Scarica Riassunto completo del libro "Dopo la virtù" di MacIntyre e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia morale solo su Docsity! DOPO LA VIRTU’ Saggio di teoria morale MACINTYRE Introduzione libro nuovo, teorie nuove, ricerca della verità con umiltà, senza pretesa di perfezione, cambia idee quando discute con la gente. Metafisica realistica, non necessariamente sistematica. MacIntyre è un po’ marxista, un po’ aristotelico, un po’ tomista, ma non si riesce ad inquadrarlo bene da nessuna parte. “Dopo la virtù” è un’ottima guida introduttiva alla filosofia intesa come ricerca della verità a partire da domande concrete. Prefazione dopo 26 anni Non dice che la morale aristotelica è migliore delle altre, ma dice che, a partire dai concetti formulati da Aristotele, si può capire l’inconsistenza del discorso morale che nella modernità si è inceppato e non riesce a progredire. Molte tradizioni morali sono tradizioni di ricerca: qualcuno sostiene una tesi sulla base di convinzioni profonde dalle quali parte per un ragionamento razionale, ma se le convinzioni non possono essere confutate allora come si fa a confutare una o l’altra tradizione morale? (per esempio la dicotomia tra buddismo e utilitarismo moderno, oppure tra tradizione aristotelica e tomista). Il primo passo per riuscire a confutare una tradizione “opposta” è fare un grande sforzo di immaginazione immedesimandosi in quella stessa tradizione, cercare di capire quale sia il loro modo di ragionare. Il secondo passo è quello di individuare i problemi insoluti di quella tradizione (dall’interno, cioè in base ai criteri propri di quella tradizione). Bisogna insomma capire con i loro occhi cosa abbia arrestato il progresso della loro ricerca. Se il problema sussiste in quanto sono proprio i criteri di quella tradizione ad essere incapaci di formulare risposte per quei problemi specifici trovati, allora è possibile che le soluzioni vengano trovate proprio dalla tradizione rivale e grazie ai propri criteri si possono risolvere i problemi trovati nell’altra tradizione cui ci siamo immedesimati. Questo è il modo in cui si può capire se abbia senso che una tradizione sia più sensata di un’altra, senza comunque aspettarsi che ciò sia assolutamente certo. Uno potrebbe pensare però che i problemi della propria tradizione non si riescano ancora a risolvere nel presente ma che sarà possibile farlo continuando a provarci, senza accettare spunti da altre tradizioni in quanto (secondo lui) non attendibili e non razionali. in questo caso c’è la possibilità che la teoria rimanga sterile. Nulla toglie che questo metodo di ricerca possa in ogni caso non trovare sbocco e che diverse tradizioni possano rimanere in convivenza senza mischiarsi e senza trovare soluzioni. È comunque il metodo di ricerca che sembra più giusto a MacIntyre. Egli critica il liberalismo in quanto genera individualismo, ma non è conservatore perché crede che anche il conservatorismo contemporaneo faccia la stessa cosa. E non è neanche un comunitarista come gli si accusa di essere. Conservatorismo e liberalismo sono ugualmente in opposizione alla visione di “Dopo la virtù”. La nostra epoca è un tempo di attesa di nuove e inattese possibilità di rinnovamento e allo stesso tempo è resistenza coraggiosa nei confronti dell’ordine sociale, politico ed economico della modernità avanzata. Si spera che in futuro succeda qualcosa di inaspettato che migliori la situazione. Prefazione di quando è stato scritto MacIntyre scrive a partire dalle manchevolezze che col tempo e con i dialoghi e con le critiche ha compreso e voluto sistemare. Il libro è il risultato di un tortuoso percorso reso possibile dalle tante discussioni che ha avuto con le tante persone con cui ha avuto a che fare. CAPITOLO I Un’ipotesi inquietante Immagina un mondo possibile in cui i libri e gli scienziati vengano spazzati via per anni e anni e dopo tot tempo qualcuno riprova a capire qualcosa dai pochi frammenti e strumenti rimasti: studiare quelle cose delle scienze naturali che sono rimaste non vuol dire capirci qualcosa e il linguaggio della scienza sì, verrebbe utilizzato ancora, ma in modo confuso e disordinato, senza avere davvero chiaro ciò che si sta dicendo. Neanche la filosofia analitica riuscirebbe a trovare i problemi di questo linguaggio in quanto, arrivati ad un certo punto, sembrerebbe tutto normale, come se non ci fosse stato altro nel passato, come se la tragedia non fosse mai successa, tutti se la dimenticano e procedono normalmente con gli strumenti a loro disposizione. TESI: il linguaggio della morale, nel mondo reale odierno, si trova nello stesso stato confusionale e di disordine in cui si trova quello scientifico nel mondo possibile appena descritto. Se questo è vero, oggi abbiamo solo frammenti decontestualizzati di linguaggio morale. Avremmo perduto la nostra comprensione sia teoretica che pratica della morale, nonostante sappiamo usarne le teorie e le espressioni fondamentali. Un modo per capirci qualcosa del mondo immaginario è quello di capirne la storia, studiarla. È strano perché se fosse accaduta davvero una catastrofe di questo tipo sicuramente lo sapremmo, invece nel mondo immaginario la gente non sa che sia successa. Storia oggi significa essenzialmente storia accademica ed essa ha appena due secoli. Supponiamo che la catastrofe morale ci sia stata prima dell’istituzione della storia accademica e che quindi essa si sia sviluppata a partire da un contesto già disordinato. La seconda. Definire giusta un’azione equivale a dire che, tra le possibili alternative, è quella che produce il bene maggiore. Egli è quindi un utilitarista: ogni azione va valutata in base alle sue conseguenze, non è mai giusta o sbagliata in sé. La terza. Citando il suo libro (Principia Ethica), “gli affetti personali e i godimenti estetici comprendono tutti i massimi, e di gran lunga i massimi beni che possiamo immaginare…”. Questa è “la verità definitiva e fondamentale della filosofia morale”. Famiglia, amicizia e contemplazione del bello sono gli unici scopi giustificabili di ogni azione umana. Due considerazioni su queste tre sue tesi: La prima. Le tre tesi sono indipendenti l’una dall’altra: si può essere intuizionisti senza essere utilitaristi e viceversa ed entrambi possono non condividere i valori della terza tesi. La seconda. La prima tesi è banalmente falsa, e la seconda e la terza tesi sono come minimo molto discutibili (o le asserisce soltanto o le argomenta in modo superficiale). Eppure molti grandissimi filosofi e autori che lo hanno letto lo hanno molto acclamato, ma perché? Perché faceva comodo alla loro filosofia in quanto dava una risposta semplice ai problemi che incontravano nelle loro argomentazioni. Riprendendo da prima di Moore: se le tesi dell’emotivismo le intendiamo sull’uso e quindi le contestualizziamo storicamente e filosoficamente allora possono avere un senso, ma il senso che hanno in quel caso sembra minare le pretese di validità universale dell’emotivismo stesso, (è una teoria, per quanto da completare, corretta dell’uso e una teoria scorretta del significato) e con esse la sua apparente minaccia alla tesi originale di MacIntyre. Si potrebbe obiettare che in realtà l’emotivismo sia stato sostenuto in modi diversi in diverse epoche, luoghi e circostanze e che sia sbagliato concentrarsi sul ruolo di Moore. Ma, dice MacIntyre, oltre ad alcune delle tesi emotiviste che sono proprio non plausibili o difendibili, comunque si può trovare un parallelismo tra quella di Moore e le altre, si capisce che sono analoghe. Quello che sbaglia l’emotivismo è considerare situazione universale le situazioni in cui ciò che appare come affermazione di principi serve in realtà a mascherare espressioni di preferenza personale arbitraria, e per di più lo fa basandosi su fondamenti senza analisi storica e sociologica generale delle culture umane. L’emotivismo non è stato abbracciato nemmeno dai filosofi analitici, che analizzano il significato delle espressioni, e anche per questo si capisce che non può essere una teoria sul significato. Tuttavia continua ad esistere e si nota qualcosa di simile all’emotivismo in molti scritti di coloro che non si identificano tali, ma che riducono la morale a preferenza personale. Il fatto è che, spiegando perché si pensa un qualcosa piuttosto che un qualcosa d’altro, il processo di giustificazione approda sempre a una scelta non ulteriormente giustificabile, ad una scelta non guidata da alcun criterio. Quindi in ultima analisi, l’enunciazione di un qualsiasi principio è espressione della volontà personale. E dunque non ci siamo allontanati poi tanto dall’emotivismo. Si potrebbe obiettare che MacIntyre non prende in considerazione le posizioni analitiche contro l’emotivismo, ma spiega perché nessuna di esse, secondo lui, non raggiunge lo scopo: neanche loro, che condividono lo stesso scopo di trovare un carattere della razionalità morale e una morale fondata su tale razionalità, riescono ad accordarsi su quali debbano essere questi principi. Dunque falliscono nel loro scopo. Questo vale anche per alcune filosofie tedesche e francesi, all’apparenza molto diverse tra loro. L’apparire dell’emotivismo in una tale molteplicità di sembianze filosofiche indica con forza che la tesi di MacIntyre deve essere precisata proprio nei termini di un confronto con l’emotivismo: un modo di dire che la morale oggi non è più quella di una vota è appunto asserire che oggi in larga misura la gente pensa, parla e agisce come se l’emotivismo fosse vero, a prescindere da cosa ognuno professa. L’emotivismo è diventato parte integrante della nostra cultura. Non solo la morale oggi non è più quella di una volta, ma soprattutto la morale che c’era una volta è scomparsa in gran parte e ciò segna una grave perdita culturale. Per questo motivo si pongono a MacIntyre due compiti distinti ma collegati. Il primo. Definire e descrivere la morale perduta del passato e valutare le sue pretese di oggettività e autorità (compito in parte storico e in parte filosofico). Il secondo. Dimostrare la sua tesi sul carattere specifico dell’età moderna: se viviamo in una cultura specificamente emotivistica allora i nostri comportamenti e ragionamenti presuppongono la verità dell’emotivismo, almeno per quanto riguarda la prassi quotidiana; ma è davvero così? Risponde subito a quest’ultima domanda. CAPITOLO III L’emotivismo: contenuto sociale e contesto sociale Una filosofia morale, e l’emotivismo non fa eccezione, è caratterizzata dal fatto di presupporre una sociologia. Ne consegue che capiamo in fondo una filosofia morale quando capiamo quale sia la sua esemplificazione sociale. Perciò sarebbe una confutazione decisiva il dimostrare che l’impulso morale non potrebbe in alcun caso essere esemplificato nella realtà sociale. Da Moore in poi questo, appunto, non avviene in quanto è una concezione ristretta della filosofia morale, quindi dobbiamo farlo noi per loro: quale è il contenuto sociale essenziale dell’emotivismo? È il fatto che l’emotivismo implica la cancellazione di qualsiasi distinzione genuina fra relazioni sociali manipolative e non manipolative. Le filosofie precedenti implicano il fatto che vivere secondo morale significa trattare gli altri come fini in sé stessi, e non vivere secondo morale significa trattare gli altri come mezzi per i propri fini. L’unico scopo dell’emotivismo è proprio quello di esprimere le proprie idee appellandosi a principi impersonali che non esistono e influenzare gli altri in modo da omologare le loro idee alle proprie (gli altri sono sempre trattati come mezzi). Quale sarebbe dunque l’aspetto del mondo sociale, visto nell’ottica dell’emotivismo? E come sarebbe la realtà del mondo sociale, se la verità dell’emotivismo venisse largamente riconosciuta? I dettagli della risposta dipendono dai contesti sociali specifici in cui la distinzione tra rapporti sociali manipolativi e non manipolativi è stata cancellata. Nella nostra epoca l’emotivismo è una teoria incarnata in personaggi che condividono tutti la tesi emotivista circa la distinzione fra discorso razionale e non razionale, ma che rappresentano l’incarnarsi di questa distinzione in contesti sociali molto diversi; ne vediamo tre: Il ricco esteta. Ha già tutto e cerca solo di tenere lontana la noia (ha i mezzi e persegue fini a caso); il suo è un mondo in cui solamente si scontrano volontà individuali come se fosse un’arena dove combattere per il raggiungimento dei propri scopi personali, del proprio godimento. Il manager. Deve lottare per ottenere le scarse risorse (i mezzi), per perseguire fini prestabiliti. La sua preoccupazione è la tecnica. Il terapeuta. Egli rappresenta la cancellazione della distinzione fra i rapporti manipolativi e non manipolativi nella sfera della vita privata (anziché nella sfera sociale come per il manager). Anche per lui i fini sono già dati e si preoccupa della tecnica per raggiungerli. I personaggi così definiti non vanno confusi con i ruoli sociali in generale. I primi infatti costituiscono un tipo molto speciale di ruolo sociale, che esercita sulla personalità di chi la riveste una sorta di costrizione morale assente negli altri ruoli sociali; nel caso del personaggio, ruolo e personalità si fondono in un modo più specifico e le possibilità di azione sono determinate in modo più restrittivo. Inoltre i personaggi sono i rappresentanti morali della loro cultura in quanto le loro idee e teorie etiche e metafisiche si incarnano nella realtà del mondo sociale. Ruolo e individuo che riveste quel ruolo, invece, possono avere caratteristiche diverse in quanto qualcuno può avere un ruolo e agire secondo i valori di quel ruolo pur non credendo nell’importanza di tali valori. Con i personaggi le cose vanno diversamente in quanto i requisiti di un personaggio sono imposti dall’esterno, dagli altri, dall’ambiente. Il personaggio fornisce agli altri un ideale culturale e morale (individuo e personaggio coincidono). Come detto, i personaggi sono quei ruoli sociali che forniscono a una cultura le sue definizioni morali; questo non significa che ottengono un consenso universale ma, al contrario, riescono ad assolvere al loro compito, in parte, proprio perché forniscono spunti focali di dissenso. È spesso attraverso il conflitto che l’io riceve la propria definizione sociale. L’io, in quanto distinto dai propri ruoli, ha una storia e una storia sociale, e quella dell’io emotivista contemporaneo è intelligibile solo come il prodotto finale di una serie lunga e complessa di sviluppi. L’io, come viene presentato dall’emotivismo, non è identificato con nessun atteggiamento morale in quanto i suoi giudizi sono in ultima analisi privi di criteri. È un io concepito come interamente separato e contrapposto al mondo sociale, l’io non è una realtà: non ha alcun contesto sociale necessario e non ha alcuna identità sociale necessaria, dunque può essere qualsiasi cosa, assumere qualsiasi ruolo o punto di vista perché in sé e per sé non è nulla. Questa è la seconda caratteristica dell’io emotivista (la prima era il fatto che non ha criteri razionali definitivi e quindi i conflitti sono necessariamente confronti fra diverse arbitrarietà contingenti). L’io così concepito, da un lato totalmente distinto dalle proprie manifestazioni sociali e dall’altro privo di una propria storia razionale, può sembrare un’entità astratta e fantomatica. Appare così in quanto in totale contrasto con l’io del passato storico: in molte società pre-moderne, tradizionali, l’individuo identifica se stesso e viene identificato dagli altri mediante la sua appartenenza a una molteplicità di gruppi sociali (io sono il capo del villaggio, la madre di due figli, il cacciatore ecc e lo resto per sempre, la mia felicità si misura sulla base del fatto che riesca a raggiungere gli obiettivi prefissati dal mio ruolo). L’io specificamente moderno, nell’acquistare la sovranità nel suo proprio reame, ha perduto i confini tradizionali che gli erano stati forniti da un’identità sociale e da una visione della vita umana come processo orientato verso un fine prestabilito. Questa biforcazione del mondo sociale (da una parte obiettivi prestabiliti e dall’altra importanza del dissenso anche se su una base non razionale) trova la propria interiorizzazione, la propria rappresentazione Forse proprio questa combinazione tra novità e tradizione è responsabile della fondamentale incoerenza della posizione di Kierkegaard. E certamente, come MacIntyre argomenterà, proprio questa combinazione profondamente incoerente di nuovo e di tramandato è il risultato logico del progetto illuminista di fornire una base razionale alla giustificazione della morale. Per capire il motivo di ciò è necessario risalire da Kierkegaard a Kant. La filosofia morale di Kant è lo sfondo essenziale della trattazione dell’etico di Kierkegaard. Fondamentali per la filosofia morale di Kant sono due tesi ingannevolmente semplici. La prima: se le regole della morale sono razionali, devono valere per ogni essere razionale, esattamente come le regole dell’aritmetica. La seconda: se le regole della morale sono vincolanti per ogni essere razionale, l’importante non può essere la capacità contingente di un tale essere di seguire queste regole, ma la sua volontà di seguirle. Perciò il progetto di scoprire una giustificazione razionale della morale è semplicemente il progetto di scoprire un test razionale in grado di distinguere fra quelle massime che quando determinano la volontà sono un’espressione autentica della legge morale e quelle che non lo sono. Quali sono queste massime? Qual è questa concezione e da dove è derivata? Per rispondere dobbiamo capire come Kant respinge la tradizione morale precedente: innanzitutto Kant respinge l’dea che morale è ciò che ci fa perseguire la nostra felicità. Egli non dubita che l’uomo ricerchi sempre la felicità e che è il massimo a cui si può aspirare, però crede che la nostra concezione di felicità sia troppo vaga e mutevole a seconda dei contesti e del tempo, dunque non può farci da guida morale affidabile. Secondo Kant, invece, ogni espressione autentica della legge morale ha un carattere incondizionato e categorico: ci impone di fare una cosa come dovere per il dovere. In secondo luogo Kant ripudia il fatto che l’esame di una data massima o precetto consista nello stabilire se esso è comandato da Dio: dal fatto che Dio ci comanda di fare una certa cosa non può mai conseguire che abbiamo il dovere di farla. In conclusione la morale non può trovare alcun fondamento nei nostri desideri, e neanche nelle nostre credenze religiose. Mentre Kierkegaard aveva visto il fondamento dell’etico nella scelta, Kant lo vede nella ragione. La ragion pratica, secondo Kant, non ha bisogno di criteri esterni; fa parte della ragione formulare principi universali, categorici e internamente coerenti. Una morale razionale formulerà dunque principi che non solo possono, ma dovrebbero essere sostenuti da tutti gli uomini, indipendentemente dalle circostanze e dalle condizioni specifiche, e a cui ogni soggetto razionale potrebbe coerentemente obbedire in ogni occasione. L’imperativo categorico di Kant è equivalente a dire: “Agisci sempre in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella degli altri, come un fine, e mai come un mezzo”. Ma Kant non riesce ad argomentare razionalmente perché questo è bene, il suo tentativo fallisce esattamente come è fallito il tentativo di Kierkegaard di scoprire un fondamento nell’atto della scelta. Il progetto di Kierkegaard fu una risposta storica al fallimento di quello di Kant: l’atto di scelta doveva svolgere il compito che la ragione non era in grado di svolgere. A sua volta il progetto di Kant fu una risposta storica al fallimento di Diderot e di Hume (la morale, secondo loro, si basa sul desiderio e sulle passioni). Nonostante il loro radicalismo filosofico, riguardo alla concezione della morale erano piuttosto conservatori (simili a Kant e Kierkegaard). Sulle passioni, sulla ragione o sulla scelta: la giustificazione di ciascuna posizione si basava principalmente sul fallimento delle altre. Il progetto di fornire una giustificazione razionale della morale era decisamente fallito: da allora in poi, alla morale della cultura che ci ha preceduto (e di conseguenza alla nostra) mancò qualsiasi base logica o giustificazione pubblicamente condivisa. In un mondo di razionalità secolare la religione non poteva più fornire un tale sfondo e fondamento comune per il discorso e l’azione morale; e il fatto che la filosofia avesse fallito nel tentativo di fornire ciò che la religione non era più in grado di dare fu una causa importante della sua perdita di un ruolo culturale fondamentale e del suo trasformarsi in un argomento marginale, strettamente accademico. MacIntyre argomenterà più avanti il motivo per cui il significato di questo fallimento non fu valutato adeguatamente nell’epoca in cui avvenne. Intanto però bisogna capire meglio il motivo per cui il progetto fallì e il carattere di tale fallimento, e ne parla subito ora. CAPITOLO V Perché il progetto illuminista di giustificazione della morale dovette fallire Finora MacIntyre ha presentato il fallimento del progetto di giustificazione della morale esclusivamente come il fallimento di una serie di argomenti particolari. Quindi potrebbe essere solo un problema loro, causato dal loro contesto storico particolare, dal loro comune passato cristiano. MacIntyre, però, vuole dimostrare che qualsiasi progetto di questo tipo era destinato a fallire, a causa di una discrepanza inestirpabile fra la loro comune concezione delle regole e dei precetti morali e ciò su cui essi concordavano nella loro più o meno simile concezione della natura umana. Consideriamo innanzitutto la forma generale dello schema morale che fu l’antenato storico di tutte queste concezioni, che ha influenzato tutta la cultura dal dodicesimo secolo in poi, in tutto il medioevo: l’Etica Nicomachea di Aristotele. Alla base di quello schema teleologico c’è un contrasto fondamentale fra l’uomo come è di fatto per motivi contingenti e l’uomo come potrebbe essere se realizzasse la sua natura essenziale (il proprio telos). L’etica è quella scienza che deve mettere gli uomini in condizione di capire come effettuare il passaggio dal primo stato al secondo. L’etica presuppone dei precetti che devono ordinare i nostri desideri ed emozioni e che se vengono violati ci rendono frustrati e incompleti, incapaci di conseguire la felicità razionale (il fine particolare che dobbiamo perseguire come specie). Con la religione, i precetti dell’etica di questo schema vanno intesi non solo come ordini volti ad un fine, ma anche come espressioni di leggi decretate da Dio; al concetto aristotelico di errore viene aggiunto il concetto di peccato. La legge di Dio richiede un nuovo genere di rispetto e di soggezione. Il vero fine dell’uomo non può più essere pienamente raggiunto in questo mondo, ma solo in un altro. l’espressione morale ha dunque un duplice scopo: dire cosa qualcuno dovrebbe fare significa dire contemporaneamente quale serie di azioni lo condurrà verso un vero fine umano, e dire che cosa impone la legge istituita da Dio e compresa dalla ragione. Ma secondo i filosofi citati nel quarto capitolo, la ragione non è intesa come in Aristotele, è invece calcolatrice, nella sfera della prassi può parlare solo di mezzi, è uno strumento per arrivare a verità matematiche e di quel genere: tutti rifiutano qualsiasi visione teleologica della natura umana, qualsiasi visione che attribuisca all’uomo un’essenza che definisca il suo vero fine. Capire questo significa capire perché il loro progetto di trovare un fondamento per la morale dovette fallire. Lo schema morale che costituisce lo sfondo storico del loro pensiero aveva, come abbiamo visto, una struttura che richiedeva tre elementi: la natura umana spontanea (come è di fatto l’uomo per motivi contingenti), l’uomo come potrebbe essere se realizzasse il proprio telos, e i precetti morali che gli consentono di passare da uno stadio all’altro. Ma l’effetto congiunto del rifiuto secolare della teologia sia protestante sia cattolica e del rifiuto scientifico e filosofico dell’aristotelismo condusse all’eliminazione di qualsiasi concetto dell’uomo come potrebbe essere se realizzasse il proprio telos. Poiché lo scopo dell’etica era esclusivamente di mettere l’uomo in condizione di passare dal suo stato presente al suo vero fine, questa eliminazione lascia dietro di sé uno schema composto dei due elementi restanti, la cui relazione diventa abbastanza confusa. I filosofi morali del diciottesimo secolo avevano ereditato, dunque, un insieme di precetti morali privati del loro contesto teleologico da un lato, e una concezione della natura umana spontanea dall’altro che risultavano essere discordanti tra loro. Dal momento che non si resero conto della loro particolare situazione storica e culturale, non poterono neanche rendersi conto dell’impossibilità di portare a termine il compito che si erano prefissati. MacIntyre ora ragiona sulla seguente tesi: nessuna argomentazione valida può partire da premesse interamente fattuali, per raggiungere qualsiasi conclusione morale o assiologica. Detta in altro modo: da un insieme di premesse empiriche non può seguire alcuna conclusione morale. Detta in altro modo: da premesse concernenti l’“essere” non si può trarre alcuna conclusione che riguardi il “dovere”. Secondo lui, appunto, non è così (lo è solo nel caso dei sillogismi aristotelici), ci sono vari controesempi che dimostrano la falsità di questa tesi sostenuta da alcuni filosofi (tipo quelli citati e altri posteriori ma anche medievali). Controesempi: Questo orologio è impreciso e segna il tempo in modo irregolare, inoltre è troppo pesante per portarlo in giro -> Questo è un cattivo orologio. Il tale riesce ad ottenere una resa maggiore per ettaro rispetto agli altri, inoltre i suoi animali vincono sempre i premi nelle competizioni -> Il tale è un buon contadino. Orologio e contadino sono concetti funzionali (li definiamo in base allo scopo o alla funzione cui ci si aspetta che servano tipicamente), ne consegue che il concetto di orologio non può essere definito indipendentemente dal concetto di buon orologio, allo stesso modo il concetto di contadino; e che il criterio che fa di qualcosa un orologio e il criterio che fa di qualcosa un buon orologio (così come per contadino) non sono indipendenti l’uno dall’altro. Allora la tesi contro cui va MacIntyre, per essere accettata, dovrebbe escludere gli argomenti che contengono concetti funzionali. Viene da pensare che i sostenitori di quella tesi davano per scontato che nessun argomento morale contenesse concetti funzionali. Tuttavia gli argomenti morali interni alla tradizione classica, aristotelica (sia nella sua versione greca sia in quella medievale), contengono almeno un concetto funzionale fondamentale: il concetto di “uomo” inteso come dotato di una natura essenziale e di uno scopo o funzione essenziale. Di conseguenza, è in realtà solo quando la tradizione classica nella sua integrità viene respinta e gli argomenti morali cambiano, che essi diventano del tipo: “nessuna conclusione sul ‘dovere’ a partire da illuminante e liberatoria). La storia dell’utilitarismo costituisce dunque il legame storico tra il progetto del diciottesimo secolo di giustificare la morale e il decadere del ventesimo secolo nell’emotivismo. Smonta i filosofi analitici Il progetto fondamentale dei filosofi analitici, coloro che rifiutano l’emotivismo, sulla scia di Kant, è dimostrare che l’esercizio della ragione è l’autorità e l’oggettività delle regole morali (qualsiasi soggetto razionale è logicamente obbligato, in virtù della propria razionalità, a seguire le regole della morale). Per capire il perché questo progetto abbia fallito vediamo l’esempio di Gewirth. Secondo lui ogni soggetto razionale deve riconoscere una certa misura di libertà e di benessere come premesse indispensabili (considerati beni necessari) per poter agire razionalmente e, riconoscendole, è logicamente obbligato a ritenere anche di avere diritto a questi beni. Ma, obietta MacIntyre, l’introduzione del concetto di diritto deve essere giustificata: la tesi secondo cui io ho il diritto di fare o di avere qualcosa è una tesi di tipo assai diverso da quella secondo cui ho bisogno, o voglio, o desidero beneficiare di qualcosa; e l’esistenza di particolari tipi di istituzioni o pratiche sociali è una condizione necessaria perché il concetto di rivendicazione del possesso di un diritto sia un genere intelligibile di azione umana. MacIntyre ritiene, perciò, che l’utilitarismo della metà e della fine dell’Ottocento e la filosofia morale analitica della metà e della fine del Novecento siano tentativi ugualmente fallimentari di liberare il soggetto morale autonomo dalla difficoltà in cui lo aveva lasciato il fiasco del progetto illuminista di fornirgli una giustificazione secolare e razionale per le sue fedi morali. Dal fatto che quasi tutti i filosofi e non filosofi continuano a parlare e a scrivere come se almeno uno di questi progetti avesse avuto successo, deriva una delle caratteristiche del discorso morale contemporaneo che MacIntyre ha rilevato all’inizio: la discrepanza fra il significato delle espressioni morali e i modi in cui vengono usate. Poiché il significato è e rimane quale sarebbe stato giustificato solo se almeno uno dei progetti filosofici fosse riuscito; ma l’uso, l’uso emotivista, è appunto quello che ci si aspetterebbe se i progetti filosofici fossero tutti falliti. Di conseguenza l’esperienza morale contemporanea ha un carattere paradossale. Infatti si pensa che ciascuno di noi consideri se stesso come un soggetto morale autonomo, ma ciascuno di noi viene anche coinvolto in modalità pratiche, estetiche o burocratiche che ci costringono a un rapporto manipolativo con gli altri: cercando di proteggere la nostra autonomia aspiriamo a non essere manipolati dagli altri; cercando di portare avanti i nostri principi e punti di vista, cercando di raggiungere i nostri scopi, non troviamo altra strada praticabile che quella di rivolgere agli altri proprio quelle stesse modalità manipolative cui ciascuno di noi desidera sottrarsi nel proprio caso. L’incoerenza dei nostri atteggiamenti e della nostra esperienza deriva dallo schema concettuale incoerente che abbiamo ereditato. Una volta che abbiamo compreso questo, è possibile comprendere anche il ruolo centrale che altri tre concetti rivestono nello schema morale specificamente moderno: diritti, protesta e smascheramento. 1) Con diritti, MacIntyre intende dire non quelli della legge, ma quelli degli esseri umani in quanto tali (negativi tipo non essere intralciati nel perseguimento di libertà e felicità, positivi tipo avere un equo processo, istruzione, occupazione). Si suppone che valgano per tutti indistintamente e che forniscano un fondamento per una quantità di posizioni morali particolari. Però è strano che siano considerati “naturali”, “diritti dell’uomo in quanto tale” dal momento che il concetto “diritto” è comparso soltanto nel Medioevo e, in altre culture, anche molto più tardi. In realtà non esistono diritti del genere perché ogni tentativo di fornire ragioni valide per credere che tali diritti esistano è fallito. La loro esistenza non è dimostrabile: i diritti umani o naturali sono dunque finzioni, proprio come l’utilità (di Bentham e Mill), ma finzioni con proprietà altamente specifiche. Queste finzioni pretendono di fornirci un criterio oggettivo e impersonale, ma in realtà non lo fanno. Si capisce meglio perché sorga il fenomeno delle premesse incommensurabili nel dibattito morale moderno: ciò è un prodotto di una congiuntura storica particolare. 2) La protesta diventa una caratteristica morale distintiva dell’età moderna e l’indignazione è fra i sentimenti moderni predominanti. Oggi la protesta è quasi esclusivamente quel fenomeno negativo che si dà tipicamente come reazione alla supposta violazione dei diritti di qualcuno in nome dell’utilità per qualcun altro. Chi protesta non può mai né vincere una disputa né perderla: l’espressione della protesta è caratteristicamente indirizzata a coloro che già condividono le premesse di coloro che protestano. Gli effetti dell’incommensurabilità fanno sì che questi possano parlare solo con loro stessi: ciò vuol dire non che la protesta non possa essere efficace, ma che non può essere razionalmente efficace. I principali esponenti delle cause morali tipicamente moderne del mondo moderno offrono una retorica che serve a nascondere dietro la maschera della morale quelle che in realtà sono preferenze del volere e del desiderio arbitrario (e l’emotivismo non fece altro che generalizzare questo concetto). 3) Smascherare le motivazioni inconfessate della volontà e del desiderio arbitrario che si nascondono dietro le maschere morali della modernità, è a sua volta una della attività più tipicamente moderne. Fu un grande risultato di Freud la scoperta che smascherare l’arbitrarietà nel comportamento degli altri può sempre essere una difesa contro la messa a nudo di quella che portiamo in noi stessi. A questo punto MacIntyre riepiloga il corso della sua argomentazione principale: è partito dal carattere interminabile del dibattito morale contemporaneo e ha tentato di spiegare questa interminabilità come una conseguenza della verità di una versione che è stata corretta della teoria emotivista del giudizio morale (teoria considerata non solo filosoficamente, ma anche sociologicamente). La sua argomentazione mirava dunque a dimostrare che l’emotivismo informa gran parte dell’espressione e della prassi morale contemporanea, e più in particolare che i personaggi fondamentali della società moderna (nel senso speciale che ha conferito alla parola “personaggio”) incarnano tali forme emotiviste nel loro comportamento. La considerazione storica di quegli sviluppi che resero possibile l’affermarsi dell’emotivismo ci ha rivelato ora qualcos’altro su questi personaggi tipicamente moderni, e cioè la misura in cui essi utilizzano, e non possono evitare di utilizzare, finzioni morali. Ma fin dove si estende il dominio della finzione morale, al di là dei concetti di diritto e di utilità? E chi è destinato ad essere ingannato da tali finzioni? Fra i personaggi, l’esteta è la loro vittima meno probabile: se è ingannato, è soltanto dal proprio cinismo; cerca solo il godimento e una vita al massimo, non si sofferma su nulla. Il terapeuta, al contrario, non solo è il più facile ad essere ingannato fra i tre personaggi tipici della modernità, ma è anche quello che è più facilmente considerato come uno che si lascia ingannare, e non soltanto dalle finzioni morali. I due, comunque, non hanno finzioni proprie, specifiche, che appartengono alla definizione stessa del loro ruolo. Diverso è per il manager: insieme a diritti e utilità bisogna aggiungere la finzione specificamente manageriale rappresentata dalla pretesa di possedere un’efficienza sistematica nel controllare certi aspetti della realtà sociale. Noi non siamo abituati né a dubitare dell’efficienza dei manager, né a considerare l’efficienza un concetto tipicamente morale, da mettere sullo stesso piano di concetti come quelli di diritto o di utilità. Questo concetto, però, è inseparabile da una forma di esistenza umana in cui per “mezzi” si intende anche la manipolazione di esseri umani in schemi di sottomissione. Ma che cosa accade se l’efficienza è una parte di un’impostura che simula il controllo sociale anziché una realtà? Il nome che MacIntyre userà per designare questa pretesa qualità dell’efficienza è “competenza”. Ciò che mette in dubbio è solo specificamente la competenza manageriale e burocratica. La conclusione a questa sua tesi è che una tale competenza risulta essere in verità un’ulteriore finzione morale, perché il genere di conoscenza che si richiederebbe per sostenerla non esiste. Consideriamo, dice, la seguente possibilità: che ciò che ci opprime non sia il potere, ma l’impotenza; che i presidenti delle grandi imprese, in realtà, non ne abbiano il controllo; che le leve del potere producano effetti in modo asistematico e troppo spesso sono effetti collegati solo per coincidenza, e non per competenza. Se tutto ciò fosse vero, sarebbe importante mascherare il fatto, e l’uso del concetto di efficienza manageriale sarebbe una parte essenziale di questo mascheramento. Ciò che MacIntyre deve dimostrare è che l’uso del concetto di efficienza manageriale presuppone pretese di conoscenza che non possono essere giustificate, e inoltre che la differenza fra gli usi di tale concetto e il significato delle asserzioni che lo contengono è esattamente simile a quella riscontrata dalla teoria emotivistica nel caso di altri concetti morali moderni: la fede nell’efficienza manageriale è in una certa misura parallela a quella avanzata da certi filosofi morali emotivisti circa la fede in Dio. “Efficienza manageriale” e “Dio” sono realtà fittizie, ma credute vere, e vengono usate per mascherare altre realtà: il loro uso effettivo è espressivo. Così come, secondo alcuni emotivisti, manca un’adeguata giustificazione razionale per la fede in Dio, così l’argomentazione di MacIntyre si basa sull’assunto che le interpretazioni dell’efficienza manageriale mancano nello stesso modo di una forma adeguata di giustificazione razionale. Se MacIntyre ha ragione in questo, la caratterizzazione dello scenario morale contemporaneo sarà stata condotta ad uno stadio ulteriore rispetto a quello a cui l’avevano condotta i suoi argomenti precedenti: l’emotivismo non solo vale per, ed è incarnato in, un traffico di finzioni morali quali utilità e diritti, ma anche per la finzione morale dell’autorità manageriale (forse, culturalmente, la finzione più importante). La nostra morale, in questo caso, si rivela in una misura imbarazzante come un teatro di illusioni. La pretesa del manager alla neutralità morale (che è stata smontata) vorrebbe essere parallela alla pretesa di neutralità, invece quanto meno giustificabile, delle scienze naturali. Infatti il concetto di “fatto” venne reso disponibile a livello sociale proprio dai manager della burocrazia. Ciò è connesso con l’emergere del concetto di soggetto morale autonomo da una tradizione teleologica, che ebbe come conseguenza il cambiamento della visione dei concetti sia di “valore” sia di “fatto”. Non è una verità atemporalmente valida che conclusioni morali o comunque assiologiche non possano essere implicate da premesse empiriche; l’attuazione storica di questa visibile divisione tra “fatto” e “valore” non dipese però semplicemente dalla nuova concezione del valore e della morale: fu anche rafforzata da una concezione del “fatto” mutata, e che muta tuttora, una concezione il cui esame deve precedere qualsiasi valutazione della pretesa del manager moderno di possedere il genere di conoscenza che giustificherebbe la sua autorità. CAPITOLO VII “Fatto”, spiegazione e competenza Supporre che l’osservatore possa trovarsi faccia a faccia con i fatti, senza la mediazione di alcuna interpretazione teorica, è un errore: ciò che ciascun osservatore ritiene di percepire, è e deve essere determinato mediante concetti carichi di teoria (se guardo in alto di notte vedo dei puntini luminosi, ma devo capire di che cosa si tratta teoricamente). Se tutta la nostra esperienza dovesse essere caratterizzata esclusivamente nei termini di descrizione meramente sensoriale, ci troveremmo di fronte ad un mondo non solo non interpretato, ma non interpretabile, non comprendibile dalla teoria. presenta due aspetti: l’aspirazione alla neutralità rispetto ai valori e la pretesa al potere manipolativo. Ciò deriva appunto dalla distinzione che fecero i filosofi del diciassettesimo e diciottesimo secolo tra il regno dei fatti e quello dei valori. La vita sociale del ventesimo secolo si rivela fondamentalmente come la replica concreta e drammatica della filosofia del diciottesimo secolo. E la legittimazione delle forme istituzionali caratteristiche della vita sociale del ventesimo secolo si fonda sulla credenza che alcune delle tesi principali dei filosofi precedenti siano state confermate. Ma è vero? Non è stato notato a sufficienza che il modo in cui dovremmo rispondere alla domanda circa la legittimità morale e politica delle istituzioni dominanti tipiche della modernità risulta fare tutt’uno con il modo in cui decidiamo una questione di filosofia delle scienze sociali. CAPITOLO VIII Il carattere delle generalizzazioni nelle scienze sociali e la loro mancanza di potere di predizione Ciò che la competenza manageriale richiede per la propria conferma è una concezione giustificata della scienza sociale come disciplina che fornisce un insieme di generalizzazioni legali (le quali non differiscono nella forma logica da quelle applicabili ai fenomeni naturali in generale) dotate di un grande potere di predizione (spiegare fenomeni specificamente sociali). Ma la scienza sociale, in realtà, non produce generalizzazioni legali (perché si sono rivelate tutte false). Il fatto che le scienze sociali siano deboli nel formulare previsioni e il fatto che non scoprano generalizzazioni legali sono due sintomi della medesima condizione. Ma quale è questa condizione? È il fatto che i veri risultati delle scienze sociali vengono nascosti a tutti (e agli stessi sociologi) da un sistematico fraintendimento. Vediamo tre caratteristiche di molte generalizzazioni di questo tipo. 1) Sono corroborate da tantissimi esempi a favore, ma il fatto che comunque abbiano alcuni controesempi riconosciuti a sfavore non sembra compromettere la sopravvivenza della generalizzazione (sicuramente non la compromette come anche solo un controesempio farebbe per quanto riguarda la fisica o la chimica). 2) Mancano non solo di quantificatori universali, ma anche di termini che definiscano il campo d’azione: non possiamo in alcun modo precisare sotto quali condizioni esse valgano. 3) Non implicano nessun insieme ben definito di condizionali controfattuali: non sappiamo come applicarle in modo sistematico, oltre i limiti dell’osservazione, a casi non osservati o ipotetici. Quindi, qualunque cosa siano, sicuramente non sono leggi. Ma quale è allora il loro status? Non possiamo dire che sono semplicemente delle generalizzazioni probabilistiche perché queste ultime si riferiscono alle scienze naturali, sono molto più scientifiche delle generalizzazioni delle scienze sociali. Dobbiamo dunque considerare la possibilità che esse abbiano cercato la loro genealogia filosofica e la loro struttura logica nel posto sbagliato. Supponiamo che la tesi di MacIntyre per cui l’illuminismo è un periodo privo di autoconsapevolezza sia vera. Innanzitutto serve prendere in causa Macchiavelli poiché egli ha una visione del rapporto fra spiegazione e predizione molto diversa da quella dell’illuminismo. In cosa si differenzia da esso nello specifico? Innanzitutto nel suo concetto di fortuna: egli credeva che per quanto le generalizzazioni potessero essere accurate, il fattore della fortuna non potesse essere eliminabile dalla vita umana. Perfezionando la nostra conoscenza possiamo limitare la sovranità della fortuna, frivola dea dell’imprevedibilità; ma non possiamo eliminarla. MacIntyre sostiene che nelle faccende umane ci sono quattro fonti di imprevedibilità sistematica. La prima. Sulla scia di Popper, l’idea della predizione di un’innovazione concettuale radicale è essa stessa concettualmente incoerente: qualsiasi invenzione, qualsiasi scoperta, che consista essenzialmente nell’elaborazione di un concetto radicalmente nuovo, non può essere predetta, in quanto predicendola la si sta inventando, quindi non si sta predicendo il futuro ma la si sta inventando nel presente. MacIntyre usa l’espressione “radicalmente nuovo” per confutare le possibili obbiezioni a questa sua tesi: non si parla di qualcosa di nuovo che può essere facilmente abbozzato, ma di qualcosa che non è ancora intelligibile. È evidente che questi argomenti non implicano affatto che la scoperta o l’innovazione radicale siano inesplicabili: possono essere spiegate dopo che sono avvenute. Questa coesistenza di imprevedibilità ed esplicabilità non vale soltanto per il primo tipo di imprevedibilità sistematica, ma anche per gli altri tre. La seconda. L’imprevedibilità delle proprie azioni future da parte di ciascun soggetto a livello individuale genera un elemento di imprevedibilità assoluta nel mondo sociale. Io non posso predire le mie azioni future nella misura in cui queste dipendono da decisioni che non ho ancora preso. Ciò che non posso predire di me stesso, possono però predirlo gli altri, ma a loro volta non possono predire di sé stessi: per esempio nessuno può predire fino in che misura le proprie azioni influenzeranno le decisioni prese da altri. Tra questi altri ci sono anche io, e dunque significa che nessuno può predire le mie azioni future più di quanto possa predire le proprie. In conclusione: l’imprevedibilità del mio futuro da parte mia genera un grado importante di imprevedibilità assoluta. Si potrebbe formulare la questione in questo altro modo: l’onniscienza esclude la decisione, in quanto, se Dio conosce tutto ciò che accadrà, non si trova mai di fronte a decisioni non ancora prese. È proprio nella misura in cui siamo diversi da Dio che l’imprevedibilità invade le nostre vite. La terza. Deriva dal carattere di teoria dei giochi della vita sociale. Alcuni teorici della scienza politica hanno usato le strutture formali della teoria dei giochi per procurare un possibile fondamento ad una teoria esplicativa e predittiva che contiene generalizzazioni legali per interpretare situazioni sociopolitiche concrete. Ma questa pretesa è illusoria per tre motivi: innanzitutto la teoria dei giochi presuppone una riflessività infinita delle situazioni (ogni giocatore si cerca di rendere imprevedibile per gli altri, sapendo che gli altri stanno facendo la stessa cosa), dunque le strutture formali della situazione non possono mai essere una guida adeguata; in secondo luogo le situazioni della teoria dei giochi sono tipicamente situazioni di conoscenza imperfetta, poiché ognuno cerca di portare al massimo l’imperfezione dell’informazione degli altri mentre perfeziona la propria, magari cercando di dare false impressioni; infine, in qualsiasi situazione sociale determinata, frequentemente molte transazioni differenti hanno luogo nello stesso tempo fra membri dello stesso gruppo (non viene giocato un gioco solo, ma parecchi tutti assieme. E persino quando possiamo stabilire con certezza quale gioco viene giocato, nelle situazioni della vita reale, non possiamo determinare in anticipo quale e quanti giocatori ci saranno e nemmeno il luogo in cui si giocherà. La quarta. La contingenza pura e semplice. Banali fatti contingenti possono influenzare potentemente il risultato di grandi eventi. Dato quindi che nella vita sociale vi sono questi elementi imprevedibili, è fondamentale rilevare il loro intimo rapporto con gli elementi prevedibili. Quali sono queste specie di prevedibilità sistematica del comportamento umano? Sono almeno quattro. La prima. Deriva dalla necessità di programmare e coordinare le nostre azioni sociali: siamo in grado di prevedere quanta gente ci sarà sull’autobus in base all’orario, un ristoratore saprà più o meno quanta gente arriva a mangiare in base al giorno ecc. tutti noi sappiamo più di quanto siamo soliti riconoscere circa ciò che gli altri si aspettano che ci aspettiamo, e viceversa. La seconda. Deriva dalle regolarità statistiche: la cosa interessante di ciò è la sua relativa indipendenza dalla conoscenza casuale. Cioè conosciamo le statistiche ma non le loro cause. Anche la prevedibilità non implica, dunque, l’inesplicabilità. La terza. La conoscenza delle regolarità causali della natura: le cose naturali pongono limiti alle possibilità umane. La quarta. La conoscenza di regolarità causali nella vita sociale. Benché lo statuto delle generalizzazioni che esprimono tale conoscenza sia appunto l’oggetto dell’indagine di MacIntyre, egli riconosce che, dopotutto, è abbastanza evidente che generalizzazioni del genere esistono, e hanno davvero un certo potere di prevedere. È la relazione fra prevedibilità e imprevedibilità nella vita sociale, cioè il grado di prevedibilità posseduto dalle nostre strutture sociali, che consente di pianificare e di impegnarci in progetti a lungo termine; e la capacità di fare ciò è una condizione necessaria per riuscire a trovare significati nella vita. Ma d’altro canto, l’imprevedibilità che pervade la nostra vita umana rende costantemente fragili e vulnerabili tutti i nostri piani e progetti. Tutti vorrebbero avere fede nel fatto che fragilità e vulnerabilità siano condizioni superabili in qualche progresso futuro e la filosofia della scienza sembrerebbe sostenere questa fede. Ma l’argomentazione di MacIntyre deve procedere adesso nella direzione opposta. Per poter raggiungere i nostri fini, per poter conoscere il nostro ambiente naturale e sociale, per poter difendere noi stessi dagli altri, per poter rendere la nostra vita significativa e quindi per poter fare progetti a lungo termine, tentiamo sempre, nel mondo in cui viviamo, di rendere contemporaneamente prevedibile il resto della società e imprevedibili noi stessi, di escogitare generalizzazioni che catturino il comportamento degli altri e di plasmare il nostro comportamento in forme capaci di eludere le generalizzazioni elaborate dagli altri. Se questi sono tratti universali della vita sociale, quali saranno le caratteristiche del migliore insieme ottenibile di generalizzazioni sulla vita sociale? Probabilmente avranno tre caratteristiche importanti: in primo luogo, sebbene basate su una vasta ricerca, il loro carattere induttivo si rivelerà nel fallimento del tentativo di avvicinarsi a uno statuto legale; inoltre, per quanto le migliori di esse possano essere ben formulate, dovranno coesistere con controesempi; infine, nemmeno per le migliori, non potremo essere mai in grado di precisarne con esattezza il dominio. Ne segue, evidentemente, che esse non implicheranno insiemi ben definiti di condizioni controfattuali; non saranno precedute da quantificatori universali, ma da qualche espressione del tipo: “Tipicamente e per la maggior parte…”. MacIntyre ora torna a Macchiavelli: ciò che l’argomentazione dimostra è che la fortuna è ineliminabile. Ma comunque possiamo definirne due aspetti: il primo. C’è la possibilità di una misurazione della fortuna: se gli errori di previsione venissero accuratamente catalogati e facessimo dell’errore stesso un oggetto di ricerca, secondo MacIntyre, potrebbe essere altro perché il mondo di Goffman è privo di criteri oggettivi per definire il successo. I criteri sono stabiliti semplicemente attraverso la stessa interazione tra individui. Poiché “successo” è qualunque cosa passi per tale, è nella considerazione degli altri che io riesco o fallisco. Per il mondo di Goffman vale una tesi che Aristotele, nell’Etica Nicomachea, esamina per respingere: il bene dell’uomo consiste nel possesso dell’onore, dove onore è appunto tutto ciò che incarna ed esprime la considerazione degli altri. Aristotele confuta questa tesi dicendo che, piuttosto dell’onore stesso, è più importante ciò in virtù di cui si attribuisce l’onore. Quella di Goffman, in quanto vera e propria filosofia morale, si contrappone implicitamente alla filosofia morale di Aristotele, così come per Nietzsche: se la filosofia morale di Aristotele è vera, allora è falsa quella di Nietzsche e viceversa. Anche se esse si contrappongono in senso molto più forte, in virtù del ruolo storico svolto da ciascuna delle due. Infatti fu per il ripudio della tradizione morale di Aristotele che nacque il progetto illuminista, e fu per il fallimento di questo progetto che Nietzsche e tutti i suoi successori esistenzialisti ed emotivisti sferrarono le loro critiche alla morale precedente. Perciò la difendibilità della posizione nietzscheana (per cui ogni giustificazione razionale della morale palesemente fallisce, e che quindi la fede nei dogmi morali deriva dalla non-razionale volontà) dipende in ultima analisi dalla risposta alla domanda: è possibile, dopotutto, giustificare l’etica di Aristotele, o qualcosa di molto simile ad essa? La loro non è semplicemente la contrapposizione di due teorie, ma quella della precisazione teoretica di due modi di vita differenti. L’aristotelismo è filosoficamente la più potente forma premoderna di pensiero morale: se bisogna sostenere contro la modernità una visione premoderna della morale e della politica, questo dovrà avvenire in termini del tipo di quelli aristotelici, oppure non avvenire affatto. In conclusione, o si devono seguire dal principio alla fine le aspirazioni e il fallimento delle diverse versioni del progetto illuminista, sicché non rimangano che la diagnosi e la problematica nietzscheane, oppure bisogna ritenere che il progetto illuminista non solo fu sbagliato, ma in primo luogo non avrebbe mai dovuto essere intrapreso. Non vi è nessuna terza alternativa. Ma quale delle due dovremmo scegliere? E come dovremmo scegliere? È un ulteriore merito di Nietzsche la constatazione del fatto che le filosofie illuministe non sono riuscite non solo a dare risposta, ma neanche a formulare adeguatamente la domanda: “che genere di persona devo diventare?”. Loro la formulavano facendo riferimento alle regole: “quali regole dovremmo seguire? E perché dovremmo rispettarle?”. Le regole diventano il concetto primario della vita morale moderna, di conseguenza, le qualità del carattere sono apprezzabili solo se conducono a seguire l’insieme giusto di regole. Quindi, dal punto di vista moderno, la giustificazione delle virtù dipende da una qualche giustificazione precedente delle regole e dei principi. Ma supponiamo che nell’articolare i problemi della morale i portavoce della modernità, e in particolare del liberalismo, abbiano concepito in maniera errata la gerarchia dei concetti assiologici; supponiamo di doverci occupare in primo luogo delle virtù per capire la funzione e l’autorità delle regole; allora dovremmo cominciare l’indagine in modo esattamente opposto a quello in cui la cominciarono Hume, Diderot, Kant o Mill: è interessante che su questo punto Nietzsche e Aristotele concordino. Inoltre, per reinterpretare nuovamente l’aristotelismo, mettendolo daccapo in discussione, sarà necessario considerare i suoi scritti come tentativo di ereditare il pensiero anteriore e come stimolo per quello a venire. Cioè, sarà necessario in primo luogo, dice MacIntyre, scrivere una breve storia delle virtù nelle epoche antiche, di cui Aristotele è un punto importante, ma solo uno dei tanti: sta parlando della “tradizione classica” e di ciò che ha definito “la visione classica dell’uomo”. Capitolo X Le virtù nelle società eroiche La cultura classica affonda le sue radici nei poemi omerici: queste narrazioni costituiscono la memoria storica delle società in cui vennero trascritte, ma soprattutto esse fornivano uno sfondo morale alla discussione contemporanea nelle società classiche, con credenze e concetti ormai abbastanza superati, ma che esercitavano ancora un’influenza parziale e offrivano un illuminante contrasto con il presente. La comprensione della società eroica è quindi un elemento necessario della comprensione della società classica e di quelle che le succedettero. Quali sono le sue caratteristiche principali? Nella società omerica, ma anche nelle società eroiche in Islanda e in Irlanda, ogni individuo ha un ruolo e un rango prestabilito entro un sistema ben definito e rigorosamente determinato di ruoli e di ranghi. Le strutture più importanti sono quelle della parentela e del casato. Ognuno fa quel che deve e sa cosa deve fare in base alla propria posizione. Poiché ciò che si richiede sono azioni, un uomo è ciò che fa: nulla di più, nessuna profondità. Le virtù di un uomo sono semplicemente quelle qualità che si manifestano nelle azioni richieste dal suo ruolo. La parola “areté”, che in seguito venne tradotta con “virtù”, nei poemi omerici è usata per designare l’eccellenza di qualsiasi genere: per esempio un corridore veloce mostra l’areté dei suoi piedi. Forza e coraggio diventeranno le virtù principali. Il coraggio non è importante solo come qualità degli individui, ma come qualità necessaria per sostenere una stirpe e una comunità. Anche altre virtù sono importanti in virtù del ruolo che svolgono nel mantenimento dell’ordine comunitario. Essere coraggioso significa essere qualcuno su cui si può fare affidamento: perciò il coraggio è un elemento importante nell’amicizia. I legami di amicizia nelle società eroiche sono modellati su quelli di parentela, a volte l’amicizia viene giurata formalmente per definire reciprocamente gli obblighi. L’altro elemento dell’amicizia è la fedeltà: la fedeltà del mio amico mi assicura della sua volontà di aiutare me e la mia stirpe (cosa che riesce a fare se coraggioso). Nelle donne la fedeltà è la virtù più importante in quanto essa è garanzia nell’unità della stirpe. È importante sottolineare un punto cruciale della questione: nella società eroica, etica e struttura sociale sono di fatto una cosa sola, c’è soltanto un insieme di vincoli sociali; la morale come qualcosa di autonomo non esiste ancora. Senza una posizione precisa nell’ordinamento sociale, non soltanto un uomo non potrebbe ricevere dagli altri riconoscimento e risposta: non saprebbe egli stesso chi è. Un altro aspetto di questa cultura è la vulnerabilità dell’uomo: la morte non fa eccezioni tra cittadini, stranieri o chicchessia. Se io uccido te, i tuoi amici o fratelli sono in debito con la tua morte e quindi devono uccidere me, e avanti così. Il destino è una realtà sociale, e la previsione del destino un importante ruolo sociale. L’uomo che fa ciò che deve procede costantemente verso il suo destino e, in ultima analisi, verso la sua morte. L’onore viene conferito dai propri pari, e senza onore un uomo non ha valore; per questo, ognuno prova vergogna di fronte alla possibilità di agire in modo sbagliato. Tutte le espressioni assiologiche si definiscono a vicenda, e ciascuna deve essere spiegata in base alle altre. Tutti i problemi di scelta sorgono all’interno di questa struttura, la struttura stessa non può essere scelta: allora non ha senso chiedersi cosa sia giusto perché si dovrebbe uscire dalla struttura per poterlo fare, in quanto un’azione è giusta se è richiesta da un dato ruolo in una data situazione. C’è dunque il più netto contrasto tra l’io emotivista della modernità e l’io dell’età eroica. A quest’ultimo manca la caratteristica che certi filosofi morali moderni considerano una caratteristica essenziale della personalità umana: la capacità di distaccarsi da qualsiasi prospettiva o punto di vista particolare, di fare, per così dire, un passo indietro, e osservare e giudicare dall’esterno quella prospettiva o quel punto di vista. Nella società eroica non vi è alcuna posizione “esterna”, salvo quella dello straniero. L’identità nella società eroica implica la particolarità e la responsabilità: è a, per e con certi determinati individui che devo fare ciò che devo, ed è verso questi stessi e verso altri individui, membri della medesima comunità locale, che sono responsabile (tutto questo fino alla morte). Dalle società eroiche abbiamo da imparare due cose: la prima. Ogni morale è sempre legata in qualche misura a una dimensione socialmente locale e particolare, e le aspirazioni della morale moderna a un’universalità libera da qualsiasi particolarità è un’illusione. La seconda. Non c’è nessun modo di possedere le virtù se non come parte di una tradizione in cui esse e la nostra comprensione di esse ci vengono tramandate da una serie di predecessori, nella quale le società eroiche occupano il primo posto. La morte, in Omero, è un male allo stato puro. Il male estremo è la morte seguita dalla profanazione del corpo (male pratico non solo del cadavere ma, nella stessa misura, anche della stirpe). Essere uno schiavo o venir ucciso in battaglia significa essere stato sconfitto: la sconfitta è l’orizzonte morale dell’eroe omerico, ciò di là da cui non c’è nulla da vedere, non rimane nulla. Di fuori da questo schema c’è solo l’autore, che sa cose che i personaggi non sanno. Questo tipo di poesia eroica rappresenta una forma di società con una struttura particolare: tale struttura incarna uno schema concettuale che ha tre elementi fondamentali collegati tra loro: in primo luogo, una concezione di ciò che è richiesto dal ruolo sociale ricoperto da ciascun individuo; poi, una concezione delle eccellenze o virtù come quelle qualità che consentono a un individuo di fare ciò che il suo ruolo richiede; infine, una concezione della condizione umana come fragile e vulnerabile da parte del destino e della morte, sicché essere virtuosi non significa evitare vulnerabilità e morte, ma piuttosto accordare ad esse ciò che è loro dovuto. Questa struttura è la forma narrativa dell’epica, una forma incarnata dalla vita morale degli individui e dall’ordinamento sociale collettivo. La struttura sociale eroica è la narrazione epica trasposta in atto. I personaggi dell’epica non possiedono altri strumenti per osservare il mondo umano e naturale che quelli forniti dalle concezioni che ispirano la loro visione del mondo. Ma appunto per questo non hanno dubbi che la realtà sia come se la rappresentano. Si mostrano a noi con una visione del mondo di cui affermano la verità. L’epistemologia implicita del mondo eroico è un assoluto realismo. L’io, nelle società eroiche, diventa quello che è solo attraverso i suoi ruoli; è una creazione sociale, non individuale. Se certi sofisti traducono la molteplicità e le incoerenze dell’uso comune e del linguaggio in un relativismo che pretende di essere coerente, Platone respinge non solo il relativismo e l’incoerenza, ma anche la molteplicità. Sembra evidente che possano esistere concezioni antagonistiche delle virtù, interpretazioni antagonistiche di che cosa sia una virtù. Ma se anche si potesse razionalmente risolvere queste dispute e ad arrivare ad un elenco sistematico di virtù e vizi giustificabili, non ci sarebbero mai virtù in contrasto l’una con l’altra? Platone risponde: non soltanto le virtù sono compatibili tra loro, ma la presenza di ciascuna richiede la presenza di tutte le altre. Questa tesi circa l’unità delle virtù viene ribadita da Aristotele e Tommaso d’Aquino. Il presupposto che tutti e tre condividono (al netto di altre varie differenze) è che esista un ordinamento cosmico che determina la posizione di ciascuna virtù in uno schema totale e armonioso di vita umana. La verità, nella sfera morale, consiste nella conformità del giudizio morale all’ordine di questo schema. Un’interessante tradizione moderna, in contrasto con la risposta di Platone, sostiene che la molteplicità ed eterogeneità dei valori umani sia tale, che i loro perseguimento non può essere ricomposto in alcun singolo ordinamento morale, e che di conseguenza ogni ordinamento sociale che o tenti una siffatta ricomposizione, o imponga l’egemonia di un insieme di valori su tutti gli altri, sia condannato a trasformarsi in una camicia di forza, e probabilmente in maniera totalitaria, per la condizione umana (tesi di Berlin ripresa da Weber). In questo senso, dove i giudizi esprimono scelte di questo genere, non possiamo caratterizzarli come veri o falsi. Sofocle presenta una concezione egualmente difficile da accettare per un platonico e per un weberiano: esistono davvero conflitti in cui sembra che virtù differenti avanzino nei nostri confronti pretese antagoniste e incompatibili, ma il tragico della nostra situazione è che dobbiamo riconoscere l’autorità di entrambe le pretese (quella platonica e quella weberiana). Esiste un ordinamento morale oggettivo, ma le nostre intuizioni di esso sono tali che non possiamo ricondurre le verità morali antagoniste a una completa armonia reciproca: lo scegliere non mi esonera dall’autorità della pretesa che scelgo di non rispettare. Altre due caratteristiche fondamentali dell’interpretazione delle virtù da parte di Sofocle sono le seguenti. La prima. Il protagonista morale sta con la sua comunità e con il suo ruolo sociale in un rapporto che non è quello dell’eroe epico, e neppure quello dell’individualismo moderno. Da un lato non sarebbe nulla senza la sua posizione sociale, dall’altro la trascende grazie al riconoscimento del genere di conflitto tra le concezioni di virtù. La seconda. La vita del protagonista sofocleo ha la propria forma narrativa specifica, esattamente come l’aveva quella dell’eroe epico. Egli raffigura la vita umana in narrazioni drammatiche perché ritiene che la vita umana possieda già di per sé la forma della narrazione drammatica, o meglio, la forma di un tipo specifico di narrazione drammatica. È necessario ampliare in due modi la visione sofoclea. Il primo. Sottolineare una volta di più che nello scontro drammatico sofocleo non è in gioco soltanto il destino di individui, ma anche quello del clan e della città, e quello della comunità greca: il personaggio tragico, come quello epico, è l’individuo in quanto portatore di un ruolo, in quanto rappresentante della propria comunità; perciò, in un senso importante, anche la comunità è un personaggio tragico, che mette in scena la narrazione della sua storia. Il secondo. L’io sofocleo si differenzia quanto quello eroico dall’io emotivista, benché in modi più complessi: l’io sofocleo trascende le limitazioni dei ruoli sociali, ed è in grado di mettere in questione tali ruoli, ma rimane responsabile fino alla morte, e responsabile proprio del modo in cui si comporta in quei conflitti che rendono ormai insostenibile il punto di vista eroico. Perciò la condizione d’esistenza dell’io sofocleo è di potere davvero vincere o perdere, salvarsi o avviarsi alla distruzione morale; è che vi sia un ordine che esige da parte nostra il perseguimento di certi fini, un ordine la relazione al quale fornisce ai nostri giudizi la proprietà di essere veri o falsi. Ma esiste un ordine del genere? Dice MacIntyre: “non possiamo più rimandare il passaggio dalla poesia alla filosofia, da Sofocle ad Aristotele”. Capitolo XII L’interpretazione aristotelica delle virtù Da un lato, MacIntyre, considera Aristotele il protagonista contro cui ha messo in campo voci del liberalismo moderno, d’altro lato non lo considera solo come un teorico individuale, ma come il rappresentante di una lunga tradizione. Aristotele tentò di scrivere la storia della filosofia precedente in modo da farla culminare con il suo pensiero, ma concepiva il rapporto del suo pensiero con i precedenti come la sostituzione dei loro errori o verità parziali con la sua interpretazione vera ed esauriente. Fosse per lui, una volta conclusa la sua opera, si sarebbe potuto scartare tutto degli autori precedenti senza che ci fosse stata nessuna perdita. MacIntyre considera Aristotele come rappresentante di una lunga tradizione in maniera, quindi, fortemente non-aristotelica (il passato e il futuro di Aristotele sono importanti e non vanno scartanti: il presente è intelligibile soltanto come commento e reazione del passato, in cui quest’ultimo può essere corretto e superato solo in un modo che lascia aperta la possibilità che il presente venga a sua volta corretto e superato da un punto di vista futuro ancora più adeguato). L’importanza di Aristotele può, dunque, essere precisata solo nei termini di un tipo di tradizione la cui esistenza egli stesso non riconobbe e non avrebbe potuto riconoscere. È la sua interpretazione delle virtù a costituire in misura decisiva la tradizione classica, che si fa razionale, in quanto tradizione di pensiero morale. L’Etica Nicomachea (il testo canonico dell’interpretazione aristotelica delle virtù) è il più brillante insieme di appunti di lezioni che sia mai stato scritto. Una domanda che Aristotele pone continuamente è: “che cosa diciamo circa il tale argomento?”, e non “che cosa dico circa il tale argomento?”. Chi è questo “noi”, in nome del quale egli scrive? Aristotele non ritiene di stare inventando un’interpretazione delle virtù, ma di stare articolando un’interpretazione che è implicita nel pensiero, nel discorso e nell’azione di un ateniese colto, che è razionale. Secondo lui, ogni attività, ogni ricerca, ogni prassi tende verso qualche bene; infatti con “il bene” o “un bene” intendiamo appunto ciò verso cui tendono tipicamente gli esseri umani. Essi tendono naturalmente verso un telos specifico, il bene è definito in base alle loro caratteristiche specifiche. Che cosa risulta essere, allora, il bene per l’uomo? Gli dà il nome di eudaimonía (beatitudine, felicità, prosperità). Le virtù sono appunto quelle qualità il cui possesso consente a un individuo di raggiungere l’eudaimonía, e la cui mancanza è destinata a vanificare il suo movimento verso questo telos. Ciò che costituisce il bene per l’uomo è un’intera vita umana vissuta nel modo migliore, e l’esercizio delle virtù è una parte necessaria e fondamentale di una vita del genere. Il risultato immediato dell’esercizio di una virtù è una scelta che ha come conseguenza un’azione giusta. Agire virtuosamente non significa, come in seguito riterrà Kant, agire contro la propria inclinazione: significa agire in base ad un’inclinazione plasmata mediante la coltivazione delle virtù. Il soggetto morale educato fa ciò che è virtuoso perché è virtuoso; il soggetto autenticamente virtuoso agisce, appunto, sulla base di un giudizio vero e razionale. Aristotele insiste sul fatto che le virtù trovano la loro collocazione non semplicemente nella vita dell’individuo, ma in quella della città-stato, e che in verità l’individuo è intelligibile solo in quanto “animale politico”. Fondare una comunità per portare a compimento un progetto comune significa sviluppare due tipi del tutto diversi di prassi valutativa: da un lato decidere le qualità della mente e del carattere che possano contribuire alla realizzazione del bene comune (e i corrispondenti vizi); dall’altro identificare certi tipi di azione come un male di tale specie da distruggere i vincoli comunitari e allontanare la realizzazione del bene comune. La necessità di entrambi questi tipi di prassi deriva dal fatto che un individuo membro di una tale comunità potrebbe venir meno al proprio ruolo in quanto membro di quella comunità in due modi completamente diversi: da un lato potrebbe semplicemente non essere abbastanza buono, potrebbe essere carente di virtù in una misura tale da rendere trascurabile il suo contributo al conseguimento del bene comune della comunità; d’altro lato potrebbe commettere un crimine contro la legge e quindi commettere positivamente uno sbaglio. I due generi di mancanza sono però intimamente connessi, infatti entrambi offendono la comunità e rendono difficile il perseguimento del bene comune. È per questo motivo che Aristotele deve integrare alla sua interpretazione delle virtù anche quei tipi d’azione che sono proibiti o imposti in modo assoluto dalla legge. Ma c’è un altro legame essenziale fra le virtù e la legge: sapere come applicare la legge è a sua volta possibile solo per chi possieda la virtù della giustizia. Essere giusto significa dare a ciascuno ciò che si merita, e quindi i presupposti sociali per il fiorire della virtù della giustizia in una comunità sono due: che vi siano criteri razionali per valutare il merito e che vi sia un accordo socialmente stabilito su quali siano tali criteri. Ma si presenteranno sempre casi particolari in cui non è chiaro come la legge vada applicata e che cosa richieda la giustizia. È in tali situazioni che dobbiamo agire “in base alla giusta ragione”: è qui che Aristotele introduce il “giusto mezzo”. Per ogni virtù vi sono due vizi corrispondenti e la virtù sta proprio nel giusto mezzo. Non si può stabilire in modo adeguato che cosa significhi cadere in un vizio se si prescinde dalle circostanze. Per questo il giudizio ha un ruolo indispensabile nella vita dell’uomo virtuoso, mentre invece non lo ha, e non potrebbe averlo, nella vita dell’uomo che si limita a rispettare una legge ma che è carente di virtù. Una virtù essenziale è dunque la phrónesis: designa chi sa cosa gli è dovuto ed è orgoglioso di esigerlo. In seguito viene a indicare più in generale chi sa come esercitare il giudizio in determinati casi. Essa è una virtù intellettuale, ma è quella virtù intellettuale senza cui non può essere esercitata nessuna delle virtù del carattere. La distinzione tra i due tipi di virtù è basata su come vengono acquisite: le virtù intellettuali tramite l’insegnamento, quelle del carattere attraverso l’esercizio abituale. Ciononostante sono intimamente collegate. telos; e qualsiasi interpretazione adeguata genericamente aristotelica deve offrire un’interpretazione teleologica in grado di sostituire la biologia metafisica di Aristotele. Un altro settore problematico riguarda il rapporto fra l’etica e la struttura della polis: se buona parte dei dettagli dell’interpretazione aristotelica delle virtù presuppone il contesto delle relazioni sociali dell’antica città-stato, come può l’aristotelismo essere formulato in modo da costituire una presenza morale in un mondo dove non esistono città-stato? _Penso sia una domanda retorica perché non risponde_ Un terzo settore problematico è l’insieme delle questioni poste dalla fede, che Aristotele ha ereditata da Platone, nell’unità e armonia sia dell’anima individuale sia della città-stato e quindi, in particolare, nell’unità delle virtù. Come per Platone, questa fede ha come conseguenza un’ostilità nei confronti del conflitto: entrambi considerano il conflitto un male, per Aristotele la guerra civile è il peggiore dei mali. Per entrambi i filosofi la vita buona per l’uomo è essa stessa unica e unitaria, composta di una gerarchia di beni. Ne segue che il conflitto non è altro che il risultato o di difetti di carattere degli individui, o di ordinamenti politici stupidi. L’ágon è stato destituito dalla sua centralità omerica. Per lui, se tutti fossero virtuosi, non ci sarebbero conflitti. In Sofocle, invece, il conflitto non deriva da una caratteristica individuale, ma è bene ed è centrale nel rapporto tra le persone. Se Aristotele si fosse reso conto della centralità del conflitto nella vita umana avrebbe appreso altro riguardo al contesto della pratica umana delle virtù, avrebbe avuto uno strumento in più per capire il carattere teleologico tanto delle virtù quanto delle forme sociali che forniscono loro un contesto. In realtà è spesso soltanto attraverso il conflitto che apprendiamo quali sono i nostri fini e i nostri propositi. CAPITOLO XIII Aspetti e situazioni medievali Dice MacIntyre: la tradizione di pensiero sulle virtù che sto cercando di delineare non va confusa con quella tradizione più ristretta dell’aristotelismo, che consiste semplicemente nel commento e nell’esegesi dei testi di Aristotele. Non andrebbe chiamata nemmeno “tradizione classica”, in quanto quest’altro termine è, al contrario, troppo vasto, e quindi ugualmente fuorviante. È in ogni caso la tradizione che si è sviluppata dopo Aristotele e che ha utilizzato l’“Etica Nicomachea” e la “Politica” come testi fondamentali, anche se non si affida ciecamente ad Aristotele: si pone invece in un rapporto di continuo dialogo con lui, non un mero consenso. Quando il mondo moderno ripudiò sistematicamente la visione classica della natura umana (e quindi anche gran parte degli elementi essenziali della morale), la ripudiò appunto in quanto aristotelismo. Dice ancora MacIntyre: in realtà il mondo medievale incontrò Aristotele relativamente tardi, Tommaso d’Aquino lo conobbe soltanto in traduzione e ciò che ne ricavò fu solo una soluzione parziale di un problema medievale che era già stato formulato innumerevoli volte. Il problema era come educare e civilizzare la natura umana in una cultura in cui l’esistenza umana rischiava di essere dilaniata dal conflitto di troppi ideali, troppi stili di vita: il Medioevo è stato molto diverso da come viene descritto, non una cultura cristiana unificata e monolitica, ma una fragile e complessa, fatta da una molteplicità di elementi disparati e conflittuali. Ci sono stati tanti filoni conflittuali differenti, per esempio: la società medievale aveva compiuto solo da poco la transizione che la separava da quella che MacIntyre ha definito società eroica. Avevano tutti un passato pre-cristiano per cui le forme sociali, le poesie e le leggende rispecchiavano tale passato. Elementi cristiani e pagani coesistevano in maniera molto simile a come coesistevano, nel quinto secolo a.C., i valori omerici con quelli della città-stato. Il punto di vista morale della società eroica è un punto di partenza necessario per la riflessione morale nella tradizione che MacIntyre sta cercando di identificare. Così l’ordinamento medievale non può respingere la tavola eroica delle virtù. Un altro filone conflittuale riguarda il fatto che da una parte veniva accettata la tradizione classica, seppur in modo parziale e frammentario, e dall’altra parte ciò che influenzava di più il Medioevo era l’insegnamento cristiano che portava avanti l’unica verità della Bibbia, in contrasto con tutto il paganesimo e la tradizione classica stessa. Il problema più grande era come collegare l’insegnamento cristiano con le forme della vita quotidiana: per gli autori del dodicesimo secolo tale problema si pone in termini di virtù. Come si deve collegare la pratica delle quattro virtù cardinali della giustizia, della prudenza, della temperanza e del coraggio con quella delle virtù teologali, fede, speranza e carità? Nell’Etica di Abelardo la distinzione fondamentale utilizzata per rispondere a questa domanda è quella fra vizio e peccato. Quella di cui il cristianesimo ha bisogno è una concezione non soltanto dei difetti del carattere o dei vizi, ma delle violazioni della legge divina, cioè dei peccati. La volontà in grado di decidere tra vizi o virtù, tra giusto e peccato, dunque la vera arena della morale diventa la volontà e la volontà soltanto. Questa interiorizzazione della vita morale ricorda, oltre che il Nuovo Testamento, anche lo stoicismo: dal punto di vista stoico, diversamente da quello aristotelico, areté è essenzialmente un termine singolare, e un individuo può solo possederla del tutto o non possederla affatto, senza mezzi termini. Con la virtù si possiede valore morale, senza di essa se ne è privi. Dal momento che la virtù richiede il giudizio esatto, secondo gli stoici l’uomo buono è anche l’uomo saggio e le sue azioni giuste non necessariamente producono piacere o felicità, sono giuste e basta: perciò lo stoicismo abbandona qualsiasi concetto di telos. Agire nel modo giusto significa seguire l’ordine cosmico, che è uguale per tutti gli esseri razionali. scompare la pluralità delle virtù e il loro ordinamento teleologico. Una volta scomparsa la comunità (come intesa da Aristotele rivolta verso un bene comune), a seguito della sostituzione della città-stato prima con l’impero macedone e poi con quello romano, scompare anche qualsiasi rapporto intelligibile tra le virtù e la legge: non c’è più nessun bene comune condiviso da tutti, gli unici beni sono quelli individuali. Il bene privato di qualcuno appare in contraddizione con la legge morale, in quanto si scontra con il bene privato altrui, perciò se si vuole rimanere fedeli alla legge bisogna sopprimere il proprio io personale. Non ci sono beni al di là della legge. Lo stoicismo, in questo senso, sembra una sorprendente anticipazione della modernità, compare sempre nella cultura occidentale ogni volta che le virtù perdono il loro ruolo centrale. Se non è stato l’unico o il principale modello morale è a causa della fortuna del cristianesimo. Come può dunque una morale della legge inesorabile essere collegata a una concezione delle virtù? Abelardo si rifugia nell’interiorità, ma per molti dei contemporanei sono le circostanze contingenti e accidentali del mondo esterno a determinare il compito della morale. Il dodicesimo secolo è un’epoca in cui le istituzioni devono essere create. Alano di Lilla considerò gli autori pagani come pensatori che offrono strumenti per risolvere problemi politici. Le virtù di cui essi trattano sono qualità utili per creare e conservare un ordine sociale terreno, e la carità può trasformarle in autentiche virtù. Alano dà inizio a un movimento volto a ricercare una sintesi fra la filosofia antica e il Nuovo Testamento. Sottolinea la funzione politica e sociale delle virtù. Nel Medioevo c’è una tensione, o addirittura un conflitto, creativo più che distruttivo, fra sacro e profano, nazionale e locale, latino e volgare, rurale e urbano. È nel contesto di questi conflitti che l’educazione morale progredisce, e che le virtù vengono rivalutate e ridefinite. Dal punto di vista medievale, come per l’antichità, non vi è spazio per la distinzione liberale moderna fra diritto e morale, e non vi è spazio per essa a causa di ciò che la monarchia medievale ha in comune con la polis, quale la concepiva Aristotele. Entrambe sono intese come la comunità in cui l’uomo associandosi con altri, persegue il bene umano, e non semplicemente come ciò che lo stato liberale ritiene di essere, cioè l’arena in cui ciascun individuo cerca il proprio bene personale. Ne segue che, in gran parte del mondo antico e medievale, l’individuo si identifica con alcuni dei suoi ruoli ed è costituito da essi, da quei ruoli che lo legano alle comunità attraverso cui possono essere conseguiti i beni specificamente umani. È sempre in quanto parte di una comunità ordinata che devo ricercare il bene umano. Gli aristotelici medievali dovettero riconoscere virtù di cui Aristotele non sapeva nulla. Una di queste merita una considerazione particolare: è la virtù teologale della carità. Aristotele, nel considerare la natura dell’amicizia, aveva concluso che un uomo buono non può essere amico di un uomo cattivo. Ma al centro della religione biblica vi è l’idea dell’amore per coloro che peccano. In genere un crimine viene punito, ma nella cultura della Bibbia, al contrario che in quella di Aristotele, divenne disponibile una reazione alternativa: il perdono. Qual è la condizione del perdono? Esso richiede che il criminale abbia già accettato come giusto il verdetto pronunciato dalla legge sulla sua azione, e si comporti come uno che riconosca la giustezza della punizione appropriata: di qui la radice comune dei termini “penitenza” e “punizione”. Allora il criminale può essere perdonato se la sua vittima vuole così. La pratica del perdono presuppone quella della giustizia, ma vi è questa differenza fondamentale: la giustizia è tipicamente amministrata da un giudice, da un’autorità impersonale che rappresenta l’intera comunità; ma il perdono può essere concesso esclusivamente dalla parte lesa. La virtù che si manifesta nel perdono è la carità (questo termine, come anche “peccato” e “pentimento”, non esiste nel greco dell’epoca di Aristotele). Dal punto di vista biblico, l’inclusione della carità tra le virtù altera radicalmente la concezione del bene per l’uomo: infatti la comunità in cui il bene viene raggiunto deve essere una comunità di riconciliazione. Dice MacIntyre: ogni visione particolare delle virtù è legata a qualche idea particolare della struttura o delle strutture narrative della vita umana. In particolare, nello schema dell’alto Medioevo, un genere fondamentale è la narrazione di una ricerca o di un viaggio. L’uomo è essenzialmente in via. Il fine che ricerca è qualcosa la cui conquista può redimere tutto ciò che vi era di sbagliato nella sua vita fino a quel momento. Questo concetto del fine dell’uomo non è, ovviamente, aristotelico, almeno sotto due aspetti cruciali. In primo luogo: per Aristotele il telos della vita umana è un certo genere di vita; il telos non è qualcosa da raggiungere in qualche momento futuro, ma nel modo in cui è organizzata la nostra intera esistenza. In secondo luogo: l’idea della vita umana come ricerca o viaggio in cui svariate forme del male vengono incontrate e superate richiede una concezione del male di cui negli scritti di Aristotele vi sono tutt’al più semplici accenni. Secondo Aristotele essere vizioso significa non essere virtuoso. Ogni malvagità del carattere è un difetto, una privazione. È perciò molto difficile, in termini aristotelici, distinguere fra la mancanza di bontà e il male positivo. Consideriamo ciò che comporterebbe, ciò che di fatto ha comportato, la rieducazione morale di un nazista di questo genere: dovrebbe disimparare molti vizi e imparare molte virtù. Ma non dovrebbe imparare come ci si comporta di fronte ad un pericolo, né in modo troppo codardo, né in modo troppo impulsivo (la virtù del coraggio poteva anche avercela davvero). Per questo, continua MacIntyre, è importante sottolineare sia che la versione tomista dell’interpretazione aristotelica delle virtù non è l’unica possibile, sia che Tommaso d’Aquino è un pensatore medievale atipico, pur essendo il più grande dei teorici medievali. Sebbene il pensiero del Medioevo non sia soltanto una parte della tradizione di teoria e prassi morale che MacIntyre sta descrivendo, ma abbia segnato in essa un autentico progresso, ciononostante la fase medievale di questa tradizione fu in senso forte aristotelica, e non solo nelle sue versioni cristiane. Proprio il collegamento fra una prospettiva storica biblica e una aristotelica è l’eccezionale conquista del Medioevo ebraico ed islamico come di quello cristiano. CAPITOLO XIV La natura della virtù Un’obiezione alla storia che MacIntyre ha narrata sinora potrebbe essere quella di asserire che ci sono troppe culture diverse, troppe incompatibilità tra i pensieri di autori diversi in tempi diversi, per poter parlare di tradizione e perché possa esistere una qualsiasi unità reale del concetto, o della storia stessa. Sarebbe fin troppo facile concludere che esiste una molteplicità di concezioni antagoniste e alternative delle virtù, ma nessuna singola concezione centrale, neppure all’interno della tradizione che egli è andato delineando. MacIntyre ripassa ora in rassegna autori di cui ha già parlato, in maniera sintetica: vorrà mettere a confronto i loro diversi elenchi di virtù con i cataloghi di due autori successivi, Benjamin Franklin e Jane Austen. Almeno alcune fra le voci dell’elenco di Omero delle aretai oggi non sarebbero evidentemente considerate affatto virtù dalla maggior parte di noi: l’esempio più ovvio è la forza fisica. Naturalmente l’elenco omerico delle virtù non differisce soltanto dal nostro: è anche notevolmente diverso da quello di Aristotele. Innanzitutto alcuni termini greci che designano virtù non sono facilmente traducibili in italiano, o meglio, in nessuna lingua al di fuori del greco. Inoltre consideriamo l’importanza dell’amicizia in quanto virtù nell’elenco di Aristotele: come è diversa dalla nostra concezione! O il ruolo della phrónesis: come è diverso dalla concezione omerica e dalla nostra! L’intelletto riceve da Aristotele il genere di tributo che il corpo riceve da Omero. Oltre tra le singole virtù, le differenze tra Omero e Aristotele si vedono anche per come sono ordinati gli elenchi, quali voci sono fondamentali e quali no. E oltre a questo, è mutata la relazione delle virtù con l’ordinamento sociale: per Omero il modello dell’eccellenza umana è il guerriero; per Aristotele l’aristocratico ateniese. In effetti secondo Aristotele alcune importantissime virtù sono accessibili solo ai ricchi. A questo punto bisogna osservare che l’elenco di Aristotele differisce sì da quello di Omero e dal nostro, ma differisce in maniera maggiore da quello del Nuovo Testamento. Infatti il Nuovo Testamento non solo celebra virtù di cui Aristotele non sa nulla (fede, speranza e amore) e non dice niente di virtù fondamentali per Aristotele come la phrónesis, ma celebra come virtù almeno una qualità che Aristotele sembra considerare uno dei vizi che corrispondono alla magnanimità (una delle virtù più importanti, che è accessibile solo ai ricchi), vale a dire l’umiltà. Inoltre sembra che il Nuovo Testamento ritenga che i ricchi siano destinati alle pene dell’inferno, e dunque a loro non sono accessibili alcune virtù, che invece (proprio all’opposto di Aristotele) sono accessibili agli schiavi. MacIntyre passa ora a confrontare i tre elenchi di virtù considerati finora (l’omerico, l’aristotelico e il neotestamentario) con due elenchi molto più recenti, uno che può essere ricavato dai romanzi di Jane Austen, e un altro che Benjamin Franklin ha ideato personalmente. Dall’elenco della Austen emergono due caratteristiche. La prima è l’importanza che ella assegna alla virtù che chiama “costanza”. In un certo senso, in Jane Austen la costanza svolge un ruolo analogo a quello della phrónesis in Aristotele: è una virtù il cui possesso è una condizione preliminare per il possesso di altre virtù. La seconda caratteristica è il fatto che quella che Aristotele considera la virtù della piacevolezza, la Austen la considera solo una parvenza di un’altra virtù più autentica: l’amabilità. Infatti, secondo Aristotele, chi pratica la virtù della piacevolezza lo fa in base alla convenienza che ne trae, invece Austen pensa che sia possibile e necessario che chi possiede tale virtù provi davvero un certo affetto per le altre persone in quanto tali (Austen è cristiana). Nell’elenco di Benjamin Franklin emerge una differenza particolare, oltre a tante altre. Egli include nell’elenco virtù che risultano nuove alla nostra considerazione, quali la pulizia, il silenzio e l’operosità. Considera l’impulso al guadagno una virtù (al contrario dei greci antichi) e considera principali alcune virtù che epoche precedenti avevano considerato secondarie. Inoltre ridefinisce certe virtù famigliari. Il problema sollevato all’inizio del capitolo diventa più presente, una volta consapevoli di tutte queste differenze. Se autori diversi in tempi e luoghi diversi, ma tutti all’interno della storia della cultura occidentale, includono nei loro elenchi insiemi e tipi di voci così diversi, che fondamenti abbiamo per supporre che intendessero davvero elencare voci di un’unica e medesima specie, che esista una qualsiasi concezione comune? Un secondo ordine di considerazioni rafforza la plausibilità di una risposta negativa a tale domanda. Il punto non è solo che ciascuno di questi cinque autori elenchi generi di voci diversi e divergenti, ma anche che ciascuno di questi elenchi incarna ed esprime una teoria differente su cosa sia una virtù. Nei poemi omerici una virtù è una qualità la cui manifestazione consente a qualcuno di fare esattamente ciò che è richiesto dal suo ruolo sociale ben definito. Il ruolo principale è quello del re guerriero. Ne segue che non possiamo identificare le virtù omeriche finché non abbiamo identificato i ruoli sociali fondamentali della società omerica e le esigenze di ciascuno di essi. Il concetto “ciò che chiunque riveste un determinato ruolo dovrebbe fare” precede il concetto di virtù: il secondo è applicabile soltanto sulla base del primo. Nell’interpretazione di Aristotele la faccenda è molto diversa. Anche se certe virtù sono accessibili solo a certi tipi di persone, in generale le virtù sono attribuite non all’uomo in quanto portatore di ruoli sociali, ma all’uomo in quanto tale. È il telos dell’uomo come specie a determinare quali qualità umane siano virtù. Aristotele considera l’acquisizione e l’esercizio delle virtù come mezzi in vista di un fine, in particolare il rapporto tra questi mezzi e il fine è intrinseco (il fine non può essere caratterizzato adeguatamente prescindendo da una caratterizzazione del mezzo). L’interpretazione neotestamentaria delle virtù, pur differendo in così grande misura da quella di Aristotele per quanto riguarda i contenuti (Aristotele non avrebbe certamente ammirato Gesù Cristo), in effetti ha la stessa struttura logica e concettuale dell’interpretazione aristotelica (come per Aristotele, per il Nuovo Testamento una virtù è una qualità il cui esercizio conduce al raggiungimento del telos umano). Anche in questo caso il rapporto delle virtù in quanto mezzi con il fine (l’inserimento dell’uomo nel futuro regno di Dio) è intrinseco e non estrinseco. Forse è questo parallelismo a consentire a Tommaso d’Aquino la sua sintesi fra Aristotele e il Nuovo Testamento. Un tratto essenziale di tale parallelismo è il fatto che in entrambi i casi il concetto della “vita buona per l’uomo” precede quello di virtù, proprio come in base all’interpretazione omerica lo precedeva il concetto di ruolo sociale. Anche qui è l’applicazione del primo concetto a determinare quella del secondo: in entrambi i casi il concetto di virtù è un concetto secondario. La teoria delle virtù di Jane Austen è di un’altra specie. È importante per il modo in cui riesce a combinare quelle che a prima vista sono interpretazioni teoretiche eterogenee delle virtù (Austen è cristiana, nello stesso tempo è erede di Aristotele ed eredita anche elementi omerici per la sua attenzione ai ruoli sociali). Ma per il momento, dice MacIntyre, dobbiamo rimandare qualsiasi tentativo di valutare il significato della sintesi di Jane Austen. L’interpretazione di Franklin, come quella di Aristotele, è teleologica; ma diversamente da quella di Aristotele è utilitarista. Secondo Franklin le virtù sono mezzi in vista di un fine, ma egli concepisce il rapporto mezzo-fine come estrinseco più che intrinseco. Il fine cui contribuisce lo sviluppo delle virtù è la felicità, ma la felicità intesa come successo. Le virtù devono essere utili, e l’interpretazione di Franklin sottolinea continuamente l’utilità come criterio per i casi individuali. Ci troviamo quindi di fronte ad almeno tre concezioni molto diverse della virtù: una virtù è una qualità che consente a un individuo di compiere il proprio ruolo sociale (Omero); una virtù è una qualità che consente a un individuo di muoversi verso il raggiungimento del telos specificamente umano, sia esso naturale o sovrannaturale (Aristotele, il Nuovo Testamento e Tommaso d’Aquino); una virtù è una qualità utile per conseguire il successo terreno e celeste (Franklin). Dobbiamo considerarle tre interpretazioni diverse e antagoniste della stessa cosa? o si tratta invece di interpretazioni di tre cose differenti? Forse le strutture morali nei luoghi e tempi in cui sono vissuti questi autori erano così diverse l’una dall’altra che dovremmo considerarle come incarnazioni di concetti completamente diversi, la cui diversità ci viene nascosta sulle prime dall’accidente storico di un vocabolario tradizionale che ci trae in inganno mantenendo la somiglianza linguistica quando da molto tempo sono venute meno l’identità e l’analogia concettuali. La domanda iniziale del libro è tornata a proporsi con forza raddoppiata. La domanda, ora, è: siamo o non siamo in grado di districare da queste tesi antagoniste ed eterogenee una concezione fondamentale unitaria delle virtù, di cui poter dare un’interpretazione più persuasiva di qualsiasi altra fornita sinora? MacIntyre si accinge a sostenere che, sì, possiamo davvero scoprire una siffatta concezione fondamentale, e che essa risulterà conferire un’unità concettuale alla tradizione di cui ha scritto la storia. In effetti, questa concezione ci permetterà di distinguere con chiarezza le credenze sulle virtù che appartengono autenticamente a tale tradizione da quelle che non le appartengono. Una delle caratteristiche del concetto di virtù che è emersa con una certa chiarezza dall’argomentazione svolta finora è che, per essere applicato, tale concetto richiede sempre l’accettazione della vita sociale e morale, in base a cui deve essere definito e spiegato. Così, nell’interpretazione omerica, il concetto di virtù è secondario rispetto a quello di “ruolo sociale”, nell’interpretazione di Aristotele è secondario rispetto a barare, ci preclude a tal punto il raggiungimento dei modelli di eccellenza o dei valori interni alla pratica da rendere quest’ultima priva di scopo, fuorché come espediente per procurarsi valori esterni. Possiamo dire la stessa cosa in termini diversi. Ogni pratica richiede un certo genere di rapporto fra coloro che vi partecipano. Ora, le virtù sono quei valori in riferimento ai quali, che ci piaccia o no, definiamo i nostri rapporti con le persone con cui condividiamo il tipo di finalità e di modelli che ispirano le pratiche. Esempio: A, B, C e D sono amici nell’accezione di amicizia data da Aristotele (perseguono uno stesso fine). D muore in circostanze misteriose, solo A sa come è morto e dice la verità a B e una bugia a C. C scopre la bugia. A non può sostenere di stare nel medesimo rapporto di amicizia con B e con C perché li ha trattati in maniera diversa (al di là delle ragioni, che possono anche essere nobili). Come conseguenza a quella bugia esiste ora una certa differenza nel rapporto: la loro lealtà reciproca nel perseguimento del bene comune è stata messa in questione. Proprio come, finché condividiamo i modelli e gli intenti caratteristici di una data pratica, determiniamo i nostri rapporti reciproci, che ce ne rendiamo conto oppure no, in base a criteri di veridicità e fiducia, così li determiniamo anche in base a criteri di giustizia e di coraggio. La giustizia esige che trattiamo gli altri, riguardo al merito o al compenso, in base a criteri uniformi e impersonali; allontanarsi dai criteri della giustizia in un qualche caso particolare significa definire il nostro rapporto con la persona in questione come, in un certo senso, speciale o peculiare (positivamente o negativamente, ma in ogni caso diversamente). Per quanto riguarda il coraggio, le cose stanno in modo un po’ diverso. Se, per esempio, qualcuno afferma di avere a cuore un certo individuo, o una comunità, o una causa, ma non è disposto a rischiare il danno o il pericolo nel loro interesse, è lecito mettere in dubbio l’autenticità della sua preoccupazione e sollecitudine. Questo non significa che non possa esistere uno che ha a cuore qualcosa e che al contempo sia un vigliacco, ma in quel caso è lui a doversi definire tale, di fronte a se stesso e agli altri. MacIntyre ritiene dunque che dal punto di vista di quei tipi di rapporti senza i quali le pratiche non potrebbero reggersi, la veridicità, la giustizia e il coraggio (e forse altre qualità) siano autentiche eccellenze, siano virtù alla luce delle quali dobbiamo caratterizzare noi stessi e gli altri, qualunque possa essere la nostra posizione morale personale, e qualunque siano i codici particolari della nostra società. Grazie a questo inevitabile riconoscimento, la definizione dei nostri rapporti in base a tali valori è perfettamente compatibile con la consapevolezza che società differenti hanno e hanno avuto codici differenti di veridicità, di giustizia e di coraggio. (alcuni, per esempio, vengono educati a dire sempre e in ogni caso la verità, altri a non dirla in casi in cui magari potrebbero mettersi in pericolo, ma entrambi questi codici implicano un riconoscimento della virtù della veridicità; e lo stesso vale per i diversi codici di giustizia e di coraggio). Le pratiche possono dunque fiorire in società dai codici molto diversi, ma non potrebbero fiorire in società in cui le virtù non fossero apprezzate, anche se in esse potrebbero continuare a prosperare istituzioni e capacità tecniche al servizio di scopi comuni. Dove si richiedono le virtù, possono fiorire anche i vizi. Il fatto è però che il vizioso confida necessariamente nelle virtù degli altri perché possano prosperare le pratiche in cui sono impegnati, e inoltre si preclude l’esperienza del raggiungimento di quei valori interni che possono premiare chiunque (anche chi non eccelle in qualcosa ma ne trae comunque positività). Per determinare ulteriormente la posizione delle virtù all’interno delle pratiche, è ora necessario precisare un po’ di più la natura di queste ultime tracciando importanti considerazioni. Deve essere innanzitutto chiaro che una pratica, nel senso in cui è stata presentata da MacIntyre, non è mai un mero insieme di capacità tecniche, sebbene ogni pratica richieda effettivamente l’esercizio di capacità tecniche. L’elemento distintivo di una pratica è in parte il modo in cui le concezioni dei valori e dei fini ad essa legati vengono trasformate e arricchite da quelle estensioni delle facoltà umane e da quella considerazione per i suoi valori interni che definiscono parzialmente ciascuna pratica o tipi di pratica particolare. Risulta dunque che non è accidentale che ogni pratica abbia la propria storia e questa dimensione storica è essenziale in rapporto alle virtù. Entrare a far parte di una pratica significa entrare in relazione non soltanto con i suoi adepti contemporanei, ma anche con coloro che ci hanno preceduti nell’esercizio di essa, e in particolare con coloro i cui risultati hanno esteso la portata della pratica fino al suo livello attuale. Per apprendere una pratica, e quindi, appunto, la sua tradizione, sono presupposti necessari le virtù della giustizia, del coraggio e della veridicità, esattamente nello stesso senso e per le stesse ragioni per cui lo sono nel mantenere i rapporti attuali all’interno delle pratiche. Naturalmente le pratiche non vanno confuse con le istituzioni: gli scacchi e la fisica sono pratiche; i club scacchistici e le università sono istituzioni. Le istituzioni si occupano tipicamente e necessariamente di quelli che MacIntyre ha chiamato valori esterni, e non potrebbero fare altrimenti perché nessuna pratica può sopravvivere a lungo se non è sostenuta da istituzioni. In effetti, il rapporto fra pratiche e istituzioni (e di conseguenza fra i valori esterni e quelli interni alle pratiche in questione) è così intimo che esse formano in modo caratteristico un unico ordine causale, in cui gli ideali e la creatività della pratica sono sempre minacciati dall’avidità dell’istituzione, in cui la preoccupazione cooperativa per i valori comuni della pratica è sempre minacciata dalla competitività dell’istituzione. In questo contesto risulta evidente la funzione essenziale delle virtù: senza di loro, senza la giustizia, il coraggio e la veridicità, le pratiche non potrebbero resistere alla potenza corruttrice delle istituzioni. Questo genere di interpretazione concettuale delle virtù che MacIntyre ha fornito ha forti implicazioni empiriche: fornisce uno schema esplicativo che può essere messo alla prova in casi particolari. La sua tesi ha inoltre un contenuto empirico in un altro senso: essa implica che senza le virtù potrebbero essere riconosciuti soltanto quelli che ha chiamato valori esterni, e mai i valori interni nel contesto delle pratiche. E in qualsiasi società che riconoscesse soltanto valori esterni, la competitività sarebbe la caratteristica dominante o addirittura esclusiva. Abbiamo un brillante ritratto di una società del genere nell’interpretazione di Hobbes dello stato di natura. Le virtù stanno dunque in rapporto diverso con i valori esterni e con quelli interni. Il possesso delle virtù è necessario per il conseguimento di quelli interni, ma può benissimo impedirci di ottenere quelli esterni. A questo punto, dice MacIntyre, bisogna sottolineare che i valori esterni sono valori autentici: non solo sono soggetti tipici del desiderio umano, ma nessuno può disprezzarli del tutto senza una certa ipocrisia. È però risaputo che il coltivare la veridicità, la giustizia e il coraggio ci impedirà spesso di essere ricchi, famosi e potenti, dato che il mondo, come dato di fatto contingente, è quello che è; cioè: spesso le virtù possono essere da ostacolo all’ambizione di avere sia valori interni che esterni. È giunto il momento, dice MacIntyre, di capire fino a che punto questo primo stadio di interpretazione di una concezione fondamentale delle virtù, che ha delineato, sia fedele alla tradizione di cui ha narrato la storia. Procede. Non è aristotelica sotto due aspetti: in primo luogo, questa interpretazione delle virtù, pur essendo teleologica, non richiede in alcun modo la fede nella biologia metafisica di Aristotele; in secondo luogo, appunto a causa della molteplicità dei valori nel perseguimento dei quali le virtù possono essere esercitate, il conflitto non deriva meramente da difetti del carattere individuale. Però era proprio in questi due punti che l’interpretazione aristotelica delle virtù appariva più vulnerabile (in questo senso, se si sostituiscono queste due soluzioni ai due problemi di Aristotele si può dire che questa interpretazione è un rafforzamento, e non un indebolimento, di quella di Aristotele). D’altra parte, sotto almeno tre aspetti, questa interpretazione delle virtù è chiaramente aristotelica. In primo luogo. Essa richiede per la propria completezza un’elaborazione persuasiva delle stesse distinzioni e degli stessi concetti che richiede l’interpretazione di Aristotele: la volontarietà, la distinzione fra le virtù intellettuali e quelle del carattere, il rapporto di entrambe con le capacità naturali e con le passioni e la struttura del ragionamento pratico. In secondo luogo. Questa interpretazione può accogliere una concezione aristotelica del piacere e del godimento, mentre è inconciliabile con qualsiasi concezione utilitaristica, e in particolare con l’interpretazione delle virtù di Franklin. Come dice Aristotele, il godimento che si trae dal risultato di una pratica e dall’attività della pratica stessa non è il fine cui tende il soggetto, ma è semplicemente un’aggiunta nel senso che l’attività compiuta e l’attività goduta costituiscono un solo e medesimo stato. Perciò tendere all’una significa tendere all’altra, e perciò è anche facile confondere il perseguimento dell’eccellenza con il perseguimento del piacere in questo senso specifico. Questa particolare confusione è abbastanza innocua, mentre non è innocua quella fra il godimento in questo senso specifico e altre forme di piacere (alcune di esse sono ovviamente valori esterni, per esempio il prestigio, la posizione sociale, il potere e il denaro). Poi non ogni piacere è il godimento che deriva dall’attività compiuta. I piaceri sono quindi classificati in modo chiaro e appropriato in base alla suddivisione fra valori interni ed esterni. È proprio questa suddivisione che non può trovar posto all’interno dell’interpretazione delle virtù di Franklin, interamente strutturata in termini di rapporti e valori esterni. Perciò è evidente che esiste più di una concezione possibile delle virtù e che, per esempio, la posizione utilitaristica di Franklin è tale che la sua accettazione implica il rifiuto di quella di MacIntyre (che riesce a cogliere una concezione delle virtù che sta al centro della particolare tradizione antica e medievale che ha delineato, la tradizione che procede dall’aristotelismo), e viceversa. L’utilitarismo, inoltre, va in contro ad una difficoltà fondamentale: non può accogliere la distinzione fra valori interni ed esterni a una pratica, essi sono incommensurabili gli uni rispetto agli altri. In terzo luogo. L’interpretazione di MacIntyre è aristotelica perché collega valutazione e spiegazione in un modo tipicamente aristotelico: identificare certe azioni come manifestanti o no una o più virtù non significa mai soltanto valutare, ma anche muovere il primo passo verso una spiegazione del motivo per cui sono state compiute quelle azioni piuttosto che altre. A questa sua interpretazione delle virtù si potrebbe obiettare che sia falsa sotto alcuni aspetti: MacIntyre ha definito in parte le virtù sulla base del loro ruolo nelle pratiche; ma certamente, si può argomentare, alcune pratiche sono malvagie. Come può un’attitudine ad una pratica essere una virtù se quella pratica ha come conseguenza il male? La risposta di MacIntyre a questa possibile obiezione si articola nel modo che segue. Innanzitutto, egli dice, non è convinto che effettivamente possano esserci pratiche che sono semplicemente malvagie. Ma non vuole basare la sua argomentazione su questa convinzione e quindi procede. La mia Con ciò, MacIntyre vuole dire che non possiamo caratterizzare un comportamento prescindendo dalle intenzioni, né le intenzioni prescindendo dai contesti che le rendono intelligibili tanto ai soggetti agenti stessi quanto agli altri. Un “contesto sociale” può essere un’istituzione, una pratica, o un ambiente umano di qualche altro genere; ma fondamentale per il concetto di “contesto”, come MacIntyre lo intenderà, è che il contesto ha una storia, una storia al cui interno le storie dei singoli soggetti non soltanto sono, ma devono essere collocate. Ovviamente una medesima parte di comportamento può appartenere a più di un contesto. Se vogliamo collegare in modo preciso un certo particolare segmento di comportamento alle intenzioni di un soggetto, e dunque ai contesti in cui quest’ultimo si colloca, dovremo capire in modo preciso come si collegano le une alle altre le diverse descrizioni corrette del comportamento del soggetto, in primo luogo determinando quali caratteristiche ci rimandano all’intenzione e quali no, e in secondo luogo classificando ulteriormente le voci di entrambe le categorie. In particolare, dove entrano in gioco le intenzioni, ci occorre sapere quale o quali intenzioni erano primarie (cioè quelle in assenza delle quali il soggetto non avrebbe compiuto quell’azione). Inoltre ci occorre sapere anche sia quali sono alcune delle credenze del soggetto, sia quali di esse sono causalmente efficaci nella decisione di compiere quell’azione. E finché non sappiamo questo, non sapremo neppure come caratterizzare correttamente ciò che il soggetto sta facendo. Inoltre, per certi tipi di comportamento, esso è caratterizzato adeguatamente soltanto quando sappiamo quali siano le intenzioni a lungo e lunghissimo termine implicate, e come quelle a termine più breve siano collegate ad esse. Di nuovo siamo coinvolti nella scrittura di una narrazione storica. Le intenzioni devono dunque essere ordinate sia casualmente che temporalmente, ed entrambi gli ordinamenti faranno riferimento a determinati contesti. Inoltre, l’identificazione corretta delle credenze del soggetto agente costituirà un elemento essenziale di questo compito: il fallimento su questo punto significherebbe il fallimento dell’intera impresa. La conclusione è la seguente: il progetto di una scienza del comportamento che faccia sì che esso possa essere identificato prima e indipendentemente dalle intenzioni, dalle credenze e dai contesti, è assolutamente condannato a fallire. Consideriamo le implicazioni dell’argomentazione svolta finora circa le interrelazioni fra l’intenzionale, il sociale e lo storico. Noi identifichiamo una determinata azione soltanto ricorrendo, implicitamente se non esplicitamente, a due specie diverse di contesti. Noi collochiamo le intenzioni del soggetto in un ordine causale e temporale facendo riferimento al loro ruolo nella storia personale, ma anche al loro ruolo nella storia del contesto o dei contesti cui esse appartengono. Nel fare questo, nel determinare quale efficacia causale possiedano le intenzioni del soggetto in una o più direzioni, e come le sue intenzioni a breve scadenza riescano o meno ad essere costitutive di intenzioni a più lunga scadenza, scriviamo noi stessi una parte ulteriore di questa storia. La narrazione storica di una certa specie risulta essere il genere fondamentale ed essenziale per la caratterizzazione delle azioni umane. È importante aver chiaro quanto sia diversa la prospettiva presupposta dall’argomentazione svolta finora da quella di quei filosofi analitici che considerano una serie di eventi umani come una mera sequenza complessa di singole azioni: in alcuni contesti, concetti del genere possono funzionare, tipo nelle ricette di cucina. Ma anche in quei casi c’è bisogno di un contesto perché l’azione possa essere intelligibile (se mentre sto facendo lezione di filosofia spacco improvvisamente delle uova per mischiarle a zucchero e farina, la mia azione non può essere considerata intelligibile; è pur sempre un’azione, certo, ma MacIntyre dice che il concetto di azione intelligibile è più fondamentale di quello di azione in quanto tale). Le azioni inintelligibili sono candidate respinte al ruolo di azioni intelligibili: unirle tra di loro per poi caratterizzare l’azione in base a ciò che hanno in comune significa commettere l’errore di ignorare questa circostanza; significa anche trascurare l’importanza essenziale del concetto di intelligibilità. Tale importanza è strettamente collegata alla distinzione fondamentale che facciamo tra gli esseri umani e gli altri esseri: i primi, diversamente dai secondi, possono essere ritenuti responsabili di ciò di cui sono autori. Identificare un evento come un’azione significa considerarlo come scaturiente in modo intelligibile dalle intenzioni, dalle credenze e dai contesti di un soggetto umano (in modo che sia legittimo chiedere al soggetto una spiegazione adeguata della sua azione, in quanto responsabile di essa). Quando un evento è palesemente l’azione prodotta dalle intenzioni di un soggetto umano, e tuttavia non siamo in grado di identificarla in questo modo, rimaniamo sconcertati: non sappiamo come reagire, non sappiamo come spiegare l’evento e neppure come caratterizzarlo minimamente quale azione intelligibile. (ciò capita, per esempio, quando ci accostiamo a culture estranee alla nostra o a strutture sociali estranee a noi ma della nostra stessa cultura). Esempio: se uno accanto a me dice di colpo una frase a caso senza un apparente motivo può sembrare un pazzo, ma magari il motivo c’è (sta ripassando a voce alta, è una spia e quella è una frase in codice ecc..), se il motivo c’è allora l’atto enunciativo può essere considerato intelligibile perché trova il suo posto in una narrazione. Sia gli scopi sia gli atti linguistici richiedono un contesto. Il tipo più famigliare di contesto in cui e in riferimento a cui gli atti linguistici e gli scopi diventano intelligibili è la conversazione (trovare una conversazione intelligibile non significa necessariamente capirla). Assegniamo le conversazioni a vari generi, proprio come facciamo per le narrazioni letterarie, e in effetti una conversazione è un’opera drammatica, sia pure molto breve. Le conversazioni, proprio come le opere letterarie, hanno inizi, parti centrali e conclusioni; contengono ribaltamenti e riconoscimenti; procedono verso un punto culminante e poi si allontanano da esso ecc. ma se questo vale per le conversazioni, vale anche per le transazioni umane in generale (tipo battaglie, partite a scacchi, corteggiamento, meeting di lavoro ecc). MacIntyre sta dunque presentando sia le conversazioni in particolare sia le azioni umane in generale come narrazioni messe in atto: facciamo tutto quel che facciamo (o pensiamo) in forme narrative. Comincia ad essere chiaro che se rendiamo intelligibili le azioni degli altri in questo modo (collochiamo un loro episodio particolare entro un insieme di narrazioni storiche), è perché l’azione stessa ha un carattere fondamentalmente storico. È perché noi tutti viviamo delle narrazioni e intendiamo la nostra vita in base alle narrazioni che viviamo, che la forma della narrazione è adatta per comprendere le azioni degli altri. Fuorché nell’invenzione letteraria, le storie vengono vissute prima di essere raccontate. MacIntyre ha detto che il soggetto non è solo un attore, ma anche un autore. Ora sottolinea che ciò che un soggetto è in grado di fare e di dire in modo intelligibile come attore è profondamente influenzato dal fatto che non siamo mai più (e a volte anche meno) che i coautori delle nostre azioni. Solo nella fantasia viviamo davvero la storia che più ci aggrada. Nella vita ci troviamo sempre sotto determinate costrizioni. Dobbiamo, per esempio, risolvere situazioni che non abbiamo prodotto noi. Ciascuno di noi, pur essendo il protagonista del proprio dramma, recita parti secondarie nei drammi degli altri, e ciascun dramma pone vincoli agli altri. Ciascuno dei nostri drammi esercita costrizioni su ciascuno di quelli altrui, rendendo il tutto diverso dalle parti che lo compongono, e tuttavia sempre drammatico. Considerazioni complesse come queste sono implicite nel fare dell’idea di intelligibilità il legame concettuale fra l’idea di azione e quella di narrazione. Una volta che abbiamo capito la sua importanza, la tesi che il concetto di azione sia secondario rispetto a quello di azione intelligibile apparirà forse meno bizzarra, e così la tesi che il concetto di “una” azione, pur rivestendo la massima importanza pratica, è sempre un’astrazione potenzialmente fuorviante. Un’azione è un momento di una storia reale o possibile, o di una molteplicità di storie del genere. Ciascuno dei due ha bisogno dell’altro. Tutto ciò è esattamente ciò che nega Sartre: egli, infatti, dice non solo che la narrazione è molto diversa dalla vita, ma addirittura che presentare la vita umana nella forma di una narrazione vuol sempre dire falsificarla; non esistono e non possono esistere storie vere; la vita umana si compone di azioni separate che non conducono a nulla e non hanno ordine; il narratore di storie impone soltanto retrospettivamente agli eventi umani un ordine che essi, invece, non avevano mentre erano vissuti. Se Sartre ha ragione, l’assunto centrale di MacIntyre deve essere sbagliato. C’è tuttavia un importante punto in comune tra la tesi di MacIntyre e quella di Sartre: entrambi concordano nell’identificare l’intelligibilità di un’azione con la sua posizione in una sequenza narrativa; solo che Sartre ritiene che le azioni umane siano di per sé avvenimenti inintelligibili. Possiamo scoprire quello che c’è di sbagliato nella tesi di Sartre nel chiederci: che aspetto avrebbero le azioni umane spogliate di qualsiasi narrazione falsificante? Sartre non ha mai risposto personalmente a questa domanda: è sorprendente che per dimostrare che non esistono narrazioni vere scriva egli stesso una narrazione, sia pure di fantasia. Secondo MacIntyre la pretesa caratterizzazione di azioni anteriore a qualsiasi forma narrativa ad esse imposta si rivelerà sempre la presentazione di quelle che sono semplicemente le parti sconnesse di una qualche narrazione possibile. Per quanto riguarda le caratteristiche delle narrazioni, è essenziale che in qualsiasi punto dato di una narrazione drammatica messa in atto non sappiamo che cosa accadrà subito dopo: il genere di imprevedibilità che MacIntyre ha sostenuto nel capitolo 8 è richiesto dalla struttura narrativa della vita umana. Questa imprevedibilità (prima caratteristica fondamentale) coesiste con una seconda caratteristica fondamentale di tutte le narrazioni vissute: un certo carattere teleologico. In questo senso viviamo le nostre vite, sia individualmente sia nelle relazioni reciproche, alla luce di determinate concezioni di un possibile futuro comune, un futuro in cui certe possibilità ci attraggono e altre ci respingono, alcune sembrano già precluse e altre forse inevitabili. Non esiste presente che non sia informato dall’immagine di un qualche futuro. Imprevedibilità e teleologia coesistono dunque come parti della nostra vita: come i personaggi di una narrazione letteraria, non sappiamo che cosa accadrà in seguito, ma ciononostante le nostre vite hanno una certa forma che si proietta verso il futuro. Se la narrazione della nostra vita individuale e sociale deve continuare in modo intelligibile, sono sempre necessarie due condizioni: da un lato ci devono essere dei vincoli quanto al senso in cui la storia può proseguire, e dall’altro, all’interno di questi vincoli ci dev’essere una molteplicità indefinita di sensi in cui essa può proseguire. Una tesi fondamentale comincia quindi ad emergere: l’uomo nelle sue azioni e nella sua prassi tanto quanto nelle sue finzioni, è essenzialmente un animale che racconta storie (diventa, attraverso la sua storia, un narratore di storie che aspira alla verità). Posso rispondere alla domanda: “che cosa devo fare?”, solo se sono in grado di rispondere alla domanda preliminare: “di quale storia o di quali storie mi trovo a far parte?”. MacIntyre, con questo, vuole dire che noi facciamo il nostro ingresso nella società umana rivestendo i panni di uno o più personaggi che ci sono stati assegnati (ruoli cui siamo stati chiamati), e dobbiamo imparare che cosa sono per riuscire a capire come gli altri reagiscono nei nostri confronti e come vanno costruite le nostre relazioni nei loro confronti. È ascoltando le storie, inventate o reali, che i bambini imparano, nel modo giusto o in quello sbagliato, che cos’è un figlio, che cos’è un genitore, quale cast di personaggi ci può essere nel dramma in cui si sono trovati a nascere, e quali sono le strade del mondo. Infatti non sono mai in grado di ricercare il bene o di esercitare le virtù solo in quanto individuo, in parte perché il significato della vita buona varia in concreto a seconda delle circostanze, persino quando una vita umana rappresenta un’unica concezione della vita buona e un unico insieme di virtù. Quella che è la vita buona per un generale ateniese del quinto secolo non è la stessa che sarebbe tale per una monaca medievale o per un contadino del Seicento. Ma non si tratta solo del fatto che individui diversi vivono circostanze sociali diverse: è anche che tutti noi ci accostiamo alle circostanze particolari della nostra vita come portatori di una determinata identità sociale (io sono il figlio di qualcuno, il cittadino di questa o quella città, appartengo a questa o quella tribù ecc.). Perciò quello che è bene per me deve essere il bene per chi ricopra questi ruoli. In quanto tale, io eredito dal passato della mia famiglia, della mia città, della mia tribù, della mia nazione, della mia cultura, una molteplicità di debiti, di retaggi, di legittimi obblighi e aspettative. Essi costituiscono il dato della mia vita, il mio punto di partenza morale. È in parte questo a conferire alla mia vita la sua particolarità morale. Questo pensiero è estraneo al punto di vista dell’individualismo moderno, per cui posso sempre, se voglio, mettere in questione quelli che sono considerati i tratti sociali meramente contingenti della mia esistenza. Sarò, per esempio, biologicamente figlio di quel tizio ma ciò non toglie che io possa non assumermi le responsabilità delle sue azioni (un individualismo del genere è espresso, per esempio, da quegli americani che negano qualsiasi responsabilità riguardo la schiavitù dei neri dicendo che loro, personalmente, non hanno mai posseduto schiavi). L’io viene separato dai suoi ruoli e dalle sue posizioni sociali e storiche: l’io così separato è evidentemente un io che si trova del tutto a proprio agio nella prospettiva di Sartre o in quella di Goffman, un io che non può avere alcuna storia. Secondo MacIntyre, invece, la storia della mia vita è sempre inserita nella storia di quelle comunità da cui traggo la mia identità. Sono nato con un passato. Il possesso di un’identità storica e il possesso di un’identità sociale coincidono. Osserviamo, dice, che la ribellione contro la mia identità è pur sempre uno dei modi possibili di esprimerla. Osserviamo inoltre, continua, che il fatto che l’io debba trovare la propria identità morale in e attraverso l’appartenenza a comunità quali la famiglia, il vicinato, la città e la tribù, non implica che egli debba accettare le limitazioni morali dovute alla natura particolare di tali forme di comunità. Senza queste particolarità morali da cui partire non ci sarebbe mai nessun punto da cui partire; ma la ricerca del bene, dell’universale, consiste appunto nel superamento di tali particolarità. Tuttavia la particolarità non può mai essere semplicemente lasciata alle spalle o cancellata. L’idea di sfuggirle rifugiandosi in un regno di massime universali che appartengano all’uomo in quanto tale è un’illusione, e un’illusione che produce spesso spiacevoli conseguenze. Ciò che sono è dunque in una parte fondamentale ciò che ho ereditato, un passato specifico che è in qualche misura presente nel mio presente. Mi trovo inserito in una storia, il che significa in genere, che mi piaccia o no, che ne sia consapevole o no, che sono uno dei portatori di una tradizione. Quando MacIntyre ha caratterizzato il concetto di pratica, è stato importante rilevare che le pratiche hanno sempre una storia, e che quello che una pratica è dipende da una modalità di comprensione della pratica stessa che spesso è stata tramandata attraverso molte generazioni. E perciò, nella misura in cui le virtù devono sostenere i rapporti necessari per le pratiche, esse devono sostenere i rapporti con il passato (e con il futuro) tanto quanto quelli del presente. Ma le tradizioni attraverso cui vengono trasmesse e modificate le pratiche particolari non esistono mai separatamente da più vaste tradizioni sociali. Da cosa sono costituite tali tradizioni? Ogni ragionamento avviene nel contesto di una qualche forma tradizionale di pensiero, e supera mediante la critica e l’invenzione i limiti di ciò che era stato pensato fino ad allora in tale tradizione. Inoltre quando una tradizione è bene in ordine è sempre parzialmente costituita da una discussione circa i valori il cui perseguimento fornisce alla tradizione in questione il suo senso e scopo particolare (bisogna metterla sempre in discussione la tradizione). Le tradizioni, quando sono vitali, implicano continui conflitti. Una tradizione vivente è dunque una discussione che si estende nella storia e si incarna nella società, e una discussione che verte in parte proprio sui valori che costituiscono tale tradizione. All’interno di una tradizione il perseguimento dei valori si sviluppa attraverso le generazioni. Perciò la ricerca del proprio bene personale da parte dell’individuo è condotta generalmente e tipicamente in un contesto determinato da quelle tradizioni di cui la vita dell’individuo fa parte, e questo vale sia per i valori interni alle pratiche sia per i valori di una singola vita. Di nuovo, il fenomeno narrativo dell’inserimento si rivela fondamentale: la storia di una pratica del nostro tempo è generalmente e tipicamente inserita nella storia più vasta e più lunga della tradizione mediante cui la pratica ci è stata trasmessa nella sua forma attuale, ed è resa intelligibile soltanto in base a tale storia; così come la storia della vita di ciascuno di noi è inserita in quella più vasta delle tradizioni precedenti e resa intelligibile soltanto in base ad esse. Le tradizioni possono essere rafforzate o possono indebolirsi; che cosa le rafforza o le indebolisce? La risposta è: l’esercizio o il mancato esercizio delle virtù pertinenti. Lo scopo e il senso delle virtù non è soltanto quello di sostenere i rapporti necessari al raggiungimento dei diversi valori interni alle pratiche e di sostenere la forma di una vita individuale in cui l’individuo possa ricercare il proprio bene come il bene della totalità della sua vita, ma anche di sostenere quelle tradizioni che forniscono sia alle pratiche sia alle esistenze individuali il loro contesto storico necessario. Corrompono le tradizioni le mancanze di veridicità, coraggio, giustizia e delle virtù intellettuali appropriate, esattamente come esse corrompono le istituzioni e le pratiche che traggono la loro vita dalle tradizioni di cui costituiscono le incarnazioni attuali. Ovviamente riconoscere questo significa riconoscere anche l’esistenza di una ulteriore virtù, una virtù la cui importanza si fa forse tanto più evidente quanto meno essa è presente: la virtù di avere un senso adeguato delle tradizioni cui si appartiene o che ci si trova ad affrontare. Questa virtù non va confusa con una forma di passatismo conservatore: al contrario, un senso adeguato della tradizione si manifesta nella capacità di cogliere quelle possibilità future che il passato ha messo a disposizione del presente. Le tradizioni viventi si trovano di fronte a un futuro il cui carattere determinato e determinabile, nella misura in cui ne possiede uno, deriva dal passato. Nel ragionamento pratico il possesso di questa virtù non si manifesta tanto nella conoscenza di un insieme di generalizzazioni o di massime che possono costituire le premesse maggiori dei nostri sillogismi pratici; la sua presenza o la sua assenza si rivela piuttosto nel tipo di capacità di giudizio che il soggetto possiede nel sapere come operare una scelta nel mucchio di massime in questione e come applicarle in situazioni particolari. È stato sostenuto da alcuni studiosi che possiamo o ammettere l’esistenza di valori antagonisti e di fatto incompatibili che avanzano pretese antagoniste alla nostra fedeltà pratica, oppure credere in una qualche concezione determinata della vita buona per l’uomo, ma che si tratta di due alternative che si escludono a vicenda. Ciò di cui questo assunto non tiene conto, replica MacIntyre, è che per gli individui ci possono essere modi migliori e peggiori di attraversare il conflitto tragico fra valore e valore. E che per sapere quale sia la vita buona per l’uomo può essere necessario sapere quali siano i modi migliori e quelli peggiori di vivere in situazioni del genere e di superarle. Non c’è nulla che escluda a priori questa possibilità. Un aspetto sotto il quale la scelta fra valori antagonisti in una situazione tragica si differenzia dalla scelta moderna fra premesse morali incommensurabili è che entrambe le serie di azioni fra cui l’individuo è chiamato a scegliere devono essere riconosciute come serie che conducono a qualche valore autentico e sostanziale. Scegliendone una, non faccio nulla per sminuire o negare il diritto che l’altra ha su di me; e quindi qualunque cosa io faccia, avrò omesso un’azione che avrei dovuto compiere. Il protagonista tragico, diversamente dal soggetto morale descritto da Sartre, non sceglie fra diversi principi morali in cui credere, e neppure decide di adottare un qualche principio di priorità fra principi morali. Il protagonista tragico infatti non può fare tutto ciò che dovrebbe fare. È chiaro tuttavia che il compito morale del protagonista tragico può essere assolto meglio o peggio, indipendentemente dalla scelta che egli compie fra le diverse alternative. Svolgere il suo compito meglio anziché peggio significherà fare ciò che è meglio per lui sia in quanto individuo sia in quanto genitore o figlio, cittadino o membro di una professione, o forse in quanto alcune o tutte queste cose insieme. Siamo in grado di capire il concetto di “bene per X” e concetti affini in base a una qualche concezione dell’unità della vita di X. Che cosa sia meglio o peggio per X dipende dal carattere di quella narrazione intelligibile che conferisce alla vita di X la sua unità. Nei capitoli precedenti MacIntyre ha sostenuto che ogni filosofia morale ha come proprio corrispettivo una determinata sociologia. Ciò che ha cercato di esplicitare in questo capitolo è il genere di comprensione della vita sociale richiesto dalla tradizione delle virtù, un genere di comprensione molto diverso da quello predominante nella cultura dell’individualismo burocratico. Nella cultura dominante dell’individualismo liberale o burocratico emergono nuove concezioni delle virtù, e l’idea stessa di virtù subisce una trasformazione. MacIntyre passerà dunque a considerare la storia di questa trasformazione, poiché è possibile comprendere pienamente la tradizione delle virtù solo se si comprende di quali specie di degenerazioni si è dimostrata suscettibile. CAPITOLO XVI Dalle virtù alla virtù e dopo la virtù Verso l’inizio di questo libro MacIntyre ha ipotizzato che il carattere interminabile e insolubili di tanta parte del dibattito morale contemporaneo derivi dalla molteplicità di concetti eterogenei e incommensurabili che ispirano le premesse maggiori a partire da cui i protagonisti di tali dibattiti discutono. Ciò che manca, secondo MacIntyre, è un qualsiasi accordo preciso sia riguardo alla posizione dei concetti di virtù rispetto agli altri concetti morali, sia riguardo alle disposizioni da includere nel catalogo delle virtù e alle esigenze imposte da virtù particolari. Ovviamente all’interno di determinate sottoculture moderne sopravvivono versioni dello schema tradizionale delle virtù; tuttavia le condizioni del dibattito pubblico contemporaneo sono tali che quando le voci rappresentative di queste sottoculture tentano di parteciparvi, vengono fin troppo facilmente interpretate e fraintese nei termini del pluralismo che minaccia di sommergerci tutti. Questo fraintendimento è il risultato di una lunga storia che dal tardo Medioevo giunge fino al presente, una storia nel corso della quale sono cambiati gli elenchi predominanti delle virtù, cambiata la concezione di singole virtù particolari, e lo stesso concetto di virtù è divenuto altro da quello che era. I due concetti (dei capitoli immediatamente precedenti) che costituiscono lo sfondo necessario di un’interpretazione tradizionale delle virtù, il concetto di unità narrativa e quello di pratica, sono stati a loro volta destituiti dal proprio ruolo nel corso dello stesso periodo. E questo ha portato a intendere la forma della narrazione non come ciò che La seconda. La virtù stoica del dominio di sé, che ci consente di controllare le nostre passioni quando esse minacciano di distoglierci dalle richieste della virtù. Il catalogo delle virtù di Smith non coincide con quello di Hume: ci sono in questi secoli tavole di virtù antagoniste e incompatibili. Ciò che risulta più evidente, dice MacIntyre, è che nella vita quotidiana, come nella filosofia morale, la sostituzione della teleologia aristotelica o cristiana con una definizione delle virtù basata sulle passioni non è tanto, o non è affatto, la sostituzione di un insieme di criteri con un altro, ma piuttosto un movimento verso ed entro una situazione in cui non esiste più alcun criterio preciso. Anche per Kant, come per Smith e Hume, la morale è l’obbedienza a regole. Perciò i problemi fondamentali della filosofia morale si raggruppano ormai intorno alla domanda: “come possiamo sapere quali regole seguire?”. I concetti di virtù diventano tanto marginali per i filosofi morali quanto lo sono per la morale della società in cui essi vivono. Ma questa marginalità ha anche un’altra causa: i vari autori del Settecento che scrivono sulle virtù definendole in base al loro rapporto con le passioni considerano già la società come null’altro che l’arena in cui gli individui tentano di assicurarsi ciò che è loro utile o gradevole. Tendono quindi a escludere dalla loro visione qualsiasi concezione della società come comunità unita da una visione condivisa del bene dell’uomo (un bene che precede qualsiasi somma di interessi individuali e ne è indipendente) e da una conseguente pratica comune delle virtù. Invece, un tentativo di parziale restaurazione di quella che MacIntyre ha chiamato “tradizione classica” è rappresentato dal repubblicanesimo (uno dei partiti più radicali della rivoluzione francese): l’ideale repubblicano, nel diciottesimo secolo, è il progetto di restaurare una comunità basata sulla virtù. Un aspetto del repubblicanesimo è l’idea di un bene pubblico che precede la somma dei desideri e degli interessi individuali, e può essere determinato indipendentemente da esso. La virtù dell’individuo consiste nel far sì che il bene pubblico fornisca il criterio per il comportamento individuale. Il repubblicanesimo fa il suo ingresso nel mondo moderno senza nessuna delle grandi caratteristiche negative che tanto avevano contribuito a screditare la tradizione classica durante il Rinascimento e il primo periodo dell’età moderna. Al contrario, il repubblicanesimo ereditò dalle istituzioni della repubblica medievale e rinascimentale quello che fondamentalmente era amore per l’eguaglianza. Per questo la concezione repubblicana della giustizia fu definita innanzitutto in termini di eguaglianza. Ciò che il cristiano dice di Dio, il repubblicano lo dice della repubblica. Vale la pena di esaminare il catalogo delle virtù del repubblicanesimo, quale è esemplificato, ad esempio, nei club giacobini. Libertà, fraternità e uguaglianza non furono le uniche virtù importanti, lo erano anche il patriottismo e l’amore per la famiglia. Vizioso era considerato lo scapolo impenitente, così come l’uomo che svolgeva male il suo lavoro o che non fosse utile e produttivo. Virtuoso era chi si vestiva con semplicità, viveva in alloggi modesti e seguiva i compiti assegnati dalla rivoluzione. La lezione che possiamo imparare dai club giacobini e dal loro fallimento è che non si può sperare di reinventare la morale su una scala che comprenda un’intera nazione, quando il linguaggio stesso della morale che si cerca di reinventare è estraneo sia alla gran massa della gente comune, sia all’élite intellettuale. La comprensione di questo fornisce la chiave di lettura essenziale per capire le difficoltà di tutti quei fautori della più antica tradizione delle virtù che tentano di ristabilire le virtù stesse. MacIntyre fa due esempi, parlando di Cobbett e Jane Austen. Cobbett annunciò una crociata per trasformare la società nel suo insieme; Jane Austen tentò di scoprire luoghi entro cui le virtù potessero vivere. Cobbett guardava all’indietro, considerando i vari stadi dell’Inghilterra come tappe di un processo di decadenza che culminava nella sua epoca. Egli credeva che il piccolo agricoltore fosse il tipo sociale dell’uomo virtuoso e felice, perché la natura obbliga il contadino alla saggezza pratica. Le virtù che Cobbett esalta in modo particolare sono la mancanza d’invidia, l’amore per la libertà, la perseveranza e l’operosità, il patriottismo, l’integrità e la giustizia. Cosa ostacola la tendenza a produrre una comunità virtuosa e felice? L’influenza negativa imposta alla società da un’economia e da un mercato individualistici, in cui la terra, il lavoro e lo stesso denaro sono stati tutti trasformati in merci. Jane Austen, al contrario, identifica quella sfera sociale al cui interno può continuare la pratica delle virtù. Non è ovviamente cieca di fronte alle realtà economiche contro cui protesta Cobbett, anzi verrà definita persino marxista. Il telos delle sue eroine è una vita all’interno di un particolare tipo di matrimonio. Il matrimonio è, per lei, così importante perché, da quando la produzione di beni si è trasferita fuori dalle mura domestiche (nel diciottesimo secolo), le donne si sono divise in due classi: chi viveva in condizioni economiche agiate e quindi passava il tempo a fare nulla (ricamo raffinato, lettura e pettegolezzi: attività femminili); e chi era condannata all’ingrata fatica del servizio domestico o a quello della fabbrica o alla prostituzione. Le donne che non si sposavano, in questo periodo, dovevano temere l’espulsione dalla famiglia e il lavoro umile come loro sorte caratteristica. Quando non si è belle, o ricche, o giovani o sposate, si può conquistare il rispetto esteriore degli altri solo utilizzando la propria superiorità intellettuale per intimorire coloro che altrimenti ci disprezzerebbero. Quando Jane Austen parla di “felicità”, lo fa da aristotelica. Inoltre è cristiana. È il suo riunire temi cristiani e aristotelici in un contesto sociale determinato che fa di Jane Austen l’ultima grande voce davvero creativa della tradizione di pensiero e di pratica delle virtù che ho tentato di identificare. Infatti volta le spalle ai cataloghi rivali delle virtù del diciottesimo secolo e restaura una prospettiva teleologica. Le sue eroine ricercano il bene attraverso la ricerca del loro bene personale nel matrimonio. Quindi molto di ciò che ella mostra circa le virtù e i vizi è assolutamente tradizionale. Elogia la virtù della gradevolezza sociale, come fa Aristotele, ma pone più in alto la virtù dell’amabilità (che richiede un autentico rispetto amorevole per le altre persone in quanto tali). Elogia aristotelicamente l’intelligenza pratica, e cristianamente l’umiltà. Ma non si limita mai a riprodurre la tradizione: la estende di continuo e nell’estenderla si pone tre problemi fondamentali. Il primo: Jane Austen è, e in effetti, dato il clima morale del suo tempo, non può che essere, preoccupata in modo del tutto nuovo per le simulazioni delle virtù. In Jane Austen la morale non è mai la mera proibizione delle passioni: lo scopo della morale è invece di educare le passioni. Il secondo: alla preoccupazione per la simulazione corrisponde in Jane Austen il ruolo essenziale attribuito alla conoscenza di sé, una conoscenza cristiana che può essere raggiunta solo attraverso una sorta di pentimento. La conoscenza di sé è per Jane Austen una virtù sia intellettuale sia morale, ed è strettamente legata a un’altra virtù per lei essenziale, e realmente nuova nel catalogo delle virtù: la costanza. Il terzo: Kierkegaard sosteneva che la vita estetica fosse una vita in cui l’esistenza umana è dissolta in una serie di momenti presenti separati, in cui l’unità della vita umana viene perduta di vista; al contrario, nella vita etica gli impegni e le responsabilità verso il futuro uniscono il presente al passato e al futuro in modo tale da fare di una vita umana un’unità. L’unità a cui si riferisce Kierkegaard è quell’unità narrativa il cui ruolo fondamentale nella vita delle virtù MacIntyre ha determinato nel capitolo precedente. Nel frattempo Jane Austen ha scritto che tale unità non può più essere considerata un semplice presupposto o contesto della vita virtuosa: deve essere a sua volta continuamente riaffermata, e la sua affermazione, negli atti più che nelle parole, è la virtù appunto della costanza. La costanza, secondo Jane Austen, è una virtù alla cui pratica le donne sono più predisposte degli uomini. E sena la costanza tutte le altre virtù perdono in qualche misura il loro senso. La costanza è rafforzata dalla virtù cristiana della pazienza e a sua volta la rafforza. Jane Austen rifiuta quei cataloghi alternativi delle virtù che troviamo in Hume o in Franklin. Il suo punto di vista morale coincide con la forma narrativa dei suoi romanzi: la forma è quella della commedia ironica. Le virtù, e i mali e i pericoli che solo le virtù sono in grado di superare, forniscono la struttura tanto di una vita in cui il telos possa essere raggiunto quanto di una narrazione in cui la storia di una vita siffatta possa essere spiegata. Una volta di più, dice MacIntyre, risulta che qualsiasi interpretazione specifica delle virtù presuppone un’interpretazione altrettanto specifica della struttura e dell’unità narrativa della vita umana, e viceversa. In un senso essenziale Jane Austen, insieme con Cobbett e con i giacobini, è l’ultima grande rappresentante della tradizione classica delle virtù. MacIntyre ora passa a considerare il problema di ciò che è accaduto alla nostra concezione della virtù della giustizia. CAPITOLO XVII La giustizia come virtù: mutamento di concezioni Quando Aristotele celebrava la giustizia come la virtù principale della vita politica, lo faceva in modo tale da suggerire che una comunità priva del consenso pratico su una concezione della giustizia dovesse essere anche priva della base necessaria per una comunità politica. Ma allora la mancanza di una base del genere deve minacciare la nostra stessa società. Infatti il risultato di quella storia di cui ho delineato alcuni aspetti nel capitolo precedente non è stato soltanto un’incapacità di accordarsi su un catalogo delle virtù, né soltanto un’incapacità ancora più fondamentale di accordarsi circa l’importanza relativa dei concetti di virtù all’interno di uno schema morale in cui anche le idee dei diritti e dell’utilità occupano una posizione centrale. È stato anche un’incapacità di accordarsi sul significato e sulla natura di virtù particolari. Siccome, oggi, virtuoso è chi rispetta le regole, bisogna capire su quale consenso si fondano le regole: però, dice MacIntyre, come ha scritto nei primi capitoli del libro, questo consenso preliminare circa le regole è qualcosa che la nostra cultura individualistica non è in grado di assicurare. In nessun caso questo fatto risulta più evidente, e in nessun caso le sue conseguenze sono più pericolose, che in quello della giustizia. La vita quotidiana è pervasa da tali conseguenze, e perciò le controversie fondamentali non possono essere risolte razionalmente. Consideriamo, dice MacIntyre, una di queste controversie. A, che può essere il proprietario di un negozio, ha lavorato e risparmiato per comprare una casa e pagare il college al figlio, ma ora vede minacciati i suoi progetti dall’aumento delle tasse: non crede giusto che gli vengano portati via i soldi che si è guadagnato con onestà. Così ha intenzione di votare alle elezioni chi difende la sua concezione di giustizia. B, che può essere un assistente sociale o uno che vive della ricchezza ereditata, è impressionato dalle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, nei redditi e nelle opportunità: considera queste disuguaglianze ingiuste, e che bisogna fare qualcosa per abbatterle. Di conseguenza ha intenzione di votare alle elezioni chi pensa che sia giusto aumentare la tassazione per ridistribuire la ricchezza finanziando l’assistenza pubblica e i servizi sociali. A e B, nell’unire i principi di Rawls o quelli di Nozick a un appello al merito, esprimono un’adesione a una concezione della giustizia più antica, più aristotelica e cristiana. Questa concezione antica ha due fondamenti: nella prassi morale contemporanea si trovano ancora frammenti di tradizione fianco a fianco con concetti tipicamente moderni e individualistici quali quelli di diritto e di utilità; la tradizione sopravvive anche in una forma molto meno frammentaria e distorta, nella vita di certe comunità i cui legami storici con il passato rimangono forti, comunità che derivano la loro tradizione morale non soltanto dalla religione, ma anche dalla struttura dei villaggi in cui vivevano i loro antenati immediati. Ma persino in comunità del genere, la necessità di inserirsi nel pubblico dibattito costringe la ricerca di un insieme comune di concetti e di norme che tutti possano impiegare e a cui tutti possano fare appello. Di conseguenza, la fedeltà alla tradizione di simili comunità marginali rischia continuamente di essere corrosa. Ciò che l’analisi delle posizioni di A e B rivela una volta di più è che abbiamo troppi concetti morali antagonisti ed eterogenei (in questo caso di giustizia), e che le risorse morali della nostra cultura non ci consentono in alcun modo di risolvere razionalmente il conflitto fra essi. Ne segue che la nostra società non può sperare di raggiungere il consenso morale. Non è solo che la nostra esistenza è permeata in misura eccessiva di una verità e molteplicità di concezioni frammentarie: è che queste vengono utilizzate simultaneamente per esprimere ideali e programmi sociali antagonisti e incompatibili e per fornirci una retorica politica pluralistica la cui funzione è di nascondere la profondità dei nostri conflitti. Ne seguono conclusioni importanti per la teoria costituzionale. Se l’argomento di MacIntyre è corretto, una funzione della Corte Suprema deve essere di mantenere la pace fra gruppi sociali antagonisti che professano principi di giustizia antagonisti e incompatibili, dimostrando un’equità che consiste nell’imparzialità delle sue sentenze. La Corte Suprema deve aprire un varco con le sue mediazioni attraverso i conflitti morali: con la mediazione, e non ricorrendo ai nostri assiomi morali comuni. Poiché la nostra società, nel suo complesso, non possiede alcun assioma del genere. Tutto questo chiarisce che la politica moderna non può basarsi su un autentico consenso morale. E infatti non vi si basa. La politica moderna è la guerra civile proseguita con altri mezzi. Non bisogna aspettarsi che le leggi di un qualsiasi paese debbano essere articolare come tante lezioni di morale: le leggi, siano esse civili o politiche, sono espedienti tattici per conciliare le pretese delle diverse parti, e per assicurare la pace della società. L’espediente è commisurato alle circostanze specifiche. la natura di una qualsiasi società, dunque, non deve essere decifrata unicamente a partire dalle sue leggi, ma da queste intese come un indice dei suoi conflitti. Ciò che le leggi mostrano è la misura e il grado in cui i conflitti devono essere soppressi. Ma se è così, un’ulteriore virtù è stata spodestata. Il patriottismo non può più essere quello che era, perché noi siamo privi di una patria nel senso più completo del termine. La tesi che MacIntyre sta sostenendo non va confusa con il rifiuto del patriottismo, che è un luogo comune del pensiero liberale: i liberali lo rifiutano in parte perché si appellano a valori che essi ritengono universali e non locali, in parte a causa del sospetto giustificato che il patriottismo vada a braccetto con l’imperialismo. Ma la tesi attuale di MacIntyre non è che il patriottismo sia buono o cattivo in quanto sentimento, bensì che nelle società avanzate la pratica del patriottismo come virtù non è più possibile nel modo in cui lo era un tempo. In qualsiasi società dove il governo non esprime né rappresenta la comunità morale dei cittadini, ma è invece un insieme di espedienti istituzionali per imporre un’unità burocratizzata a una società priva di un autentico consenso morale, la natura del dovere politico diventa sistematicamente confusa. Quando il rapporto del governo con la morale viene messo in questione sia dal mutamento della natura del governo, sia dalla mancanza di consenso morale nella società, diventa difficile mantenere una qualsiasi concezione chiara, semplice e comprensibile del patriottismo. La tesi di MacIntyre non va confusa con una qualche critica anarchica dello stato: egli crede che ci siano forme di governo necessarie e legittime; ma dice che lo stato moderno non è tra queste. Secondo lui, la tradizione delle virtù è incompatibile con caratteristiche essenziali dell’ordinamento economico moderno, e in particolare con il suo individualismo, la sua avidità e l’elevazione dei valori di mercato a un rango sociale fondamentale. Adesso risulta chiaro che tale tradizione implica anche un rifiuto dell’ordinamento politico moderno. La politica sistematica moderna, sia essa liberale, conservatrice, radicale o socialista, deve essere semplicemente rifiutata da un punto di vista che si mantenga davvero fedele alla tradizione delle virtù; poiché la politica moderna, da parte sua, esprime nelle sue forme istituzionali un rifiuto sistematico di tale tradizione. CAPITOLO XVIII Nietzsche o Aristotele, Trotzkij e San Benedetto Nel capitolo 9 MacIntyre ha posto una domanda categorica: Nietzsche o Aristotele? L’argomento che lo ha condotto a porre questa domanda aveva due premesse fondamentali. La prima. Oggi il linguaggio (e quindi anche, in larga misura, la pratica) della morale è in uno stato di grave disordine. Tale disordine deriva dalla potenza culturale predominante di un idioma in cui frammenti concettuali male assortiti, originari di parti diverse del nostro passato, vengono dispiegati insieme in discussioni private e pubbliche la cui caratteristica più notevole è l’indecidibilità delle controversie in esse condotte e la palese arbitrarietà di ciascuna delle parti in competizione. La seconda. Da quando la fede nella teleologia aristotelica cadde in discredito, i filosofi morali hanno sempre tentato di fornire qualche interpretazione alternativa, razionale e secolare, della natura e dello statuto della morale, ma tutti questi tentativi sono di fatto falliti: un fallimento percepito con la massima chiarezza da Nietzsche. Di conseguenza, la proposta negativa di Nietzsche di radere al suolo le strutture della fede e dell’argomentazione morale tradizionali aveva, sia riguardo il quotidiano sia riguardo i filosofi morali, una certa plausibilità: a meno che, naturalmente, il rifiuto iniziale della tradizione morale di cui l’insegnamento aristotelico sulle virtù costituisce il nucleo essenziale non si riveli errato ed erroneamente concepito. A meno che quella tradizione non possa essere giustificata razionalmente, la posizione di Nietzsche possiede una terribile plausibilità. La tradizione aristotelica ha occupato due posizioni distinte nell’argomentazione di MacIntyre: innanzitutto perché ha suggerito che gran parte della morale moderna è intelligibile soltanto come un insieme di residui frammentari di tale tradizione (è difficile giustificare razionalmente la morale proprio a causa di questa frammentazione). Ma oltre a ciò, il rifiuto della tradizione aristotelica fu un rifiuto di un tipo di morale del tutto particolare, in cui le regole, che tanto predominano nelle concezioni moderne della morale, sono collocate entro uno schema più vasto dove le virtù occupano la posizione centrale; perciò la cogenza del rifiuto e della confutazione nietzscheane delle moderne morali delle regole, siano esse di tipo utilitaristico o kantiano, non si estendeva necessariamente alla più antica tradizione aristotelica. È uno degli assunti più importanti di MacIntyre che contro questa tradizione la polemica nietzscheana fallisce completamente. I fondamenti di questa asserzione possono essere esposti in due modi diversi. Il primo. È già stato accennato nel capitolo 9 che Nietzsche riesce nel suo tentativo se tutti quelli che egli si sceglie come antagonisti falliscono nei loro. Se Nietzsche vince, vince per abbandono. In realtà, però, Nietzsche non vince. Nei capitoli 14 e 15 MacIntyre ha abbozzato l’argomentazione razionale per difendere i testi tradizionali politici e morali di Aristotele. Per riuscire nel loro intento, Nietzsche o i nietzscheani dovrebbero poter confutare quella argomentazione. Il motivo per cui una tale confutazione è impossibile può essere chiarito nel modo migliore considerando un secondo modo di giustificare il rifiuto delle tesi di Nietzsche: Il secondo: l’uomo nietzscheano, il superuomo, l’uomo che trascende, non trova il suo bene in alcun luogo del mondo sociale quale è stato finora, ma soltanto nel suo mondo interiore che gli detta le sue nuove leggi e le sue nuove tavole dei valori. Perché non trova mai nessun valore oggettivo che abbia una autorità su di lui nel mondo sociale quale è stato finora? Il superuomo, come concepito da Nietzsche, è carente sia dal punto di vista delle relazioni sia da quello delle attività. La sua caratterizzazione, solitario, che usa gli altri e mente loro, è profondamente radicata nell’assunto di Nietzsche che la pretesa di oggettività della morale della società europea non può essere sostenuta razionalmente. È per questo che il superuomo non può entrare in rapporti mediati dal ricorso a modelli, virtù o valori comuni; egli è per se stesso l’unica autorità, e i suoi rapporti con gli altri devono essere forme di esercizio di questa autorità. Ma adesso possiamo vedere chiaramente che, se l’interpretazione delle virtù che MacIntyre ha difeso è sostenibile, è l’isolamento e la concentrazione esclusiva in se stesso del superuomo a imporgli il fardello di essere la propria autorità morale autosufficiente. Infatti, se l’idea di valore si esprime in termini di pratica, unità narrativa della vita umana e tradizione morale, allora i valori, e con essi i fondamenti dell’autorità delle leggi e delle virtù, possono essere scoperti solo partecipando ai rapporti della comunità il cui vincolo essenziale è una visione e una comprensione dei valori condivisa da tutti. Escludere se stessi dall’attività comune della comunità significa privarsi della possibilità di trovare qualsiasi valore al di fuori di se stessi. Perciò, dice MacIntyre, dobbiamo concludere non soltanto che Nietzsche non vince per abbandono nella disputa contro la tradizione aristotelica, ma anche e soprattutto che è proprio dal punto di vista di tale tradizione che possiamo comprendere meglio gli errori che si annidano nel cuore stesso della posizione nietzscheana. Il concetto di superuomo nietzscheano rappresenta il tentativo estremo dell’individualismo di sfuggire alle sue stesse conseguenze. E la posizione nietzscheana risulta essere non una via d’uscita o un’alternativa rispetto allo schema concettuale della modernità individualista liberale, ma al contrario, un ulteriore momento rappresentativo nel suo dispiegamento interno. Era dunque esatto considerare Nietzsche, in un certo senso, come l’ultimo antagonista della tradizione aristotelica. Ma ora risulta che in definitiva la posizione nietzscheana è semplicemente un’ulteriore sfaccettatura di quella stessa cultura morale di cui egli credeva di essere un critico implacabile. Quindi, tutto sommato, l’opposizione morale fondamentale rimane quella fra l’individualismo liberale nell’una o nell’altra delle sue versioni e la tradizione aristotelica nell’una o nell’altra delle sue versioni. Le differenze tra le due sono molto profonde, toccano vari temi a vari livelli. Ecco perché tutta l’argomentazione di MacIntyre si è dovuta estendere a temi quali il concetto di fatto, i limiti della prevedibilità nelle faccende umane e la natura dell’ideologia. Ormai, MacIntyre si augura, risulterà chiaro che nei capitoli in cui trattava questi temi non stava semplicemente accumulando argomenti contro le manifestazioni sociali dell’individualismo liberale, ma stava anche gettando le basi per argomenti a favore di un modo alternativo di considerare sia le scienze sociali sia la società, un modo con cui la tradizione aristotelica si può accordare facilmente. La conclusione personale di MacIntyre è chiarissima: è che da un lato, nonostante gli sforzi di tre secoli di filosofia morale e di un secolo di sociologia, non possediamo ancora nessuna formulazione coerente e