Scarica Riassunto COMPLETO - Fondamenti di procedura penale (Camon, Cesari - 2023) e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! CAMON, CESARI, DANIELE, DI BITONTO, NEGRI, PAULESU Fondamenti di procedura penale Cedam, Padova Pagine/Capitoli: TUTTI ad eccezione della parte III: - cap. XVI: “I PROCEDIMENTI SPECIALI” - cap. XIX: “L’INGIUSTIZIA RISARCITA” - cap. XX da par. 6 a par. 17: “L’ESECUZIONE” - cap. XXI: “LA COOPERAZIONE GIUDIZIARIA INTERNAZIONALE” Nonché tutta la Parte IV FONDAMENTI DI PROCEDURA PENALE (Terza edizione - CEDAM) PARTE I - I principi CAPITOLO I - SFONDI 1. Le forme del processo Uno dei capostipiti della Scuola classica, Francesco Carrara, definiva il processo penale come «una serie di atti solenni, coi quali certe persone a ciò legittimamente autorizzate, osservato un certo ordine e forma determinata dalla legge, conoscono dei delitti e dei loro autori, affinché la pena si storni dagli innocenti e si infligga ai colpevoli». Un secolo più tardi, Salvatore Satta parlerà del processo come d’«un atto […] per definizione antirivoluzionario», tanto che «chi fa la rivoluzione, non può volerlo senza in qualche misura negare sé stesso». Perciò – proseguiva – “processo rivoluzionario” è «formula […] priva di senso; se il giudizio è giudizio, non è rivoluzionario; se è rivoluzionario, non è giudizio» . E – siamo ormai ai giorni nostri – pare che Giuseppe De Luca abbia iniziato un corso universitario dicendo: «ciò che distingue la violenza del bandito o quella del giustiziere da quella del poliziotto, è la divisa» 3. Da prospettive, in tempi e con parole diverse, i tre maestri dicono la stessa cosa: richiamano l’attenzione sul processo come fenomeno regolato: regolato da norme, secondo forme (gli atti solenni sono quelli a più alto tasso di formalità; la rivoluzione punta ad abbattere le regole portanti d’un ordinamento, sostituendole con altre; la divisa è una forma). Siamo in effetti di fronte ad una delle caratteristiche eminenti del processo penale; in certi contesti storici e sociali, il senso delle forme è tale da far emergere anche un aspetto spettacolare e liturgico (un sinonimo di processo è “rito”, che viene da ritus, cerimonia): si pensi al dibattimento del processo accusatorio statunitense, che non per caso ha ispirato un cospicuo filone della cinematografia hollywoodiana; o, più vicine a noi, alle toghe indossate da magistrati ed avvocati, che mostrano appunto un profilo cerimoniale: l’udienza è una «specie di sacra rappresentazione, colla sua liturgia e i suoi paramenti». Ma a cosa servono, nel processo, regole e forme? Capirlo significa accostarsi al cuore della nostra materia. Un primo scopo è legato al significato etimologico del termine processo: processus evoca l’idea d’una via, d’un cammino, d’un avanzamento; i processi sono successioni di atti che si snodano da uno stato iniziale di dubbio e marciano verso uno stato di (relativa) certezza; sono «macchine retrospettive miranti a stabilire se qualcosa sia avvenuto e chi l’abbia causato». Regole e forme mirano anzitutto a questo: a guidare, aiutare, indirizzare un percorso di conoscenza. Una cospicua parte delle attività che vengono compiute sul teatro del processo si presta ad essere interpretata proprio in questa chiave: «le parti che hanno agito, coloro che si sono trovati attorno all’azione o nelle situazioni obiettive derivate dall’azione, o testimoni delle modificazioni che l’azione come un piccolo esplosivo ha portato nella realtà, i tecnici che sono competenti a giudicare di queste situazioni e modificazioni, i giuristi che hanno la capacità di esprimere in modo riflesso e razionale le pretese e le difese immediate delle parti e degli imputati; gli ausiliari che assistono il giudice in questo raccogliere tutte queste cose e questi elementi, il giudice stesso, non sono altro che persone le quali si fermano a ripensare quello che è già stato […], a fermare e a rivivere il già vissuto». Ed è un obiettivo ambizioso: c’è «qualche cosa di magico nel processo: un far ricomparire presente quello che è passato, un far tornare immediato quello che è sparito nella sua immediatezza, un far ripresentare vivi sentimenti che sono spenti, e insieme, più singolare ancora, far tornare integra una situazione che si è scomposta». Su questo punto occorre intendersi: al termine del giudizio, quando l’imputato viene dichiarato innocente o colpevole del reato che gli è stato attribuito, il giudice s’esprime in termini di certezza; ma si tratta d’una convenzione: la certezza, la conoscenza assoluta, sono traguardi ideali, ai quali si può tentare d’avvicinarsi ma che non verranno mai pienamente raggiunti. L’unica conoscenza alla quale si Fenomeni di questo tipo sono facilmente registrabili anche da noi, dove la storia della procedura penale segna un movimento a pendolo fra le ragioni dell’efficienza e quelle del garantismo, fra le ragioni dell’autorità e quelle della libertà. Piero Calamandrei ha scritto che il diritto processuale è «una fragile rete dalle cui maglie preme e a volte trabocca la realtà sociale» 22: nei periodi di pace, tranquillità, coesione sociale, la rete tiene; nei periodi d’emergenza, tracimano pulsioni autoritarie. È insomma una questione di prospettive: «Se esaminate le formalità della giustizia in relazione alla fatica che fa un cittadino per farsi restituire quello che è suo, o per ottenere soddisfazione di un’offesa, ne troverete senza dubbio troppe. Se le considerate nel rapporto che hanno con la libertà e la sicurezza dei cittadini, ne troverete spesso troppo poche; e vedrete che le fatiche, le spese, le lungaggini, perfino i rischi della giustizia, sono il prezzo che ogni cittadino paga per la propria libertà» 23. Chi s’avvicina allo studio di questa materia, dovrebbe considerare come suo compito principale quello di guardare le regole che incontrerà, tutte le regole, dalla più potente enunciazione della presunzione d’innocenza dell’imputato sino alla più minuta fra le disposizioni sulle notificazioni, tenendo sempre presente queste due esigenze: scoprire se un reato è stato compiuto e chi ne sia il responsabile; farlo sacrificando il meno possibile i diritti altrui. 2. Diritto e processo In ambito penale, i nessi fra diritto sostanziale e processo sono più stretti che in altri settori dell’ordinamento. Nel diritto civile, in particolare, l’azione dei privati può da sola costituire, modificare o estinguere situazioni giuridiche: per trasferire un diritto reale, per contrarre matrimonio, per concludere un contratto, per disporre d’un bene mortis causa, non è necessario l’intervento d’un giudice. Invece il diritto penale vive solo nel processo: in forza del principio nulla poena sine iudicio, le conseguenze sanzionatore minacciate dalla fattispecie astratta possono essere irrogate concretamente solo all’esito d’un procedimento giurisdizionale; fuori dal processo, il penale è un diritto invisibile. Questo strettissimo collegamento fra diritto e processo è stato tradizionalmente descritto (spesso lo è ancora) evocando l’idea d’una strumentalità: il processo avrebbe carattere ancillare rispetto al diritto sostanziale, ne sarebbe appunto uno strumento, perché servirebbe soltanto per applicare le sue norme. In realtà, il rapporto fra i due rami dell’ordinamento è più complicato. È vero che, senza una sentenza irrevocabile, la pena non può essere applicata (e in questo senso il processo può effettivamente essere concepito come uno strumento del diritto sostanziale). Ma prima che il giudicato arrivi, cioè durante tutto l’arco del procedimento, il rapporto è invertito: la fattispecie incriminatrice astratta si proietta sull’imputazione (cioè – adoperando per ora parole volutamente generiche e imprecise – sull’atto con cui il pubblico ministero incrimina un soggetto); nella concretezza del processo, «chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto» (art. 624 comma 1 c.p.), diventa: “Tizio, approfittando d’una momentanea distrazione di Caio, che aveva lasciato incustodito il suo smartphone, modello Iphone12, del valore approssimativo di ottocento euro, sulla panchina dello spogliatoio della palestra Olimpia, sita in Parco della Vittoria, 11, se ne impadroniva e scappava all’esterno; fatto commesso in Bologna, l’8 gennaio 2021”. A sua volta l’imputazione fissa il tema del processo, con ricadute a cascata su una lunga serie d’istituti ulteriori (per menzionarne uno soltanto, le prove: saranno ammesse se mostrano una certa relazione con l’imputazione, respinte in caso contrario); qui è dunque il diritto penale sostanziale a servire e guidare il processo. Da qualche decennio, l’idea del processo come servo del diritto sostanziale è perciò oggetto d’una rimeditazione; la dottrina più recente tende semmai a parlare di «strumentalità speculare» o «reciproca» fra diritto e processo. Occorre inoltre tenere presente che la abnorme dilatazione dei tempi della giustizia spinge la prospettiva d’una condanna verso un futuro lontano e incerto, scaricando sul processo le aspettative d’una pronta difesa sociale; e così gli istituti processuali di fatto non vengono usati soltanto come tappe d’un iter volto a raggiungere l’accertamento finale (dal quale soltanto potrà conseguire la punizione); diventano anche mezzi per placare l’allarme sociale cagionato dal reato, per condizionare i comportamenti e le ideologie della collettività; in altre parole, non sono soltanto strumenti per 4 attuare il diritto penale bensì forme autonome di controllo sociale. L’esempio più evidente è offerto dalla custodia cautelare, che nella prassi viene spesso adoperata (illegittimamente) come surrogato d’una sanzione che arriverà – se mai arriverà – molto più tardi. È importante infine considerare che diritto e processo sono due componenti inscindibili della politica criminale, tanto che spesso il legislatore interviene in uno dei due rami per ottenere effetti sull’altro o per risolvere problemi nati nell’altro o per aggirare garanzie tipiche dell’altro. Un filone emblematico di questi indirizzi è rappresentato dalle fattispecie incriminatrici che vengono pensate e costruite in funzione del processo. L’esempio più ovvio viene dai reati contro l’amministrazione della giustizia, ma ce ne sono molti altri. Pensiamo ai reati di sospetto (quali gli artt. 707 e 709 c.p.): un determinato comportamento viene punito non perché sia in sé dannoso o pericoloso, ma perché lascia presumere l’avvenuta o la futura commissione di altri reati, che non si è riusciti a dimostrare; in questi casi l’incriminazione punta a risolvere un problema processuale, una questione d’onere probatorio. Lo stesso vale per i delitti associativi, che nascono per liberare il pubblico ministero dall’onere di dimostrare la commissione del reato-scopo. In una prospettiva simile possiamo ricordare l’incriminazione del rifiuto d’un conducente di soffiare nell’etilometro (art. 186 comma 7 c. strada); il principio nemo tenetur se detegere renderebbe sospetta una disposizione che forzasse l’imputato ad offrire la prova della sua responsabilità; ed allora, siccome non riesce a provare per questa via che il conducente è ubriaco, il legislatore disegna una fattispecie incriminatrice vicaria rispetto alla guida in stato d’ebrezza, punita con la stessa pena e che scatta appunto in caso di rifiuto di respirare nell’etilometro; anche qui, il reato viene costruito per risolvere una difficoltà processuale. Pensiamo infine ai casi, sempre più numerosi, in cui i livelli edittali d’una determinata fattispecie di diritto sostanziale vengono calibrati non già sull’effettivo disvalore del fatto bensì sugli effetti processuali che dalla soluzione prescelta deriveranno; accade infatti che il legislatore, quando introduce un nuovo reato, ne mantenga la pena al di sopra d’una certa soglia perché in questo modo sarà possibile disporre una misura cautelare coercitiva (art. 280) o un’intercettazione (art. 266); oppure sarà più difficile definire il processo con un patteggiamento (art. 444); e così via. Dal 1938, la procedura penale costituisce oggetto d’un insegnamento universitario autonomo; fino ad allora (se si eccettua un effimero accorpamento alla procedura civile), le regole sul processo erano state un capitolo (di solito, un capitolo negletto 30) interno alla teoria del diritto penale. Questa scissione ha avuto molte ricadute positive: ha permesso di approfondire i meccanismi del processo, di far crescere una scienza fino ad allora trascurata, di allevare generazioni di studiosi pronte a combattere per alcuni ideali; senza quella separazione, forse oggi i principi del giusto processo non figurerebbero nella Costituzione. Ma quell’emancipazione da un genitore ingombrante si trascina dietro anche un rischio: dimenticare il sistema, perdere di vista l’insieme. Sebbene sia difficile e faticoso, lo studente che si sta avvicinando ai principi della procedura penale dovrebbe cercare di fronteggiare il rischio tenendo vive dentro di sé, quanto più possibile, le nozioni apprese con lo studio del diritto penale sostanziale. 3. Diritto processuale penale e procedura penale Sia nella legislazione sia nella letteratura scientifica, la materia che stiamo presentando oscilla fra due denominazioni: “diritto processuale penale” e “procedura penale”. Le formule si somigliano, ma non dicono esattamente la stessa cosa. 5 Da una parte, “procedura” mette l’accento su un cammino, un percorso, un’attività, mentre “diritto” evoca un mondo di valori, limiti, esigenze da salvaguardare; la prima in qualche misura evoca un «processo deteriore», la “processura” a cui erano rivolte le trattazioni dei secoli andati, lo strumento malleabile affidato all’onnipotenza dell’inquisitore; il secondo allude ad un congegno preciso, regolato, che incontra limiti effettivi, rappresentati appunto dai diritti. Dall’altra parte, il diritto processuale penale è una branca del sapere che studia, con metodo tecnico, un fenomeno normativo, ossia la regolamentazione legale alla quale soggiace l’attività del ius dicere in materia criminale; non tanto il processo dunque, quanto le norme che regolano il processo. Ma «esistono un diritto libresco e uno vivo, attuato da quanti esercitano i relativi poteri», e di quest’ultimo si occupa la procedura: essa cioè analizza un fenomeno sociale, non solo normativo; un fenomeno fatto anche di prassi, strutture, assetti ordinamentali, opinioni legate al diritto, ideologie della magistratura e del singolo giudicante. Da entrambi i punti di vista, procedura è un termine più completo. Dal primo, non c’è dubbio che distanze siderali separino il processo odierno dagli incubi sei o settecenteschi; eppure, la legge processuale è ancor oggi esposta al rischio d’essere vissuta come un intralcio, un intoppo inutilmente formalistico, posto al servizio d’interessi trascurabili; larghi settori della magistratura mostrano compiacenza verso l’idea d’un diritto “minore”, suscettibile d’essere manipolato senza tanti riguardi. È un atteggiamento che uno dei più illustri studiosi della materia ha descritto mirabilmente: «nella scala tecnica del discorso giurisprudenziale la procedura sta all’ultimo posto; il tasso di fallibilità tocca soglie allarmanti: lo speculum annovera letture spericolate, evasioni sintattiche, massime elusive». Dal secondo punto di vista, è importante che lo studente, al quale soprattutto questo manuale è destinato, tenga presente che i testi delle leggi gli offrono una raffigurazione parziale, perché il processo, ogni processo, è prodotto dalle disposizioni ma anche da uomini in carne e ossa, da ideologie, ambizioni, corpi che premono, media che condizionano, prassi, legittime, discutibili o devianti, tattiche, strategie, trabocchetti, trattative, ricatti, poteri e abusi di potere; il processo, ogni processo, è diritto ma non è soltanto diritto; è anche procedura. CAPITOLO II - MODELLI E CONCEZIONI Sezione I - Matrici storiche e culturali 1. La persistente vitalità dell'antitesi tra modello accusatorio e inquisitorio del processo penale Al fine di scandagliare i problemi ‘eterni’ del processo penale ogni epoca storica elabora e adotta proprie categorie di riferimento, individuando volta a volta soluzioni differenti. Le une e le altre sono espressione di un insieme di presupposti politici, istanze culturali, indirizzi di metodo necessariamente condizionati dall’assetto normativo vigente, metabolizzato anche solo per creare le premesse del suo superamento. Il criterio di classificazione di gran lunga più diffuso e longevo punta sull’antitesi tra modello accusatorio e configurazione inquisitoria del processo penale. Per la nostra disciplina giuridica in generale, e alla luce delle vicissitudini riguardanti la giustizia penale italiana in particolare, la sua importanza è addirittura monumentale. Tenteremo di spiegare perché, sebbene logorata dall’impiego ripetuto in forma di stereotipo, quella opposizione di termini conservi efficacia sia connotativa del fenomeno processuale osservato, esprimendo un preciso giudizio di valore; sia prescrittiva, in vista cioè delle principali opzioni di sistema: tanto di natura interpretativa rispetto alle norme esistenti, quanto rivolte al rinnovamento legislativo. Ciò rende ancora preferibile ad altre tassonomie la classica bipartizione delle forme processuali in accusatoria e inquisitoria; a patto però di recuperarne lo spirito autentico dall’esperienza storica, la più lontana come pure quella molto prossima a noi. Bisogna premettere che l’utilità dello schema tradizionale sopra indicato è oggi controversa e, talvolta, apertamente negata; parte della dottrina è disposta a riconoscergli al massimo un rilievo puramente didascalico: vecchio arnese polveroso servito a nobili cause, ma incapace di stare al passo 6 davanti ad un giudice tendenzialmente privo di poteri istruttori e chiamato a valutare le prove addotte dalle parti, alla cui formazione assistite direttamente (principio di immediatezza), in base al proprio libero convincimento. L’udienza è pubblica, in modo che i cittadini controllino come viene amministrata la giustizia scoraggiando gli abusi. La condizione dell’imputato durante il processo, almeno di regola, è quella di persona libera, mentre l’esercizio residuale dei poteri coercitivi, vissuto come “immoralità necessaria”, rimane subordinato a rigorosi presupposti che ne mantengano la compatibilità con il principio della presunzione d’innocenza. La sfera di autodeterminazione dell’accusato viene tutelata dal diritto al silenzio (nemo tenetur se detegere); il diritto di difesa si dispiega con efficacia lungo tutto l’arco del procedimento, messo in risalto dal principio del contraddittorio e dalla concezione argomentativa della prova che vi si accompagna 2.1. L'ideale accusatorio e la legalità del processo a difesa. dell'innocenza dell'imputato. A dominare gli argomenti e accendere le invettive dell’illuminismo è l’aspirazione alla certezza del diritto e alla sicurezza del singolo individuo nel senso propugnato da Montesquieu e Beccaria, autentici numi del movimento riformatore. L’accento cade sul bisogno per i cittadini di confidare nella tutela della propria libertà da parte dello Stato, tranquillità che non ha peggiore nemico del potere di perseguimento penale scatenato nei confronti del singolo 3. Partendo da questa necessità politica la riflessione sul «metodo di procedura» si affina culturalmente e tecnicamente", diventa anzi prioritaria giacché la libertà e l'innocenza sono elevati a beni supremi da garantire più di ogni altro. Viene portato a piena luce e prende perciò vigore il motivo a lungo incubato dell'ideale accusatorio, ora apertamente eletto e in maniera compiuta a modello ispiratore della struttura processuale poiché meglio in grado di corrispondere a quella capitale esigenza di tutela della difesa. Al tempo stesso, si afferma la forte propensione alla legalità processuale intesa come vincolo per il giudice ai precetti formali nel modo di condurre innanzi il rito penale. Non si sottolinea mai abbastanza come l'appello allo schema processuale accusatorio, ispirato ai canoni della pubblicità, dell'oralità e del contraddittorio, si accompagnasse nelle voci dell'illuminismo alla energica invocazione della categoria della legalità processuale, che muove ora i suoi primi passi in veste di garanzia politica - non soltanto di artificio tecnico - a salvaguardia della difesa. Con maggiore precisione, si fa strada la consapevolezza che la forma sia talmente necessaria al concetto di giustizia da non potersi rinunciare a quella senza tramutare l'altra in pura violenza o macchinazione. Si affaccia l'idea, in altre parole, che al processo penale sia congenito l'esercizio di poteri aggressivi dell'uomo sull'uomo, i quali però mantengono giustificazione solo a patto di rispettare regole predeterminate, dettami della legge da conformare a loro volta ai principi naturali del modello accusatorio. Sullo sfondo di questo rinnovato scenario culturale aveva acquistato crescente importanza la regola principe del processo, esaltata dalla struttura stessa del modello accusatorio e svilita, al contrario, dalle procedure inquisitorie: la presunzione di innocenza dell'imputato. Principio aureo, in un sistema che tollera di esercitare poteri coercitivi sull'individuo solo dopo averne accertato la colpevolezza e, al contempo, criterio guida dello stesso accertamento penale, poiché la presunzione può essere vinta soltanto sulla base di conclusioni in fatto attendibili, affidate a prove elaborate nel contraddittorio tra le parti di fronte al giudice incaricato della decisione finale. In definitiva, il giudizio e l'eventuale pena sarebbero scaturiti da un procedimento mai disposto a compromettere la dignità umana. Ci si avvedeva, cosi, del fatto che la fondazione in senso liberale del diritto penale sostanziale non sarebbe stata garanzia sufficiente da sola a proteggere l'imputato, ma si sarebbe dovuta accompagnare ad una procedura strettamente governata dalla legge, insensibile all'arbitrio del giudice. 3. La legislazione del periodo postrivoluzionario e il compromesso della codificazione napoleonica La produzione legislativa susseguente alla Rivoluzione francese si ispirò ai principi elaborati dal pensiero illuminista, tracciando le linee del nuovo processo penale con l'intento di ridurre il predominio dell'autorità, caratteristico dell'assolutismo appena abbattuto, a tutto vantaggio dei diritti dell'individuo finalmente riscoperti e solennemente proclamati nella Dichiarazione del 1789. Si è soliti individuare nei due Decreti varati a breve distanza (1789-'91) dall'assemblea costituente francese-pur con le opportune cautele - il preludio e la realizzazione rispettivamente di quel sistema processuale a forte impronta accusatoria che era stato a lungo evocato dalla dottrina illuminista sulla scorta del mito dell'antichità classica e soprattutto dell'esempio inglese; l'attuazione, la più vicina 9 all'ideale, del modello basato sui principi dell'oralità, dell'immediatezza e del pubblico dibattimento, archetipo destinato a condizionare - nonostante i travagli della discontinuità storica - il pensiero che sta al fondo delle codificazioni moderne. La legge del 1791, in particolare, abbatté definitivamente il monumento normativo della giustizia di stampo assolutistico-l'Ordonnance criminelle di Luigi XIV, resistita per oltre un secolo - e riorganizzò il processo penale intorno all'istituto cardine della giuria popolare, considerata "palladio di libertà" poiché permetteva di affidare la decisione sulla colpevolezza dell'accusato a cittadini comuni (ai suoi "pari"), estranei all'apparato burocratico dello Stato, così da rendere impermeabile l'accertamento processuale agli scopi della politica criminale e alla volontà esterna del potere costituito, incline per natura alla repressione. Nel contempo la presenza dei giudici "laici", non tecnicamente preparati, sarebbe servita a demolire il sistema delle prove legali associato da secoli alla struttura inquisitoria del processo, la cui complicata amministrazione richiedeva l'opera mediatrice di magistrati esperti di diritto permanenti, di carriera, o, come s'usa dire, togati e deponeva nelle loro mani il peggiore arbitrio. La dunque valutazione delle prove basata sul criterio del libero convincimento fu la conquista avvertita come portato naturale di un processo tipicamente accusatorio, malgrado le degenerazioni inquisitorie che l'affrancamento del giudice dai vincoli della legge finirà per innescare: l'appello al convincimento libero diverrà nel corso del tempo l'alibi utile a scardinare i limiti di garanzia a favore dell'individuo nei confronti del potere punitivo. Quanto all'altro aspetto cruciale dell'impalcatura accusatoria, ossia la modalità di formazione della prova, i giurati avrebbero preso contatto con la materia del processo soltanto attraverso il confronto paritario tra le parti nell'udienza pubblica, ascoltando la viva voce dei testimoni e dell'accusato, mentre un rigido divieto di lettura, funzionale ad esaltare i principi di oralità e immediatezza, precludeva loro la conoscenza dei verbali delle deposizioni raccolte dagli organi istruttori durante le fasi anteriori al dibattimento. Lo stadio preliminare dell'istruzione, autentico baricentro del processo ancien régime, veniva del resto assai ridimensionato e devoluto all'attività di figure diverse dal giudice inquisitore, emblema a sua volta, quest'ultimo, dei vecchi ordinamenti assolutistici. Si tratto di un'esperienza fugace, sufficiente tuttavia a mostrare all'Europa continentale la concreta possibilità che la ricostruzione dei fatti in materia penale (se si preferisce, l'accertamento della verità) potesse essere fondata sulla discussione pubblica dell'accusa nel contraddittorio con la difesa dell'imputato, estromettendo dal bagaglio probatorio del giudice gli atti non garantiti da un analogo contributo dialettico della persona sottoposta a processo. Per questo sembra lecito considerare le riforme approvate sulla spinta della grande Rivoluzione come antenati più prossimi della nostra attuale codificazione processuale, maturata due secoli dopo anch'essa all'insegna del modello accusatorio. La rapida evoluzione storica nella Francia postrivoluzionaria, dipanatasi attraverso i periodi del consolato e dell'impero, segna invece, dal lato della procedura penale, un regresso ai principi inquisitori sino al varo del code d'instruction criminelle del 1808, frutto della restaurazione autoritaria in età napoleonica. Merita accennarne poiché è unanime il riconoscimento del ruolo di capostipite esercitato rispetto agli ordinamenti processuali a venire, compreso il codice italiano d'epoca fascista (1930) rimasto in vigore per quasi sessant'anni. L'eredità lasciata dalla legislazione del primo Ottocento e rivelatasi tanto tenace consiste nella struttura del processo a due arcate consecutive, l'una riedizione delle modalità inquisitorie d'antico regime, l'altra omaggio esteriore alle conquiste di segno accusatorio della Rivoluzione: dapprima la fase dell'istruzione, condotta segretamente dal giudice, mirava alla raccolta delle prove all'insaputa dell'imputato e in assenza di alcun contraddittorio; in seguito il dibattimento pubblico e orale, nel quale l'imputato era assistito dal difensore, fungeva da luogo di discussione critica sui risultati acquisiti in precedenza. In altre parole il codice napoleonico rappresentò il tentativo di mediazione tra metodi processuali opposti e di conciliare, con essi, l'esigenza sociale di repressione dei reati e il diritto dell'accusato di difendersi. Per tale ragione ogni sistema così concepito viene definito «misto», termine che non riesce a celare la natura prevalentemente inquisitoria dell'insieme. se il sistema consente - come il code d'instruction criminelle - di attribuire valore di prova a tutti o quasi gli atti raccolti nella fase preliminare dagli organi incaricati del perseguimento penale, in assenza della difesa, l'oralità del dibattimento scade a mera facciata e dei canoni accusatori restano solo le sembianze, giacché tra i que interessi in gioco è quello dell'autorità a godere del massimo vantaggio. L'insegnamento tornerà utile quando vedremo i motivi per cui non resse l'impianto accusatorio del nostro codice del 1988-'89. 10 4. Scuola “classica” vs. scuola positiva Benché la stagione del processo accusatorio realizzato sia tramontata nel giro di pochissimi anni, soppiantata dalle nostalgie inquisitorie del codice napoleonico e di quelli poi adottati con la restaurazione, l’esperienza illuministica ha lasciato il segno, diffondendo la duplice idea guida che di fronte agli ingranaggi potenzialmente liberticidi della giustizia penale la legge processuale debba ergersi a baluardo dell’imputato contro il potere minaccioso per la sua dignità di uomo, esercitato dalla pubblica autorità; e che il modello processuale adatto a soddisfare l’alta ambizione di tutelare pienamente l’individuo sia l’accusatorio. Si deve alla generazione di giuristi (non più semplicemente filosofi o polemisti) che furono poi accomunati dai loro più tardi oppositori sotto l’etichetta di scuola “classica” il merito d’aver raccolto e sviluppato questo nobile filone di pensiero nel corso dell’Ottocento (all’interno vi erano comunque differenze di posizione tra gli autori). Noi prendiamo in considerazione l’insegnamento di Francesco Carrara (“salvaguardia dei galantuomini”). A partire dalla presunzione d’innocenza, Carrara aggiorna e approfondisce a fil di logica i motivi cari ai progenitori illuministi. Il primo postulato ne chiama in causa altri e figlia una serie di corollari (il contraddittorio, la necessità di una rigorosa dimostrazione della colpevolezza dell’imputato, la natura pubblica e orale dei giudizi, il temperamento della carcerazione preventiva). L’esigenza del limite al potere, in particolare, vi si lega intimamente e ne completa il significato. Da qui la robusta affermazione del principio di legalità processuale, necessario a contenere la «violenza dei magistrati», a restringerne l’operato «nei modi, incatenandoli in una serie di precetti» che siano «freno» all’arbitrio, ostacolo all’errore e per conseguenza «protezione» dell’individuo. Le forme processuali sono «scudo» contro il fanatismo degli organi deputati al perseguimento penale. La scuola “ classica ” si distinse, insomma, per il tentativo generoso di consolidare i termini dell’antitesi tra individuo e autorità nella dialettica del processo; di mostrare cioè l’irriducibile conflitto tra l’interesse dell’imputato a difendere la propria libertà e l’esigenza pubblica di repressione del reato, senza alcuna pretesa di comporre lo scontro ma, anzi, fissando in esso il «principio filosofico» della procedura penale e prodigandosi al contempo per dare la netta prevalenza alle ragioni dell’individuo. I codici dell’Ottocento e della prima metà del XX secolo rispecchiarono poco o per nulla quest’ordine di idee, fermi come restarono allo schema del processo “misto” di estrazione inquisitoria, di modo che la mano dell’autorità statuale non perdesse mai il controllo sulla giustizia penale. Sul piano dottrinale, la scuola “classica” venne trascinata dentro la bufera polemica che impazzò sul finire dell’Ottocento, scatenata da Enrico Ferri con l’avvio di una corrente di studi apertamente avversa alla tradizione liberale quanto ad assunti teorici, indirizzi politici e soluzioni tecniche ad essi conseguenti: nasceva la scuola positiva di diritto criminale , fautrice di una visione integrata del penale con le scienze mediche, antropologiche, sociologiche. Per ciò che attiene più direttamente al processo, il portato del nuovo orientamento consistette nel disfarsi della base costituzionale sulla quale poggiava la costruzione garantista del rito giudiziario, ossia la teoria dualistica dell’antinomia tra Stato e individuo, opponendole la teoria unitaria. Fine esclusivo del processo diviene l’attuazione dell’interesse pubblico mediante la punizione del reo (il delinquente, come si cominciò a chiamarlo considerando costui un essere antropologicamente inferiore) e in nome dell’idolo della «difesa sociale», da quel momento mai più tramontato. Il problema penale, da questa prospettiva, consiste nel proteggere l’organismo sociale dal pericolo della devianza criminale con misure preventive e terapeutico-repressive. I diritti di libertà del cittadino, asserviti a scopi che venivano ritenuti d’ordine superiore, s’indebolivano fino a scomparire assorbiti nelle istanze della collettività, ben presto identificata – di questa concezione, spingendola alle sue logiche conseguenze, seppero profittare i totalitarismi novecenteschi – con l’entità personificata dello Stato. Naturale, perciò, che il postulato della presunzione d’innocenza finisse travolto. Si arriva alla concezione di Vincenzo Manzini , redattore del codice fascista, il quale afferma come la maggior parte degli imputati siano in realtà colpevoli. Del resto, se il delinquente è tale per ragioni fisiopsichiche, risulta accettabile che la condanna lo colpisca a prescindere dalla colpevolezza riguardante lo specifico reato oggetto del giudizio, a compensazione di tutti i casi in cui l’autore 11 sarebbero conseguentemente improntati a libertà di forme, era perciò ispirato lo schema di «ricostruzione» del sistema processuale elaborato nel 1962 dalla commissione ministeriale presieduta da Carnelutti. Qualunque fosse l'origine della proposta, risultava però emblematica la rottura con la tradizione continentale del processo "misto" a prevalenza inquisitoria, nel cui solco s'era agevolmente inserito il codice di epoca fascista. L'esperimento rimase tuttavia senza esito legislativo , risultato che si è soliti attribuire all'audacia per i tempi dello schema carneluttiano, insieme all'incompiutezza del dettato (la bozza del progetto di codice constava di soli 227 articoli) e alla troppo marcata identificazione del medesimo con il pensiero dell'autore, del resto impossibilitato a sostenerne le sorti dopo la scomparsa nel 1965. L'insuccesso dell'idea cardine alla base della bozza fu solo temporaneo poiché essa verrà rilanciata a più riprese negli anni a seguire fino a diventare tratto distintivo del nostro attuale codice di rito. 4. Verso il nuovo codice In sede parlamentare fervono nel frattempo i lavori. Proprio il ministro della giustizia, l'anno seguente al convegno, compie il passo auspicato dalla mozione conclusiva del medesimo; allo scopo di affrontare i problemi messi ora in piena luce dal dibattito scientifico, presenta un autonomo disegno di legge-delega per la riforma del codice di procedura penale, riconoscendo che a questo settore della giustizia va data la priorità a causa della più pressante “ esigenza di rinnovamento ” manifestatasi all'indomani della Costituzione repubblicana e in virtù del superiore grado di sviluppo raggiunto dagli studi preparatori». Il testo delle direttive rimane tuttavia improntato a cautela , segno che la linea radicale di Carnelutti e Cordero non ha ancora preso piede. Il legislatore mira alla «accentuazione», non alla compiuta attuazione “dei caratteri propri del sistema accusatorio”. E difatti, delle possibili alternative prospettate in dottrina per risolvere il problema cruciale della fase preliminare, adotta la soluzione di unificare questo stadio processuale presso la figura del giudice istruttore, incaricato alla vecchia maniera di compiere ogni attività idonea ad influire sull'accertamento della verità, sia pure con adeguate garanzie di partecipazione difensiva. Siamo dunque agli antipodi dell'inchiesta preparatoria di parte. Ma sull'altro versante di critica alla struttura del processo "misto" s'apre finalmente la breccia nella direzione auspicata da Cordero: in favore del principio dell'oralità la delega vincola ad apportare rigorose limitazioni alla lettura dibattimentale degli atti istruttori (sarà ammessa solo per gli irripetibili), stigmatizzando l'attribuzione del valore di prova ai risultati della fase preliminare come connotato preminente d sistema inquisitorio che si intendeva superare. L'iniziativa non completerà l'iter parlamentare entro la fine della legislatura, sorte identica a quella intrapresa dal ministro Gonella nella successiva. Sul piano delle fonti e della tecnica normativa è rimarchevole che si fosse ormai imposto il metodo della legge-delega contenente direttive specifiche rivolte al governo, schema riprodotto negli ulteriori tentativi culminati con il varo del codice del 1988. Si arriva vicini alla svolta nel corso degli anni Settanta, precisamente con l'approvazione della legge-delega n. 108 del 1974, e la stesura del progetto preliminare di codice del 1978. La prima è più netta delle precedenti nel devolvere al legislatore delegato il compito di «attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio», la formula comparirà anche nella delega del 1987. Viene difatti abolita la fase istruttoria in quanto tale. Malgrado ciò, il giudice istruttore non esce ancora di scena, benché emerga - non senza residue ambiguità - l'intenzione di ridimensionarne i poteri probatori. Grazie al lavoro della Commissione presieduta da Gian Domenico Pisapia , nel 1978 si giunge alla pubblicazione di un progetto preliminare del nuovo codice. L'elaborato compie passi avanti di estrema importanza nel solco delle opzioni fondamentali fissate dalla legge-delega. L'idea della inchiesta preliminare di parte, vagheggiata molti anni prima da voci autorevoli quanto isolate della dottrina come cardine della struttura processuale di tipo accusatorio, sta prendendo adesso le sembianze della fase delle indagini preliminari affidata al pubblico ministero, sulla quale, però, continua ad incombere il fardello degli atti di istruzione esperibili dal giudice, quantunque in via residuale. Fa la propria timida comparsa, altresì, l'innovazione destinata a diventare l'architrave del nostro codice: la distinta composizione del fascicolo del dibattimento, ove non sono contenuti - ma, a differenza della soluzione odierna, più radicale, soltanto elencati - i verbali degli atti compiuti durante gli stadi processuali anteriori, a loro volta custoditi in un separato incartamento. Qui ha origine pure la regola che 14 capovolge il criterio normativo del codice Rocco, nel senso di rendere tassativi e perciò eccezionali i casi di acquisizione al giudizio dei medesimi verbali; egualmente s'affaccia la clausola che, per evitare gli abusi commessi a scapito della legalità probatoria in nome della libertà di convincimento, vieta al giudice d'avvalersi nella sentenza di atti non ritualmente sottoposti al vaglio dell'escussione dibattimentale. Unanime è la convinzione che il mancato suggello legislativo di quell'articolato vada ascritto principalmente all'emergenza del terrorismo politico vissuta dall'Italia nella forma di manifestazione più acuta proprio mentre il progetto di codice veniva redatto e presentato (il 1978 è l'anno del sequestro e dell'omicidio di Aldo Moro da parte delle brigate rosse); stagione assai poco propizia, la seconda metà degli anni Settanta, per introdurre un modello processuale accusatorio, dunque orientato in senso liberale ad attribuire preminenza alle garanzie dell'individuo imputato sulle pretese punitive dello Stato. La legislazione penale vira altrove, percorsa dalla tendenza antitetica a privilegiare le esigenze di tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica con norme d'eccezione di sapore autoritario, restrittive dei diritti e delle libertà costituzionali. Tantomeno è il tempo dei disegni organici di riforma della giustizia, quanto piuttosto delle leggi speciali, temporanee, dettate dall'urgenza di affrontare pericoli immediati. Lo stallo dipese tuttavia anche da ragioni legate al progetto in sé, specie per la carenza di flessibilità dell'architettura tutta incentrata sulla fase del dibattimento, così da trascurare le alternative semplificatorie dei riti differenziati; nonché a causa dei dubbi riguardanti l'efficienza del modello a contatto con la grave e complessa realtà della criminalità organizzata. Ne nacquero ripensamenti, rielaborazioni, soluzioni ulteriori attorno all'ossatura principale, tra l'altro, proprio con riguardo agli istituti della giustizia negoziata, basata cioè sul consenso delle parti, come fattore di deflazione dei dibattimenti secondo l'esempio del processo angloamericano (si allude agli istituti del rito abbreviato e del "patteggiamento"). Al tempo stesso, si andava rafforzando la propensione a trarre le estreme conseguenze della scelta, già maturata, di abolire la fase dell'istruzione sostituendola con quella delle indagini preliminari nelle mani del pubblico ministero: eliminare anche il simbolo più carismatico e tenace della tradizione inquisitoria, rappresentato dalla figura del giudice istruttore. Così è stato 5. Il processo accusatorio, finalmente Terminati gli opprimenti anni Settanta, verso la metà degli Ottanta il percorso della riforma processuale trova terreno fertile per la conclusione positiva. La fine dell'emergenza terroristica , l'inedita continuità alla guida del governo (1983-'87) e la volontà modernizzatrice delle istituzioni che anima la vita politica, pongono le basi per il compimento di un'opera a lungo preparata in sede legislativa e nel dibattito tra i giuristi. Gli esponenti della migliore cultura processualpenalistica tornano ad orientare i contenuti della riforma, sulla scorta del prezioso lavoro condotto nel decennio anteriore; fungono da ponte in vista della redazione della seconda legge-delega n. 81 del 1987, la quale mette a frutto, tra fedeltà alle linee di fondo e innovazione suggerita dall'esperienza, l'eredità della prima e del progetto preliminare di codice ad essa relativo. Alla riforma si affidava, da un lato, il compito di «attuare i principi della Costituzione» e di «adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali» sui «diritti della persona»; dall'altro, la finalità di «attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio» così come indicati dalla folta serie di direttive seguenti. Mossa indovinata, per la tempestività e il successo della fase attuativa della delega, fu quella del ministro della giustizia (Martinazzoli), che incaricò della stesura preparatoria del codice una Commissione nuovamente presieduta da Pisapia e composta, tra gli altri membri, dal nucleo originario di giuristi all'opera nella precedente. Questa volta l'impresa riesce. Sotto la vigile attenzione del ministro guardasigilli, ora Giuliano Vassalli, l'anno seguente alla legge-delega del 1987 il nuovo codice di procedura penale è finalmente approvato ( d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447 ), primo e sinora unico dell'Italia repubblicana tra i quattro fondamentali. La fase delle indagini preliminari, pur non coincidendo con la mera inchiesta di parte immaginata tempo addietro da Carnelutti e Cordero, è quanto di più prossimo all'archetipo possa concedere una considerazione realistica del funzionamento processuale in ambito continentale; il pubblico ministero ne è reso esclusivo titolare, togliendo l'ingombro inquisitorio del giudice istruttore, ma la sua attività è preordinata all'unico fine di prepararsi a sostenere l'accusa, non allo scopo di raccogliere prove anzitempo. Il rapporto tra fase investigativa e giudizio è improntato, difatti, al criterio della 15 impermeabilità dei risultati dall'una all'altra sede, così che la prova si formi in dibattimento secondo i canoni dell'oralità e del contraddittorio. La materia è totalmente rifondata, a cominciare dalla scelta di dedicarle un libro a sé stante del codice - il quarto, di tale ricchezza da presentarsi quale sede di disciplina di un "processo nel processo" - per dare pieno risalto alla tutela della libertà dell'imputato; e dall'impegno lessicale, nient'affatto secondario nella volontà di rottura con il passato inquisitorio: viene proclamata a chiare lettere la natura cautelare delle plurime misure, graduate quanto ad intensità restrittiva, che vanno a sostituire il vecchio monolite della carcerazione preventiva, così da fugare la convinzione di trovarsi di fronte a pene anticipate rispetto alla sentenza di condanna irrevocabile. 6. 1992: il precoce tramonto dell’illusione accusatoria L'illusione d'essersi lasciati finalmente alle spalle l'ingombrante eredità inquisitoria durò lo spazio d'un mattino. Cambiare l'edificio normativo non basta, infatti, a raddrizzare le storture radicate da secoli nella mentalità di chi concepisce la propria funzione come difesa ad ogni costo della società dal delitto. Gran parte dei magistrati, specie dai ranghi dei pubblici ministeri, insorse contro la riforma . Difficile accettare che quel compendio di informazioni raccolte con l'abito istituzionale del magistrato non costituisse più, come un tempo, il fondamento principale della decisione sulla colpevolezza dell'imputato. Non erano trascorsi tre anni dall'entrata in vigore del primo codice repubblicano quando la Corte costituzionale rispose, accogliendo le censure con argomenti di schietta matrice inquisitoria. Il rigetto del filone culturale antitetico, che aveva ispirato la riforma ottantottina, è clamoroso; frontale e senza precedenti, il dissenso sull'organizzazione conferita al processo dal legislatore di allora. Il 1992 segna la caduta a precipizio di quell'impianto, costruito sopra la regola del limite all'uso dibattimentale delle conoscenze acquisite durante la fase preliminare poiché non formate nel contraddittorio: tre famigerate sentenze dei giudici della Consulta rovesciarono il sistema, demolendone i pilastri. Gli svolgimenti della motivazione chiamano a raccolta sia la funzione di difesa sociale attribuita al processo penale, sia il principio del libero convincimento del giudice. Sul terreno della prova dichiarativa, la regressione alle dinamiche dell'accertamento penale già proprie del codice Rocco fu tangibile. Tornavano ad avere piena efficacia in dibattimento gli atti formati dal pubblico ministero e dalla polizia, non appena se ne contestasse il contenuto al testimone nel corso dell'esame o, non essen- dosi il dichiarante presentato in udienza, il verbale fosse acquisito al fascicolo tramite lettura. Il governo approvò a spron battuto il d.l. n. 306 del 1992 (Strage di Capaci), animato dallo scopo di potenziare l'efficacia dell'attività investigativa e di favorire l'uso in dibattimento dei relativi risultati per agevolare le decisioni di condanna. La polizia giudiziaria si emancipava, nei suoi spazi di manovra, dalla rigida subordinazione al pubblico ministero, guadagnando la titolarità di funzioni prima riservate al magistrato; ma quel che più conta, gli atti compiuti da entrambi gli organi dell'indagine pubblica venivano dotati di una struttura formale (prescrizioni legali da rispettare, oneri di documentazione) incline ad assimilarli ai mezzi di prova; il disegno mirava proprio lì, ad istituire la fatale equivalenza in modo da promuovere la fase preliminare a baricentro del sistema capace di condizionare gli esiti del successivo giudizio; ne usciva emarginato, anche nella sede elettiva del dibattimento, l'esercizio del diritto al contraddittorio da parte della difesa, già rimasta estranea all'operato investigativo di pubblico ministero e polizia. Il gigantismo del pubblico ministero caratterizzò tutta la stagione posteriore al 1992, nella quale, insieme ai processi di criminalità organizzata, ebbero effetti dirompenti sulla vita pubblica le numerose inchieste per fatti di corruzione politica, accomunate dalle cronache sotto il nome celeberrimo di "Mani pulite" (o "Tangentopoli"). Chi ne volesse cogliere in estrema sintesi la dinamica, con riguardo al funzionamento dei principali istituti processuali, osserverebbe l'abituale ripetersi di una concatenazione meccanica. Il pubblico mini- stero acquisiva dapprima informazioni sufficienti a privare qualche indagato della libertà personale con la custodia in carcere, misura cautelare disposta con estrema facilità, dietro sua richiesta, dal giudice per le indagini preliminari. Lo stato detentivo induceva poi alla collaborazione sotto forma di confessioni e chiamate in correità a carico d'altri soggetti, sicché il delatore veniva premiato con l'uscita dal carcere e, più tardi, dalla vicenda giudiziaria grazie al consenso prestato dal pubblico ministero al rito speciale dell'applicazione di pena su accordo delle parti: pena determinata in misura ridotta, per via della rapida conclusione 16 l’ azione penale oppure chiedere l’ archiviazione del caso (art. 405). È la prima delle alternative cruciali che s’incontrano lungo il cammino. Mentre l’azione è esercitata in via autoritativa, l’archiviazione (art. 408 ss.) passa attraverso la richiesta del pubblico ministero rivolta al giudice per le indagini preliminari, munito del potere di concederla oppure di negarla. Il provvedimento di archiviazione può essere superato con la riapertura delle indagini. 2. b) L’azione penale e il processo in senso stretto Determinandosi ad agire, il magistrato dell’accusa dà impulso al processo strettamente inteso, aperto dalla domanda di accertamento che investe il giudice del potere-dovere di decidere sul merito, vale a dire se l’imputato vada punito, con la pronuncia di condanna o di proscioglimento: è l’alternativa finale del giudizio. Si tratta d’un’azione penale dotata di notevole concretezza, preceduta com’è da una fase d’indagine spesso lunga e laboriosa (i termini massimi di durata possono raggiungere i due anni: art. 407), ad evitare iniziative non sostenute da un quadro logico che consenta al pubblico ministero, ora in funzione requirente, di coltivare l’accusa a ragion veduta di fronte al giudice investito della piena cognizione. Proprio allo scopo di rimediare in limine ad azioni arrischiate, è talvolta previsto il passaggio attraverso una fase intermedia che demanda al giudice il controllo circa l’effettiva esistenza dei presupposti per la celebrazione del dibattimento: può darsi che il pubblico ministero li abbia male valutati, oppure si renda conto egli stesso di non disporre di un compendio probatorio univoco, ma meritevole piuttosto di ulteriore verifica prima dell’approdo al giudizio. Ciò è all’origine di qualche variante nelle modalità di sviluppo dell’intero procedimento; rileva in particolare la distinzione tra l’iter ordinario, così denominato perché comporta l’attraversamento di tutte le possibili fasi contemplate dal codice di rito, e alcuni percorsi semplificati: nel primo caso l’azione penale conduce alla fase dell’udienza preliminare (titolo IX del libro V), dove il giudice designato alla specifica funzione ascolta le parti e valuta se il transito al successivo dibattimento sia davvero indispensabile come prospettato dal pubblico ministero; quest’ultimo aveva esercitato l’azione nella forma tipica della richiesta di rinvio a giudizio, tuttavia, anziché accoglierla col corrispondente decreto (art. 429), il giudice dell’udienza preliminare potrebbe convincersi della superfluità del dibattimento e chiudere anzitempo il processo pronunciando sentenza di non luogo a procedere (art. 425). Siamo di fronte alla seconda alternativa, situata sul tragitto verso la meta, suscettibile di culminare nell’uscita anticipata dell’imputato dalla vicenda giudiziaria, sia pure rebus sic stantibus poiché tale sentenza liberatoria è revocabile a certe condizioni. Conviene precisare che, se considerata sul piano formale della sequela di atti preordinati all’epilogo, l’udienza preliminare si colloca all’interno del processo in senso stretto, essendo posteriore all’azione penale. Nondimeno, essa appartiene con le precedenti indagini all’ampia arcata che si è soliti definire nel complesso “fase preliminare”, se guardata dall’ottica sostanziale del fenomeno probatorio: per le relative decisioni valgono ancora tutti gli atti acquisiti dalla notizia di reato in avanti; soltanto a conclusione dell’udienza medesima, una volta disposto il giudizio, si perfeziona, con la cesura tipica del nostro sistema, il passaggio al diverso regime probatorio che esclude di regola gli atti formati al di fuori del dibattimento. L’azione preordinata a inscenare l’udienza preliminare è oggi preannunciata da un ulteriore tassello procedurale che si salda a sua volta in posizione mediana alla fase precedente, ormai terminata: con l’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415 bis) è concesso alla difesa una sorta di tempo supplementare al fine di esercitare determinate facoltà. L’udienza preliminare è anche la sede, non esclusiva ma certo d’elezione, per la scelta del giudizio abbreviato o dell’applicazione di pena concordata dalle parti (libro VI, titoli I e II). Il processo prende a quel punto una via alternativa, destinata pur sempre a culminare in una sentenza sul merito idonea a divenire irrevocabile, prescindendo però dal dibattimento e, nell’ottica dell’imputato, al fine di conseguire benefici sanzionatori. Il decreto penale di condanna è invece richiesto dal pubblico ministero al giudice per le indagini preliminari, che lo emette inaudita altera parte; il relativo procedimento s’inizia dunque in quella fase anteriore al processo, benché poi l’iniziativa del pubblico ministero costituisca esercizio in forma specifica dell’azione penale. E lo stesso può succedere, in verità, per l’applicazione di pena proposta dalle parti. Una tappa intermedia tra indagini e dibattimento, benché non strutturata come fase autonoma, si ha 19 pure quando il pubblico ministero agisce chiedendo il giudizio immediato, ossia uno dei riti speciali previsti dal codice (libro VI, art. 453 ss.). Spetta qui al giudice per le indagini preliminari il vaglio preventivo, inaudita altera parte , dei requisiti che legittimano l’accelerazione processuale derivante dal salto dell’udienza preliminare. Negli altri casi manca quest’ultimo segmento e l’azione penale, fondata o meno che sia l’accusa, immette senz’altro nella fase del dibattimento: così accade ogni qual volta le norme processuali attribuiscono al pubblico ministero il potere di citazione diretta a giudizio dell’imputato.Quanto alla disciplina del codice, ciò si verifica nell’ambito del giudizio direttissimo (libro VI, art. 449 ss.) dove l’istaurazione del dibattimento può anche realizzarsi, nei confronti degli imputati in vinculis, mediante la loro presentazione coattiva al giudice della fase. L’udienza preliminare manca, altresì, quando si procede davanti al tribunale monocratico (libro VIII) per delitti punibili fino a quattro anni di reclusione o per uno dei reati elencati dall’art. 550. Non contempla strutturalmente alcuna fase intermedia neppure il rito penale del giudice di pace, regolato al di fuori del codice. Se il procedimento non si conclude prematuramente (archiviazione, sentenza di non luogo a procedere) la fase preliminare è seguita dal dibattimento (libro VII), luogo solenne di celebrazione del giudizio dove dominano i principi della pubblicità, dell’oralità, dell’immediatezza e del contraddittorio nella formazione della prova; in ragione di ciò, “misura di tutte le cose”: per sostenervi adeguatamente l’accusa il pubblico ministero si prepara indagando; al fine di pronosticarne la superfluità o la necessità si tiene l’udienza preliminare; sulle chance di approntare in quella sede una difesa vittoriosa, potendo godere delle massime garanzie, è basata l’opzione dell’imputato di accesso o acquiescenza ad un rito alternativo di natura premiale. Che si addivenga al giudizio dibattimentale o che il processo ripieghi su di un rito alternativo, l’esito fisiologico del percorso è la pronuncia della sentenza (fa eccezione il decreto penale di condanna). La sentenza di primo grado è impugnabile dalle parti che ne lamentino l’erroneità e mirino perciò a rimuoverla per conseguire una decisione più favorevole devolvendo la cognizione della materia processuale ad un giudice superiore. I mezzi di impugnazione “ordinari”, così definiti perché precedono e impediscono il formarsi del giudicato, sono in sequenza l’appello e il ricorso per cassazione. L’appello, percorribile là dove la legge lo concede, tende alla riforma nel merito della decisione criticata. Davanti alla Corte di cassazione si fanno valere tramite l’apposito ricorso, previsto contro ogni sentenza, i vizi di legittimità del provvedimento impugnato al fine di ottenerne l’annullamento (con o senza rinvio ad altro giudice di merito). Col passaggio attraverso i gradi ulteriori di giudizio o l’inutile decorso dei termini di impugnazione si esauriscono i rimedi a disposizione delle parti e sulla sentenza, così divenuta inattaccabile per le vie ordinarie, scende il giudicato: la decisione acquista stabilità e forza esecutiva. Potrà essere eccezionalmente rimossa attraverso impugnazioni “straordinarie”, quali sono nel nostro sistema la revisione e la rescissione del giudicato, oltre al ricorso – denominato appunto straordinario – per errore materiale o di fatto. CAPITOLO III - LA NORMA PROCESSUALE PENALE 1. La struttura: principi e regole Come qualsiasi altro fenomeno giuridico, la procedura penale è disciplinata da norme, inquadrabili in apicibus in due grandi categorie. Alcune norme processuali penali, tendenzialmente rinvenibili nelle fonti che, come vedremo, si collocano nelle posizioni apicali della gerarchia, si limitano ad esprimere principi: vale a dire prescrizioni "aperte", che non indicano in modo preciso ed esaustivo le condizioni per il prodursi di conseguenze giuridiche, ma individuano solo valori da rispettare. Come tali, i principi non sono suscettibili di immediata applicazione, ma richiedono la formulazione di norme più dettagliate che li concretizzino. Queste ultime, a loro volta, devono bilanciarli, potendo cosi attuarli in svariati modi (magari anche alternativi fra loro). La maggior parte delle norme volte a disciplinare la procedura penale (in particolare, quelle rinvenibili nel codice vigente), per converso, appartiene alla categoria delle regole: sono cioè norme "chiuse" dotate di tendenziale precisione, tali da enumerare in modo esaustivo le condizioni necessarie per produrre le conseguenze giuridiche da esse disposte, e pertanto immediatamente applicabili. Esse, in altri termini, pongono fattispecie, ossia prescrizioni dal contenuto generale ed astratto e dotate di 20 struttura condizionale ("se A, allora B"). A differenza di quanto avviene per i principi, i bilanciamenti dei valori che ne stanno a fondamento sono già stati compiuti in astratto. Le regole, dunque, non possono venire contemperate fra loro; o si applicano nella loro interezza oppure, in presenza di eccezioni, non si applicano. Le regole di cui ci occuperemo, in particolare, sono volte a disciplinare quella scansione di atti finalizzati all'accertamento del dovere di punire in cui si concretizza, per l'appunto, il processo penale. A questo fine, presentano un contenuto vario e composito. A differenza delle fattispecie penali sostanziali, non si limitano a porre comandi o divieti di comportamento. Delineano una variegata gamma di situazioni giuridiche soggettive riferibili alle persone che partecipano al processo (il giudice, il pubblico ministero, le parti private, le persone che intervengono a vario titolo), le quali si possono ricomprendere in due classi fondamentali: il dovere, cioè la valutazione negativa da parte dell'ordinamento di un comportamento che non sia coincidente con quello descritto da una norma (a volte anche corredato da una sanzione nel caso della sua inosservanza); e il potere, ovvero la facoltà per un soggetto processuale, compiendo un certo atto, di determinare taluni effetti, ponendo le premesse per ulteriori poteri o doveri in capo ad altri soggetti. Non sempre, peraltro, le norme processuali penali presentano in modo netto la struttura del principio o della regola. Non è infrequente rinvenire norme dotate di una conformazione mista, che si possono collocare in una categoria intermedia. Ciò avviene quando esse pongono fattispecie dotate di presupposti non definiti in modo preciso, ma imperniati su parametri discrezionali. 2. Le fonti autoctone e i formanti sovranazionali Le norme processuali penali trovano origine in fonti che possono essere distinte anzitutto dal punto di vista della loro natura. Viste sotto questo profilo, tradizionalmente esse consistono in atti emessi da organi forniti di una piena legittimazione democratica, in quanto eletti direttamente dai cittadini. Si allude alla Costituzione, redatta dall'Assemblea costituente; alle leggi costituzionali ed ordinarie, emanate dal Parlamento; agli atti con forza di legge, ossia i decreti legge, emanati dal Governo e convertiti dal Parlamento, e i decreti legislativi, approvati dal Governo a seguito di una delega del Parlamento. Va aggiunto che la procedura penale rientra nella competenza esclusiva della sovranità statuale. Essa non potrebbe trovare la sua disciplina nelle leggi regionali (art. 117 comma 2 lett. l Cost.), neppure in fonti di natura regolamentare. Ciò per la ragione che sarebbe inopportuno sottrarre (anche solo in parte) al Parlamento la disciplina di una materia che tocca un bene di suprema importanza come la libertà degli individui. Questo assetto, frutto di un percorso storico che, prendendo le mosse dall'illuminismo e consolidandosi a seguito della Rivoluzione francese, ha sostituito il pluralismo delle fonti rinvenibile nell'Europa continentale in età medievale, contraddistinte da un insieme di formanti di matrice diversa - accademica, giurisprudenziale, consuetudinaria - che riflettevano l'assenza di strutture ordinamentali accentratrici come quelle degli Stati nazionali che si sarebbero formati in seguito. Ora, però, lo scenario nazionale è entrato in una fase di profondo cambiamento, iniziata a metà del Novecento e tuttora in divenire, che testimonia la crisi che ha colpito il dogma della sovranità statuale nella nostra materia. Ci troviamo in un momento di transizione legato ai mutamenti economici, sociali e politici dovuti alla globalizzazione e agli sviluppi della tecnologia, i cui futuri approdi sono imprevedibili. Ai fini che qui rilevano, il suo attuale esito è che alla legge parlamentare si stanno progressivamente affiancando, in ambiti sempre più estesi della disciplina processuale, fonti di natura sovranazionale. È una possibilità contemplata dalla nostra stessa Costituzione, la quale riconosce a chiare lettere che la sovranità nazionale trova dei limiti nelle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10), negli ordinamenti internazionali volti ad assicurare la pace e la giustizia fra gli Stati (artt. 11 e 117) e negli obblighi che discendono dal diritto internazionale pattizio (art. 117). In questo coacervo di prescrizioni spiccano, per la procedura penale, due grandi sistemi di produzione giuridica: quello del Consiglio d'Europa, composto da 47 Stati membri (la "grande Europa"), e quello dell'Unione Europea, formata da 27 Stati membri (la "piccola Europa"). Nel 1950 il Consiglio d'Europa ha adottato la Convenzione europea dei diritti dell'Uomo (C.e.d.u.): una fonte di norme internazionali pattizie che, come vedremo, è stata recepita dal nostro ordinamento, 21 qualsiasi supporto normativo e, anzi, entrerebbe in sicuro conflitto con l'art. 101 comma 2 Cost. 4. Le gerarchie: dalla piramide alla rete Un altro criterio di distinzione è dato dalla gerarchia delle norme processuali penali, a sua volta dipendente dalla gerarchia delle fonti. Anche sotto questo profilo ci troviamo in una fase di cambiamenti. La gerarchia consolidatasi a seguito dell'illuminismo e della Rivoluzione francese è di tipo piramidale, e si fonda essenzialmente sul binomio Costituzione-legge ordinaria. Stando a questo tradizionale assetto, il giudice sarebbe tenuto ad interpretare la seconda conformemente alle indicazioni della prima e, laddove ciò non fosse possibile, a sollevare una questione di legittimità di fronte alla Corte costituzionale. Ora, però, con l'apertura ai formanti europei la gerarchia delle fonti si è aggrovigliata. La struttura piramidale è oggetto di una progressiva erosione, a favore di una configurazione a rete nell'ambito della quale i rapporti di forza sono molto meno netti. La supremazia della Costituzione sulla legge ordinaria resta tuttora valida. Ma essa è complicata dal fatto che la sovranità in materia processual penalistica non è più di esclusiva competenza dello Stato, ma, come già abbiamo iniziato a vedere, si è frammentata e si é ridistribuita su vari livelli, non solo interni ma anche sovranazionali, tali da determinare l'ingresso di fonti che si trovano in una posizione intermedia. È opportuno, in particolare, distinguere la componente convenzionale e quella eurounitaria di questo rinnovato assetto. 4.1.- La componente convenzionale della rete. Il rango della Convenzione Europea nel sistema delle fonti trova la sua matrice nell'art. 117 comma 1 Cost, ai sensi del quale il potere legislativo statale va esercitato nel rispetto dei vincoli che provengono non solo dalla Costituzione, ma anche dagli obblighi internazionali, tra i quali rientrano per l'appunto quelli assunti dall'Italia con la sottoscrizione della C.e.d.u. Di qui la possibilità di affermare che la Convenzione Europea, sebbene sia stata recepita nel nostro sistema con una legge ordinaria (la n. 848 del 1955), abbia un valore superiore rispetto a quello delle norme approvate dal Parlamento, arrivando anche essa ad integrare un parametro di legittimità tale da giustificare l'eventuale proposizione di questioni di fronte alla Corte costituzionale. Si è già detto, peraltro, che le prescrizioni della C.e.d.u., in sé considerate, si esauriscono perlopiù in un catalogo di principi dal contenuto generico, in buona parte equiparabile a quello della nostra Costituzione. Ciò spiega perché la Corte costituzionale abbia precisato che ad integrare il parametro di legittimità siano le prescrizioni convenzionali non in sé considerate, ma nel significato che viene loro attribuito dalla giurisprudenza della Corte europea. Non vi è uniformità di vedute sulla portata di tale affermazione. Vi è chi ha sostenuto che ne sarebbe derivato un vero e proprio vincolo formale alle letture della C.e.d.u. operate dai giudici di Strasburgo. Già si è visto, però, come i principi fondamentali del nostro sistema non consentano di attribuire un'efficacia del genere al diritto giurisprudenziale. Il che porta a ribadire che il case law della Corte europea come del resto, tutto il diritto giurisprudenziale si limita a possedere un valore orientativo, destinato a pesare tanto più quanto più siano rispettate talune condizioni che, anche tenendo conto di talune indicazioni della stessa Corte costituzionale, si possono cosi sintetizzare. a) Le norme enucleabili dalle decisioni della Corte europea vanno considerate in stretto collegamento rispetto al caso concreto nell'ambito del quale sono state elaborate. Vale a dire che esse appaiono invocabili solo in rapporto a casi successivi che siano contraddistinti da elementi di significativa somiglianza. Mancando questi ultimi, ci si troverebbe di fronte a situazioni in cui non è detto che i giudici di Strasburgo deciderebbero nello stesso modo. È la c.d. tecnica del distinguishing, da secoli praticata negli ordinamenti anglosassoni, che impedisce di ricavare dai precedenti norme giuridiche valide in astratto e, quindi, universalizzabili. b) Le norme della Corte europea risultano invocabili nella misura in cui siano l'espressione di un'interpretazione consolidata» nella giurisprudenza di Strasburgo 19. Se così non fosse non sarebbero tali da veicolare un orientamento costantemente seguito dalla Corte, e vi sarebbero spazi maggiori per discostarsene. c) Non potrebbero mai assumere il rango di parametri di legittimità le norme della Corte europea che si trovassero in radicale conflitto con le prescrizioni della Costituzione italiana. Di qui la 24 denominazione, adottata dalla Corte costituzionale, di parametri solo "interposti" di legittimità della legge ordinaria. d) Le norme della Corte europea elaborate in rapporto a casi analoghi, espressione di un'interpretazione consolidata e compatibili con la Costituzione sono, comunque, soggette al c.d. margine di apprezzamento nazionale. Ciò significa che vanno applicate tenendo conto delle peculiarità dell'ordinamento in cui dovrebbero inserirsi. I giudici nazionali potrebbero non tenerne conto nella misura in cui esistessero norme interne che, pur se non identiche, risultassero equivalenti: vale a dire, norme che, pur non prescrivendo le stesse garanzie indicate dai giudici di Strasburgo, risultassero comunque capaci di attuare i medesimi valori ritenuti meritevoli di prevalere dalla Corte europea. e) margini per discostarsi dalle norme della Corte europea aumentano qualora queste ultime esprimano standard di tutela dei diritti meno elevati di quelli apprestati dalle norme nazionali (c.d. principio di massima espansione delle garanzie). È un'esigenza riconosciuta dalla stessa C.e.d.u. all'art. 53, ai sensi del quale nessuna disposizione convenzionale potrebbe essere intesa in modo tale da pregiudicare o limitare i diritti riconosciuti dagli ordinamenti interni. 4.2. La componente eurounitaria della rete Gli artt. 11 e 117 comma 1 Cost. consentono che la sovranità e la potestà legislativa nazionali trovino limitazioni anche nelle norme dell'Unione Europea, fra cui spiccano le norme rinvenibili nella Carta di Nizza, nelle direttive e nei regolamenti rilevanti per il processo penale. Si tratta di prescrizioni che, in presenza di certe condizioni, sono fornite di un'efficacia diretta: più precisamente, generano l'obbligo in capo ai giudici nazionali di disapplicare le eventuali norme interne contrastanti, senza la necessità di sollevare una questione di incostituzionalità volta a rimuovere queste ultime. Il requisito essenziale affinché tale efficacia diretta possa sprigionarsi è che siano norme precise ed incondizionate: vale a dire, fornite di un contenuto precettivo sufficientemente definito, nonché suscettibili di poter essere applicate senza ulteriori interventi da parte del legislatore europeo o nazionale. Ad esso si aggiunge, per quanto concerne le direttive, la circostanza che sia inutilmente scaduto il termine per la loro recezione da parte del legislatore nazionale. Né va trascurato che l'efficacia diretta non può esplicarsi a danno dei privati, ad esempio aggravando la responsabilità penale, ma solo a loro favore. Si è visto, tuttavia, come in ambito processuale raramente le norme eurounitarie contengano fattispecie complete. È improbabile, pertanto, che risultino direttamente applicabili in sé considerate. La loro effettiva valenza si coglie nelle implementazioni che ricevono grazie alle interpretazioni della Corte di giustizia. Se, inoltre, si considera che, stando all'art. 52 § 3 della Carta di Nizza, la portata dei diritti fondamentali riconosciuti dall'Unione deve essere «uguale» a quello assicurato dalla C.e.d.u., emerge come, nei settori di stretta competenza dell'Unione, contribuiscano a precisare il contenuto delle garanzie processuali anche le interpretazioni operate dalla Corte europea dei diritti dell'Uomo. Ciò è bene ribadirlo ancora non significa che le interpretazioni proposte dalle due Corti siano formalmente vincolanti per i giudici nazionali. Nondimeno, è comprensibile che i giudici nazionali tendano ad adottarle, al fine di evitare probabili procedure di infrazione a danno dell'Italia. Si tenga presente, poi, che vale un'altra limitazione all'efficacia diretta delle norme eurounitarie, da tempo individuata dalla Corte costituzionale: esse non giustificherebbero la disapplicazione delle norme interne quando ne derivasse una lesione dei «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» e dei «diritti inalienabili della persona umana» (i c.d. controlimiti), tali da esprimere valori così importanti da non poter essere sottoposti neppure a revisione costituzionale. Nelle situazioni, invece, in cui le norme dell'Unione non fossero in grado di esprimere un'efficacia diretta, determinerebbero un'efficacia indiretta, suscettibile di concretizzarsi in un obbligo di interpretazione conforme: i giudici nazionali dovrebbero attribuire alle norme interne il significato maggiormente compatibile con le prescrizioni eurounitarie, salvo il rispetto dei controlimiti costituzionali nonché, come vedremo, della littera legis. In caso di insanabile contrasto fra le norme interne e le norme eurounitarie, poi, dovrebbe essere sollevata una questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117 Cost. Genera unicamente un obbligo di interpretazione conforme, in particolare, una specifica categoria di 25 norme eurounitarie rilevanti per la procedura penale: quella delle norme rinvenibili nelle decisioni- quadro, alcune delle quali, come si è visto, sono ancora in vigore. 5. Le tecniche interpretative Le norme processuali penali, al pari di ogni altra norma giuridica, sono oggetto di un'incessante elaborazione interpretativa, finalizzata a stabilirne il significato più corretto. Le tecniche sono le più varie: alcune più tradizionali, ed altre che rappresentano il portato dell'apertura al diritto europeo e della complicazione della gerarchia tra le fonti che ne è derivata. La tecnica classica e tuttora preminente, di derivazione illuministica, è rappresentata dall'interpretazione letterale. Essa è delineata nell'art. 12 comma 1 delle disposizioni sulla legge in generale (c.d. preleggi): nell'applicare la legge non si può attribuirle «altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore». È il metodo ideale, in quanto funzionale al massimo rispetto della separazione fra i poteri. Purtroppo, però, è un metodo insufficiente, a causa delle ambiguità e delle incompletezze delle prescrizioni legislative. Non è raro che le norme processuali penali siano suscettibili di letture diverse, magari contrastanti fra loro; oppure che non contengano una regolamentazione esplicita di determinate situazioni. Di qui la necessità di ricorrere ad altre tecniche. Una è quella dell'interpretazione estensiva, che consiste nel maggior ampliamento possibile dell'area operativa delle norme sulla base della littera legis. Ma come tale, essa non risulta concettualmente distinguibile dall'interpretazione letterale, sia pure spinta ai suoi massimi estremi. Un'ulteriore possibilità è rappresentata dall'analogia, che si risolve nell'applicazione di norme dettate per «casi simili o materie analoghe» (art. 12 comma 2 preleggi): ossia situazioni che, pur non perfettamente identiche, presentano significativi elementi di somiglianza con quella esplicitamente regolata. Va poi menzionata l'interpretazione sistematica (art. 12 comma 2 preleggi), che consiste nell'attribuzione alle norme del significato più in linea con i principi generali che informano il sistema processuale. Ad essa si affianca l'interpretazione teleologica, ossia la ricostruzione del significato delle norme alla luce delle finalità perseguite dal legislatore. Anche fra queste due tecniche, però, le differenze non sono sempre nette, se si considera che i principi fissano valori e, quindi, obiettivi da raggiungere. Non è detto, in ogni caso, che le tecniche interpretative fin qui considerate siano risolutive. Norme da estendere analogicamente potrebbero, nel caso concreto, mancare. I principi o le finalità dell'ordinamento, dal canto loro, potrebbero non risultare univoci. Il che spiega perché non poche disposizioni, a seconda della tecnica adottata, siano suscettibili di diverse letture, nella sostanza rimesse alle scelte dell'interprete sulla base delle proprie preferenze assiologiche. Sta in questo l'ineliminabile margine di creatività dell'attività interpretativa, che l'Illuminismo aveva preteso di nascondere attraverso la metafora del giudice come "bocca della legge". A fronte di molteplici possibilità ermeneutiche, esiste un solo limite invalicabile: nessuna tecnica potrebbe mai legittimare un'interpretazione contra legem, consentendo di conferire alle norme una portata del tutto incompatibile con i possibili significati delle parole utilizzate dal legislatore e, quindi, di attribuire al giudici una funzione creativa (ossia una funzione di competenza strettamente legislativa). Consente di superare il limite dell'interpretazione contra legem, per converso, la disapplicazione, come si è visto permessa a favore delle norme dell'Unione Europea dotate di efficacia diretta. Grazie ad essa i giudici hanno la possibilità di rendere inefficaci le norme nazionali e di sostituirle con le norme europee, anche nelle ipotesi in cui le implicazioni delle seconde fossero in contrasto con il significato letterale delle prime. Resta da considerare un'ultima tecnica interpretativa, praticabile in rapporto alle norme che, anziché fissare fattispecie autosufficienti, si limitano ad esprimere principi. Si allude al giudizio di proporzionalità, volto a bilanciare i principi fra loro e che consta essenzialmente di tre passaggi: (i) l'individuazione della capacità della misura processuale da adottare di tutelare valori di preminente importanza; (ii) la stretta necessità del sacrificio dei valori contrapposti, in quanto manchino misure capaci di determinarne una restrizione meno intensa; (iii) la salvaguardia del nucleo fondamentale dei valori sacrificati, in modo che il pregiudizio per questi ultimi non risulti eccessivo. È un vaglio non del tutto inedito nel nostro sistema, considerato che si trova alla base delle valutazioni 26 Convenzione europea). Lo si ritrova anche nell’ art. 111 comma 1 Cost. , in cui però l’equità è identificata con la « giustizia » («la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge»): una formula che, come abbiamo già visto, è comparsa nel nostro ordinamento al traino di una riforma costituzionale volta ad inserire i capisaldi del metodo dialettico nella stessa Carta fondamentale. Al di là del peculiare background storico, c’è da chiedersi se da questa scelta terminologica derivi un diverso significato del principio. Dal punto di vista strettamente semantico, il concetto di giustizia ricalca quello di equità. Nella Convenzione europea (e, più di recente, nella Carta di Nizza), l’equità assume la forma del diritto soggettivo , azionabile di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione e ai giudici nazionali quando applicano il diritto eurounitario. Qui, come già abbiamo avuto modo di osservare, l’equità opera in concreto, diventando un criterio di bilanciamento che rifugge da gerarchie prestabilite, e va calibrato sulla base delle peculiarità del singolo caso, tenendo conto delle lesioni dei diritti effettivamente realizzatesi (c.d. pregiudizio effettivo) e consentendo valutazioni di tipo compensativo fra le contrazioni delle varie garanzie. Ma non può essere questa la prospettiva del nostro sistema, laddove l’equità, configurata in un modo del genere, rischierebbe di legittimare irragionevoli manipolazioni giurisprudenziali delle garanzie processuali così come esse sono state declinate dal legislatore. Ciò spiega perché nella nostra Costituzione il giusto processo vada inteso come un parametro oggettivo rilevante in astratto, suscettibile di orientare i bilanciamenti tra i valori in gioco effettuati dalla legge ordinaria al momento della previsione delle singole regole processuali. Il problema è se, così inteso, si tratti di un mero concetto di sintesi, tale da limitarsi a riassumere tutti i principi costituzionali applicabili nel processo penale e sprovvisto, pertanto, di un proprio valore precettivo, oppure se integri una nozione autonoma , fornita di connotati ulteriori rispetto a quelli che emergono dalle altre norme costituzionali. La domanda non è puramente teorica. Se fosse un concetto a sé stante, l’equità processuale integrerebbe un parametro autonomo di costituzionalità e di compatibilità con la Convenzione europea e con il diritto dell’Unione . Così stando le cose, esso consentirebbe di dichiarare l’illegittimità di norme pur conformi alla Costituzione e alla C.e.d.u. sotto ogni altro aspetto; diventerebbe, inoltre, uno dei fattori da considerare per valutare la conformità del diritto interno al diritto dell’Unione. L’equità rappresenta una formula dotata di un alto significato retorico-connotativo, al più capace di designare un insieme di valori talmente importanti da sottrarsi a qualunque possibilità di revisione costituzionale, ma è sprovvista di un autentico valore precettivo-denotativo . Con ciò non si vuole negare la fondamentale importanza che essa ha assunto in passato, in quei momenti storici in cui, mancando un’espressa disciplina costituzionale del processo penale, ha costituito il seme da cui sono germinate le garanzie processuali, per poi consolidarsi ed essere recepite nelle carte dei diritti nazionali e sovranazionali. Ma nel contesto del sistema vigente, qualunque tentativo di autonomizzarla sembra destinato a fallire. 1) L’equità processuale, in primis, può essere identificata con l’esigenza che il processo sia regolato da norme accessibili , precise e dalle conseguenze prevedibili . Così intesa, però, costituisce un sinonimo del principio di legalità processuale, rinvenibile nell’esigenza che il processo sia «regolato dalla legge» (art. 111 comma 1 Cost.). 2) Nella specificazione che riceve dai giudici di Strasburgo, l’equità esprime anche l’idea della parità delle armi (equality of arms): vale a dire la «ragionevole opportunità» per ciascuna parte di presentare le proprie ragioni in base a condizioni che non la pongano in una situazione di «sostanziale svantaggio» di fronte alla controparte. Ma ci troviamo di fronte ad un evidente duplicato del principio di parità tra le parti (art. 111 comma 2 Cost.). 3) Si aggiunge che l’equità si contraddistinguerebbe per il fatto di esplicarsi in una serie di garanzie di metodo che vanno oltre quelle specificamente elencate dagli artt. 6 C.e.d.u. e 111 Cost. Del resto l’art. 6, come emerge testualmente dal suo § 3 (ogni accusato ha diritto, «in particolare»…), possiede un valore solo esemplificativo. 4) L’equità processuale può essere vista pure come la capacità del processo di produrre una decisione giusta in quanto dotata della massima attendibilità cognitiva . Essa designa così un obiettivo della massima importanza, che viene a coincidere con la finalità intrinseca di qualsiasi processo penale. È, però, una finalità che trova la sua consacrazione già nel principio 29 del contraddittorio nella formazione della prova previsto dall’art. 111 comma 4 Cost. 5) Infine, l’equità può indicare la capacità del processo di produrre una decisione giusta in quanto frutto di regole equilibrate, capaci di contemperare in modo adeguato tutti i valori in gioco. Ma questa è anche una delle implicazioni del principio di ragionevolezza statuito dall’art. 3 Cost. e, per quanto concerne il diritto dell’Unione europea, del canone di proporzionalità delineato dall’art. 52 § 1 della Carta di Nizza. L’assenza di portata precettiva del concetto di equità processuale, in definitiva, spiega perché la Corte costituzionale non abbia mai valutato la legittimità delle regole processuali sulla base del solo canone del giusto processo ex art. 111 comma 1 Cost. Nei vari giudizi di costituzionalità, quest’ultimo è sempre stato coniugato ad altri principi. Art . 111 Cost : 1) La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. 2) Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti (confronto dialettico di punti opposti, i contendenti hanno il diritto di discutere tra loro prima della decisione per rappresentare i propri punti di vista antitetici; è considerato un contraddittorio debole diverso da quello forte che è solo per il processo penale ed è previsto al comma 4), in condizioni di parità ( parità delle armi , pari non significa uguali dunque non va inteso come identità), davanti a giudice terzo e imparziale (terzietà riguarda l’equidistanza funzionale in quanto non condivide mai poteri con le parti; mentre l’imparzialità significa che è neutro rispetto all’esito). La legge ne assicura la ragionevole durata (non significa celerità, ma che non deve essere irragionevolmente lunga, dunque ragionevole rispetto alla sua complessità, numero di parti…) 3) (preso dall’art. 6 CEDU; qui passiamo solo al processo penale) Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. 4) Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore. 5) La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. 6) Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. 7) Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. 8) Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. 2. Il principio di legalità processuale Anche il testo originario della Costituzione poneva garanzie di legalità per specifici aspetti della materia processuale: i diritti inviolabili (artt. 13, 14, 15); la precostituzione del giudice (art. 25 comma 30 1); l’azione penale (art. 112). Sappiamo però cos’è accaduto nel 1992: la magistratura, quasi in blocco, attaccò frontalmente il codice neonato, ritenendo che le scelte più qualificanti operate dal legislatore d’allora (soprattutto in materia di limiti probatori) equivalessero ad una sorta d’inaccettabile menomazione d’un superiore potere del giudice penale; la sola legge alla quale il giudice doveva obbedienza era la legge punitiva, mentre la legge del processo veniva sostanzialmente collocata su un gradino inferiore. Sappiamo anche come la Corte costituzionale abbia raccolto quell’insofferenza, affossando il sistema. Tali vicende mostrarono come i valori da cui germina il principio di legalità processuale non fossero ancora radicati. Non è dunque un caso che si sia sentito il bisogno di consacrarlo più esplicitamente, né che ciò sia avvenuto nel 1999, ossia all’esito d’un percorso storico che proprio dai fatti del 1992 ha preso l’avvio. Oggi l’ art. 111 comma 1 Cost. stabilisce che il processo dev’essere «regolato dalla legge», cosicché il principio di legalità abbraccia l’intera esperienza penalistica (artt. 25 comma 2 e 111 comma 1 Cost.), disegnando un sistema governato dalla legge sia nel procedere sia nel punire. Il principio opera anzitutto sulla scala delle fonti , attraverso una riserva di legge : la disciplina del processo deve promanare da fonti di rango superprimario (quali i regolamenti o le direttive UE) o primario (quali la legge formale, i decreti legislativi, i decreti legge; non invece la legge regionale: art. 117 comma 2 lett. l Cost.). La riserva è assoluta: lo si desume sia dal tenore testuale della disposizione (più stringente rispetto alle riserve relative, quali quelle fissate negli artt. 23 o 97 Cost.) sia dalla natura dei beni coinvolti, che si collocano su un rango talmente elevato da non poter essere lasciati alle competenze dell’esecutivo. Come sempre accade per le riserve assolute, le fonti subordinate non sono del tutto escluse, ma possono toccare solo aspetti di dettaglio e di stretta esecuzione, che non implichino scelte di politica legislativa (es. descrizione etilometro attraverso il quale si procede all’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza). Secondo alcuni, un’ulteriore direzione lungo la quale si esplica il principio di legalità processuale è data dal divieto di analogia in malam partem ; se n’è già discusso in precedenza. Nonostante la sua giovane età, il principio di legalità processuale appare già in crisi , a causa d’un complesso di fattori, politici, storici, ideologici, culturali. Possiamo ricordarne qualcuno. (a) Anzitutto, la parossistica produzione legislativa ha sfilacciato il codice , rendendolo disomogeneo, prolisso, incoerente. La moltiplicazione di articoli contrassegnati da ordinali latini ( bis, ter… ), o i “salti” nella loro numerazione (dall’art. 559 si passa al 568) sono segni esteriori d’un più vasto e profondo degrado del prodotto legislativo. (b) In secondo luogo, nel processo penale la magistratura mostra sovente atteggiamenti antiformalistici: tende, cioè, ad aggirare le regole fissate dal legislatore. Per lo più ciò avviene in vista dell’obiettivo (non sempre dichiarato) dell’accertamento della verità, così tuttavia dimenticando che un processo non è giusto semplicemente perché scopre cos’è accaduto, ma solo se lo fa secondo un certo rito, certe cadenze, certe mediazioni . (c) In terzo luogo, l' irruzione delle disposizioni di matrice sovranazionale ha scompaginato il quadro : ha fatto penetrare nell'ordinamento precetti caratterizzati da un elevato grado d'indeterminatezza, perché costruiti più su principi che su fattispecie; le disposizioni varate nell'ambito della UE, in particolare, sono pressoché sempre poco tassative: vengono prima redatte secondo un linguaggio volutamente atecnico (perché devono adattarsi a svariati ordinamenti) e successivamente tradotte nelle varie lingue ufficiali della UE da giuristi che non sempre hanno grandi competenze nel settore a cui le disposizioni si riferiscono. Uno dei terreni su cui queste tensioni si scaricano è quello delle nullità. Nell'ordinamento italiano, la materia è tradizionalmente dominata dal principio di legalità, nel senso che, quando si tratta di decidere intorno alla validità d'un atto, l'unico parametro da considerare dovrebbe essere il rispetto o l'inosservanza della disposizione che lo regola, mentre nessun peso dovrebbe essere attribuito alle caratteristiche del caso concreto e, in particolare, all'accertamento della effettiva lesione dell'interesse tutelato dalla norma. Dall'approccio casistico e antiformalistico della Corte europea dei diritti dell'uomo, la nostra giurisprudenza sempre più spesso rifiuta di dichiarare una nullità quando la violazione non abbia pregiudicato in misura sensibile l'interesse salvaguardato dalla norma trasgredita. Se questi indirizzi interpretativi dovessero generalizzarsi, il baricentro del sistema finirebbe per spostarsi - proprio in un settore nevralgico della procedura penale - dalla legge al giudice: questi sarebbe in definitiva chiamato a decidere se dichiarare o non dichiarare un'invalidità sulla base d'un parametro slabbrato ed evanescente quale l'"effettivo pregiudizio" arrecato dalla 31 Correlata alla riserva di giurisdizione, infine, è la garanzia dell' obbligo di motivazione del provvedimento limitativo della libertà personale, che assolve a una duplice funzione: in ossequio al principio democratico, la motivazione propizia il controllo dell'opinione pubblica sul provvedimento coercitivo del giudice, il quale amministra la giustizia in nome del popolo (art. 101 comma 1); inoltre, l'enunciazione delle ragioni di fatto e di diritto che giustificano la coercizione personale è funzionale a consentire il sindacato giurisdizionale sul provvedimento medesimo (art. 111 comma 7), circa l'effettiva sussistenza nel caso concreto dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti la restrizione della libertà personale. 3.2. Libertà personale e sistema cautelare La proclamazione dell'inviolabilità della libertà personale, in combinato disposto con le guarentigie appena enumerate e con il divieto di trattare l'imputato come il condannato sancito nell'art. 27 comma 2 Cost., ha un'importante e diretta ricaduta sistematica sulla procedura penale: sistematica sulla procedura penale: se la libertà personale è inviolabile e può subire restrizioni esclusivamente attraverso gli istituti della procedura penale (è questa la cosiddetta "indefettibilità della giurisdizione penale"), allora l'adozione di provvedimenti restrittivi della libertà personale, di regola, deve seguire e non precedere la conclusione dell'iter giudiziario volto a stabilire se una persona abbia commesso un fatto di reato e sia meritevole di pena, oppure no. E’ è comune all'esperienza della totalità dei sistemi di giustizia penale la previsione di misure restrittive della libertà personale eventualmente adottate prima della irrevocabilità di una pronuncia di condanna. Del resto, è la stessa Costituzione- mediante il riferimento alla «carcerazione preventiva» contenuto nell'ultimo comma dell'art. 13 Cost. - ad autorizzare misure restrittive già nel corso del procedimento. La libertà personale, attenendo all'integrità psico-fisica dell'uomo «precede e condiziona» tutte le altre libertà, consentendone l'esplicazione . Se la punizione del colpevole già rappresenta una extrema ratio, a maggior ragione deve costituire un'evenienza ancora più eccezionale, "un'eccezione all'ennesima potenza", l'eventuale assoggettamento a misura restrittiva della libertà personale di una persona non ancora condannata, ma solo sottoposta a procedimento penale. Cosa può giustificare una simile eccezione rafforzata? Tali questioni hanno trovato risposta facendo leva sull' art. 27 comma 2 Cost. Da tale previsione si è ricavata non solo una regola di giudizio (quella secondo cui l'imputato deve rimanere esente da conseguenze sfavorevoli nel caso in cui, a conclusione del giudizio, la prova della colpevolezza risulti insufficiente o contraddittoria) ma anche una regola di trattamento , più precisamente il divieto di trattare l'imputato come il colpevole. La regola di trattamento deve essere letta in combinato disposto con l'art. 13 Cost., quale vincolo negativo posto dal Costituente al legislatore in materia di misure restrittive della libertà personale adottate prima della pronuncia di una sentenza di condanna definitiva. Essa vieta che l'eventuale limitazione della libertà personale nel corso del procedimento penale possa avere funzioni di prevenzione generale e speciale analoghe a quelle derivanti dall'irrogazione della pena ed esclude che la detenzione in carcere prima della condanna definitiva possa mai servire ad anticipare la punizione del colpevole, esperibile soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza. Com'è stato lucidamente rilevato in una pronuncia della Corte costituzionale, l'antinomia fra la presunzione d'innocenza e «l'espressa previsione, da parte della stessa Carta costituzionale, di una detenzione ante iudicium (art. 13 comma 5) è, in effetti, solo apparente: giacché è proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilità della seconda. Affinché le restrizioni della libertà personale dell'indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza è necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l'accertamento definitivo della responsabilità. Se fosse possibile adottare misure restrittive della libertà personale giustificate solo dall'esigenza di salvaguardare finalità di ordine processuale, ne deriverebbe l'inaccettabile asservimento della persona alle esigenze del procedimento. Al contrario, è congeniale alla logica dell'inviolabilità della libertà personale sancita dalla Costituzione - oltre che alla regola di trattamento desumibile dall'art. 27 comma 2 Cost. - un sistema legale costruito in funzione della minimizzazione del rischio che l’imputato sia assoggettato ad un provvedimento coercitivo. Un potere così incisivo non può fare a meno di giustificare il suo esercizio attraverso una motivazione in cui trovi puntuale riscontro una 34 molteplicità di condizioni, ulteriori e più dettagliate rispetto a quelle che giustificano l'irrogazione della pena in esito alla pronuncia di una sentenza di condanna. 3.3. Libertà personale e libertà di circolazione Prima di concludere, occorre un'ultima notazione di carattere generale. Finora si è parlato di restrizione della libertà personale, senza precisare in che cosa essa consista. La Costituzione nel secondo comma dell'art. 13 offre alcune indicazioni testuali al riguardo, menzionando specifiche ipotesi restrittive ("detenzione, ispezione o perquisizione personale"). È quindi scontato che una simile restrizione ricorra quando è annullata ogni libertà di movimento; così come l'ispezione e la perquisizione personali, che sono forme di compressione della libertà. Vietare a qualcuno di recarsi in un luogo, o costringerlo a restarci, significa limitare la sua libertà personale, oppure restringere la sua libertà di circolazione? Il dubbio presenta importanti implicazioni concrete, poiché diverse sono le regole costituzionali, a seconda che si abbia riguardo alla libertà personale ( art. 13 Cost. ) o alla libertà di circolazione ( art. 16 Cost. ), presidiata soltanto da una riserva di legge rinforzata, ma non dalla riserva di giurisdizione e dall'obbligo di motivazione del provvedimento restrittivo. È lo stesso art. 16 Cost., però, a offrire un criterio per distinguere gli ambiti di applicabilità delle due previsioni: esso individua il proprio facendo riferimento alle limitazioni della libertà di circolazione stabilite dalla legge «in via generale» (com'è, ad esempio, il divieto di accesso ad una zona interessata da un'alluvione imposto dal Sindaco del Comune colpito dalla calamità naturale). Se ne desume, pertanto, che quando il divieto di accesso in un luogo, o l'obbligo di residenza, riguardi esclusivamente una persona determinata , e non riguardi una generalità indefinita di individui, allora a venire in rilievo non è la libertà di circolazione, bensì la libertà personale dell'individuo, con tutto ciò che ne consegue con riguardo alla riserva di legge, a quella di giurisdizione e all'obbligo di motivazione. La Corte Costituzionale ha affermato che le misure di prevenzione personali sono presidiate dalle garanzie stabilite dall'art. 13 Cost. Ne derivano livelli di tutela superiori rispetto a quelli assicurati nel sistema C.e.d.u. dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che per lo più qualifica tali misure come meramente limitative della libertà di circolazione, ai sensi dell'art. 2 Prot. n. 4 C.e.d.u. Più precisamente, la giurisprudenza europea distingue fra "privazione della libertà, riconducibile all'art. 5 C.e.d.u., e restrizione della libertà, rientrante invece nella libertà di circolazione, sulla base di in un criterio quantitativo, fondato sul più basso grado o sulla inferiore intensità con cui un provvedimento incide sulla libertà personale". 4. La libertà di domicilio Art. 14 Cost. 1) Il domicilio è inviolabile . 2) Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale. 3) Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali. Nell'impianto della carta fondamentale, la libertà del domicilio è legata a filo doppio alla libertà della persona: essa è infatti regolata nella disposizione ( art. 14 Cost. ) immediatamente successiva a quella dedicata alla libertà personale e secondo una disciplina che (se si prescinde dagli atti di vigilanza e di controllo amministrativo menzionati nel comma 3) è quasi identica a quella posta dall'art. 13 Cost.: esordisce con l'enunciazione d' inviolabilità (comma 1) e prosegue fissando, per gli atti che comprimono il bene protetto, un rinvio alle « garanzie prescritte per la tutela della libertà personale » (comma 2). Secondo una formula celebre il domicilio è una “proiezione spaziale della persona”. Per prima cosa, la libertà del domicilio viene compressa (con la conseguenza che l'incursione deve rispettare i requisiti imposti dall'art. 14 comma 2 Cost.) non soltanto quando si penetra fisicamente all'interno dello spazio protetto (come accade con le ispezioni o le perquisizioni) ma anche quando un frammento della vita che lì si svolge viene carpito dall'esterno (limitazioni di questo tipo possono essere effettuate con intercettazioni ambientali o riprese visive). 35 Per qualificare un luogo come domicilio ai fini di cui all'art. 14 Cost occorre anzitutto che il titolare ne possa disporre a titolo privato, cioè goda dello ius excludendi alios , secondo le sezioni unite della Cassazione, servono poi due ulteriori condizioni: il luogo dev'essere normalmente destinato ad attività riservate; e la relazione fra la persona e lo spazio deve avere un certo grado di stabilità, in modo che l'ambiente rimanga connotato dalla personalità dell'individuo e meriti di essere protetto anche quando questi non si trova all'interno: secondo tale tesi, cadono fuori dal raggio d'azione dell'art. 14 Cost. quegli spazi la cui fruizione sia temporanea (quali la toilette d'un locale pubblico). Proprio perché l'art. 14 Cost. ricalca quasi perfettamente l'art. 13, per gran parte dei problemi interpretativi che esso pone (dal significato dell'inviolabilità al ruolo della riserva di legge fino all'esatta estensione della formula «autorità giudiziaria») si può senz'altro rinviare all'analisi appena svolta. Qui bisogna affrontare una questione specifica. L'art. 13 comma 2 Cost. adopera un'espressione volutamente generica, che assoggetta alle garanzie ivi previste (non soltanto gli atti esplicitamente enumerati, ma anche) «qualsiasi altra restrizione della libertà personale»; non così l'art. 14 comma 2 Cost., che prevede soltanto “ispezioni”, “perquisizioni” e “sequestri”: combinando questo dato con la previsione sull'inviolabilità del domicilio, la dottrina aveva per lo più concluso nel senso che l'elenco fosse tassativo e che ogni atto di limitazione diverso da quelli espressamente nominati fosse proibito. Il problema è esploso fra la fine del secolo scorso e l'inizio del nuovo, quando l'evoluzione della tecnologia ha portato apparecchi di videoregistrazione sufficientemente piccoli, efficaci e versatili da permettere agli organi dell'indagine di filmare di nascosto l'interno delle mura di casa; sennonché, le riprese visive non compaiono fra le limitazioni alla libertà domiciliare previste dall'art. 14. Investita della questione, la Corte costituzionale non ha accolto l'interpretazione restrittiva alla quale s'è accennato, ed ha al contrario ritenuto che «il riferimento [...] alle "ispezioni, perquisizioni e sequestri" non è [...] espressivo dell'intento di " tipizzare " le limitazioni permesse, escludendo a contrario quelle non espressamente contemplate; [...] esso ben può trovare spiegazione nella circostanza che gli atti elencati esaurivano le forme di limitazione dell'inviolabilità del domicilio storicamente radicate e positivamente disciplinate all'epoca di redazione della Carta, non potendo evidentemente il Costituente tener conto di forme di intrusione divenute attuali solo per effetto dei progressi tecnici successivi». 5. La libertà e segretezza delle comunicazioni Art. 15 Cost. 1) La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili . 2) La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge. La libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione completa il trittico dei diritti «inviolabili». L’'art. 15 Cost. esordisce anch'esso con la proclamazione d'inviolabilità e subordina anch'esso la limitazione del bene protetto alla duplice garanzia della riserva di legge e della riserva di giurisdizione. Pure sul piano dei valori, del resto, l'intreccio è stretto: se il domicilio costituisce una «proiezione spaziale della persona», la libertà di comunicare con altri ne costituisce una “proiezione spirituale”. Però l'art. 15 Cost. esibisce anche una vistosa differenza: diversamente dagli artt. 13 e 14, non consente alla polizia alcun margine d'intervento autonomo, nemmeno per i casi urgenti. Potendo essere compressa soltanto in seguito ad un atto motivato dell'autorità giudiziaria, la libertà e segretezza delle comunicazioni si presenta, così, come uno dei diritti più forti dell'intero ordinamento. La scelta del costituente non è immotivata; nasce, anzitutto, da un moto di reazione verso il sistema anteriore: durante il ventennio s'era fatto un uso massiccio delle intercettazioni telefoniche, piegandole a fini di sorveglianza politica. Inoltre, le tecniche di compressione delle libertà inviolabili sono diverse. Gli atti che limitano la libertà della persona o quella del domicilio (quali le ispezioni o le perquisizioni) spesso toccano un unico soggetto; invece quando si controlla una comunicazione le persone coinvolte sono come minimo due. Infine, ispezioni e perquisizioni sono atti "palesi", nel senso che l'interessato può esserne a conoscenza sin dal momento in cui vengono compiuti; al contrario, le intercettazioni devono, per evidenti ragioni, essere eseguite all'insaputa del destinatario. 36 tutti i processi che cadessero nelle categorie individuate dalla legge. La seconda direttrice lungo la quale si snoda il principio di precostituzione legale implica l’obbligo di distribuire le cause con meccanismi automatici. In altre parole, non basta una legge purchessia: occorrono disposizioni costruite intorno a concetti netti e precisi, tali da non lasciare spazio a valutazioni di opportunità, perché «precostituzione del giudice e discrezionalità nella sua concreta designazione sono criteri fra i quali non si ravvisa possibile una conciliazione». Anche in quest’ambito, però, la giurisprudenza costituzionale è stata indulgente. La Consulta ha ripetutamente affermato che l’art. 25 comma 1 Cost. riguarda l’ ufficio , non i magistrati che vi sono preposti; in altri termini, la Carta fondamentale pretenderebbe soltanto che la legge indirizzasse il procedimento verso un certo Tribunale (o Corte d’assise, o giudice di pace…), mentre sarebbero irrilevanti i meccanismi che consentono (per lo più attraverso poteri dei dirigenti) di distribuire le cause, all’interno di quel Tribunale (o quella Corte d’assise, o quell’ufficio del giudice di pace), alle varie sezioni, ai vari collegi, ai vari giudici singoli. Quando iniziano i lavori per il nuovo codice, restano dunque ampi settori nei quali il principio di precostituzione legale del giudice non è attuato bene o non è attuato affatto. La connessione è stata elevata a “criterio autonomo di attribuzione della competenza”; ciò significa che i suoi effetti sulla determinazione del giudice deputato a trattare i procedimenti si verificano sempre, indipendentemente dal fatto che le cause connesse vengano trattate in modo cumulativo o separato (come si è detto, nel vecchio codice non era così). Inoltre, s’è cercato di attirare nell’orbita della precostituzione (non soltanto il procedimento di identificazione del giudice-ufficio, ma anche) i meccanismi che portano ad individuare il giudice-persona fisica: recependo e rendendo obbligatoria una prassi inaugurata dal Consiglio superiore della magistratura verso la fine degli anni Sessanta, gli artt. 3 e 4 delle norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale (nel 1988) hanno disegnato il cosiddetto “sistema tabellare”. L’art. 25 comma 1 Cost. prescrive infine che il giudice sia “ naturale ”. La Corte costituzionale ha a lungo sostenuto che le espressioni «precostituito» e «naturale» fossero sinonimiche; in una sentenza del 2006, però, ha affermato che «il predicato della “naturalità” assume nel processo penale un carattere del tutto particolare, in ragione della “fisiologica” allocazione di quel processo nel locus commissi delicti»: «il diritto e la giustizia devono riaffermarsi proprio nel luogo in cui sono stati violati». Non è ancora chiaro se si tratti d’un precedente isolato o d’una linea interpretativa destinata a prendere piede. 7. Il pubblico ministero e l’obbligatorietà dell’azione 7.1 L’indipendenza del pubblico ministero La distinzione del pubblico ministero dal giudice, il suo essere separato e distinto rispetto all’organo giudicante, costituisce garanzia dell’imparzialità di quest’ultimo. In altri termini, «il giudice è veramente tale (imparziale) solo se l’accusatore è inequivocabilmente parte». La figura del pubblico ministero andrebbe ricostruita tenendo conto di più aspetti. Come titolare dell'azione penale e contraddittore naturale dell'imputato, in posizione distinta ed equidistante rispetto al giudice, il pubblico ministero è funzionalmente parte. Ma questo non basta: come organo pubblico, comunque, va posto nel quadro di specifiche guarentigie. In forza di tale posizione, infatti, deve orientare le proprie scelte secondo criteri di imparzialità e tutela del pubblico interesse, ma a nulla varrebbe improntarne l'agire a canoni di legalità processuale, se fosse poi dipendente da altri poteri e dunque condizionabile in nome di interessi e scopi diversi dall'esclusivo ossequio alla legge. In questa prospettiva, indipendenza e titolarità del dovere di agire secondo la legge sono interconnessi e costituiscono corollari della posizione di organo pubblico che il magistrato d'accusa riveste. Si deve preliminarmente distinguere tra indipendenza esterna ed interna. La prima attiene all'autonomia del pubblico ministero dal potere esecutivo e in genere da altri poteri dello Stato o centri di potere esterni alla magistratura. La seconda riguarda invece l'assetto degli uffici del pubblico ministero e l'assenza di vincoli di soggezione gerarchica del singolo magistrato rispetto ad altri in posizione sovraordinata. Su entrambe, va detto, il dettato costituzionale appare vago, non recando riferimenti espliciti e diretti all'indipendenza del pubblico ministero in quanto tale. Sull'indipendenza esterna , la norma di riferimento è l' art. 107 comma 4 Cost., che, però, si limita ad affermare in termini privi di chiarezza che «il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi 39 riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario». La formula, oggettivamente debole rispetto all'omologo art. 101 comma 2 Cost. riferito ai soli giudici, sembra delegare alla legge ordinaria la definizione delle guarentigie del pubblico ministero, sicché la sua indipendenza, di fatto, risulterebbe non presidiata a livello costituzionale. In realtà, a ben guardare e malgrado la cautela del legislatore costituente, la garanzia dell'indipendenza è desumibile dal complesso della trama normativa fondamentale. Innanzitutto, come magistrato, il pubblico ministero fruisce della garanzia dell'indipendenza esterna, “rispetto ad ogni altro potere” (art. 104 Cost.), dell'inamovibilità (art. 107 Cost.) e dell'autogoverno, attraverso le competenze del C.S.M. (art. 105 Cost.). Lo stesso art. 107 Cost., in fin dei conti, esige comunque esplicitamente che siano riconosciute al pubblico ministero specifiche "garanzie". Infine, l'art. 108 Cost. prevede che la legge debba assicurare l'indipendenza del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali, e non è pensabile che tale garanzia non sia assicurata anche all'omologo organo presso la giurisdizione ordinaria. Sarebbe arduo sostenere, alla luce di questo impianto, che si possa mettere mano all'indipendenza del pubblico ministero senza modificare l'assetto costituzionale, che invece pare presidiarla in maniera affine a quanto previsto per i giudici. È incerto il quadro anche per quanto attiene all'indipendenza interna dei pubblici ministeri, che dovrebbe comportare l'assenza di vincoli gerarchici a doppio livello, ossia tra il singolo magistrato e il capo del suo ufficio e tra uffici diversi; non essendovi indicazioni espresse nel dettato Costituzionale. 7.2. L’obbligatorietà dell’azione penale Art. 112 Cost. 1) Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale. Ai sensi dell'art. 112 Cost., «il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale». Si tratta di un principio-cardine del sistema processualpenalistico, che funge da parametro di riferimento di numerosi istituti e condiziona non solo, come già visto, la fisionomia del pubblico ministero, ma anche la struttura stessa del rito penale, influenzando l'assetto delle sue cadenze principali. La clausola fondamentale, estremamente asciutta, costituisce la cinghia di trasmissione del principio di eguaglianza ( art. 3 Cost. ) nel procedimento penale. È intuitivo, infatti, che a nulla varrebbe assicurare che i singoli siano eguali davanti alla legge penale, se a ciò non facesse seguito la creazione delle condizioni per cui, a parità di condotta illecita loro addebitata, essi non avessero le medesime possibilità di vedersi perseguiti, indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche o condizioni personali e sociali. In questo senso, l'art. 112 Cost. è fonte di un canone di legalità processuale complementare a quello di legalità che presiede al diritto penale sostanziale , con cui condivide lo scopo di assicurare ai consociati un ordinamento penalistico che non operi mai in maniera discriminatoria. L’aspetto della titolarità comporta che il sistema normativo debba riconoscere al pubblico ministero il ruolo di dominus dell'azione penale, affidandogli il compito di individuare i casi in cui esercitarla ed elaborarne i contenuti. L'ordinamento può prevedere azioni penali sussidiarie o concorrenti rispetto a quella obbligatoriamente esercitata dal Pubblico Ministero, ma sono senza dubbio confliggenti con l'art. 112 e (...) con l'art. 3 Cost. quelle disposizioni normative che, attribuendo ad altri organi diversi dal Pubblico Ministero la titolarità esclusiva dell'azione penale per alcuni reati, ne inibiscono l'esercizio al Pubblico Ministero medesimo. Analogo dubbio di compatibilità con l'art. 112 Cost. si pone con riferimento alle condizioni di procedibilità , giacché ci si può chiedere se sia costituzionalmente tollerabile l'esistenza di ostacoli all'esercizio dell'azione che dipendano in toto dalle determinazioni di soggetti privati o pubblici (si pensi a querela, istanza, richiesta e autorizzazione a procedere), fondate sulle più varie ed insindacabili considerazioni. Anche in questo caso, la Consulta ha ripetutamente ammesso la compatibilità delle condizioni di procedibilità con l'art. 112 Cost., sul rilievo che queste sarebbero estranee all'obbligo di agire, non incidendo direttamente su di esso, ma piuttosto sulla fattispecie che ne integra il fondamento. In altri termini, la presenza o assenza di una condizione di procedibilità fa parte solo del complesso degli elementi che in base alla legge debbono integrarsi e che il pubblico ministero deve valutare per verificare la sussistenza dell'obbligo di agire, rispetto al quale comunque 40 non effettua alcun vaglio in termini di opportunità. La sostanza è che il sistema affida alle condizioni di procedibilità la selezione dei reati perseguibili quando il procedere all'accertamento potrebbe compromettere interessi di rilievo costituzionale, che autorizzino l'affievolimento del principio di cui all'art. 112 Cost. È il caso dei reati perseguibili a querela, quando siano bagatellari e dunque tali da non toccare necessariamente una soglia di offensività meritevole di spendere risorse nell'accertamento e nella sanzione, sicché si lascia alla vittima il compito di tracciare tale soglia; ovvero quando siano seri (si pensi ai reati contro la libertà sessuale), ma di tale delicatezza da dover considerare il possibile interesse dell'offeso a non voler affrontare il percorso giudiziario. Altro piano di analisi del canone costituzionale è poi quello contenutistico, attinente alla corretta determinazione del significato e dei confini dell' obbligo di agire . Va escluso, innanzitutto, che la perentorietà del precetto comporti che ad ogni notizia di reato debba fare necessariamente seguito un'azione. Di qui l'esigenza di contemperare il senso dell'obbligatorietà con l'esigenza di gestire razionalmente i carichi di lavoro e le risorse disponibili, sicché essa non possa essere intesa in maniera eccessivamente rigida. In questa prospettiva il canone secondo cui l'azione penale è obbligatoria va inteso semplicemente nel senso di precludere il suo contrario, ossia il cosiddetto "principio di opportunità", che in altri ordinamenti consente ai pubblici ministeri di scegliere se esercitare o meno l'azione penale in base a considerazioni strategiche o politiche. L'art. 112 Cost., insomma, nel pretendere che l'azione penale sia obbligatoria, vieta al legislatore ordinario di ammettere che sia facoltativa ossia che le scelte del pubblico ministero sull'alternativa tra azione ed inerzia siano libere, invece che vincolate. Il canone di obbligatorietà, dunque, si colloca in un'area intermedia tra questi estremi - necessaria implicazione notizia di reato/azione e libera determinazione del pubblico ministero in ordine all'azione - che consente un minimo di selezione dei casi criminali da portare a processo, senza però ammettere che possa essere governata liberamente dai magistrati d'accusa. E’ necessario prevedere un controllo ex post sulle scelte del pubblico ministero, che consenta di sindacare l'uso corretto delle valutazioni tecniche affidategli nel momento della scelta di agire o meno; controllo che è ineludibile affidare ad un organo giurisdizionale, la cui imparzialità è garanzia di correttezza della valutazione finale e dell'efficacia della verifica sull'operato di parte. Esso si colloca nello snodo tra azione e archiviazione, a valle di quest'ultima, cioè del momento in cui il pubblico ministero ha assunto la propria decisione nel senso dell'inerzia, per verificare se questa sia tecnicamente fondata o nasconda una scelta arbitraria per sottrarsi indebitamente all'obbligo di agire. Di qui, nel sistema codicistico, la previsione del controllo del giudice per le indagini preliminari sulla richiesta di archiviazione, che gli va rivolta proprio per assicurare che l'opzione archiviativa attraversi indenne il vaglio giurisdizionale per legittimarsi a fronte dell'art. 112 Cost. Inoltre, vanno normativamente individuati i parametri che vincolino le scelte del pubblico ministero, facendo da punto di riferimento per l'esercizio della discrezionalità tecnica che la norma costituzionale ammette, delimitandola in modo adeguato. Detti criteri debbono avere precise caratteristiche, strutturali e contenutistiche: devono essere predeterminati dalla legge, tassativi, definiti ed oggettivi. A completare l'assetto dei caratteri in base ai quali vanno costruiti, essi dovrebbero essere perfettamente speculari rispetto ai parametri che presiedono all'archiviazione. In altri termini, l'art. 112 Cost. impone che i presupposti per agire siano l'opposto dei presupposti per archiviare (!!!). Ove coincidessero, anche solo in parte, infatti, il pubblico ministero avrebbe - nelle zone grigie di tali stratificazioni - la possibilità di comportarsi legittimamente sia agendo, sia chiedendo l'archiviazione; il principio di obbligatorietà, invece, impone che al magistrato d'accusa sia aperta sempre, di fronte alla scelta tra azione ed inerzia, una sola strada legittimamente percorribile, restando l'altra preclusa. Non resta che chiedersi, a questo punto, se i canoni codicistici che governano la scelta tra azione ed inerzia siano coerenti con il dettato dell'art. 112 Cost. Lo sguardo cade inevitabilmente sull'art. 125 disp. att., che formula il canone di base relativo al concetto di fondatezza della notizia di reato, in presenza della quale il pubblico ministero deve esercitare l'azione, dovendo in mancanza determinarsi per la richiesta di archiviazione. Si tratta di un criterio che costruisce il potere del pubblico ministero come una forma di discrezionalità vincolata di natura tecnica, di per sé dunque compatibile con il canone costituzionale di obbligatorietà. È discusso, invece, se esso sia sufficientemente determinato, basato com'è su un pronostico di delicata definizione, come quello dell'idoneità delle prove a sostenere l'accusa in giudizio. In contrario, si osserva come si tratti di un parametro oggettivo e 41 La presunzione di non colpevolezza rappresenta, quindi, un criterio regolatore dei rapporti tra individuo e autorità sul delicato terreno processuale, e si propone come il più immediato ed efficace antidoto all'errore giudiziario. Il solido nucleo ideologico della presunzione è testimoniato anche dalla sua ampia diffusione (pur con formule lessicali differenti) nelle più importanti Carte internazionali. L'art. 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, nonché gli artt. 6 § 2 della C.e.d.u. e 14 § 2 del Patto int. dir. civ. e pol. Sul piano generale, la Corte europea dei diritti dell'uomo ritiene che la garanzia della presunzione di innocenza prevista dall' art. 6 § 2 C.e.d.u. rappresenti una specificazione della più generale nozione di equo processo di cui al primo paragrafo della stessa disposizione: ne deriva che i profili relativi alla violazione della presunzione di innocenza devono essere intesi come violazioni dell'equo processo, considerando il procedimento penale nella sua globalità. Significativa è la disciplina UE prevista in materia di "riferimenti in pubblico alla colpevolezza": “gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole”. Su queste basi, è necessario intervenire nel nostro sistema per regolamentare finalmente le "conferenze stampa" degli inquirenti, spesso lesive della presunzione di non colpevolezza. Un discorso analogo può essere svolto anche a proposito dei c.d. " video- highlights " della polizia giudiziaria. Si tratta, come è noto, di filmati confezionati dagli investigatori nel corso delle indagini preliminari e diffusi con il logo istituzionale del corpo di polizia di appartenenza. Ci si trova in presenza di un uso preprocessuale di atti d'indagine formatisi è bene ricordarlo - fuori dal contraddittorio. Di qui le censure dell'Osservatorio sull'Informazione giudiziaria dell'Unione Camere Penali Italiane (UCPI), che considera quei filmati idonei a «condizionare e (con)formare l'opinione pubblica prima dello svolgimento del vero e proprio processo». La Direttiva UE individua anche l'obbligo per gli Stati membri di predisporre adeguati presidi sanzionatori in caso di violazione dell'obbligo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli. L' art. 27 comma 2 Cost. adotta la formula della "negazione passiva": l'imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva (le formule "non colpevole", "innocente", "è presunto", "non è considerato", rappresentano solo varianti semantiche del medesimo concetto). Si tratta di una garanzia polifunzionale. Intesa come regola di trattamento , la presunzione costituzionale esprime il divieto di assimilare l'imputato al colpevole, e quindi il divieto di punire tale soggetto prima della condanna definitiva: sotto questo profilo, è il settore delle restrizioni alla libertà personale nel corso del processo a risultarne naturalmente coinvolto. Considerata come regola di giudizio , la presunzione cristallizza l'onere della prova della responsabilità penale in capo al pubblico ministero, risolvendo l'incertezza processuale in senso favorevole all'imputato, secondo l'aureo canone decisorio in dubio pro reo. Esiste un collegamento tra la presunzione di non colpevolezza ed il principio di " eguaglianza sostanziale " ( art. 3 Cost ): il divieto di assimilare l'imputato al colpevole dovrebbe essere inteso alla stregua di una garanzia estesa a tutti gli imputati, a prescindere dal tipo di reato, dalla posizione sociale ed economica, dalla recidiva e dai precedenti penali; di qui le perplessità in ordine alla politica criminale del c.d. "doppio binario" (primi anni novanta), focalizzata sul concetto di " imputato pericoloso ", che si è tradotta nella previsione di regimi diversificati tra imputati in materia di pubblicità del registro delle notizie di reato (art. 335 comma 3), di rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero (art. 347 comma 3), di adeguatezza della custodia cautelare in carcere (art. 275 comma 3), di diritto alla prova (art. 190 bis). Il fenomeno del doppio binario è stato poi ridimensionato dalla Corte costituzionale e dal legislatore con riferimento alla custodia detentiva. Presumere l'imputato non colpevole significa che l'ipotesi da verificare nel processo è la colpevolezza. L'imputato non è perciò tenuto ad attivarsi sul piano probatorio se non dopo che l'accusa abbia fornito la dimostrazione dell'esistenza di prove a carico, potendo contare su un epilogo favorevole in caso contrario. Dal sistema si ricava un obbligo di agire in capo al pubblico ministero (art. 112 Cost.), ma non un obbligo di reagire in capo all'imputato (art. 27 comma 2 Cost.), che può legittimamente scegliere di difendersi attraverso il silenzio, perché il rischio della mancata prova d'accusa gioca sempre a suo favore. 9.2. Presunzione di non colpevolezza e libertà personale 44 I rapporti tra la presunzione di non colpevolezza e la tutela della libertà personale dell'imputato (art. 13 Cost.) costituiscono da sempre un nervo scoperto del sistema. Difficile conciliare il divieto di equiparare l'imputato al colpevole fino alla condanna definitiva con la valutazione circa la "probabile colpevolezza" di tale soggetto effettuata durante il processo e necessaria per l'applicazione di una misura cautelare nei suoi confronti. L'esercizio del potere cautelare pone infatti l'imputato in una posizione ambigua di fronte all'autorità: egli, presunto non colpevole nel procedimento principale, è considerato (ancorché in via provvisoria) probabilmente colpevole nel procedimento cautelare . Ci si domanda, anzitutto, come sia possibile non considerare colpevole un imputato su cui gravano «gravi indizi di colpevolezza» (art. 273). L'antinomia si dissolve se si accoglie l'idea che il sistema esige i gravi indizi di colpevolezza come presupposto per la restrizione della libertà personale dell'imputato proprio perché quest'ultimo è protetto dalla presunzione di non colpevolezza. Più precisamente, se l'imputato non va assimilato al colpevole prima della condanna definitiva, ne deriva che, per limitare la libertà di tale soggetto nel rispetto dell'art. 13 Cost., si rende necessario il raggiungimento di un livello cognitivo idoneo a confermare, sia pur in via interinale e provvisoria (allo stato degli atti), che quel soggetto, probabilmente, è colpevole. I gravi indizi di cui all'art. 273 comma 1 rappresentano quindi una barriera cognitiva coerente con il valore della presunzione di non colpevolezza. Quanto alla compatibilità tra la presunzione di non colpevolezza e le esigenze cautelari (art. 274), si conviene da tempo sul ruolo dell'art. 27 comma 2 Cost. quale parametro finalistico dell'art. 13 Cost., che non fornisce esplicite indicazioni in ordine alle finalità cautelari. In questa prospettiva, l'art. 27 comma 2 Cost. va a riempire di contenuti l'art. 13 Cost. nel senso che il divieto di punire l'imputato prima della condanna definitiva, ricavabile dall'art. 27 comma 2 Cost., non consente di limitare la libertà personale di tale soggetto sulla base della sola prognosi di colpevolezza, perché diversamente la custodia cautelare assumerebbe i connotati di una pena anticipata. Considerato, però, che sul piano squisitamente afflittivo (cioè il livello di restrizione della libertà personale imposto all'imputato) è difficile separare le cautele dalle pene, il tratto distintivo va colto nelle esigenze cautelari , che devono risultare rigorosamente strumentali al processo e non fondarsi su anticipati giudizi di colpevolezza. Sotto questo profilo, la presunzione di non colpevolezza integra una vera e propria regola di trattamento: la sua funzione non sta nell'impedire l'applicazione di misure restrittive della libertà personale nei confronti dell'imputato, ma nell'evitare che la custodia cautelare sia applicata senza un adeguato supporto cognitivo, e per perseguire obiettivi stricto sensu "sanzionatori". E a questo proposito occorre tracciare alcune distinzioni. Mentre il rischio di inquinamento probatorio (art. 274 lett. a) e il pericolo di fuga dell'imputato (art. 274 lett. b) costituiscono istanze cautelari apparentemente in linea con la presunzione di non colpevolezza, perché perseguono scopi processuali e non danno necessariamente per scontato che l'imputato sia colpevole, l'esigenza di prevenzione speciale (art. 274 lett. c) resta invece costituzionalmente sospetta, perché si regge su una doppia prognosi di colpevolezza: che l'imputato abbia probabilmente commesso un determinato reato; che possa in futuro realizzarne altri. Qui la materia delle cautele s'intreccia problematicamente con il profilo dell'imputato pericoloso. Ma la presunzione di non colpevolezza dovrebbe implicare anche la presunzione di non pericolosità. È la stessa funzione cognitiva del processo ad apparire inconciliabile con l'idea di una pericolosità presunta dell'imputato: il processo serve ad accertare un reato già commesso, non ad impedire che l'imputato possa compierne altri. Va infine sottolineato come la distinzione tra custodia cautelare e pena sia stata di recente ribadita con forza dalla Corte costituzionale in alcune pronunce seriali che hanno coinvolto l'art. 275 (criteri di scelta delle misure): ne risulta una figura di imputato sempre meno compatibile con il carcere preventivo. Secondo alcuni, il divieto di punire prima della condanna definitiva è eroso anche dal meccanismo della sospensione del processo con messa alla prova (artt. 464 bis s.). Questo rito speciale presenta una componente afflittiva , poiché mira a soddisfare istanze specialpreventive e di risocializzazione attraverso l'applicazione di una "sanzione" - l'affidamento in prova ai servizi sociali (art. 47 ord. penit.) - applicata ad un soggetto (ancorché con il suo consenso) prima che la sua colpevolezza risulti accertata in via definitiva. Va però detto che esistono validi argomenti di segno opposto, nel senso della piena compatibilità della sospensione del processo con la presunzione di non colpevolezza (art. 27 comma 2), come sostenuto di recente anche dalla Corte costituzionale. 45 9.3. Presunzione di non colpevolezza e informazione La regola di trattamento si proietta anche al di fuori del processo e si sostanzia nel divieto di far apparire l'imputato come colpevole prima della condanna definitiva. Qui entrano in gioco i delicati rapporti tra la presunzione di non colpevolezza, la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto di cronaca ( art. 21 Cost. ). Se da un lato vi è la necessità di assicurare, attraverso l'imposizione di momenti di segretezza o di riservatezza, che le indagini penali non siano vanificate o che il corso del processo non venga turbato da fughe di notizie, dall'altro permane l'esigenza di garantire una corretta informazione dell'opinione pubblica sulle vicende giudiziarie, nonché, attraverso la trasparenza degli atti processuali, il controllo sociale sull’operato della magistratura. Il divieto di punire prima della condanna definitiva può risultare inficiato anche da una distorta informazione sul processo: spesso le notizie relative alle vicende processuali integrano infatti una sanzione atipica, perché producono effetti pregiudizievoli nei confronti dell'imputato. Sul terreno dei rapporti tra presunzione di non colpevolezza e diritto di cronaca emerge sovente una sorta di paradosso mediatico: la notizia di reato, l'informazione di garanzia (non di rado divulgata attraverso l'uso di una terminologia impropria che orienta la collettività a percepire tale istituto in chiave negativa, di stigmatizzazione sociale), gli arresti o i provvedimenti cautelari, innestandosi di regola all'inizio della fase procedimentale, hanno una resa mediatica di gran lunga superiore rispetto ad una sentenza di assoluzione, soprattutto se intervenuta a distanza di anni dal tempus commissi delicti . Questo aspetto problematico risulta poi ingigantito dalla cronica lentezza dei processi: i tempi lunghi della giustizia penale generano tensioni, false opinioni, pregiudizi, aspettative pubbliche che mal si conciliano con la posizione di colui che, in ogni caso, non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva. In un'ottica di bilanciamento tra valori di rango costituzionale, la presunzione di non colpevolezza autorizza la previsione di limiti al diritto di cronaca giudiziaria. La Corte europea dei diritti dell'uomo attribuisce alla presunzione di innocenza una sicura valenza extraprocessuale, sottolineando come nessun rappresentante dello Stato o di una autorità pubblica possa dichiarare una persona colpevole di un reato prima che la sua responsabilità sia stata accertata da un tribunale. Secondo i giudici europei, tuttavia, occorre distinguere tra dichiarazioni che riflettono una idea di colpevolezza e dichiarazioni che denotano uno stato di sospetto: solo le prime violerebbero la presunzione di innocenza, mentre le seconde sarebbero in linea con lo spirito dell'art. 6 C.e.d.u. Con riferimento ai rapporti tra la presunzione d'innocenza e i mass media, poi, si pone l'accento sull'importanza della scelta delle parole allorché si debbano divulgare fatti che riguardano una persona non ancora riconosciuta colpevole di un reato. La Corte di Strasburgo censura inoltre gli effetti stigmatizzanti prodotti da dichiarazioni rese dalle autorità pubbliche nell'informare la collettività sui procedimenti penali. Persino una pronuncia di proscioglimento per insufficienza di prove potrebbe determinare una violazione della presunzione di non colpevolezza, laddove la motivazione riflettesse l'opinione che l'accusato sia di fatto colpevole. 9.4. La dimensione temporale della presunzione di non colpevolezza La presunzione di non colpevolezza è un principio giurisdizionale. Non è un principio di ordine pubblico. Presuppone la presenza di una "accusa" relativa ad un reato già realizzato; non opera, quindi, sul terreno della prevenzione criminale. Si può quindi ritenere che la presunzione di non colpevolezza inizi a dispiegare i suoi effetti solo dal momento della formale acquisizione di una notizia di reato, cioè con l'avvio del procedimento penale. Quanto al termine finale di durata della presunzione, appare naturale individuarlo nella condanna che ha acquisito l'autorità del giudicato. Vietando di punire l'imputato prima di tale momento, l'art. 27 comma 2 Cost. sembra offrire una solida base costituzionale all'effetto sospensivo delle impugnazioni (art. 588). L'art. 6 § 2 della Convenzione non accenna esplicitamente alla durata della presunzione di innocenza per riconoscere ad ogni Stato membro la libertà d'individuare il momento esatto in cui la colpevolezza può dirsi raggiunta. Dai lavori preparatori dell'art. 27 comma 2 Cost. non emergono peraltro indicazioni che confermino la presenza di una volontà dei Costituenti di restringere la dimensione temporale della presunzione ad un momento anteriore al giudicato. L'art. 111 comma 7 Cost., inoltre, nel prevedere il ricorso per cassazione per violazione di legge contro le sentenze, enuncia un principio di carattere generale che 46 proiezione del principio di uguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2 Cost.) sul terreno del processo. A differenza dalla difesa personale, quella tecnica è obbligatoria: se l'imputato non ha un difensore di fiducia, gliene viene nominato uno d'ufficio (art. 97). L e disposizioni che imponevano la nomina d'un difensore d'ufficio anche all'imputato che avesse rifiutato qualsiasi assistenza furono dichiarate legittime dalla Corte Costituzionale. In primo luogo, l'idea che la difesa sia non soltanto un diritto individuale ma anche una garanzia oggettiva, un canone di regolarità del procedimento, che ne assicura l'equità e riduce il rischio d'errori. In secondo luogo, ha qui giocato un ruolo anche una concezione "paternalistica", in forza della quale l'ordinamento tende ad evitare manovre autolesionistiche dell'imputato. Una disposizione difficilmente compatibile con l'art. 24 Cost. e con l'idea della difesa come "garanzia" è l'art. 104, commi 3 e 4, che consente all'autorità giudiziaria di dilazionare, durante le indagini, il diritto dell'imputato arrestato, fermato o in stato di custodia cautelare di parlare con il proprio difensore: qui traspare anzi una concezione diametralmente opposta, che considera la difesa come fattore in grado d'inquinare il processo. L'art. 24 comma 2 Cost. definisce la difesa come diritto «inviolabile» . Abbiamo già incontrato l'attributo negli artt. 13, 14 e 15 Cost.; ma mentre in queste disposizioni esso svolge un ruolo forte, nell'art. 24 le cose stanno diversamente. A differenza di quel che si può dire per il corpo d'un individuo, per il suo domicilio e per la sua corrispondenza, la difesa non è una situazione di fatto che esista indipendentemente dalla predisposizione d'una disciplina; è una situazione di diritto , "artificiale" , un prodotto del legislatore. Esiste nella misura in cui la legge che regola il processo la fa esistere. Di conseguenza, la proclamazione di inviolabilità non funziona come un limite netto che il legislatore trova innanzi a sé e che è tenuto a rispettare; di per sé stessa, non risolve nessuno dei problemi interpretativi che possono concretamente porsi ma li lascia all'ideologia e alla discrezionalità dell'interprete, in particolare della Corte costituzionale. La riforma dell'art. 111 Cost. operata con 1. cost. 23 novembre 1999, n. 2, ha tentato di limitare questa discrezionalità e di attribuire maggiore concretezza alla protezione del diritto alla difesa, enunciandone tratti che fino ad allora erano rimasti impliciti. La nuova disciplina è stata collocata nell'art. 111 comma 3 Cost., perché si è ritenuto che fissasse alcuni requisiti minimi per il buon funzionamento del principio del contraddittorio, che è disciplinato appunto nell'art. 111; ma siccome questi requisiti minimi consistono tutti in diritti della persona accusata, probabilmente l'art. 24 Cost. sarebbe stato una collocazione migliore. L' art. 111 comma 3 Cost. prescrive anzitutto che «la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico». La formula « natura e motivi » viene dall'art. 6 C.e.d.u., con riferimento al quale è stato da tempo chiarito che il primo vocabolo allude alla qualificazione giuridica, il secondo ai fatti materiali ascritti all'imputato. Analogamente a quanto si ritiene con riguardo all'art. 6 C.e.d.u., non sembra imposta un'informazione dettagliata sin dalle primissime comunicazioni; il riferimento alla "possibilità" dell'informazione («nel più breve tempo possibile») permette di tener conto delle incertezze che spesso accompagnano i primi passi dell'indagine. Una contestazione chiara e precisa è tuttavia richiesta quando la fase investigativa volge al termine. La comunicazione dell'accusa svolge un ruolo d'estrema importanza nel procedimento penale. Sotto questo profilo, esiste un evidente legame fra la previsione che stiamo esaminando e quella - contenuta anch'essa nell'art. 111 comma 3 Cost.- relativa al diritto dell'accusato di disporre del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa: una esauriente comunicazione dell'addebito serve proprio per mettere l'imputato in condizione di elaborare le proprie strategie difensive. La legislazione ordinaria che implementa il precetto non è però inappuntabile. Anzitutto, sebbene esistano anche altri istituti che forniscono all'interessato notizia dell'indagine, l'esigenza è salvaguardata soprattutto dall' informazione di garanzia . In base all'art. 369, però, quest'avviso viene spedito solo quando si compie un atto "garantito" (al quale, cioè, il difensore ha diritto d'assistere). Ora, l'art. 111 comma 3 Cost. non esclude un bilanciamento di valori, in particolare fra l'interesse difensivo a ricevere notizia dell'addebito e l'interesse a mantenere il segreto attorno all'indagine; ma lascia perplessi il fatto che arbitro di questo bilanciamento sia il pubblico ministero, ossia il titolare di uno dei due interessi in gioco: è lui a decidere se e quando compiere un atto garantito e, di riflesso, se e quando spedire l'informazione di garanzia: potrebbe dilazionare quel momento a suo piacimento; 49 potrebbe anche decidere di non compiere alcun atto per il quale sia prevista l'assistenza difensiva, con la conseguenza che l'indagine resterebbe coperta fino alla fine. In secondo luogo, la comunicazione risulterebbe inutile (o addirittura fuorviante) qualora riguardasse un addebito sotto qualche aspetto diverso da quello effettivamente al centro dell'investigazione; a rigore ne deriverebbe «la necessità di una continua corrispondenza tra l'accusa comunicata e quella per cui si procede»; ma pure sotto questo aspetto, la disciplina del codice è largamente deficitaria. Infine, anche l'avverbio «riservatamente» non è sviluppato bene dalla legge; l'informazione di garanzia, infatti, non è coperta dal segreto (né "interno" né "esterno"), dal momento che esso riguarda solo gli atti d'indagine. Alla previsione successiva (l'accusato deve disporre «del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa») s'è già incidentalmente accennato. È un precetto che, pur ispirato anch'esso all'art. 6 C.e.d.u., calato nel contesto nostrano finisce per distaccarsene, perché funziona come un contrappeso alla clausola sulla ragionevole durata del processo (art. 111 comma 2), impedendo che venga intesa ed applicata in chiave reazionaria: da una parte il processo non può protrarsi troppo a lungo: dall'altra, però, l'imputato ha diritto a congrui termini in proprio favore. Si tratta comunque d'una disposizione piuttosto generica. L'art. 111 comma 3 prosegue riconoscendo all'imputato «la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore». Viene qui costituzionalizzata una categoria centrale: il diritto dell'imputato a confrontarsi con il proprio accusatore (ossia con chi ha reso dichiarazioni a carico) e, più in generale, il diritto alla prova ; il diritto, cioè, di sviluppare la difesa introducendo nel processo ogni elemento di conoscenza necessaria o utile per corroborare le proprie posizioni («diritto di difendersi provando»). L'ultima previsione dell'art. 111 comma 3 Cost. permette all'imputato di essere assistito “da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo”. È una tema che sta crescendo d'importanza, di fronte alla mole sempre più imponente di processi a carico di stranieri. A differenza dell'art. 6 § 3 lett. e C.e.d.u, l'art. 111 comma 3 Cost. non prevede il requisito della gratuità dell'interpretazione; esso è tuttavia assicurato dall'art. 143 comma 1. 10.2. Il diritto a non collaborare Un importante corollario del diritto di difesa è il principio nemo tenetur se detegere (nessuno è tenuto a smascherarsi): si tratta, in particolare, d'una componente dell'autodifesa, che si estrinseca nella facoltà di non fornire elementi in proprio danno. L'ordinamento vieta di adoperare la forza per costringere l'imputato a condotte autoincriminanti e in questo modo irrobustisce la sua libertà morale, ponendolo al riparo da pressioni. Qualche volta nella dottrina fa capolino la tendenza a circoscrivere il raggio d'azione di questo principio alle sole dichiarazioni (il cosiddetto diritto al silenzio); si tratta però d'una restrizione arbitraria, perché l'art. 24 Cost. non è limitato alle prove dichiarative ; perciò, da esso è corretto estrarre un più ampio diritto di "resistenza", che copre non soltanto il diritto al silenzio ma anche quello a non effettuare i movimenti corporei necessari a fini istruttori (per esempio, non indossare certi vestiti ai fini d'una ricognizione personale; non rilasciare un saggio fonico ai fini del riconoscimento della voce; e così via). Occorre peraltro ricordare che, nell'ambito del procedimento probatorio, l'imputato può venire in considerazione come organo di prova , ossia fonte dalla quale le informazioni promanano attraverso un atto di volontà, oppure come oggetto di prova , vale a dire "bersaglio" sul quale l'accertamento cade. Il diritto a non collaborare vale per gli atti che appartengono alla prima categoria, non per quelli che cadono nella seconda : in quest'ultimo caso l'imputato può trovarsi in uno stato di soggezione, una sorta di servitus iustitiae , che giustifica l'esecuzione coattiva dell'esperimento probatorio. Esemplificando, l'art. 24 Cost. non proibisce affatto che sull'imputato venga eseguita - anche contro la sua volontà - una perquisizione o un'ispezione. Questo naturalmente non significa che simili attività siano svincolate da limiti, ma solo che essi andranno ricavati da altri principi costituzionali, quali la tutela della libertà personale o della dignità umana. 50 Il confine tra le ipotesi nelle quali si chiede all'imputato (legittimamente) un pati e quelle nelle quali gli si domanda (illegittimamente) un facere, non è sempre netto. Si pensi all'eventualità in cui uno spacciatore che nasconde la droga in bocca, alla vista degli agenti, la ingoi; in alcuni Paesi europei è capitato che gli organi dell'indagine abbiano tentato di recuperare lo stupefacente somministrando forzosamente al sospettato un emetico tramite un tubo introdotto nello stomaco attraverso il naso, costringendolo così a rigurgitare la sostanza. A prescindere dalle obiezioni che potrebbero essere avanzate sotto altri punti di vista (a cominciare dall'intollerabile degradazione d'un individuo e dalla conseguente violazione della dignità personale), la relazione fra questa prassi ed il principio nemo tenetur contra se edere è problematica: secondo l'impostazione preferibile, quel criterio è violato, perché l'imputato viene costretto a contribuire alla propria condanna facendo qualcosa che spontaneamente non avrebbe fatto; eppure, alcuni studiosi e alcune pronunce hanno sostenuto il contrario: l'imputato dovrebbe soltanto tollerare un intervento che provoca involontarie reazioni corporee. Ad ogni modo, non c'è dubbio che la manifestazione più vistosa del diritto a non collaborare si colga sul terreno delle dichiarazioni. Viene qui in considerazione, in primo luogo, il diritto al silenzio , che spetta non soltanto all'imputato ma anche alle parti eventuali, con l'eccezione della parte civile. Esso protegge l'individuo quando si trova vis-à-vis con l'autorità; si spiega, così, come l'ordinamento possa prevedere le intercettazioni, che pure puntano proprio a carpire involontarie confessioni; non v'è, in ciò, alcuna contraddizione: quando si ascolta di nascosto una comunicazione dell'imputato, questi «non è posto a confronto diretto con l'autorità, non è da questa sollecitato a rispondere, non può subire pressioni»; si trova quindi in una “posizione nella quale la garanzia del diritto al silenzio [...] non ha alcuna ragione e possibilità di operare”. Un'ulteriore esplicazione del nemo tenetur contra se edere è la facoltà di mentire , che costituisce una scelta autodifensiva attiva. Dubbi ne sono tuttavia i limiti. Il codice (in particolare nella disciplina dell'identificazione del soggetto sottoposto ad interrogatorio: art. 66 comma 1) sembra imporre all'interrogato l'obbligo di dichiarare fedelmente le proprie generalità, ma non si può escludere che in certi casi mentire sulle generalità si riveli funzionale a una linea difensiva e risulti perciò legittimo (più precisamente: non punibile per la sussistenza della scriminante dell'esercizio d'un diritto). Secondo alcuni, inoltre, la facoltà di mendacio non può spingersi sino al punto di sviare la giustizia e deve perciò fermarsi sulla soglia dei delitti di calunnia o autocalunnia, i quali restano punibili. Altri obiettano che, pur essendo l'interesse alla corretta amministrazione della giustizia dotato di rilievo costituzionale, il diritto di difesa appartiene alla ristretta cerchia delle libertà inviolabili e deve quindi prevalere, almeno fin tanto che la dichiarazione calunniosa non sia gratuita ma effettivamente funzionale ad una linea difensiva. Non mancano opinioni intermedie, che distinguono a seconda dei contenuti della falsa dichiarazione. L'esercizio d'una facoltà processuale non può produrre conseguenze negative in capo a chi se ne sia avvalso; perciò, in linea di principio il rifiuto di rispondere (o la risposta menzognera o, più in generale, l'atteggiamento non collaborativo) non possono essere valutati come elemento a carico dell'imputato. Questo corollario, tuttavia, presenta alcune zone grigie. Se è indiscutibile che nessuna conseguenza possa essere tratta da un atteggiamento di opposizione "frontale", cioè dal radicale rifiuto di instaurare un dialogo con l'autorità, le cose diventano meno chiare quando l'imputato accetta di rispondere ad alcune domande, opponendo un rifiuto ad altre. Una parte della giurisprudenza ammette che questo comportamento possa essere valorizzato dal giudice come elemento di prova, mentre alcuni autori si collocano su posizione diametralmente opposte. Probabilmente è opportuno distinguere a seconda delle fasi, dei momenti, delle regole secondo le quali si svolge il confronto con l'autorità; così, per esempio, l'interrogatorio si colloca in un contesto precario e insidioso: per lo più innanzi al pubblico ministero, con un addebito ancora non ben definito e comunque suscettibile di variazioni, con un quadro probatorio anch'esso instabile e non perfettamente noto alla persona sottoposta all'indagine, con la partecipazione meramente eventuale del difensore... I rischi sono troppi per addossare all'imputato simili conseguenze. Le cose cambiano con riferimento all'esame dibattimentale, che si svolge in un ambito ben diversamente garantito: qui è più giustificato valutare come elemento di prova a carico il silenzio dell'imputato che ha scelto liberamente di sottoporsi all'atto. Dev'essere inoltre ricordato che una parte della giurisprudenza tende ad adoperare il silenzio dell'imputato ai fini della commisurazione della pena (per esempio, per la determinazione della pena 51 in causa le prove che, per loro natura, si costituiscono nel processo (ad esempio, la testimonianza, l'esame di imputati, la perizia), vincolando le regole del codice a basare sull'intervento delle parti la relativa modalità di sollecitazione della fonte e di elaborazione dei risultati conoscitivi. S'intende allora che la tecnica più perfetta di contraddittorio risieda nella escussione diretta della persona, depositaria d'un certo sapere, ad opera delle parti medesime. L'archetipo è rappresentato dalla cross-examination di derivazione anglosassone, dove accusa e difesa si alternano da posizioni antagoniste nell'intento di far sprigionare dalla fonte di prova le rispettive verità, cercando al tempo stesso di mettere in dubbio l'attendibilità delle affermazioni e la credibilità del teste di controparte. Il risvolto necessario d'una formula tanto categorica, nel designare il contraddittorio quale canone di elaborazione della prova, è costituito del divieto di fondare l'accertamento penale su conoscenze che siano state ottenute senza passare per il confronto dialettico tra le parti. La fase del dibattimento, deputata a risolvere con tutti i crismi la questione capitale della colpevolezza, va resa impermeabile al flusso di dati provenienti dagli stadi processuali anteriori: tali, anzitutto, gli atti acquisiti durante la fase delle indagini preliminari dal solo pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria oppure anche dalla difesa mediante le investigazioni private, atti destinati ad esaurire la loro precaria funzione lato sensu probatoria con il passaggio al giudizio dibattimentale. In altre parole, l'art. 111 comma 4 Cost. pone un'implicita regola di esclusione, volta a bandire l'uso come prova dei fatti oggetto del processo, ai fini della sentenza di merito, di elementi generati al di fuori di quel tipo di contraddittorio che vede contestualmente impegnate entrambe le parti nel trarre dalla fonte i risultati a sé favorevoli. Emerge appieno la differenza tra la concezione "forte" del contraddittorio propugnata dalla nostra Costituzione e la facoltà dell'accusato di “interrogare” o “far interrogare” i testimoni a carico cui si riferisce l' art. 6 § 3, lett. d C.e.d.u. , riprodotto quasi testualmente nel corpo dell'art. 111 comma 3 Cost. Quest'ultima garanzia non implica alcuna esclusione dal novero delle prove utilizzabili di quanto si sia originariamente formato a prescindere dal contributo dialettico della difesa. Per rispettare il diritto al confronto basta che all'imputato sia concessa un'occasione adeguata e sufficiente, nel corso delle varie fasi processuali, per contestare di petto al loro autore e alla presenza del giudice le dichiarazioni accusatorie, non importa se ciò avvenga al momento della deposizione o in seguito: il contraddittorio può essere perciò anche differito . Soddisfatta questa condizione, non è dunque contrario ad equità processuale che le precedenti dichiarazioni, rese alla sola controparte durante la fase preliminare, valgano ai fini della condanna. Soluzione ribadita, con specifico riguardo al diritto della difesa, dal secondo periodo del medesimo quarto comma dell'art. 111 Cost. Vi è sancito il divieto di basare l'accertamento di «colpevolezza» dell'imputato sulle dichiarazioni rese da persone ascoltate come fonti di prova (s'intende, dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria inaudita altera parte) che, «per libera scelta» (non importa se lecita o meno, se cioè il soggetto goda della facoltà di tacere o la sua renitenza a deporre sia penalmente sanzionata: conta l'assenza di costrizioni o di altre cause esterne di natura delittuosa), si siano «sempre volontariamente» sottratte al contraddittorio con il destinatario delle loro accuse nelle sedi processuali a ciò dedicate (incidente probatorio, dibattimento). Tale regola - da alcuni ritenuta, per il dettaglio che la caratterizza, disomogenea rispetto alla levatura di principio tipica della Carta fondamentale si trova riprodotta quasi alla lettera nell' art. 526 comma 1 bis c.p.p. Ne risultano legittimati, di conseguenza, gli istituti ai quali il codice di rito affida il compito di impedire l'ingresso nel fascicolo del dibattimento, con valore di piena prova, agli atti delle fasi preliminari: in particolare i limiti rigidi all'uso di conoscenze acquisite in via unilaterale che sono fissati dall'odierna disciplina delle contestazioni e delle letture , disciplina reimpostata dalla l. 1° marzo 2001, n. 63, in modo da chiudere il varco al passaggio di materiale raccolto in assenza di dialettica tra le parti che la Corte costituzionale aveva aperto con il filone di sentenze inaugurato nel 1992. La Corte costituzionale aveva ritenuto irragionevole la regola di esclusione, già prevista dal codice del 1988, in nome del principio di non dispersione della prova e del libero convincimento del giudice, considerandola d'ostacolo alla funzione del processo penale rappresentata dalla ricerca della verità. Tornata sui suoi passi, dopo l'introduzione del principio del contraddittorio nell'art. 111 comma 4 Cost., ha considerato naturale conseguenza di quest'ultima scelta l'esigenza che i meccanismi di acquisizione al dibattimento dei verbali formati nelle fasi anteriori non si prestino a favorire un 54 accesso illimitato e incondizionato, precisando come il libero convincimento si eserciti nei soli limiti delle prove che non siano escluse dalla legge tali, per l'appunto, quelle non assunte in contraddittorio. 12.3. Le eccezioni tollerate Art. 111, comma 5 Cost. La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. L'attuazione del contraddittorio nel momento formativo della prova non è considerata indefettibile, né insuperabile il divieto d'uso dibattimentale delle conoscenze altrimenti acquisite che si accompagna a quel principio. Lo stesso art. 111 Cost., al successivo 5 comma, autorizza la legge ordinaria a prevedere casi eccezionali di deroga, stabilendo tuttavia direttamente al più alto rango delle fonti normative, per evitare una troppo ampia discrezionalità, quali ragioni possano giustificare evenienze del genere. Tre ordini di criteri sovrintendono alla materia, la cui tassatività impedisce l'individuazione di ulteriori fattispecie: a) l'accertata impossibilità di natura oggettiva; b) la provata condotta illecita; c) il consenso dell'imputato. a) La prima ipotesi vuol riferirsi a quelle cause che escludono in rerum natura la realizzazione del contraddittorio, o per motivi congeniti ( nessuna dialettica è concepibile all'origine di un documento o dei risultati d'una intercettazione telefonica), oppure in virtù di circostanze accidentali che le parti non fossero in grado di prevenire (morte) allestendo per tempo la modalità antagonistica di assunzione della prova. Ciò non toglie che il concorso di tali fattori esterni nulla aggiunga alla qualità del dato istruttorio, mantenendolo esattamente com'era: deficitario della componente dialettica. La carenza è irrimediabile, sicché, ammettendo il recupero al dibattimento dell'atto preformato, la Costituzione accetta che la sentenza finale sia sorretta da prove munite di un basso grado di attendibilità in quanto non vagliate nel contraddittorio. Una compensazione al venir meno del divieto d'uso si può ottenere dal lato valutativo, pretendendo, alla stregua di quanto sancito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, che la condanna non si basi esclusivamente o in misura determinante su quelle conoscenze spurie. Restano fuori dalla portata dell'eccezione, vista la natura soggettiva dell'impossibilità, i comportamenti che dipendono dalla libera volontà di chi, rilasciate una prima volta certe dichiarazioni a qualcuna delle parti, ostacoli irrimediabilmente il successivo dispiegarsi del contraddittorio. b) L'uso legittimo, in funzione di prova, di atti venuti ad esistenza a prescindere dal contraddittorio può inoltre derivare dall'esercizio di pressioni sul dichiarante per indurlo a tacere (in tutto o in parte) di fronte alle domande rivoltegli o a rifuggire completamente l'esame coram partibus . Dubbia invece è la riconducibilità al precetto costituzionale dell'ipotesi del teste che, minacciato o blandito, deponga in modo non genuino: il contraddittorio qui si tiene; anzi, ne esce esaltato poiché può sviluppare la sua attitudine di migliore tecnica volta a svelare la menzogna. Tale interferenza deve assumere i contorni di un illecito penale (violenza, minaccia, subornazione) compiuto nei confronti della persona da esaminare quale fonte di prova e suscettibile di essere verificato quantomeno nelle componenti materiali. Se ci si ferma al tenore letterale della disposizione costituzionale, non sembra necessario accertare altresì che autore della condotta sia l'imputato o comunque la parte interessata ad impedire che la fonte di prova rilasci certe dichiarazioni nel contesto del contraddittorio. Ma la ragione per la quale risulta accettabile il recupero probatorio dell'atto unilaterale, normalmente ritenuto inattendibile e perciò escluso, consiste nel supporre vere le dichiarazioni in esso contenute proprio in quanto chi avrebbe a subire pregiudizio dall'uso delle medesime si è attivato al fine di evitarne indebitamente la ripetizione. c) La terza e ultima deroga fa leva sul consenso dell'imputato. Costui è abilitato a rinunciare all'esercizio del diritto al contraddittorio e a conferire, nel contempo, valore di prova per la decisione sulla responsabilità penale ad atti (per lo più, d'indagine) formati senza l'impiego del metodo 55 dialettico. L'intento perseguito dal legislatore costituzionale, nell'enucleare l'eccezione, era quello di salvaguardare la legittimità dei riti alternativi al dibattimento (giudizio abbreviato, applicazione di pena concordata, procedimento per decreto penale di condanna), dove la componente negoziale è appunto alla base di una semplificazione delle forme processuali che sacrifica in primo luogo l'elaborazione della prova mediante il contraddittorio, giustificando un accertamento meno attendibile in cambio di considerevoli benefici per l'imputato. La previsione fornisce tuttavia copertura anche ad un altro istituto avente natura dispositiva, cioè il concordato sulla prova in sede dibattimentale (introdotto con 1. 16 dicembre 1999, n. 479), che comporta l'uso di verbali delle fasi preliminari ai fini della sentenza. Se si considera il contraddittorio quale garanzia metodologica inflessibile di affidabilità dell'accertamento penale, la prestazione del consenso va intesa come implicito riconoscimento, ad opera dell'imputato, di non essere in grado di ottenere attraverso il proprio contributo dialettico risultati diversi da quelli già fissati nell'atto istruttorio acquisito in solitudine dalla controparte. Il contraddittorio sarebbe dunque superfluo e con la rinuncia l'imputato ne attesterebbe l'inutilità, sanando in un certo senso la carenza qualitativa del dato precedentemente raccolto in via unilaterale. Lo stesso deve allora valere ex adverso per il pubblico ministero quando si tratti di innalzare al rango di prova i frutti dell'investigazione difensiva, benché di una sua manifestazione di volontà l'art. 111 comma 5 Cost. non parli: l'asimmetria è rimediabile, nella regolamentazione del fenomeno negoziale demandata alla legge ordinaria invocando il principio di parità delle parti, sicché entrambe saranno reciprocamente chiamate ad esprimersi sulla trasformazione in prova delle risultanze altrui. Diversa l'impostazione al riguardo della Corte costituzionale, che considera il contraddittorio nella formazione della prova un aspetto del diritto di difesa e individua nel richiamo al consenso dell'imputato il riconoscimento della facoltà, in capo a quest'ultimo, di rinunciare unilateralmente alla elaborazione dialettica 247; questo, almeno, finché la scelta non determini uno squilibrio intollerabile tra i contendenti o l'alterazione dell'intero sistema. Così ridefiniti i termini della questione, sarebbe legittimo che il solo imputato attribuisca valore probatorio alla propria indagine privata ogni qual volta l'esito del giudizio resti comunque condizionato dalla mole preponderante di atti raccolti dal pubblico ministero durante le indagini preliminari. 13. La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali Art. 111, comma 6 e 7 Cost. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. La motivazione è la giustificazione del provvedimento giurisdizionale. Contiene le ragioni a sostegno della pronuncia adottata. Esistono sistemi processuali a verdetto immotivato e sistemi processuali che prevedono sentenze motivate. I primi fanno affidamento sulla giuria, composta da giudici non professionali, che sono espressione del corpo sociale. Sono sistemi in cui la giustizia è amministrata direttamente dal popolo . La correttezza della decisione nasce da questo stretto vincolo tra chi giudica e la società. I secondi puntano invece su giudici professionali, che sono tenuti a illustrare il percorso logico-argomentativo che sorregge la sentenza. È il caso dell'ordinamento italiano. La Costituzione stabilisce che la giustizia è amministrata dal giudice in nome del popolo (artt. 101 comma 1 e 102 comma 1 Cost.) e fissa il principio secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati ( art. 111 comma 6 Cost. ). La Carta fondamentale vincola così il dovere di decidere al dovere di motivare e vieta al legislatore ordinario di sostituire i giudici professionali con la giuria. Sebbene la Convenzione europea dei diritti umani non menzioni espressamente l'obbligo di motivazione delle sentenze, la Corte di Strasburgo ritiene che esso costituisca una componente fondamentale dell'equo processo. Nell'ordinamento italiano l'obbligo di motivazione si raccorda con il principio di legalità: la motivazione rivela se il giudice ha agito nel pieno rispetto della legge. Stretto è, inoltre, nel sistema processuale penale, il legame tra il dovere di motivare e il libero convincimento del giudice. Lo si ricava dall'art. 192 comma 1, secondo cui “il giudice valuta la prova dando conto 56 preliminari. Il termine finale , dal canto suo, è rappresentato dalla decisione conclusiva del processo. Si tratta di un principio funzionale non solo, come avviene nella prospettiva adottata dalla Convenzione europea, agli interessi dell'accusato , mirando ad evitare che il processo e il carico di sofferenza che ne discende abbiano una lunghezza eccessiva. Esso intende anche proteggere, secondo quella che è la prospettiva della Costituzione, l' interesse della vittima e della collettività ad una conclusione sufficientemente rapida della vicenda processuale, in particolare inibendo la previsione di norme che determinino inefficienze, o che consentano all'accusato di adottare tattiche dilatorie. Ciò dimostra come la ragionevole durata comporti un non agevole bilanciamento fra varie esigenze contrapposte: la tutela delle garanzie difensive, la realizzazione delle finalità cognitive del giudizio e l'efficienza processuale. A questo fine, un punto fermo è rappresentato dalla valenza sussidiaria della ragionevole durata. Ne discende che, nella sua contrapposizione con gli altri valori in gioco, essa non si colloca sullo stesso piano delle esigenze cognitive e delle garanzie difensive, ma assume una funzione vicaria. Non potrebbero mai dirsi irragionevolmente lunghe le attività procedimentali indispensabili per preservare il nucleo fondamentale di queste ultime. In particolare, il richiamo alla ragionevole durata non potrebbe mai giustificare la soppressione dell'esame incrociato: un metodo di raccolta delle prove dichiarative che, per quanto dispendioso, garantisce il nocciolo duro del contraddittorio nella formazione della prova ex art. 111 comma 4. Al contempo, la necessità di tenere conto del principio della ragionevole durata rappresenta un freno all'espansione incontrollata dei valori contrapposti. Così, l'art. 24 Cost. non permetterebbe la moltiplicazione delle garanzie difensive in tutte le fasi e i gradi del processo senza tenere minimamente conto delle esigenze di efficienza. Fatta questa premessa, non si può fare a meno di notare che la ragionevole durata possiede una bassa incidenza operativa se viene impiegata come parametro di costituzionalità . La gestione dei tempi processuali è una materia che la Corte costituzionale tende a riservare alla discrezionalità legislativa. In molti casi, la durata dei processi si allunga non a causa della configurazione delle norme, ma per colpa di fattori organizzativi o, comunque, umani in rapporto a cui non è agevole individuare dei rimedi legislativi. I termini del discorso mutano quando si adotta la prospettiva della Convenzione europea, considerando la ragionevole durata come diritto soggettivo . Così intesa, essa consente alla Corte europea di sindacare la durata di ciascun procedimento in base ad una serie di parametri tali da tenere conto delle peculiarità del singolo caso concreto. Ed infatti la sua violazione ha permesso ai giudici di Strasburgo di condannare l'Italia in numerose occasioni. A questo fine la Corte europea si avvale di tre indici dotati di una conformazione elastica, che vanno riferiti ai processi considerati nella loro globalità, e che attengono, rispettivamente, alla complessità del caso (complessità strutturale del singolo processo e difficoltà logistiche), al comportamento dell'interessato e al comportamento delle autorità competenti . E altresì necessario, ai fini dell'ammissibilità del ricorso proposto alla Corte europea, che il ricorrente abbia subito un danno “rilevante ”: un parametro fortemente discrezionale, imperniato sulla natura del diritto violato, sulla gravità dell'incidenza della violazione e sulle conseguenze della medesima, che ha consentito ai giudici di Strasburgo, ad esempio, di dichiarare irricevibile un ricorso in un caso in cui l'interessato era stato prosciolto per prescrizione. In caso di violazione del diritto alla ragionevole durata, all'interessato spetta un' equa soddisfazione ai sensi dell'art. 41 C.e.d.u., che consiste nel risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. A livello nazionale, la relativa disciplina si rinviene nella 1. 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto). 16. La riparazione degli errori giudiziari Art. 24, comma 4 Cost. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari. Il 4 comma dell'art. 24 Cost. impone al legislatore ordinario di determinare «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari», costituzionalizzando in tal modo l'obbligo statuale di un ristoro da attribuire alle vittime di una condanna ingiusta passata in giudicato. 59 L'idea sottesa alla nozione di errore giudiziario è che gli istituti della procedura penale abbiano la funzione di salvaguardare la libertà individuale e che le persone che non hanno commesso reati debbano rimanere immuni dai costi e dalle sofferenze correlati alla pendenza del procedimento penale e conseguenti alla pronuncia con cui lo stesso si conclude. In tale prospettiva, l'errore giudiziario non si risolve in qualsiasi divergenza della sentenza penale dal modello legale, ma si realizza soltanto in caso di condanna dell'innocente. Al contrario, l'eventuale assoluzione del colpevole non costituisce un errore giudiziario bensì l'esito, eventuale e fisiologico, di un sistema decisamente orientato alla salvaguardia dei diritti individuali e che, proprio in ragione di ciò, preferisce l'assoluzione di un colpevole alla condanna di un innocente. L'esigenza di riparazione degli errori giudiziari sancita in Costituzione trova riscontro esplicito a livello sovranazionale nell' art. 3 del Prot. n. 7 C.e.d.u. , ove è stabilito che deve essere indennizzata la persona nei cui confronti sia stata applicata la pena in ragione di una condanna penale definitiva e quest'ultima sia stata poi annullata, o in relazione ad essa sia stata accordata la grazia, poiché nuovi elementi o nuove rivelazioni comprovano un errore giudiziario. La costituzionalizzazione della riparazione degli errori giudiziari pare aver costituzionalizzato, indirettamente, anche gli istituti destinati a consentire la previa rimozione della condanna ingiusta attraverso un'impugnazione straordinaria. Se ne desume, così, che l'art. 24 comma 4 Cost., pur rimettendo al legislatore ordinario la determinazione di casi e modi della riparazione, costituzionalizzi la revisione, che è l'impugnazione straordinaria tradizionalmente funzionale a propiziare la pronuncia di una sentenza di assoluzione in luogo della condanna irrevocabile. Su tali basi si radica la fisionomia marcatamente garantista del giudicato penale, che esclude qualsiasi forma di perpetua irretrattabilità della sentenza penale nel caso in cui l'imputato sia stato condannato. Quale garanzia di libertà, il giudicato penale implica l'irretrattabilità perpetua e insuperabile delle sole sentenze liberatorie per l'imputato, lasciando sempre aperta l'eventualità di rimedi straordinari in bonam partem. Il novero delle fattispecie riconducibili al concetto di errore giudiziario non si limita ai casi in cui una persona sia stata ingiustamente condannata con sentenza irrevocabile. Pur in mancanza di quest'ultima, una persona può essere considerata vittima di un errore giudiziario tutte le volte in cui il provvedimento del giudice sia stato tale da determinare effetti pregiudizievoli in tutto analoghi a quelli derivanti dalla condanna passata in giudicato. Può essere considerato errore giudiziario, ma in senso ampio, il caso della cosiddetta ingiusta detenzione, vale a dire l'evenienza di una persona prima ristretta con provvedimento cautelare detentivo e poi riconosciuta non colpevole nel giudizio di merito. A questo riguardo l'art. 5 § 5 C.e.d.u. risulta più esplicito della nostra Costituzione, in quanto conferisce il diritto all'indennizzo a ogni persona vittima di arresto o detenzione in violazione delle garanzie che la Convenzione stessa prevede a tutela della libertà personale. Allo stesso modo l'art. 9 §5 P.i.d.c.p. prevede che abbia diritto a un indennizzo «chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali». Rimane fuori dalla nozione di errore giudiziario, invece, il caso dell'imputazione maldestramente elevata, la cui evidente infondatezza risulti sugellata dalla chiusura del procedimento con una sentenza di assoluzione. PARTE II - STRUTTURE CAPITOLO V - I SOGGETTI I LIBRO (art 1-108) 1. Profili sistematici Ai «Soggetti» è intitolato il libro di apertura del codice di procedura penale. Molteplici sono le chiavi di lettura per comprendere quanto contenuto nel primo libro, che non è solo un testo normativo ma ambisce ad essere una sorta di presentazione del sistema processuale riformato . Emblematica la scelta sottesa all’art. 1, rubricato «Giurisdizione penale». Questa previsione segna la deliberata presa di distanza dal codice previgente, il cui primo articolo riguardava la disciplina dell’azione penale obbligatoria. Il nuovo codice di procedura penale, invece, intende esaltare la centralità della giurisdizione e abbandonare, finalmente, la concezione inquisitoria del processo espressa, tra l’altro, nella preminenza – anche istituzionale – dall’accusa e nella consolidata convinzione che unica finalità 60 del processo penale sia l’effettività dell’apparato punitivo, assicurata attraverso l’obbligatorietà dell’azione. Parimenti significative sono le previsioni riguardanti l’ azione penale (art. 50) e le funzioni della polizia giudiziaria (art. 55), poiché sia l’una che l’altra testimoniano e rimandano ai nuovi assetti sistematici. L’articolo rubricato «azione penale» prefigura, sia pure implicitamente, la “doverosità” della richiesta di archiviazione quando manchino i presupposti per l’esercizio dell’azione penale. L’articolo relativo alle «funzioni di polizia giudiziaria», invece, evoca il principio di separazione delle fasi e la tendenziale “irrilevanza” probatoria dell’atto d’indagine, attraverso l’impiego della locuzione «fonti di prova», in una norma che per il resto presenta un tenore letterale pressoché identico a quello dell’omologo articolo del codice previgente (art. 219 c.p.p. del 1930). Innovative, poi, le norme che ampliano il novero dei privati legittimati a interloquire nel procedimento penale, ricomprendendovi la persona offesa, gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato (artt. 90 ss.). La ricomprensione in un unico libro di regole concernenti soggetti profondamente diversi quanto a ruolo, fisionomia istituzionale ed estrazione professionale ha il senso “politico” di superare l’impronta tendenzialmente gerarchica di regole e istituti della giustizia penale. Nel nuovo codice repubblicano, invece, privati e autorità si muovono – o almeno dovrebbero muoversi – su un piano paritario e tutti i soggetti, protagonisti e comprimari, condividono con pari dignità la responsabilità della conduzione del procedimento. Questa “coralità” del fenomeno processuale è registrata nel primo libro del codice, ove è contenuta la disciplina del giudice, del pubblico ministero, della polizia giudiziaria, dell’imputato, della parte civile, del responsabile civile, del civilmente obbligato per la pena pecuniaria, della persona offesa del reato, del difensor e. Art. 1 : “La giurisdizione penale è esercitata dai giudici previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario secondo le norme di questo codice”. 2. Il giudice: premessa politico - istituzionale Il giudice è una figura chiave all'interno dell'ordinamento giudiziario. L’esplicazione del metodo dialettico esige la presenza di un organo terzo e imparziale, senza il quale non sarebbe realizzabile lo schema triadico in cui consiste il contraddittorio ( processus est actus trium personarum ); al contempo, il rispetto del contraddittorio nelle sue differenti declinazioni rappresenta un percorso obbligato per il giudice, perché la sua sentenza spiega effetti relativamente immutabili sulla vita dell’imputato. Giudicare se punire oppure no una persona – e dunque se assoggettarla oppure no alla forza coattiva in cui consiste la pena – è funzione “sovrana”, in quanto tale storicamente condizionata dalle differenti forme che la sovranità assume nei diversi ordinamenti. Può dirsi che la concezione del giudice quale organo distinto dal titolare del potere sovrano si realizza in epoca moderna, dando forma a due diverse tipologie di giudice. Nei sistemi dell’ Europa continentale prende piede l’organizzazione burocratica degli uffici giudiziari: il giudice appartiene all’apparato statuale e viene selezionato secondo procedure burocratico-amministrative, sulla base della sua qualificazione tecnico-giuridica. Nei sistemi di common law , invece, la figura del giudice è bicefala: da un lato, c’è un organo a composizione laica (la giuria, che è composta da persone comuni) che pronuncia un verdetto immotivato di colpevolezza o non colpevolezza dell’imputato; dall’altro, c’è un giudice professionale – reclutato, cioè, per la sua abilità tecnico-giuridica – che dirige lo svolgimento del giudizio, presiede all’attività di assunzione delle prove e risolve le questioni di diritto che eventualmente possano porsi. 3. I giudici penali La parola giudice è una qualifica normativa, che trova espresso riscontro nel testo costituzionale (artt. 25 comma 1°, 101 comma 2°, 102, 103 comma 3° e 111 comma 2°), i cui contenuti sono stabiliti dalle norme di ordinamento giudiziario, la cui osservanza viene talvolta in rilievo quale condizione della stessa validità dell’atto processuale (si pensi, ad esempio, al primo gruppo di nullità di ordine generale individuato nell’art. 178 comma 1 lett. a). Il giudice esercita la funzione giurisdizionale, il cui schema necessariamente triadico implica appunto l'esistenza di un organo terzo e imparziale dinanzi al quale interloquiscono due parti dialetticamente contrapposte, in funzione dell'emissione di un provvedimento, la sentenza, il cui tratto caratteristico è la sua attitudine a passare in giudicato, vale a dire a divenire situazione giuridica tendenzialmente immodificabile. L'esercizio delle funzioni giurisdizionali penali presuppone la qualifica di magistrato, che si 61 elementi rilevanti nell’imputazione formulata dal pubblico ministero alla stregua di indagini complete; inoltre, esiste un giudice che procede in relazione a un fatto esattamente individuato. Di conseguenza, quando l’azione è stata esercitata dinanzi al giudice incompetente, sono previsti antidoti più incisivi, volti a incardinare tempestivamente la regiudicanda davanti al suo giudice naturale. Se il giudice si avvede della propria incompetenza dopo la chiusura delle indagini preliminari o durante il dibattimento di primo grado (art. 23 , comma 1) egli dichiara la propria incompetenza con sentenza ed ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente , di modo che si proceda come ritenuto opportuno. In grado di appello , invece, qualora il giudice si accorga che su un reato di competenza della corte d'assise ha giudicato il tribunale , oppure che su di un reato di competenza del tribunale ha giudicato il giudice di pace , pronuncia sentenza di annullamento ed ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado (art. 24 ). Quanto ai termini , dopo l’esercizio dell’azione penale, l’eventuale incompetenza è rilevabile ex officio dal giudice medesimo, o dedotta dalle parti, alla stregua di un regime differenziato. - L'incompetenza per materia è rilevata, di ufficio o dedotta dalle parti, in ogni stato e grado del processo, a meno che il reato non appartenga alla competenza di un giudice inferiore , in questo ultimo caso l'incompetenza è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, subito dopo che sia stato compiuto per la prima volta l’accertamento circa la regolare costituzione delle parti (art. 23 comma 2). - L'incompetenza per territorio e quella per connessione sono rilevate o eccepite, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall'articolo 491 comma 1, vale a dire entro la stessa scadenza entro cui va rilevata o eccepita l’incompetenza per materia del giudice superiore (art. 21 comma 2 e 3). Entro quest'ultimo termine deve essere riproposta l'eccezione di incompetenza respinta nell'udienza preliminare. L'inosservanza delle norme sulla competenza non produce l'inefficacia delle prove già acquisite. Le dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia, se ripetibili, sono utilizzabili soltanto nell'udienza preliminare e per le contestazioni a norma degli articoli 500 e 503 ( art. 26 ). Una disciplina a parte è prevista per i casi di incompetenza dichiarati nel procedimento cautelare ( art. 27 ). 4.1. Competenza per materia La competenza per materia presuppone una distribuzione in senso verticale degli affari penali tra diversi giudici, ordinata secondo un ordine progressivo che tiene conto della gravità dei reati affidati alla cognizione di ciascun giudice. I reati più gravi sono attribuiti alla competenza della Corte d'assise ; quelli meno gravi, ai sensi dell'art. 4 d.lgs. n. 274/2000, al Giudice di pace ; tutti gli altri al Tribunale . Il giudice competente per materia si individua sulla base di profili quantitativi e qualitativi. Ciò significa che il legislatore richiama limiti edittali (criterio quantitativo ), ovvero specifiche tipologie di reato (criterio qualitativo ). Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione delle circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale ( art. 4 ). ● La competenza per materia della Corte d'assise è individuata attraverso entrambi i criteri, poiché risulta sia l'indicazione di precisi limiti edittali (pena dell'ergastolo e della reclusione non inferiore nel massimo a 24 anni); sia l'indicazione di specifici reati, inclusi oppure esclusi dalla competenza di tale giudice ( art. 5 ). Per esempio omicidio volontario, omicidio del consenziente, delitto di strage se dal fatto deriva la morte di più persone. ● La competenza per materia del Tribunale , invece, è residuale e si ricava per sottrazione, perché a tale giudice risultano attribuiti i reati non appartenenti alla competenza né della Corte d'assise, né del Giudice di pace ( art. 6 ). Sono di compentenza l’omicidio colposo, i reati tributari, l’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. ● Alla competenza del Giudice di Pace sono attribuiti invece una molteplicità di reati 64 espressione di una 'microconflittualità interindividuale’ come ad esempio le percosse, la diffamazione, la minaccia. Infine restano sottratti alla competenza per materia di cui si tratta i reati attribuiti ai giudici specializzati (Tribunale per i minorenni e Tribunale militare). 4.1 bis. Competenza per territorio La competenza per territorio presuppone una distribuzione in senso orizzontale sull’intero suolo nazionale di una molteplicità di Corti d’Assise, di Tribunali e di Giudici di pace: il giudice competente per territorio è quello nel cui ambito territoriale è stato commesso il reato. Occorre far riferimento al luogo di consumazione del reato , se si tratta di fatto dal quale è derivata la morte di una o più persone, è competente il giudice del luogo in cui è avvenuta l'azione o l'omissione. Se si tratta di reato permanente, è competente il giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone. Se si tratta di delitto tentato, è competente il giudice del luogo in cui è stato compiuto l'ultimo atto diretto a commettere il delitto ( art. 8) . Oltre alle regole generali di cui all'articolo 8, il legislatore ha ritenuto opportuno inserire nel codice alcune regole suppletive, elencate dal legislatore alla stregua di un ordine non modificabile dall’interprete ( art. 9) . - La prima di esse prevede che se la competenza non può essere determinata in base alle regole generali, essa si radica presso il giudice dell'ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione (condotta è frazionabile in più tempi e quindi in diversi luoghi). - In via residuale, la competenza appartiene al giudice del luogo della residenza, della dimora o del domicilio dell'imputato . - L'ultima regola residuale, che trova appunto applicazione in caso di impossibilità ad applicare tutte le altre, la competenza appartiene al giudice del luogo in cui ha sede l'ufficio del pubblico ministero che ha per primo iscritto la notizia di reato nell'apposito registro. Se il reato è stato commesso solo in parte all'estero, la competenza è da determinarsi in base alle regole generali di cui agli articoli 8 e 9. Diversamente se il reato è stato commesso interamente all’estero sono previste regole specifiche fissate nei primi due commi dell’art. 10. L' art. 11 , in deroga alle regole di cui agli artt. 8 ss., individua l'organo giurisdizionale cui affidare la cognizione del procedimento riguardante un magistrato alla stregua di un criterio "circolare", fissato nella tabella allegata all'art. 1 disp. att.: la competenza si radica così in capo al giudice, competente per materia, che ha sede nel diverso capoluogo di distretto della Corte d'appello indicata nella tabella. Altra deroga si realizza ad opera dell’ art. 328, comma 1 bis , la legittimazione allo svolgimento delle indagini nei procedimenti relativi ai delitti di criminalità organizzata o ad altre tipologie di reati specificamente indicati dal legislatore, l’articolo individua quale giudice territorialmente competente nelle fasi delle indagini preliminari e dell'udienza preliminare non già quello individuato secondo le regole ordinarie, bensì quello del corrispondente capoluogo del distretto di Corte di appello. 4.2. Competenza per connessione In alcune situazioni le regole sulla competenza per materia e per territorio non sono sufficienti a individuare il giudice deputato a pronunciarsi su una certa vicenda. Sono questi i casi di connessione indicati dall’ art. 12. Si tratta di situazioni relative a fatti di reato che, presentandosi variamente collegati fra di loro, secondo il legislatore abbisognano dell'individuazione di un unico giudice competente, da scegliere fra i diversi giudici che sarebbero ciascuno competente per uno soltanto dei diversi avvenimenti. Prima di esaminare quali sono i criteri cui la legge ancora l'individuazione del giudice competente per connessione, occorre indicare quali siano le situazioni che rendono i procedimenti connessi . a) Il primo caso di connessione (art. 12 lett. a) riguarda un fatto di reato che si assume commesso da una molteplicità di persone in concorso o cooperazione colposa, ovvero una vicenda criminosa in cui l'evento sia stato determinato da più persone con condotte indipendenti (es. incidente stradale in cui sono morti alcuni pedoni, provocato da due autovetture che procedevano entrambe a elevata velocità; oppure l’esito infausto di un intervento chirurgico riconducibile alla condotta negligente di un chirurgo e ferrista). b) Il secondo (art. 12 lett. b) riguarda più reati commessi da una stessa persona con una sola 65 azione od omissione, ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso (es. terrorista che uccide con un ordigno più persone; tossicodipendente che commette più furti per acquistare le dosi di cui ha bisogno). c) Il terzo caso di connessione (art. 12 lett. c) si realizza quando taluni reati sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri (omicida che che occulta un cadavere) In tutte queste situazioni il legislatore ritiene che la competenza debba incardinarsi davanti a un solo giudice in relazione a tutti i fatti connessi, onde evitare che, applicando i tradizionali criteri per materia e territorio, i procedimenti relativi a ciascun reato siano affidati alla cognizione di giudici differenti. La connessione, però, non opera se l'autore di qualcuno dei reati connessi è un minore , oppure in caso di reati connessi posti in essere dalla stessa persona, quando qualcuno di essi sia stato commesso prima del compimento della maggiore età ( art. 14 ). L'esigenza di incardinare davanti a un unico giudice la competenza per i molteplici reati connessi implica la necessità di stabilire criteri determinati per individuare, fra i diversi giudici astrattamente competenti per ciascun fatto di reato, quello solo competente per connessione. Tali criteri sono disciplinati negli artt. 13, 15 e 16, ove sono stabilite le regole per individuare l'unico giudice competente per i diversi fatti connessi. 1) Nei casi in cui la competenza per materia dovrebbe spettare per un reato alla Corte costituzionale e per altro al giudice ordinario, è solo la Corte costituzionale il giudice competente per connessione. Con riguardo ai reati di alto tradimento ed attentato alla Costituzione, competente a giudicare il Presidente della Repubblica è la Corte costituzionale. Per quanto concerne invece la competenza concorrente tra giudice ordinario e giudice militare , qualora il reato più grave sia quello ordinario, la giurisdizione ordinaria è competente a giudicare anche quello militare; al contrario, qualora il più grave sia quello militare, questo non attrae nella sua competenza quello ordinario e, pertanto, le competenze rimangono separate ( art. 13 ). 2) Il criterio generale per individuare la competenza per materia determinata dalla connessione è la preferenza per il giudice superiore. Pertanto, se i fatti connessi rientrano alcuni nella competenza per materia del Tribunale e altri in quella della Corte d'assise , il giudice competente per connessione è la Corte d'assise ( art. 15 ). Alla stregua dell'art. 6 d.lgs. n. 274/2000, però, la connessione fra reati di competenza del Giudice di pace e altri di competenza di quello ordinario, con conseguente attribuzione. a quest'ultimo della competenza, opera esclusivamente in caso di concorso formale di reati. 3) Quando invece i diversi reati connessi siano attribuiti allo stesso giudice competente per materia, collocato presso sedi territoriali diverse, per individuare la competenza per territorio determinata dalla connessione si applica l' art. 16 : la competenza spetta al giudice territorialmente competente per il reato più grave, o a quello competente per il reato commesso per primo in caso di pari gravità dei reati connessi (comma 1). Infine, nell'ipotesi di connessione di cui all'art. 12 lett. a, se le azioni od omissioni sono state commesse in luoghi diversi e dal fatto è derivata la morte di una persona, il giudice territorialmente competente è quello del luogo dove si è verificato l'evento (comma 2). I criteri per individuare il reato più grave sono indicati nell'art. 16 comma 3. La connessione cumula in capo allo stesso ufficio la competenza dei diversi reati connessi, ma non comporta la celebrazione simultanea dei diversi procedimenti davanti allo stesso ufficio giudicante, che invece ha luogo soltanto quando risultino i presupposti della riunione di cui all' art. 17 , che è altro istituto, differente dalla connessione, esperibile dopo l'esercizio dell'azione penale, vale a dire esclusivamente nella fase eminentemente processuale. Durante le indagini preliminari, invece, è il pubblico ministero a scegliere se procedere separatamente oppure svolgere indagini contestuali relative ai distinti procedimenti connessi, unificando a tal fine i corrispondenti numeri identificativi. 4.3. Conflitti di giurisdizione e di competenza Il conflitto di giurisdizione e quello di competenza insorgono quando il giudice ordinario e altro giudice speciale (conflitto di giurisdizione ), o più giudici ordinari (conflitto di competenza ) affermino o neghino, entrambi, la propria giurisdizione o la propria competenza. Il conflitto è positivo , nel caso in cui i diversi giudici si riconoscono aventi giurisdizione o competenza; negativo , nell'opposto caso in cui ciascuno si ritenga deficitario dell'una o dell'altra e, su tali basi, intenda spogliarsi del procedimento ( art. 28 ). I conflitti previsti dall'articolo 28 cessano per effetto del provvedimento di uno dei giudici che 66 giudice che nel medesimo procedimento abbia esercitato funzione di giudice per le indagini preliminari (art. 34 comma 2 bis). Si aggiungono inoltre le incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario che negli art. 18 e 19 contempla una dettagliata disciplina di incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione forense o magistrati, ufficiali della stessa sede. Mentre l’ art. 35 c.p.p. afferma che nello stesso procedimento non possono esercitare funzioni, anche separate o diverse, giudici che sono tra loro coniugi, parenti o affini fino al secondo grado si tratta di incompatibilità per ragioni di parentela, affinità o coniugio . Ricorrendo uno dei casi di incompatibilità previsti dalla legge, il giudice è tenuto a spogliarsi spontaneamente del procedimento formulando dichiarazione di astensione (art. 36 comma 1); in mancanza dell'astensione del giudice, quest'ultimo può essere ricusato dalle parti (art. 37 comma 1). Le cause d'incompatibilità del giudice previste negli artt. 34 e 35 non esauriscono i motivi che possono legittimare la dichiarazione di astensione o di ricusazione. Il giudice ha l'obbligo di astenersi : se ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un difensore è debitore o creditore di lui, del coniuge o dei figli; se è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti private ovvero se il difensore, procuratore o curatore di una di dette parti è prossimo congiunto di lui o del coniuge; se ha dato consigli o manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie; se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti private; se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato dal reato o parte privata; se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto funzioni di pubblico ministero; se esistono ‘ altre gravi ragioni di convenienza ’ ( art. 36 comma 1). In tutti i casi in cui il giudice dovrebbe spontaneamente astenersi dal procedimento - eccetto quello delle gravi ragioni di convenienza, rimesso nella piena disponibilità del giudice medesimo - le parti possono ricusarlo ( art. 37 ), entro gli stringenti termini fissati nell'art. 38. Ulteriore causa di ricusazione, poi, si realizza se il giudice, nell'esercizio delle funzioni e prima che sia pronunciata sentenza, manifesti indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione (art. 37 comma 1 lett. b). Il giudice ricusato non può pronunciare né concorrere a pronunciare sentenza fino a che non sia intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione (art. 37 comma 2). L’ art. 40 si occupa della competenza a decidere sulla ricusazione. Non è ammessa la ricusazione dei giudici chiamati a decidere sulla ricusazione (art. 40 comma 3). I motivi della ricusazione devono essere indicati nella dichiarazione di ricusazione, a pena di inammissibilità (art. 38 comma 4), unitamente alle prove sulle quali la stessa si fonda (art. 38 comma 3). L'ordinanza che decide sul merito della ricusazione, ai sensi dell'art. 41 comma 3 provvede contestualmente a dichiarare se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice ricusato devono considerarsi efficaci e contro la stessa è proponibile, anche in caso di omessa pronuncia al riguardo, ricorso per cassazione nelle forme di cui all'art. 611. 6. La rimessione del processo La rimessione del processo consiste nello spostamento della sede di celebrazione del giudizio penale al fine di evitare che gravi situazioni locali, esterne rispetto al processo medesimo, influenzino negativamente la serenità del suo svolgimento, determinando condizioni tali da pregiudicare la complessiva imparzialità dell'ufficio giudiziario competente. Mentre l'astensione e la ricusazione tutelano il corretto esercizio della funzione giurisdizionale in relazione al singolo giudice persona fisica, la rimessione riguarda l'istituzione giurisdizionale di un dato luogo in tutte le sue articolazioni e indipendentemente dalla singola persona fisica investita della regiudicanda. In altri termini, ciò che rileva non è la sussistenza di orientamenti o relazioni personali e condotte riconducibili a uno specifico magistrato, bensì l'accertamento di situazioni ambientali estrinseche a ciascun soggetto del procedimento, che rischiano di turbare il giudice, le parti, i testimoni o qualsiasi altra persona che prenda parte al suo svolgimento. Stante il carattere locale delle situazioni pregiudicanti, il relativo rimedio consiste nello spostamento del luogo di celebrazione del processo, disciplinato attraverso la stringente predeterminazione legale delle situazioni di fatto alla cui ricorrenza connettere la translatio iudicii . L'individuazione di 69 presupposti specificamente determinati, infatti, costituisce condicio sine qua non della compatibilità costituzionale di questo istituto, che altrimenti rischierebbe di contrastare con il principio del giudice naturale (art. 25 Cost.). Il trasferimento da una sede all'altra, infatti, si risolve nella individuazione del giudice competente sulla base di una valutazione ex post , mentre la Costituzione impone la predeterminazione legale dell'ufficio giurisdizionale avente cognizione su una determinata regiudicanda. Ne discende che la salvaguardia dei principi costituzionali implicati nell'art. 25 Cost. esige che la disciplina della rimessione sia declinata alla stregua di un duplice livello di vincoli legislativi. Da un lato, deve risultare precisa e determinata la descrizione delle condizioni in presenza delle quali può darsi luogo al mutamento di sede del processo; dall'altro, devono risultare predeterminati con pari precisione i criteri sulla cui base individuare il giudice dinanzi al quale spostare la celebrazione del processo. Presupposto della rimessione è la persistenza di gravi situazioni locali non eliminabili , tali da turbare lo svolgimento del processo, vulnerando la libertà di autodeterminazione delle diverse persone in esso coinvolte ; ovvero tali da mettere a rischio la sicurezza o l'incolumità pubblica o da determinare motivi di legittimo sospetto . La decisione circa la translatio iudicii spetta alla Corte di cassazione che, ove ritenga sussistenti i presupposti della rimessione, emette ordinanza di accoglimento dell'istanza proposta, contenente l'indicazione del nuovo giudice, da individuare ai sensi dell'art. 11 ( art. 45 ). Il giudice dinanzi al quale è spostata la celebrazione del processo, quindi, è quello avente sede nel capoluogo del distretto di Corte d'appello determinato attraverso l'applicazione del criterio "circolare" fissato nella tabella allegata all'art. 1 disp. att., che collega ciascuna sede di Corte di appello ad altra contigua. In ogni stato e grado del processo di merito , sono legittimati a presentare richiesta di rimessione l' imputato , il Procuratore generale presso la Corte d'appello, il pubblico ministero presso il giudice che procede, ma non la parte civile (art. 45 comma 1). La richiesta dell'imputato deve essere presentata personalmente da quest'ultimo, oppure dal suo procuratore speciale (art. 46 comma 2). A seguito della presentazione della richiesta, il giudice procedente può disporre con ordinanza la sospensione del processo, ove siano riconosciuti il fumus boni iuris (e dunque non appaiano insussistenti i presupposti della rimessione) ed il periculum in mora (vale a dire nel caso in cui l'eventuale continuazione della celebrazione del processo rischi di vanificare gli effetti dell'eventuale successivo accoglimento della richiesta di rimessione da parte dalla Corte di cassazione) (art. 47 comma 1). Qualora il Presidente della Corte di cassazione non rilevi profili d'inammissibilità in via di prima delibazione dell'istanza, assegnando la richiesta di rimessione a una sezione semplice o alle sezioni unite della Corte di cassazione, il processo deve essere senz'altro sospeso : in udienza preliminare, prima dello svolgimento delle conclusioni, restano preclusi i naturali epiloghi della fase; nel dibattimento, prima della discussione, è inibita la pronuncia della sentenza (art. 47 comma 2). In conseguenza della sentenza 22 ottobre 1996 n. 353 della Corte costituzionale, e attualmente ai sensi dell'art. 47 comma 2 ultimo periodo, non può essere disposta la sospensione del processo in caso di presentazione di una richiesta di rimessione fondata sugli stessi elementi sulla cui base, in precedenza, era stata presentata altra analoga istanza dichiarata inammissibile o rigettata. 7. Il pubblico ministero Art. 112 Cost : Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale. Il pubblico ministero è un magistrato. Svolge la funzione di accusa nel procedimento penale ed è l'organo statuale in capo al quale è soggettivizzato l' interesse generale alla repressione dei reati ; inoltre l'ordinamento gli attribuisce il compito di curare l'esecuzione della condanna penale. Ai sensi dell'art. 112 Cost., egli ha l'obbligo di esercitare l'azione penale, i cui caratteri sono espressamente definiti nell' art. 50 (obbligatorietà, officialità e irretrattabilità). A differenza di quella del giudice, l'attività del pubblico ministero si svolge attraverso un susseguirsi di scelte, per lo più non prefigurate né prefigurabili in sede normativa. Il modo di condurre e orientare le investigazioni, i tempi da imprimere a esse, la stessa valutazione delle notizie di reato, specie se non qualificate, la loro selezione e la priorità da assegnare a una piuttosto che a un'altra sono altrettanti momenti ineliminabili della funzione requirente, rimessi a giudizi contingenti, condizionati dallo 70 specifico delle situazioni concrete. Si tratta, insomma, «di un'attività che non compone un procedimento a schema stabilito, come invece avviene per il giudice, i cui atti e giudizi trovano nelle norme una disciplina che per ognuno di essi consente di determinare a priori la doverosità e di controllarne a posteriori la legittimità». Nella vigenza dei codici di procedura penale anteriori alla Costituzione repubblicana il pubblico ministero è «rappresentante del potere esecutivo presso il potere giudiziario». In Italia, la sottrazione del pubblico ministero alla dipendenza gerarchica nei confronti dell'esecutivo si realizza, inizialmente nel 1946, che estende a tali magistrati la garanzia dell'inamovibilità già riservata ai giu- dici e modifica la forma di controllo esercitabile dal Ministro di grazia e giustizia da “direzione” a “vigilanza”. Successivamente la Costituzione del 1948 fissa nell' art. 112 la norma cardine dell'indipendenza del pubblico ministero da ogni altro potere dello Stato. I principi costituzionali dedicati alla magistratura risultano suscettibili di interpretazioni antitetiche in relazione alla figura del pubblico ministero, poiché tale organo «gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario» (art. 107 comma 4 Cost.), a differenza del giu- dice, che è soggetto soltanto alla legge (art. 101 comma 2 Cost.). Molteplici e profondamente discordanti fra di loro sono le posizioni espresse dalla dottrina con riguardo all'assetto istituzionale dell'ufficio dell'accusa nel nostro Paese. Nonostante tali discordanze di opinioni, il nostro sistema ha progressivamente emancipato il pubblico ministero dalla risalente impostazione burocratica e gerarchica del relativo ufficio, tendendo alla sostanziale equiparazione tra magistrati giudicanti e requirenti. 7.1. La distribuzione dei procedimenti fra i diversi uffici del pubblico ministero Gli uffici del pubblico ministero sono istituiti presso i diversi giudici del nostro ordinamento. a) Le funzioni del pubblico ministero sono esercitate, nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado , dai magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale , il cui ufficio è composto dal Procuratore, da uno o più aggiunti (in numero non superiore a uno ogni dieci sostituti), dai sostituti procuratori. b) Nei giudizi di impugnazione , il ruolo di parte pubblica è esercitato dai magistrati della Procura generale presso la Corte d'appello o presso la Corte di cassazione , il cui ufficio si compone di un Procuratore generale, di uno (presso la Corte d'appello) o più (presso la Corte di Cassazione) avvocati generali, di sostituti procuratori generali. L a distribuzione degli affari penali fra i diversi giudici sulla base della disciplina della competenza è il criterio che ripartisce fra i diversi uffici del pubblico ministero di primo grado la titolarità del potere-dovere di svolgere l'attività investigativa prodromica all'eventuale esercizio dell'azione penale. Tuttavia, la ripartizione dei procedimenti fra i vari uffici del pubblico ministero risulta semplificata rispetto a quanto avviene per il giudice, perché un unico ufficio - la Procura della Repubblica presso il Tribunale - svolge le funzioni d'accusa per i reati che competono al Giudice di pace, al Tribunale e alla Corte d'assise. Di conseguenza, le indagini saranno suddivise fra le varie procure in senso per così dire "orizzontale", secondo le regole sulla competenza per territorio e per connessione. All'interno di ogni ufficio della Procura della Repubblica la distribuzione degli affari penali è organizzata dal titolare attraverso meccanismi di designazione tendenzialmente automatici e predeterminati. Nell'udienza, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia . Il capo dell'ufficio provvede alla sostituzione del magistrato nei casi di grave impedimento , di rilevanti esigenze di servizio e in quelli previsti dall' articolo 36 comma 1 lettere a), b), d), e) . Negli altri casi il magistrato può essere sostituito solo con il suo consenso. Quando il capo dell'ufficio omette di provvedere alla sostituzione, il Procuratore Generale presso la Corte di appello designa per l'udienza un magistrato appartenente al suo ufficio ( art. 53 ). Mentre in relazione al giudice il legislatore ha ritenuto di dover elencare tassativamente i casi in cui il giudice debba astenersi (art. 36), con ipotesi che rivelano la presenza di un interesse personale, di una inimicizia con una delle parti, oppure di un rapporto personale (più o meno intenso) con una delle parti che prendono parte al processo, tale necessità non si è per contro ritenuta sussistente in relazione al pubblico ministero. Egli ha semplicemente la facoltà di astenersi in presenza di gravi ragioni di convenienza. Sulla dichiarazione di astensione decidono, all'interno dei rispettivi uffici, il procuratore 71 verifichino o le invalidino; per di più, gli esiti della ricerca sono condizionati dalle notizie via via raccolte e dalla maniera in cui tali risultanze vengono valutate. Si tratta, evidentemente, di attività che non può essere indirizzata secondo canoni predefiniti e che è suscettibile di regolamentazione alla stregua di parametri normativi solo con riguardo agli adempimenti formali connessi al compimento dei diversi atti. Nondimeno, le risultanze investigative condizionano enormemente le sorti del procedimento: non solo perché da esse dipendono le stesse determinazioni del pubblico ministero in ordine all'esercizio dell'azione; ma anche perché gli atti d'indagine sono destinati ad assumere valore di conoscenza utilizzabile dal giudice in svariati contesti (es. emissione di provvedimenti cautelari restrittivi della libertà personale). ASSUNZIONE DELLA QUALITA’ DI IMPUTATO: ● Richiesta di rinvio a giudizio (art. 416 c.p.p.) ● Decreto di citazione diretta a giudizio (art. 550 c.p.p.) ● Presentazione diretta o decreto di citazione per il giudizio direttissimo (art. 450 c.p.p.) ● Richiesta di giudizio immediato (art. 453 c.p.p.) ● Richiesta di decreto penale di condanna (art. 459 c.p.p.) ● Richiesta di applicazione della pena nel corso delle indagini preliminari (art. 447 c.p.p.) La qualità di imputato si conserva in ogni stato e grado del processo fino: ● Sentenza di non luogo a procedere non più impugnabile ● Sentenza di proscioglimento o di condanna irrevocabile ● Decreto penale di condanna divenuto esecutivo La qualità di imputato può essere riassunta una volta che la si è persa ● Per effetto della revoca della sentenza di non luogo a procedere ● Per ammissione al giudizio di revisione Per tali ragioni l’ art. 61 estende alla persona sottoposta alle indagini i diritti e le garanzie dell’imputato e l’applicabilità di ogni altra disposizione relativa a quest’ultimo a meno che non risulti diversamente stabilito. L’estensione alla persona sottoposta alle indagini dei diritti e delle prerogative previste per l’imputato non opera, però in senso inverso: le previsioni dettate con riguardo al primo, di regola, non risultano applicabili all’altro. 9.1. Diritto al silenzio Art. 62 (divieto di testimonianza sulle dichiarazioni dell'imputato) : 1. Le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di testimonianza. 2. Il divieto si estende alle dichiarazioni, comunque inutilizzabili, rese dall'imputato nel corso di programmi terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di minori. Art. 63 (dichiarazioni indizianti) : 1. Se davanti all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l'autorità procedente ne interrompe l'esame, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese. 2. Se la persona doveva essere sentita sin dall'inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate. Art. 64 (regole generali per l'interrogatorio) : 1. La persona sottoposta alle indagini, anche se in stato di custodia cautelare o se detenuta per altra 74 causa, interviene libera all'interrogatorio, salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenze. 2. Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. 3. Prima che abbia inizio l'interrogatorio, la persona deve essere avvertita che: a)le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti; b) salvo quanto disposto dall'articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso; c) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall'articolo 197 e le garanzie di cui all'articolo 197-bis. 3-bis. L'inosservanza delle disposizioni di cui al comma 3, lettere a) e b) rende inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata. In mancanza dell'avvertimento di cui al comma 3, lettera c), le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti e la persona interrogata non potrà assumere, in ordine a detti fatti, l'ufficio di testimone. Art. 65 (interrogatorio nel merito) : 1. L'autorità giudiziaria contesta alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito, le rende noti gli elementi di prova esistenti contro di lei e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, gliene comunica le fonti. 2. Invita, quindi, la persona ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa e le pone direttamente domande. 3. Se la persona rifiuta di rispondere, ne è fatta menzione nel verbale. Nel verbale è fatta anche menzione, quando occorre, dei connotati fisici e di eventuali segni particolari della persona. Fondamentale corollario del diritto di difesa è il diritto al silenzio , che esclude doveri di collaborazione in capo all'imputato, libero di scegliere se svolgere o no attività probatoria, se controdedurre per confutare le prove o limitarsi a negare ogni addebito oppure tacere. Nonostante la formale equiparazione fra imputato e persona sottoposta alle indagini (art. 61), l'assunzione delle dichiarazioni della persona cui risulta addebitato un fatto di reato risponde a logiche e regole diverse, a seconda che tale atto sia compiuto nel giudizio o in una delle fasi che lo precedono. Solo nel giudizio, infatti, la salvaguardia della persona accusata si attua attraverso l'effettiva pariteticità delle posizioni di accusa e difesa, entrambe coinvolte nella costruzione delle prove da porre a base della sentenza. Nel giudizio è l'imputato a decidere se sottoporsi ad esame oppure no e, proprio per questo, una volta manifestata la propria volontà favorevole all'esame, egli perde la possibilità di esercitare senza pregiudizio la strategia del silenzio, poiché la rilevanza probatoria dell'esame dell'imputato dipende proprio dal fatto che le sue eventuali mancate risposte possono comunque offrire al giudice argomenti di prova a suo carico (art. 209 comma 2). Al contrario, la persona sottoposta alle indagini deve essere lasciata libera di scegliere se rendere dichiarazioni oppure no senza che pregiudizio alcuno possa mai derivare dalla scelta di non deporre, perché durante le indagini l'asimmetria di posizione fra inquisito e autorità inquirenti è massima e, proprio in ragione di ciò, nessuna conseguenza sfavorevole può essere addossata a chi rimane in silenzio esercitando il suo diritto di tacere. Il legislatore presidia la deposizione della persona sottoposta alle indagini attraverso la previsione di una serie di obblighi gravanti sull'autorità procedente per assicurare le condizioni di fatto che consentano all'inquisito di scegliere liberamente se tacere o rendere dichiarazioni. A garanzia della volontarietà della scelta della persona sottoposta alle indagini , sono banditi «metodi e tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti» (art. 64 comma 2). Inoltre, la persona sottoposta alle indagini deve comparire libera all'interrogatorio - salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga o di violenze (art. 64 comma 1) - ed essere consapevole dell'esistenza del procedimento a suo carico ove potranno essere usate le sue dichiarazioni; deve poi essere avvertita del suo diritto di non rispondere e di rimanere in silenzio di fronte alle sollecitazioni provenienti dagli inquirenti (artt. 64 comma 3 e 65 comma 1). 75 Sempre in funzione difensiva, ancora, va letto l'obbligo dell'autorità procedente di contestare «alla persona sottoposta alle indagini in forma chiara e precisa il fatto che le è attribuito», renderle noti «gli elementi di prova esistenti contro di lei» (comunicando le relative fonti se non ne deriva pregiudizio per le indagini), invitarla «ad esporre quanto ritiene utile per la sua difesa» (art. 65 commi 1 e 2). Per evitare aggiramenti di tali regole, e sempre in funzione di salvaguardia dell'autonomia di scelta della persona sottoposta a procedimento circa il se e il quando rendere dichiarazioni, è vietato che possano formare oggetto di testimonianza le dichiarazioni comunque rilasciate dalla persona sottoposta alle indagini o dall'imputato nel corso del procedimento ( art. 62 ). Un'ulteriore forma di tutela anticipata del diritto al silenzio è quella sancita nella disciplina delle cosiddette dichiarazioni indizianti , di cui all' art. 63 . Il primo comma di tale previsione disciplina il caso in cui una persona, né imputata né sottoposta alle indagini, sia sentita dalla polizia giudiziaria o dal giudice o dal pubblico ministero quale persona informata sui fatti in quanto tale tenuta all'obbligo di rispondere e all'obbligo di rispondere secondo verità (art. 198 comma 1). Ebbene, se nel corso dell'audizione tale persona rende dichiarazioni da cui emergano indizi di colpevolezza a suo carico, l'autorità procedente è tenuta: 1) a interrompere l'atto che si sta svolgendo; 2) ad avvertire la persona esaminata che, in ragione delle dichiarazioni appena rese, saranno svolte indagini nei suoi confronti; 3) a invitare la persona esaminata a nominare un difensore. È poi stabilito che tali dichiarazioni non possano in alcun modo essere utilizzate a carico della persona che le ha rese. Pertanto, quando un soggetto obbligato a rispondere secondo verità renda, in ossequio a tale obbligo, una deposizione dalla quale emerga il suo coinvolgimento nella commissione di un fatto di reato, l'autorità procedente non può approfittare delle conoscenze apprese senza la previa osservanza delle garanzie difensive, utilizzando tali dichiarazioni contro chi le ha rese. Potrà utilizzarle solo quale notizia di reato a carico del dichiarante e/o come elemento di prova a carico delle altre persone eventualmente chiamate in causa nella deposizione. Il secondo comma dell'art. 63 si riferisce a una fattispecie distinta da quella appena presa in esame. A venire in rilievo è l'audizione davanti all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria di una persona che, sin dall'inizio , avrebbe dovuto essere sentita in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini; e che, invece, è stata sentita quale persona informata sui fatti. In tale caso è stabilita l'inutilizzabilità, sempre e nei confronti di chiunque, della dichiarazione resa. Questa inutilizzabilità che si definisce assoluta o erga omnes, per distinguerla da quella relativa ed erga se sancita nell'art. 63 comma , si fonda su una duplice ratio. Senz'altro essa è stabilita per salvaguardare il diritto della persona sottoposta alle indagini di scegliere consapevolmente se deporre oppure no. Ma non è questo l'unico obiettivo del legislatore: tale scopo, infatti, è già realizzato dalla inutilizzabilità contra se delle dichiarazioni non assistite dalle garanzie difensive, sancita dall'art. 63 comma 1. La scelta di prevedere una invalidità più radicale di quella stabilita nel primo comma si spiega in funzione deterrente, alla luce dell'esigenza di orientare l'attività degli inquirenti, disincentivando discutibili prassi in violazione di legge. Quel che al legislatore preme di evitare è che l'autorità procedente sia indotta a sentire qualcuno senza osservare le garanzie prescritte nell'art. 64, al solo fine di indurre tale persona a rendere dichiarazioni "negoziate e compiacenti" a carico di altri. 9.2. Identità ed esistenza in vita dell’imputato L’ individuazione della persona sottoposta a procedimento penale è concetto distinto dalla sua identificazione e soltanto la prima è condizione essenziale per l’instaurazione del procedimento. Individuare una persona significa precisare quale sia il soggetto cui attribuire il fatto di reato e nei cui confronti svolgere le indagini e poi, eventualmente, esercitare l'azione penale. Identificare qualcuno, invece, significa attribuire un'identità alla persona individuata L’ art. 66 afferma che nel primo atto cui è presente l'imputato, l'autorità giudiziaria lo invita a dichiarare le proprie generalità e quant'altro può valere a identificarlo, ammonendolo circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false. L'impossibilità di attribuire all'imputato le sue esatte generalità non pregiudica il compimento di alcun atto da parte dell'autorità procedente, quando sia certa l' identità fisica della persona. Le erronee generalità attribuite all'imputato sono rettificate nelle forme previste. L’ art. 67 afferma che in ogni stato e grado del procedimento, quando vi è ragione di ritenere che 76 Il coinvolgimento della persona offesa risulta particolarmente incisivo in materia di archiviazione, stante il suo potere di provocare l'intervento del giudice al fine di propiziare l'esercizio dell'azione penale. Non meno rilevanti, poi, il potere di sollecitare il Procuratore generale presso la Corte d'appello a disporre l'avocazione e quello di propiziare il sindacato sulla legittimazione allo svolgimento delle indagini dall'ufficio del pubblico ministero procedente per incardinare il procedimento presso un'altra Procura della Repubblica. Vanno ricordati, ancora, il diritto della persona offesa di partecipare all'incidente probatorio e al contraddittorio cartolare ai fini della proroga del termine di durata delle indagini; infine, le prerogative della persona offesa riguardanti il suo diritto a ottenere notizie circa l'iscrizione di un procedimento nell'apposito registro delle notizie di reato. Nei decenni che hanno seguito all'entrata in vigore del nuovo Codice, si è assistito ad un progressivo rafforzamento dei presidi normativi a tutela della vittima del reato, più in particolare la valorizzazione del ruolo della vittima nel procedimento cautelare, nel diritto probatorio e in materia di restrizione cautelare della libertà personale dell’imputato. 11.1. Enti e associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato Negli anni che precedettero la riforma del codice di procedura penale aveva iniziato a farsi strada nella giurisprudenza (civile, amministrativa e, successivamente, anche penale) il riconoscimento degli interessi cosiddetti diffusi, vale a dire di situazioni non meramente individuali, fino a quel momento apprezzate per lo più in termini di mero fatto, relegate perciò nell'area della tutela extra giurisdizionale. Vennero ricompresi nel novero dei danneggiati non soltanto l'individuo effettivamente colpito dalla condotta delittuosa, ma anche gli enti portatori di ulteriori interessi lesi dal reato e riferibili a una molteplicità di persone e/o gruppi sociali. Nell'intento di arginare la discutibile dilatazione dei casi di ammissibilità della parte civile appena richiamata, la disciplina vigente riconosce espressamente che i diritti e le facoltà della persona offesa possono essere esercitati nel procedimento penale anche dagli enti e associazioni senza scopo di lucro, cui la legge abbia riconosciuto finalità di tutela degli interessi lesi dal reato, in un momento anteriore alla commissione del fatto per il quale si procede (art. 90). L'esercizio dei diritti e delle facoltà spettanti agli enti e alle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato è subordinato al consenso della persona offesa (art. 92) e deve essere formalizzato in un atto d'intervento - cui va allegata la dichiarazione di consenso della persona offesa (art. 93 comma 2). Tale intervento può avere luogo fino a che non siano compiute le formalità di verifica della regolare costituzione delle parti in dibattimento (art. 94). In caso di presentazione fuori udienza, l'atto d'intervento è notificato a tutte le altre parti, che potranno eventualmente opporsi ad esso. 12. Il difensore Art. 103 - Garanzia di libertà del difensore 1. Le ispezioni e le perquisizioni negli uffici dei difensori sono consentite solo: a) quando essi o altre persone che svolgono stabilmente attività nello stesso ufficio sono imputati, limitatamente ai fini dell'accertamento del reato loro attribuito; b) per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato o per ricercare cose o persone specificamente predeterminate. 2. Presso i difensori e gli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, nonché presso i consulenti tecnici non si può procedere a sequestro di carte o documenti relativi all'oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato. 3. Nell'accingersi a eseguire una ispezione, una perquisizione o un sequestro nell'ufficio di un difensore, l'autorità giudiziaria a pena di nullità avvisa il consiglio dell'ordine forense del luogo perchè il presidente o un consigliere da questo delegato possa assistere alle operazioni. Allo stesso, se interviene e ne fa richiesta, è consegnata copia del provvedimento. 4. Alle ispezioni, alle perquisizioni e ai sequestri negli uffici dei difensori procede personalmente il giudice ovvero, nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero in forza di motivato decreto di autorizzazione del giudice. 5. Non è consentita l' intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e 79 loro ausiliari, nè a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite. 6. Sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. 7. Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall'articolo 271, i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti, non possono essere utilizzati. Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l'ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta. Art. 104 - Colloqui del difensore con l’imputato in costodia cautelare 1. L'imputato in stato di custodia cautelare ha diritto di conferire con il difensore fin dall'inizio dell'esecuzione della misura. 2. La persona arrestata in flagranza o fermata a norma dell'articolo 384 ha diritto di conferire con il difensore subito dopo l'arresto o il fermo. 3. Nel corso delle indagini preliminari per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, quando sussistono specifiche ed eccezionali ragioni di cautela, il giudice su richiesta del pubblico ministero può, con decreto motivato, dilazionare, per un tempo non superiore a cinque giorni , l'esercizio del diritto di conferire con il difensore. 4. Nell'ipotesi di arresto o di fermo, il potere previsto dal comma 3 è esercitato dal pubblico ministero fino al momento in cui l'arrestato o il fermato è posto a disposizione del giudice. 4-bis. L'imputato in stato di custodia cautelare, l'arrestato e il fermato, che non conoscono la lingua italiana, hanno diritto all'assistenza gratuita di un interprete per conferire con il difensore a norma dei commi precedenti. Il difensore è un professionista munito delle competenze tecnico - giuridiche adeguate ad assistere la persona coinvolta in un procedimento. Le fonti internazionali (art. 6 C.e.d.u. e art. 14 Convenzione internazionale sui diritti civili e politici) trattando in maniera esplicita dell'assistenza difensiva delle persone assoggettate a procedimento penale, rimarcano come in questo ambito il principale titolare del diritto di difendersi e di farsi assistere dal difensore sia proprio l'accusato. L'attività svolta dal difensore può assumere le forme dell' assistenza o della rappresentanza . La prima consiste nella collaborazione offerta all'imputato al di fuori del procedimento, oppure durante il suo svolgimento ai fini del compimento di determinati atti. Quando, invece, il difensore si sostituisce all'assistito nell'esercizio di determinati diritti o facoltà, la corrispondente attività può essere definita di rappresentanza. Nell’ordinamento italiano l’assistenza del difensore è irrinunciabile dall’imputato, se non sceglie un avvocato di propria fiducia, gliene deve essere nominato uno ex officio . Al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce all'imputato, a meno che essi siano riservati personalmente a quest'ultimo. L'imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all'atto compiuto dal difensore prima che, in relazione all'atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice ( art. 99 ). La legittimazione generale del difensore rimane esclusa quando si tratti di assumere determinazioni relative a diritti fondamentali dell'imputato, di cui solo quest'ultimo può disporre (es. richiesta di rimessione, di giudizio abbreviato). Tutti questi atti, però, possono essere posti in essere dal difensore nel caso in cui l'imputato gli abbia conferito apposita procura speciale . Diversamente, non sono mai esperibili dal difensore gli atti che, costituendo estrinsecazione dell' autodifesa, presuppongono l'imputato come soggetto agente , come ad esempio gli enunciati narrativi sui fatti e le autodifese; la rinuncia alla prescrizione da parte dell’imputato oppure la scelta della lingua del processo. Infine, il difensore è titolare di un proprio diritto d'impugnazione e, relativamente al decreto penale di condanna, è legittimato a presentare opposizione ai sensi dell'art. 461. 12.1. Garanzia di libertà del difensore Occorre evitare che la persona assistita sia reticente con il proprio legale - e dunque non ponga 80 quest'ultimo nelle condizioni di offrire la migliore difesa - nel timore che quanto riferito o consegnato al proprio avvocato in relazione ai fatti oggetto del procedimento possa, poi, in qualche modo filtrare nella disponibilità dell'autorità procedente. Perciò risultano codificati precisi e insuperabili limiti ai poteri investigativi degli organi inquirenti ( art. 103 ), al fine di presidiare attraverso una barriera invalicabile i luoghi e gli spazi, anche virtuali, entro i quali si esprime l'attività difensiva . Al fine di minimizzare ogni possibile intrusione esterna, che rischierebbe di alte- rare il fisiologico svolgersi delle diverse attività attraverso cui il difensore adempie al proprio mandato, è stato stabilito il tendenziale divieto di effettuare ispezioni, sequestri, perquisizioni e intercettazioni concernenti luoghi, cose, documenti o conversazioni comunque riferibili ai difensori oppure agli investigatori o ai consulenti della difesa, a meno che non ricorrano le specifiche e stringenti condizioni che sole pos- sono legittimare l'eventuale prevalenza del potere investigativo della parte pubblica e degli organi di polizia a discapito delle prerogative difensive (art. 103 commi 2 e 5). L'eventuale tra- sgressione del divieto di effettuare ispezioni, sequestri, perquisizioni e intercettazioni desumibile dall'art. 103 determina l'inutilizzabilità degli esiti conoscitivi di tali atti; si atteggia, dunque, quale regola di esclusione autonoma e insuperabile. Negli uffici dei difensori e degli investigatori privati incaricati di svolgere inda- gini difensive eventuali perquisizioni e ispezioni sono ammesse esclusivamente quando, essendo imputato (o persona sottoposta alle indagini, in virtù dell'esten- sione di cui all'art. 61) il titolare dell'ufficio o una persona che in esso lavori stabilmente, l'atto investigativo a sorpresa serva a far emergere prove a suo carico; o anche quando - indipendentemente dallo status di indagato o imputato del difensore o di chi lavori presso il suo studio - gli inquirenti cerchino segni tangibili del reato («tracce o altri effetti materiali») oppure specifiche cose o persone già individuate (art. 103 comma 1). In ogni caso, dell'ispezione, della perquisizione o del sequestro nell'ufficio del difensore è avvisato il Consiglio dell'ordine forense del luogo in cui è svolto uno di tali atti, perché il presidente o un consigliere suo delegato possa assistere alle operazioni (art. 103 comma 3). Il riferimento a cose o persone specificamente predeterminate, contenuto nell'art. 103 comma 1 lett. b, serve a escludere ogni possibilità d'intrusione alla cieca e funge da criterio di ulteriore riduzione dei poteri investigativi esperibili nei confronti dei soggetti cui l'ordinamento demanda il compito di salvaguardare l'inviolabilità della difesa in ogni stato e grado. Ove ricorrano le situazioni legittimanti il potere d'ispezione e perquisizione sopra richiamate, comunque resta interdetto il sequestro presso i difensori di carte o documenti relativi all'oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato (art. 103 comma 2). 12.2. Colloqui tra difensore e persona assistita in vinculis Chi sia sottoposto a custodia cautelare, o sia in stato di fermo o di arresto, ha il diritto di conferire con il difensore subito dopo essere stato privato della libertà personale ( art. 104 ). A salvaguardia di tale diritto, gli artt. 293 comma 1 ter e 386 comma 2 impongono di avvisare immediatamente il difensore dell'avvenuta esecuzione della misura restrittiva e l'art. 36 disp. att. attribuisce al difensore medesimo il diritto di accedere ai luoghi in cui si trova il ristretto. Nel corso delle indagini preliminari, e solamente per i gravi delitti elencati all'articolo 51, commi 3 bis e 3 quater, il pubblico ministero può dilazionare per un tempo non superiore ai cinque giorni il diritto di conferire con il proprio difensore, ma solo per specifiche ed eccezionali ragioni di cautela. Evidentemente qui il legislatore ha ritenuto che l'interesse ad una corretta attività investigativa prevalesse sulle garanzie difensive, di modo che non ci siano compromissioni. Infatti, solo la presenza di specifiche ed eccezionali ragioni di cautela può comportare la deviazione dalla regola generale secondo cui il diritto al colloquio dell'imputato in vinculis deve essere immediato. Tale ragioni devono necessariamente essere esposte nel decreto, non impugnabile, emesso dal G.I.P. o dal P.M, viceversa si avrebbe una violazione del diritto di difesa. 12.3. Difensore di fiducia Art. 96 - Difensore di fiducia 1. L'imputato ha diritto di nominare non più di due difensori di fiducia. 81 del difensore (art. 106 comma 4 bis ), che risulta però eterogenea rispetto alla fattispecie generale, in quanto tutela l'interesse di una persona estranea al rapporto che lega il difensore al proprio assistito. Stabilisce che “non può essere assunta da uno stesso difensore la difesa di più imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altro imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso o collegato", obiettivo della previsione è quello di minimizzare il rischio che l'assistenza da parte di un medesimo difensore a favore di una pluralità di collaboratori di giustizia possa costituire situazione propizia a favorire ricostruzioni dei fatti in qualche modo concordate. L'eventuale violazione di questa norma, oltre a comportare la responsabilità disciplinare del difensore, impone solo una verifica particolarmente incisiva da parte del giudice in punto di attendibilità dei dichiaranti, ma non la loro inutilizzabilità. 13. Il difensore delle altre parti private, della persona offesa e degli enti o associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato La parte civile , il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria stanno in giudizio col ministero di un difensore, munito di procura speciale conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata dal difensore o da altra persona abilitata ( art. 100 ). La procura si conferisce dunque o con atto autonomo (come sopra descritto), oppure può essere apposta in calce o a margine dell'atto attraverso cui la parte si costituisce nel processo penale e non in calce o a margine di atto diverso da quello di costituzione. La procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell'atto non è espressa volontà diversa. Il difensore può compiere e ricevere, nell'interesse della parte rappresentata, tutti gli atti del procedimento che dalla legge non sono a essa espressamente riservati. In ogni caso non può compiere atti che importino disposizione del diritto in contesa se non ne ha ricevuto espressamente il potere. Il domicilio delle parti private per ogni effetto processuale si intende eletto presso il difensore. A differenza delle altre parti private diverse dall’imputato, la persona offesa partecipa al procedimento anche senza difensore, la cui assistenza è meramente eventuale. Rispetto a talune attività però l’assistenza tecnica è prevista come condizione necessaria per l’esercizio dei poteri spettanti alla persona offesa, che risulta così gravata di un onere di designazione ( art. 101 ). A differenza dell'offeso, gli enti e le associazioni rappresentativi degli interessi lesi dal reato partecipano al procedimento esclusivamente con il ministero di un difensore munito di procura speciale. 14. L’abbandono e il rifiuto della difesa Art. 105 - Abbandono o rifiuto della difesa 1. Il consiglio dell'ordine forense ha competenza esclusiva per le sanzioni disciplinari relative all'abbandono della difesa o al rifiuto della difesa di ufficio. 2. Il procedimento disciplinare è autonomo rispetto al procedimento penale in cui è avvenuto l'abbandono o il rifiuto. 3. Nei casi di abbandono o di rifiuto motivati da violazione dei diritti della difesa, quando il consiglio dell'ordine li ritiene comunque giustificati, la sanzione non è applicata, anche se la violazione dei diritti della difesa è esclusa dal giudice. 4. L'autorità giudiziaria riferisce al consiglio dell'ordine i casi di abbandono della difesa, di rifiuto della difesa di ufficio o, nell'ambito del procedimento, i casi di violazione da parte del difensore dei doveri di lealtà e probità nonché del divieto di cui all'articolo 106, comma 4-bis . 5. L'abbandono della difesa delle parti private diverse dall'imputato, della persona offesa, degli enti e delle associazioni previsti dall'articolo 91 non impedisce in alcun caso l'immediata continuazione del procedimento e non interrompe l'udienza. L’abbandono e il rifiuto della difesa costituiscono le altre situazioni patologiche in aggiunta all’incompatibilità, che possono alterare le relazioni fra difensore e assistito ( art. 105 ). L' abbandono della difesa presuppone che il difensore, ricevuto l'incarico, abbia iniziato a svolgere l'attività di assistenza tecnica compiendo atti nell'interesse dell'assistito e poi abbia desistito. Se l'abbandono riguarda il difensore dell' imputato o della persona sottoposta alle indagini , sia esso di fiducia o d'ufficio, nel procedimento si determina una stasi, che dura fino a quando non si proceda alla 84 nomina di un nuovo difensore di fiducia oppure alla designazione di un difensore d'ufficio. In caso di abbandono del difensore di parte privata diversa dall'imputato, o del difensore della persona offesa o di enti e associazioni rappresentativi degli interessi lesi dal reato, il procedimento prosegue senza interruzione alcuna. Ciò significa che le parti private diverse dall'imputato, che possono stare in giudizio solo con il ministero di un difensore, in caso di abbandono della difesa perdono la possibilità di essere attive nel procedimento, a meno che non provvedano alla tempestiva nomina di un altro avvocato. Il rifiuto della difesa è configurabile in un momento anteriore a quello dell'assunzione dell'incarico e concerne esclusivamente il difensore d'ufficio, anche se mero sostituto, che non voglia accettare la nomina in assenza di giustificato motivo. Il Consiglio dell'ordine forense ha competenza esclusiva a pronunciarsi nei casi di abbandono o di rifiuto, ma il procedimento penale in cui essi hanno avuto luogo non è pregiudiziale rispetto al procedimento disciplinare, perché le due procedure sono completamente autonome. Ad ogni modo, l'autorità giudiziaria è tenuta a segnalare al Consiglio dell'ordine i casi di abbandono e rifiuto della difesa e, comunque, ogni violazione da parte del difensore dei doveri di lealtà e probità. 15. Il termine a difesa Art. 108 - Termine di difesa 1. Nei casi di rinuncia , di revoca , di incompatibilità , e nel caso di abbandono , il nuovo difensore dell'imputato o quello designato d'ufficio che ne fa richiesta ha diritto a un termine congruo, non inferiore a sette giorni, per prendere cognizione degli atti e per informarsi sui fatti oggetto del procedimento. 2. Il termine di cui al comma 1 può essere inferiore se vi è consenso dell'imputato o del difensore o se vi sono specifiche esigenze processuali che possono determinare la scarcerazione dell'imputato o la prescrizione del reato. In tale caso il termine non può comunque essere inferiore a ventiquattro ore. Il giudice provvede con ordinanza. Il legislatore prevede in via generale che il giudice, se richiesto, debba concedere un termine a difesa al nuovo difensore subentrato fiduciariamente o ex officio ad altro rinunciante, revocato o rimosso per causa d'incompatibilità o di abbandono, al fine di consentirgli di assumere ogni informazione utile al procedimento, mediante la conoscenza degli atti e l'espletamento di ogni altra attività ritenuta utile ( art. 108 ). Il nuovo difensore ha diritto ad un termine di regola non inferiore a sette giorni , e questo al fine di prendere cognizione degli atti ed informarsi sui fatti oggetto del procedimento. Il termine non può comunque essere inferiore a ventiquattro ore, nemmeno quando vi è il consenso dell'imputato o del suo difensore e quando vi sono specifiche esigenze processuali che possono determinare la scarcerazione dell'imputato (ossia quando si è prossimi alla scadenza dei termini massimi di custodia cautelare, o se si è prossimi al raggiungimento del termine di prescrizione del reato). Il diritto non è da attribuire dunque al difensore di fiducia subentrato a quello d’ufficio per effetto di una normale nomina in quanto tale avvicendamento non rientra in nessuna delle situazioni elencate. CAPITOLO VI - L’ATTO PROCESSUALE PENALE Sezione I - Fisiologia Agli “atti” è dedicato il libro II del codice di rito penale, che, evitando di parlare di atti "processuali" come faceva il codice previgente, si premura già nell'intitolazione di assegnare agli istituti che vi trovano spazio la più ampia applicazione possibile. Le relative norme, dunque, in ossequio a chiare ragioni di economia legislativa, val- gono a disciplinare alcuni aspetti di carattere generale ed operano in ogni stadio del procedimento, fatte salve clausole speciali derogatorie. Il codice, tuttavia, non offre alcuna definizione del concetto di "atto processuale penale", che va quindi ricostruito altrimenti, a partire dalle nozioni più ampie di fatto e di atto giuridico. In questa prospettiva, se fatto giuridico è qualsiasi accadimento, naturale o umano, idoneo a produrre effetti giuridici, l'atto giuridico ne è una species, giacché si tratta di una condotta umana volontaria, suscettibile di determinare tali effetti. Nell'ambito di quest'ultima categoria si inscrivono, poi, gli atti processuali penali , identificabili in ragione di più fattori concorrenti: 1) sono suscettibili di produrre effetti giuridici di rilevanza 85 processuale penale; 2) sono compiuti da soggetti del procedimento penale, sia pubblici, che privati; 3) trovano luogo nel contesto del procedimento penale. E’ definibile come " atto " solo ciò che è compiuto in seno al procedimento penale, da uno dei suoi soggetti e per le sue finalità, mentre è " documento " ciò che si è formato fuori dal procedimento ed indipendentemente da esso. Per procedimento si intende una sequenza ordinata di atti, «legati tra loro da criteri di logica relazione, tali per cui ogni atto legittima il successivo ed è legittimato dal precedente, mentre l'intera serie è preordinata al conseguimento di un effetto finale che scaturisce dall'ultimo atto della sequenza». Se questo è il genus "procedimento", la species "procedimento penale" è connotata dal suo essere preordinata «alla decisione giurisdizionale su una notizia di reato». Nella sistematica codicistica, il procedimento inizia formalmente nell'istante dell'iscrizione della notizia di reato nell'apposito registro ex art. 335 c.p.p., e finisce nel momento in cui diviene irrevocabile la sentenza che lo definisce. Gli atti contenenti l'informazione sulla commissione di un reato, come la denuncia o la querela, sono ontologicamente anteriori alla nascita del procedimento e quindi non se ne possono considerare atti. Si deve, peraltro, considerare che talvolta il rito comincia, di fatto, prima dell'iscrizione della notizia di reato. Quanto alla fine del rito, si deve considerare che talora esso si conclude prima di pervenire a una pronuncia irrevocabile: ove si chiuda con un'archiviazione, la sua fine coincide con il momento in cui diventa inoppugnabile l'atto archiviativo; ove termini, prima del dibattimento, con una sentenza di non luogo a procedere, il procedimento finisce nel momento in cui essa diviene esecutiva, ossia non più impugnabile. Inoltre, la legge distingue, entro la cornice del procedimento penale, l'area specifica del " processo ", che ne identifica una porzione soltanto: quella successiva all'esercizio dell'azione penale. È dall'atto di esercizio dell'azione, con la formulazione dell'imputazione, che il procedimento diventa processo e l'indagato imputato. 2. La lingua degli atti La lingua ufficiale del procedimento penale è quella italiana, sicché è in italiano che sono compiuti i relativi atti ( art. 109 comma 1 ). La regola risponde a un'elementare esigenza di uniformità, efficienza e pubblicità del rito penale, che impone che i protagonisti della vicenda processuale possano instaurare un'efficace dialettica tra di loro e che le dinamiche dell'accertamento siano comprensibili alla collettività. Tuttavia, la legge si preoccupa di dare adeguata attuazione all'obbligo posto a carico del legislatore dalla Costituzione di tutelare «con apposite norme le minoranze linguistiche» (art. 6 Cost.), che trova riscontro anche nell'art. 14 C.e.d.u. e l'art. 27 Patto int. dir. civ. pol. (norma che mira a salvaguardare l’identità dei gruppi alloglotti presenti nel territorio nazionale). Di qui, la disciplina dell'art. 109 comma 2 che, in deroga al disposto del comma precedente, ammette l'impiego nel processo di lingue diverse dall'italiano. Davanti all'autorità giudiziaria avente competenza di primo grado o d'appello su un territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta , il cittadino italiano che appartiene a questa minoranza è, a sua richiesta, interrogato o esaminato nella madrelingua e il relativo verbale è redatto anche in tale lingua. Nella stessa lingua sono tradotti gli atti del procedimento a lui indirizzati successivamente alla sua richiesta ( art. 109 comma 2 ). Per quanto riguarda la nullità , che scaturisce dall'inosservanza della norma, se gli atti del procedimento non sono redatti in italiano si prevede una forma di nullità relativa ; mentre in relazione al secondo comma si ritiene trattarsi di nullità intermedia in quanto il richiedente è una parte privata e dunque ci si trova di fronte a una violazione del suo diritto di intervento (art. 178, lett. c). Una speciale tutela, infine, è predisposta per chi sia affetto da specifici deficit uditivi o della parola. L'art. 119 prevede che la comunicazione nel procedimento con chi sia « sordo , muto o sordomuto» , possa avvenire in tutto o in parte per iscritto. 2.1. Il diritto all’interpretazione e alla traduzione L'impiego della lingua italiana come strumento di comunicazione privilegiato comporta che la legge si faccia carico di tutelare chi, coinvolto a vario titolo nella vicenda processuale, non la comprenda o non la parli, assicurando la necessaria intermediazione linguistica. Di qui la disciplina dedicata all'interpretariato e alle traduzioni, ossia ai casi e modi in cui l'ordinamento garantisce la riproduzione 86 proscioglimento; le seconde sono idonee ugualmente a definire il giudizio, ma solo in ragione di questioni processuali e quindi senza entrare nel merito dell'imputazione e della responsabilità dell'imputato, come nell'ipotesi in cui si verifichi l'esistenza di un ostacolo alla procedibilità dell'azione. Un'ulteriore classificazione distingue tra sentenze “ dichiarative ” e “ costitutive ”, a seconda che si limitino ad accertare l'esistenza di una data fattispecie di natura processuale (è il caso della declaratoria di incompetenza del giudice) oppure producano esse stesse un dato effetto giuridico, configurandosene come titolo costitutivo (come la sentenza che conceda la riabilitazione). Le ordinanze , invece, sono provvedimenti che governano lo svolgimento del procedimento, innestandosi in un segmento di esso, ma di regola, pur essendo espressione del potere giurisdizionale (dunque, atti esclusivi del giudice), non sono idonei a definirlo o ad esaurirne una fase . Vi sono, peraltro, delle rilevanti eccezioni nel sistema, giacché alcune ordinanze assumono di fatto efficacia definitoria, come quella che chiude il procedimento di archiviazione (art. 409) o quella che dichiara inammissibile l'impugnazione (art. 591). In ogni caso devono essere sorrette da motivazione. I decreti costituiscono la forma più semplice di provvedimento, tanto più che non sono appannaggio esclusivo degli organi giusdicenti , potendo essere emessi anche dal pubblico ministero . Sono volti a dare disposizioni solo incidentali all'interno del rito e hanno natura prevalentemente ordinatoria. Anche in questo caso, peraltro, la regola conosce significative eccezioni, come il decreto di archiviazione che definisce il procedimento chiudendolo in fase preliminare (art. 409, comma 1) o il decreto penale di condanna che ha natura decisoria (art. 460). I decreti non implicano di regola lo svolgimento di un confronto dialettico preventivo, sicché è naturale che non siano normalmente motivati, salvo che sia la legge a prescriverne espressamente la motivazione (art. 125, comma 3). Quando un provvedimento debba essere motivato - sia per natura, che per espresso dispositivo legislativo - l’assenza di motivazione ne comporta la nullità da ricondursi al regime delle nullità relative . 4. Il procedimento in camera di consiglio Art. 127 - Deliberazione in camera di consiglio 1. Quando si deve procedere in camera di consiglio, il giudice o il presidente del collegio fissa la data dell'udienza e ne fa dare avviso alle parti , alle altre persone interessate e ai difensori. L'avviso è comunicato o notificato almeno dieci giorni prima della data predetta. Se l'imputato è privo di difensore, l'avviso è dato a quello di ufficio. 2. Fino a cinque giorni prima dell'udienza possono essere presentate memorie in cancelleria. 3. Il pubblico ministero, gli altri destinatari dell'avviso nonché i difensori sono sentiti se compaiono . Se l'interessato è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice e ne fa richiesta, deve essere sentito prima del giorno dell'udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo. 4. L'udienza è rinviata se sussiste un legittimo impedimento dell'imputato o del condannato che ha chiesto di essere sentito personalmente e che non sia detenuto o internato in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice. 5. Le disposizioni dei commi 1, 3 e 4 sono previste a pena di nullità . 6. L'udienza si svolge senza la presenza del pubblico. 7. Il giudice provvede con ordinanza comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nel comma 1, che possono proporre ricorso per cassazione. 8. Il ricorso non sospende l'esecuzione dell'ordinanza, a meno che il giudice che l'ha emessa disponga diversamente con decreto motivato . 9. L'inammissibilità dell'atto introduttivo del procedimento è dichiarata dal giudice con ordinanza, anche senza formalità di procedura, salvo che sia altrimenti stabilito. Si applicano le disposizioni dei commi 7 e 8. 10. Il verbale di udienza è redatto soltanto in forma riassuntiva a norma dell'articolo 140 comma 2. La disciplina del «procedimento in camera di consiglio», malgrado la terminologia impiegata, non allude a un luogo di svolgimento del rito, ma ad una specifica modalità di esercizio dell’attività giurisdizionale , funzionale all’adozione di svariati provvedimenti, di cui alcuni adottati incidentalmente e quindi innestati come parentesi nel procedimento principale, ed altri persino idonei 89 a definirlo in via tendenzialmente definitiva. L’articolazione del procedimento in camera di consiglio è prevista all’art. 127 in via generale, con la costruzione di un modello-base al quale altri istituti possono fare riferimento. In tal modo si realizzano una ragionevole economia normativa e un’efficace semplificazione interpretativa, giacché al legislatore non è necessario ripetere più volte la descrizione del procedimento in camera di consiglio, essendo sufficiente fare rinvio a uno schema comune, e all’interprete basta riferirsi a quest’ultimo per individuare le coordinate del rito. Inoltre, ciò assicura una certa omogeneità (soprattutto in tema di garanzie) tra i vari schemi operativi, evitando il prodursi di inavvertite e irragionevoli disparità di trattamento in ragione del proliferare di modelli troppo differenziati. Il richiamo alla norma generale può essere effettuato sia in modo esplicito, mediante rinvio espresso dall’istituto in cui essa viene ad operare (come avviene, ad esempio, nell’art. 309 comma 8), sia in maniera implicita, sicché l’art. 127 opera laddove una norma faccia riferimento alle forme del “procedimento in camera di consiglio” (si pensi all’art. 401 comma 1). Il modello, inoltre, è riferibile a procedimenti che si snodino tanto innanzi a un organo monocratico, quanto di fronte a un organo collegiale, considerato che l’art. 127 comma 1 fa riferimento al «giudice» o al «presidente del collegio». In ogni caso, lo schema di riferimento previsto dall’art. 127 è suscettibile di differenti modulazioni, in ragione della complessità e del rilievo dell’oggetto che di volta in volta viene discusso e deciso nelle diverse sedi camerali. Le norme che richiamano la previsione generale sul procedimento camerale, infatti, sia in modo esplicito che implicito, prevedono sovente clausole speciali in deroga , che ne “limano” le disposizioni adattandole alle specificità del procedimento incidentale in cui esso opera. Ciò accade spesso, ad esempio, in merito alla costruzione della dialettica tra le parti, che il modello-base prevede con un livello di garanzia per così dire intermedio, essendo basato sulla presenza facoltativa delle parti e su un contraddittorio anche cartolare. Così, laddove l’oggetto del rito lo richieda, il legislatore, pur facendo rinvio all’art. 127 per la fisionomia generale del procedimento, si è premurato talora di prevedere la partecipazione obbligatoria delle parti (si veda l’ udienza dell’incidente probatorio ex art. 401) o della difesa dell’indagato (come nell’ udienza di convalida ex art. 391 comma 1), assicurando in tal modo una più alta qualità della dialettica ed una maggiore efficacia dell’apporto difensivo. Per contro, sono previste deroghe “ verso il basso ” in punto di garanzie, tali da implicare una semplificazione ulteriore della forma di riferimento: è il caso delle ipotesi in cui norme speciali fanno rinvio all’art. 127, precisando però che il contraddittorio può svolgersi soltanto in maniera cartolare, escludendo dunque ogni dialettica in forma orale al cospetto del giudice (ad esempio, nel procedimento in camera di consiglio di fronte alla corte di cassazione , ai sensi dell’art. 611 comma 1). Infine, la previsione di una fattispecie generale di rito camerale non esclude la sopravvivenza nel sistema di decisioni adottate dal giudice “ de plano ”, ossia senza formalità di procedura e dunque senza alcuna forma di attivazione del contraddittorio e al di fuori anche di un contesto di udienza come quello previsto dall’art. 127 (lo stesso art. 127 comma 9). La struttura del rito camerale comporta, innanzitutto, la fissazione dell’udienza ad opera del giudice procedente (o del presidente del collegio) e l’avviso di essa alle parti (in primis, dunque, imputato e pubblico ministero), alle altre persone interessate e ai difensori, almeno dieci giorni prima di essa. Il contraddittorio è costruito di regola in forma cartolare, tramite la possibilità di depositare memorie in cancelleria fino a cinque giorni prima dell’udienza (art. 127 comma 2). Peraltro, ad esso si aggiunge il diritto di sviluppare una dialettica orale attraverso la presenza delle parti e degli altri destinatari dell’avviso all’udienza: costoro, infatti, se compaiono, debbono essere sentiti (art. 127 comma 3). In altri termini, se di regola non è obbligatoria la presenza in udienza delle parti e dei soggetti interessati, una volta che questi siano stati messi in condizione di intervenire e siano comparsi, debbono necessariamente essere interpellati. Le regole in materia di intervento delle parti e costruzione del contraddittorio sono presidiate dalla nullità per i casi di inosservanza. Sono infatti previste a pena di nullità le norme concernenti l’invio degli avvisi di udienza, il rispetto dei relativi termini, l’audizione dei soggetti che siano intervenuti o abbiano chiesto di essere sentiti fuori sede, il rinvio dell’udienza in favore dell’imputato legittimamente impedito (art. 127 comma 5). L’udienza camerale si svolge senza la presenza del pubblico (art. 127 comma 6) e viene documentata con verbale redatto di regola in forma riassuntiva (art. 127 comma 10). 90 L’eventuale inammissibilità dell’atto introduttivo viene deliberata dal giudice senza formalità di procedura (quindi, de plano, fuori dall’udienza), salvo che sia previsto altrimenti, mediante ordinanza ricorribile per cassazione (art. 127 comma 9). Il provvedimento conclusivo, infine, assume le forme dell’ ordinanza , da comunicare o notificare senza ritardo ai soggetti di cui al primo comma, che sono altresì legittimati a proporre avverso di essa ricorso in cassazione. Quest’ultimo – salvo diversa disposizione del giudice procedente – non ha effetto sospensivo (art. 127 comma 8). 5. Il tempo degli atti Le finalità per cui governare il tempo degli atti è indispensabile sono molteplici: regolare la successione tra atti che costituiscono gli uni premessa indispensabile per gli altri; assegnare alle parti gli spazi cronologici adeguati per l’esercizio effettivo dei loro diritti; determinare la soglia finale per l’esercizio di determinati poteri processuali, in modo da accelerare lo sviluppo del rito concludendone via via i segmenti; assicurare certezza del diritto e stabilità delle decisioni; garantire i diritti di libertà degli individui, sottoponendone a scadenza eventuali limitazioni. Non meno importante, il fatto che oggi l’esigenza di razionalizzare la sequenza processuale si fondi su valori di rilievo costituzionale. Si pensi alla ragionevole durata del processo ( art. 111 comma 2 Cost. ), canone basilare del fair trial , che impone di eliminare dal rito passaggi inutili o stalli irragionevoli, calibrando accelerazioni e attese in funzione delle reali necessità e dell’esercizio effettivo di diritti e garanzie. Anche nella prospettiva del diritto di difesa, il “fattore tempo” è considerato cruciale dal dettato costituzionale, visto che la legge deve assicurare alla persona accusata di un reato, tra le altre cose, di disporre del tempo necessario per preparare la sua difesa ( art. 111 comma 3 Cost ). È funzionale alla gestione razionale dei tempi del processo l'istituto dei termini processuali, regolato dalle norme generali di cui al libro II, titolo VI. Malgrado il testo normativo sembri riferire la disciplina alla fase processuale, infatti, è pacifico che le relative previsioni vadano riferite anche al procedimento. I termini processuali sono passibili di inquadramento dogmatico in base a varie classificazioni, tra le quali meritano di esserne rammentate almeno due, una fondata sulla struttura dei termini e l'altra sulle conseguenze delle eventuali inosservanze . Sotto il primo profilo, i termini si possono distinguere in acceleratori e dilatori. I termini acceleratori indicano il periodo di tempo utile al compimento di un determinato atto, tracciando la soglia finale entro la quale esso va posto in essere: in tal modo, essi danno impulso alla sequenza processuale, spingendo i soggetti interessati ad attivarsi tempestivamente (es. impugnazioni). I termini dilatori , al contrario, disegnano il lasso di tempo in cui un atto non può essere compiuto, stabilendo il momento a partire dal quale ne è consentita la realizzazione: lo scopo, in tal caso, è quello di imprimere al procedimento una pausa necessaria. Si pensi, a titolo di esempio, al termine di comparizione di cui all’art. 429 comma 3, sicché tra la data del giudizio e quella del decreto che lo dispone non possono trascorrere meno di 20 giorni, per consentire alle parti di predisporre adeguatamente le proprie difese. All'interno della categoria dei termini acceleratori, inoltre, si distingue tra termini perentori e ordinatori, a seconda delle conseguenze che la legge fa discendere dalla loro violazione. I termini si dicono perentori quando l'atto compiuto oltre la soglia cronologica prescritta non è valido, la scadenza del termine stabilito dalla legge comporta la perdita del potere processuale che ad esso si riferisce ("decadenza"). Il codice sancisce per i termini perentori il principio di tassatività , sicché i termini sono “stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge” ( art. 173 comma 1). La legge esclude la proroga dei termini perentori salvo che la legge disponga altrimenti (art. 173 comma 2). Quanto ai termini ordinatori , si tratta di quelli la cui scadenza non comporta alcuna decadenza, sicchè l’atto posto in essere dopo lo spirare del termine prescritto resta comunque valido, fatta salva l’eventuale responsabilità disciplinare del suo autore. Il calcolo dei termini si effettua in unità di tempo, in base alle regole generali di cui all' art. 172 , sicché i termini “sono stabiliti a ore, a giorni, a mesi o ad anni” e “si computano secondo il calendario comune”. Art. 173 - Termini a pena di decadenza e l’abbreviazione 1. I termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge. 2. I termini stabiliti dalla legge a pena di decadenza non possono essere prorogati, salvo che la 91 vi è incertezza assoluta sulle persone intervenute o manca la sottoscrizione del pubblico ufficiale redigente. In linea di principio, dunque, l'inosservanza delle indicazioni normative per la forma dei verbali o per la tecnica impiegata per redigerli, non produce nullità. Una rilevante eccezione è costituita dall' art. 141 bis , che impone la documentazione integrale, con mezzi di riproduzione fonografica o audiovisiva, dell'interrogatorio di persona (no nel caso di sommarie informazioni) che si trovi in stato di detenzione, a qualsiasi titolo ed anche in relazione ad altro procedimento, ove esso non si svolga in udienza; la sanzione prevista per l'inosservanza è l'inutilizzabilità. Norme specifiche sono dedicate alla documentazione di atti e operazioni in varie sedi. Tra esse spiccano gli artt. 373 e 357, relativi alla documentazione degli atti di indagine rispettivamente del pubblico ministero e della polizia giudiziaria. La disciplina si sforza di conciliare le esigenze di alleggerimento degli incombenti formali, per assicurare la speditezza alle indagini e l’affidabilità della documentazione degli atti, soprattutto in vista del loro potenziale impiego probatorio. Ai sensi dell' art. 373 , gli atti compiuti nel corso delle indagini del pubblico ministero vanno documentati sempre mediante verbale , quando si tratti di: denunce, querele o istanze presentate oralmente; interrogatori e confronti con l'indagato; ispezioni, perquisizioni e sequestri; sommarie informazioni; interrogatorio di imputato in procedimento connesso; accertamenti tecnici irripetibili. Ove si tratti di attività diverse da queste, è consentita la documentazione mediante verbale redatto solo in forma riassuntiva . Quando, poi, gli atti abbiano contenuto semplice o limitata rilevanza, lo standard di completezza ed affidabilità della documentazione si abbassa ulteriormente, essendo consentita la mera annotazione . Sia le annotazioni della P.G. che quelle del P.M. devono rispettare alcuni parametri contenutistici, e dunque devono contenere l'indicazione dell'ufficiale o dell'agente di polizia giudiziaria che ha compiuto le attività di indagine, del giorno, dell'ora e del luogo in cui sono state eseguite e la enunciazione succinta del loro risultato. Quest’ultima forma di documentazione sembra essere la regola per quanto riguarda gli atti di polizia giudiziaria che, stando all’ art. 357 , deve solo annotare (anche sommariamente) tutte le attività svolte. Anche per la polizia, però, è imposta la redazione di un verbale con riferimento a: denunce, querele o istanze orali; sommarie informazioni e dichiarazioni spontanee dell'indagato; sommarie informazioni da altre persone; perquisizioni e sequestri; attività di identificazione personale, acquisizione di plichi o corrispondenza e accertamenti urgenti; altri atti che descrivano fatti o situazioni, eventualmente compiuti prima che il pubblico ministero abbia impartito direttive. Tutta la documentazione, naturalmente, è messa a disposizione del pubblico ministero, che la allega al proprio fascicolo. Alle modalità di documentazione degli atti di indagine difensiva , infine, provvede innanzitutto l' art. 391 ter , che è dedicato alle dichiarazioni raccolte dal difensore e distingue tra quelle ricevute e quelle assunte dal medesimo. Le prime, essendo preconfezionate rispetto al momento in cui il difensore le riceve, sono contenute in un atto apposito, di cui il difensore autentica la sottoscrizione, limitandosi poi ad allegare una relazione, nella quale riporta: la data di ricezione; le generalità proprie e del dichiarante; l'attestazione di aver dato gli avvertimenti di rito; i fatti sui quali verte la dichiarazione. Quanto alle dichiarazioni assunte direttamente dal difensore, la norma rinvia alle disposizioni generali di cui agli artt. 134 ss., «in quanto applicabili» e consente la materiale confezione della documentazione ad opera del difensore. In ordine ad atti diversi dalle dichiarazioni, il riferimento all'obbligo di verbalizzazione si desume dalle norme successive. Va compilato un verbale in caso di accesso ai luoghi, ad esempio, inserendovi le indicazioni dettagliate di cui all'art. 391 sexies, fra cui spicca l'indicazione dei rilievi di qualunque natura compiuti in occasione dell'atto; e un verbale è previsto anche per gli accertamenti tecnici irripetibili (simmetricamente a quanto previsto per l'omologo atto del pubblico ministero) ex art. 391 decies commi 3 e 4. Anche al verbale dell'udienza dibattimentale sono dedicate previsioni specifiche, volte ad assicurare completezza e affidabilità. Di qui gli artt. 480-483 , che affidano all'ausiliario il compito di redigere il verbale descrivendo le attività svolte in udienza, riportando richieste e conclusioni del pubblico ministero e delle parti e riproducendo integralmente i provvedimenti dati oralmente dal giudice (o allegando al verbale quelli dati per iscritto) (art. 481). Sono anche assicurati specifici diritti delle parti sulla documentazione dell'udienza, sia di controllo, per verificarne la fedeltà e completezza, sia di intervento diretto, ad esempio per far inserire nel verbale dichiarazioni cui abbiano interesse (art. 94 482). Il verbale di udienza è poi inserito nel fascicolo del dibattimento. 7. La conoscenza degli atti per i soggetti del rito: il sistema delle notificazioni La dinamica del procedimento penale comporta che sia predisposto un metodo efficace perché le parti, i soggetti o le persone comunque coinvolti nel rito possano conoscere gli atti compiuti da altri. A questo fine sono preposte le notificazioni, ossia le forme di comunicazione ufficiale degli atti funzionali ad assicurare che i destinatari ne abbiano effettiva cognizione ovvero che questa possa essere ragionevolmente presunta (cosiddetta "conoscenza legale"). Il sistema naturalmente predilige mezzi di comunicazione che assicurino la conoscenza effettiva degli atti ma non rifugge da forme che si limitano a garantire la mera conoscenza legale. Non è sempre di fatto possibile, del resto, consegnare gli atti al destinatario in modo da essere sicuri che ne abbia avuto contezza, né il procedimento può sempre arrestarsi per questo o esserne irragionevolmente rallentato. Giocano un ruolo anche esigenze di economia processuale, che esigono, al pari dell'efficacia funzionale degli strumenti di comunicazione impiegati, anche semplicità e rapidità di attuazione. Il complesso sistema delle notificazioni è frutto del bilanciamento di queste esigenze, tanto più rilevanti in un rito di stampo accusatorio, ed è affidato agli artt. 148-171. Art. 148 - Organi e forme delle notificazioni 1. Le notificazioni degli atti, salvo che la legge disponga altrimenti, sono eseguite dall' ufficiale giudiziario o da chi ne esercita le funzioni. 2. Nei procedimenti con detenuti ed in quelli davanti al tribunale del riesame il giudice può disporre che, in caso di urgenza, le notificazioni siano eseguite dalla Polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti, con l'osservanza delle norme del presente titolo. 2-bis. L'autorità giudiziaria può disporre che le notificazioni o gli avvisi ai difensori siano eseguiti con mezzi tecnici idonei . L'ufficio che invia l'atto attesta in calce ad esso di avere trasmesso il testo originale. 3. L'atto è notificato per intero , salvo che la legge disponga altrimenti, di regola mediante consegna di copia al destinatario oppure, se ciò non è possibile, alle persone indicate nel presente titolo. Quando la notifica non può essere eseguita in mani proprie del destinatario , l'ufficiale giudiziario o la polizia giudiziaria consegnano la copia dell'atto da notificare, fatta eccezione per il caso di notificazione al difensore o al domiciliatario, dopo averla inserita in busta che provvedono a sigillare trascrivendovi il numero cronologico della notificazione e dandone atto nella relazione in calce all'originale e alla copia dell'atto. 4. La consegna di copia dell'atto all'interessato da parte della cancelleria ha valore di notificazione. Il pubblico ufficiale addetto annota sull'originale dell'atto la eseguita consegna e la data in cui questa è avvenuta. 5. La lettura dei provvedimenti alle persone presenti e gli avvisi che sono dati dal giudice verbalmente agli interessati in loro presenza sostituiscono le notificazioni, purché ne sia fatta menzione nel verbale. 5-bis. Le comunicazioni, gli avvisi ed ogni altro biglietto o invito consegnati non in busta chiusa a persona diversa dal destinatario recano le indicazioni strettamente necessarie. Organi e forme delle notificazioni sono disciplinati in termini generali nell’ art. 148 , che affida le notificazioni all’ufficiale giudiziario; nei procedimenti con detenuti ed in quelli davanti al tribunale del riesame il giudice può disporre che, in caso di urgenza, le notificazioni siano eseguite dalla Polizia penitenziaria. L'autorità giudiziaria può disporre che le notificazioni o gli avvisi ai difensori siano eseguiti con mezzi tecnici idonei. Per ragioni di economia processuale la norma contempla anche gli equipollenti alle notificazioni. Così, la consegna di copia dell'atto all'interessato da parte della cancelleria, la lettura dell'atto alle persone presenti e gli avvisi dati verbalmente dal giudice agli interessati presenti, sostituiscono ad ogni effetto le notificazioni. Di regola l'atto è notificato per intero, salva diversa previsione di legge. L'atto va notificato per estratto (riproducendo solo la parte essenziale dell'atto) nei casi previsti dalla legge. Quando la consegna personale al destinatario non è possibile, essa viene effettuata alle persone diverse indicate nelle norme successive, ma in tale evenienza, a tutela della riservatezza, la copia dell'atto da notificare è consegnata in busta sigillata 95 (eccezion fatta per il difensore e per il domiciliatario). Modalità differenti sono previste negli artt. 149 e 150 che quanto agli atti del giudice prevedono possibilità di impiego di uno strumentario più moderno. Nei casi di urgenza , il giudice può disporre, anche su richiesta di parte, che le persone diverse dall'imputato siano avvisate o convocate a mezzo del telefono a cura della cancelleria. Essa non ha effetto se non è ricevuta dal destinatario ovvero da persona che conviva anche temporaneamente col medesimo. La comunicazione telefonica ha valore di notificazione con effetto dal momento in cui è avvenuta, sempre che della stessa sia data immediata conferma al destinatario mediante telegramma. Se non è possibile procedere a mezzo telefono la notificazione va eseguita mediante telegramma e per estratto ( art. 149 ). Quando lo consigliano circostanze particolari , il giudice può prescrivere, anche d'ufficio, con decreto motivato in calce all'atto, che la notificazione a persona diversa dall'imputato sia eseguita mediante l'impiego di mezzi tecnici che garantiscano la conoscenza dell'atto , es. pec ( art. 150 ). Art. 157 - Prima notificazione all’imputato non detenuto 1. Salvo quanto previsto dagli articoli 161 e 162, la prima notificazione all'imputato non detenuto è eseguita mediante consegna di copia alla persona . Se non è possibile consegnare personalmente la copia, la notificazione è eseguita nella casa di abitazione o nel luogo in cui l'imputato esercita abitualmente l' attività lavorativa , mediante consegna a una persona che conviva anche temporaneamente o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. 2. Qualora i luoghi indicati nel comma 1 non siano conosciuti, la notificazione è eseguita nel luogo dove l'imputato ha temporanea dimora o recapito , mediante consegna a una delle predette persone. 3. Il portiere o chi ne fa le veci sottoscrive l'originale dell'atto notificato e l'ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell'avvenuta notificazione dell'atto a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata. 4. La copia non può essere consegnata a persona minore degli anni quattordici o in stato di manifesta incapacità di intendere o di volere. 5. L'autorità giudiziaria dispone la rinnovazione della notificazione quando la copia è stata consegnata alla persona offesa dal reato e risulta o appare probabile che l'imputato non abbia avuto effettiva conoscenza dell'atto notificato. 6. La consegna alla persona convivente, al portiere o a chi ne fa le veci è effettuata in plico chiuso e la relazione di notificazione è effettuata nei modi previsti dall'articolo 148, comma 3. 7. Se le persone indicate nel comma 1 mancano o non sono idonee o si rifiutano di ricevere la copia, si procede nuovamente alla ricerca dell'imputato , tornando nei luoghi indicati nei commi 1 e 2. 8. Se neppure in tal modo è possibile eseguire la notificazione, l'atto è depositato nella casa del comune dove l'imputato ha l'abitazione, o, in mancanza di questa, del comune dove egli esercita abitualmente la sua attività lavorativa. Avviso del deposito stesso è affisso alla porta della casa di abitazione dell'imputato ovvero alla porta del luogo dove egli abitualmente esercita la sua attività lavorativa. L'ufficiale giudiziario dà inoltre comunicazione all'imputato dell'avvenuto deposito a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata. 8-bis. Le notificazioni successive sono eseguite, in caso di nomina di difensore di fiducia ai sensi dell'articolo 96, mediante consegna ai difensori . Il difensore può dichiarare immediatamente all'autorità che procede di non accettare la notificazione. Per le modalità della notificazione si applicano anche le disposizioni previste dall'articolo 148, comma 2-bis . Una parte significativa della disciplina è dedicata alle differenti articolazioni del procedimento di notifica in ragione del tipo di destinatario. Norma chiave e l’ art. 157 che definisce la prima notificazione all’imputato non detenuto , la notifica si esegue in mani proprie , dovunque si trovi l'imputato. Se la consegna a mani proprie non risulta possibile, la notificazione si esegue nella casa di abitazione o nel luogo in cui egli esercita abitualmente la propria attività lavorativa , consegnando l'atto al convivente (anche temporaneamente) o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. Nell'ipotesi in cui i luoghi su descritti non siano conosciuti, la notificazione va fatta nel luogo ove 96