Scarica Riassunto completo del "Manuale di diritto amministrativo" di Marcello Clarich e più Appunti in PDF di Diritto Amministrativo solo su Docsity! 1 MANUALE DI DIRITTO AMMINISTRATIVO – M. Clarich Parte I: il diritto amministrativo e le sue fonti CAPITOLO 1 Introduzione Premessa. Il diritto amministrativo può essere definito come quella branca del diritto pubblico interno che ha per oggetto l'organizzazione e l'attività della pubblica amministrazione. In particolare riguarda i rapporti che quest'ultima instaura con i soggetti privati nell'esercizio di poteri ad essa conferiti dalla legge per la cura di interessi della collettività. Modelli di Stato e nascita del diritto amministrativo. Stato amministrativo prendendo in esame il caso francese, la nascita dello Stato moderno, con l'unificazione del potere politico del re, andò di pari passo con la formazione di apparati amministrativi stabili, al centro e in periferia, posti alle dirette dipendenze del sovrano (gli intendenti del re) e contrapposti ai poteri locali. Nell'esperienza francese lo Stato assoluto si definiva già come Stato amministrativo. Era inoltre uno Stato che estendeva il suo raggio di azione a numerosi campi. Nel corso del XVIII secolo lo Stato assoluto assunse i caratteri dell'assolutismo illuminato, cioè lo Stato di polizia, offrendo ai propri sudditi provvidenze di vario genere. L'espansione dei compiti dello Stato e l'attribuzione di poteri amministrativi ai funzionari delegati del sovrano e agli apparati burocratici stabili portarono poco a poco all'emersione della funzione amministrativa come funziona autonoma, non più compresa in quella giudiziaria. La Rivoluzione francese del 1789 e le costituzioni liberali approvate nei decenni successivi portarono alla nascita del modello dello Stato di diritto (o Stato costituzionale). Stato di diritto e Stato a regime di diritto amministrativo oggi lo Stato di diritto è uno dei principi fondanti dell'Unione europea, insieme a quelli della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e del rispetto dei diritti umani citati dall'art. 2 del Trattato sull'Unione europea. Lo Stato di diritto si basa su alcuni elementi strutturali: 1. Lo Stato di diritto prevede il trasferimento della titolarità della sovranità dal rex legibus solutus a un parlamento eletto da un corpo elettorale, prima ristretto poi a suffragio universale. 2 2. Esso si fonda sul principio della separazione dei poteri, per togliere il monopolio del potere al sovrano assoluto, e in più per evitare abusi a danno dei cittadini. Secondo la tripartizione dei poteri (teorizzata nel XVIII secolo da Montesquieu), il potere legislativo spetta a un parlamento elettivo, il potere esecutivo al re e agli apparati burocratici da esso dipendenti e il potere giudiziario a una magistratura indipendente. Il potere esecutivo in questo modo viene sottoposto alla legge, cioè alla supremazia del parlamento, che è l'espressione della volontà popolare. 3. Un terzo elemento strutturale è l'inserimento nelle Costituzioni di riserve di legge. Queste escludono o limitano anzitutto il potere normativo del governo. Infatti il potere regolamentare dell'esecutivo, è ammesso esclusivamente nelle materie non sottoposte a riserva di legge assoluta. Nelle materie coperte da riserva di legge relativa, esso si può compiere solo nel rispetto dei limiti e dei principi stabiliti dalla legge (regolamenti esecutivi). Il principio di legalità è al centro dell'intera costruzione del diritto amministrativo. 4. Per far si che sia effettiva la sottoposizione del potere esecutivo alla legge e la garanzia dei diritti di libertà, lo Stato di diritto richiede che al cittadino sia riconosciuta la possibilità di ottenere la tutela delle proprie ragioni anche nei confronti della pubblica amministrazione davanti a un giudice imparziale, indipendente dal potere esecutivo. Lo Stato di diritto costituisce un modello e un ideale al quale tendere e che sempre si rinnova. Per esempio in Italia la Costituzione del 1948, la legge 7 Agosto 1990, n. 241, sul procedimento amministrativo e il Codice del processo amministrativo del 2010 hanno contribuito ad avvicinarci sempre più a tale ideale. Stato guardiano notturno, Stato sociale, Stato imprenditore, Stato regolatore nel XIX secolo nacque lo Stato guardiano notturno che aveva due compiti: la garanzia dell'ordine pubblico interno; la difesa del territorio da potenziali nemici esterni. Dunque alla società civile e al mercato spettava lo svolgimento delle attività economiche e la cura di altri interessi della collettività (es. sanità). La visione liberista e liberale di questo Stato entrarono in crisi verso la fine del XIX, inizio XX secolo. Queste trasformazioni portarono il passaggio a un modello di Stato detto “Stato interventista”, “Stato sociale” o “Stato del benessere” (Welfare State). I primi interventi furono attuati dalla Germania bismarckiana e nell'Italia giolittiana. Nel corso del secolo si ebbero grandi sviluppi che portarono lo Stato ad intervenire sempre più nei vari settori, in particolare nelle attività economiche e sociali, i quali portarono a un aumento della spesa pubblica. Lo “Stato imprenditore” si trasformò via via in “Stato regolatore”, il quale rinuncia cioè a dirigere o gestire direttamente attività economiche e sociali e si fa invece carico di predisporre soltanto le regole e gli strumenti di controllo necessari affinché l'attività dei privati, non vada a ledere interessi pubblici rilevanti. Però con la crisi 5 La regolazione economica considera l'istituzione di apparati pubblici come rimedio per le situazioni di insuccesso o di “fallimento del mercato” (market failures). I principali casi di fallimento del mercato che giustificano l'intervento dei poteri pubblici sono: 1. I monopoli naturali, come le infrastrutture non facilmente duplicabili (es. le reti di trasporto ferroviarie). Esse pongono chi gestisce l'attività in una situazione di “potere di mercato” che impedisce o altera lo sviluppo di un mercato concorrenziale e che consentono extraprofitti dovuti alla rendita di posizione. I rimedi più frequenti consistono nel sottoporre l'impresa monopolista a una serie di vincoli, come il controllo dei prezzi ecc. 2. I cosiddetti beni pubblici, come la difesa esterna o l'ordine pubblico, dei quali beneficia l'intera collettività, inclusi coloro che non sarebbero disponibili a farsi carico di una quota proporzionale di costi (freeriders). 3. Le esternalità negative dovute per esempio a produzioni industriali inquinanti i cui benefici vanno a vantaggio dell'impresa, ma i cui costi gravano sull'intera collettività. 4. Le asimmetrie informative tra chi offre e chi acquista beni e servizi circa le caratteristiche qualitative essenziali di questi ultimi, come nei rapporti tra istituzioni finanziarie o imprese quotate in borsa e piccoli risparmiatori non in grado di valutare i rischi degli investimenti proposti. 5. Le esigenze di coordinamento per esempio relative al sistema dei pesi e misure o al traffico stradale che richiedono la fissazione di standard uniformi e di regole di comportamento al cui rispetto sono proposte autorità pubbliche. Le misure autoritative necessarie per prevenire e correggere i fallimenti del mercato si prestano ad essere classificate secondo il criterio che muove dalla maggiore alla minore intrusività rispetto alla dinamica del mercato. Il principio che dovrebbe guidare il regolatore nella scelta degli strumenti correttivi è quello secondo il quale vanno preferiti, tra gli strumenti astrattamente idonei a tutelare l’interesse pubblico, quelli meno restrittivi della libertà di impresa. In ogni caso, vanno preferiti, ove possibile, regimi di autorizzazione vincolata a quelli che lasciano all’amministrazione ampi spazi di valutazione discrezionale e che dunque attribuiscono minori certezze ai soggetti privati. Cenni agli indirizzi della “public choice” e al modello “principal-agent” sempre nell’ambito delle scienze economiche, va menzionato l’indirizzo della “public choice” affermatosi negli Stati Uniti. Per spiegare il funzionamento effettivo degli apparati pubblici è errato muovere dall’ipotesi che gli apparati pubblici, e i burocrati ad essi preposti, agiscano sempre e necessariamente per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. È più realistico muovere dall’ipotesi che anche il loro comportamento è animato da “self-interest”. Gli apparati pubblici agiscono come attori in un’arena pubblica nella quale le decisioni sono il frutto di scambi e 6 negoziazioni tra i vari gruppi politici e sociali e i rappresentanti degli interessi organizzati che mimano in qualche modo il mercato. In base a questo approccio, si tende a porre in evidenza, accanto alle situazioni di “market failures”, quelle di “government failures”, cioè le inefficienze strutturali e gli effetti negativi dell’azione dei pubblici poteri. È sempre incombente il rischio della cattura del regolatore da parte dei soggetti regolati. Anche gli apparati amministrativi tendono ad essere influenzati nelle loro decisioni da interessi soprattutto economici (le varie lobby) deviando così dalla loro missione di cura dell’interesse pubblico generale. Da qui la necessità di un disegno istituzionale atto a prevenire o, quanto meno, limitare questo rischio. Dal punto di vista macroeconomico, lo Stato nelle sue varie articolazioni può essere considerato come un meccanismo di gestione e redistribuzione delle risorse alternativo al mercato. La regolazione pubblica (e i suoi strumenti amministrativi), con l’imposizione ai privati di obblighi comportamentali (e oneri economici) in funzione del raggiungimento di interessi pubblici, costituisce uno strumento alternativo alla tassazione per la realizzazione di obiettivi di interesse pubblico. Così, per esempio, in materia ambientale una riduzione dei livelli di inquinamento può essere perseguita vuoi imponendo limiti massimi alle emissioni, vuoi introducendo una tassa ambientale a carico di taluni tipi di imprese. La microeconomia elabora a sua volta una serie di strumenti concettuali utili per inquadrare il fenomeno burocratico. In particolare, la teoria del “principale-agent” studia i meccanismi e gli incentivi per far sì che l’attività dell’agente, delegato dal principale a compiere una certa attività, venga posta in essere nell’interesse di quest’ultimo e non venga piegata all’interesse egoistico dell’agente. Anche gli apparati burocratici possono essere considerati come agenti del parlamento che nella veste di principale attribuisce ad essi, per legge, funzioni e risorse per la cura di interessi pubblici. All’interno dei singoli apparati pubblici, poi, i dirigenti possono essere considerati come agenti incaricati di svolgere la propria attività in funzione degli obiettivi individuati dai loro principali, cioè i vertici politici. A loro volta i vertici politici, scelti in base al metodo elettorale, sono in qualche misura agenti dei cittadini elettori e occorre individuare strumenti di responsabilizzazione in modo da evitare l’autoreferenzialità della classe politica. Un problema di agenzia si pone anche nei rapporti tra dirigenti, ai vari livelli, degli uffici e i loro sottoposti. Questi ultimi potrebbero essere tentati a sollecitare o accettare compensi non dovuti o altri favori dai privati con i quali intrattengono rapporti in relazione ad atti amministrativi ed altri adempimenti. La regolazione pubblica dovrebbe dunque individuare gli strumenti (regole, incentivi, sanzioni) per allineare gli interessi dell’agente a quelli del principale. La scienza del diritto amministrativo con l'evolversi dei rapporti politici e sociali e con l'espandersi della legislazione amministrativa soprattutto a partire dagli anni Trenta del XX secolo, la scienza del diritto amministrativo estese il proprio campo di 7 indagine a fenomeni nascenti come l'ordinamento di credito, gli enti pubblici, l'impresa pubblica, ecc. Verso la fine del secolo emerse anche una prospettiva volta a operare un riequilibrio nel rapporto tra Stato e cittadino con due modalità principali: Il potenziamento delle garanzie formali e sostanziali a favore di quest'ultimo; l'impiego di nuovi moduli consensuali di regolamentazione dei rapporti privati e pubblica amministrazione. Gli anni Novanta del secolo scorso, segnati dall'introduzione della legge 7 agosto 1990, n. 241 sul procedimento amministrativo e dall'influenza del diritto europeo in particolare nel settore dei servizi pubblici, costituiscono idealmente una rottura tra la concezione più autoritaria del diritto amministrativo che privilegia il punto di vista dell'amministrazione e pone l'accento sui poteri unilaterali attribuiti a quest'ultima e un nuovo paradigma interpretativo. Quest'ultimo valorizza la posizione del cittadino, titolare ormai di diversi diritti e garanzie all'interno del rapporto procedimentale, ed enfatizza la sottoposizione del potere al principio di legalità inteso in senso più rigoroso. Il diritto amministrativo resta sempre il diritto dell'autorità del potere pubblico per la cura degli interessi della collettività ma ha perso i connotati di un diritto autoritario. Il diritto amministrativo e i suoi rapporti con altre branche del diritto. Il diritto costituzionale anche se il diritto costituzionale e il diritto amministrativo riguardano rami differenti, sono strettamente collegati. I legami da analizzare sono due: in primo luogo, il diritto amministrativo, per riprendere l'espressione di F. Werner, non è altro che il diritto costituzionale reso concreto, cioè preso nella sua effettiva realizzazione nella legislazione e nella vita dell'ordinamento. Per esempio, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione stabilito dall'art. 21 Cost. è condizionato dalla legislazione amministrativa sul sistema radiotelevisivo e sulla stampa. Un secondo legame tra diritto costituzionale e diritto amministrativo è riassunto dall'affermazione di uno dei maggiori giuristi tedeschi del primo Novecento (Otto Mayer) secondo il quale “il diritto costituzionale passa, il diritto amministrativo resta”. Questo ci fa capire il disallineamento temporale dei mutamenti costituzionali rispetto alle riforme amministrative. Proprio perché incidono solo sui rami alti dell’ordinamento, i primi possono verificarsi anche in modo rapido in seguito a moti rivoluzionari, sconfitte militari e, più in generale, rotture della Costituzione. 10 I caratteri generali del diritto amministrativo. Il diritto amministrativo generale e speciale il diritto amministrativo si caratterizza per la vastità del materiale normativo e per l’ampiezza e varietà delle materie incluse nel suo campo di indagine. È emersa così la distinzione tra diritto amministrativo speciale e generale. Il diritto amministrativo speciale è costituito dai filoni legislativi che disciplinano i vari campi di intervento delle pubbliche amministrazioni (urbanistica, sanità, ambiente, beni culturali, ordinamento scolastico, universitario, militare, sportivo, ordine pubblico, previdenza, ecc.). Il corpo della legislazione di settore di fonte statale e regionale, ma spesso anche di derivazione europea, è imponente. Inoltre prendono corpo nuovi settori di legislazione speciale come quella sull’amministrazione digitale e sulla prevenzione della corruzione nelle pubbliche amministrazioni. Il diritto amministrativo generale è opera soprattutto della scienza giuridica. Essa procede anzitutto alla rielaborazione del materiale giuridico grezzo, costituito dal complesso delle norme vigenti e dalle sentenze dei giudici, attraverso un’attività di classificazione, di individuazione di strutture portanti e di costanti. Interviene poi l’attività di elaborazione dei concetti giuridici che costituiscono il nucleo essenziale della dogmatica del diritto amministrativo; il diritto amministrativo generale è ora in buona parte codificato nella l. n. 241/1990. Diritto amministrativo generale e speciale si condizionano reciprocamente e si evolvono di pari passo. Il mutare delle discipline amministrative di settore ad opera del legislatore richiede uno sforzo costante di adattamento delle categorie giuridiche e di ricerca di nuovi paradigmi interpretativi. Il diritto amministrativo generale, dunque, per propria natura non può aspirare a un inquadramento completo, coerente e definitivo del proprio oggetto. Può mirare soltanto a tracciare le coordinate principali e le costanti volte a inquadrare nel modo più preciso i fenomeni analizzati. E questo nella consapevolezza che i sistemi giuridici presentano necessariamente contraddizioni interne, tensioni tra opposti principi, tra elementi caduchi ed elementi in pieno sviluppo, tra forze che promuovono la stabilità e spinte che provocano instabilità. 11 CAPITOLO 2 La funzione di regolazione e le fonti del diritto Premessa. C'è una distinzione tra “fonti sull'amministrazione” e “fonti dell'amministrazione”. Le prime hanno come destinatarie le pubbliche amministrazioni che diventano così soggetti etero-regolati, sottoposti ai principi dello Stato di diritto. Esse disciplinano l'organizzazione, le funzioni e i poteri di queste ultime e fungono da parametro per sindacare la legittimità dei provvedimenti da esse emanati. Le fonti sull'amministrazione sono costituite, in base al principio della riserva di legge relativa all'art. 97 Costituzione, prima di tutto da fonti normative di livello secondario (es. regolamenti governativi). Le seconde, invece, sono strumenti a disposizione delle pubbliche amministrazioni sia per regolare comportamenti dei privati sia, nei limiti in cui la legge riconosca ad esse autonomia organizzativa, per disciplinare i propri apparati e il loro funzionamento. Esse danno sostanza alla funzione di regolazione propria delle pubbliche amministrazioni. Le fonti dell'amministrazione hanno sempre un livello sub-legislativo (regolamenti dei singoli ministeri e di enti pubblici, statuti), essendo la funzione legislativa riservata al parlamento. Esse includono sia fonti normative in senso proprio, sia atti di regolazione che hanno natura non normativa (atti di pianificazione e programmazione, atti amministrativi generali, direttive, circolari, ecc.). La funzione di regolazione della pubblica amministrazione include tutti gli strumenti, anche informali, idonei a orientare e condizionare i comportamenti dei privati. La Costituzione. La Costituzione, entrata in vigore nel 1948, costituisce la fonte giuridica di livello più elevato. Essa non definisce soltanto i diritti di libertà dei cittadini e delinea l'assetto generale dello Stato-ordinamento, ma individua anche un'ampia serie di compiti che lo Stato, e per esso la pubblica amministrazione, deve farsi carico nell'interesse della collettività (salute, istruzione ecc.). La Costituzione non si occupa invece dell'assetto della pubblica amministrazione. Si basa su pochi principi essenziali in tema di: organizzazione (imparzialità, e buon andamento, art. 97); di raccordi tra politica e amministrazione (art. 95, principio della strumentalità dell'amministrazione rispetto alla politica generale del governo e il principio della responsabilità politica dei ministri in relazione all'attività amministrativa); 12 di assetto della giustizia amministrativa (artt. 103, 113, 125). Lo stesso principio di legalità è dato per presupposto, ma non è esplicitato in disposizioni legislative. Sul lato organizzativo la Costituzione si sofferma sul principio autonomistico (art. 5), ed enuncia il principio di sussidiarietà come criterio generale di divisione delle funzioni amministrative (art. 118). Sul lato finanziario, pone il principio del pareggio di bilancio (art. 81, riscritto dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1). La riforma del Titolo V della parte II della Costituzione da parte della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 ha ridefinito i rapporti tra le fonti statali e regionali sulla base dei seguenti principi: la parità tra competenza legislativa statale e regionale, esercitate nel rispetto della Costituzione, e dei “vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art. 117, comma 1); l'attribuzione alle regioni di una competenza generale rimanente, con indicazione tassativa delle materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva e concorrente dello Stato (art. 117, comma 2 e 3). Fonti dell’UE. Nella gerarchia delle fonti, le fonti dell'unione europea si pongono su un livello più elevato rispetto alle fonti primarie. C'è il principio secondo cui le norme nazionali contrastanti con il diritto europeo devono essere disapplicate. Questo principio vale sia per i giudici nazionali, sia per le p.a., quando esercitano un potere amministrativo ed emanano un provvedimento. Le fonti europee sono costituite prima di tutto dai Trattati istitutivi della Comunità modificati diverse volte e integrati: da ultimo con i Trattati di Amsterdam del 1997, di Nizza del 2001 e di Lisbona del 2007. Il trattato di Lisbona entra in vigore alla fine del 2009. I principi generali che ci sono all'interno di essi (non discriminazione, legalità ecc.), insieme a quelli che la Corte di giustizia ha ricavato dai principi generali comuni agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, sono di diretta applicabilità negli ordinamenti nazionali. Oltre ai Trattati vanno considerate sia la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, sia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU). I regolamenti hanno capacità generale e sono direttamente vincolati per gli Stati membri e per i loro cittadini. I regolamenti europei devono essere motivati. Essi costituiscono un principio diretto per sindacare la legittimità degli atti amministrativi. Le direttive emanate dalla Commissione e dal Consiglio hanno per destinatari gli Stati e sono vincolati “per quanto riguarda il risultato da raggiungere”. Anche loro devono essere motivati e impongono agli Stati membri soltanto un obbligo di 15 principi hanno una valenza prescrittiva e una rilevanza in sede di controllo giurisdizionale sull'attività amministrativa. Le leggi provvedimento. Le leggi provvedimento vanno analizzate in base al rapporto tra parlamento e potere esecutivo. Si tratta di leggi (statali e regionali) prive della generalità e astrattezza, cioè che intervengono a porre la disciplina di situazioni concrete riferite a volte a un’unica fattispecie. Per esempio le leggi che revocano concessioni amministrative, costituiscono singole società per azioni di interesse nazionale, erogano finanziamenti a una o più imprese, approvano un atto di pianificazione. Il ricorso eccessivo alle leggi provvedimento è il sintomo di una disfunzione nei rapporti tra parlamento e potere esecutivo. I regolamenti governativi. La legge costituzionale n. 3/2001 ha introdotto il principio del parallelismo tra competenza legislativa e competenza regolamentare dello Stato. Lo Stato cioè è titolare di un potere regolamentare esclusivamente nelle materie che l’art. 117 Cost. attribuisce alla sua competenza legislativa esclusiva (art. 117, comma 6). Tale potere può essere delegato alle regioni. Nelle altre materie la potestà regolamentare spetta alle regioni. Lo Stato può anche emanare regolamenti nelle materie riguardanti la potestà legislativa regionale concorrente in caso di inerzia. I regolamenti in questioni hanno carattere cedevole, cioè perdono efficacia all’entrata in vigore della normativa da parte di ciascuna regione (art. 11, comma 8, l. n. 11/2005). Il potere regolamentare del governo è presente anche nell’art. 87 Cost. che attribuisce al presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi e gli atti aventi forza di legge e di emanare i regolamenti. A livello di fonti primarie esistono cinque tipi di regolamenti governativi: 1. I regolamenti esecutivi pongono norme di dettaglio necessarie per l’applicazione concreta di una legge. Non è necessario che la legge attribuisca di volta in volta al governo il potere di approvarli, perché la l. n. 408/1988 costituisce un fondamento legislativo generale sufficiente a soddisfare il principio di legalità. 2. I regolamenti per l’attuazione e l’integrazione possono essere emanati nelle materie non coperte da riserva di legge assoluta nei casi in cui la legge si limiti a individuare i principi generali della materia e autorizzi espressamente il governo a porre la disciplina di dettaglio. 3. I regolamenti indipendenti intervengono nelle materie non soggette a riserva di legge là dove manchi una disciplina di livello primario. 4. I regolamenti di organizzazione costituiscono una sottospecie di regolamenti esecutivi e di attuazione poiché disciplinano l’organizzazione e il funzionamento 16 delle pubbliche amministrazioni “secondo le disposizioni dettate dalla legge”. L’art. 97 Cost. pone una riserva di legge riguardo alla organizzazione di uffici e dunque è sempre necessaria una disciplina di fonte primaria che ne delinei l’assetto in termini generali. 5. I regolamenti delegati o autorizzati sono per le materie non coperte da riserva assoluta di legge e attuano la cosiddetta delegificazione, cioè sostituiscono la disciplina posta da una fonte primaria con una disciplina posta da una fonte secondaria. Infatti la loro entrata in vigore determina l’abrogazione delle norme vigenti contenute in fonti anche di livello primario. I regolamenti trattati fino ad ora sono attribuiti alla competenza del Consiglio dei ministri. 6. I regolamenti ministeriali e interministeriali sono previsti dall’art. 17, comma 3, nelle materie riguardanti la competenza di uno o più ministri. Questi regolamenti possono essere emanati solo nei casi espressamente previsti dalla legge e sono gerarchicamente sottordinati ai regolamenti governativi. Essi devono essere comunicati prima della loro emanazione al presidente del Consiglio dei ministri ai fini del coordinamento. Dal punto di vista formale e procedurale portano la denominazione “regolamento” e sono adottati previo parere del Consiglio di Stato, sono sottoposti al controllo preventivo di legittimità e alla registrazione della Corte dei Conti e vengono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale. La partecipazione dei privati è esclusa e non è richiesta neppure la motivazione. Dopo la legge costituzionale n. 3/2001 che ha limitato l’ambito dei regolamenti governativi e ministeriali alle materie che rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, molte leggi recenti tendono ad aggirare il divieto autorizzando l’emanazione di decreti ministeriali poco precisati “non aventi valore regolamentare”, che però contengono prescrizioni generali simili a quelle proprie dei regolamenti. Il regime giuridico dei regolamenti è in parte quello proprio dei provvedimenti amministrativi, in parte quello proprio delle fonti del diritto. In base al principio della preferenza della legge, i regolamenti sono soggetti di disapplicazione da parte del giudice ordinario. Anche il giudice amministrativo può disapplicare una norma regolamentare in almeno due ipotesi: quando il provvedimento impugnato viola un regolamento che è difforme dalla legge; quando il provvedimento impugnato è conforme a un regolamento che però contrasta con una legge. 17 Cenni alle fonti normative regionali, degli enti locali e di altri enti pubblici. La Costituzione indica tre fonti normative regionali: gli statuti, le leggi e i regolamenti. Modifiche rilevanti sono intervenute in seguito alle leggi costituzionali 22 novembre 1999, n. 1 e 18 ottobre 2001, n. 3. Lo statuto delle regioni ordinarie determina la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento (art. 123, comma 1). Le leggi regionali sono approvate dal Consiglio regionale e promulgate dal presidente (art. 121) nelle materie attribuite dall’art. 117 Cost. alla competenza concorrente (comma 3) e residuale (comma 4) delle regioni. I regolamenti regionali sono adottati dalla Giunta regionale (art. 121) e possono essere emanati, secondo il principio del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni regolamentari, nelle materie attribuite alla competenza legislativa concorrente e residuale delle regioni. Le fonti normative di comuni, province e città metropolitane sono essenzialmente gli statuti e i regolamenti. Sotto il profilo della gerarchia delle fonti, lo statuto ha un livello subprimario poiché si pone al di sotto delle leggi statali di principio. Gli atti di regolazione aventi natura non normativa. Nell’ambito del diritto amministrativo, la distinzione tra atti normativi e non normativi, riferita soprattutto ai cosiddetti atti amministrativi generali, ha poca rilevanza poiché il loro regime giuridico è in massima parte coincidente. Infatti in teoria generale si ritiene che dalla qualificazione di un atto come normativo, si applica il principio jura novit curia, e pertanto sotto il profilo decisivo la parte privata è sottratta all’onere di allegazione e di prova delle norme applicabili al caso concreto, onere che vale soltanto per i fatti, è consentito il ricorso per Cassazione per “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”. Gli atti amministrativi generali. Di frequente la pubblica amministrazione ha il potere di emanare atti amministrativi che hanno contenuto generale che sono propedeutici a provvedimenti puntuali o che trovano svolgimento in un’attività organizzativa degli uffici pubblici. Essi si rivolgono in modo indifferenziato a categorie più o meno ampie di destinatari e a volte sono suscettibili di essere applicati a una ripetuta serie di casi e dunque hanno anche il carattere dell’astrattezza. Tra gli atti generali fanno parte i piani, i programmi, le direttive, gli atti di indirizzo, le linee guida, le autorizzazioni generali, i bandi militari, i provvedimenti che fissano in modo autoritativo i prezzi e le tariffe, ecc. 20 raggiungere, criteri di massima, mezzi per raggiungere i fini. Quindi esse hanno un certo grado di elasticità e consentono ai loro destinatari spazi di valutazione e di decisione più o meno estesi in modo tale da poter tener conto in sede applicativa di tutte le circostanze del caso concreto. Si distinguono le direttive che si inseriscono in rapporti interorganici e le direttive che attengono a rapporti intersoggettivi. Nell’ambito dei rapporti interorganici le direttive sono uno strumento attraverso il quale l’organo sovraordinato condiziona e orienta l’attività dell’organo o degli organi sottordinati. Le direttive che si inseriscono in rapporti intersoggettivi costituiscono uno strumento attraverso il quale il ministro competente o la regione esercitano il potere di indirizzo nei confronti di enti pubblici strumentali, la cui attività deve essere resa coerente con i fini istituzionali propri del ministero di settore o della regione. e) Le norme interne e le circolari. In termini generali, si può vedere che le organizzazioni complesse, anche quelle private, hanno regole interne volte a disciplinare il funzionamento e i raccordi tra le varie unità operative. Per esempio, le grandi imprese approvano regolamenti aziendali, manuali di procedura e altri atti organizzativi. Le circolari sono il mezzo principale di comunicazione delle norme interne. Nella vita quotidiana degli uffici esse sono uno strumento di orientamento e di guida dell’attività amministrativa, fino al punto da imporsi, sul piano dell’effettività, come una vera e propria barriera tra le norme giuridiche anche di livello primario e le pubbliche amministrazioni alle quali queste ultime sono rivolte. Il contenuto delle circolari può essere vario. Infatti esse possono contenere ordini, direttive, interpretazioni di leggi ed altri atti normativi, informazioni di ogni genere e tipo. In questo modo le circolari perdono il carattere di atto amministrativo tipico e conservano soltanto il significato di strumento di comunicazione di atti ciascuno dei quali ha una propria configurazione tipica. Quindi le circolari vanno divise in tre tipi: Interpretative sono uno strumento che serve a rendere omogenea l’applicazione di nuove normative da parte delle pubbliche amministrazioni; Normative hanno la funzione di orientare l’esercizio del potere discrezionale degli organi titolari di poteri amministrativi; Informative sono uno strumento con il quale vengono diffuse all’interno dell’organizzazione notizie, informazioni e messaggi di varia natura e in questo senso possono essere assimilate a bollettini e newsletter specializzate e a diffusione limitata previste in molti contesti anche privati. 21 I testi unici e i codici. I testi unici accorpano e razionalizzano in un unico corpo normativo le disposizioni legislative vigenti che disciplinano una determinata materia. Si distinguono in: testi unici innovativi sono emanati in base a un’autorizzazione legislativa che stabilisce i criteri del riordino. testi di semplice compilazione sono emanati su iniziativa autonoma del governo e hanno soltanto la funzione pratica di unificare in un unico testo le varie disposizioni vigenti, rendendo così più semplice il loro reperimento. Negli ultimi anni si è fatto ricorso soprattutto allo strumento del codice. Esso si differenzia dal Testo unico per essere concepito, oltre che per coordinare i testi normativi, anche per innovare in modo più esteso la disciplina e per essere incorporato in una fonte di livello primario. I codici (detti anche codici di settore) hanno riordinato varie materie: i contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture; la protezione dei dati personali; i beni culturali; l’ambiente; le comunicazioni elettroniche. Sviluppi recenti. La distinzione tra fonti normative, esterne e interne, e provvedimenti amministrativi appare sempre più dubbia. 1. Una prima linea direttrice dell’evoluzione è rappresentata dalla diffusione della cosiddetta soft law, che consiste nell’insieme di strumenti, spesso informali (inviti, segnalazioni ecc.), volti a influenzare i comportamenti delle autorità amministrative e degli amministrati. 2. Una seconda linea direttrice dell’evoluzione consiste nell’emergere di ipotesi nelle quali la funzione di regolazione è cogestita dal regolatore pubblico e da soggetti privati. 3. Una terza linea direttrice dell’evoluzione recente consiste nell’attenuarsi della distinzione tra procedimenti normativi in senso lato e procedimenti amministrativi che sfociano in provvedimenti di tipo individuale. 4. Un’ultima linea direttrice consiste nell’introduzione di strumenti volti a promuovere le qualità della regolazione (better regulation) per perseguire una pluralità di obiettivi: contenere l’iperregolazione (regulatory inflaction) dovuta alla vigenza di norme inutili o troppe dettagliate; ridurre gli oneri che gravano sulle stesse pubbliche amministrazioni e sui privati per adeguarsi alle nuove normative; evitare che un’eccessiva quantità di regole comprometta la competitività del sistema economico. 22 CAPITOLO 3 Il rapporto giuridico amministrativo Le funzioni e l’attività amministrativa. L’amministrazione attiva consiste nell’esercizio, attraverso moduli procedimentali, dei poteri amministrativi attribuiti dalla legge ad apparati pubblici al fine di curare, nella concretezza dei rapporti giuridici con soggetti privati, l’interesse pubblico. Le funzioni: innanzitutto dobbiamo precisare che il termine funzione ha una molteplicità di significati. Per esempio, esso può essere riferito ai vari tipi di attività posti in essere dagli apparati pubblici, e in questo senso si distingue tra funzione di amministrazione attiva, di regolazione e di controllo. Per funzioni amministrative si intendono i compiti che la legge individua come propri di un apparato amministrativo, in coerenza con la finalità ad esso affidata. L’apparato è tenuto ad esercitarle per la cura in concreto dell’interesse pubblico. In relazione ad esse la legge conferisce agli apparati amministrativi i poteri necessari (attribuzioni) e distribuisce la titolarità di questi ultimi tra gli organi che compongono l’apparato (competenze). L’attività amministrativa: l’attività amministrativa consiste nell’insieme delle operazioni, comportamenti e decisioni (inclusi i singoli atti o provvedimenti amministrativi) posti in essere o assunti da una pubblica amministrazione nell’esercizio di funzioni affidate ad essa da una legge. L’attività amministrativa è rivolta a uno scopo o fine pubblico, cioè alla cura di un interesse pubblico e, per questo, anch’essa è dotata del carattere della doverosità. Il mancato esercizio dell’attività può essere fonte di responsabilità. E ciò a differenza di quanto accade nell’ambito dei rapporti di diritto comune, nei quali l’esercizio della capacità giuridica da parte dei soggetti privati è di regola libero. All’attività amministrativa si riferisce l’art. 1 l. n. 241/1990 che dichiara: “l’attività amministrativa persegue fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza”. Per quanto riguarda la separazione tra l’attività amministrativa e attività di diritto privato, la giurisprudenza tende a ritenere che l’amministrazione svolge attività amministrativa “non solo quando esercita pubbliche funzioni e poteri autoritativi, ma anche quando, nei limiti consentiti dall’ordinamento, persegue le proprie finalità istituzionali mediante un’attività disciplinata in tutto o in parte dal diritto privato”. Da qui è sorta la distinzione tra “attività amministrativa privatistica” e “attività d’impresa di enti pubblici”. 25 un potere generico e negativo di astensione, cioè di non interferire o turbare l’esercizio del diritto; oppure un vero e proprio obbligo giuridico, cioè il dovere specifico e positivo di porre in essere un determinato comportamento o attività (prestazione) a favore del titolare del diritto, cui corrisponde dal lato del soggetto attivo una pretesa, cioè il potere di esigere la prestazione. Poi abbiamo la potestà, una situazione giuridica soggettiva attiva, che, a differenza di quanto accade per il diritto soggettivo, è attribuita al singolo soggetto per il soddisfacimento, anziché di un interesse proprio, di un interesse altrui. Una particolare categoria di diritti soggettivi è costituita dal diritto potestativo, che consiste nel potere di produrre un effetto giuridico con una propria manifestazione unilaterale di volontà. Tra i casi più tipici di diritto potestativo ci sono il diritto di prelazione, il diritto di recesso, la revoca del mandato, il diritto di chiedere la comunione forzosa di un muro di confine. La produzione degli effetti giuridici segue usualmente lo schema norma-fatto- effetto giuridico. La norma individua gli elementi della fattispecie e l’effetto giuridico che ad essa si ricollega, ponendo direttamente essa stessa la disciplina degli interessi in conflitto in relazione a un determinato bene. Tutte le volte che nella vita economica e sociale si verifica un fatto concreto che è riconducibile nella fattispecie normativa si produce, in modo automatico un effetto giuridico. La norma attributiva del potere. Le norme che si riferiscono alla pubblica amministrazione sono di due tipi: norme di azione disciplinano il potere amministrativo nell’interesse esclusivo della pubblica amministrazione; norme di relazione regolano i rapporti intercorrenti tra l’amministrazione e i soggetti privati, a garanzia anche di quest’ultimi, definendo direttamente l’assetto degli interessi e annullando i conflitti insorgenti tra cittadino e pubblica amministrazione. Dalla coppia norma di azione, che segna i limiti per così dire interni al potere volti a guidare l’attività dell’amministrazione, e norma di relazione, che segna i limiti per così dire esterni al potere tracciando i confini tra la sfera giuridica dei soggetti privati rispetto a quella dell’amministrazione, derivano una serie di conseguenze: sul piano delle situazioni giuridiche soggettive, la distinzione tra interesse legittimo, correlato alla prima, e diritto soggettivo, correlato alla seconda; sul piano delle qualificazioni giuridiche, l’applicazione della categoria dell’illegittimità (annullabilità) o della illiceità (nullità) agli atti che violano l’uno o l’altro tipo di norma; sul piano della giurisdizione, l’attribuzione delle controversie al giudice amministrativo o al giudice ordinario e la definizione dei rispettivi poteri (annullamento o disapplicazione). 26 Una siffatta ricostruzione delle norme appare troppo meccanica. Essa è legata a una concezione dell’interesse legittimo, ormai in via di superamento, come una situazione giuridica soggettiva che riceve tutt’al più una tutela indiretta e riflessa da parte dell’ordinamento e non è inquadrabile nello schema del rapporto giuridico. In realtà, anche alle norme che disciplinano l’attività amministrativa va riconosciuta ormai una valenza relazionale e una funzione di tutela dell’interesse del soggetto privato, oltre che dell’interesse pubblico. Appare dunque preferibile utilizzare la formula più generica di norma attributiva (o di conferimento) del potere. In attuazione del principio di legalità che costituisce il principio cardine nella teoria dell’atto e del procedimento amministrativo, la norma attributiva del potere individua, in termini astratti, gli elementi caratterizzanti il particolare potere attribuito a un apparato pubblico: 1. Quanto al soggetto competente, in un sistema amministrativo multilivello e articolato in una molteplicità e varietà di apparati, ogni potere amministrativo deve essere attribuito in modo specifico alla titolarità di uno e un solo soggetto e, ove l’organizzazione di questo si articoli in una pluralità di organi, a uno e un solo organo. La norma deve dunque individuarlo con precisione. L’atto emanato da un soggetto o organo diverso da quello previsto è affetto da vizio di incompetenza. 2. Il fine pubblico costituisce un elemento che è specificato dalla norma di conferimento del potere o che può essere ricavato implicitamente dalla legge che disciplina la particolare materia. L’amministrazione non è libera di esercitare il potere per il perseguimento di qualsivoglia finalità autodeterminata. Il fine pubblico è invece eteroimposto dalla norma: quest’ultima orienta le scelte effettuate in concreto dall’amministrazione e condiziona, in ultima analisi, la legittimità del provvedimento emanato. La violazione del vincolo del fine configura un vizio di eccesso di potere per sviamento. 3. Un terzo elemento posto dalla norma attributiva del potere consiste nell’individuazione dei presupposti e dei requisiti sostanziali in presenza dei quali il potere sorge e può essere esercitato. La loro sussistenza in concreto è una delle condizioni per l’esercizio legittimo del potere. L’espressione “presupposti e requisiti di legge” è utilizzata dall’art. 19 l. n. 241/1990 ed è riferita alle autorizzazioni cd. vincolate che, come si vedrà, sono sostituite dalla cd segnalazione certificata d’inizio di attività, cioè da una semplice comunicazione effettuata dal privato all’amministrazione contestuale all’avvio dell’attività. La questione più delicata è costituita dal grado di analiticità, pur nella necessaria astrattezza della fattispecie normativa, richiesto nell’individuazione del loro contenuto. Infatti, a seconda delle espressioni linguistiche utilizzate, il potere può risultare più o meno ampiamente vincolato o, per converso, più o meno ampiamente discrezionale. Ciò lungo una linea continua delimitata da due estremi. 27 Al primo estremo si collocano i poteri integralmente vincolanti. In relazione ad essi l’amministrazione non ha altro compito se non quello di verificare, in modo quasi meccanico, se nella fattispecie concreta siano rinvenibili tutti gli elementi indicati dalla norma attributiva e, nel caso positivo, di emanare il provvedimento che produce gli effetti anch’essi rigidamente predeterminati dalla norma. Si è dubitato in dottrina che gli atti emanati nell’esercizio di poteri integralmente vincolati conservino la natura di atti autoritativi in senso proprio. Essi dunque sarebbero inidonei a produrre effetti autonomi, cioè che non siano già prodotti dalla norma applicata al fatto concreto. Al secondo estremo si pongono i poteri sostanzialmente “in bianco” (per esempio, le ordinanze di necessità e di urgenza) che rimettono al soggetto titolare del potere spazi pressoché illimitati di apprezzamento, di valutazione delle fattispecie concrete e di determinazione delle misure necessarie per tutelare un determinato interesse pubblico (di ordine pubblico, sanitario, ecc.). Essi sembrano derogare al principio di tipicità dei poteri amministrativi. La discrezionalità emerge allorché la norma autorizza ma non obbliga l’amministrazione a emanare un certo provvedimento. Ciò accade anzitutto quando il legislatore prevede che l’amministrazione “può” oppure “ha la facoltà di” emanare un determinato atto; oppure usa aggettivi come “opportuno”, “indispensabile”, “conveniente” riferiti a una misura o al contenuto di un provvedimento, rinviando così a valutazioni necessariamente soggettive dell’interesse pubblico. In generale, gli spazi di valutazione dei fatti costitutivi del potere sono tanto più ampi quanto più la norma d’azione fa ricorso ai cd “concetti giuridici indeterminati”. La norma definisce cioè i presupposti e i requisiti con formule linguistiche tali da non consentire di accertare in modo univoco il loro verificarsi in concreto. I concetti giuridici indeterminati possono essere di due categorie: i concetti empirici o descrittivi, che si riferiscono al modo di essere di una situazione di fatto (l’intralcio alla circolazione, la pericolosità di un edificio lesionato, ecc.); i concetti normativi o di valore, che contengono un ineliminabile elemento di soggettività (un film o uno spettacolo “adatto” al pubblico dei minori, una persona “in stato di bisogno”, una condotta contraria alla “moralità pubblica”). I primi involgono giudizi a carattere tecnico specifico e coprono l’area delle valutazioni tecniche; i secondi involgono giudizi di valore e coprono l’area della discrezionalità amministrativa. 4. La norma attributiva del potere prescrive anche i requisiti formali degli atti (di regola la forma scritta) e le modalità di esercizio del potere, individuando la sequenza degli e degli adempimenti necessari per l’emanazione del 30 ovvero attraverso il cd. autoveicolo alla discrezionalità. Di frequente tra la norma di conferimento del potere che concede all’amministrazione spazi di discrezionalità più o meno ampi e il provvedimento concreto assunto all’esito della valutazione si interpone la predeterminazione da parte della stessa amministrazione di criteri e parametri che vincolano l’esercizio della discrezionalità. Ciò accade di regola, per esempio, nei giudizi valutativi espressi da commissioni di concorso le quali sono tenute a specificare, prima di esprimere le proprie valutazioni sui singoli candidati, i parametri di giudizio già previsti nella normativa di riferimento e nel bando. I criteri devono essere resi pubblici e, come prevede da ultimo la normativa anticorruzione, deve essere pubblicato anche l’elenco dei destinatari di contributi di importo superiore a 1000€. La pubblicazione è condizione di efficacia dell’atto amministrativo. Ciò accresce l’oggettività, la trasparenza e la sindacabilità delle decisioni, perché i criteri così stabiliti vincolano l’attività dell’amministrazione e la violazione dei medesimi è sindacabile da parte del giudice amministrativo in modo non dissimile dalla violazione di norme giuridiche in senso proprio. L’autovincolo alla discrezionalità costituisce un tentativo di recuperare in parte le esigenze sottese alla legalità sostanziale necessariamente sacrificate attraverso la tecnica del conferimento di poteri discrezionali, sia pure in via sublegislativa. Si è discusso se l’esercizio della discrezionalità amministrativa consista in un’attività meramente intellettiva e di giudizio (attività di interpretazione), oppure in un’attività volitiva e creativa. In realtà, rispetto all’attività di pura interpretazione, nella discrezionalità sembra riscontrabile un elemento aggiuntivo costituito dall’individuazione e imposizione delle regola per il caso singolo che rappresenta un “quid novi” atto a integrare in qualche modo, sia pur con effetti limitati al singolo rapporto giuridico amministrativo, la norma attributiva del potere. Il merito amministrativo: ha una dimensione essenzialmente negativa e residuale: esso si riferisce all’eventuale ambito di scelta spettante all’amministrazione che si pone al di là dei limiti coperti dall’area della legalità (cioè dei vincoli giuridici posti dalle norme e dai principi dell’azione amministrativa). Se il potere è integralmente vincolato, lo spazio del merito risulta nullo. Rientrano di regola nel merito, per esempio, il giudizio espresso dalla commissione su un candidato che partecipa a un concorso pubblico, la decisione di chiudere al traffico veicolare una strada in occasione di una corsa ciclistica, la scelta se consentire l’installazione di stabilimenti balneari su un tratto di spiaggia. Il merito connota l’attività dell’amministrazione da considerare essenzialmente libera. La scelta tra una pluralità di soluzione tutte legittime può essere cioè solo in termini di opportunità o inopportunità (o altri parametri e giudizi di valore, comunque non giuridici). Essa è insindacabile da parte del giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità. La distinzione tra legittimità e merito rileva in più contesti. 31 Il primo è quello dei controlli amministrativi. Questi ultimi si articolano in controlli di legittimità e di merito, i primi finalizzati ad annullare gli atti amministrativi, i secondi a modificare o sostituire l’atto oggetto del controllo e di tutela giurisdizionale. In secondo luogo, il Codice del processo amministrativo contrappone la giurisdizione di legittimità, che è quella di cui è investito in via ordinaria il giudice amministrativo, alla giurisdizione “con cognizione estesa al merito”, nell’esercizio della quale “il giudice amministrativo può sostituirsi all’amministrazione”. Il giudice amministrativo può cioè rivalutare le scelte discrezionali dell’amministrazione e sostituire la propria valutazione. In terzo luogo, i confini tra legittimità e merito rilevano anche in materia di responsabilità amministrativa alla quale sono soggetti i funzionari pubblici in relazione al cd. danno erariale, cioè al danno provocato all’amministrazione stessa e che rientra nella giurisdizione della Corte dei conti. La l. n. 20/1994 che disciplina l’azione di responsabilità da parte della procura della Corte dei conti in relazione a fatti e omissioni del funzionario commessi con dolo o colpa grave che arrecano un danno all’amministrazione, pone il limite della “insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali”. Le valutazioni tecniche: la discrezionalità amministrativa va tenuta distinta dalle valutazioni tecniche. Queste ultime si riferiscono ai casi in cui la norma attributiva del potere, nel ricorrere alla tecnica dei concetti giuridici indeterminati di tipo empirico, rinvia a nozioni tecniche o scientifiche che in sede di applicazione alla fattispecie concreta presentano margini di opinabilità. Spesso le valutazioni tecniche sono espresse da organi appositi chiamati a rendere il loro giudizio nell’ambito del procedimento. Tra le valutazioni tecniche rientrano, per esempio, i giudizi medici aventi per oggetto l’idoneità ad essere arruolati nelle forze militari o di polizia o la riconducibilità di una determinata malattia alla causa di servizio, le valutazioni veterinarie in ordine al carattere epidemico di una malattia che ha colpito dei capi di bestiame, ecc. Nel mondo attuale (cd. società del rischio) queste genere di giudizi è sempre più frequente; si pensi ai dibattiti scientifici sui rischi derivanti dalla diffusione di organismi geneticamente modificati o dall’esposizione a onde elettromagnetiche. Mentre la discrezionalità amministrativa attiene al piano della valutazione e comparazione di interessi, le valutazioni tecniche attengono al piano dell’accertamento e della qualificazione di fatti alla luce di criteri tecnico-scientifici. A proposito delle valutazioni tecniche è ancora oggi frequente l’uso dell’espressione “discrezionalità tecnica”, che non è in realtà corretta proprio perché nella discrezionalità tecnica manca l’elemento volitivo che caratterizza invece la discrezionalità in senso proprio, cioè quella amministrativa. Il Codice del processo amministrativo utilizza un linguaggio più moderno: “valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche”. 32 L’uso del medesimo sostantivo (discrezionalità) si giustifica per il fatto che, soprattutto in passato, il problema dei limiti del sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche era posto in termini analoghi a quello dei limiti del sindacato sulla discrezionalità amministrativa. Infatti, in entrambi i casi si riteneva precluso, a differenza di quanto accade per i fatti semplici, un sindacato pieno che comporti una valutazione autonoma del giudice che si sovrapponga (e sostituisca) a quella dell’amministrazione. La valutazione del giudice è necessariamente altrettanto opinabile rispetto a quella dell’amministrazione e dunque non ci sarebbe ragione per preferirla. Più correttamente, il giudice può soltanto ripercorrere dall’esterno l’attività valutativa (sindacato estrinseco) per verificare se la valutazione è affetta da vizi logici, incongruenze o da altre carenze utilizzando le tecniche di rilevamento dell’eccesso di potere. In epoca più recente il giudice amministrativo ha intrapreso un’opera volta a rendere più intenso il proprio sindacato sulle valutazioni tecniche. Esso infatti non è più soltanto estrinseco e si spinge invece a verificare l’attendibilità e la correttezza del criterio tecnico utilizzato. In caso di valutazioni tecniche che presentano un oggettivo margine di opinabilità, il giudice può soltanto sindacare che il provvedimento non abbia esorbitato da essi. Nel sindacare le valutazioni tecniche il giudice amministrativo è agevolato dal fatto di poter ricorrere allo strumento della consulenza tecnica d’ufficio, nominando un esperto il quale, in contraddittorio con i consulenti delle parti, fornisce una risposta a quesiti su questioni tecniche posti dal giudice. Valutazioni tecniche ed esercizio della discrezionalità amministrativa, proprio perché riguardano momenti logici diversi, possono coesistere in una stessa fattispecie. Al riguardo si usa talora l’espressione “discrezionalità mista”, che in realtà sarebbe preferibile evitare. Le valutazioni tecniche possono intervenire non solo nella fase di accertamento dei fatti complessi, ma anche in quella di determinazione del contenuto del provvedimento. Le valutazioni tecniche vanno distinte, oltre che dalla discrezionalità amministrativa, anche dai meri accertamenti tecnici. Questi ultimi si riferiscono a fatti la cui esistenza o inesistenza è verificabile in modo univoco, sia pure con l’impiego di strumenti tecnici. Non rileva a questo riguardo che si tratti di strumenti semplici di uso comune o più sofisticati. A differenza delle valutazioni tecniche, i meri accertamenti tecnici possono essere sindacati in modo pieno dal giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità. L’interesse legittimo. Esaurita l’analisi del potere amministrativo, è possibile passare a considerare il termine passivo del rapporto amministrativo, cioè l’interesse legittimo. Questa situazione giuridica soggettiva costituisce una delle principali specificità del nostro sistema giuridico. L’interesse legittimo è stato sempre fonte di controversie 35 idoneo a travolgere (degradare) il diritto soggettivo trasformandolo in semplice interesse legittimo. Tipico esempio è il diritto di proprietà inciso dal potere espropriativo. La categoria dei diritti soggettivi affievoliti fa coppia con quella simmetrica dei cd. diritti soggettivi “in attesa di espansione”. Si tratta di diritti, già attribuiti in astratto alla titolarità di un soggetto privato, il cui esercizio è però condizionato all’esercizio di un potere dell’amministrazione, nei confronti del quale il titolare del diritto può vantare un semplice interesse legittimo. Tipico esempio è quello dell’autorizzazione ad aprire un esercizio commerciale. Gli effetti pratici di questo tipo di impostazione furono quelli di restringere l’area del diritto soggettivo, ritenuto sempre cedevole di fronte al potere amministrativo, nei rapporti tra i soggetti privati e la pubblica amministrazione titolare di un potere amministrativo, attribuendo così un ruolo marginale al giudice ordinario. L’interesse occasionalmente protetto: le ricostruzioni tradizionali dell’interesse legittimo sottolineano il fatto che l’interesse privato è posto in una posizione subalterna rispetto all’interesse pubblico. Solo ove si sia in presenza di un diritto soggettivo l’interesse del privato correlato a un bene della vita è oggetto di una tutela diretta e immediata da parte dell’ordinamento. Questa impostazione emerge in un’altra definizione dell’interesse legittimo come interesse occasionalmente (indirettamente) protetto da una norma (la norma d’azione) volta a tutelare in modo diretto e immediato l’interesse pubblico. Secondo questa visione, le norme che disciplinano il potere hanno come scopo primario la tutela di quest’ultimo e il soggetto privato può trovare in essa una qualche protezione solo in via riflessa e indiretta. L’interesse legittimo si distingue dunque dal diritto soggettivo proprio per il fatto che l’acquisizione o la conservazione di un determinato bene della vita non è assicurata in modo immediato dalla norma, che tutela appunto in modo diretto solo l’interesse pubblico, bensì passa attraverso l’esercizio del potere amministrativo, senza che peraltro sussista alcuna garanzia in ordine alla sua acquisizione o conservazione. La presenza di un ambito di discrezionalità esclude infatti che il soggetto titolare sia in grado di prefigurare ex ante l’assetto finale degli interessi pubblici posto dal provvedimento emanato. Quest’ultimo potrebbe, del tutto legittimamente, negare o sacrificare l’utilità (bene della vita) collegata all’interesse legittimo. L’interesse legittimo fonda in capo al suo titolare soltanto la pretesa a che l’amministrazione eserciti il potere in modo legittimo, cioè in conformità con la norma d’azione. Il titolare dell’interesse legittimo può condizionare l’esercizio del potere cercando di orientarlo in senso a sé più favorevole attraverso la partecipazione al procedimento, fornendo cioè all’amministrazione titolare del potere elementi che possono orientare in tal senso la valutazione discrezionale. La norma attributiva del potere offre, in definitiva, al titolare dell’interesse legittimo 36 una tutela strumentale, mediata attraverso l’esercizio del potere, anziché finale, come accade invece per il diritto soggettivo, nel quale la norma attribuisce al suo titolare in modo diretto un certo bene della vita o utilità. Ove il potere sia stato esercitato in modo non conforme alla norma attributiva del potere, il titolare dell’interesse legittimo può proporre ricorso al giudice amministrativo al fine di ottenere l’annullamento del provvedimento lesivo, cioè la rimozione con efficacia ex tunc degli effetti da esso prodotti. Le ricostruzioni più recenti dell’interesse legittimo: al superamento della concezione tradizionale dell’interesse legittimo ha concorso in modo decisivo l’evoluzione giurisprudenziale in tema di risarcibilità del danno da lesione di interesse legittimo, per lungo tempo negata. La svolta è avvenuta con la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 500/1999 che ha superato la rilevanza della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi ai fini della risarcibilità. La Corte ha posto cioè una linea di confine della risarcibilità tutta all’interno dell’interesse legittimo in ragione della rilevabilità, nella situazione concreta, di una lesione a un bene della vita già ascrivibile in qualche modo alla sfera giuridica del soggetto privato titolare dell’interesse legittimo. Se dalla ricostruzione della fattispecie, in base alle norme applicabili e alla specifica situazione di fatto, emerge invece che il titolare dell’interesse legittimo, soprattutto in presenza di poteri discrezionali, non ha una ragionevole aspettativa a poter acquisire o a conservare un bene della vita, non vi è spazio per una tutela risarcitoria. La connotazione sostanziale di quest’ultimo emerge anche dal modo nel quale la giurisprudenza ha inquadrato la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo devoluta ora alla giurisdizione del giudice amministrativo. La Corte Costituzionale ha inteso l’azione risarcitoria non già come volta a tutelare un diritto soggettivo autonomo, bensì in funzione “rimediale”, cioè come tecnica di tutela dell’interesse legittimo che si affianca e integra la tecnica di tutela più tradizionale costituita dall’annullamento. Se l’interesse legittimo incorpora anche una pretesa risarcitoria, è evidente che esso ha per oggetto un bene della vita che il titolare dell’interesse medesimo mira ad acquisire o a conservare, sia pure tramite l’intermediazione del potere amministrativo, e che è suscettibile di essere leso da un provvedimento illegittimo. Ciò è confermato ancor più dal fatto che il Codice del processo amministrativo prevede anche l’azione di adempimento, che consente al giudice di condannare l’amministrazione ad attribuire, ove la pretesa risulti fondata, il bene della vita al quale il soggetto privato aspira. La Corte di cassazione ha sottolineato che l’interesse legittimo “va perdendo la sua tradizionale funzione meramente ancillare rispetto all’interesse pubblico, per assumere un più marcato connotato sostanziale, coerentemente del resto con l’evoluzione della stessa nozione di interesse pubblico”. Sulla stessa lunghezza d’onda il Consiglio di Stato ha definito l’interesse legittimo come “la posizione di 37 vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell’attribuzione a tale soggetto di potere idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell’interesse al bene” e ha sottolineato che “l’interesse effettivo che l’ordinamento intende protegge è quindi sempre l’interesse ad un bene della vita”. Si può dunque affermare che la norma di conferimento del potere abbia la doppia ed equiordinata funzione di tutelare l’interesse pubblico e di tutelare l’interesse del privato. L’interesse pubblico non assorbe quello privato, né quest’ultimo il primo. Nell’ambito di un rapporto di sovra-sottordinazione secondo lo schema del diritto potestativo - figura che consente di di inquadrare il rapporto che intercorre tra l’amministrazione titolare del potere e il privato titolare di un interesse legittimo - i vincoli posti dalla norma attributiva del potere hanno un doppia funzione: guida e vincolo per l’amministrazione nella realizzazione dell’interesse pubblico; garanzia della situazione giuridica soggettiva del privato. In definitiva, volendo proporre una definizione sintetica, l’interesse legittimo è una situazione giuridico soggettiva, correlata al potere della pubblica amministrazione e tutelata in modo diretto dalla norma di conferimento del potere, che attribuisce al suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a influire sull’esercizio del potere medesimo allo scopo di conservare o acquisire un bene della vita. I poteri e le facoltà in questione si esplicano principalmente all’interno del procedimento attraverso l’istituto della partecipazione. Quest’ultima consente al privato di rappresentare il proprio punto di vista presentando memorie e documenti e, prima ancora, mediante l’accesso agli atti del procedimento. Il privato può così cercare di orientare le valutazioni discrezionali dell’amministrazione in senso a sé favorevole. Il privato può persino sottoporre all’amministrazione proposte che possono sfociare, ove accolte, in un accordo avente per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento. Siffatti poteri e facoltà tendono a riequilibrare in parte la posizione di soggezione nei confronti del titolare del potere. L’interesse legittimo - che pur costituisce il termine passivo del rapporto giuridico che intercorre con l’amministrazione - acquista così una dimensione attiva. In ogni caso, il titolare dell’interesse legittimo fa valere una pretese nei confronti dell’amministrazione a che il potere sia esercitato in modo legittimo e, per quanto possibile, in senso conforme all’interesse sostanziale del privato all’acquisizione o alla conservazione di un bene della vita. La “prestazione” che viene così richiesta all’amministrazione ha natura infungibile, in quanto il titolare dell’interesse legittimo può acquisire o conservare una certa utilità esclusivamente tramite l’esercizio o il mancato esercizio del potere da parte dell’unica autorità competente in base alla norma d’azione. Sulla base di siffatte considerazione, è emersa una visione che dissolve l’interesse 40 discrezionale, ciò che esclude in radice la possibilità di ricostruire la situazione giuridica correlata in termini di diritto soggettivo. 3. Un terzo criterio introdotto dalla Corte di cassazione, si fonda sulla diversa natura del vizio dedotto dal soggetto privato nei confronti dell’atto emanato. Ove venga contestata la cd. carenza di potere, cioè l’assenza di un fondamento legislativo del potere (cd. carenza di potere in astratto) o una deviazione abnorme dallo schema normativo (cd. straripamento di potere), l’atto emanato dall’amministrazione è in realtà una parvenza di provvedimento, privo dell’idoneità a produrre l’effetto tipico nella sfera giuridica del destinatario (provvedimento nullo o addirittura inesistente). La situazione giuridica soggettiva di cui quest’ultimo è titolare, in particolare il diritto soggettivo, resiste di fronte al potere e non subisce alcun “affievolimento” (o “degradazione”) tramutandosi in un interesse legittimo. La giurisprudenza della Corte di cassazione ha individuato alcuni diritti soggettivi, che ricevono una tutela rafforzata nella Costituzione, che di regola non possono essere incisi dal potere amministrativo (cd. diritti non comprimibili o non degradabili) e la cui tutela è rimessa in via esclusiva al giudice ordinario. Ove il soggetto privato lamenti il cattivo esercizio del potere, senza però contestarne in radice l’esistenza, deducendo uno dei vizi tipici del provvedimento (incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge) che possono comportare l’annullabilità, la situazione giuridica fatta valere nei confronti dell’amministrazione ha la consistenza di un interesse legittimo. La giurisprudenza della Corte di cassazione ha incluso nella carenza di potere anche la cd. carenza di potere in concreto, che si verifica nei casi in cui la norma in astratto attribuisce il potere all’amministrazione ma manca nella fattispecie concreta un presupposto essenziale per poterlo esercitare. La carenza di potere in concreto è stata oggetto di contrasti tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo anche in ragione delle conseguenze che ne derivano in termini di ampliamento o restrizione dei rispettivi ambiti di giurisdizione. In questi anni è in corso un ripensamento alla luce dell’art. 21 l. n. 241/1990 che ha disciplinato in termini la categoria della nullità. Essa elenca le ipotesi tassative di nullità, tra le quali figura anche il difetto assoluto di attribuzione che coincide con la carenza di potere in astratto. Di conseguenza, per implicazione negativa, la carenza di potere in concreto sarebbe inquadrabile nella categoria generale della violazione di legge e determinerebbe soltanto l’annullabilità del provvedimento emanato. I tre criteri seguiti dalla giurisprudenza per distinguere i diritti soggettivi dagli interessi legittimi non risolvono nella pratica tutti i problemi di qualificazione. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi. Un caso paradigmatico di incertezza in ordine alla qualificazione della situazione 41 giuridica soggettiva è il diritto di accesso ai documenti amministrativi che costituisce uno degli strumenti principali volti ad accrescere la trasparenza dell’attività amministrativa e promuovere l’imparzialità. Consiste nel “diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi”. È inoltre definito come “principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza”. In conformità a questa duplice finalità, il diritto in questione rileva in due ambiti. In primo luogo, rientra tra i diritti attribuiti ai soggetti che possono partecipare a un determinato procedimento amministrativo in modo da consentire ad essi di tutelare meglio le loro ragioni avendo cognizione di tutti gli atti e documenti acquisiti al procedimento che li riguardano. Si instaura così un legame funzionale tra principio di trasparenza e diritto di partecipazione, che ne esce così rafforzato. Si parla in questo caso di accesso procedimentale. In secondo luogo, costituisce un diritto autonomo che può essere esercitato anche al di fuori dal procedimento da chi ha interesse a esaminare documenti detenuti stabilmente da una pubblica amministrazione (accesso non procedimentale). In particolare con riguardo all’accesso non procedimentale, esso sorge quando il soggetto che richiede l’accesso dimostri “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”. L’accesso non è dunque attribuito a chiunque: non basta la semplice curiosità. È necessario che la richiesta di accesso abbia alla base un interesse in qualche modo differenziato e la titolarità di un posizione giuridicamente rilevante. Un’eccezione si ha in materia ambientale nella quale l’accesso alle informazioni è consentito a chiunque ne faccia richiesta senza necessità di dichiarare un proprio interesse. Un’altra eccezione è il cd. accesso civico, in base al quale chiunque può richiedere l’accesso alle informazioni e ai dati che le amministrazioni avrebbero comunque l’obbligo di pubblicare sui propri siti o con altre modalità tutte le volte in cui esse hanno omesso questo adempimento. La richiesta di accesso civico non è sottoposta ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva dell’instante, non deve essere motivata, è gratuita e va presentata al responsabile della trasparenza dell’amministrazione obbligata alla pubblicazione. Sotto il profilo oggettivo, l’accesso è escluso in una serie tassativa di casi e cioè: o in relazione ai documenti coperti dal segreto di Stato; o a quelli relativi a procedimenti tributari o a procedimenti per l’adozione di atti amministrativi generali; o ai documenti contenenti informazioni di carattere psicoattitudinale di terzi. Altri casi di esclusione possono essere individuati tramite regolamento di delegificazione là dove sussista il rischio di una lesione di interessi pubblici quali la sicurezza e difesa nazionale, la politica monetaria e valutaria, la riservatezza di persone fisiche, gruppi, imprese e associazioni, ecc. 42 Allorché siano presenti esigenze di tutela della riservatezza l’amministrazione deve compiere una duplice operazione: Deve anzitutto comparare l’interesse all’accesso e il contrapposto interesse alla riservatezza di terzi; Deve inoltre valutare se l’accesso ha il carattere della “necessarietà” poiché la l. n. 241/1990 prescrive che deve essere comunque garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti “la cui conoscenza sia necessaria per curare e difendere i propri interessi giuridici”. Inoltre la l. n. 241/1990 attribuisce all’amministrazione un “potere di differimento”, che consiste nella posticipazione del momento in cui l’accesso può essere esercitato e che costituisce un’alternativa che va preferita al diniego di accesso, là dove possibile. Sotto il profilo processuale, il diritto di accesso ai documenti amministrativi è incluso tra le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e ciò costituisce un sintomo che in questa materia possono porsi questioni di diritto soggettivo. Più di recente sembra prevalere l’interpretazione che non si tratti di un diritto soggettivo in senso proprio, ma che esso vada inquadrato nella categoria dell’interesse legittimo. Da ciò è stata tratta la conseguenza che il diniego di accesso costituisce un provvedimento in senso proprio impugnabile nel termine di decadenza di 60 giorni, piuttosto che nel termine più lungo di prescrizione applicabile in via ordinaria ai diritti soggettivi. Interessi di fatto, diffusi e collettivi. Le norme che disciplinano l’organizzazione e l’attività della pubblica amministrazione possono imporre all’amministrazione doveri di comportamento finalizzati alla tutela di interessi pubblici, in modo irrelato, cioè senza che ad essi corrisponda alcuna situazione giuridica o altro tipo di pretesa giuridicamente tutelata in capo a soggetti esterni all’amministrazione. Ciò si verifica non soltanto nel caso delle norme interne ma anche nel caso di norme poste da fonti normative primarie o secondarie. La violazione di siffatti doveri rileva soltanto all’interno dell’organizzazione degli apparati pubblici, di regola, e può dar origine a interventi di tipo propulsivo (diffide) o sostitutivo da parte di organi dotati di poteri di vigilanza, a sanzioni che colpiscono i dirigenti e i funzionari responsabili della violazione o ad altre forme di penalizzazione. I soggetti privati che possono trarre un beneficio o un pregiudizio indiretto da siffatte attività vantano un interesse di mero fatto (interesse semplice) a tutela del quale non è attivabile alcun rimedio di tipo giurisdizionale. I portatori di un interesse di fatto possono tutt’al più promuovere l’osservanza da parte delle amministrazioni dei doveri. 45 superindividuale in senso proprio. Essi infatti mantengono una natura individuale e acquistano una dimensione collettiva solo per il fatto di essere comuni a una pluralità o molteplicità di soggetti. Esempio: utenti del servizio elettrico di una città nella quale si verifica una situazione di interruzione della fornitura di energia elettrica protratta nel tempo. In questi casi l’interesse leso resta un interesse individuale e l’elemento di omogeneità e comunanza consiste nel fatto che la lesione deriva da un’attività illecita o illegittima plurioffensiva. La tutela di questo tipi di interessi individuali non è diversa da quella prevista per ciascun diritto soggettivo o interesse legittimo, peraltro, in molti casi, come nel settore dei rapporti di utenza nei servizi pubblici, per esempio, si tratta di situazioni in cui il danno individuale è di entità limitata, tale da scoraggiare, in base a un’analisi costi-benefici, l’esperimento di un’azione in sede giurisdizionale. Per questi interessi l’ordinamento prevede forme di tutela non giurisdizionale semplificate , meno formalizzate e costose, innanzi a organismi di mediazione o conciliazione, oppure innanzi alle stesse autorità amministrative di regolazione. Di recente, il legislatore ha introdotto per essi rimedi processuali particolari ribattezzati, forse impropriamente, “azioni di classe”. In particolare, il Codice del consumo prevede un’azione collettiva risarcitoria da proporre innanzi al giudice ordinario in relazione a comportamenti che ledono “ i diritti di una pluralità di consumatori o utenti”. Nell’ambito delle riforme amministrative più recenti è stato introdotto un ricorso per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici da esperire innanzi al giudice amministrativo. Quest’ultimo rimedio consente ai “titolari di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei per una pluralità di utenti e consumatori” di adire il giudice amministrativo in caso di accertata violazione di livelli e standard di qualità predefiniti. Il ricorso non consente una tutela risarcitoria, ma mira soltanto a ottenere una pronuncia del giudice che ripristini il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio pubblico e può essere proposto, oltre che dai singoli interessati, anche da associazioni o comitati costituiti ad hoc. I principi generali. In questo manuale si distingue, da un lato, i principi che governano la disciplina delle funzioni che sono rivolti al legislatore (statale, regionale); dall’altro, i principi che riguardano direttamente le amministrazioni. In questa parte verranno trattati i principi collegati al rapporto giuridico amministrativo, mentre nella terza parte verranno trattati quelli per l’organizzazione della pubblica amministrazione. I principi sulle funzioni: il principio fondamentale che guida le funzioni è il principio di sussidiarietà, presente nei Trattati europei, e poi con la legge costituzionale n. 3/2001, nella Costituzione. 46 L’art. 5 TUE enuncia il principio di sussidiarietà facendo riferimento ai rapporti tra Stati membri e istituzioni dell’Unione. Dichiara che l’Unione europea agisce solamente nei limiti delle competenze assegnate e che gli Stati membri sono titolari della generalità delle competenze rimanenti. L’art. 5 cita anche il principio di proporzionalità in base al quale il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione non devono andare oltre per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati (comma 4). Nel diritto interno, l’art. 118 cita i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza e prevede che la generalità delle funzioni sia attribuita al livello di governo più vicino al cittadino e cioè il comune. Le funzioni amministrative vanno attribuite tra gli enti locali territoriali in base alla grandezza degli interessi (locale, regionale o nazionale). I principi dell’art. 118 vengono svolti nelle singole materie di legislazione amministrativa nel d.lgs. 31 marzo 1998 n. 112. Il decreto legislativo è stato emanato sulla base della legge di delega 15 marzo 1997, n. 59. Essa definisce meglio il principio di adeguatezza, che si riferisce “all’idoneità organizzativa dell’amministrazione ricevente”, e il principio di differenziazione, che tiene conto “delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi” (art. 4, comma 3, lett. g) e h)). Oltre alla sussidiarietà cosiddetta verticale, la Costituzione prevede anche la sussidiarietà cosiddetta orizzontale che riguarda i rapporti tra poteri pubblici e società civile. Infatti, l’art. 118, comma 4, stabilisce che lo Stato e gli enti territoriali “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli, e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. I principi sull’attività: considerando i principi che guidano l’attività amministrativa, si fa riferimento all’art. 1 l. n. 241/1990. È stata di recente elaborata la nozione di “amministrazione di risultato” che si collega a quella di buon andamento che è citata nell’art. 97 Cost. Si tratta di una nozione che mette in luce come sia cresciuta l’attenzione nella fase evolutiva dell’ordinamento nei confronti dell’efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa. Il principio di efficienza, richiamato dall’art. 1 l. n. 241/1990 attraverso il riferimento all’economicità, mette in rapporto la quantità di risorse impiegate con il risultato dell’azione amministrativa e mette in risalto l’uso ottimale dei fattori produttivi. Invece il principio di efficacia mette in rapporto i risultati effettivamente ottenuti con gli obiettivi prefissati in un piano o un programma. I due principi operano in modo indipendente, perché ci può essere anche il caso di un elevato livello di efficacia, però raggiunto con un impiego inefficiente delle risorse. I principi sull’esercizio del potere: fanno parte di questo gruppo: 1. Il principio di imparzialità è citato dall’art. 97 Cost. e dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali Ue. Esso consiste essenzialmente nel “divieto di favoritismi” 47 o, con il linguaggio dell’Ue, nel divieto di discriminazione: l’amministrazione non può essere influenzata nelle sue decisioni da interessi politici di parte, di gruppi di pressione privati (lobby), o di singoli individui o imprese, magari per ragioni di amicizia o di legami di famiglia. Il principio di imparzialità è posto a garanzia della parità di trattamento (par condicio) e dell’uguaglianza dei cittadini di fronte all’amministrazione. 2. Un secondo principio che guida l’esercizio della discrezionalità è il principio di proporzionalità, il quale ha particolare importanza nel caso di poteri che influiscono negativamente nella sfera giuridica del destinatario (sanzioni, imposizioni di obblighi, ecc.), richiede che l’amministrazione dia un giudizio, mentre opera, guidato da tre criteri: L’idoneità mette in relazione il mezzo adoperato con l’obiettivo da perseguire; La necessarietà mette a confronto le misure ritenute idonee e fa si che ci sia il minor sacrificio degli interessi incisi dal provvedimento. L’adeguatezza consiste nella valutazione della scelta finale in termini di tollerabilità della restrizione o incisione nella sfera giuridica del destinatario del provvedimento. 3. Il principio di ragionevolezza è legato al fatto che in base alla teoria delle scelte razionali, anche la pubblica amministrazione va considerata come un agente in grado di raggiungere determinati obiettivi tramite azoni logiche, coerenti e ad essi funzionali. Questo principio ha importanza nell’ambito del sindacato di legittimità dei provvedimenti amministrativi se c’è eccesso di potere. 4. Il principio del legittimo affidamento serve a tutelare le aspettative ingenerate dalla pubblica amministrazione con un proprio atto o comportamento. Esso interviene a proposito del potere di annullamento d’ufficio del provvedimento illegittimo, per il cui esercizio è richiesta all’amministrazione una valutazione degli interessi dei destinatari del provvedimento e una considerazione del tempo ormai trascorso (art. 21-nonies l. n. 241/1990). 5. Il principio della certezza del diritto garantisce un quadro giuridico stabile e chiaro, essenziale in un’economia di mercato fondata sul calcolo razionale. Questo principio ha come destinatario il legislatore. 6. Il principio di precauzione, riconosciuto in materia ambientale nel TFUE (art. 191, comma 2) e applicabile nei campi di azione che riguardano interessi pubblici come la salute e la sicurezza dei consumatori, comporta che, quando ci sono incertezze a livello di rischi per la salute delle persone, le autorità competenti possono adottare misure protettive senza dover attendere che sia dimostrata in modo compiuto la realtà e la gravità di tali rischi. Per esempio la giurisprudenza italiana ha iniziato a utilizzarlo per gli OGM. I principi sul provvedimento: i principi che si riferiscono al provvedimento amministrativo sono il: 50 L’imperatività o autoritarietà consiste nel fatto che la pubblica amministrazione titolare di un potere attribuito dalla legge può, mediante l’emanazione del provvedimento, imporre al soggetto privato destinatario di quest’ultimo le proprie determinazioni. Nell’imperatività si manifesta la dimensione verticale (di sovraordinazione) dei rapporti tra Stato e cittadino che si contrappone a quella orizzontale (di equiordinazione) delle relazioni giuridiche privatistiche. Il provvedimento è imperativo in quanto ha l’attitudine a modificare in modo unilaterale la sfera giuridica del soggetto privato destinatario senza che sia necessario acquisire il suo consenso. L'imperatività coincide con l'unilateralità nella produzione di un effetto giuridico che accomuna ogni atto di esercizio di un potere in senso proprio. L’imperatività del provvedimento non presuppone la validità del medesimo, cioè la sua piena conformità alla norma attributiva del potere. Anche l’atto legittimo ha l’attitudine a produrre gli effetti tipici che potranno essere rimossi, insieme al provvedimento emanato, soltanto ove quest’ultimo venga annullato o in seguito a una sentenza di annullamento all’esito di un ricorso innanzi al giudice amministrativo o in seguito all’annullamento pronunciato dalla stessa amministrazione in sede di controllo o nell’esercizio dei poteri di autotutela. Vale cioè il principio di equiparazione dell’atto invalido all’atto valido. Solo il provvedimento affetto da nullità in base all'art. 21-septies l. n. 241/1990 non ha carattere imperativo e dunque le situazioni giuridiche soggettive di cui è titolare il soggetto privato destinatario non sono danneggiate e “resistono” di fronte alla pretesa dell'amministrazione. c) L’esecutorietà e l’efficacia. L'esecutorietà, un'altra caratteristica dei provvedimenti amministrativi, è disciplinata dall'art. 21ter l. n. 241/1990. Essa può essere definita come il potere dell'amministrazione di procedere all'esecuzione del provvedimento imposta per legge in caso di mancata cooperazione da parte del privato obbligato, senza dover prima rivolgersi a un giudice allo scopo di ottenere l'esecuzione forzata. Come esempio di esecutorietà può essere preso l'ordine di abbattimento di un edificio abusivo. Se il proprietario dell'immobile non provvede spontaneamente alla riduzione in pristino, potranno essere gli stessi dipendenti del comune, o un'impresa privata all'occorrenza incaricata a porre in essere le attività necessarie. Il privato destinatario non è tenuto a collaborare attivamente, ma non potrà opporsi alle attività esecutive, comportamento che potrebbe rilevare addirittura in sede penale. Quindi mentre l'imperatività opera sul piano della produzione degli effetti giuridici, l'esecutorietà opera su quello delle attività materiali necessarie per conformare la realtà di fatto alla situazione di diritto così modificata dal provvedimento amministrativo. 51 Il comma 1 dell'art 21-ter precisa che il potere di imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi è attribuito all'amministrazione solo “nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge”. In relazione agli obblighi che nascono per effetto di un provvedimento amministrativo, quest'ultimo deve indicare il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Inoltre, l'esecuzione coattiva può avvenire solo precedentemente l'adozione di un atto di diffida con il quale l'amministrazione intima al privato di porre in essere le attività esecutive già indicate nel provvedimento, concedendo così al privato un ultima chance. In definitiva, in base al comma 1 dell'art. 21-ter l'esecutorietà del provvedimento si concretizza nell'avvio di un procedimento d'ufficio in contraddittorio con il soggetto privato. Infine, il comma 2 cita in modo specifico l'esecuzione delle obbligazioni che hanno come oggetto somme di denaro, precisando che ad esse si applicano le disposizioni per l'esecuzione coattiva dei crediti dello Stato. L'esecutorietà del provvedimento presuppone che il provvedimento emanato sia efficace ed esecutivo. La l. n. 241/1990 dedica due articoli ad essi: Secondo l'art. 21-bis il provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati acquista efficacia con la comunicazione al destinatario. Da qui viene fuori la distinzione tra provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati e provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati. I primi hanno natura di atti recettizi, perché la loro efficacia è subordinata alla comunicazione all'interessato. L'esecutività del provvedimento è disciplinata dall'art. 21-quater, secondo il quale i provvedimenti amministrativi efficaci sono eseguiti immediatamente, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge o dal provvedimento amministrativo. Quindi all'efficacia del provvedimento segue la necessità che esso venga portato subito ad esecuzione, a seconda dei casi, dalla stessa amministrazione che ha emanato l'atto, oppure dal destinatario del medesimo là dove il provvedimento faccia sorgere in capo a quest'ultimo un obbligo di dare o di fare. L’inoppugnabilità. Un'altra caratteristica è l'inoppugnabilità (o meglio detta incontestabilità), che si ha quando cominciano i termini previsti per l’esperimento dei rimedi giurisdizionali davanti al giudice amministrativo. In particolare, l’azione di annullamento del provvedimento va proposta nel termine di decadenza di 60 giorni (art. 29 Codice del processo amministrativo); l’azione di nullità è soggetta a un termine di 180 giorni; l’azione risarcitoria può essere proposta in via autonoma (cioè senza la parallela azione di annullamento) nel termine di 120 giorni (art. 31, comma 4, e art. 30, 52 comma 3, Codice). Per il diritto privato si possono avere termini di prescrizione molto più lunghi. D’altra parte l’inoppugnabilità non esclude che l’amministrazione possa mettere in discussione il rapporto giuridico esercitando il potere di autotutela (annullamento d'ufficio che può essere disposto ai sensi dell'art. 21-nonies l. n. 241/1990 “entro un termine ragionevole” o revoca ai sensi dell'art. 21-quinquies l. n. 241/1990). L’atto amministrativo può diventare inoppugnabile anche per l’acquiescenza da parte del suo destinatario. Essa consiste in una dichiarazione espressa o tacita di assenso all’effetto prodotto del provvedimento. Gli elementi strutturali dell’atto amministrativo. L’obbligo di motivazione. Anche per l'atto amministrativo possono essere individuati alcuni elementi strutturali che consentono di identificarlo e qualificarlo. Essi sono: il soggetto, la volontà, l'oggetto, il contenuto, i motivi, la motivazione, la forma. 1. Il soggetto è l'organo che, in base alle norme sulla competenza e l'investitura, è incaricato di emanare l'atto. Di solito, si tratta di pubbliche amministrazioni, ma in casi particolari anche soggetti privati sono titolari di poteri amministrativi e i loro atti sono qualificabili come amministrativi. 2. Un secondo elemento è la volontà. Il provvedimento amministrativo è manifestazione della volontà dell'amministrazione. I vizi della volontà non determinano in via diretta l'annullabilità del provvedimento, come invece accade nel negozio privato, ma rilevano un eccesso di potere. 3. L'oggetto è la cosa, attività o situazione soggettiva cui il provvedimento si riferisce (esempio il bene demaniale dato in concessione o il terreno espropriato). L'oggetto deve essere determinato o quanto meno determinabile. 4. Il contenuto del provvedimento che si ritrova nella parte dispositiva dell'atto, consiste in “ciò che con esso l'autorità intende disporre, ordinare, permettere, attestare, certificare” *Zanobini 1958+. Il contenuto necessario dell'atto discrezionale può essere integrato con clausole accessorie che fissano condizioni e altre prescrizioni particolari (c.d. elementi accidentali). Esse non possono alterare il contenuto tipico del provvedimento e devono essere coerenti con il fine pubblico previsto dalla legge attributiva del potere. Tra gli elementi dell'atto amministrativo, a differenza di quanto accade per i negozi giuridici privati, non assume rilievo autonomo la causa. Questo perché i poteri amministrativi sono tutti riconducibili a schemi tipici individuati per legge. 5. La motivazione, da cui si ricavano le ragioni (i motivi) che sono alla base dell'atto amministrativo, è la parte del provvedimento che secondo la definizione contenuta nell'art. 3 l. n. 241/1990 enuncia i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione in relazione alle risultanze dell'indagine. Nel caso in cui il provvedimento si basi su una 55 Tra gli ordini di polizia, emanati dalle autorità di pubblica sicurezza, uno è quello di comparire dinanzi all’autorità di pubblica sicurezza entro un termine assegnato, la cui inosservanza è sanzionata anche penalmente, oppure l’ordine di sciogliere una riunione o un assembramento che metta in pericolo l’ordine pubblico preceduto da un invito e da tre intimazioni formali. Un altro provvedimento ordinatorio è la diffida, che consiste nell’ordine di cessare da un determinato comportamento posto in essere in violazione di norme amministrative, anche con la fissazione di un termine per eliminare gli effetti dell’infrazione. La diffida può essere accompagnata da sanzioni di tipo amministrativo. Un esempio di diffida può essere preso dalla disciplina ambientale. L'autorità competente al controllo degli scarichi di acque inquinanti può intimare il titolare dell'autorizzazione che non rispetta le condizioni in essa contenute dal cessare dal comportamento entro un termine determinato. In più, nel caso in cui si manifesti una situazione di pericolo per la salute pubblica e l'ambiente, può sospendere l'autorizzazione (art. 130 Codice dell'ambiente approvato con d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152). Le sanzioni amministrative. Sono volte a reprimere illeciti di tipo amministrativo e hanno dunque una funzione afflittiva e una valenza dissuasiva. Le sanzioni amministrative sono previste dalle leggi settoriali per garantire effettività sia in caso di violazione dei comandi in esse contenuti, sia nel caso di violazione dei provvedimenti emanati sulla base di tali leggi. Molte sanzioni del primo tipo sono contenuti nel Codice della strada. Sanzioni amministrative collegate alla violazione di provvedimenti amministrativi sono invece previsti dal Testo unico degli enti locali nel caso di violazione di regolamenti degli enti locali o delle ordinanze contingibili e urgenti emanate dal sindaco o dal presidente della provincia. Le sanzioni amministrative sono riconducibili a più tipi: le sanzioni pecuniarie, che fanno nascere l'obbligo di pagare una somma di denaro determinata entro un minimo e un massimo stabilito dalla norma; le sanzioni interdittive, che incidono sull'attività posta in essere dal soggetto destinatario del provvedimento (ritiro della patente); le sanzioni disciplinari. Per le sanzioni amministrative pecuniarie, l’obbligazione grava a titolo di solidarietà in capo a soggetti diversi da colui che pone in essere il comportamento illecito (es. l'ente del quale è dipendente l'autore dell'illecito: art. 6). Inoltre è data la facoltà di estinguere l’obbligazione tramite il pagamento di una somma in misura ridotta (oblazione) entro 60 giorni dalla contestazione della violazione, cioè prima che abbia corso il procedimento in contraddittorio per l‘accertamento dell’illecito (art. 16). Quindi l'oblazione evita che si arrivi a un 56 accertamento definitivo dell'illecito e per l'amministrazione ha il vantaggio di non gravare gli uffici di un'attività amministrativa a volte onerosa. Le sanzioni disciplinari si applicano a soggetti che intrattengono una relazione particolare con e pubbliche amministrazioni (dipendenti pubblici, professionisti iscritti ad albi, ecc.) e colpiscono comportamenti che violano obblighi speciali collegati allo status particolare (doveri di servizio, codici deontologici, ecc.). Esse consistono, a seconda della gravità dell’illecito, nell’ammonizione, nella sospensione del servizio o dall’albo per un periodo di tempo determinato, nella radiazione da un albo o nella destituzione. Queste sanzioni sono regolate da leggi speciali e sono quindi escluse dal campo di applicazione della disciplina generale delle sanzioni amministrative. Infine bisogna distinguere le sanzioni in senso proprio, che hanno un significato essenzialmente repressivo e punitivo del colpevole, e le sanzioni ripristinatorie, che hanno lo scopo di reintegrare l’interesse pubblico leso da un comportamento illecito. Le sanzioni amministrative sono applicate di regola soltanto nei confronti della persona fisica del trasgressore e ciò in coerenza con il carattere personale della responsabilità. Di recente è stata introdotta una particolare forma di responsabilità amministrativa per fatto proprio delle imprese e degl’enti “per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” (art. 1, comma 1, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231). Questa responsabilità sorge direttamente in capo all’ente “per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio” dagli amministratori e dipendenti. Le attività libere sottoposte a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata di inizio attività. Il rispetto delle norme poste dalle leggi amministrative può essere assicurato in un primo gruppo di casi esclusivamente attraverso un'attività di vigilanza, che può portare all'esercizio di poteri repressivi e sanzionatori se vengono accertate violazioni. Per esempio il pedone o il ciclista che non rispettano le regole della strada. Per agevolare i controlli effettuati dall'amministrazione, in un secondo gruppo di casi di attività libere, la legge grava i privati di un obbligo di comunicare preventivamente a una pubblica amministrazione l'intenzione di intraprendere un'attività. A volte, la comunicazione è contemporanea all'avvio dell'attività: altre volte tra la comunicazione e l'avvio dell'attività è previsto un termine minimo. La fattispecie delle attività libere regolate da leggi di tipo amministrativo e sottoposte a un regime di comunicazione preventiva è ora disciplinata dall'art. 19 l. n. 241/1990. Questo articolo prevede l'istituto della segnalazione certificata di inizio attività (cosiddetta SCIA, introdotta nel 2010 in sostituzione della cosiddetta dichiarazione d'inizio di attività o DIA). 57 L'avvio dell'attività può essere contemporaneo alla prestazione della dichiarazione. Il privato deve dotare la segnalazione con un'autocertificazione del possesso dei presupposti e requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento dell'attività. In caso di dichiarazioni false scattano sanzioni amministrative e penali (art. 19, comma 3 e 6). La SCIA ha soltanto la funzione di sollecitare l'amministrazione a verificare se l'attività in questione è adatta alle norme amministrative e a richiedere nel caso informazioni e chiarimenti. In caso di “accertata carenza dei requisiti e dei presupposti” previsti dalla legge per lo svolgimento dell'attività l'amministrazione, entro 60 giorni, può richiedere al privato di adattare l'attività alla normativa vigente entro un termine fissato. Se ciò non avviene, emana un provvedimento motivato di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione dei suoi effetti. Quindi le attività assoggettate al regime della SCIA restano libere. Il campo di applicazione della SCIA non è definito con precisione dalla legge. L'art. 19, che è inserito nel Capo IV l. n. 241/1990 dedicato alla Semplificazione dell'azione amministrativa, si limita a porre un criterio generale in base al quale la SCIA sostituisce di diritto ogni tipo di atto autorizzativo “il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge”. Un secondo criterio è che deve trattarsi di atti autorizzativi per i quali non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o altri strumenti di programmazione di settore. Accanto a questi due criteri generali, l'art. 19 prevede alcuni casi di esclusione quando entrino in gioco interessi pubblici particolarmente rilevanti (ambiente, difesa nazionale ecc.), oppure di atti autorizzativi imposti dalla normativa europea. Resta peraltro incerta la questione della tutela del terzo che affermi di subire una lesione nella propria sfera giuridica per effetto dell'avvio dell'attività. Nel caso della SCIA manca un provvedimento che consenta il ricorso al giudice amministrativo da parte del terzo. Il terzo che desideri contrastare l'avvio dell'attività deve invitare l'amministrazione a emanare un provvedimento che ne vieti l'avvio o la prosecuzione e se l'amministrazione non provvede può rivolgersi al giudice per fare accertare l'obbligo di provvedere. Le autorizzazioni e le concessioni. 1. L'autorizzazione è l'atto con il quale l'amministrazione rimuove un limite all'esercizio di un diritto soggettivo del quale è già titolare il soggetto che presenta la domanda. Il suo rilascio presuppone una verifica della conformità dell'attività ai principi normativi posti a tutela dell'interesse pubblico. Quindi le autorizzazioni danno origine ai diritti soggettivi il cui esercizio è subordinato a una verifica preventiva del rispetto dei presupposti e dei requisiti stabiliti dalla legge in relazione all'esigenza di tutela di un interesse pubblico. 60 Altre classificazioni: atti collettivi, atti plurimi, atti di alta amministrazione, atti collegiali. I provvedimenti amministrativi possono essere classificati in base anche ad altri criteri. 1. Il criterio dei destinatari del provvedimento consente di individuare prima di tutto la categoria degli atti amministrativi generali. Essi si rivolgono, invece che a singoli destinatari, a classi omogenee più o meno ampie di soggetti. Dagli atti generali vanno tenuti distinti gli atti collettivi e gli atti plurimi. Anche i primi si riferiscono a categorie, generalmente ristrette, di soggetti considerati in modo unitario, ma che, a differenza degli atti generali, sono già individuati con precisione individualmente (effetti prodotti dallo scioglimento di un consiglio comunale nei confronti dei singoli componenti dell'organo collegiale). Invece gli atti plurimi sono atti rivolti anch'essi a una pluralità di soggetti, ma i loro effetti, a differenza degli atti collettivi, sono scindibili in relazione a ciascun destinatario. (es. il decreto che approva una graduatoria di vincitori di concorso). 2. Gli atti di alta amministrazione sono venuti fuori quando si è posta la questione di distinguere gli atti amministrativi dagli atti politici, quest'ultimi non sottoposti a regime del provvedimento amministrativo. Tra di essi rientrano gli atti che, a differenza di quelli amministrativi, sono liberi nel fine e che sono emanati da un organo costituzionale (in particolare il governo) nell'esercizio di una funzione di governo. 3. Un altro criterio di distinzione riguarda la provenienza soggettiva del provvedimento. Accanto ai casi in cui il provvedimento è emanato da un organo competente di tipo monocratico, si pongono i casi in cui il provvedimento è espressione della volontà di più organi o soggetti e ha quindi natura di atto complesso. Per esempio il decreto interministeriale, espressione della volontà paritaria e convergente (con funzione di coordinamento) di più ministri, o un decreto del presidente della Repubblica che controfirma l'atto del ministro precedente. Ci sono anche gli atti collegiali in cui il provvedimento è emanato da un organo composto da una pluralità di componenti designati con vari criteri (elezione, nomina da parte di organi politici). Le delibere assunte dagli organi collegiali avvengono con modalità procedurali definite negli statuti o nei regolamenti dei singoli enti e amministrazioni. L’invalidità dell’atto amministrativo. Prima di tutto, va detto che non tutti i casi di difformità tra il provvedimento e le norme che lo disciplinano crea invalidità. Si ha invalidità quando la difformità tra atto e norme determina una lesione di interessi tutelati da queste ultime e incide sull'efficacia del primo in modo più o meno definitivo, sotto forma di nullità o di 61 annullabilità. L'invalidità è disciplinata nella l. 241/1990 con le modifiche introdotte dalla l. n. 15/2005. Per prima cosa bisogna fare una distinzione tra: norme che regolano una condotta impongono obblighi o attribuiscono diritti. I comportamenti che violano il primo tipo di norme sono qualificabili come illeciti e contro di essi l'ordinamento reagisce attraverso l'imposizione di sanzioni di varia natura (sanzioni penali, obbligo di risarcimento, ecc.). norme che conferiscono poteri conferiscono poteri, come per esempio fare testamento, di contrarre un matrimonio ecc. Gli atti posti in essere in violazione delle norme di questo tipo sono qualificabili come invalidi e contro di essi l'ordinamento reagisce negandone gli effetti. L'invalidità può essere definita più precisamente come la difformità di un negozio o di un atto dal suo modello legale. Essa può essere sanzionata, in base alla gravità della violazione, in due modi: l'inidoneità dell'atto a produrre gli effetti giuridici tipici, cioè a creare diritti e obblighi o altre modificazioni nella sfera giuridica dei soggetti dell'ordinamento (nullità); l'idoneità a produrli in via precaria, cioè fino a quando non interviene un giudice (o un altro organo) che, accertata l'invalidità, rimuova gli effetti prodotti con efficacia retroattiva (annullamento). Sempre in via generale, si fa una distinzione tra: o invalidità totale riguarda l'intero atto; o invalidità parziale riguarda una parte di questo, lasciando inalterata la validità e l'efficacia della parte non affetta dal vizio. Quest'ultima si ha nel caso di provvedimenti con effetti scindibili, come in quello degli atti plurimi. L'invalidità di un provvedimento può essere propria o derivata, originaria o sopravvenuta: 1. Nel caso di invalidità propria hanno importanza i vizi dei quali è affetto l'atto. Nel caso di invalidità derivata, l'invalidità dell'atto deriva per propagazione dell'invalidità di un atto presupposto (es. l'illegittimità di un bando di gara). L'invalidità derivata può essere di due tipi: a effetto caducante, e in questo caso travolge in modo automatico l'atto assunto sulla base dell'atto invalido; a effetto invalidante, e in questo caso l'atto affetto da invalidità derivata, per quanto a sua volta invalido, conserva i suoi effetti fino a che non venga annullato. L'effetto caducante si verifica in presenza di un rapporto di stretta casualità tra i due atti: il secondo costituisce una semplice esecuzione del primo. Invece quando l'atto successivo non costituisce una conseguenza inevitabile del primo, ma presuppone nuovi e ulteriori apprezzamenti, l'invalidità derivata ha soltanto 62 un effetto viziante, con la conseguenza che essa deve essere fatta valere attraverso l'impugnazione autonoma di quest'ultimo. 2. Considerando l'invalidità originaria e l'invalidità sopravvenuta trova applicazione nel diritto amministrativo anche il principio del tempus regit actum, secondo il quale la validità di un provvedimento si determina con riguardo alle norme in vigore al momento della sua adozione. Si parla di invalidità sopravvenuta dei provvedimenti amministrativi nel caso di: legge retroattiva; legge di interpretazione autentica; legge di dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nelle prime due ipotesi, la retroattività della nuova legge rende viziato il provvedimento emanato in base alla norma abrogata. Nella terza ipotesi, poiché le sentenze di accoglimento Corte Costituzionale hanno efficacia retroattiva, esse rendono invalidi i provvedimenti assunti sulla base delle norme dichiarate illegittime e ai rapporti giuridici venuti fori anteriormente, a meno che non si tratti di rapporti esauriti, cioè di fattispecie ormai interamente realizzate. È opportuno distinguere tra “occupazione usurpativa” e “occupazione appropriativa”. La prima avviene quando il terreno viene occupato in carenza di qualsivoglia titolo (in “via di fatto” o in carenza di potere); la seconda quando l'occupazione avviene nell'ambito di una procedura di espropriazione (a seguito della dichiarazione di pubblica utilità) sebbene illegittima. L'annullabilità è disciplinata dall'art. 21-octies l. n. 241/1990 e dall'art. 29 Codice. Invece la nullità è disciplinata dall'art. 21-septies l. n. 241/1990 e dall'art. 31, comma 4, Codice che disciplina l'azione di nullità. L’annullabilità. In generale, l'atto amministrativo affetto da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge viene qualificato come illegittimo (e quindi soggetto ad annullamento). Invece la l. n. 241/1990 ripercorre la distinzione civilistica tra nullità e annullabilità. Infatti l'art. 21-octies fa riferimento a quest'ultima. Mentre l'art. 21- nonies usa ancora la terminologia “provvedimento amministrativo illegittimo” prevedendo che esso possa essere annullato d'ufficio. In realtà annullabilità e illegittimità sono vocaboli intercambiabili ma non si può ritenere che tutti gli atti illegittimi siano annullabili. Le conseguenze dell'annullamento, cioè il venir meno degli effetti del provvedimento con efficacia retroattiva (ex tunc), non cambiano in base al tipo di vizio accertato. Comunque l'annullamento elimina l'atto e i suoi effetti in modo retroattivo e grava sull'amministrazione l'obbligo di porre in essere tutte le attività necessarie per ripristinare, per quanto possibile, la situazione di fatto e di diritto in 65 c) L’eccesso di potere. L'eccesso di potere è il vizio di legittimità tipico dei provvedimenti discrezionali. Esso è lo strumento che consente al giudice amministrativo, pur mantenendosi all'interno del giudizio di legittimità, di censurare le scelte operate dell'amministrazione. L'elaborazione oggi prevalente definisce l'eccesso di potere come vizio della funzione, intesa come la dimensione dinamica che attualizza e concretizza la norma astratta attributiva del potere in un provvedimento produttivo di effetti. In questo passaggio, cioè all'interno delle fasi del procedimento, possono venir fuori anomalie, incongruenze e disfunzioni che danno origine appunto all'eccesso di potere. La figura originaria dell'eccesso di potere è lo sviamento di potere che consiste nella violazione del vincolo del fine pubblico posto dalla norma attributiva del potere. Questo tipo di violazione avviene quando il provvedimento emanato persegue un fine diverso da quello in relazione al quale il potere è conferito dalla legge all'amministrazione. Un esempio di sviamento di potere può essere il trasferimento d'ufficio di un dipendente pubblico, non privatizzato, motivato da esigenze di servizio, che in realtà ha una finalità sanzionatoria. Le principali figure sintomatiche dell'eccesso di potere sono: 1. Errore o falsificazione dei fatti. Se il provvedimento viene emanato sul presupposto dell'esistenza di un fatto o di una circostanza che invece risulta inesistente o, viceversa, della non esistenza di un fatto o di una circostanza che invece risulta esistente viene fuori la figura dell'eccesso di potere per errore di fatto (o anche falsificazione dei fatti). 2. Difetto di istruttoria. Nella fase istruttoria (d'indagine) del procedimento l'amministrazione è tenuta ad accertare in modo completo i fatti, ad acquisire gli interessi rilevanti e ogni altro elemento utile per operare una scelta consapevole e ponderata. 3. Difetto di motivazione. Nella motivazione del provvedimento l'amministrazione deve dar conto all'esito dell'istruttoria, delle ragioni che sono alla base della scelta operata. Essa deve consentire una verifica del corretto esercizio del potere, cioè della procedura seguita per pervenire alla determinazione contenuta nel provvedimento, ricavando la serie degli elementi istruttori rilevanti e operando l'analisi degli interessi. Il difetto di motivazione ha varie sfaccettature. La motivazione può essere insufficiente, incompleta o generica, se da essa non si manifesta compiutamente la procedura logica seguita dall'amministrazione e quindi non vengono fuori le ragioni sottostanti la scelta operata. Inoltre la motivazione può essere illogica, contraddittoria, o incongrua, quando essa contenga proposizioni o riferimenti a elementi incompatibili tra loro. Infine può essere perplessa o dubbiosa dove non consenta di individuare con precisione il potere che l'amministrazione ha inteso esercitare. 66 4. Illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà. Si è osservato che il diritto amministrativo assume che la pubblica amministrazione agisca come un soggetto razionale. Quindi, vieni fuori un vizio di eccesso di potere tutte le volte che il contenuto del provvedimento e le statuizioni dello stesso fanno emergere profili di illogicità o irragionevolezza, apprezzabili in modo oggettivo in base a regole di esperienza. Una sottospecie di illogicità e irragionevolezza può essere considerata la contraddittorietà interna al provvedimento. Questa viene fuori se non c'è consequenzialità tra le premesse del provvedimento e le conclusioni tratte nel dispositivo. La contraddittorietà può essere anche esterna al provvedimento, cioè essere rilevata dal raffronto tra provvedimento impugnato e altri provvedimenti precedenti dell'amministrazione che riguardano lo stesso soggetto. 5. Disparità di trattamento. Il principio di coerenza e il principio di eguaglianza impongono anche all'amministrazione di trattare in modo uguale casi uguali. Il vizio può venir fuori sia nel caso in cui casi uguali siano trattati in modo diseguali, sia nel caso in cui casi diseguali siano trattati in modo uguale. Per stabilire se le situazioni da confrontare sono identiche o differenziate va utilizzato il criterio della ragionevolezza. Il vizio di cui si parla emerge spesso nei giudizi comparativi, nelle progressioni di carriera o nel riconoscimento di altri benefici ai dipendenti pubblici. Per far si che sia censurata la disparità di trattamento è necessario che il provvedimento sia discrezionale e che la comparizione si riferisca a provvedimenti emanati in modo legittimo. 6. Violazione delle circolari e delle norme interne, della prassi amministrativa. L'attività della pubblica amministrazione deve essere posta in essere non solo in corrispondenza con le disposizioni contenute in leggi, regolamenti e in altre fonti normative, ma anche in corrispondenza con le norme interne contenute in circolari, direttive, atti di pianificazione o di altri atti contenenti criteri e principi di vario tipo che hanno come scopo quello di orientare l'esercizio della discrezionalità da parte dell'organo competente a emanare il provvedimento. 7. Ingiustizia grave e manifesta. In qualche rara occasione la giurisprudenza, per ragioni equitative, si spinge fino al punto di censurare provvedimenti discrezionali il cui contenuto appaia in modo palese e manifesto ingiusto. La giustificazione teorica delle figure sintomatiche dell'eccesso di potere è controversa. Secondo alcune teorie, esse rilevano essenzialmente come prove indirette dello sviamento di potere e hanno una valenza essenzialmente processuale. Cioè possono essere ricondotte allo schema civilistico delle presunzioni. 67 Secondo altre teorie, le figure sintomatiche hanno ormai raggiunto una completa autonomia dallo sviamento di potere e hanno una valenza sostanziale, prima ancora che processuale. Cioè esse sono riconducibili a ipotesi di violazione dei principi generali dell'azione amministrativa e più precisamente dei principi logici e giuridici che dirigono l'esercizio della discrezionalità. Di recente le figure sintomatiche sono state qualificate come clausole generali (buona fede, imparzialità) che, analogamente a quanto accade nelle relazioni giuridiche privatistiche, fanno nascere obblighi comportamentali nell'ambito del rapporto giuridico amministrativo frapponendosi tra la pubblica amministrazione e il cittadino. La nullità. L'art. 21-septies l. n. 241/1990 prima di tutto individua quattro ipotesi di nullità: 1. La mancanza degli elementi essenziali associa la nullità del provvedimento a quella del contratto (art. 1418, comma 2, cod. civ.), anche se la l. n. 241/1990 non li elenca in modo preciso. 2. Il difetto assoluto di attribuzione corrisponde alla figura dello straripamento di potere che avrebbe potuto costituire il primo modello dell'eccesso di potere. 3. La violazione o elusione del giudicato si ha quando l'amministrazione in sede di nuovo esercizio del potere in seguito all'annullamento pronunciato dal giudice con sentenza passata in giudicato emana un nuovo atto che si pone in contrasto con quest'ultima quando essa ponga un vincolo puntuale e non lasci all'amministrazione alcuno spazio di valutazione. 4. La quarta ipotesi di nullità si riferisce ai casi in cui la legge qualifica espressamente come nullo un atto amministrativo (nullità testuale). Un'ipotesi di nullità prevista per legge riguarda gli atti adottati da organi collegiali scaduti, passato il tempo di 45 giorni in cui possono comunque essere posti in essere solo gli atti di ordinaria amministrazione (legge 15 luglio 1999, n. 444). Sul versante processuale, l'art. 31, comma 4, Codice del processo amministrativo introduce un'azione per la declaratoria della nullità che può essere proposta davanti al giudice amministrativo entro un termine di decadenza breve (180 giorni) e ciò in relazione all'esigenza di garantire stabilità all'ordine dei rapporti di diritto pubblico. A differenza di quanto accade per l'annullabilità, la nullità può essere sempre rilevata d'ufficio dal giudice o opposta dalla parte resistente (pubblica amministrazione). L’annullamento d’ufficio, la convalida, la ratifica, la sanatoria, la conferma, la conversione, la revoca, il recesso. - L'annullamento d'ufficio. L'annullamento del provvedimento può essere pronunciato oltre che dal giudice amministrativo in caso di accoglimento del ricorso 70 A differenza dell'annullamento d'ufficio, che ha efficacia retroattiva (ex tunc), la revoca “determina l'idoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti” (ex nunc). La revoca ha come oggetto provvedimenti “a efficacia durevole”, per esempio le concessioni di servizi pubblici. Una novità introdotta dall'art. 21-quinquies per la revoca è la generalizzazione dell'obbligo di indennizzo nei casi in cui essa “comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati”. La revoca disciplinata dall'art. 21-quinquies va tenuta distinta dalla cosiddetta revoca sanzionatoria e dal mero ritiro. La prima può essere posta dall'amministrazione nel caso in cui il privato, destinatario di un provvedimento amministrativo favorevole, (autorizzazione, concessione ecc.) non rispetti le condizioni e i limiti in esso previsti, o non intraprenda l'attività oggetto del provvedimento entro il termine previsto. Il mero ritiro ha per oggetto atti amministrativi che no sono ancora efficaci. - Il recesso dai contratti. L'art. 21-sexies l. n. 241/1990 disciplina anche il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione prevedendo che esso sia ammesso solo “nei casi previsti dalla legge o dal contratto”. Tra le disposizioni legislative che disciplinano in modo specifico il recesso dai contratti c'è quella in tema di comunicazioni e certificazioni antimafia che lo prevede nei casi in cui emergano tentativi di infiltrazione mafiosa (art. 4 d.lgs. 8 agosto 1994, n.490). 71 CAPITOLO 5 Il procedimento Nozione e funzioni del procedimento. Il procedimento amministrativo può essere definito come la “sequenza di atti e operazioni tra loro collegati funzionalmente in vista e al servizio dell'atto principale”. Esso è prima di tutto una nozione teorica generale del diritto collegata alle modalità di produzione di un effetto giuridico. Nello schema già esaminato norma-fatto- effetto, l’effetto giuridico nasce in collegamento, alcune volte quando si verifica un singolo accadimento (fatto giuridico semplice); a volte quando si verificano una pluralità di accadimenti (fatti complessi). Il procedimento amministrativo ha diverse funzioni. 1. Una prima funzione è quella di consentire un controllo sull'esercizio del potere (soprattutto ad opera del giudice), attraverso una verifica del rispetto della sequenza degli atti e operazioni normativamente predefinite. 2. Una seconda funzione è quella di far venire fuori e dar voce a tutti gli interessi impressi direttamente o indirettamente dal provvedimento. Ciò sia nell'interesse dell'amministrazione che può così ricoprire gli squilibri informativi che spesso ci sono nei rapporti con i soggetti privati, sia nell'interesse di questi ultimi che hanno la possibilità di rappresentare e difendere il proprio punto di vista. La partecipazione ha così una dimensione collaborativa. Questo avviene soprattutto nei procedimenti di tipo individuale in cui il procedimento determina effetti verso il destinatario. 3. Una terza funzione è quella del contraddittorio (scritto e a volte anche orale) a favore dei soggetti influiti negativamente dal provvedimento. Essa riguarda soprattutto i procedimenti individuali, in cui l'amministrazione esercita un potere che determina effetti restrittivi o limitativi della sfera giuridica del destinatario e il rapporto giuridico si definisce in termini di contrapposizione, anziché di collaborazione. Il contraddittorio procedimentale può essere verticale o orizzontale. 4. Una quarta funzione del procedimento è quella di operare da fattore di legittimazione del potere dell'amministrazione e quindi di promuovere la democraticità dell'ordinamento amministrativo. 5. Infine il procedimento ha la funzione di attuare il coordinamento tra più amministrazioni, ognuna delle quali deve curare un interesse pubblico, nei casi in cui un provvedimento amministrativo vada a incidere su una pluralità di interessi pubblici. Accanto a modelli di coordinamento debole (il parere obbligatorio), la legislazione amministrativa prevede modelli di coordinamento più forte (il parere vincolante, l'intesa, ecc.). Quando il coordinamento tra interessi non sia possibile all'interno del 72 singolo procedimento e l'avvio di un'attività da parte di un privato sia subordinata al rilascio di una pluralità di atti autorizzativi all'esito di una pluralità di procedimenti autonomi paralleli, il coordinamento può avvenire con altre modalità (la conferenza dei servizi, l'autorizzazione unica). Le leggi generali sul procedimento e la l. n. 24/1990. Il procedimento amministrativo è al centro del sistema del diritto amministrativo in molti ordinamenti ed è disciplinato da diverse leggi generali, tra cui la legge 7 agosto 1990, n. 241. Essa si caratterizza per il fatto di essere una legge soprattutto di principi, in cui però non contiene né una definizione generale di procedimento, né una disciplina organica delle singole fasi in cui si articola. Disciplina solo alcuni istituti fondamentali come il termine del procedimento, la figura del responsabile del procedimento, la partecipazione, alcuni istituti di semplificazione, il diritto di accesso. Il campo di applicazione della l. n. 241/1990 è stabilito in base a un criterio soggettivo e oggettivo. Sotto il profilo soggettivo le disposizioni che ci sono al suo interno si applicano alle amministrazioni statali, agli enti pubblici nazionali e anche alle società con totale o prevalente capitale pubblico, limitatamente alle attività che si sostanziano nell'esercizio delle funzioni amministrative (art. 29). Inoltre, le regioni e gli enti locali possono dotarsi di una propria disciplina sulla base dei principi stabiliti da tale legge. Sotto il profilo oggettivo, la l. n. 241/1990 si applica completamente ai procedimenti di tipo individuale. Adesso c'è un nuovo modello di rapporto tra la pubblica amministrazione e i cittadini. 1. La l. n. 241/1990 ricopre la distanza e la separatezza tradizionali tra amministrazioni e soggetti privati. 2. In secondo luogo, la separatezza tra le stesse pubbliche amministrazioni, ciascuna con poteri autonomi, con pochi canali di comunicazione, viene vista con sfavore, ma si preferisce strumenti di collaborazione paritaria per lo svolgimento di attività di interesse comune e di coordinamento tra procedimenti paralleli. Inoltre devono collaborare scambiandosi reciprocamente gli atti e i documenti in loro possesso che devono essere acquisiti a un procedimento da esse curato, in modo da non farli procurare autonomamente al privato e richiedergli soltanto un'autocertificazione. 3. In terzo luogo l'amministrazione si apre alle espressioni della società civile. Soprattutto nei procedimenti di tipo pianificatorio e di programmazione ed esecuzione di grandi opere pubbliche, che hanno un grande impatto sulle comunità locali e su interessi come quello ambientale. 4. La l. n. 241/1990 va oltre il principio del segreto d'ufficio sulle attività interne dell'amministrazione, ed enuncia il principio di pubblicità e trasparenza e pone 75 può procedere indipendentemente dall’espressione del parere (art. 18, comma 2). Invece i pareri facoltativi sono richiesti quando l’amministrazione che procede ritenga che possono essere utili ai fini della decisione. I poteri possono essere, in casi frequenti, oltre che obbligatori anche vincolanti. La tendenza più recente dell’ordinamento in tema di adempimenti istruttori è di liberare il più possibile i soggetti privati da doveri di documentazione e di certificazione, imponendo all’amministrazione di acquisire d’ufficio i documenti attestanti atti, fatti, qualità e stati soggettivi necessari per l’istruttoria (art. 18, comma 2, l. n. 241/1990). Ai privati può essere richiesta soltanto l’autocertificazione, che consiste nella possibilità per i soggetti privati di dichiarare sotto propria responsabilità il possesso di determinati stati e qualità. La fase istruttoria è aperta agli aiuti dei soggetti che abbiano diritto di intervenire e partecipare al procedimento (art. 10 l. n. 241/1990). Quest’ultimi sono i soggetti ai quali l’amministrazione è tenuta a comunicare l’avvio del procedimento. Hanno facoltà di intervenire anche soggetti portatori di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, ai quali possa derivare un pregiudizio del provvedimento (art. 9). Dal punto di vista organizzativo l’istruttoria è affidata alla figura del responsabile del procedimento, assegnato di volta in volta dal dirigente responsabile della struttura subito dopo l’apertura del procedimento. Il suo nominativo viene comunicato o reso disponibile su richiesta a tutti i soggetti interessati. (art. 5 l . n. 241/1990). I compiti del responsabile del procedimento sono indicati nell’art. 6 l. n. 241/1990 e includono tutte le attività propedeutiche all’emanazione del provvedimento finale e l’adozione “di ogni misura per l’adeguato e sollecito svolgimento dell’istruttoria” (lett. b)). Nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del procedimento è tenuto ad attivare una fase supplementare di contraddittorio nei casi in cui l’istruttoria effettuata dà esito negativo e porterebbe all’adozione di un provvedimento di rigetto dell’istanza (art. 10-bis l. n. 241/1990 aggiunto dalla l. n. 15/2005). c) La conclusione: il termine, il silenzio, gli accordi. L’art. 2 l. n. 241/1990 pone l’obbligo all’amministrazione di concludere il procedimento tramite l’azione di un provvedimento espresso produttivo degli effetti nella sfera giuridica dei destinatari. Da un punto di vista immaginario, se il procedimento è una specie di catena di montaggio, il provvedimento è il prodotto finito. Il provvedimento finale può essere emanato, a seconda dei casi, dal titolare di un organo individuale (come il sindaco o il prefetto) oppure da un organo collegiale (giunta comunale, consiglio di amministrazione ecc.). 76 In quest’ultimo caso la determinazione vene assunta applicando le regole sulla convocazione dell’organo, sulla fissazione di un ordine del giorno, sul quorum costitutivo e sul quorum, deliberativo. Accanto ad atti semplici è frequente nelle leggi amministrative il ricorso ad atti complessi. Frequente è anche il concerto nel quale il ministero competente ad emanare il provvedimento deve prima inviare al ministero organizzante lo schema di provvedimento per ottenere l’assenso o indicazioni di modifica. L’atto finale è sottoscritto da entrambe le autorità. Il principio del tempus regit actum prevede che le modifiche legislative intervenute a procedimento avviato trovano immediata applicazione, a meno che non si sia in presenza di situazioni giuridiche ormai consolidate o di fasi procedimentali già del tutto esaurite. Facendo riferimento alla fase decisionale, ci sono degli aspetti da approfondire. Il provvedimento deve essere emanato entro il termine stabilito per lo specifico procedimento. Prima di tutto l’art. 2 pone l’obbligo a ciascuna pubblica amministrazione di individuare i termini per ciascun procedimento con propri atti di regolazione e di renderli pubblici. Di regola la durata massima non deve superare i novanta giorni (commi 3 e 4). Se le amministrazioni non stabiliscono un termine, il termine generale è di 30 giorni (comma 2). In definitiva, la disciplina del termine del procedimento amministrativo posta dall’art. 2 l. n. 241/1990 crea il principio della certezza del tempo dell’agire amministrativo. Il termine può essere sospeso per un periodo non superiore a 30 giorni in caso di necessità di acquisire informazioni o certificazioni (coma 7). I termini finali hanno di regola natura ordinatoria, perché la loro scadenza non fa venir meno il potere di provvedere, né rende illegittimo (o nullo) il provvedimento finale emanato in ritardo. Se non viene rispettato il termine di conclusione del procedimento può provocare conseguenze di vario tipo, come la nascita di una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario o una responsabilità di tipo dirigenziale nei confronti del vertice della struttura (art. 2, comma 9, l. n. 241/1990). Il mancato rispetto del termine può costituire anche motivo per l’esercizio del potere sostitutivo da parte del dirigente sovraordinato (art. 16, comma 1, lett. e), comma 1, lett. d), d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165). Il potere sostitutivo adesso è disciplinato anche nell’art. 2 l. n. 241/1990 al quale sono stati aggiunti di recente alcuni commi (d. l. 9 febbraio 2012, n. 5). L’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento può anche far nascere l’obbligo di risarcire il danno a favore del privato (c.d. danno da ritardo). Può accadere che l’amministrazione non concluda il procedimento entro il termine fissato per legge o stabilito dall’amministrazione e la situazione di 77 inattività si protragga nel tempo. Cosi si pone la questione del silenzio dell’amministrazione. Fino ad anni recenti il silenzio della pubblica amministrazione di fronte a istanze o domande presentate da soggetti privati per ottenere un provvedimento favorevole è stato quello del cosiddetto silenzio-inadempimento. In questi casi l’inattività mantenuta oltre il termine assume il significato giuridico di inadempimento dell’obbligo formale di provvedere posto dall’art. 2 l. n. 241/1990, cioè di concludere il procedimento con un provvedimento di accoglimento dell’’istanza, o con un provvedimento di rigetto della medesima. Però gli effetti ricavati dall’azione del privato contro il silenzio-inadempimento non sono molto efficaci. Quindi per risolvere il problema, nella legislazione amministrativa sono stati introdotti per singole tipologie di procedimenti due regimi di silenzio cosiddetto significativo, che sono presenti nella l. n. 241/1990: il silenzio-diniego (o rigetto) e il silenzio-assenso (o accoglimento). Il campo di applicazione del silenzio-assenso definito dall’art. 20, commi 1 e 3, è individuato in base ad alcuni criteri di tipo negativo. Prima di tutto il regime non vale nei casi di provvedimenti autorizzativi sostituiti dalla segnalazione certificata d’inizio di attività di cui all’art. 19, soggetti a un regime di liberalizzazione. Inoltre non vale per i procedimenti che riguardano un elenco piuttosto lungo di interessi pubblici (comma 4): patrimonio culturale e paesaggistico, ambiente, difesa nazionale, ecc. Non vale in terzo luogo neppure nei casi in cui la normativa europea impone l’adozione di un provvedimento formale. Infine, non vale nei casi tassativamente previsti per legge di silenzio-rigetto e i per i procedimenti individuati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri. L’art. 4 della l. n. 124/2015 reintroduce il criterio dell’elenco dei casi di silenzio- assenso e di segnalazione certificata di inizio di attività delegando il governo a emanare un regolamento di delegificazione al fine di individuarli con precisione. L’amministrazione può evitare che si formi il silenzio-assenso non solo provvedendo nel termine previsto, ma anche indicendo entro 30 giorni dalla presentazione dell’istanza una conferenza dei servizi. Il silenzio assenso ha valore provvedimentale. Ciò determina due conseguenze: può essere oggetto di provvedimenti di autotutela sotto forma di revoca e di annullamento d’ufficio; può essere impugnato innanzi al giudice amministrativo. Il regime del silenzio-assenso ha alcuni difetti strutturali. Prima di tutto, siccome esso può applicarsi anche a provvedimento discrezionali, la valutazione di interessi pubblici, di fatto, nei casi di inattività assoluta dell’amministrazione, non viene operata. Seconda di poi, dal punto di vista del soggetto privato che ha presentato istanza, il silenzio-assenso non soddisfa compiutamente l’esigenza di certezza in relazione allo svolgimento di attività sottoposte a controllo pubblico. Gli accordi integrativi e sostitutivi. Il provvedimento espresso emanato in modo unilaterale dall’organo competente costituisce l’esito normale e più frequente 80 provvedimento finale, anche su richiesta del soggetto privato interessato, nei casi in cui la conferenza abbia per oggetto atti di tipo autorizzativo che condizionano l’avvio di una attività (comma 4). La conferenza di servizi si conclude con un verbale in cui sono riportate le posizioni espresse da ciascuna amministrazione partecipante. I lavori della conferenza dei servizi decisoria sono disciplinati da una serie di regole, e gli aspetti più rilevanti di questa disciplina sono: la partecipazione obbligatoria di tutte le amministrazioni invitate i cui rappresentanti devono essere muniti dei poteri necessari per assumere determinazioni vincolanti; il dissenso manifestato da una o più amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi. 3. Il terzo tipo di conferenza di servizi è quella preliminare (art. 14-bis) che può essere convocata su richiesta motivata di soggetti privati interessati a realizzare progetti di particolare complessità o di insediamenti produttivi. Il privato sottopone uno studio di attuabilità alle amministrazioni competenti a rilasciare gli atti autorizzativi, i pareri e le intese ancor prima di presentare formalmente le istanze necessarie. Accanto alla conferenza dei servizi l’ordinamento prevede altre forme di coordinamento. Il testo unico sull’ordinamento degli enti locali disciplina uno strumento di coordinamento analogo alla conferenza di servizi decisoria costituito dall’accordo di programma (art. 34 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) promosso, a seconda dei casi, dal presidente della regione, della provincia o del sindaco. Lo scopo dell’accordo è la definizione e attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che coinvolgono una pluralità di amministrazioni. La l. n. 241/1990 prevede come strumenti “per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”, gli accordi tra pubbliche amministrazioni (art. 15). L’oggetto di questo tipo di accordi è definito in modo generico e quindi consente di coprire un’amplissima gamma di situazioni nelle quali le amministrazioni si trovino a interagire. Un nuovo strumento per attuare un coordinamento tra una pluralità di amministrazioni competenti ad emanare atti di assenso necessari per lo svolgimento di particolari attività, è la cosiddetta autorizzazione unica, in cui confluiscono i singoli atti di assenso (es. la costruzione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili). Uno strumento organizzativo concepito per rendere più agevole il coordinamento e semplificare i rapporti tra amministrazioni e soggetti privati è il cosiddetto sportello unico, cioè un ufficio istituito con la funzione di far da tramite tra questi ultimi e gli uffici e amministrazioni competenti a emanare gli atti di assenso, i pareri e le valutazioni di volta in volta necessari. 81 Tipi di procedimento: a) l’espropriazione per pubblica utilità. Prima di tutto il Testo unico enuncia il principio di legalità precisando che l’espropriazione “può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi o dai regolamenti” (art. 2, comma 1). Il potere espropriativo è attribuito a tutte le amministrazioni (Stato, regioni, comuni) competenti a realizzare un’opera pubblica (art. 6). Quindi si parla di potere “diffuso” e accessorio (cioè funzionale alla realizzazione dell’opera). 1. Il vincolo prestabilito all’esproprio genera un collegamento tra l’attività di pianificazione del territorio e il procedimento espropriativo. Il vincolo può essere posto all’esito delle procedure di pianificazione urbanistiche ordinarie o speciali o in seguito all’atto di approvazione di un progetto preliminare o definitivo di un’opera pubblica. Il vincolo ha la durata di 5 anni e deve intervenire la dichiarazione di pubblica utilità entro questo termine (art. 9, comma 2). Esso costituisce un atto impugnabile davanti al giudice amministrativo in quanto già produttivo di effetti giuridici nei confronti dei proprietari. 2. Molte leggi ritengono la fase della dichiarazione di pubblica utilità assorbita e inclusa in altri atti. Infatti in molti casi la dichiarazione di pubblica utilità è implicita, perché costituisce uno degli effetti automatici prodotti da alcuni atti come l’approvazione del progetto definitivo di un’opera pubblica, oppure l’approvazione di un piano di lottizzazione (art. 12). La dichiarazione di pubblica utilità ha un’efficacia temporalmente limitata (5 anni, soggetta a proroga) (art. 13) e prima della scadenza del termine deve intervenire il decreto di esproprio. La scadenza del termine provoca l’inefficacia della dichiarazione di pubblica utilità. 3. Il decreto di esproprio determina il trasferimento del diritto di proprietà del soggetto espropriato al soggetto nel cui interesse il procedimento è stato avviato. A questo effetto si aggiunge anche l’estinzione automatica di tutti i diritti reali e personali gravanti sul bene espropriato, escluso quelli compatibili con i fini cui l’espropriazione è preordinata (art. 24). 4. Il decreto di esproprio deve indicare l’importo dell’indennità determinato provvisoriamente. Non appena sia divenuta efficace la dichiarazione di pubblica utilità, il promotore della procedura espropriativa formula ai proprietari un’offerta (art. 20). Quest’ultimi, eventualmente assistiti anche da propri tecnici di fiducia, possono indicare quale sia il valore da attribuire al bene ai fini della determinazione dell’indennità. L’autorità procedente, valutate le osservazioni degli interessati, determina provvisoriamente la misura dell’indennità. I privati nei 30 giorni successivi possono comunicare all’autorità espropriativa una dichiarazione irrevocabile di assenso alla proposta. Se il privato non accetta o 82 sono passati i 30 giorni, l’autorità espropriante emana il decreto di esproprio e deposita l’indennità provvisoria rifiutata presso la Cassa depositi e prestiti. Da questo momento in poi il procedimento per la determinazione in via definitiva dell’indennità ha uno svolgimento autonomo, con un’ulteriore fase di contraddittorio con il privato. Infine, il procedimento prevede l’intervento di una Commissione provinciale istituita presso l’ufficio tecnico erariale che procede alla determinazione definitiva dell’indennità (art. 21). Il procedimento di esproprio è espressione di un potere tipicamente unilaterale. Tuttavia l’ordinamento tende a favorire soluzioni consensuali attraverso l’istituto della cessione volontaria del bene. Essa è un diritto soggettivo dell’espropriando nei confronti del beneficiario dell’espropriazione che può essere esercitato fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio (art. 45). La vicenda espropriativa può dar vita al fenomeno dei procedimenti collegati in parallelo. Nel senso che subito dopo la dichiarazione di pubblica utilità, l’amministrazione può acquisire immediatamente la disponibilità materiale del bene, per iniziare subito i lavori. L’amministrazione può avviare un procedimento autonomo, quindi parallelo, di occupazione d’urgenza (art. 22-bis). Questo può avvenire in 3 ipotesi: quando l’amministrazione ritenga che l’avvio dei lavori sia così urgente da non consentire il perfezionamento del procedimento ordinatorio; in base ai progetti delle grandi opere pubbliche previste dalla cosiddetta legge obiettivo (legge 21 dicembre 2001, n. 443) per le quali l’urgenza è già accertata per legge; quando la procedura espropriativa riguardi più di 50 proprietari. Infine la retrocessione dei beni espropriati consiste nel diritto del soggetto espropriato di riacquistare la proprietà del bene nei casi in cui l’opera pubblica non viene realizzata o non tutto il bene espropriato viene utilizzato. La retrocessione totale può avvenire nei casi in cui l’opera pubblica non sia stata realizzata nel termine di 10 anni dall’esecuzione del decreto di espropriazione o anche prima quando risulti l’impossibilità della sua esecuzione (art. 46). L’espropriato può richiedere la restituzione integrale del bene e il pagamento di una somma a titolo di indennità. La retrocessione parziale può essere richiesta per le parti del bene espropriato che non siano state utilizzate una volta realizzata l’opera pubblica (art. 47). Tuttavia il comun ha un diritto di prelazione sull’area inutilizzata che può essere acquisita al patrimonio indisponibile dell’ente territoriale (art. 48, comma 3). b) Le sanzioni pecuniarie e disciplinari. Il procedimento per l’inflizione delle sanzioni di tipo pecuniario è disciplinato dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 che distingue più fasi: l’accertamento; la contestazione degli addebiti; l’ordinazione-ingiunzione. 85 europeo. Per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e più in generale agli uffici pubblici, gli artt. 51, comma 1, e 97, comma 3, pongono il principio di eguaglianza e il principio di concorso pubblico. I procedimenti di tipo competitivo o concorsuale hanno la funzione specifica di selezionare gli aspiranti a una risorsa scarsa in base ad alcuni principi generali: il principio di pubblicità, che consente a tutti gli interessati di aver notizia della procedura che sta per essere avviata; il principio di parità di trattamento che ha lo scopo di mettere sullo stesso piano tutti gli aspiranti; il principio di trasparenza della procedura, che consente un controllo sulla corretta applicazione dei criteri di selezione; il principio di oggettività dei criteri, che fa privilegiare, dove possibile, principi di riferimento che non lasciano spazi di discrezionalità, o che comunque tende a promuovere la non arbitrarietà dei giudizi valutativi e della formulazione delle graduatorie. Un esempio di questa tipologia di procedimenti è il concorso per l’accesso agli impieghi pubblici che costituisce la modalità ordinaria per il reclutamento del personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. e) L’accesso ai documenti amministrativi. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi è disciplinato, oltre che dalla l. n. 241/1990, dal regolamento attuativo approvato con d.p.r. 12 aprile 2006, n. 184. Il procedimento di accesso è a iniziativa di parte e si apre con la richiesta presentata dal soggetto interessato. La richiesta va rivolta a una pubblica amministrazione. Essa può riferirsi soltanto a documenti ben individuati e già formati. Il d.p.r. n. 184/2006 distingue due modalità di accesso, formale e informale. L’accesso informale si può avere quando non ci sono soggetti controinteressati per i quali si ponga un problema di riservatezza e in questo caso la richiesta può anche essere verbale (art. 5). Essa è esaminata immediatamente e senza formalità ed è accolta senza l’adozione di un particolare atto, ma tramite l’esibizione del documento o l’estrazione di copia. L’accesso formale è necessario nei casi in cui l’amministrazione riscontri l’esistenza di potenziali controinteressati, o quando nascono dubbi sulla legittimazione del richiedente sotto il profilo dell’interesse o sulla accessibilità di un documento in base alle norme sull’esclusione e in altre ipotesi che richiedono una valutazione più approfondita (art. 6, comma 1). La richiesta deve essere presentata per iscritto e deve indicare gli estremi del documento o gli elementi che consentano di individuarlo. Inoltre essa deve essere motivata. Il procedimento di accesso deve concludersi entro 30 giorni dalla richiesta. Finito il termine la richiesta “si intende respinta” (art. 25, comma 4, l. n. 241/1990). L’atto di accoglimento della richiesta indica l’ufficio e il periodo di tempo (almeno 15 86 giorni) concesso per prendere visione o per ottenere copia dei documenti (art. 7 del d.p.r. n.184/2006). Il procedimento può concludersi, oltre che con un provvedimento che concede o nega l’accesso, anche con un provvedimento che dispone il differimento dell’accesso. Infatti, l’accesso non può essere negato quando possa essere sufficiente far ricorso al potere di differimento. Quest’ultimo si giustifica nei casi in cui l’accesso possa compromettere il buon andamento dell’azione amministrativa (art. 24, comma 4, l. n. 241/1990), fermo restando che una volta concluso il procedimento non c’è alcuna ragione per non rendere disponibile agli interessati l’intera documentazione. Un caso importante di differimento previsto per legge riguarda l’accesso ai documenti nei procedimenti per l’affidamento di contratti pubblici, in relazione all’esigenza di non compromettere la regolarità della procedura. Infatti l’art. 13 Codice dei contratti pubblici vieta l’accesso all’elenco dei soggetti che hanno presentato l’offerta fino alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte. Contro il diniego espresso o tacito dell’accesso (anche differimento) può essere proposto un ricorso giurisdizionale entro 30 giorni davanti al giudice amministrativo. In alternativa al ricorso giurisdizionale, la l. n. 241/1990 prevede un ricorso di tipo amministrativo attuabile, a seconda dei casi, davanti al difensore civico o alla Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri (art. 25, comma4, e art. 27) che si devono pronunciare entro 30 giorni. Finito questo termine, il ricorso si intende respinto e può essere proposto ricorso in sede giurisdizionale. 87 CAPITOLO 6 I controlli Premessa. La funzione di controllo consiste nel monitorare l’attività posta in essere dalle strutture operative. È una funzione accessoria e strumentale, cioè al servizio di una funzione principale. Ci sono numerosi modelli di controllo. Per esempio, secondo il codice civile, la società per azioni include tra gli organi essenziali, accanto all’assemblea e al consiglio di amministrazione, un organo di controllo interno, cioè il collegio sindacale. Nel settore del no profit, l’amministrazione delle fondazioni è sottoposta al controllo e alla vigilanza dell’autorità governativa. In ambito giuridico il controllo può essere definito come “verificazione di regolarità di una funzione propria o aliena” o come “un giudizio di conformità a regole, che comporta in caso di difformità una misura repressiva o preventiva o rettificativa” [Giannini 1974, 1264]. I principali elementi costitutivi del controllo sono: il soggetto titolare del potere di controllo; il destinatario del controllo; l’oggetto del controllo; il criterio o standard di valutazione; le misure che possono venire adottate all’esito del controllo. 1. Il soggetto titolare del potere di controllo, a livello statale è la Corte dei conti, cioè un organo giurisdizionale “che esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del governo e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato e partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria” (art. 100, comma 2). La Corte dei conti è inserita dalla Costituzione tra gli organi ausiliari del governo (Parte II, Titolo III, Sezione III) ed è composta da magistrati assunti in massima parte per concorso. La Corte riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito. A volte il soggetto titolare del potere di controllo è posto in una posizione di sovra ordinazione rispetto al destinatario del controllo. 2. I destinatari del controllo possono far parte della stessa organizzazione in cui è fondato l’organo di controllo e in questo caso si parla di controllo interno, oppure possono appartenere a un soggetto diverso e si parla di controllo esterno (la Corte dei conti nei confronti delle ammirazioni statali). Destinatari dei controlli esterni di tipo amministrativo possono essere sia i soggetti pubblici sia soggetti privati che svolgono determinate attività. In senso generico si parla di funzione di vigilanza che è attribuita in via continuativa da organi e apparati appositamente istituiti (aziende sanitarie locali, vigili del fuoco, ecc.). La funzione di vigilanza ha diversi poteri istruttori (accessi, ispezioni ecc.) e decisori (ordini, sanzioni, ecc,). 90 CAPITOLO 7 La responsabilità Premessa. I modelli di responsabilità della pubblica amministrazione affermatisi a livello europeo sono due. Il primo, adottato in Gran Bretagna, si fonda sul principio della responsabilità personale del dipendente pubblico nei confronti dei terzi danneggiati, responsabilità che entro certi limiti può essere estesa dalla legge agli apparati al servizio dei quali opera il dipendente. Il secondo modello, adottato in Germania, si fonda sul principio opposto alla responsabilità oggettiva indiretta dell’apparato nella sua veste di datore di lavoro del dipendente che ha posto in essere l’illecito. L’art. 28 della Costituzione e gli sviluppi successivi. Le responsabilità della pubblica amministrazione in Italia trova fondamento nell’art. 28 Cost. La disposizione stabilisce che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione dei diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. Il richiamo alle legge civili rinvia alle norme codicistiche sulla responsabilità contrattuale, extracontrattuale e precontrattuale. A prima vista, l’art. 28 sembra porre in primo piano la responsabilità personale del dipendente e solo in via subordinata, per estensione, la responsabilità dell’apparato. Più precisamente quest’ultima sembra avere carattere: sussidiario, perché il danneggiato deve proporre l’azione per danni in prima battuta nei confronti del dipendente pubblico e può agire contro l’amministrazione solo nei casi in cui quest’ultimo non abbia un patrimonio capiente; parallelo, perché può sorgere se e solo se sussista una responsabilità personale del dipendente. L’interpretazione dell’art. 28 è stata invece nel senso di ritenere che la responsabilità del dipendente e dell’amministrazione abbia natura solidale e non necessariamente parallela. Già prima della Costituzione la responsabilità degli apparati pubblici derivante da comportamenti illeciti veniva ricostruita come responsabilità diretta che sorge in base al cd. rapporto organico intercorrente tra l’agente e l’amministrazione di appartenenza. A quest’ultima si imputa direttamente l’attività dell’agente, sia che essa si esprima in provvedimenti amministrativi, sia che essa si esprima in comportamenti. Ciò perché da un punto di vista formale, non è il dipendente 91 pubblico che opera, ma è l’ente di appartenenza. Pertanto, anche in caso di attività illecita posta in essere dal dipendente nell’ambito delle mansioni alle quali è adibito, la responsabilità sorge esclusivamente in capo alla pubblica amministrazione. Solo per alcune categorie particolari di dipendenti pubblici (giudici, cancellieri, ufficiali giudiziari, conservatori dei registri immobiliari, ecc.) leggi speciali antecedenti alla Costituzione avevano previsto una responsabilità personale del dipendente con esclusione della responsabilità dell’apparato. L’applicazione alla pubblica amministrazione dei principi di diritto comune in tema di responsabilità subì peraltro inizialmente numerose deroghe. Da un lato, leggi speciali riferite a particolari tipi di attività connesse a servizi pubblici ponevano limiti alla responsabilità del gestore. Dall’altro lato, interpretazioni giurisprudenziali ritennero incompatibile l’applicazione di alcune regole civilistiche alla pubblica amministrazione. La giurisprudenza ha via via superato molte interpretazioni volte a riconoscere alla pubblica amministrazione aree di immunità. Esempio: ha applicato l’art. 2050 all’attività di gestione di linee elettriche ad alta tensione. Ha affermato che la responsabilità ai sensi dell’art. 2051 per danni da omessa o insufficiente manutenzione delle strade pubbliche è esclusa solo quando vi è un’oggettiva impossibilità di esercizio di un potere di controllo a causa della notevole estensione del bene e dell’uso generalizzato da parte di terzi. Anche la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali varie leggi che riconoscevano esenzioni dalla responsabilità a favore dell’amministrazione. In definitiva, l’evoluzione normativa e giurisprudenziale è stata nella direzione di far confluire sempre più la responsabilità della pubblica amministrazione nel diritto comune. La responsabilità civile da comportamento illecito. Il modello di responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi agenti riferita a semplici comportamenti tiene distinti tre rapporti fondamentali: 1. il rapporto tra terzo danneggiato e il dipendente pubblico che ha posto in essere il comportamento illecito; 2. il rapporto tra il terzo danneggiato e la pubblica amministrazione in cui è fondato il dipendente pubblico; 3. il rapporto interno tra dipendente e amministrazione di appartenenza. In primo luogo, la responsabilità del funzionario e dell’amministrazione per danni provocati a terzi è una responsabilità diretta di tipo solidale. Il danneggiato può scegliere liberamente se agire contro il dipendente, contro l’amministrazione o contro entrambi (art. 22 Testo unico sugli impiegati dello Stato). In secondo luogo, l’area della responsabilità della pubblica amministrazione è più grande di quella della responsabilità del dipendente. Infatti, la responsabilità personale di quest’ultimo per danni provocati nell’esercizio delle funzioni alle quali è 92 preposto è limitata ai casi di dolo e colpa grave (art. 23 Testo unico). In terzo luogo, l’amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente può esercitare un’azione di regresso contro quest’ultimo secondo i principi della responsabilità amministrativa (art. 22 Testo unico). Bisogna distinguere l’illecito riferito a semplici comportamenti degli agenti della pubblica amministrazione e illeciti conseguenti l’emanazione di provvedimenti amministrativi. Quest’ultimo rientra nella categoria di danni conseguenti a un incidente stradale causato da un automezzo militare; quelli subiti da uno scolaro non sorvegliato adeguatamente dall’insegnante, ecc. La condotta illecita deve essere imputabile all’agente in base all’art. 2046 cod. civ., che esclude che l’imputabilità in caso di incapacità di intendere e di volere al momento in cui la condotta è stata posta in essere. Inoltre deve essere riferibile all’amministrazione in base al rapporto di immedesimazione organica. Quest’ultimo può spezzarsi solo nei casi in cui il dipendente agisce per scopi personali ed egoistici al di fuori delle propri doveri. Cioè affinché nasca la responsabilità occorre un legame di “occasionalità necessaria” tra attività illecita e mansioni del dipendente e a questo scopo occorre verificare se il comportamento colposo o anche doloso sia comunque riconducibile a un interesse dell’amministrazione. Analizzando il requisito della colpa bisogna soffermarsi sul rapporto tra colpa e discrezionalità. La giurisprudenza afferma il principio secondo cui il potere discrezionale dell’amministrazione incontra un limite, non soltanto nelle disposizioni di legge e di regolamento che stabiliscono determinate modalità di comportamento, ma anche nelle comuni regole di diligenza e prudenza. In altre parole, l’amministrazione nell’operare le scelte discrezionali è tenuta al rispetto del principio generale del neminem ledere. Quanto al requisito dell’ingiustizia del danno la giurisprudenza costante (monolitica; pietrificata), prima della svolta operata dalle Sezioni Uniti della Corte di cassazione con la sentenza n. 500/1999, riteneva che potesse essere definito come ingiusto ai sensi dell’art. 2043 il danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo e non anche quello conseguente alla lesione di un interesse legittimo. Veniva così esclusa la risarcibilità dei danni causati da provvedimenti amministrativi illegittimi, mentre essa era ammessa con riguardo a tutta l’area dei meri comportamenti degli agenti della pubblica amministrazione. Quest’ultimi, ove poste in essere contra jus, determinano una lesione di una situazione giuridica soggettiva di diritto soggettivo in senso proprio in capo al danneggiato. Peraltro, già prima della sentenza n. 500/1999 la giurisprudenza aveva esteso l’ambito della responsabilità della pubblica amministrazione a fattispecie nelle quali emergeva un collegamento almeno indiretto con l’esercizio di poteri amministrativi che incidono negativamente sulla sfera giuridica del destinatario ai quali 95 la responsabilità degli Stati membri nei confronti dei terzi in relazione alla violazione del diritto europeo. Per il primo profilo c'è la disposizione fondamentale è l'art. 340 TFUE. I presupposti sostanziali delle istituzioni comunitarie deducibili da tale articolo sono tre: un comportamento contro il diritto riferibile a un'istituzione comunitaria; l'esistenza di un danno; il nesso di casualità. Per la responsabilità degli stati membri è importante la sentenza Francovich (19 novembre 1991, in cause riunite C-6 e 9/90). Il caso riguardava il mancato accoglimento da parte della Repubblica italiana di una direttiva europea (80/987/CEE) entro il termine prescritto. La sentenza enuncia tre presupposti in presenza dei quali può nascere una tale responsabilità: che la direttiva comporta l'attribuzione di diritti a favore dei singoli; che i contenuti di questi diritti posa essere individuato sulla base della direttiva stessa; che esiste un legame di casualità tra la violazione dell'obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. La sentenza Lomas del 23 maggio 1996, in causa C-5/94 stabilisce il principio secondo il quale la responsabilità dello stato può nascere non solo in base a un atto normativo, ma anche a un atto amministrativo adottato in violazione del diritto europeo. La responsabilità amministrativa. Quando l’amministrazione deve risarcire un terzo del danno provocato dal comportamento illecito, la somma corrisposta al terzo costituisce un danno all’erario del quale l’amministrazione si rivale sul proprio dipendente (danno erariale indiretto). A parte questo, la responsabilità amministrativa riguarda ogni genere di danno causato all’amministrazione dal proprio dipendente che determini una diminuzione patrimoniale o un mancato incasso dello Stato (danno erariale diretto). Esempi di danno erariale sono i danni arrecati ad attrezzature e macchinari dell’amministrazione, consulenze non necessarie affidate a professionisti esterni, ecc. La responsabilità amministrativa ha una finalità essenzialmente risarcitoria, ma in alcuni casi particolari viene fuori anche una finalità sanzionatoria. Questo tipo di responsabilità, sotto il profilo soggettivo, viene applicato ai funzionari, impiegati, agenti pubblici e amministratori delle amministrazioni pubbliche statali e non statali e di enti pubblici (aziende sanitarie locali, enti parastatali, ecc.). La Corte di cassazione (Sezioni Unite 19 dicembre 2009, n. 26806) ha affermato in linea di principio che le società pubbliche non rientrano nell’area della pubblica 96 amministrazione. Sotto il profilo oggettivo, la responsabilità nasce in relazione “ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo e colpa grave” (art. 1, comma 1, l. n. 20/1994). Il “danno obliquo” (art. 1, comma 4, l. n. 20/1994) può venir fuori nel caso di un dipendente pubblico distaccato o comandato presso un’altra amministrazione, o nel caso di un componente di un consiglio di amministrazione di un ente pubblico nominato da un ministero o altro ente. Il diritto al risarcimento del danno si stabilisce in 5 anni dalla data in cui il fatto si è verificato, o , in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta (art. 1, comma 2, l. n. 20/1994). Ai fini della quantificazione del danno erariale, vanno valutati la diminuzione patrimoniale o la mancata entrata in parte dell’amministrazione. Al danno patrimoniale si aggiunge in alcuni casi il danno all’immagine dell’amministrazione, per esempio nel caso di riscossione di tangenti da parte di amministratori per il compimento di atti in violazione dei doveri d’ufficio. Sotto il profilo processuale, la responsabilità amministrativa viene accertata in un giudizio davanti alla Corte dei conti. L’iniziativa processuale spetta alla Procura regionale della Corte dei conti competente. La Procura agisce d’ufficio o anche su denunzia dei direttori generali e dei capi di servizio che vengono a conoscenza di fatti soggetti a costituire un illecito erariale (art. 53 testo unico Corte dei conti). 97 Parte III: profili organizzativi CAPITOLO 8 L’organizzazione Nozione, fonti normative e principi generali. L'organizzazione può essere definita come una unità di persone, strutturata e gestita su base costitutiva allo scopo di perseguire scopi comuni che i singoli non sarebbero in grado di raggiungere individualmente. Ogni organizzazione ha una propria struttura gestionale che stabilisce le relazioni tra le funzioni e i ruoli e attribuisce compiti e responsabilità ai singoli appartenenti. C'è una distinzione tra organizzazioni informali o di fatto (clan, gruppo sportivo, ecc.) e organizzazioni formali o di diritto (partito politico, fondazione, ecc.). L'organizzazione politica è disciplinata nel nostro ordinamento da una pluralità di fonti che regolano la struttura degli apparati amministrativi in modo molto preciso rispetto alle organizzazioni private (associazioni, società, fondazioni). L'organizzazione delle pubbliche amministrazioni è citata nella Costituzione che esprime alcuni principi generali: il principio del buon andamento, il principio di imparzialità, il principio di pubblicità e trasparenza, il principio autonomistico. Prima di tutto l'art. 97 Cost. contiene una riserva di legge relativa connessa all'organizzazione dei pubblici uffici e fonda i primi due principi sopra detti (comma 1). 1. Il principio del buon andamento è citato anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che richiama “il diritto a una buona amministrazione” (art. 41). In esso ci sono diverse disposizioni legislative, come il divieto di aggravare il procedimento con adempimenti non necessari, la tempestività dell'azione amministrativa, il reclutamento del personale in base a concorso e secondo le esigenze effettive rappresentate nelle piante organiche, ecc. 2. Il principio di imparzialità, applicato all'organizzazione, prima di tutto si esprime nella regola del concorso per l'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni (art. 97, comma 3). Inoltre pone regole in modo che la politica non si intrometta nell'amministrazione e soprattutto nel principio della distinzione tra funzioni di indirizzo e di controllo proprie dei vertici politici delle amministrazioni e funzioni di gestione riservate ai dirigenti. Sta alla base dell’obbligo del responsabile del procedimento e dei titolari degli uffici dichiarare situazioni di conflitto di interessi e pertanto astenersi dall’esercizio dei propri poteri. È sotteso al principio della rotazione degli incarichi dirigenziali anche a fini di anticorruzione. Anche la regola del concorso