare il progetto dell’opera, mentre quello della realizzazione può essere affidato ad altri. Il suo principio operativo consisteva nel partire da premesse metodologiche eseguite alla stregua di un progetto architettonico. L’emotività soggettiva era esclusa per far spazio alla logica del progetto e alla pratica dell’esecuzione. In molti casi la costruzione dell’opera partiva da premesse date, ma poteva condurre ad un risultato imprevedibile: esattamente come in natura in cui si segue uno schema incentrato sulla regola su cui può intervenire l’accidente del caso. Morris propose opere volte a distruggere la forma statica, determinata in ogni suo aspetto dall’artista; per questo parte del suo lavoro passò sotto l’etichetta Antiform. Si ricordano le sue “sculture di feltro”, strutture composte con un materiale che nel tempo si deforma sotto il suo stesso peso. L’opera viene dunque proposta come qualcosa di mai definitivo, come fosse un lavoro in corso il cui processo è solo in parte controllabile dall’artista. Egli ha associato ai suoi lavori anche un’attività teorica: “notes on sculpture”. che l’artista definì “anarchitetture” usando un gioco di parole che significa analisi, distruzione e fuga dall’architettura. L’attitudine a interferire con il paesaggio ha origini molte antiche nella storia dell’uomo ma negli anni 60 ebbe un impulso specifico legato soprattutto ai nuovi rischi ecologici, queste esperienze sono: Earth Works o Land art. Il caso più eclatante di questa tipologia è la Spiral Jetty che Robert Smithson ha fatto costruire. Si tratta di una impressionante passerella a forma di spirale, costruita con materiale prelevato dalla collina vicina. La spirale è stata scelta come forma evocativa dei primi processi di vita: ricorda i vortici dell’aria, le chiocciole e l’avvolgersi stesso dei corpi celesti. Il lago salato era anche sede di antiche credenze, i mormoni ritenevano che esso fosse una sorta di mostro senza fondo e che fosse collegato all’oceano tramite un canale sotterraneo. La grande scultura si propone come un omaggio alla natura che alla natura ritorna: non appena, infatti, l’opera dell’artista terminò incominciò quella dell’acqua salata. Anzitutto la superficie laterale della passerella iniziò a coprirsi di microorganismi che ne fecero il proprio habitat; poi la concentrazione del sale iniziò a salire verso il centro della spirale, rendendo l’acqua più rossa appunto al centro, poi violacea, per ritornare blu ai bordi dell’opera. Negli anni la spirale è stata coperta da un innalzamento del livello del lago rendendola sempre più abitata da alghe e da animali. Agendo con metodi simili fu Robert Heizer ha disegnato sul deserto del Nevada come fosse un foglio di carta, servendosi di ruspe invece che di matite. Walter De Maria ha creato nel deserto del New Mexico il Lightning Field, una struttura di 400 pali d’acciaio, lucide aste verticali che si ergono dal terreno orizzontale: al caos della natura sottostante si oppone l’ordine dei pali, destinati a diventare appariscenti quando la luce del giorno o di una notte di luna o di lampi li metta in particolare evidenza. Tutte e due queste opere hanno caratterizzato la corrente della Earth Works o Land Art, accettano di porsi in balia delle modificazioni che la natura imporrà loro: in questo senso possono essere considerate mai-finite. Il rapporto con la natura è stato coltivato da altri artisti con modalità ancora diverse. L’idea del viaggio è centrale nelle opere di Douglas Heubler e di Dennis Oppenheim. Richard Long effettua lunghe escursioni a piedi in luoghi deserti da cui riporta pietre o altri reperti; in seguito li dispone in galleria in forme geometriche primarie come strisce o cerchi posati a terra. In altri casi utilizza il fango e la terra dei luoghi esplorati per eseguire con le mani o con i piedi dipinti murali o adagiati sul pavimento. Hamish Fulton ha radicalizzato tale pratica fino al punto di fare coincidere opere ed escursione. Il risultato visibile sono fotografie scattate lungo il cammino. Un’altra direzione in cui si è sviluppata l’arte ambientale è stata l’elaborazione di suggestivi ambienti chiusi modificati da fasci di luce artificiale. Robert Irwin e James Turrell sono autori di ambienti che generano atmosfere stranianti o l’illusione di superfici la dove sta solo un variare della luminosità. A Villa Panza hanno scelto però di evidenziare semplicemente un pezzo di natura. Irwin ha creato una finestra senza infissi che incornicia un grande albero: l’immagine varia al variare delle stagioni e ogni anno si presenta differente come diverso è il fogliame che mette in evidenza. Lo strombo della finestra aiuta a leggere il vuoto come un pieno, come un quadro che muta nel tempo tenendo fisse le sue dimensioni. Turrell ha aperto un’area quadrata del soffitto all’interno di una stanza completamente vuota e bianca. Il visitatore è spinto a guardare quella porzione di cielo come fosse un dipinto variabile. L’apparente semplicità degli interventi tende a rivalutare il valore poetico che la natura ha in sé e che l’uomo contemporaneo è spinto a dimenticare dalla frenetica vita urbana. Le vaste realizzazioni ambientali di Christo e Jeanne-Claude nascono per essere temporanee e non modificano il territorio in cui intervengono. Christo aveva abbandonato la sua pratica di ritrattista per creare azioni ambientali: nel 1960 nascose una via di Parigi costruendo una barricata di bidoni. Questo principio del rinchiudere lo condusse alla sua tipologia di lavori più nota: impacchettare oggetti rendendone il contenuto al tempo stesso misterioso e valorizzato. L’artista aveva iniziato ad ampliare le sue opere nello spazio. Nel 1968 riuscì a ricoprire di grandi fogli di plastica e corda il primo edificio pubblico e, dopo questa realizzazione, le sue opere divennero sempre più ambiziose. Spesso le sue coperture suscitarono uno scandalo pubblico, perché venivano vissute come un insulto ai luoghi. Nel 1964 iniziò a lavorare con la moglie e ad aumentare la dimensione degli oggetti fino a giungere a territori naturali: ricoprì un tratto di scogliera, creò una vela che attraversava un vasto territorio agricolo e circondò con plastica rosa alcune isole. Christo e JeanneClaude hanno agito anche in quello urbano, ricoprendo di fogli sintetici anche statue, ponti. Il suo metodo tocca diversi nodi problematici riguardanti il modo di concepire sia l’opera d’arte sia il suo autore: È difficile stabilire quale sia l’opera, se il risultato finito o il processo di progettazione che lo ha determinato attraverso mediazione e costruzione dei materiali. L’artista costruisce delle strutture raffinate ma effimere, sfidando le modalità della produzione artistica. L’opera si propone come un happening che coinvolge migliaia di persone. Vanno considerate parte dell’operazione complessiva persino la produzione di corde o la rassegna stampa determinata dall’evento. Il processo di liberazione del corpo dai vincoli imposti da un’etica molto rigida ha attraversato tutto il 900: l’abbigliamento abbandonava i busti e i colli inamidati, Martha Graham aveva sostituito il piede nudo alle innaturali scarpette a punta. Dei tardi anni 60 si è assistito alle manifestazioni più estreme di questo processo, con artisti che usarono il loro corpo come unico strumento di espressione. Ricordiamo anzitutto il movimento denominato Actionismus. Arnulf Rainer ha elaborato una serie di performances e di fotografie in cui faceva smorfie di dolore o di emozioni estreme. Rudolf Schwarzkogler era solito mettere in scena azioni in cui si feriva davanti al pubblico e ricercando una partecipazione primitiva e al suo rito. Hermann Nitsch concepì un teatro di cui era il sacerdote, dove avvenivano sacrifici di animali e spargimenti di sangue votivi nel ricordo di quanto accadeva nelle civiltà precristiane. Le opere che derivavano da queste azioni si mostrano come lenzuola macchiate di sangue. Gunter Brus si è dedicato ad azioni, in seguito documentate sia da fotografie che da disegni nelle quali dipingeva il proprio corpo come se fosse una mummia bianca suturata. Chris Burden mise in atto azioni come farsi sparare da un amico da una distanza di 15 passi o distendersi su una strada trafficata coperto da un telone. Di fronte a espressioni artistiche di così difficile comprensione, rischiare la vita appariva come l’unica garanzia per dimostrare l’autenticità di una ricerca che avrebbe potuto facilmente essere considerata una serie di atti goliardici. Vito Acconci cercava di spingere i propri gesti più semplici, per esempio l’emettere saliva il più a lungo possibile. In altri casi ha cercato di indagare le distanze di sicurezza tra una persona e l’altra, cioè oltre quale vicinanza si provoca irritazione, o fino a che punto egli sopportava di esibire in pubblico i suoi stessi comportamenti privati. Questa attenzione alle relazioni interpersonali è poi sfociata in una serie di opere che si collocano tra la scultura pubblica e l’architettura. Molti protagonisti della body art hanno utilizzato in maniere diverse il travestimento come a giocare con la propria identità ricercando identità multiple. Ricordiamo Helio Oiticica, Urs Luthi e Luigi Ontani. In questa linea si collocano le azioni di Gilbert e George che si proposero come sculture viventi: ogni atto della loro vita pubblica può essere considerato il frammento di un’opera d’arte. Nella loro performance più famosa Underneath the Arches apparvero su un tavolo quadrato con le facce dipinte e le loro tipiche giacchette a tre bottoni. Ironizzando contro qualsiasi credo accompagnavano con movimenti meccanici le note di una canzonetta popolare. Esiste poi un versante di azioni al femminile la cui esperienza del corpo è più complessa di quella maschile a causa di aspetti come il parto, l’allattamento, la fine della fertilità. Louise Bourgeois ha cercato di sondare le viscere della relazione tra una persona e il suo copro interpretando anche le relazioni familiari come flussi che passano attraverso la corporeità. Visualizzò l’atto simbolico di distruggere il padre, per esempio attraverso una scultura ambientale che suggeriva l’apparato digerente e l’equivalenza tra digerire e distruggere. Lygya Clark percorse la body art: da una formazione cinetica-costruttiva le indicò una via di un’arte interattiva, giunse a disegnare opere-abiti che dovevano essere indossate dagli spettatori e a concepire performances in cui offriva se stessa come pasto simbolico per gli amici. Tra la protagoniste della body art ricordiamo Gina Pane. In Azione sentimentale si presentò al pubblico vestita con dei jeans bianchi con un boquet di rose in mano. Gli attributi della sposa, il bianco e i fiori, servivano a sottolineare il dono di sé, reso dalla metafora del tagliuzzarsi i polsi con una lametta. Benchè sembri incredibile, il pubblico assisteva a queste azioni con un distacco totale, come se si trattasse di una rappresentazione teatrale. Lo stesso accadde per Marina Abramovic che assunse farmaci per epilettici attendendone l’effetto, cubici fondati sulle proporzioni di un uomo: la sua altezza e l’apertura delle braccia, due misure sostanzialmente equivalenti. CAPITOLO 16 Tra XX e XXI secolo: le poetiche postmoderne Gli ultimi anni 70 furono connotati da un diffuso ritorno alle tecniche manuali tradizionali: fu l’eredità del surrealismo figurativo e soprattutto dell’Espressionismo che venne passata al vaglio degli artisti più giovani; per questo si parlò di Neoespressionismo. Il problema però non era tanto quale avanguardia rivisitare, ma se avesse ancora un sensi pensare che da un movimento se ne sarebbe sviluppato un altro in modo logico e consequenziale. L’idea stessa di avanguardia aveva come fondamento una concezione positiva della storia, vale a dire la convinzione che il percorso dell’umanità e delle sue produzioni creative si svolgesse verso un miglioramento progressivo e inevitabile. Se le avanguardie hanno dato voce al moderno, ciò che ne nacque negli anni della disillusione fu lo spirito postmoderno. Esso coincise con il boom economico degli anni 80 che portò i prezzi delle opere alle stelle e stimolò una produzione artistica più commerciabile, come accadde durante il ritorno all’ordine degli anni venti. Il ritorno alla manualità non stabiliva affatto l’abbandono delle tematiche concettuali: accanto all’olio su tela e alla scultura si continuarono a utilizzare i materiali comuni, il collage e l’assemblage ambientale. Parlare dunque di un ritorno è impreciso: si diffuse la convinzione che l’originalità dell’opera non avesse più molto a che fare con la novità dei mezzi usati. Il primo paese in cui si rese visibile il ritorno alla manualità fu l’Italia. Fu in quest’ambito che si coniò il termine Transavanguardia in cui il concetto di attraversamento si sostituiva a quello di avanzamento. Gli aspetti che risultarono salienti furono: • Genius loci: ovvero riscoperta delle radici locali e popolari di ciascun artista • Ideologia del traditore: la tendenza a liberarsi da qualsiasi forma o convinzione ideologica • Passo dello strabismo: il presentarsi dell’artista non tanto con uno sguardo in avanti quanto con gli occhi aperti anche ai fenomeni laterali e inattesi. La pittura rifiorì come un albero ampliamente potato. Dopo una fase di ricognizione a casto raggio nei tardi anni 60 gli artisti che vennero scelti per partecipare alle mostre della Transavanguardia furono cinque: Sandro Chia si dedicò a una pittura a olio che ricordava quella manierista. Dal punto di vista cromatico Chia sembrò riferirsi soprattutto alle luminescenze del Futurismo. Il suo Fumatore con guanto giallo è un uomo in abito elegante che vediamo di spalle. La figura è centrata e contornata da un rosso che la evidenzia: il quadro potrebbe essere ascritto anche agli anni del Ritorno all’ordine se non fosse per un fondo che ricorda le pennellate rapide informali e per il fumo che esce scherzosamente da tre punti: la sigaretta, la testa e il fondoschiena. Enzo Cucchi ha utilizzato un vasto spettro di tecniche, dalla lavorazione del ferro alla scultura in pietra alla pittura murale. Il suo immaginario si è nutrito di ricordi di un’infanzia vissuta in un piccolo paese, sovente connotate dal senso di morte o anche di estrema vitalità. Nel grande olio su tela Più vicino agli dei, i quattro elementi primari si congiungono dal moto al tempo stesso centrifugo e centripeto. I quadri e le sculture di Mimmo Paladino che trapassano dalla ceramica al bronzo all’olio su tela senza distinzioni tra tecniche alte e basse, sono sovente una sintesi dell’iconologia classica e di quella popolare. Ne La vasca, vediamo trapelare dati onirici come busti di guerriero, serpenti, animali, riconducibili anche ai lati dell’immaginario più oscuro dell’Italia meridionale: il culto dei morti, dei santi e sei sogni. Nel 1990 Paladino creò la sua icona più forte: un cumulo piramidale di sale, uno degli elementi più comuni, preziosi e simbolici che entri nelle nostre case. Spargere sale significa rendere sterile il terreno, decretare una vittoria su una civiltà sconfitta, sembra alludere appunto la massa di cavalli di legno bruciato che sono stati disarcionati e giacciono come relitti archeologici. Utilizzando una gamma di colori primari combinati in modo luminescente Nicola De Maria si è espresso in piccoli quadri materici dove compaiono fiori così come in grandi affreschi murali, che pervadono un intero ambiente, connotati dalla presenza di valigie che alludono a un viaggio essenzialmente interiore. Francesco Clemente si è dedicato soprattutto ad autoritratti nelle forme dell’incubo del sogno o della fantasia: dagli orifizi del suo viso possono uscire corpi e oggetti; le sue opere sono un racconto ininterrotto del modo in cui egli vede se stesso, la moglie e il loro contesto intimo. Il suo lavoro si svolge nel sogno del frammento, dell’attimo, dell’impossibilità di abbracciare un progetto di vita. Conta solo il qui e ora registrato in quaderni di appunti presi con gli acquerelli, diari che lo accompagnano nei frequenti viaggi in India. Sempre dall’India proviene un’insistenza sulla simbologia erotica che non ha nulla di volgare, ma è invece intesa come omaggio alla riproduzione e al piacere. All’area del ritorno italiano alla manualità possono essere ricondotti anche artisti che non hanno assolutamente fatto parte della Transavanguardia. Ricordiamo Claudio Parmiggiani che ha elaborato fin dagli anni 60 una poetica in cui si incrociano oggetti comuni e sculture dipinte che riguardano soprattutto il tema del girare il mondo senza mai perdere la propria identità culturale. Parlano di questo opere come Pittura Italiana, dove la leggerezza di una farfalla, metafora del pensiero rapido e brillante, si posa su una mano sporca di colore, che disegna il fare concreto. Luigi Mainolfi si è dedicato alla scultura con gesso, terracotta, stoffa e materiali comuni. La sua grande Campana di gesso rappresenta una sintesi tra cattolicesimo e latinità. Essa parla della cultura visiva italiana come di una forza ancora grande e vitale, ma ormai rotta rispetto al passato. Uno dei primi artista a passare dal concettuale a una pittura nuovamente tradizionale è stato Salvo. Già nei primi anni 70 dopo un esordio basato sul rapporto tra immagine e parola, ha iniziato una rivisitazione degli stereotipi artistici con la suddivisione per generi: all’inizio con riletture del tema di San Giorgio e il Drago, eseguite con colori pastello che toglievano all’azione ogni eroismo, in seguito con la disamina di notturni, nature morte, paesaggi in una storia della pittura tradotta con giochi di luci e contrasti di colori dall’effetto volutamente banale. Un isolato di grande autonomia poetica è Ettore Spalletti. Avendo avuto una formazione vicina all’arte cinetica è sempre rimasto fedele al legame che l’opera riesce a instaurare con lo spettatore dal punto di vista percettivo. Le sue superfici sono monocrome e centrate sui colori evocativi come i vari toni dell’azzurro, il rosa e il verde . in altri casi materiali come il marmo e la pietra vengono resi sensuali da particolari sistemi di levigatura. Nei quadri il telaio si scosta leggermente dal piano orizzontale che attestano una voluta mancanza di certezze, che dal campo della geometria si trasporta su quello etico ed estetico. Quando l’artista ha ristrutturato cinque stanze dell’obitorio di Garches ha utilizzato la conoscenza degli effetti percettivi come mezzo per rendere accogliente un’atmosfera di solito disperata: nell’ultima sala l’azzurro avvolge gli archi, quello nero propone una macchia irregolare. Tutto l’insieme delle stanze è privo di simboli confessionali come un percorso che cerca di offrire l’arte come l’unico dono possibile a chi soffre il momento del lutto. La Transavanguardia ha rappresentato l’unico movimento artistico italiano del 900 che abbia raccolto un subitaneo successo internazionale. Sull’onda di questo fenomeno, ritornarono alla ribalta in Germania alcuni artisti che operavano da anni nel solco dell’Espressionismo prenazista e che appartenevano alla generazione nata negli anni 30 e 40. In Germania emerse una pittura che rappresentava un elemento di continuità ideale con la cultura artistica di inizio secolo. I luoghi in cui si sviluppò la tendenza che venne definita Nuovi Selvaggi o Neoespressionismo furono le città di Colonia e Dusseldorf. Il paese era ancora in uno stato di lacerazione fisica oltre che morale. Il muro che divideva Berlino, poi demolito nel 1989 si riempì non a caso di graffiti di anonimi ma anche di artisti noti. È importante rilevare come molti di questi artisti provenissero dalla Germania dell’Est dove veniva promossa un’arte di regime che contrastava con la raffinata tradizione tedesca. Georg Baselitz dipingeva dagli anni 60 grandi tele figurative in cui comparivano ritratti, figure intere o paesaggi caratterizzati da una pennellata fluida e materica. Dal 1969 aveva iniziato a ribaltare le immagini dopo averle dipinte in modo che l’osservatore dovesse fare uno sforzo per avevano fatto milioni di suoi coetanei nati negli anni del baby boom. Il lavoro veniva eseguito senza ripensamenti, con la bombola spray o un pennarello su qualsiasi genere di supporto: dopo i pannelli pubblicitari vennero teli di plastica. Il suo segno tradusse visivamente i ritmi e i temi della musica rap. Haring diede al lavoro un nuovo carattere collettivo, raccogliendo attorno a sé ragazzini che facevano da assistenti e che trasformavano il dipingere in un atto di impegno sociale. L’altro protagonista del Graffitismo è Basquiat, il cui successo è stato importante anche perché ha decretato l’ingresso de non – bianchi nei musei: solo il mondo dello spettacolo, fino ad allora, aveva accolto di buon grado i Coloured e gli Ispanici, tenuti ai margini di qualsiasi altro campo creativo. Verso la metà degli anni 80 il ritorno all’esecuzione manuale dell’opera si è attenuato mantenendo un elemento caratteristico di tutto il decennio: il ricorso a immagini riconoscibili e a opere che avessero una loro materialità, in contrapposizione all’immaterialità concettuale del decennio precedente. Gli artisti incominciarono a utilizzare soprattutto due generi di supporto: da una parte la fotografia e dall’altra gli oggetti. Essi non vennero più presentati come residui usati ma costruiti o fatti costruire ad artigiani su preciso progetto con grande cura. Anche l’eventuale oggetto trovato era presentato come bene di consumo nuovo fiammante. Il tema della merce e dell’attrazione che essa può esercitare (come nella Pop Art) venne portato alla sua esasperazione massima. L’occhio degli anni 80 fu insieme più cinico critico e graffiante di quello degli anni 60: all’entusiasmo per il nuovo modo di vita si era sostituita la coscienza dei suoi lati occulti. L’aspetto più interessante che venne indagato fu il rapporto di dipendenza psicologica dagli oggetti. Mai come dagli anni 80 indossare un abito firmato, possedere un certo tipo di automobile, utilizzare certi gagets è diventato un modo per definire la propria persona. Hanno questi significati gli oggetti che Haim Steinbach disponeva su mensole colorate, costruite con la massima precisione e come fossero altari, come i luoghi di esposizione che ognuno di noi ha in casa. In Stay with friends vediamo una doppia mensola, sul primo pezzo stanno cinque reperti archeologici nati per contenere beni alimentari. Sulla parte di mensola più bassa stanno tre confezioni di corn flakes. La funzione delle due tipologie di oggetti è la stessa, contenere del cibo. L’artista ci parla, di un’economia nella quale la promozione del marketing appare fondamentale e ogni oggetto può assumere valenze simboliche. Jeff Koons ha insistito su quest’aspetto: ha esposto oggetti da musei o piuttosto come oggetti di adorazione, aspirapolveri nuovi o palle da baseball. Anche Koons ha sottolineato il lato Kitsch del nostro attaccamento agli oggetti:ha fatto eseguire ad artigiani che lavorano per l’industria sculture di materiali molto costosi, facendo riprodurre piccoli idoli dell’immaginario corrente: dalle statuette di stile settecentesco in acciaio inox, il materiale pià amato dalle casalinghe. La difficoltà di trovare un’identità personale è al centro del lavoro di Robert Gober: la sua scultura X Playpen, un box per bambini chiuso da una croce, ci trasposta nel mondo dell’infanzia o piuttosto nelle difficoltà di un’infanzia sempre più problematica. I suoi brandelli di corpi, gambe scolpite in modo iperrealista che escono imprevedibilmente dal muro, raccontano ancora una volta il senso di frammentazione e mancanza di un centro a cui ci induce la vita nelle città. Il vissuto personale si mescola ai mezzi della comunicazione di massa anche nell’opera di Jenny Holzer che ha utilizzato i display a luci rosse per rendere pubbliche le poesie che ha composto sui rapporti con se stessa, con la madre, con un mondo che fluisce continuamente senza che lo si riesca ad afferrare. Anche Barbara Kruger ha utilizzato i mezzi della pubblicità, per diffondere messaggi di carattere esistenziale e politico: le sue grandi foto ritoccate sono immagini semplici, connotate da scritte in nero e rosso, che utilizzano i meccanismi di convinzione della grafica pubblicitaria non per proporre un prodotto, ma per inviare messaggi come “ci stiamo ancora divertendo?”, “il nostro tempo sono i vostri soldi”. La sensibilità per l’oggetto dimostrata dagli artisti europei si differenzia da quella americana per una dose maggiore di ironia e per un diffuso senso di lutto, particolarmente pregnante in alcuni artisti tedeschi. Va ricordato in generale che il dibattito artistico dei secondi anni 80 ha tendenzialmente emarginato l’Italia, dando spazio a un dialogo serrato tra America e Nord Europa. La perdita cui si fa riferimento non è solo quella caratteristica della società massificata, ma soprattutto quella legata all’impossibilità di credere ancora ai progetti utopistici che avevano animato le prime avanguardie. Le sculture di Thomas Schutte mostrano appunto il volto tragico di questa situazione: il monumento che ha tributato a una coppia di ciliegie a Munster poggia su una colonna classica, ma il capitello echeggia nei materiali le carrozzerie delle automobili e non regge la statua di un eroe ma diventa una coppetta per la frutta. I volti delle sue sculture di metallo, di legno, di ceramica sono maschere tragicomiche. Anche Katharina Fritsch ha elaborato attraverso sculture di materiale sintetico una poetica che parla di disperazione collettiva e personale. Nella sua Tischgellschaft mostra dei manichini identici, 32 come i denti, disposti su due file ai lati di un tavolo. Il pasto non arriva e l’ossessione di un desiderio semplice ma vitale non riesce a colmarsi. In altre opere ha mostrato il volto dell’aggressività progettando enormi ratti che si posano su di un letto o che si dispongono a circolo con i musi rivolti agli spettatori. Rosemarie Trockel ha elaborato una serie di opere differenti a partire dalla pratica femminile del tricot, nel contesto di un impegno più vasto riguardo all’emergere delle donne. Il lavoro a maglia talvolta è anche una prigione da cui non si riesce a uscire. Del resto i punti della maglia sono anche una serie di atti ripetitivi che come il ricamare e il cucire favoriscono un pensiero introspettivo dai risvolti nevrotici. La scultura di Tony Cragg esula in parte da questa atmosfera, dal momento che propone un messaggio di rinascita alchemica delle cose e di ricomposizione armonica dell’universo. La sua pratica scultorea si fonda sull’utilizzo di oggetti trovarti, dai minuscoli pezzi di plastica colorata che si trovano sulla spiaggia alla fine della stagione estiva fino a pezzi di marmo, Cragg compone questi oggetti in nuove forme ridando loro una dignità e una vita, come a mostrare che persino i prodotti della civiltà della plastica possono entrare in un ciclo di rigenerazione. Nel suo Landscape riproduce un paesaggio servendosi di pezzi di legno trovati come fossero i profili dei monti, di una scatola per attrezzi come fosse uno chalet, di una tinozza come lago alpino. Anish Kapoor, la sua scultura è completamente astratta e fondata sull’uso di mezzi che impressionano dal punto di vista percettivo: pigmenti usati puri come in Buco e vaso ma anche cavità di metallo, di alabastro, di marmo che ingannano l’occhio e servono come spunti a una meditazione al tempo stesso mistica e razionale. In questo settore l’evoluzione degli anni 80 è stata decisiva: si potè avere una qualità di stampa a colori di grande spettacolarità e capace di competere con la pittura anche per le grandi dimensioni. Fu nei primi anni 80 che i musei hanno incominciato a collezionare fotografie alla pari di quadri e sculture, dando origine alla rivalutazione di un genere fino ad allora considerato documentario e solo in parte artistico. Un nucleo importante di artisti fotografi è scaturito dalla scuola dei due artisti Bernd e Hilla Becher : dai maestri hanno tratto uno sguardo che si posa sulle cose e sulle persone in modo freddo ma che cela un profondo esame dell’uomo e dei suoi comportamenti. Comuni a tutti sono le stampe colorate spesso di enormi dimensioni. La serie più importante di Thomas Ruff consiste in fotografie che ritraggono persone in un primo piano che ha la stessa brutalità delle foto tessera, il soggetto si mostra solo, fragile e privo di difese. Thomas Struth ha concentrato uno stesso tipo di attenzione su gruppi di famiglia o anche strade, case, chiese, paesaggi visti come da chi ricerchi un distacco emotivo che non ha. Candida Hofer ha scelto di fotografare gli ambienti che di solito sono frequentati da molte persone, come biblioteche, scuole e teatri. I luoghi disabitati risultano inutili come persone lasciate sole. Andrea Gursky ritrae scenari collettivi come spiagge e luoghi di lavoro, in cui cose e persone sembrano essere viste da lontano. Il personaggio americano di maggiore rilievo è Cindy Shermann che ha messo in scena se stessa in travestimenti diversi come fosse un’attrice. Nei In riferimento a questi temi Damien Hirst ha suscitato grande scandalo per la violenza visiva delle sue opere: ha infatti mostrato corpi di mucca veri sezionati e conservati in formalina oppure un corpo di squalo: un modo per ricordare il nostro stesso essere fatti di carne deperibile. In alcune sue opere viene portato in primo piano il rapporto che abbiamo con la nostra salute: scaffali di farmaci rappresentano bombe chimiche. Un’ottica più concettuale ma pur sempre in relazione al corpo e alla salute ha lavorato Felix Gonzales Torres. Le sue opere in cumuli di dolcetti del medesimo peso del suo corpo, talvolta accompagnati da scritte che raccontano vicende della sua vita. Il pubblico è invitato a prendere i dolcetti come se si trattasse di un’offerta, un’allegoria per indicare come nelle relazioni d’amore chi prende l’altro lo fa vivere ma lo consuma anche. Nell’ambito della pittura la tematica del corpo come luogo di dolore è stata messa in rilievo da Marlene Dumas nel suo La luce del mattino la figura si trasforma in un’ombra bluastra dagli occhi cavi, rievocando i personaggi straziati di Francis Bacon. Un altro gruppo di artisti ha dato corpo a un timore che sembra accompagnare l’uomo dai tempi della rivoluzione scientifica: quello di diventare degli automi o di inventare automi distruttivi. È esemplificativo Stelarc, che nelle sue performance lascia ad altri la possibilità di guidare i suoi arti, legati a un computer da un sistema di elettrodi. Un altro aspetto determinante degli anni 90 è stato rappresentato dalla straordinaria evoluzione dei mezzi di rappresentazione tecnologica. Ne hanno beneficiato in modo particolare le opere che usano la tecnica del video, che hanno offerto la possibilità di sviluppare filmati senza la narratività del cinema. Va comunque ricordato che il video è un mezzo e non una poetica: non esiste un movimento unitario che possa essere definito videoarte. Il primo artista a intuire le potenzialità artistiche del video è stato Nam June Paik che ha creato composizioni in cui i monitor si compongono in totem dei tempi moderni: le loro immagini ipnotizzano e avvincono come l’antico fuoco del caminetto. Le sperimentazioni successive hanno consentito agli artisti di concepire opere delle metodologie molto diverse. I risultati migliori si sono incominciati a ottenere quando il mezzo è stato sufficientemente maturo. Una prima grande bipartizione divide i video nati per essere proiettati su grandi superfici, avvolgendo lo spettatore e ponendosi ai limiti dell’arte ambientale, e quelli nati per essere visti nei monitor, magari circondati da una sorta di scenografia come accadeva per quelli di Nam June Paik. Inoltre si può ancora suddividere in tre tipologie fondamentali il modo in cui gli artisti si servono del video. La prima non interviene sul girato se non attraverso il montaggio. Un video molto noto di Fischli-Weiss si fonda sul succedersi di piccole catastrofi quotidiane, generate dall’interazione di oggetti comuni. Una seconda possibilità, evidente in molte opere di Pipilotti Rist consiste nel fare nascere ogni sequenza dalla sovrapposizione di vari girati, modificati al computer, in modo da alternare immagini realistiche a forme astratte e a colori che vengono spinti dalla tecnologia verso un’esasperazione allucinata. Una terza possibilità è data dal connettere il filmato a dei sensori, in modo da consentire all’opera di interagire con il pubblico. Nei video delle opere di Gary Hill le figure umane proiettate sul muro sono in grado di avvertire la nostra presenza e quando ci avviciniamo ci salutano. Le opere più complesse e sofisticate in questo campo sono state concepite da Bill Viola. La sua formazione a cavallo tra le arti visive e la tecnica del video gli ha consentito un’assoluta padronanza del mezzo. I dispositivi tecnologici che contribuiscono alla formazione dell’immagine, per quanto sofisticati, risultano nascosti e mai esaltati in se stessi. Nella spettacolare installazione Trilogia: Fuoco, acqua, respiro l’artista ha descritto la metamorfosi del corpo umano sotto l’azione di forze elementari come l’acqua, l’aria e il fuoco. La vita viene consumata dal fuoco e ricreata nell’acqua, mentre l’immagine passa ciclicamente dal tema della distruzione a quello della purificazione. Riguardo all’ultima generazione scopriamo immagini di particolare impatti nei film di Matthew Barney. Nella serie di cinque filmati intitolata Cremaster, Barney racconta soprattutto i misteri legati alla fecondazione e alla nascita della vita.