Scarica Riassunto "Copisti e filologi" e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Filologia Classica solo su Docsity! COPISTI E FILOLOGI 1: ANTICHITÀ I libri antichi: Bisogna iniziare a parlare della storia del commercio librario per poter illustrare le vie lungo le quali la letteratura classica ci è pervenuta. Nella Grecia arcaica ci fu prima la letteratura e poi la scrittura. I poemi omerici furono infatti trasmessi oralmente. Nella seconda metà del VIII secolo fu adottato l'alfabeto fenicio e anche allora tutto veniva trasmesso oralmente. Secondo una tradizione antica, il primo testo scritto delle due epopee di Omero fu preparato ad Atene a metà del VI secolo per ordine di Pisistrato: non sappiamo se sia davvero vera, ma, anche se lo fosse, non dobbiamo pensare che cominciassero a diffondersi molti volumi di Omero, dato che Pisistrato voleva l'esistenza di una copia ufficiale da poter recitare nelle feste Panatenaiche. I libri rimasero una rarità fino al V secolo avanzato. Lo sviluppo di nuove forme letterarie indipendenti dalla recitazione orale portarono gli autori a scrivere, anche se scrivevano un sol esemplare a scopo di consultazione (così si dice che Eraclito abbia depositato il suo famoso trattato in un tempio e per questo motivo Aristotele nel IV secolo lo poté leggere). Si pensa che le prime opere a raggiungere un pubblico sia pure modesto siano state quelle dei filosofi e degli storiografici ionici o quelle dei sofisti. Tuttavia, solo dalla metà del V secolo si può parlare in Grecia di un commercio librario, poiché si trovano riferimenti a una parte del mercato di Atene dove se ne potevano acquistare (Eupolis), e Platone fa dire a Socrate nella sua “Apologia” che chiunque può comprare per una dracma nell'orchestra le opere di Anassagora. La forma normale era quella del rotolo. Il lettore lo doveva svolgere gradualmente, usando una mano per tenere la parte che aveva già visto, la quale veniva arrotolata; alla fine però la spirale risultava capovolta, cosicché andava srotolata di nuovo prima che il nuovo lettore potesse servirsene. Era molto scomodo, anche perché c'erano rotoli lunghi più di dieci metri. Il materiale era fragile. Non è difficile immaginare che un antico lettore, di fronte alla necessità di verificare una citazione, si sarebbe affidato il più possibile alla memoria piuttosto che sobbarcarsi alla fatica di svolgere il rotolo e quindi di rovinarlo. Questo spiega perché, quando un antico autore ne cita un altro, c'è tanto spesso una differenza notevole tra le due versioni. Il materiale scrittorio abituale era il papiro, soprattutto dal Nilo, ma anche dalla Siria e Babilonia. Due strati di queste strisce, l'uno soprapposto all'altro ad angolo retto, venivano compressi insieme per formare i fogli. Si facevano fogli di diversa misura, ma in media un libro accoglieva una colonna di testo alta fra i venti e i venticinque centimetri, con un numero di linee di scrittura variabile tra venticinque e quarantacinque. Poiché esisteva solo una sorgente di rifornimento, si può supporre che il commercio dei libri fosse esposto alle oscillazioni generate dalla guerra o dal desiderio dei produttori di sfruttare il loro effettivo monopolio. Erodoto per esempio dice che, quando il materiale scrittorio scarseggiò, gli Ioni avevano adoperato per sostituirlo pelle di pecora e di capra. Nel periodo ellenistico, se ci fidiamo di Varrone, il governo egiziano pose un divieto all'esportazione del papiro, e sembra che questo abbia stimolato la ricerca di un'alternativa accettabile. Nasce così la pergamena, o “vellum”. Si deve però ritenere che il divieto egiziano sia stato presto abolito, perché fino ai primi secoli dell'era cristiana la pergamena non diventò di uso comune per i libri; uno dei primi esempi è il frammento dei “Cretesi” di Euripide. Il papiro veniva scritto solo su un lato, come la forma stessa rendeva necessario, poiché un testo scritto sul retro di un rotolo si sarebbe cancellato molto facilmente. Forse anche la superficie del papiro contribuì a formare questa regola, dato che gli amanuensi preferirono sempre usare per prima la faccia sulla quale le fibre correvano orizzontalmente. In rare occasioni abbiamo notizia di “volumina” scritti su tutti e due i lati: un esempio famoso è il manoscritto dell' “Hypsipyle” di Euripide. Il sistema di accentazione in greco, che avrebbe reso più facile la lettura, fu inventato solo in età ellenistica e solo all'inizio del Medioevo gli accenti divennero abituali. Spesso nei testi drammatici i personaggi non venivano segnati e i loro nomi venivano omessi. Questo metodo inesatto è possibile vederlo con il “Dyscolus” e il “Sicyonius” di Menandro. Un'altra caratteristica dei libri preellenistici è che i versi lirici erano scritti come se si fosse trattato di prosa: ne è esempio il papiro di Timoteo del secolo IV e la notizia che fu Aristofane di Bisanzio ad inventare la tradizionale colometria, la quale rende chiare le unità metriche della poesia. La biblioteca del Museo e la filologia ellenistica: Lo sviluppo del commercio librario permise pure ai privati di formarsi una biblioteca. È certo che alla fine del V secolo esistevano biblioteche private. Aristofane mette in ridicolo Euripide perché nel comporre le sue tragedie attinge pesantemente a fonti letterarie, ma la sua stessa opera, piena com'è di parodie e di allusioni, entro certi limiti deve essere dipesa da una biblioteca personale. Non c'è traccia ad Atene di biblioteche generali mantenute a pubbliche spese, ma è verosimile che copie ufficiali delle opere messe in scena nelle feste più importanti come le Dionisie, fossero conservate nel teatro o negli archivi di stato. Lo pseudo-Plutarco attribuisce all'oratore Licurgo la proposta di conservare in questo modo copie ufficiali delle tragedie. Con il progresso della scuola e della scienza nel IV secolo la fondazione di istituti accademici con proprie biblioteche divenne questione di tempo. Non sorprende trovare in Strabone la notizia che Aristotele radunò gran numero di libri, i quali senza dubbio rappresentavano la vastità di interessi del Liceo. Questa collezione e quella dell'Accademia furono i modelli imitati poco dopo dal re d'Egitto, quando fondò la famosa biblioteca di Alessandria. Le principali materie di studio nel Liceo erano scientifiche e filosofiche, ma non si trascuravano quelle letterarie. Di importanza molto maggiore furono gli studi letterari intrapresi al Museo di Alessandria: era un tempio in onore delle Muse, presieduto da un sacerdote. In realtà si trattava di un centro di una comunità letteraria e scientifica: il bibliotecario Eratostene, benché letterato, era anche un uomo di scienza, divenuto famoso per i suoi tentativi di misurare la circonferenza della terra. Il Museo era mantenuto a spese del re; i membri avevano stanze di studio e una sala dove pranzavano insieme e ricevevano uno stipendio dal tesoro reale. È stata osservata una certa rassomiglianza fra questa istituzione e i collegi di Oxford o di Cambridge, ma l'analogia viene meno in un aspetto importante: non c'è nessuna prova che gli studiosi del Museo tenessero regolari corsi per gli studenti. La comunità fu fondata forse da Tolomeo Filadelfo circa il 280 a.C., e guadagnò presto fama, forse generando gelosie per la prodigalità dei suoi ordinamenti: infatti troviamo il poeta satirico Timone di Fliunte che scrisse di essa circa nel 230 a.C.: “nel popoloso Egitto pascolano molti pedanti attaccati ai libri che litigano continuamente nella gabbia delle Muse”. Una parte essenziale di questa fondazione era la famosa biblioteca. Sembra che qualche passo verso la sua creazione fosse già stato compiuto nel regno precedente dal primo Tolomeo, che invitò appositamente ad Alessandria Demetrio di Falerio, l'eminente allievo di Teofrasto, circa nel 295 a.C.. La biblioteca crebbe rapidamente. Se accettiamo per vera la tradizione, scarsamente plausibile, che nel III secolo vi erano contenuti 200.000 o 490.000 volumi, bisogna tener conto del fatto che un singolo rotolo conteneva poco testo. Ci sono diversi aneddoti. Si dice che il re avesse deciso di ottenere un testo preciso delle tragedie attiche e avesse persuaso gli Ateniesi a prestargli la copia ufficiale degli archivi di stato, per la quale venne chiesto un deposito di quindici talenti come garanzia; ma, dopo averla ottenuta, le autorità egiziane decisero di trattenerla e di perdere il loro deposito. Sappiamo pure da Galeno che nella loro ansia di completare la propria raccolta i bibliotecari si facevano spesso ingannare comprando falsificazioni di opere rare. Callimaco ci dice del sistema di ordinamento complesso. Callimaco, pur non essendo capo bibliotecario, compilò una sorta di guida bibliografica a tutti i rami della letteratura greca, che occupava centoventi libri. L'incentivo di recuperare il testo originale il più possibile condusse ad un grado progresso nella filologia e nei metodi critici. Non per coincidenza cinque dei primi sei bibliotecari (Zenodoto, Apollonio Rodio, Eratostene, Aristofane e Aristarco) furono tra i più famosi Un altro motivo per cui gli antichi, specialmente Aristarco, meritano ancora lode è lo sviluppo del principio critico che la miglior guida all'uso di un autore è il corpus dei suoi stessi testi e perciò, dov'è possibile, le difficoltà si dovrebbero spiegare con riferimenti ad altri passi dello stesso autore. Ovviamente questa regole avrebbe portato ad abusi della stessa. Perciò bisogna rendere merito ad Aristarco o a uno dei suoi allievi per avere formulato un principio complementare, cioè che molte parole in Omero ricorrono una volta sola, ma debbono essere accettare come genuine e mantenute nel testo. I critici non erano però ciechi ai pregi letterari della poesia, e talvolta offrivano un commento adeguato ad un bel passo. Per esempio il famoso episodio dell' “Iliade” VI, dove Ettore si congeda da Andromaca e Astianatte ed il poeta descrive come il fanciullo sia spaventato alla vista del pennacchio sul cimiero del padre. Aristofane di Bisanzio avrebbe inventato la colometria dei brani lirici, in modo che non si scrivessero più a guisa di prosa, ma un antico papiro di Stesicoro, “Tebaide”, è un serio ostacolo a questa attribuzione. Fiorì inoltre la produzione di trattati sui vari aspetti del teatro; e ad Aristofane si ascrivono gli “argomenti” con il sunto della trama messi all'inizio delle opere. I segni marginali per guidare il lettore furono usati con molto più risparmio che nelle edizioni di Omero: forse il più comune era la lettera “chi” “X”, per indicare un punto interessante. Poiché la critica tanto su epica quanto su tragedia cominciò ad Alessandria, è molto strano trovare questi segni diversi usati per il medesimo scopo. Parliamo infatti di questa “X” che è simile alla diplé nel testo omerico. Una caratteristica in particolar modo interessante dell'attività esercitata dagli Alessandrini sulla tragedia è la scoperta dei versi mutati o aggiunti dagli attori, specialmente in Euripide, che era più popolare. Non è mai facile dimostrare che il verso o i versi in questione non siano originali; e quando sono con certezza aggiunti, è dubbio se vadano attribuiti ad attori ellenistici o a successivi interpolatori: però gli scolii, che dipendono in definitiva da critica ellenistica, designano alcuni versi come interpolazioni degli attori. Altre opere degli Alessandrini sono le edizioni della commedia, di Pindaro e dei poeti lirici. Anche qui si doveva determinare la colometria. Il compito di preparare l'edizione della commedia fu intrapreso allo stesso modo della tragedia: non sappiamo su quali copie del testo questa edizione venne basata, ma l'ampia raccolta del materiale contenuto nei superstiti scolii ad Aristofane dimostra che le sue opere furono studiate con energia ed entusiasmo. Altri studi nel periodo ellenistico: Il momento culminante della filologia alessandrina si ebbe nel III e nel II secolo; dapprima il Museo non ebbe rivali, invece dopo qualche tempo i re di Pergamo decisero di sfidarne la posizione fondando una loro biblioteca. Il progetto è associato all'origine con il nome del re Eumene II. Di questa biblioteca riportata alla luce dai tedeschi nel XIX secolo si conosce ben poco rispetto a quella alessandrina. Agli studiosi di Pergamo però non spetta la paternità di edizioni di classici e sembrano essersi limitati a brevi monografie su punti specifici, certe volte direttamente in polemica con gli Alessandrini. I loro interessi non erano soltanto letterari: Polemone fu uno studioso di topografia e di iscrizioni; entrambi questi importanti settori di filologia applicata alla storia erano rimasti al di fuori della gamma usuale di studi condotta nel Museo. Il nome più famoso legato a Pergamo è quello di Cratete, del quale sappiamo che lavorò su Omero; si occupò in particolare della geografia omerica; fu il primo greco che tenne pubbliche lezioni di letteratura a Roma. Gli stoici si interessarono molto di letteratura. Per loro un aspetto importante dell'interpretazione di Omero consisteva nell'adattarvi significati allegorici: ci resta uno di questi trattati, attribuito ad un Eraclito non altrimenti noto. Accanto agli studi omerici si occuparono intensamente di grammatica e linguistica, elaborando una terminologia più completa di quella usata fino ad allora, anche se la prima grammatica greca scolastica fu di Dionisio Trace: questi avrebbe potuto essere allievo di Aristarco quanto ad età, ma operò soprattutto a Rodi e non tra gli alessandrini. La sua grammatica comincia con una definizione dei singoli argomenti, l'ultimo dei quali, indicato dall'autore come il più nobile, è la critica poetica; indi tratta delle parti del discorso, declinazioni e coniugazioni, ma non discute problemi di sintassi e di stile. Questa grammatica ebbe grande successo. Con questo si chiudeva il periodo migliore dell'attività alessandrina; il declino della scuola fu causato da Tolomeo Evergete II, che decretò una persecuzione contro gli studiosi di letteratura greca (145-144 a.C.). Didimo è l'unica figura di rilievo nella rimanente età ellenistica. Scrisse molti libri. La sua attività consiste in una compilazione tratta dalla massa già enorme di lavori critici. Della sua raccolta di parole rare e difficili della tragedia si può rintracciare l'influenza in opere sopravvissute. Didimo va ricordato anche per i suoi lavori sui prosatori: commentò Tucidide e gli oratori e il solo passo abbastanza esteso dei suoi scritti ora conservato è un brano di una monografia su Demostene, che avrebbe contenuto note ad alcuni discorsi e che confermano il giudizio su Didimo come compilatore privo di originalità. Infatti si limita a riportare citazioni di altri autori. È interessante però notare come che il commento non si restringe ad argomenti di interesse linguistico, ma affronta problemi cronologici e di interpretazione storica. I ritrovamenti di papiri carbonizzati ad Ercolano hanno portato alla luce un altro aspetto della filologia alessandrina. Gli scritti di Epicuro furono studiati con intensità dai suoi successivi discepoli e le copie corrotte posero numerosi problemi. Un'opera conservata, un saggio di Demetrio di Laconia composto circa nel 100 a.C. tratta tali questioni in modo molto sofisticato. Libri e filologia in Roma repubblicana: La letteratura latina cominciò solo nel secolo III a.C., benché documenti scritti esistessero già in tempo molto anteriore. Ispirati dai greci, forse fu affidata dai suoi primi inizi al veicolo che da tempo era usuale nel mondo ellenico, il rotolo di papiro. Alla metà del II secolo Roma aveva una notevole produzione letteraria sua propria di opere di poesia, teatro e prosa; che si creda o no nell'esistenza di un cenacolo letterario e filosofico sofisticato conosciuto come il circolo degli Scipioni sembra certo che entro una classe limitata della società romana i testi circolassero liberamente. Un secolo dopo, quando fiorivano Cicerone e Varrone, il mondo dei libri aveva acquistato un posto importante nel mondo colto romano. Poco si conosce del modo in cui la letteratura latina fu tramandata durante i primi duecento anni di vita. I canali di trasmissione debbono essere stati occasionali e rischiosi. Alcune opere ebbero sorte migliore di altre: la poesia epica nazionale di Nevio e di Ennio fruì di uno stato di privilegio e ricevette attenzioni erudite in data relativamente precoce. La prosa fu forse meno fortunata: l'unico scritto di Catone giuntoci per via diretta, il “De agri cultura”, pare sia stato sfigurato e modernizzato attraverso copie frequenti e non controllate. Sembra che non fosse disponibile un corpus dei discorsi catoniani ai tempi di Cicerone, il quale, protestando contro l'abbandono in cui erano caduti, dice di essere riuscito a raccoglierne più di 150. Le commedie di Plauto furono scritte per la rappresentazione, comprate dal magistrato o dal suo amministratore e tramandate inizialmente come copie per la scena. Sappiamo dal prologo della “Casina” che venivano riprese di tanto in tanto e la conseguente nuova sceneggiatura voleva dire che venivano tagliate, accresciute, rifuse per seguire il gusto del pubblico o dell'impresario. Nei nostri manoscritti ci sono ancora tracce di queste manomissioni e la sua popolarità attirava facilmente aggiunte spurie. Quelle di Terenzio ebbero una esistenza meno bersagliata. Questo periodo di tradizione oscillante può spiegare molte corruttele in tali testi. In un caso Varrone ci ha conservato l'autentica descrizione del furbo Ballione che sguscia di sbieco attraverso la porta: “Ut transvorsus, non provorsus cedit, quasi cancer solet”. Un tentativo di eliminare l'arcaico “provorsus” produsse la piatta forma presenta da entrambe le recensioni che rimangono, il palinsesto Ambrosiano e gli altri codici: “Non prorsus, verum ex transverso cedit, quasi cancer solet”. Ciò che abbiamo della letteratura latina dei primi secoli sopravvisse largamente proprio per il rinnovato interesse sorto attorno ad essa nell'ultimo secolo della Repubblica: e le relative buone condizioni di tali testi sono in parte dovute all'attività dei primi grammatici romani. Secondo Svetonio, lo studio della grammatica fu introdotto a Roma per la prima volta dallo studioso di Omero Cratete di Mallo, che venne a Roma in missione diplomatica, forse nel 168 a.C., si spezzò una gamba in una fognatura e utilizzò fruttuosamente la convalescenza forzata tenendo lezioni sulla poesia. Questo era un momento in cui i Romani, che dalla morte di Ennio avevano costruito una loro propria solida tradizione letteraria, furono pronti a rivolgere alla loro lingua e letteratura anche un interesse accademico egli nomina due grammatici di questo primo periodo, Ottavio Lampadione e Vargunteio. Lampadione lavorò sul “Bellum Punicum” di Nevio, che divise in sette libri e sembra si sia interessato pure ad Ennio. Di Vargunteio si dice che abbia studiato Ennio e abbia recitato gli “Annali” ad un vasto pubblico. Il primo dei grandi grammatici romani fu Elio Stilone, del quale gli autori antichi parlano con il massimo rispetto: una data sicura e forse notevole nella sua vita è l'anno 100 a.C., quando seguì Metello Numidico in esilio a Rodi, ove forse avrebbe imparato la filologia alessandrina da un allievo di Aristarco stesso, Dionisio Trace. Ad ogni modo Elio è citato come il primo studioso in Roma che abbia usato i segni critici convenzionali degli Alessandrini, e ne troviamo la prova in un interessate documento conosciuto come l' “Anecdoton Parisinum”. Il nome di Elio è sicuro e il suo interesse a Plauto e all'esegesi degli autori arcaici lo inserirebbe naturalmente in una filologia di tipo alessandrino. Il testo di Plauto aveva bisogno di essere regolarizzato: c'era un gran numero di commedie spurie, mentre le genuine contenevano aggiunte e interpolazioni successive e variavano molto da copia a copia. Stilone si pronunciò per l'autenticità di venticinque. È certo che suo genero Servio Claudio si interessò a scoprire le interpolazioni, perché Cicerone parla della sua abilità nel dire: “Hic versus Plauti non est, hic est”. Elio influì molto sul suo allievo Varrone. Varrone isolò ventun commedie quali plautine senza possibilità di dubbio: questo canone, conosciuto come le “fabulae Varronianae”, deve coincidere con le ventun commedie giunte a noi. Interpretare parole rare o difficili era un altro campo nel quale la ricerca erudita trovava ampio raggio d'azione: ne restano abbondanti testimonianze in Varrone e nelle misere briciole che abbiamo del primo lessico latino, l'importante “De verborum significatu” del grammatico augusteo Verrio Flacco. Le interpolazioni delle parole difficili si scrivevano abitualmente tra le righe della propria copia e potevano facilmente guadagnarsi un posto nel testo o dar luogo a doppie lezioni. Lo sviluppo della letteratura e della filologia nella tarda repubblica da accompagnato da importanti progressi di natura pratica, cosicché non sorprende aver notizia allora per la prima volta di progetti per una biblioteca pubblica a Roma e dell'esistenza di una migliore organizzazione per pubblicare libri. Esistevano già ampie raccolte private. C'era stato un afflusso di materiale specialmente greco come parte della “praeda belli”; e la biblioteca di Lucullo continuò ad essere una risorsa dopo la sua morte: quando Cicerone vi entrò per consultare alcuni libri, dice di avervi trovato Catone, già seduto. Cicerone cercò di mettere insieme una bella collezione di libri, aiutato e consigliato dall'amico Attico, ed ebbe la fortuna di ereditare tutti quelli dello studioso Servio Claudio. Ma il primo a progettare una vasta biblioteca pubblica fu Cesare, che commissionò a Varrone di raccogliere libri per questo; ma il piano non fu realizzato, cosicché la prima biblioteca pubblica a Roma fu quella fondata nell' “Atrium Libertatis” da Asinio Pollione nel 39 a.C.. Non sappiamo nulla del commercio di libri a Roma prima dell'epoca di Cicerone. Allora i librai e copisti, all'inizio chiamati entrambi “librarii”, lavoravano attivamente, ma non ad un alto livello: Cicerone si lamenta infatti del loro lavoro. Molti lettori si affidavano a libri prestati da amici e alle copie da questi ricavate, ma anche così erano necessari capaci copisti. Forse per queste ragioni Attico, che era vissuto a lungo in Grecia e lì aveva fatto qualche esperienza di commercio di libri ben organizzato, mise la sua schiera di esperti “librarii” a servizio degli amici. Non è sempre facile capire se egli rendesse una cortesia a Cicerone come amico o operasse in veste più professionale, ma è chiaro che questi dipendeva da lui per tutta l'assistenza tecnica di un editore d'alta classe: Attico per lui rivedeva con cura un'opera, teneva letture private del nuovo libro, inviava le copie L'idea di consultare altre copie per controllare o migliorare il testo della propria è abbastanza naturale, soprattutto con lo sviluppo della filologia e del gusto antiquario e con la comprensibile preoccupazione per l'esattezza dei testi. La più antica documentazione di una prassi in questo senso in misura tale da costituire una vera “recensio” risale a questo periodo e riguarda l'attività di Statilio Massimo del II secolo, che è noto per avere studiato Cicerone e Catone. In un codice di orazioni di Cicerone scoperto nel 1417, Poggio aggiunse tra la prima e la seconda “De lege agraria” una nota da lui trovata nell'archetipo e tramandata insieme al testo nel quale era stata apposta tanti secoli prima: “Statilius Maximus rursus emendavi ad Tyronem et Laecanianum et Domitium et alios veteres III. oratio eximia”. Il senso generale è chiaro: Statilio operò correzioni consultando sei manoscritti, per uno dei quali si dichiarava discendenza da Tirone, il segretario di Cicerone. I compendi e i commentari: La decadenza intellettuale cominciata nel II secolo fu accelerata dalla crisi economica e dal caos politico del III secolo: nessuna figura letteraria di primo piano, eccetto gli autori cristiani, emerse fino all'età di Claudiano. Veramente l'eclisse quasi totale della cultura profana a metà del III secolo può avere avuto un effetto grave sulla continuità della cultura classica. Molti dei lavori prodotti in questo periodo, sebbene siano squallidi di per se stessi e facciano magra figura se confrontati con alcune opere cristiane coeve, hanno una significativa ricaduta. Alcuni sono importanti perché assicurarono la continuità della tradizione classica in epoche in cui le grandi opere della letteratura non erano accessibili; alcuni hanno valore perché le loro fonti sono andare perdute o mutilate: fra questi va posto il compendio. Sotto il regno di Adriano, Floro scrisse un sunto di storia romana e prima d'allora era conosciuto un Livio epitomato. Il periodo in cui furono prodotti tanti manuali fortemente riassunti fu pure quello di fioritura dei commentatori e degli scoliasti: i più noti sono Acrone e Porfirione per Orazio e i due grandi studiosi del IV secolo, Elio Donato e Servio; Donato scrisse su Terenzio e Vurgilio e fu l'autore di due grammatiche, l' “Ars minor” e “maior”, le quali, insieme alle “Institutiones grammaticae” di Prisciano, costituirono i principali libri di testo grammaticali del Medioevo. Vanno poi menzionate altre due compilazioni: il “De compendiosa doctrina” di Marcello e il “De nuptiis Mercurii et Philologiae” di Capella, scritto all'inizio del V secolo: il primo è un dizionario. Il “De nuptiis” è un trattato allegorico sulle sette arti liberali, che compaiono come damigelle d'onore al matrimonio di Mercurio e della Filologia. Gli studiosi della classicità debbono molto a questi compendi e commentari, grammatiche manuali, perché hanno conservato una quantità davvero ampia di letteratura ed erudizione che altrimenti sarebbe andata persa. Inoltre permettono di correggere, in autori conservati, passi che risultano corrotti nella tradizione manoscritta diretta. Ancora, porsero ai secoli a venire un'ancora di salvezza provvedendo gli strumenti per mantenere una istruzione di base classica. Dal rotolo al codice: Fra il II secolo e il IV secolo si verificò un'evoluzione della massima importanza per la storia dei libri e quindi la trasmissione dei testi classici in generale: il rotolo sparì gradualmente per far posto al codice, cioè un libro simile al nostro. Fino al secolo II d.C. il veicolo normale per tutti i testi letterari era stato il rotolo di papiro, ma dai tempi più antichi esisteva un supporto alternativo nelle tavolette, che erano costituite da diverse assicelle cerate, tenute insieme da una correggia o da un gancio. I Romani ne estendettero le funzioni di queste tavolette usandole per i documenti legali e compirono il passo importante di sostituire le tavolette in legno con fogli di pergamena. Tali quadernetti pergamenacei, le “membranae”, erano in uso alla fine della Repubblica, ma ci volle molto tempo prima che raggiunsero lo stato di libri. La prima menzione di opere letterarie diffuse in codici di pergamena è data da Marziale, in diverse sue poesie composte negli anni 84-86: egli sottolinea che sono solidi e comodi per chi viaggia e dice al lettore il nome del negozio dove si possono comprare simili novità. Benché sopravviva un frammento di codice membranaceo in latino scritto circa il 100 d.C. (l'anonimo “De bellis Macedonicis”), le edizioni tascabili che Marziale ebbe un bel da fare per reclamizzare non furono un successo: infatti il codice fino al II secolo per la letteratura pagana non si usò; ma nel III secolo guadagnò terreno e trionfò nel IV secolo. Poteva essere fatto di papiro o di pergamena, ma alla fine ebbe meglio questa. La vita media di un rotolo era breve. L'impulso a cambiare il formato dei libri deve essere venuto dai primi cristiani: infatti il codice pagano nel II secolo era una rarità, mentre per i testi biblici era giù usuale. I vantaggi del codice sul rotolo erano molti: era più pratico, capace, facile da consultare, poteva essere meno costoso da produrre. I riferimenti erano fatti in modo anche più semplice numerando le pagine, mentre l'aggiunta di una lista dei contenuti difendeva da false interpolazioni e da altre interferenze nel testo. Poter copiare in un libro il contenuto di diversi rotoli significava che un corpus di scritti di argomento affine o il meglio di un autore poteva essere messo sotto una copertina. Il passaggio dal rotolo al codice implicò un trasferimento graduale, ma completo della letteratura antica dall'una all'altra forma: questa fu la prima notevole strozzatura attraverso cui i classici dovettero passare. Durante il procedimento qualche cosa si deve essere perduto, ma è difficile specificarlo o calcolarlo. Poiché alcuni dei più vecchi libri rimasti dall'antichità sono codici membranacei del IV secolo, conviene qui accennare alla questione, indipendente, delle principali scritture librarie usate in epoca romana: erano la capitale quadrata, la capitale rustica, l'onciale e la semi-onciale. Gli unici manoscritti vergati interamente in capitale quadrata sono alcuni imponenti esemplari di Virgilio. Il termine capitale rustica è fuorviante e ora sta cedendo il passo a “capitale classica” o “canonizzata” o semplicemente “capitale”. La capitale rustica fu vitale fino all'inizio del VI secolo; ne sono esempi il codice Bembino di Terenzio e i grandi manoscritti di Virgilio il Mediceo, il Palatino e il Romano. Le altre scritture librarie del periodo romano nacquero quando le forme corsive di scritture quotidiane furono raffinate e rese regolari con riferimento alle scritture calligrafiche per libri. Sia con origine principalmente dalla capitale rustica, come alcuni pensano, o da una corsiva si generò l'onciale, una bella scrittura arrotondata che emerse nel IV secolo fino al IX secolo; un precoce esemplare è il palinsesto Vaticano del “De re publica” (Vat. Lat. 5757 della fine del secolo IV o dell'inizio del V); uno dei più belli è il Puteano del V secolo con la terza decade di Livio. Ci fu poi la prima scrittura libraria minuscola, la semi-onciale, che fu impiegata anche per numerosi testi classici, per lo più su papiro, ma in modo predominante per le opere cristiane. Paganesimo e cristianesimo nel IV secolo nell'Impero d'Occidente: Il IV secolo assistette all'urto finale tra cristianesimo e paganesimo. Nel 313 il primo imperatore cristiano Costantino rovesciò in modo drammatico la politica del suo predecessore Diocleziano permettendo ai cristiani la libertà di culto e nello spazio di pochi decenni essi portarono al guerra nel campo pagano. L'apice della lotta fu raggiunto con la dignitosa disputa che luogo nel 384 fra Ambrogio, vescovo di Milano, e Aurelio Simmaco, il pagano scrittore e funzionario, il quale presentò una commovente istanza perché fosse ricollocato nella Curia l'altare della Vittoria, che era stato rimosso. Nel 394 il capo dell'ultima resistenza pagana, Virio Nicomaco Flaviano, fu sconfitto da Teodosio. Al centro dell'opposizione pagana in Occidente stavano i senatori romani, che riconquistarono per un momento lo spirito degli antenati e si schierarono in difesa delle loro tradizioni e del loro retaggio. Una memoria vivida e solidale di tale moto resta nei “Saturnalia” di Macrobio. L'importanza di questo simposio erudito sta nell'ambiente e nelle “dramatis personae”. Nell'anno 384, in occasione dei Saturnalia, un gruppo di colti romani della classe elevata si incontrarono per diversi giorni nelle case di Vettio Agorio Pretestato, Virio Nicomaco Flaviano e Simmaco e parlarono a lungo dottamente di religione, storia, filologia e in particolare del loro grande poeta pagano Virgilio; a rappresentare la filologia professionale c'era Servio, un poco intimidito dalla compagnia. Sappiamo che Pretestato morì nel 384, Flaviano nel 394: Macrobio ricreò nostalgicamente l'alta società pagana del passato come cornice per la sua compilazione erudita e ne vediamo i membri, prima che quel mondo franasse attorno a loro, discutere le minuzie della vita e della letteratura romana con la fine cultura dei grandi romani della Repubblica. Fortunatamente il trionfo del cristianesimo non eliminò il bisogno di testi leggibili degli autori pagani. I cristiani ostili alla letteratura pagana si trovarono di fronte a un dilemma. Da un lato tale letteratura chiaramente mal si adattava a formare la struttura portante dell'istruzione cristiana. I poeti erano politeisti e le storie che raccontavano sui loro dei erano solitamente non edificanti e immorali; la retorica romana stimolava una facilità di parola e argomentazione opposta alla semplice pietà; persino i filosofi, che tanto avevano da offrire ai pensatori cristiani, contenevano pure molte cose in contrasto con la fede religiosa e il modo di vivere cristiano. D'altro lato, l'enorme debito che i cristiani avevano verso i classici e l'ampia possibilità di beneficiarne ancora erano chiari anche quando la tensione fra le due culture era al suo culmine. Proprio come s. Ambrogio nel suo “De officiis ministrorum” seppe produrre un autorevole manuale di etica cristiana rielaborando il contenuto essenzialmente stoico del “De officiis” di Cicerone, così pure s. Agostino nel suo “De doctrina christiana” adattò con successo alle necessità di un predicatore cristiano la retorica romana classica e in particolare la teoria dei tre stili, come era elaborata da Cicerone nell' “Orator”. L'asprezza del dilemma che si poneva ad un cristiano ortodosso educato in scuole pagane si riflette nei termini umani più drammatici in s. Girolamo, che oscilla fra i vari sentimenti di coscienza e rinuncia, tentazione e compromesso: il quale ultimo fu inevitabile. In genere il fine giustificava i mezzi. Girolamo impiega la similitudine della schiava nel “Deuteronomio” che può essere presa in moglie e resa una vera israelita col raderle il capo e tagliarle le unghie. Agostino autorizza l'uso della cultura profana paragonandolo al furto agli Egiziani. Dal punto di vista sociale, la divisione fra pagani e cristiani appare essere stata superata a livello culturale più facilmente di quanto si potesse aspettare: l'aristocrazia pagana abbandonò i suoi vecchi ideali e divenne la nuova elite cristiana. Per quanto riguarda la scuola, non c'era un'alternativa immediata al sistema di istruzione romano. Le opere cristiane non erano adatte per i programmi scolastici. Le sottoscrizioni: Le sottoscrizioni offrono una serie di affascinanti testimonianze dell'interesse che nella tarda antichità fu manifestato alla letteratura classica e alla sua conservazione. Si tratta di brevi affermazioni, con espressioni formulari, apposte alla fine di un'opera o dei libri di un'opera, per indicare che il testo era stato doverosamente rivisto e corretto. L'unica sottoscrizione autografa sicura in un testo classico si pensava fosse quella di “Caecilius” in un palinsesto delle “Lettere” di Frontone, ma un nuovo riesame del codice ha portato a trovarla inesistente. Sembra invece che la sottoscrizione nel Virgilio Mediceo sia un reale autografo di Asterio: in essa Asterio, console nel 494, dichiara di avere apposto la punteggiatura e corretto il testo. Tuttavia nella maggior parte dei casi le sottoscrizioni vanno recuperate da manoscritti di datazione molto più tarda, che le hanno trasmesse insieme al testo sotto il quale sono state apposte. L'archetipo di Pomponio Mela del secolo IX rispecchia il suo antico esemplare in alcuni punti così fedelmente che si può vedere la sottoscrizione come era, inserita fra l'explicit di un'opera e l'incipit della successiva. Spesso la sottoscrizione non veniva copiata. Nei soli testi profani sono sopravvissute circa 27 sottoscrizioni o gruppi di sottoscrizioni. La più antica sottoscrizione conservata, quella di Statilio Massimo in Cicerone, “De lege agraria”, è già stata menzionata. Le rimanenti cominciano verso la fine del IV secolo e perdurano fino al VI secolo. Fra le più antiche è la nota posta in calce al libro IX dell' “Asino d'oro” di Apuleio. Gli anni in questione sono il 395 e il 397 e il Sallustio che eseguì la revisione è un membro della nota la letteratura classica. L'attento studio linguistico dei testi attici condusse anche ad altri risultati: la ricorrenza di parole non attiche in un'opera che si supponeva venisse dall'età classica faceva sorgere sospetti sulla sua autenticità e di fatto Frinico rileva che il discorso “Contro Neera” nel corpus demostenico va riguardato come spurio, in parte basandosi sulle impurità del linguaggio. Tuttavia le minute osservazioni linguistiche delle scuole non erano del tutto benefiche, perché avevano l'effetto di instillare così profondamente i modi e le inflessioni del dialetto attico che, quando un uomo colto trascriveva un testo, tendeva a sostituire le forme caratteristiche di altri dialetti con quelle che conosceva così bene. Questo si vede in opere che contengono dialetto dorico, come le parti liriche della tragedia o gli “Idilli” di Teocrito; allo stesso modo ha sofferto il testo di Senofonte, il quale secondo Frinico si allontanò dal nativo dialetto attico scrivendo la parola “odore” nella grafia “odmè” invece di “osmè”; parimenti Fozio attesta che Senofonte usò la forma poetica della parola “aurora” “eòs” con la eta invece dell'attico “eòs” con la epsilon; ma dato che in entrambi i casi la tradizione manoscritta presenta regolarmente la normale voce attica, anche questa volta l'influenza degli scribi è palese. La Chiesa cristiana e gli studi classici: Bisogna ora vedere gli effetti della Chiesa cristiana sull'istruzione e sugli studi letterari. L'animosità con cui si guardavano cristiani e pagani generò un cambiamento sostanziale e permanente. Una buona parte della gerarchia detestava ugualmente gli infedeli e la letteratura greca antica che essi studiavano con entusiasmo, così da consigliare ai membri delle comunità cristiane di non leggere quei libri. Se questo atteggiamento fosse stato adottato da tutto il clero, siccome la nuova religione divenne ufficiale nel V secolo, avrebbe finito coll'imporre un'effettiva censura sulla letteratura classica; in realtà non vi è dubbio che una delle ragioni principali della perdita di molti testi è il disinteresse della maggior parte dei cristiani a leggerli, per cui non vennero trascritte molte copie. Però i pregi letterari dei classici erano tali da tentare alla lettura alcuni cristiani, anche perché, nei primi tempi, esistevano relativamente pochi scrittori cristiani che potevano essere raccomandati come sostituti accettabili dei tradizionali libri studiati a scuola; e per fare sì che certi passi non urtassero il gusto cristiano si poteva ricorrere all'interpretazione allegorica. Un'altra considerazione importante era la necessità di attirare al cristianesimo i pagani colti, al quale scopo era utile mostrare che alcuni dei concetti principali della nuova fede si potevano discutere con termini presi dai filosofi classici, specialmente dagli Stoici e da Platone: un esempio di questo atteggiamento è la fusione del pensiero greco e cristiano in Giustino e Clemente. Anche i più autorevoli fra i primi Padri della Chiesa approvavano che i cristiani leggessero alcuni testi pagani nel corso degli studi. Quando s. Gregorio Taumaturgo frequentava la scuola di Origene a Cesarea, questi incoraggiava gli alunni a leggere la letteratura classica. Bisogna notare che il desiderio di Origene di apprendere dalla cultura pagana si estendeva al regno della critica testuale. L'interpretazione dell'Antico Testamento era divenuta oggetto di polemiche, poiché i Settanta erano in contrasto con alcune altre antiche versioni greche. Origene adattò al Vecchio Testamento il sistema di segni marginali usato dai critici alessandrini: un obelo segnava un passo che si trovava nel greco, ma non nell'ebraico, un asterisco i passio in cui l'ebraico si accordava con traduzioni diverse dai Settanta. Nei suoi “Exempla” andò oltre e inventò il metodo di presentare il testo ebraico e le versioni in colonne parallele. Il libro che ne risultava dev'essere stato enorme e certo anche per questo motivo non ci è giunto nella sua forma originaria, eccetto frammenti di una versione a cinque colonne. Le vedute dei Padri del IV secolo non erano meno liberali. S. Basilio scrisse un trattatello per consigliare i giovani sul modo migliore di trarre profitto dalla letteratura greca. Globalmente non vi furono tentativi di cambiare il programma scolastico bandendo gli autori classici. Per un momento la persecuzione contro i cristiani di Giuliano l'Apostata nel 362 stimolò Apollinare a costruire un piano di studi tutto cristiano e riscrisse anche i Vangeli e le Epistole in forma di dialoghi platonici. La persecuzione però finì presto e i seguaci delle due religioni continuarono a servirsi dello stesso sistema di educazione senza gravi polemiche. Appena la nuova religione divenne universale, i testi antichi meno importanti videro la loro conservazione in pericolo. Talvolta si è detto che la Chiesa impose ufficialmente una censura e bruciò i libri pagani come linea di condotta: ma questo se mai si verificò impiegò molto tempo a raggiungere l'effetto, poiché nel VII secolo in Egitto si leggevano ancora le odi di Saffo. Resta qualche notizia sporadica di libri pagani bruciati; si dice che Gioviano nel 363-364 incendiò una biblioteca raccolta ad Antiochia dal suo predecessore Giuliano, ma si tratta di un caso isolato di vendetta. L'atteggiamento della Chiesa rimase sostanzialmente inalterato durante tutto il periodo bizantino. Mancano testimonianze fondate dell'esistenza di una censura. Una famosa affermazione dell'umanista Pietro Alcioni, riguardo ai testi di poeti pagani datti bruciare dalle autorità ecclesiastiche, non è sostenuta da nessuna prova. La Chiesa bizantina si occupò solo di distruggere i testi eretici; per esempio nel 1117, mentre il metropolita Eustrazio di Nicea esaminava argomenti da opporre alle dottrine della Chiesa armena, scoprì opere di s. Cirillo che sembravano contenere tendenze ereticali e, quando copie di questo Cirillo incominciavano a circolare, portò la questione davanti alle autorità, le quali ordinarono che tutte venissero mandate entro quattro giorni a Santa Sofia per essere distrutte. Invece non è ancora venuto alla luce nessun caso in cui la Chiesa prese misure così drastiche contro testi classici: sopravvissero perfino le opere dell'odiato Giuliano l'Apostata. Il punto più vicino a una reale censura si ebbe alla fine dell'XI secolo, quando il filosofo Giovanni Italo tenne lezioni così entusiaste su Platone che le autorità ecclesiastiche emanarono una norma secondo la quale, per essere ortodossi, era necessario limitare l'interesse verso Platone agli aspetti stilistici e non entrare nel merito dei contenuti filosofici dei dialoghi. Gli inizi del periodo bizantino: Sebbene la decadenza generale del mondo antico incalzasse rapidamente, gli studi superiori nella parte orientale dell'impero erano più che mai fiorenti. Ad Alessandria, Antiochia, Atene, Costantinopoli ecc ecc troviamo scuole che costituivano di fatto le università del mondo antico; erano diverse per tipo e per importanza: ad Alessandria Aristotele era uno dei principali soggetti di studio, a Beirut la materia base era il diritto. La necessità di simili istituti fu creata dal moltiplicarsi degli uffici civili romani nel secolo IV: il governo ricercava funzionari provvisti di istruzione liberale e di buono stile. Nelle scuole continuò come prima lo studio della poesia classica e dell'oratoria; si coltivò in modo particolare lo stile della prosa attica e a questo scopo si dovevano padroneggiare molti trucchi retorici. I lavori dei primi scrittori atticisti del II secolo d.C., quali Luciano ed Aristide, erano guardati come modelli da imitare non meno dei classici dell'antica Atene: e questa ari stima di attici e atticisti durò per tutto il periodo bizantino. Una per una le scuole decaddero o vennero chiuse, tanto che alla metà del VI secolo rimanevano solo Costantinopoli ed Alessandria. L'accento posto sulla retorica e sull'atticismo non incoraggiò molto la filologia nel senso moderno della parola, anche se un risultato è la trasformazione degli antichi commentari nella forma di scolii, ora posti nei margini invece che in un volume separato. L'idea di collocare copiosi scolii in margine al testo può essere sorta in qualunque momento dopo che il codice divenne la forma normale del libro, eppure essi non diventarono comuni fino al IX secolo. A questo proposito si può ricordare che si attribuisce a Procopio di Gaza di avere inventato una forma di componimento abbastanza simile agli scolii, e cioè la catena, un commento consecutivo su un libro della Bibbia che riunisce le opinioni di molti precedenti interpreti di solito riportandole alla lettera. Questa invenzione segnò una nuova tappa per gli studi biblici. Si deve sottolineare una importante caratteristica delle catene: come regola generale ogni citazione è preceduta dal nome dell'autore, cosa che avviene raramente negli scolii. L'ultima caratteristica di questo periodo che merita discussione è il progressivo restringersi della gamma di letteratura normalmente letta: dal III secolo in poi è sempre più raro trovare un uomo colto che mostri conoscenza di testi non pervenuti fino a noi. Per spiegare questo fatto Wilamowitz formulò la teoria secondo cui nel II o nel III secolo un eminente maestro di scuola avrebbe stabilito un programma scolastico, divenuto tanto autorevole da essere adottato dappertutto, mentre nessun testo fuori da questo gruppo sarebbe stato copiato abbastanza da garantirne la sopravvivenza. Per fare un esempio, sarebbero state selezionate sette tragedie di Eschilo e sette di Sofocle, e per questo non ce ne sarebbe giunta nessun 'altra; di Euripide nove o dieci sarebbero state scelte per al lettura scolastica, ma in questo caso fortuna volle che si conservasse un manoscritto con altre tragedie. Questa teoria è molto attraente, ma forse presenta un panorama troppo schematico della storia dei testi: si può subito obbiettare che non ci sono prove positive per identificare il maestro di scuola in questione, anche se un candidato potrebbe essere Eugenio, che nel V secolo scrisse sulla colometria di quindici opere teatrali. Non tutte le perdite della letteratura antica si verificarono così presto: nel IX secolo Fozio lesse molti testi in prosa, in seguito scomparsi, i quali non ci sono noti da altra fonte se non dalle notizie fornite da lui. Per questi motivi è forse meglio abbandonare l'idea che una scelta consapevole operata da un individuo sia stata fattore determinante per la conservazione dei testi. Verso la fine del VI secolo la decadenza dell'erudizione e della cultura era grave: l'università imperiale di Costantinopoli, fondata nuovamente da Teodosio II circa il 425, e la nuova accademia religiosa erano gli unici importanti istituti di istruzione nella parte centrale dell'impero; la scuola di Alessandria esisteva sempre ma era isolata. L'impero stremato non incoraggiava per nulla l'alta cultura e al contesa per il culto delle immagini provocò un peggioramento generale. Gli iconoclastici furono sconfitti nell'843. Di questo periodo restano pochissimi manoscritti di qualunque tipi e vi sono poche testimonianze riguardo agli studi classici. Le uniche opere degne di ricordo sono quelle di Cherobosco, un grammatico e i “Canoni” di Teognosto, lungo lavoro sull'ortografia. Testi greci in Oriente: Argomento: l'importanza delle versioni di testi greci in lingue orientali. In un momento imprecisato della tarda antichità opere greche cominciarono ad essere volte in siriaco. Forse il primo testo tradotto fu il Nuovo Testamento, seguito poco dopo da una serie di opere patristiche; i manoscritti più antichi di questi lavori risalgono al IV e al V secolo. Tuttavia riesce inaspettato trovare che anche altre forme di letteratura greca seguirono la stessa vicenda. Le traduzioni arabe dei classici sono forse più numerose di quelle siriache e certo meglio conosciute, forse anche per le vicende di conservazione: lo stimolo ad eseguirle sembra sorto semplicemente dal desiderio di usare i migliori manuali disponibili di scienza e di filosofia e non è probabile che la traduzione della Bibbia abbai preceduto quelle di autori classici. Dato che di norma il lavoro si conduceva su un'esistente versione siriaca, bisogna tener conto che l'inesattezza di un traduttore poteva guastare l'originale in due riprese: quindi se una versione araba esiste accanto alla tradizione greca, non si può ritenere senz'altro che aiuterà in modo sensibile a determinare il testo originale, sebbene un esempio famoso mostri che il pessimismo totale è ingiustificato. La “Poetica” di Aristotele in arabo infatti offre alcune lezioni che l'editore deve accettare e parecchie altre che deve seriamente considerare: una messe ragionevole, se si ricorda la brevità del trattato. Comunque gli Arabi appuntavano i loro interessi per lo più sulla scienza e la filosofia. I matematici ricevettero attenzione speciale: la versione di “Sulle sezioni coniche” di Apollonio di Perga è importante perché in greco ne sono andati perduti parecchi libri. Ricerche sulle versioni arabe di Galeno hanno prodotto risultati considerevoli: un brano mancante nel testo conosciuto è stato recuperato e in un altro trattato un passo incomprensibile è stato restituito grazie alla scoperta che due pagine dell'archetipo greco erano state accidentalmente rovesciate quando un foglio cadde e fu rimpiazzato erroneamente. non fu mai lontano dai pensieri dei letterati bizantini. La vastità degli interessi di Fozio è enorme; e sorprende che un uomo pio e futuro patriarca si preoccupasse di leggere romanzi greci: perché non poteva indursi a d essere favorevole al loro contenuto. Degno di nota è pure che lesse scrittori eretici e anti-cristiani: questo è fra l'altro un solido argomento contro l'idea che le autorità ecclesiastiche abbiano tentato di imporre una censura. La filosofia non è molto rappresentata nella “Bibliotheca”; ma il più grave limite di gusto che il libro rivela è la quasi mancanza di poeti: è da chiedersi se in tale aspetto sia documento fedele delle letture di Fozio. Sappiamo dalle sue lettere che lesse Aristofane, “Pluto” e Eschilo, “Prometeo incatenato”: può forse avere omesso questi e altri testi letti nelle scuole perché già noti a suo fratello; però sembra che forse ne erano poco attratti pure gli intellettuali della sua generazione. Opera di Fozio da ricordare è anche il suo “Lessico”, di cui fu scoperta la prima copia completa nel 1959 in un monastero della Macedonia: è un'opera tipica nel suo genere, preziosa per le brevi citazioni di classici. Lo scopo era di amalgamare e rifondere vari libri esistenti dello stesso tipo. Nel suo atticismo era moderato ed ammetteva volentieri parole di opere poetiche. L'interesse di Fozio per la critica testuale può essere dimostrato dalla discussione su passi difficili della Bibbia: egli osserva che la differenza di una singola lettera o un segno di punteggiatura apposto erroneamente è sufficiente a crear eresia e cita esempi, aggiungendo che simili considerazioni si possono applicare anche a testi classici. L'apparire improvviso di una personalità tanto insigne dopo un periodo in cui avevano regnato le tenebre è piuttosto straordinario; la cosa più strana è che non si conosce nulla dei suoi maestri né delle delle fonti da cui poté acquistare conoscenza di tanti libri rari. Da allora in poi si trova a Bisanzio una tradizione di studi classici praticamente non più interrotta. Le opere letterarie venivano copiate regolarmente. Il primo grande frutto di questi nuovi stimoli alla filologia si può vedere in Areta (860 – 935), che divenne arcivescovo di Cesarea in Cappadocia: di nuovo è un uomo di chiesa che mostra vivo interesse per l'erudizione. Mentre i codici posseduti da Fozio non sopravvivono, esistono ancora parecchi volumi della biblioteca di Areta: i pezzi che abbiamo sono capolavori di calligrafia su pergamena di fine qualità e su taluni a volte è stato annotato il prezzo dell'originario possessore. Areta commissionava codici a scrivi di professione, per lo più monaci di monasteri che accettavano ordinazioni su base commerciale, e vi scriveva poi di suo pugno nei margini estesi commenti. Anche nella sua biblioteca, che conteneva Platone, Luciano, Euclide, Pausania ecc, non ci sono tracce di interessi poetici, mentre gli scrittori atticisti sono ben rappresentati; Areta però si distacca molto d Fozio perché non sembra apprezzare gli storiografi. Le fonti della collezione di Areta sono sconosciute: si procurò le copie di Platone e di Euclide quando era diacono e viveva forse nella capitale dove era facile procurarsi questi libri. Per quelli più rari poteva essere necessario cercare più lontano. Il tardo periodo bizantino: Con la morte di Areta nel quarto decennio del X secolo comincia un nuovo periodo in cui è molto più difficile identificare studiosi e bibliofili eminenti. L'attività dell'erudito imperatore Costantino VII Porfirogenito diede qualche stimolo alla cultura. Durante un lungo periodo di forzato semi-ritiro compose vari trattati di politica che hanno la forma di compilazioni enciclopediche fondate su una vasta schiera di fonti storiche e hanno qualche importanza per i filologi classici. Non si sa nulla però dei suoi collaboratori. Poco dopo, un gruppo di studiosi collaborò ad un'opera preziosa per motivi analoghi a quelle di Costantino: questa è la “Suda”, meno correttamente conosciuta come “Suida”, quasi fosse un nome proprio, che si può descrivere come la combinazione di un dizionario e di un'enciclopedia elementare; contiene un gran numero di articoli su personaggi e soggetti classici e tramanda notizie molto utili. Si possono rintracciare alcune delle sue fonti, fra cui più sovente usati sono il testo e gli scolii ad Aristofane, per la quale la “Suda” è un testimone importante: comunque il suo valore deriva dalle fonti perdute. Benché l'intelligenza dei suoi autori non possa essere stimata molto, il loro lavoro segna qualche progresso perché è molto più di un lessico della lingua attica, anzi è uno dei primi libri che abbiano diritto al titolo di enciclopedia e forse di queste la prima sistemata in ordine alfabetico. Non bisogna pensare che, siccome i singoli studiosi di quest'epoca restano sconosciuti, l'impulso dato da Fozio agli studi letterari cessasse del tutto di avere effetto. Restano manoscritti di classici dai quali risulta che anche all'inizio del X secolo si praticava la lettura di poeti antichi oltre Omero e le opere teatrali, e le prime copie di Teognide e Museo risalgono quasi di sicuro a questa data. Abbiamo poi manoscritti pregevoli che testimoniano la lettura di poeti: valga come esempio il testo dell' “Antologia greca”, conosciuta anche come “Antologia palatina”: l' “Iliade” di Venezia, l'importanza della quale è anche maggiore per gli scolii che per il testo; l'Aristofane di Ravenna, che è l'unico manoscritto medievale con tutte le undici commedie; il Laur. 32. 9, che, oltre ad essere l'unica copia medievale di tutte le sette tragedie di Eschilo, è pure di capitale importanza per Sofocle e Apollonio Rodio. Gli autori di prosa non furono dimenticati: basta citare il codice fondamentale di Polibio, scritto dal monaco Efrem, forse nel 947, e due copie di Demostene. Efrem si riconosce come amanuense di altri tre volumi: Venezia, Marc. gr. 201, l' “Organon” di Aristotele dell'anno 954; Athos, Lavra 184, “Atti” ed “Epistole”; Athos, Vatopedi 747, “Vangeli” dell'anno 948. molti codici di autori classici scritti in vari momenti nel periodo bizantino si possono connettere in questo modo, identificando gli amanuensi. I libri sopravvissuti saranno solo una piccola parte di quelli copiati, tuttavia il numero delle identificazioni possibili suggerisce che a trascrivere testi antichi fosse un ristretto gruppo di studiosi, maestri di scuola e scribi di professione. Lo studio dei classici a livello di erudizione e di istruzione scolastica continuò nell'XI secolo per lo più come prima. Il cambiamento principale di quest'epoca fu segnato dalla riorganizzazione dell'università imperiale. Con il nuovo assetto vennero messe in piedi una facoltà di legge e una di filosofia: i mutamenti si compirono sotto l'egida dell'imperatore Costantino IX Monomaco, forse nel 1047. Possiamo notare che questa fondazione precede di qualche anno quella della famoso facoltà di Bologna. La scuola filosofica fu diretta da Michele Psello, l'uomo di gran lunga più versatile della sua generazione. La sua produzione letteraria attesta una vasta lettura dei classici, ma preferiva molto la filosofia: e la sua celebrità di insegnante condusse a un rinnovato interesse per Platone e Aristotele. Le vicende della scuola non furono del tutto felici: Psello cadde in disgrazia a corte e dovette ritirarsi in un monastero per un certo tempo, anche se dopo ritornò ad occupare importanti posizioni; ed è verosimile che la scuola abbia continuato la sua attività. Come Fozio, si interessava al romanzo greco e fornì un confronto non privo di acume fra Eliodoro e Achille Tazio. Analizzando lo stile dei suoi stessi scritti, riconosce un debito verso diversi modelli classici da lui studiati, menzionando le qualità stilistiche che lo avevano maggiormente colpito in Demostene, Isocrate, Aristide, Plutarco e Lisia; l'unico padre della Chiesa citato in questo gruppo è Gregorio di Nazianzo. Possiamo immaginare che questa attitudine di Psello ad assaporare la retorica della prosa d'arte fosse tipica della “élite” colta. Rimane dubbio all'estremo se Psello o qualunque altro bizantino fosse in grado di intendere molto della poesia classica. Fra i suoi trattatelli uno dei più brevi è una considerazione sulla domanda che gli era stata rivolta, se Euripide sia, come versificatore, superiore a Giorgio di Pisidia, autore del VII secolo di giambi di stile classico. Sembra chiaro che Psello non vede la differenza fra poesia drammatica e narrativa e non individua la mediocrità ripetitiva dello scrittore bizantino. Un successivo risveglio della filosofia, questa volta con Aristotele al centro degli studi, si può forse individuare all'inizio del XII secolo. Anna Comnena, la principessa che costretta a vivere segretata in un monastero e compose una famosa “Alessiade”, fu in relazione con due studiosi che scrissero commentari su Aristotele: Eustrazio di Nicea e Michele di Efeso. Il lato più interessante di questa attività è che i loro trattati sono dedicati non solo alla “Poetica” e all' “Etica”, ma anche alle opere zoologiche; queste ultime non erano ancora mai state corredate di commento: sembra quasi che Anna abbia osservato questa lacuna e deciso di commissionare i lavori necessari; ancora a lei forse è da riconnettere la composizione di due commentari alla “Retorica”. Dal secolo XII in poi si può procedere di nuovo con riferimenti a singole personalità di particolare rilievo. Senza dubbio la più eminente figura nella filologia di quest'epoca fu Eustazio (1115-1195), che fu chiamato alla sede arcivescovile di Tessalonica circa nel 1175. bisogna credere che abbia svolto la maggior parte della sua attività erudita durante la sua carriera di maestro nella capitale. Tessalonica infatti non sembrava essere un centro di vita intellettuale a quel tempo. I suoi interessi per i classici non gli impedirono di adempiere seriamente ai doveri sacerdotali e possediamo ancora un suo trattato sulla riforma della vita monastica; fra l'altro dice che la maggior parte dei monaci non si occupavano di libri e di cultura e che erano indegni dei loro voti. Ciò serve a ricordarci che la tradizione della cultura era estranea allo spirito di molti membri della Chiesa, con qualche eccezione. Lo stesso Eustazio conosceva molti testi che sono stati in seguito perduti e che sarebbe utile per noi possedere ancora. Questo risulta dall'uso nei suoi commenti di fonti altrimenti sconosciute: in un famoso passo cita alcuni versi dell' “Antigone” di Sofocle e si riferisce a “buone copie”, che danno per intero i versi 1165-1168, mentre tutti i manoscritti di Sofocle ora rendono incoerente il passo, omettendo uno dei versi. Eustazio evidentemente aveva notato lo stato insoddisfacente del testo e sembrerebbe averlo confrontato con altre copie, fino a trovarne una esatta. Forse Eustazio trasse il testo citato di Sofocle da Ateneo. I suoi lavori più importanti furono i commenti agli autori classici. Ciò che scrisse su Pindaro non sopravvive, salvo l'introduzione, e delle sue note ad Aristofane non si conoscono che minuti frammenti contenuti in manoscritti tardi. Più importanti e voluminosi sono i suoi commenti ad Omero. La lunghezza dei commenti è assolutamente sproporzionata al testo, specialmente in Omero: la discussione del primo verso dell' “Iliade” riempie dieci pagine. Eustazio ama le interpretazioni allegoriche e critica Aristarco per non averle adoperate. Due minori contemporanei di Eustazio vanno ricordati. Giovanni Tzetzes (1110-80) non ebbe gli ordini sacri, ma risulta che diresse una scuola a Costantinopoli. I suoi scritti comprendono commenti a tre commedie di Aristofane, Esiodo e parte di Omero. È inferiore ad Eustazio in cultura ed intelligenza e nutre una superbia del tutto ingiustificata dei propri talenti: non è facile avere stima di un uomo il quale, a metà di una nota ad Aristofane, afferma che non prolungherebbe la sua spiegazione, se non per il fatto che gli resta molto spazio sulla pagina del libro. Nelle sue tante lettere dice si avere vaste letture e che si riuniva con altri per interpretare testi classici. Come Eustazio, anche egli lesse libri che ora non abbiamo più. Lo stesso si può dire di Michele Coniate, conosciuto come Acominato, e fu in corrispondenza con Eustazio e come lui fu elevato ad un seggio vescovile alquanto distante dalla capitale, nel suo caso Atene. Nell'epistolario si lamenta del suo destino: usare il Partenone non ancora danneggiato come sua cattedrale non poteva compensare la perdita della società colta poiché i fedeli, ignoranti contadini, erano incapaci di apprezzare le bellezze dei suoi ambiziosi sermoni atticisti. Era però l'orgoglioso possessore di un raro libro che non rimane più, l' “Ecale” di Callimaco: egli e Tzetzes sono gli ultimi bizantini dei quali possiamo dire con certezza che avevano la possibilità di leggere più poeti classici di noi. La ragione di questo sta in un avvenimento della massima importanza, di cui Michele Coniate fu spettatore: la presa e il sacco di Costantinopoli della quarta crociata nel 1204, quando furono causati gravi danni. Per gli storici della letteratura questo saccheggio della città fu un disastro maggiore di quello famoso del 1453: infatti nel 1204 furono distrutti i rati testi menzionati nel paragrafo L'OCCIDENTE LATINO L'Alto Medioevo: Il secolo VI vide il crollo finale di ciò che rimaneva dell'Impero Romano d'Occidente. In Italia il governo relativamente illuminato di Teodorico si distinse per le due figure più notevoli del periodo di passaggio dal mondo antico al medioevale, Boezio e Cassiodoro, ma fu seguito dalla distruzione del regno ostrogoto ad opera dei bizantini e da una immane decadenza culturale. Le province andavano poco meglio: l'Africa settentrionale, in mano ai vandali, doveva presto uscire dai confini della cultura occidentale, mentre alcuni dei suoi prodotti letterari, come l' “Antologia latina”, furono trasmessi in tempo all'Europa e così alla posterità; la Spagna doveva vedere una rinascita della cultura visigotica alla fine del VI e all'inizio del VII secolo, raggiungendo una modesta vetta con Isidoro di Siviglia, ma essa pure avrebbe dovuto soccombere ai musulmani invasori sul principio dell'VIII secolo; in Gallia la dinastia franca dei Merovingi, fondata da Clodoveo, fu del tutto incapace di continuità culturale. Le devastazioni della conquista e della barbarie resero cupe le prospettive per la vita degli studi. La scuola e la cura dei libri stavano rapidamente passando nelle mani della Chiesa e i cristiani di questo periodo avevano poco tempo per la letteratura pagana. I classici latini sembravano avere una magra speranza di salvezza. Restava però la condizione essenziale perché fossero conservati: c'erano ancora libri. Non sappiamo quanto sopravvivesse delle ventotto biblioteche pubbliche di cui Roma poteva gloriarsi nel IV secolo, ma c'erano avanzi almeno di quelle private più importanti dell'età dei Simmachi e inoltre i codici cominciavano a trovare rifugio nei monasteri. Le lussuose copie di Virgilio mostrano che il commercio librario fiorì sino alla fine del V secolo e i bei prodotti monastici che rimangono dell'Italia del VI secolo dimostrano che niente si era perso dell'arte del confezionare libri, quando passò nelle mani della Chiesa. La forte ondata culturale e intellettuale che si distese dalla fine del secolo IV all'inizio del VI aveva consolidato una tanto solida infrastruttura di libri e di studi eruditi che c'era ancora una cospicua eredità da salvare e ricostituire quando venne la ripresa. Sono sopravvissuti molti codici di questo periodo in capitale e in onciale e alcuni sono veramente splendidi; per lo più ne rimangono solo frammenti, che contengono però Plauto, Terenzio, Virgilio ecc.. Molta della letteratura latina delle origini era forse andata perduta, ma dai libri superstiti e dalle testimonianze di scrittori del tempo risulta che era possibile ancora nell'anno 500, almeno in Italia, ottenere copie della maggior parte degli autori latini. I mezzi per trasmettere questa letteratura latina alle generazioni successive si stavano già costituendo nella forma di biblioteche e “scriptoria” monastici: infatti i centri del monachesimo erano destinati, spesso loro malgrado, a sostenere la parte principale nel preservare e nel tramandare ciò che restava dell'antichità pagana. Un primo esempio di tradizione monastica fu il cenobio di Vivario, che Cassiodoro fondò poco dopo il 540 nelle sue terre di Squillace nell'estremo sud Italia. Cassiodoro arricchì la fondazione di una buona e funzionale biblioteca e diede molta importanza agli studi scolastici e alla trascrizione dei manoscritti. Il suo programma cultura è tracciato nei due libri delle “Institutiones divinarum et saecularium litterarum”. Benché non dotato di talenti intellettuali d'eccezione, Cassiodoro appare in retrospettiva come un uomo lungimirante che previde quale ruolo i monasteri avrebbero dovuto svolgere nei secoli successivi, cogliendo il fatto cruciale: cioè come con la disintegrazione della vita politica questi rifugi avrebbero offerto la migliore speranza di continuità intellettuale. Egli comprese poi la necessità di tradurre in latino autori greci di esegesi, filosofia e scienza, e riuscì effettivamente ad aumentare e disseminare il crescente corpo di cultura greca disponibile in vesti latine. Apprezzava molto la comodità dei volumi che raccoglievano un corpus di opere e fece rilegare insieme testi affini; uno di questi volumi compositi conteneva il “De inventione” di Cicerone, Quintiliano e l' “Ars rhetorica” di Fortunaziano. Egli riconobbe all'amanuense una nuova dignità. I meriti di Cassiodoro verso i classici potrebbero facilmente venire esagerati; in realtà una delle sue maggiori preoccupazioni fu di corrodere il monopolio profano nei livelli più elevati dell'istruzione. Gli autori pagani erano presenti nella sua biblioteca e nel programma di studi, ma ridotti al rango di libri di testo e manuali. Le uniche opere classiche che di sicuro collocò nei suoi scaffali furono il “De inventione” di Cicerone, Seneca, Columella, Quintiliano ecc ecc. Il monastero di Cassiodoro sembra essere morto con lui ed è crollata anche la teoria un tempo sostenuta che i suoi libri ebbero modo di passare al grande monastero di Bobbio, fondato nell'Italia Settentrionale nel 614, e così al Medioevo: invece i codici finora rintracciati risulta che presero la via di Roma, forse della biblioteca Lateranense, da dove furono dispersi per la generosità di successivi papi. Sono stati identificati taluni esemplari scritti a Vivario, oppure discesi da antenati, che ebbero origine nella biblioteca di Cassiodoro: fra questi il famoso codice Amiatino della Vulgata, mentre non vi sono compresi testi classici. Cassiodoro è importante per molti motivi, non ultimo perché rappresenta per noi l'unico esempio di una biblioteca del VI secolo; ma ci debbono essere state altre collezioni e dal punto di vista classico migliori delle quali non sappiamo nulla. Più limitata nelle intenzioni, ma molto più grande negli effetti, fu la fondazione di Montecassino, circa nel 529, ad opera di Benedetto da Norcia che, promulgando la sua regola, gettò le basi su cui si sarebbe fondata la vita monastica in Occidente nei secoli successivi. La regola benedettina non aveva niente da dire riguardo all'esercizio intellettuale. Mentre l'Italia godette di una tarda rinascita nella prima metà del VI secolo, il fiore della cultura visigotica in Spagna arrivò soltanto alla fine del medesimo secolo e all'inizio del VII secolo. L'importanza di questa ripresa nella storia della cultura classica in gran parte è dovuta al livello raggiunto dal suo più grande scrittore, Isidoro di Siviglia. Isidoro divenne presto uno dei più autorevoli vettori nella trasmissione e spiegazione dl sapere antico. Le “Etimologie” erano nello stesso tempo l'ultimo prodotto della tradizione enciclopedica romana e il unto di partenza per la maggior parte delle compilazioni medievali. Organizzata per argomenti e riempita di informazioni vere ed erronee sopra ogni argomento, questa enciclopedia scende tanto spesso a proporre false etimologie e a far mostra senza discernimento di assurde quisquilie, che non si può leggere senza sorriderne. Una certa ostilità verso la letteratura pagana è esplicita in alcune sue pubbliche dichiarazioni, e certo si sentiva più a suo agio nelle pagine neutrali di scoliasti e compilatori che in quelle degli stessi classici; ma la sua curiosità non conosceva limiti ed egli dava per scontato il valore indipendente della cultura profana. Tuttavia il processo che ci ha conservato la letteratura latina non poteva cominciare finché non si fosse creato, nei confronti dei classici, un atteggiamento di comprensione più positiva di quella che in genere esisteva nell'Europa continentale durante l'alto Medioevo. I cristiani continuavano a vivere all'ombra della letteratura pagana, i cui frutti facevano sembrare miseri i loro e che costituiva una concreta minaccia per la morale e la dottrina. Tutto questo sarebbe cambiato quando la cultura latina fu trapiantata in terre lontane, dove chi desiderava imparare la lingua della Chiesa poteva rivolgersi agli antichi senza alcun senso di inferiorità o timore, poiché le rivalità erano fuori questione, mentre in genere la popolazione era protetta contro i pericoli dell'antico paganesimo dalla semplice ignoranza del latino. Questo spirito però non si diffuse in un certo grado nell'Europa continentale fino alla rinascita carolingia, sullo scorcio dell'VIII secolo, e nel frattempo perì gran parte della letteratura classica. Sebbene poche epoche siano tanto buie che non vi penetri qualche raggio di luce, quella che corre grosso modo dal 550 al 750 fu per i classici latini nell'Europa continentale una epoca davvero buia: praticamente essi non furono più copiati. In mezzo alla massa di codici patristici biblici e liturgici di questo periodo pochissimi sono i testi classici. Il destino che spesso colse i bei libri dell'antichità è tristemente illustrato dall'esistenza dei palinsesti, codici in cui le scritture originali sono state raschiate per fare posto ad opere in quel momento più richieste. Non c'era interesse a leggere gli autori pagani e la pergamena era troppo preziosa per contenere un testo scarsamente usato. Anche le opere cristiane, eretiche o inutili, ebbero la peggio, mentre la scrittura superiore fu spesso riservata agli antichi grammatici, ai quali gli irlandesi prestavano un interesse particolare. Fra i testi che sono rimasti unicamente in questa forma mutilata ce ne sono alcuni di eccezionale interesse, come il “De re publica” di Cicerone (Vt. Lat. 5757), scritto in onciale del IV o del V secolo e riscritto a Bobbio nel VII con il commento ai Salmi di s. Agostino; una copia del V secolo del “De amicitia” e “De vita patris” di Seneca (Vat. Pal. Lat. 24), che soccombette al Vecchio Testamento sul finire del VI secolo, e il codice del V secolo con le “Storie” di Sallustio che fu soppiantato da s. Girolamo. Altri palinsesti importanti sono il Plauto Ambrosiano e il Livio di Verona entrambi del V secolo. Irlanda e Inghilterra: Il nuovo movimento intellettuale, che doveva attribuire ai classici un valore più alto del prezzo della loro pergamena, era già cominciato in un remoto avamposto della cristianità: l'Irlanda, paese di cultura latina fin dal tardo V secolo. Pare essere stato davvero poco quanto della letteratura veramente classica fosse noto presso quel popolo in età precarolingia; la stretta familiarità con la poesia latina rivelata dalla loro principale figura letteraria, s. Colombano (543 – 615), è legata alla fase continentale della vita del santo e può appartenere più a un contesto culturale tardoantico che a quello dei monasteri irlandesi. L'aspetto più importante della loro cultura perciò non fu il contenuto classico, ma la passione intensa e priva di inibizioni con cui leggevano i libri che possedevano, l'entusiasmo e l'attitudine a imparare e l'attiva laboriosità con cui nel corso del VII e dell'VIII secolo produssero una notevole massa di scritti esegetici e grammaticali. Gli irlandesi ebbero anche notevoli talenti artistici: dai manoscritti semi-onciali presi dalla Grecia svilupparono una bella semi- onciale loro propria, che appare nelle sue forme migliori nel Libro di Kells. La loro importanza per la trasmissione dei testi classici cominciò quando abbandonarono l'Irlanda, spinti da uno zelo missionario. La fondazione di Iona come centro di cristianità celtica fuori dall'Irlanda ad opera di Columba, circa nel 563, segnò l'inizio effettivo della conversione della Scozia e condusse in breve a dar vita a grandi monasteri. Anche più spettacolare fu la missione di Colombano sul continente, che tracciò una pista attraverso l'Europa segnata da istituzioni monastiche come Luxeuil in Borgogna, Bobbio nell'Italia settentrionale e San Gallo in Svizzera. Gli “Scotti peregrini” diventarono nell'VIII e IX secolo una pittoresca caratteristica dei centri continentali, al cui sviluppo contribuirono largamente. Mentre la cultura latina dell'Irlanda si infiltrava nell'Inghilterra settentrionale, in quella meridionale si ristabilì un più diretto legame con Roma e il suo passato, quando, nel 597, Gregorio Magno vi mandò Agostino con la missione di convertire gli anglosassoni al cristianesimo: Canterbury diventò il centro della Chiesa romana ed Agostino ne fu il primo arcivescovo. Più importante, perché di maggiore effetto, fu la seconda missione del 668, guidata da Teodoro di Tarso e Adriano di Niridano, che riuscirono ad introdurre la Chiesa di Roma in tutto il paese. Il primo era un greco, il secondo africano di nascita: tutti e due erano uomini di vasta cultura. Un aspetto importante del rinnovato contatto con Roma fu l'afflusso di libri; Gregorio spedì ad Agostino le vesti e il vasellame necessari per celebrare il servizio divino, certamente Bibbie, libri liturgici ecc ecc: ma molti erano senza dubbio scritti in onciale e guidarono allo sviluppo in Inghilterra di una bella onciale che godette di due secoli di gloria prima di cedere il posto nell'VIII secolo alla minuscola introdotta dagli irlandesi. Teodoro e Adriano vennero con un programma di scuole e portarono con sé libri. La cultura anglo-latina, che nacque dalle influenze convergenti dell'Irlanda e di Roma, creò necessità di testi di ogni tipo, dei quali la maggior parte vennero da Roma e il Meridione d'Italia. Il più grande viaggiatore dell'epoca, oltre a Wilfrid e Aldelmo, fu Benedetto Biscop, che scese in Italia non meno di sei volte. Sappiamo di altre importazioni di libri nell'VIII secolo: e il risultato si può vedere nelle ricche biblioteche che crebbero a Canterbury e a York. Le biblioteche carolinge e i classici latini: Recenti ricerche ci hanno permesso di vedere nel cuore della rinascita classica carolingia, dimostrando che un elenco di autori conservato in un manoscritto di Berlino non può essere niente di meno che un catalogo parziale della biblioteca di corte di Carlomagno circa dell'anno 790. La lista comprende Lucano, Stazio, Terenzio, Giovenale, Tibullo e anche Cicerone. Ma c'erano anche altri libri secondo alcune testimonianze. Cose rare come i “Cynegetica” di Grattio e le “Silvae” di Stazio sono citate nella poesia di corte dell'epoca e Alcuino in una lettera a Carlomagno sottintende che una copia di Plinio il Vecchio fosse disponibile. Alcuni libri che si sa essere stati prodotti nel Palazzo sono notevoli per qualità dei testi e per la superba esecuzione. I nostri migliori codici di Lucrezio e Vitruvio furono scritti attorno all'anno 800. Chiaramente è provato che abati e vescovi con buone relazioni sociali potevano arricchire la loro biblioteca di copie ricavate dai libri esistenti in quella Palatina: della quale, morto Carlomagno, si sa che molti volumi finirono in monasteri. È rilevante la correlazione tra i testi nel catalogo del Palazzo e quelli che furono copiati a Corbie circa alla metà del secolo IX: l'esemplare unico con la ben nota antologia di discorsi e lettere tratti da Sallustio, di Corbie, è il caso che colpisce di più. Un altro pezzo significativo è il gruppo di tre orazioni ciceroniane che riappare nel codice Holkhamico scritto a Tours nei primi del IX secolo e non si può dubitare che il suo genitore sia stato l'esemplare del Palazzo. Un altro dei più famosi manoscritti di Livio è il codice Puteano della terza decade, allestito in Italia nel V secolo: la sua vicenda suggerisce con forza che il Puteano appartenesse alla corte. Sotto il successore di Carlomagno, Ludovico il Pio sembra essersi mantenuta l'importanza dello “scriptorium” di Palazzo, perché i codici a questo attribuiti, databili negli anni del regno di Ludovico, includono gli insigni esemplari delle “Epistulae” di Senca e della “Naturalis Historia” di Plinio. I libri sono ovviamente attirati dai centri di potere e di influenza. Alcuni arrivano come esito di conquiste o come doni che piovono senza richiesta quando il potente ha espresso i suoi desideri chiaramente. C'era stata una tale interruzione nella copiatura dei classici nei secoli oscuri dell'alto Medioevo che molti fra i libri utilizzati come antigrafi per le copie carolinge debbono essere stati codici antichi e questo fa sorgere una domanda importante: da dove venivano tutti i libri che hanno salvato tanta parte di quello che abbiamo della letteratura latina? Per quanto possiamo dire, il contributo totale dell'Irlanda, Inghilterra, Spagna e Gallia fu poco in confronto con quanto venne dall'Italia stessa, da Roma, dalla Campania e in particolare da Ravena. Il lavoro di copiare codici proseguì rapidamente in ogni angolo dell'impero di Carlomagno. Tutti gli antichi manoscritti classici reperibili, con le loro imponenti scritture maiuscole, vennero trasformati in copie in minuscola. Le vie lungo le quali i testi viaggiavano mentre avanzavano di luogo in luogo erano governate naturalmente da fattori geografici, muovendosi ad esempio lungo le valli della Loira o del Reno. Il flusso di testi a sud e ovest attraverso i Paesi Bassi e la Francia del nord e lungo il Reno fino alle coste del lago di Costanza punta a un nucleo ferace nella regione di Aquisgrana: questo confermerebbe l'importanza cruciale del Palazzo, come anima e catalizzatore dei testi classici. Qualche idea della misura in cui i classici furono copiati, si può trarre da un gruppo di codici prodotti a Corbie. Gli esemplari da cui furono ricavati venivano in parte dal Palazzo: comprendono una cospicua raccolta di opere filosofiche di Cicerone, la prima e la terza decade di Livio, Sallustio, Columella ecc ecc. Benché di recente fondazione, 764, il monastero di Lorsch nell'Assia godette di protezione speciale di Carlomagno e rapidamente diede vita a una delle più ricche biblioteche dell'epoca. Vi fu scritto il famoso “codex Pithoeanus” di Giovenale e di Persio e vi si ritrovano copie delle “Epistole” di Cicerone. Fra i libri che vennero in possesso del cenobio in età carolingia, ne figurano alcuni veramente insigni: per esempio il codice del V secolo che costituisce la nostra unica fonte per la quinta decade di Livio; i principale manoscritto del “De beneficiis” e del “De clementia” di Seneca; il codice Palatino di Virgilio in capitale rustica del tardo V secolo; un famoso palinsesto dall'Italia. L'importanza delle fondazioni insulari di Fulda e Hersfeld è già stata ricordata: da esse derivano i due codici di Ammiano Marcellino e a un altro manoscritto dobbiamo la sopravvivenza delle “Opere minori” di Tacito e del “De grammaticis” di Svetonio. Fulda ebbe poi un ruolo di primo piano nella storia di altri testi: vi fu scritto l'unico codice medievale oggi esistente di Valerio Flacco; dei due manoscritti carolingi di Columella uno fu confezionato a Corbie; poi per concludere con una nota piacevole mentre uno dei primi codici dell'opera di gastronomia di Apicio è uno splendido esempio della scrittura di Tours, l'altro, vergato in una mescolanza di minuscola anglosassone e di minuscola continentale, va connesso quasi certamente con Fulda. Tours è già stato menzionato come fonte di alcuni fra i primi e i più bei manoscritti carolingi; a questi si può aggiungere il più antico esemplare superstite di Svetonio. Proprio Tours era a capo di una catena di abbazie che rappresentò una arteria essenziale per la circolazione degli studi classici. Fleury ebbe un ruolo importante nella trasmissione di Quintiliano e di Cesare, “De bello Gallico”. Insieme ad Auxerre, Fleury domina nella storia del testo di Petronio e fu importante per la trasmissione di Nonio Marcello e del “Commentarium” di Macrobio; i ricchi giacimenti di libri nell'area della Loira in seguito aiutarono ad alimentare la rinascita letteraria del tarso XI secolo e il progresso della filologia nel Cinquecento. Due dei grandi codici di Virgilio, l'Augusteo e il Romano, hanno l' “ex-libris” dell'abbazia di S. Dionigi di Parigi. I monasteri del lago di Costanza, in particolare Reichenau e San Gallo, diedero un contributo enorme alla conservazione di testi classici. Opere rare come le “Metamorfosi” e l' “Ars amatoria” di Ovidio, Silio Italiaco e le “Questioni naturali” di Seneca sono documentate a Reichenau; Murbach, una filiazione di Reichenau, rivaleggiava con la casa madre per i codici posseduti, fra i quali stava un precoce e forse autorevole esemplare dell' “Appendix Virgiliana”. Il ricco patrimonio di San Gallo si rivelerà, quando si vedrà che cosa Poggio riuscì a scoprirvi. Bobbio, a sud di Milano, si colloca in un contesto alquanto diverso; aveva raccolto testi classici assai prima della rinascita carolingia. Se si dovesse fare l'inventario dei classici disponibili alla fine del IX secolo, balzerebbe agli occhi che alcuni autori erano così solidamente legati alla tradizione letteraria e scolastica e così fitti sugli scaffali delle biblioteche che la loro conservazione era ormai garantita: in questo gruppo possiamo mettere Virgilio e Orazio, Lucano, Giovenale e Persio, Terenzio, Stazio epico ecc ecc. Quintiliano era meno comune di quanto si potrebbe aspettare. Alcuni autori esistevano in così poche copie che il loro futuro rimaneva precario: le “Epistole” di Cicerone, Tacito, Columella, Petronio, Apicio, Ammiano e Valerio Flacco furono tutti trascritti in questo periodo, ma non in misura tale da garantire la loro conservazione. Occorreva un'altra “renovatio” per rendere sicura la loro posizione. Per molti testi sopravvisse fino al periodo carolingio solo una copia e spesso anche rovinata. La filologia in età carolingia: Uno degli aspetti più manifesti dell'età carolingia è la sbalorditiva quantità di pergamena che venne consumata. Dilagò una marea di pubblicazione. Se poniamo però l'accento sulla parola filologia, vanno ricordati pochi uomini soltanto. Uno dei primi esempi di attività erudita rivolta a un testo classico nel periodo carolingio è dato dal più celebre manoscritto di Lucrezio, il “codex Oblongus”; fu corretto ed insieme anche supplito in scrittura insulare da una mano che ha posto problemi di identificazione, il “corrector Saxonicus”, dimostratosi non essere affatto sassone, ma il dotto irlandese Dungal: egli fu per qualche tempo alla corte e fu ritenuto da Carlomagno un'autorità in fatto di astronomia. Un altro irlandese, Sedulio Scoto, si guadagnò un posto molto più importante nella storia della filologia. Egli interessa soprattutto come compilatore di un “Collectaneum”, una raccolta di estratti da vari autori; vi traspare un certo interesse allo stile degli autori selezionati e una vastità di letture veramente straordinaria: infatti egli attinge ad un gran numero di opere ciceroniane. Per le orazioni di Cicerone sembra che abbia usato uno dei più importanti manoscritti che rimangono, copiato in Italia forse da un antigrafo onciale. Adoardo, il “custos librorum” di Corbie, ci ha lasciato un florilegio analogo: egli mostra molto meno rispetto per gli autori, strappando le massime morali dal loro contesto, spogliandole dei nomi e dei riferimenti storici che le legano a un luogo e ad un'epoca determinata. Di nuovo però l'ampiezza delle sue fonti è notevole, in particolare per le opere ciceroniane. La sua importanza per la tradizione testuale è minore di quanto ci si aspetterebbe, perché alcuni dei manoscritti che usò rimangono anche oggi. Un documento di più vivo interesse, poiché riflette tutta l'attività e i gusti personali del compilatore, è il libro di appunti di Walafrido Strabone, poeta, tutore del futuro Carlo il Calvo e abate di Reichenau. Gli estratti di per sé non rivelano i suoi interessi letterari: le uniche opere pagane del periodo classico scelte per trarne estratti furono Columella e Seneca. Però questo zibaldone ha contribuito a dimostrare un intervento nella tradizione dei classici più attivo dell'usuale per un compilatore di estratti, rivelando come sia di Walafrido stesso la mano elegante che ha supplito e qua e là scritto o riscritto il nostro più antico codice di Orazio. Lo studioso che torreggia sui suoi contemporanei è Lupo di Ferrieres. Autore del famoso “propter se ipsam appetenda sapientia”, egli solo degli uomini della sua epoca sembra preannunciare il Rinascimento. Completò i suoi studi a Fulda, sotto la guida del più grande maestro del periodo successivo ad Alcuino, Rabano Mauro. Ritornò poi a Ferrieres dove fu abate. Le sue lettere sono del massimo interesse, dominate dalla passione erudita. Ansioso di aumentare le risorse della biblioteca di Ferrieres, scrisse dappertutto alla ricerca di libri: a Eginardo, a Tours, a York, al papa stesso. Il suo merito particolare consiste nel fatto che era avido di ottenere codici di opere che possedeva già per poter correggere e supplire la sua copia mediante collazione. Il seguente passo di una lettera scritta nell'847 a un monaco di Prum serve ad illustrare le sue abitudini: lieto di donare come di ricevere, Lupo rispondeva volentieri a domande di grammatica, prosodia o esegesi, facendosi intravedere la vita intellettuale di un circolo di studiosi carolingi. Scrisse poco e il monumento più importante del suo umanesimo, oltre l'epistolario, sono i manoscritti di autori classici che rivelano il lavoro delle sue mani: di questi il più importante è il “De oratore” di Cicerone, scritto di suo pugno. Sappiamo che Eginardo mandò a Fulda un Gellio su richiesta di Lupo. La sua abitudine di lasciare spazi bianchi dove erano accertate o sospettate delle lacune, di segnare le corruttele e annotare le varianti rivela un metodo solidamente filologico di accostarsi ai testi classici. Nel campo degli studi biblici l'uso di Lupo di collezionare manoscritti era stato anticipato in modo sorprendente da Teodolfo, il quale prima di morire aveva preparato una edizione della Vulgata. Lupo ebbe importanza come insegnante e uno dei suoi allievi fu Heiric di Auxerre: se si riflette che Lupo fu istruito da Rabano e questi a sua volta da Alcuino, si può chiaramente vedere uno dei fili di continuità dell'educazione carolingia. Heriric occupa un posto importante nella storia dei testi classici. Pubblicò raccolte di estratti da Valerio Massimo e Svetonio. Egli è anche la prima persona ad aver usato gli estratti di Petronio e gli va attribuita una raccolta di testi rari estremamente interessante, poiché conosciamo qualcosa tanto della sua storia più antica, quanto della più recente: il suo variegato contenuto include due opere, Valerio Massimo e Pomponio Mela. Il crepuscolo carolingio: La vita intellettuale della rinascita carolingia era stata strettamente connessa con l'unità e la sicurezza della costruzione politica di Carlomagno. Nel corso del IX e del X secolo l'impero sopportò ripetuti attacchi su tutti i fronti, dai vichinghi, dai saraceni e dagli ungari: intere regioni furono devastate e monasteri saccheggiati. Tuttavia, il sistema di studi che Carlomagno ed Alcuino avevano avviato e che agiva per mezzo delle scuole dei monasteri e cattedrali, aveva impeto sufficiente a marciare fino a che una nuova età fosse stata in grado si raccogliere la tradizione colgono la tradizione in uno stadio più antico di quello rappresentato dai codici conservati ed attingono ad una fonte diversa. Esempio tipico è il “florilegium Gallicum”, che contiene estratti di numerosi autori. Se si domandasse quale influenza il Rinascimento della fine dell'XI e del XII secolo abbia esercitato sulla tradizione dei testi classici che abbiamo, sembra di dover rispondere che consolidò i guadagni della rinascita carolingia. L'ampliarsi della tradizione nel secolo XII arrecò vantaggi ai testi. L'esemplare migliore delle “Ad familiares” di Cicerone risale al secolo IX ma gli errori e le lacune di questo vanno rimediati con l'aiuto di altri rami della tradizione, carolingia in origine, però rappresentata in gran parte da codici del XII secolo. Altre opere sopravvivono interamente in manoscritti di questo periodo. L'età della Scolastica: Alla fine del XII secolo e durante tutto il XIII le scuole e le università si occuparono più di assimilare ed organizzare il materiale ed idee portate a galla dal recente fermento intellettuale che di fare nuove scoperte. Le armi impiegate per ridurre le conoscenze acquisite a sistema e ad unità il dogma furono la dialettica e la logica. Quando l'eredità classica fu assorbita nel sistema del pensiero contemporaneo, con le sue forti tendenze all'allegoria e alla rielaborazione, ne fu di necessità travisata; e soffrì anche in altri modi: le ampie letture degli antichi autori cedettero il posto a più pratici manuali, gli “auctores” alle “artes”. I classici rimasero una valida fonte per aneddoti morali e capaci di fornire informazioni di ogni genere ad un'età curiosa: l'attrattiva non era più costituita dalla forma e dallo stile, mentre la materia poteva più facilmente assimilarsi ridotta ad estratti ed exempla. Il secolo che fu testimone del trionfo finale del Medioevo in molti campi non è particolarmente attraente per il filologo classico. I codici si riversarono sul mercato, ma il testo degli autori copiati per generazioni diventava sempre più corrotto. Nonostante tutto, i classici scamparono alla marea della scolastica e compirono anzi progressi rilevanti dove meno si poteva immaginare. Gli eroi del momento furono i costruttori dei potenti sistemi filosofici e teologici, ma fra questi ci fu qualcuno che diede un posto importante alla letteratura pagana: Vincenzo di Beauvais è il più famoso enciclopedista del Medioevo, e il suo “Speculum maius” fu un tentativo di ridurre in un unico corpus tutto lo scibile. Come molti altri, era antipagano, ma capì il valore dei testi profani. Egli attinse pesantemente agli scrittori antichi: Ovidio e Seneca, mentre Virgilio è messo in ombra. Verso il 1250 e a pochi anni dalla pubblicazione dello “Speculum maius” un nativo di Amiens, Riccardo di Fournival, componeva la sua “Bibliomania”, dove espone la letteratura e la saggezza del mondo a guida dei suoi concittadini nella forma di un giardino elaborato in cui i vari rami del sapere hanno ciascuno la propria aiuola. Questa bibliografia sistematica non è la proiezione immaginaria di un bibliofilo, ma l'effettivo catalogo della biblioteca dello stesso Riccardo; vi si trovavano alcuni rari testi classici e fra questi i più rimarchevoli sono tre titoli negli “opera poetarum”: Tibullo, Properzio e le “Tragedie” di Seneca. La sua copia di Tibullo discendeva forse da un manoscritto un tempo appartenuto alla biblioteca Palatina di Carlomagno. I manoscritti di Fournival di Properzio e delle “Tragedie” sopravvivono e sono stati ora identificati. Le “Tragedie” di Seneca avevano già mostrato segni di vita: il nostro più antico esemplare completo, l'Etrusco, risale all'XI. Le “Tragedie” di Seneca non furono il solo testo di Seneca a quell'epoca a guadagnare diffusione nell'Europa settentrionale. I “Dialoghi” pervennero alla scuola di Parigi nella prima metà del secolo XIII. Benché questo testo avesse cominciato a circolare di nuovo nella Francia settentrionale, fra i primi a farne uso furono Ruggero Bacone e Giovanni di Galles, entrambi francescani e di casa sia a Oxford che a Parigi: essi inducono ad appuntare l'attenzione sul contributo allo sviluppo degli studi classici già in atto presso i frati inglesi. Alcuni francescani inglesi nel XIII secolo compilarono un “Registrum librorum Angliae”, sorta di catalogo dei libri disponibili nelle biblioteche inglesi. I trattati di Giovanni di Galles erano pieni di richiami agli antichi e aprivano un'ampia finestra sull'antichità classica: erano anche manuali di conversazione cortese. Un certo Tommaso Waleys fu un grande esponente del circolo classicizzante di frati inglesi. Egli, che commentò i primi dieci libri del “De civitate Dei”, arriva ad essere quasi un umanista. La vera passione per la cultura classica, diffusa in questa cerchia di frati, in circostanze diverse avrebbe potuto dar luogo a una forma di umanesimo; di fatto ciò non avvenne per la loro mancanza di raffinatezza stilistica, il modo di pensare medievale, la professione e la mancanza di contatto con ambiente intellettuale agiato; il movimento prese una direzione diversa e finì per scomparire. Il greco in Occidente nel Medioevo: Sotto l'Impero Romano l'Italia era stata un paese bilingue, ma con il declino dell'Impero il greco cadde in disuso, eccetto che nell'estremo sud della penisola e in Sicilia. Si sa che il monastero di Cassiodoro, Vivario presso Squillace in Calabria, ebbe un nucleo di libri greci, ma non c'è traccia che questa biblioteca abbia contribuito in modo tangibile alla conservazione della lingua, mentre nel resto dell'Europa occidentale, conoscere il greco divenne un traguardo di rarità eccezionale durante tutto il Medioevo. La storia del greco nell'Occidente latino è una serie di breve episodi che non portarono mai a stabilire una scuola duratura. Il primo di questi episodi si ebbe in Inghilterra con l'arrivo dei missionari di lingua greca Teodoro (690) e Adriano (710). La rinascita carolingia nel secolo IX suscitò qualche interesse per il greco: restano infatti alcuni manoscritti biblici bilingui. Nel secolo XII la quantità di testi tradotto si accrebbe sensibilmente. Grande merito aspetta a Burgundio da Pisa, che lavorò a Costantinopoli. Esemplari di Galeno che usò per le sue traduzioni possono essere identificati grazie a sue note marginali autografe. Figura più nebulosa è Giacomo Veneto. Appena un po' meglio conosciute sono le versioni ruvide e letterali di Platone, Euclide e Tolomeo eseguite in Sicilia circa nel 1160 sotto l'egida di Enrico Aristippo. Tuttavia l'influenza di questi traduttori fu forse inferiore alle aspettative, poiché sembra che Gerardo da Cremona abbia tradotto dall'arabo a Toledo, circa nel 1175, l' “Almagesto” di Tolomeo, apparentemente ignorando l'esistenza di una precedente versione. Per la diffusione dell'aristotelismo ebbero importanza le opere degli studiosi arabi in Spagna, che non conoscevano il testo greco originale. A Toledo traduzioni arabe e commenti di Avicenna e d'altri furono volti in latino verso la metà e alla fine del XII secolo: fu così fatta conoscere una larga parte del corpus aristotelico. Nel secolo XIII alcune eminenti figure mostrano una conoscenza del greco non solo superficiale. Roberto Grossatesta studiò Aristotele e ne tradusse l' “Etica”. Il suo allievo Ruggero Bacone scrisse una grammatica greca. Un fiammingo della stessa epoca, Guglielmo di Moerbeke tradusse parti di Galeno, Archimede e di Aristotele. Un'altra figura importante fu un greco di Reggio, di nome Nicola, che si stabilì alla corte dei re angioini a Napoli. Va tenuto conto che di norma le traduzioni medievali erano condotte parola per parole e spesso i difficili argomenti tecnici o le raffinatezze idiomatiche superavano la possibilità del traduttore. Né il latino era il mezzo ideale per rendere tutte le sottigliezze dell'originale: la mancanza dell'articolo determinativo rese impossibile affrontare molte espressioni astratte e dal 1266 in poi per rimediare a questa mancanza Moerbeke decise di usare il francese “le”. IL RINASCIMENTO: L'Umanesimo: Qui consideriamo il Rinascimento come il periodo che si estende dal 1300 circa alla metà del Cinquecento. Trasformò la tradizione e lo studio dell'antichità classica. Uno studioso del tardo Rinascimento poteva disporre press'a poco di tanto della letteratura greca e latina quanto noi oggi e poteva leggerne la maggior parte, con tranquillità e senza grandi spese, in libri a stampa, mentre le traduzioni dal greco in latino e da entrambi nelle lingue nazionali avevano reso accessibile a un vasto pubblico una grande parte di letteratura antica. L'umanesimo fu soprattutto una attività letteraria e fu strettamente connesso con lo studio e l'imitazione dei classici. L'origine del termine ottocentesco “umanesimo” va ricercata nella parola “umanista”, coniata nel gergo studentesco delle università italiane verso la fine del Quattrocento, per analogia con nomi come “legista” e “iurista”, ad indicare il professore di discipline classiche, gli “studia humanitatis”, che in quel tempo erano cristallizzate in grammatica, retorica, storia, poesia e filosofia morale. Molti umanisti, soprattutto nel Quattrocento, esercitavano la professio0ne di maestri di discipline letterarie: in questa funzione presero il posto dei “dictatores” medievali. Il “dictamen” però fu un fenomeno del tutto medievale, elaborato, stereotipato, con sapore di manuale e di bella copia; l'esercizio dello stile era poco legato all'uso dei modelli classici, la poesia era trascurata, e in Italia lo studio dell'antichità aveva poco di “umano”: resta infatti difficile da spiegare come sia nato proprio qui l'umanesimo. È stato però sottolineato che la maggior parte dei primi umanisti erano notai o giuristi o comunque non estranei alla professione legale. La scuola di diritto in Italia occupava una posizione di predominio e la ripresa del diritto romano a Bologna aveva ricreato una connessione con l'antichità. I “dictatores” furono particolarmente attivi nel XII e XIII secolo e l'accento fortemente grammaticale e retorico dell'istruzione ricevuta dai giuristi come base propedeutica per la loro formazione giuridica, per quanto potesse aver perduto l'impronta classica, dava una buona padronanza del latino e un forte senso dello stile. Altri fattori importanti furono la natura profana dell'istruzione in Italia, l'esistenza di una raffinata cultura urbana e di una classe di professionisti che aveva la preparazione, i mezzi e l'agio di coltivare i propri interessi classici e pure erano abbastanza addentro alla vita cittadina da fare uso pratico della nuova retorica, quando se ne offrisse il caso. Occorre poi considerare l'impulso dato da forti personalità, un Lovato o un Petrarca, che avevano il dono di saper comunicare il loro entusiasmo e il loro ardore; e inoltre il semplice fatto che qui esistevano biblioteche a portata di mano. Né, con l'ampliarsi ed estendersi dell'influenza dell'umanesimo ad altri campi, fu sorpassato lo scopo pratico del “dictator”, ma sorse la convinzione che il metodo per parlare e scrivere bene risiedesse nell'uso di modelli classici: i classici latini furono ripresi non solo come materia di studio accademico, ma come base sostanziale dell'eloquenza; e proprio questa padronanza della latina latina portò successivamente a uno studio più globale di tutti gli aspetti della vita antica e alla sensazione, anche se illusoria, di identificarsi con gli uomini e gli ideali di quel mondo antico, che è il segno distintivo del neoclassicismo. Questo tentativo di avvicinarsi allo spirito classico e di rivivere e ripensare il passato in termini contemporanei trascendeva completamente il modo medievale di accostarsi ad esso. Finalmente la letteratura latina fu emancipata dal ruolo a cui era stato malamente ridotta, quello di stare in second'ordine rispetto alla religione; l'umanesimo ebbe un carattere fondamentalmente profano. Gli umanisti erano uomini di mondo, talvolta maestri di grammatica e letteratura, più spesso notai, segretari pontifici, cancellieri di città. Tutto ciò aiutò a spezzare il lungo monopolio ecclesiastico della cultura. da un volume della terza decade di Livio, scritto in Italia circa il 1200 e derivato dal Puteano; a questa porzione Petrarca aggiunse una copia della prima e della quarta decade. I vari libri della voluminosa opera di Livio avevano seguito destini separati per tutto il Medioevo, sicché fu un'impresa considerevole avere riunite tre decadi sotto un'unica copertina; gli altri libri di Livio superstiti non furono scoperti fino al Cinquecento. L'intero testo fu supplito, postillato e corretto dal poeta stesso; le varianti che segnò nelle sue annotazioni ai libri XXVI-XXX sono di valore particolare perché tratte da un codice indipendente dal Puteano: evidentemente per questi libri, come per la quarta decade, ebbe accesso ad un esemplare della tradizione “Spirensis”. La famiglia così chiamata perché uno dei suoi più antichi testimoni era appartenuto alla cattedrale di Spira, discende attraverso successivi stadi del manoscritto in onciale del secolo V che si trovava a Piacenza quando lo acquisì Ottone III e lo portò in Germania. Così Petrarca riuscì a riunire, benché non per la prima volta, due grandi linee della tradizione testuale la cui storia si può seguire dall'antichità al Rinascimento. Secondo un'avvincente teoria, la fonte di Petrarca per la tradizione “Spirensis” fu in definitiva un vecchio codice che Landolfo Colonna, membro della famiglia Colonna della cui protezione il poeta godette e che fu a lungo canonico a Chartres, aveva avuto in prestito dalla biblioteca della Cattedrale. Ma si sa da molto tempo che la tradizione “Spirensis” della quarta decade, in una forma vicina a quella usata da Petrarca, circolava fra i preumanisti padovani; perciò l'ipotesi che egli avesse attinto a questa fonte tramite un vecchio manoscritto di Chartres è diventata poco economica e per diverse ragioni difficile da sostenere. Così la collocazione geografica di Avignone per Livio può essere meno significata di quanto non sia sembrato in passato, mentre l'avere assemblato un libro davvero stupefacente è merito piuttosto del giovanile acume ed entusiasmo di Petrarca, delle relazioni culturali che Avignone offriva. Questa felice unione di raccoglitore di libri e di filologo portò in breve Petrarca a procurarsi una biblioteca di classici. Entro certi limiti possiamo ricostruire la sua collezione di Cicerone. L'elenco è imponente: quasi tutte le opere filosofiche, la maggior parte delle retoriche, le “Epistole ad Attico e a Quinto” e un folto gruppo di orazioni che andavano dalla “Pro Archia”, alla “Pro Cluentio”. Le “Epistole ad Attico” furono per lui una scoperta di suprema importanza, che valsero immediatamente una lettera allo stesso Cicerone: le trovò nella biblioteca capitolare di Verona, nel 1345. Su queste lettere e su quelle di Seneca egli modellò le proprie. Importante fu l'intensità con cui lesse e rilesse quelli che riteneva importanti: era facile infatti nel Rinascimento degenerare in semplici bibliofili. La pazienza con cui corresse e postillò i suoi testi si può vedere nelle edizioni embrionali del Livio Harleiano e del Virgilio Ambrosiano, la sua copia personale del poeta favorito. Abbiamo anche un intimo documento dei suoi gusti letterari, poiché il foglio di guardia di un manoscritto di Parigi riporta proprio una lista delle sue letture preferite. Esse riesce istruttiva tanto per le opere presenti e per il loro ordine di priorità, quanto per quelle assenti: bisogna però ricordare che risale al primo periodo della sua vita e che alcuni dei libri da lui apprezzati si trovavano fra le sue scoperte posteriori. Cicerone apre la lista e hanno la precedenza gli scritti morali. Segue Seneca con le “Epistole”, mentre le sue “Tragedie” vengono dopo. La seconda sezione, dedicata alla storia, è aperta da Valerio Massimo e da Livio; c'è una categoria speciale di “exempla”, in cui hanno posto Macrobio e Gellio. Segue la poesia con Virgilio, Lucano, Stazio, Orazio, Ovidio e Giovenale; per Orazio v'è la precisazione “praesertim in odis”: un capovolgimento completo del gusto medievale. Da ultimo vengono scritti tecnici, di grammatica, di dialettica e di astrologia. S. Agostino ha il privilegio di una lista solo per lui e con il “De consolatione philosophiae” di Boezio costituisce costituisce tutto il contenuto cristiano. L'unica opera greca è l' “Etica” di Aristotele, naturalmente in latino. Niente di argomento giuridico, materia in cui Petrarca ricevette la sua situazione ufficiale a Bologna; allo stesso modo sono rigettati gli scrittori del Medioevo, resi superflui dal diretto contatto con l'antichità. Uno dei primi a cadere sotto l'influenza dell'umanesimo di Petrarca fu il suo più giovane contemporaneo Boccaccio. Sotto la protezione del suo re, Roberto d'Angiò, Napoli assurse ad importante centro intellettuale all'inizio del secolo. Le sue prime opere, scritte in italiano, appartengono alla tradizione medievale di retorica e romanzo; fu in grande parte la sua ammirazione per Petrarca, che poté conoscere personalmente nel 1350, a farlo rivolgere dal vernacolo al latino, dalla letteratura all'erudizione. Come studioso rimase molto al di sotto del suo modello, se gli mancava perfino la pazienza di copiare bene un manoscritto; fu soprattutto un raccoglitore di fatti di vita e letteratura antica e i suoi trattati enciclopedici di biografi, geografia e mitologia classica godettero di una notevole popolarità nel Rinascimento e contribuirono molto a promuovere la comprensione della letteratura classica. Nutriva un appassionato interesse per la poesia, che lo condusse per i sentieri meno battuti della latinità ad opere sconosciute a Petrarca. Fra le opere in prosa da lui possedute, un gruppo indica chiaramente che era riaffiorata una nuova corrente della tradizione medievale: la sua familiarità con gli “Annali” e le “Storie” di Tacito, l' “Asino d'oro” di Apuleio e il “De lingua latina” di Varrone si spiega solo con il fatto che qualcuno avesse dischiuso le ricchezze di Montecassino. Risulta che egli visitò Montecassino nel 1355 e lì può avere eseguito o ottenuto copia di due testi ignoti contenuti in un codice in beneventana (Laur. 51. 10), il “De lingua latina” di Varrone e la “Pro Cluentio” di Cicerone. Inoltre poté operare prelievi da Apuleio per la composizione del suo “Decameron”. Varrone e la “Pro Cluentio” seguirono un percorso analogo a quelli dei codici cassinesi di Tacito e di Apuleio. Per i primi due è stato suggerito che una parte importante in questa operazione spetti ad un umanista che Boccaccio e Petrarca conoscevano: Zanobi da Strada. Sebbene non fosse uno studioso di levatura eccelsa, il Boccaccio pose il suo genio ed il suo entusiasmo al servizio del movimento umanistico: lo rese di casa a Firenze; e fece il primo tentativo anche se per allora non riuscito di instaurare lo studio del greco a Firenze. Coluccio Salutati (1331 – 1406): L'unione di genio creativo e di spirito umanistico dà a Petrarca e a Boccaccio un'aureola che è mancata a Coluccio Salutati. Fu però un uomo di solide e durevoli imprese, grande amministratore e figura pubblica, scrittore e pensatore che combatté con la difficoltà di combinare in un'armoniosa unità poesia pagana e etica cristiana, il passato e il presente. Fu secondo per importanza solo a Petrarca. Fu in corrispondenza con quest'ultimo negli ultimi anni della sua vita. Influenzò molto i successivi Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni. Dalla scomparsa di Petrarca nel 1374 alla propria morte nel 1406 Coluccio fu a capo del movimento umanistico. Sebbene uno sconcertante gusto per l'esegesi allegorica dimostri che Salutati è ancora in certi aspetti uomo del Medioevo, possedette molte qualità umanistiche. Come cancelliere di Firenze per più di 30 anni poté sfruttare la potente alleanza tra umanesimo e politica, impiegare il suo latino e la sua cultura per sferzare gli antagonisti. Come altri umanisti, congiunse l'entusiasmo per la letteratura antica con una serie di preoccupazione per i dettagli eruditi: fu un attivo collazionatore di manoscritti, si mostrò acuto nell'individuare i modi in cui i testi possono essere corrotti, offrì alcuni lodevoli contributi alla critica testuale – è ben noto il suo emendamento di Scipione Nasica in Scipione Asina in Valerio Massimo – tanto da venire riconosciuto come pioniere in questo campo. Fu lui ad invitare il Crisolora a Firenze, rendendo così possibile, nel 1397, l'effettivo inizio degli studi greci nell'Europa occidentale. Non ultima cosa per quanto riguarda Salutati fu la sua biblioteca, di cui sono stati identificati più di cento volumi: uno di questi è un testo classico copiato tutto di sua mano, le “Tragedie” di Seneca, alle quali aggiunse l' “Ecerinide” di Mussato. Questa bella raccolta fu un importante strumento di cultura sia mentre egli visse, sia dopo la sua dispersione. Fra i pezzi migliori c'è il più antico manoscritto completo di Tibullo, uno dei tre testimoni primari per il testo di Catullo e una copia delle “Ad familiares” ciceroniane, la più grande scoperta di Salutati. Le “Epistole” di Cicerone ebbero un'importanza speciale per i primi umanisti, perché così sentirono di conoscerlo ormai intimamente e di poter ritornare indietro al periodo classico per rivivere qualche momento con quello che per loro era il più grande dei Romani. Le “Ad familiares” furono trovate nella biblioteca capitolare di Vercelli da Pasquino Cappelli, “secretarius” del signore di Milano, che aveva intrapreso una ricerca spinto da Coluccio; questi stava in realtà cercando un volume delle “Epistole ad Attico” conosciuto da Petrarca e fu fuori di sé dalla gioia ricevendo (nel 1392) il compenso inaspettato di un'opera completamente ignota. L'anno successivo Salutati ottenne una copia delle “Epistole ad Attico”, divenendo così il primo dopo secoli a possedere entrambe le raccolte di lettere: i suoi esemplari sopravvivono ancora. È interessante notare come il vivo e completo ritratto dello scrittore, che emerse dalle sue lettere, abbia provocato reazioni molto diverse in Petrarca e in Coluccio: mentre il primo fu turbato scoprendo che quel grande aveva abbandonato la filosofia per una vita di azione ed intrighi, invece proprio l'armonizzarsi dell'attività intellettuale con la carriera politica suscitò l'ammirazione del secondo e in seguito del Rinascimento. L'età delle grandi scoperte: Poggio Bracciolini (1380 – 1459) la graduale riscoperta della letteratura antica si estende come una poderosa corrente attraverso il Rinascimento dai giorni del preumanesimo padovano alla seconda metà del Quattrocento ed oltre. Poggio Bracciolini superò gli altri nella pura abilità di riportare alla luce testi perduti. Egli fu un segretario papale. L'occasione migliore per un altro balzo in avanti nella scoperta di testi classici si presentò quando fu convocato il Concilio di Costanza (1414 – 1417) per sanare il Grande scisma e per altri problemi ecclesiastici. L'intera corte papale si trasferì a Costanza e gli umanisti presenti alle riunioni si accorsero presto che c'erano attività interessanti non comprese nel programma: così dedicarono il tempo libero alla ricerca di testi classici. Poggio fece molti viaggi, il primo nel 1415 al monastero di Cluny in Borgogna, dove trovò un antico manoscritto di orazioni c iceroniane con la “Pro Cluentio”, la “Pro Roscio Amerino”, la “Pro Murena”, la “Pro Milone” e la “Pro Caelio”. Questo corpo è chiamato “vetus Cluniacensis” e risale almeno all'VIII secolo. Clark ricostruì nel Novecento questa raccolta. La successiva incursione del fiorentino fu nell'estate del 1416, questa volta a San Gallo in compagnia di tre amici umanisti, Bartolomeo da Montepulciano, Cencio Rustici e Sozomeno da Pistoia. Ne seguirono tre importanti scoperte: un Quintiliano completo, il “Commentario” di Asconio a cinque orazioni di Cicerone e un codice contenete quattro libri degli “Argonautica” di Valerio Flacco. All'inizio del 1417 Poggio e Bartolomeo compirono una spedizione ben organizzata a San Gallo e ad altri monasteri della regione: fra le loro scoperte compaiono Lucrezio, Silio Italico e Manilio. I manoscritti da loro trovati sono periti, ma ne rimane l'eredità: la copia di Manilio eseguita da Poggio è un testimone importante per il testo; il suo Lucrezio generò l'intera famiglia degli “Itali”, mentre tutti i nostri codici di Silio risalgono agli apografi eseguiti come risultato di questa spedizione. Nello stesso tempo Poggio acquisì da Fulda il famoso volume di Ammiano, che si portò in Italia. Nell'estate del 1417 Poggio compì viaggi più lunghi in Francia e in Germania, facendo due importanti scoperte. Nel primo caso si trattò di otto orazioni di Cicerone. A Langres rinvenne la “Pro Caecina”, nella cattedrale di Colonia forse le altre sette. Il secondo ritrovamento è quello di uno dei testi più rari: le “Silvae” di Stazio; tutti i nostri codici di queste poesie discendono da quello trascritto per lui. Terminato il concilio, Poggio trascorse alcuni anni in Inghilterra, dove scoprì ciò che egli descrive come una “particula Petronii”, cioè gli “exerpta vulgaria”: da questo suo manoscritto derivano tutti fu pubblicata a Firenze nel 1489. l'opera si avvicina nella forma alle “Notti attiche” di Aulo Gellio: di nuovo è evidente l'influenza di autori tardi. Alcuni esempi dei punti discussi valgono a mostrare il carattere del libro: sono problemi tipici l'origine dei nomi dei giorni della settimana, il valore etimologico della parola “panico”, il significato di una moneta battuta di Bruto che lo mostra con un berretto e due pugnali. Per risolvere la questione dell'ortografia del nome di Virgilio Poliziano invoca la testimonianza di alcune iscrizioni e la forma presentata da vecchissimi manoscritti; adopera il testo di Callimaco per emendare un passo corrotto in Catullo. In un capitolo importante per lo sviluppo della critica testuale rileva che il codice delle “Epistulae ad familiares” eseguito per Coluccio nel 1392 (P) è una copia di quello di Vercelli (M) e dimostra che lo stesso P, in cui alcuni fogli sono stati spostati per un errore nella legatura, deve essere padre di un'intera famiglia di manoscritti più tardi, nei quali l'ordine di un gruppo di lettere è stato ugualmente turbato. Applicò una simile deduzione a manoscritti di Valerio Flacco. Questa applicazione metodica del principio dell' “elimiatio codicum descriptorum” non ricomparirà più fino all'Ottocento. Nelle “Epistole ad Attico” emenda la lezione vulgata “cera” in “cerula” basandosi sulla lezione “ceruia” in M, il migliore dei manoscritti italiani. Il principio che gli emendamenti congetturali debbano prendere le mosse dal più antico stadio accessibile della tradizione, impiegato più di una volta da Poliziano, non fu sfruttato completamente fino all'età del Lachmann. Sebbene la sua convinzione che i manoscritti più tardi siano secondari fosse troppo radicale, il suo ricorrere costantemente ai più vecchi codici disponibili e la sua sfiducia verso le copie umanistiche erano destinati a produrre solidi risultati. In questo fu aiutato moltissimo dalla migliore disponibilità che offrivano le biblioteche del suo tempo e dall'avvento della stampa: fra il 1465 e il 1475 i torchi diedero alla luce il grosso dei classici latini. Egli si servì a fondo delle biblioteche, sia pubbliche sia private, a Firenze ed altrove, in particolare quella dei Medici; al momento della sua morte aveva in prestito non meno di trentacinque codici medicei. Si sa che esaminò o collazionò molti grandi manoscritti classici, fra cui testimoni importanti come il Bembino di Terenzio, il Romano di Virgilio, l'Etrusco delle “Tragedie” di Seneca, un vecchio Properzio, forse il codice “Neapolitanus” che era stato forse scoperto da Poggio e l'archetipo perduto di Flacco. Alcuni codici che egli usò sono andati perduti e le sue accurate collazioni costituiscono importanti testimonianze al testo. Ne sono esempio l'edizione parmense di Ovidio nella Biblioteca Bodleiana, con le sue lezioni autografe dal Marciano perduto dei “Tristia” e l' “editio princeps” degli “Scriptores rei rusticae” e dell'archetipo perduto delle opere sull'agricoltura di Catone e di Varrone. L'interesse forte di Poliziano verso gli scritti più tecnici dell'antichità è ulteriormente illustrato da un massiccio volume con l'edizione di Plinio il Vecchio, che contiene una trascrizione delle sue postille e collazioni, le ultime ricavate da cinque diversi codici e dall'importante opera critica di uno studioso contemporaneo, le “Castigationes Plinianae” di Ermolao Barbaro. Lo studio del greco: diplomatici, profughi e bibliofili Nelle città indipendenti dell'Italia settentrionale e centrale lo studio del greco si immaginerebbe poter essere stato introdotto in data piuttosto alta e senza difficoltà attraverso il contatto con le comunità di lingua greca dell'estremo sud e della Sicilia; ma questa regione era del tutto isolata dal resto della penisola e non aveva partecipato all'arricchimento e ai progressi delle più grandi città del nord: stato di cose rimasto immutato fin dopo il termine della Seconda Guerra Mondiale. Si sa bene che Petrarca prese lezioni dal monaco Barlaam: le sue capacità di insegnante però non furono alte e Petrarca non riuscì mai ad imparare la lingua a sufficienza per leggere la copia di Omero. Un'altra occasione di apprendere il greco si presentò nel 1360, quando l'allievo di Barlaam, Leonzio Pilato, fu bloccato da Boccaccio a Firenze durante il suo viaggio verso il nord ad Avignone: fu indotto ad insegnare il greco ma era un uomo impaziente e se ne andò presto. Per Boccaccio tradusse Omero insieme a circa quattrocento versi dell' “Ecuba” di Euripide. Poco dopo intraprese la traduzione di un'operetta di Plutarco per Coluccio Salutati. Lo stile di queste versioni era molto rozzo e umanisti con sensibilità stilistica in latino, fra cui Coluccio stesso, lavorarono a migliorarle. Più fruttuosi dei contatti con l'Italia meridionale furono quelli con la stessa Costantinopoli. Le sorti declinanti dell'impero greco resero necessario inviare frequenti missioni diplomatiche all'estero per chiedere aiuto contro i Turchi. Abbiamo già visto come un bagaglio di letteratura latina fu reco accessibile ai Bizantini per opera di Massimo Planude, che aveva fatto parte di un'ambasceria inviata a Venezia. Quasi esattamente un secolo dopo un altro diplomatico bizantino, Manuele Crisolora, fu il primo a tendere lezioni regolari di greco in Italia. Cominciò a Firenze nel 1397 e continuò i suoi corsi per circa tre anni prima di trasferirsi a Pavia per un soggiorno altrettanto breve: ebbe diversi allievi di grande statura, fra essi Guarino e Leonardo Bruni. Un risultato importante del suo insegnamento fu che si prepararono traduzioni latine di testi greci ed egli insistette che il vecchio metodo letterale doveva essere abbandonato per attendere piuttosto ad assicurare alla versione qualche pregio letterario. Un indice della sua influenza come maestro è che la sua grammatica greca, intitolata “Erotemata”, raggiunse una diffusione considerevole e fu infine il primo testo di questo genere ad essere stampato, nel 1471. Durante il Quattrocento per un italiano le possibilità di imparare il greco crebbero: molti bizantini vennero a vivere in Italia e dopo la disfatta del loro paese nel 1453 ci fu un fiume di profughi, che di solito arrivavano in Italia attraverso Creta e Venezia. Fortunatamente per loro, la ripresa della conoscenza del latino classico generò un diffuso desiderio di accostarsi agli autori ellenici che tanto di frequente vi si trovavano citati o menzionati. Una famosa scuola a Mantova, diretto da Vittorino da Feltre, accentuò il valore attribuito al greco; è però difficile giudicare quanti italiani di fatto lo abbiano imparato ad un livello che permettesse loro di leggere un testo con facilità. Si sa che alcuni italiani fra cui Poliziano impararono da sé prendendo una traduzione latina, per esempio la versione tradizionale della Bibbia o quella di Aristotele di Teodoro Gaza e usandola come chiave per chiarire il testo greco: mancando un maestro o una grammatica soddisfacente si trattava di un'impresa straordinariamente difficile. Molti, pur desiderosi di studiare, devono essere stati costretti ad accontentarsi di leggere traduzioni latine: e ne furono infatti eseguite in gran numero, specialmente sotto la protezione di papa Niccolò V. Una ristretta minoranza di studiosi ebbe l'energia o i mezzi di cercare istruzione nella stessa Costantinopoli: due delle più famose figure del Quattrocento che lo fecero furono Filadelfo e Guarino. Un altro motivo di viaggiare in oriente fu la speranza di riportarne dei manoscritti che potevano presentare testi nuovi. Alcuni ricercatori ebbero notevole successo e Giovanni Aurispa ritornò in Italia nel 1423 con 238 volumi di testi greci pagani. Anche i signori degli stati italiani si crearono delle raccolte: da Firenze nel 1492 Lorenzo mandò Giano Lascaris. La biblioteca papale crebbe pure rapidamente. Venezia invece ricevette il dono del cardinale Bessarione nel 1468: egli aveva radunato volumi per qualche tempo allo scopo di formare una raccolta completa di letteratura greca, dando ai suoi agenti istruzione di cercare in molti territori dell'antico impero. La filologia greca nel Quattrocento: Bessarione e Poliziano Il primo rappresenta la cultura dei greci, l'altro dimostra quanto gli italiani sapessero imparare dai loro maestri. Il primo dei due è il cardinal Bessarione (1403 – 72). Nacque a Trebisonda e fu educato a Costantinopoli alla scuola diretta da Giorgio Crisococca, dove incontrò per la prima volta l'italiano Filelfo. Si fece monaco nel 1423 e passò gli anni 1431-36 a Mistra nel Peloponneso presso il circolo del razionalista Giorgio Gemisto Pletone, dal quale imparò ad ammirare Platone. Tramite Pletone fu presentato all'imperatore ne divenne funzionario negli affari governativi; l'imperatore lo creò abate di un monastero nella capitale nel 1436 e l'anno dopo lo promosse al seggio vescovile di Nicea. Nel 1438 venne in Italia come membro della delegazione mandata al Concilio di Ferrara e Firenze per negoziare l'unione fra le Chiese romana e greca. Le sedute del concilio si protrassero, ma alla fine si raggiunse un accordo fra le due parti, in grande misura grazie agli efficaci argomenti del Bessarione: tutto però si risolse in un fallimento, poiché la massa della popolazione nell'impero greco, incoraggiata da parte del clero, rifiutò di accettare l'atto di unione come un puro compromesso. Bessarione fu fatto però cardinale. La casa del cardinale a Roma fu un centro di attività letteraria, dove i greci e italiani si mescolavano liberamente: tra i primi i due più famosi furono Teodoro Gaza e Giorgio Trapenunzio, che tradussero molte opere in latino, fra gli italiani furono Poggio e Valla. La vasta conoscenza e la profonda padronanza del latino che Bessarione possedeva fece sì che il Valla gli desse il titolo di “Latinorum Graecissimus, Graecorum Latinissimus”. La sua biblioteca era di ampiezza eccezionale: i soli libri greci verso la fine della sua vita ammontavano a circa cinquecento e comprendevano molte ottime copie di testi classici. Non sempre fu un raccoglitore molto acuto, dato che si era servito del mercato di Costantinopoli come di una fonte di rifornimento soddisfacente; ma in una lettera dice che la caduta dell'impero d'Oriente nel 1453 lo spinse a progettare di riunire un fondo il più completo possibile di testi greci, con il fine di metterlo infine a disposizione dei suoi compatrioti scampati al crollo dell'impero e giunti in Italia. Questo suo piano dichiarato rivela uno dei molti motivi per cui donò ancora da vivo i suoi libri alla città di Venezia, per formare le basi di una biblioteca pubblica, perché lì tendeva a raccogliersi il maggior numero dei profughi greci. Le opere letterarie composte da Bessarione comprendono una traduzione latina della “Metafisica” dio Aristotele e una lunga risposta a un libro polemico di Giorgio Trapezunzio che aveva attaccato Platone per vari motivi; restano anche lettere e opuscoletti, dei quali due offrono interesse per il nostro presente argomento. Il rimo nacque dai negoziati per l'unità della Chiesa. Il punto cruciale nella controversia tra greci e latini concerneva la processione dello Spirito Santo, cioè se fosse di natura uguale o solo simile a Dio Padre. Il gran successo del cardinale fu d'aver trovato un passo nel trattato di S. Basilio “Contro Eunomio” che enunciava chiaramente la dottrina di Roma e avrebbe potuto perciò costituire la base di una riconciliazione, poiché l'autorità di S. Basilio presso i greci era indiscussa. Gli avversari del Bessarione al concilio protestarono che il passo non era una autentica affermazione di S. Basilio. Benché sicuro dei suoi argomenti, Bessarione fu per un momento imbarazzato a dare le prove di quanto affermava e dovette affidarsi ad un'altra testimonianza meno decisiva per convincere gli oppositori. Ma quando ritornò per un poco a Costantinopoli decise di chiarire il punto per sua soddisfazione e cominciò ad esaminare tutte le copie del testo su cui riusciva a mettere le mani. Al tempo del concilio solo una delle sei copie dell'opera che si erano potute trovare si era dimostrata a favore degli avversari del Bessarione, e per di più dava tutta l'impressione di essere stata corrotta. Poi scoprì altre due copie del testo: entrambe sostenevano le affermazioni del cardinale, mentre solo apografi molto recenti convalidavano l'altra teoria. Egli si servì dell'età delle due copie antiche come prova decisiva: erano entrambe anteriori a taluni precedenti membri della Chiesa greca che avevano propugnato l'unione con l'Occidente, sicché non potevano essere state alterate da quelli; quanto all'idea che fossero state manomesse dagli italiani, l'alta qualità della lingua era sufficiente a respingere l'ipotesi. Dopo questo esempio di metodo erudito usato per confutare le manipolazioni senza scrupoli dei testi, passiamo all'altra operetta del Bessarione che dà un saggio positivo della sua filologia: anche qui il contesto è teologico. Dopo una lettura del Vangelo di s. Giovanni, sorsero vivaci conversazioni riguardo all'esatto testo di Giovanni 21,22. La lettura era stata compiuta sulla Vulgata latina, la quale presentava erroneamente la parola “sic” invece di “si”. Bessarione fece notare che si trattava semplicemente di un errore del copista, vertente su una sola lettera. Il suo uditorio non fu del tutto persuaso e così egli scrisse un opuscolo, nel quale enuncia parecchi importanti principi e l'intero argomento è trattato con un buon senso che a noi sembra naturale, ma che non fu ben acce3tto al conservatorismo dalle vedute limitare degli uomini, i quali riguardavano come sacra ogni parola della traduzione di S. Girolamo. Il cardinale afferma che il testo greco è l'originale e deve avere la precedenza su quello latino; inoltre dimostra che le antiche citazioni del testo greco di origine, Cirillo e Crisostomo hanno tutte le stesse parole; poi dimostra che l'intero contesto del passo non si adatta alla lezione della Vulgata. L'opera è di grande importanza ed anticipa Erasmo (1469-1536): Egli è nativo dell'Europa settentrionale. Originariamente monaco, riuscì ad ottenere il congedo permanente dal suo monastero e a Parigi cominciò ad occuparsi di greco: non fu un successo. Nel 1506 si recò in Italia per migliore la sua lingua e prese contatto con Aldo. Erasmo era all'epoca conosciuto per aver già pubblicato la prima edizione degli “Adagia”, un'antologia di proverbi con commento, e l' “Enchiridion militis Christiani”, offendendo un po' le autorità ecclesiastiche. Poi curò la stampa di un altro libro non ben accetto: le “Adnotationes in Novum Testamentum” di Valla. A Venezia fu ospite a casa di Aldo e descrive l'alloggio come miserabile. Qui poté imparare tutto il greco di cui aveva bisogno e lesse molti testi della biblioteca di Aldo. Un risultato immediato di questa permanenza fu la stesura molto ampliata degli “Adagia”, con l'aggiunta di fonti elleniche appena incontrate. Scrisse poi un opuscolo sulla corretta pronuncia del greco, che condusse all'adozione generale di quella che è chiamata la pronuncia erasmiana. L'attributo erasmiano però non rende merito della scoperta a chi ne ha diritto, perché di norma i greci esuli insegnavano la lingua classica secondo la pronuncia moderna: soltanto è giusto aggiungere che Erasmo stesso non rivendicò a sé l'invenzione del nuovo sistema. Per quanto il sodalizio con Aldo sia stato importante e fruttuoso, meglio va ricordata la sua lunga collaborazione con una delle più importanti case editrici del nord, quella di Froben a Basilea: diede vita con Froben a un'amicizia di importanza considerevole per la promozione dell'umanesimo cristiano. Uno dei primi frutti di questa alleanza fu la prima pubblicazione del testo greco del Nuovo Testamento nel 1516. Erasmo si sentiva del tutto sicuro nella sua convinzione riguardo all'importanza di stabilire il testo originale del Nuovo testamento. Si conosce bene il metodo con cui procedette nell'edizione: cominciò a lavorarci in Inghilterra nel 1512 e allora poteva consultare quattro manoscritti del testo greco. Durante la stampa a Basilea nel 1515 aveva con sé cinque esemplari. Sembra che Erasmo fosse consapevole del valore che dovevano avere i codici parecchio vecchi, ma le sue conoscenze paleografiche erano inadeguate al bisogno: fu sotto questo aspetto molto inferiore a Poliziano e anche al Bessarione. In genere Erasmo si affidava a copie piuttosto tarde di non grande pregio, nonostante la possibilità di usufruire di testi migliori. Un aspetto positivo è che mostra di aver compreso il principio “difficilior lectio potior”. Fra i molti problemi che nascono da questa edizione, due si possono menzionare qui. Nel libro dell'Apocalisse il suo unico esemplare mancava degli ultimi versetti ed era incomprensibili in altri punti: deciso a stampare un testo greco, Erasmo consultò la Vulgata in quei passi e li tradusse egli stesso; facendo così, oltrepassò i doveri di un editore e commise anche alcuni errori. Nella prima epistola di Giovanni egli aveva seguito il greco omettendo il cosiddetto “comma Johanneum”. Questo causò qualche controversia. Erasmo, a differenza di Bessarione, non disponeva di un argomento altrettanto netto e poteva solo appellarsi alla solida autorità di antichissimi testimoni per la difesa contro i suoi avversari. Nonostante ciò, questa edizione in greco del N. Testamento rappresentò un notevole passo in avanti per la filologia: stabilì il principio che bisogna studiare i testi nella loro forma originale e non dalle traduzioni e che la Scrittura va discussa e interpretata secondo le stesse regole di logica e di buon senso vigenti per tutte le altre opere. Il lavoro del Valla e Bessarione era venuto a frutto. Mentre era occupato a pubblicare nuove edizioni di testi patristici, Erasmo trovava anche il tempo di lavorare su testi classici. L'unico autore di cui allestì l' “editio princeps” fu Tolomeo. Il suo contributo alla letteratura latina fu maggiore, pubblicando edizioni di Terenzio, Livio, Seneca ecc ecc. L'ultimo, che pubblicò due volte, è stato riconosciuto come quello che mostra la sua forza e le sue debolezze. La prima edizione fu deturpata da una caratteristica fretta: fu stampata in assenza dell'editore stesso che aveva da fare con Girolamo e con il N. Testamento. Erasmo sapeva che avrebbe dovuto fare molto di meglio e tornò bel 1529 a rimettere in sesto quella che riteneva una vergogna. Nella seconda edizione raddoppiò il numero dei buoni emendamenti rispetto alla prima edizione del 1515 e diede prova di grande capacità. Ma di nuovo la stampa fu condotta con una certa agitazione, con manoscritti che continuavano ad arrivare mentre parti del libro erano già in stampa. Erasmo fece saggio uso dei manoscritti che aveva, ma sembrano essere stati tutti mediocri, salvo uno: ebbe infatti accesso alle lezioni del codice di Lorsch con il “De beneficiis” e “De clementia”. Però fu bloccato dai metodici critici del suo tempo: invece di basare il suo testo per queste opere sul testimone primario, attinse a quello spasmodicamente per emendare il testo che già aveva, e così fu persa una grande occasione. ALCUNI ASPETTI DELLA FILOLOGIA DOPO IL RINASCIMENTO: La Controriforma; il Tardo Rinascimento in Italia: Nel Cinquecento il progresso della filologia fu ostacolato da continue controversie religiose. È vero che il Bessarione fu stimolato a scrivere due libretti importanti proprio da una simile controversia, ma non è facile scoprirne un'altra ugualmente vantaggiosa fra i contemporanei di Erasmo o successivi. Lo stesso Erasmo non possedeva l'abilità paleografica che avrebbe potuto condurre ad ulteriori passi avanti. Le dispute religiose gli portarono via molto tempo e fatica negli ultimi anni; nel 1524 lo vediamo lamentarsi perché la battaglia fra Lutero e i suoi oppositori era divenuta una tale preoccupazione nei circoli letterari da contagiare il mercato librario; addirittura nei paesi di lingua tedesca era diventato impossibile vendere libri di un altro argomento. Altrove, soprattutto in Italia, le energie dei letterati si esaurivano in un'altra controversia, nella quale pure Erasmo rivestiva un ruolo importante: la questione se Cicerone doveva venir considerato l'unico modello di prosa latina. Erasmo riuscì a dare di nuovo vita a tale argomento, pubblicando nel 1528 a Basilea un dialogo intitolato “Ciceronianus”, in cui esagerava fino al ridicolo molte assurdità prodotte dall'entusiasmo fuori luogo di certi ammiratori di Cicerone. Le discussione non finirono con Erasmo e alla metà del secolo sembrava che gli estremisti pro-ciceroniani fossero in maggioranza, ma in seguito cambiò il gusto. I letterati presero ad interessarsi più a Seneca e a Tacito che a Cicerone. Le prospettive della filologia classica e biblica non furono migliorate dalla Controriforma. L'abolizione della libertà intellettuale implicita nelle decisioni del Concilio di Trento non giovò ad incoraggiare la libera ricerca nell'ambito filologico classico. Si affermò la Vulgata e i libri di Erasmo messi all'Indice dei libri proibiti. La disputa tra cattolici e protestanti continuava ancora aspra all'inizio del secolo successivo. Non bisogna però esagerare. La maggior parte dei testi latini era allora già apparsa a stampa, un po' meno quelli greci. Giuseppe Flavio e Archimede uscirono a Basilea nel 1544. I risultati raggiunti dagli antichi in matematica e alcune altre scienze stavano solo allora cominciando a venire ben capiti. Va sottolineato che Vettor Fausto, successore di Musuro nella cattedra di greco a Venezia, spese la maggior parte del suo tempo nei cantieri navali, disegnando nuovi tipi di galee. A Parigi fu attivo lo stampatore reale Roberto Stefano: la sua impresa produsse la prima edizione della storia ecclesiastica di Eusebio e delle storie romane di Dionigi di Alicarnasso e di Dione Cassio. Stefano, che aveva avuto già fama pubblicando il suo dizionario di latino, pubblicò alla Sorbona una sieri di edizioni della Bibbia e fa un'interessante osservazione sul valore della Vulgata. Infatti dice non senza ragione che per il N. Testamento può essere presa come testimonianza del testo greco in uno stadio davvero primitivo. Il valore di una traduzione relativamente antica era già stato correttamente affermato nel 1549 dal miglior studioso italiano del momento, Pier Vettori, che nella sua edizione della “Retorica” di Aristotele si era servito della traduzione latina medievale di Guglielmo di Moerbeke. Vettori osserva come la versione del Moerbeke sia di frequente in accordo con il manoscritto più vecchio e migliore, che egli aveva a propria disposizione (codice di Parigi). Sebbene mostri di non avere nozione della teoria stemmatica in quanto tale e non sembri aver capito che il codice di Parigi è perfino più antico della traduzione del Moerbeke, il suo metodo di trattare la tradizione indiretta o secondaria risponde a una competenza filologica di tale livello che non si può omettere neppure in un rapidissimo panorama della storia di questi studi. Vettori era in rapporti con gli Stefani e pubblicò un'edizione di Eschilo, ove per la prima volta era dato l'intero testo dell' “Agamennone”. Il più capace e attivo italiano fra i contemporanei di Vettori fu Francesco Robortello di Udine, noto per l' “editio princeps” di Longino, “Del sublime” e per un'importante edizione della “Poetica”, ma qui bisogna ricordarlo per un'altra ragione: nel 1557 scrisse una breve dissertazione, “De arte critica sive ratione corrigendi antiquorum libros disputatio”, che costituisce a quanto pare il primo tentativo di stendere un conciso manuale di critica del testo. Robortello afferma di essere stato il primo a formulare una teoria della emendazione. Dopo un capitolo breve sul valore dei vecchi codici, tratta dei principi che governano l'arte della congettura: il critico deve verificare le sue idee alla luce della paleografia, dello stile e della comprensione globale del soggetto. Segue quindi una serie di otto categorie, in cui si possono classificare gli emendamenti. La classificazione non riesce molto chiara, però vi sono incluse nozioni fondamentali come l'intrusione di glosse che hanno preso il posto delle lezioni originali e la possibilità di errori derivati da una scorretta divisione delle parole. Nella trattazione non c'è traccia di teoria stemmatica e anche il bagaglio paleografico è alquanto deludente. Però è suo grande merito aver tentato una esposizione sistematica della via che il critico deve seguire nel suo compito di riportare i testi classici alla loro forma originaria. Lo studio dei più vari aspetti dell'antichità classica in Italia in questo periodo è ben rappresentato da Fulvio Orsini, appartenente alla famiglia poco apprezzata degli Orsini. Studioso e collezionista secondo la più antica tradizione del Rinascimento, ha al suo attivo parecchie pubblicazioni importanti e originali, come il “Virgilius illustratus”, in cui diede un panorama completo della cultura letteraria greca di Virgilio, opere sull'iconografia e sulla numismatica e l' “editio princeps” della maggior parte dei libri frammentari di Polibio. Aveva molti interessi. Egli aveva importanti contatti con altri studiosi di altri paesi. Nella sua biblioteca figurava una pregiata collezione di autografi dei grandi umanisti, da Petrarca ai suoi giorni. Però la sua attività al centro del movimento antiquario dell'epoca non fu meno importante dei suoi risultati in campo letterario. Lo studio sui Padri compì pure qualche modesto progresso verso la fine del Cinquecento. Nel 1550 apparve la “princeps” di Clemente d'Alessandria, edita dal Vettori ma con una dedica al cardinal Cervini, il quale si interessò alla lotta contro i libri ritenuti pericolosi come quelli di Erasmo. La creazione dell'Indice nel 1558 diede impulso a produrre edizioni in piena conformità con l'ortodossia. La lotta contro l'eresia poteva riuscire non del tutto vantaggiosa per la filologia, che subì una battuta d'arresto nel 1587 quando papa Sisto V evocò a sé i problemi di critica testuale troppo difficili a risolversi. Dal punto di vista letterario l'avvenimento più importante del pontificato di Sisto V fu la pubblicazione della Vulgata latina nel 1590, accompagnata dalla minaccia di scomunica per chi osasse cambiarne le lezioni. Il successore però Clemente VIII nel 1592 ritirò le copie invendute e mise fuori un'altra edizione differente, che diventò il testo ufficiale della Chiesa cattolica e rimase tale fino a quella dei benedettina del 1926. I migliori risultati negli studi patristici in questo periodo cadono un po' dopo in ambienti diversi. A Oxford Thomas James organizzò una squadra di collaboratori per collezionare codici di s. Gregorio, s. Cipriano e s. Ambrogio. Scoprirono così molti errori e James paragonò il suo compito a quello di pulire le stalle di Augia. Anche più importante è l'edizione di s. Giovanni Crisostomo fatta da Sir Henry Savile del 1612. Gli inizi dell'Umanesimo e della filologia in Francia: La velocità e la vitalità con cui l'umanesimo mise radici e fiorì in Italia non ebbe uguali altrove. In Francia il classicismo rimase di stampo più tradizionale e non compì salti così violenti, nonostante l'influenza italiana, soprattutto attraverso Avignone. La forza e la vitalità della cultura medievale francese però fecero sì che l'umanesimo in Francia potesse assorbire dall'Italia ciò di cui aveva imprese educative e a trascrivere libri. La diffusione dell'istruzione elementare e lo sviluppo di prosperose città mercantili contribuirono a creare le condizioni in cui la cultura poteva fiorire sebbene l'inizio tardivo. Nelle università e nelle stamperie va ricercata l'origine della potente tradizione classica dei Paesi Bassi. Lovanio divenne ad un certo momento uno dei massimi centri intellettuali dell'Europa del Nord. Raggiunse una simile posizione l'università di Leida. La storia degli inizi della stampa olandese è oscura, però è interessante osservare che un tipico libro di testo scolastico come l' “Ars minor” di Donato fu stampato in Olanda nel 1470, mentre nel sud, a Lovanio, Giovanni di Westfalia pubblicò una serie dei principali autori classici già all'altezza del 1475. Il suo successore nell'impresa, Thierry Martens, si diede a produrre libri classici per rispondere ai bisogni dell'università e stampò i primi testi greci che abbiano veduto la luce in questa parte di Europa. Nel periodo splendido della stampa olandese, nel tardo Cinquecento e nel Seicento, Plantin tenne il campo nel sud e Elzevier nel nord. Sebbene il lavoro più famoso di Plantin sia la Bibbia Poliglotta in otto volumi, egli fece molte edizioni classiche, alcune di fattura superba; nel suo Orazio si trovano per la prima volta usare le sigle alla maniera moderna. Il primo libro di Elzevier, Eutropio, annunziava una forte sollecitudine per i libri dell'antichità, che fortunatamente coincise con il periodo aureo della filologia olandese, assicurando così una serie di testi filologicamente buoni. Il più grande filologo classico che apparve nei Paesi Bassi durante il XVI secolo fu senza dubbio Giusto Lipsio, ma anche altri vanno ricordati. Tra questi uno è Canter, il cui campo precipuo era la critica testuale in greco: è conosciuto soprattutto per le sue edizioni dei tre tragediografi. Va notato in ispecie il modo di trattare i lirici, mentre la sua edizione di Euripide è la prima ove si presti attenzione particolare alla responsione strofica, adoperandola per emendare. Scrisse anche un breve manuale di critica del testo, “Syntagma ...”: consiste in una classificazione sistematica di diversi tipi di errori in testi greci, raccolti in categorie. Franz Modius è meno degno di nota, sebbene ha curato molte edizioni latine. Egli diceva che la congettura da sola è inutile e perfino pericolosa, che occorre un conveniente equilibrio fra autorità dei manoscritti ed emendamenti, che la recensione è una indispensabile fase preliminare nel lavoro di edizione. Il suo lavoro è notevole per ampiezza, mentre le lezioni che riporta nelle sue “Novantiquae lectiones” acquistano grande valore quando i codici stessi siano andati distrutti, come nel caso dell'esemplare di Colonia di Silio Italico. Jacob Cruquius lavorò quasi esclusivamente su Orazio e deve la fama all'invenzione del fantomatico “commentator Cruquianus”, di cui è stato risolto l'enigma, e al tempestivo esame di quattro codici di Orazio, uno di questi era l'importantissimo “Blandinius vetustissimus”. Un singolare colpo di fortuna per la nuova università di Leida fu quella di avere attirato quasi subito dopo l'inaugurazione uno dei più brillanti latinisti del secolo. Giusto Lipsio ricevette un'educazione cattolica e, giovane, fu legato all'università di Lovanio; ma la sua conversione al protestantesimo gli aprì la via ad essere chiamato a Leida alla cattedra di storia, proprio come il ritorno al cattolicesimo lo condusse di nuovo a Lovanio, dove fu professore di storia all'università e di latino al “Collegium Trilingue”. Il suo successo era basato su un'assoluta conoscenza della storia e delle antichità di Roma. Lavorò con buoi risultati su Plauto, Properzio e su Seneca, ma il suo contributo più importante fu rivolto ai prosatori dell'età imperiale: le migliori cose per cui lo si ricorda sono le edizioni di Tacito e di Seneca. Studiando questo periodo, fu portato a modificare il suo modo di scrivere, dapprima di stampo ciceroniano, e a sviluppare uno stile acuminato che influenzò molti. Suo capolavoro è Tacito. Fu molto capace di trasformare il testo, nonostante un atteggiamento essenzialmente cauto di fronte agli emendamenti. Giovane passò due anni in Italia, studiando le antichità e esplorando biblioteche. Fu più fortunato con i monumenti che con i manoscritti. Non esaminò neppure i due codici Medicei di Tacito, sicché dovette basarsi su copie fino alla sua ultima edizione, che apparve postuma nel 1607, quando poté attingere alle collazioni pubblicate nel 1600 da Pichena. Il Seneca è basato su fonti manoscritte scadenti: in totale qui manca l'intelligente vivacità di Tacito, tuttavia rimane degno culmine delle fatiche di un uomo che per preparare l'opera studiò tanto a fondo lo stoicismo da riuscire a risuscitarlo come forza vitale in quei giorni tormentati dei Paesi Bassi. I Paesi Bassi nel Seicento non furono toccati dalla decadenza generale nel livello della filologia classica cui si può assistere in altre nazioni: mantennero invece la loro fiorente tradizione fin nel Settecento, quando l'influenza di Bentley contribuì a una sfolgorante ripresa degli studi greci. Leida attirava dall'estero studiosi di grande vigore e la filologia olandese si migliorò. Giuseppe Giusto Scaligero succede alla cattedra di Lipsio. La stessa cattedra fu occupata, con dolore di Voss, da Salmasio. Questo è conosciuto per la sua polemica con Milton, possedette il codice Salmasiano dell' “Antologia latina”. Voss contribuì a dare basi più ampie ala filologia olandese trattando una vasta gamma di argomento in modo sistematico. Fu professore di retorica a Leida per 10 anni e lavorò nell'ateneo di Amsterdam. Scrisse un grosso trattato di retorica, due notevoli contributi su grammatica e particolarità del latino e due dizionari degli storiografi dall'antichità al Cinquecento. Il “De theologia gentili” può dirsi uno dei primi libri sopra la mitologia classica. Daniel Heinsius era interessato alla teoria della poesia ed era protetto da Scaligero. Scrisse un'edizione della “Poetica” di Aristotele e un breve opuscolo “De tragoediae constitutione”, succinta e perentoria riaffermazione delle opinioni aristoteliche sulla tragedia ed ebbe grande influenza sul teatro francese e sul dramma neoclassico. Le edizioni dei classici latini rimasero al centro dell'attività filologica olandese e continuate bene nella seconda metà del XVII secolo da due grandi amici, Gronovius e Nicolaas Heinsius, il figlio dell'altro Heinsius, che si divisero il dominio rispettivamente della prosa e della poesia. Durante i suoi viaggi, Gronovius colse l'occasione per esaminare manoscritti latini. A Firenze nel 1640 si imbatté nel codice Etrusco delle “Tragedie” di Seneca, facendone un'edizione. Heinsius nella poesia si mostrò più dotato del suo amico. Anche lui visitò biblioteche europee. La sua forza risiede nel sottile senso dell'eleganza nella poesia latina e nell'esatta comprensione delle finezze di dizione e di uso che lo resero critico sensibile e quasi prodigioso. Fu uno dei più grandi critici di poesia latina. Curò Ovidio, Virgilio, Flacco. Isaac Voss è ricordato spesso come bibliofilo o anche come il libero pensatore convertito anglicano che osò leggere Ovidio durante il servizio divino nella cappella di s. Giorgio a Windsor. Egli fu fautore di alcune delle nostre maggiori collezioni di manoscritti. Come Salmasio, Heinsius e Cartesio, fu invitato a Stoccolma da quella straordinaria sovrana che fu la regina Cristina di Svezia. Oltre a insegnarle il greco, la aiutò nel suo ambizioso progetto di formare una biblioteca paragonabile a quella delle altre corti europee. Fra i manoscritti che Voss acquistò per lei c'erano quelli di suo padre, Gerard Voss. La maggior parte dei codici della regina si trovano ora alla Vaticana dove costituiscono il fondo Reginense. Richard Bentley (1662 – 1742): gli studi classici e teologici: Nella storia della critica testuale compare a questo punto una figura di autorevole importanza: Richard Bentley, che fu rettore del Trinity College a Cambridge dal 1699 in poi. In questo posto molto del suo tempo fu preso dagli intrighi accademici: riuscì però ad evitare di farsi distrarre del tutto dagli studi. Cominciò a farsi un nome pubblicando nel 1691 l' “Epistula ad Joannem Millium”, cioè una serie di osservazioni sul testo di Giovanni Malala, cronista bizantino del VI secolo. Egli seppe emendare molti luoghi del testo. Forse proprio per questo, insieme all'attraente vivacità del suo stile latino, rese l'opera celebre rapidamente. Entrò in un circolo con Newton, Wren, Locke e Evelyn. Poi Bentley si distinse con il suo lavoro sulle epistole di Falaride. Le epistole, che simulano di essere dell'antico tiranno di Agrigento, sono in realtà una falsificazione dell'età della Seconda Sofistica. Bentley non fu affatto il primo ad avanzare dubbi sulla loro autenticità: già Poliziano lo aveva fatto; ma alcuni ancora le credevano genuine. La “Dissertation” di Bentley fu una dimostrazione magistrale che le lettere erano una misera e spregevole falsificazione. Ciò mostrò come Bentley come critico e commentatore non ebbe rivali in Europa. Come critico del testo, Bentley è forse più noto per il lavoro che svolse su autori latini più tardi nella sua carriera. Egli trattò autori come Orazio, e divenne famoso il divertente cambiamento che propose di effettuare nella favola della volpe catturata nel granaio. Dato che una volpe non mangia grano, Bentley propose di leggere “topolino”, del tutto trascurando che l'autore della favola scelse l'animale come simbolo di astuta cupidigia. Questa insistenza sulla logica, senza considerare la licenza poetica, danneggia gli apporti di Bentley all'emendazione degli autori di primo piano che egli pubblicò, cioè Orazio e Terenzio. Due dei suoi lavori più validi furono progetti che non arrivarono mai a frutto: le edizioni di Omero e del Nuovo Testamento. Quanto ad Omero, la sua scoperta più notevole fu che il metro di molti versi si poteva spiegare postulando l'esistenza della lettera digamma. Bentley non è solo filologo classico, ma anche teologo, tanto da essere nominato Regius Professor di Divinity nel 1717. Tre anni dopo pubblicò un libriccino intitolato “Proposals for an edition of the New Testament”, ove annunciava esplicitamente che il testo si sarebbe fondato sui più antichi manoscritti dell'originale greco e della Vulgata. Bentley sapeva che nelle biblioteche inglesi poteva mettere le mani su più d'un codice vecchio di un millennio. Basandosi su queste informazioni riuscì a restituire il testo come era nelle copie migliori che circolavano al tempo del Concilio di Nicea (325 d.C.): si noti che non sperava di ristabilirlo esattamente come era negli autografi degli autori. Poiché la sua edizione non fu mai terminata, continuò a venire stampato il cosiddetto “textus receptus”, in altre parole il testo nella forma fissato da Erasmo e Stefano. Bentley sembrerebbe precorrere il suo tempo di un secolo e mezzo, però è doveroso ricordare che i “Proposals” praticamente non segnano progressi rispetto all'opera del bisbetico prete francese Richard Simon. L'opera capitale di Simon è l' “Histoire critique du texte du Nouveau Testament” del 1689. tale libro pare essere il primo tentativo di scrivere una monografia sulla tradizione di un testo antico. Contiene importanti esemplificazioni di principi critici nei capitoli dedicati ai manoscritti, ed è impossibile credere che Bentley non li abbia conosciuti e approvati. Simon dichiara come propria linea di condotta l'esame dei codici greci, delle varie versioni e degli scolii. Quindi delinea la storia del testo neo-testamentario dai tempi di Valla in poi. Simon sa che la rispettabile età di un codice non garantisce automaticamente lezioni veraci; segue critici anteriori nell'opinione che il testo greco debba venire controllato tramite confronto con le citazioni dei primi Padri, poiché queste sono anteriori allo scisma della Chiese greca e romana, proprio in seguito al quale, secondo alcuni, il testo greco era stato falsificato. Il suo metodo lo portò alla convinzione moderna e raffinata che i testi oscuri e ambigui erano spiegati con scolii, e che se tali scolii erano brevi potevano essere facilmente inglobati nel testo. La nascita della paleografia: A Bessarione e a Poliziano può venire attribuita qualche conoscenza di paleografia, e il primo almeno la trovò utile per confutare i suoi oppositori al Concilio di Firenze. C'era poco interesse a definire la data e l'origine dei codici che si andavano usando per pubblicare testi classici e cristiani. Anche questa volta la controversia religiosa spinse a progredire. Scoppiò una disputa fra gesuiti e benedettini: nel 1675 un gesuita di nome Daniel van Papenbroeck dimostrò come una carta, che si riteneva emessa dal re merovingio Dagoberto nel 646 e che garantiva taluni privilegi ai benedettini, fosse un falso. Il ramo francese dell'ordine benedettino, che si era chiamato Congregazione Maurina, prese ciò come una sfida. Uno dei più abili benedettini, Mabillon, spese parecchi anni studiando carte e codici e ricavandone per la prima volta in modo sistematico una serie di criteri per conosciuti come papiri; i ritrovamenti più cospicui furono fatti ad Ossirinco nell'Alto Egitto da Grenfell e Hunt. Per la prima volta gli studiosi poterono consultarono una messa di libri antichi, in media di mille anni anteriori ai testimoni su cui dovevano basarsi prima. Un numero rilevante di papiri porta delle aggiunte al corpo della letteratura greca, fra essi si contano opere importanti come la “Costituzione d'Atene” di Aristotele, le “Odi” di Bacchilide ecc ecc. Altre bellissime scoperte includono molti importanti papiri biblici, soprattutto il brandello del Vangelo di s. Giovanni e può essere datato all'inizio del secondo secolo. Quasi tutti i papiri vengono dall'Egitto, da distretti abbastanza lontani dalla capitale. La sopravvivenza di questo materiale fu possibile perché nei villaggi i rifiuti, inclusa la carta straccia, venivano gettati in enormi mucchi di immondizia, immuni dall'effetto dell'umidità; data la secchezza del clima, i papiri furono protetti. Alcuni provengono invece da tombe, come i “Persae” di Timoteo o da cartoni delle mummie. Grazie a questa ultima tecnica abbiamo il “Sicyonius” di Menandro, e di Euripide centro versi dell' “Antiope” e la fine dell' “Eretteo”. ALTRE SCOPERTE DA CODICI: Le ricerche nei fondi di manoscritti furono per lungo tempo tutt'altro che sistematiche, sicché talvolta è capitato a studiosi fortunati di scoprire testi antichi di non scarsa importanza. Nel 1743 Prospero Petronio si imbatté in un codice unico dei “Caratteri” di Teofrasto. L'inno omerico a Demetra venne alla luce nel 1777 quando Matthaei scoprì un codice ora a Leida. Villoison pubblicò gli scolii marginali dell' “Iliade” che aveva trovato nel codice oggi chiamato Veneto A: contenevano una quantità di informazioni nuove sui critici alessandrini di Omero, dalle quali Wolf fu stimolato a scrivere i “Prolegomena ad Homerum”, un libro importantissimo del 1795. Da lui parte la questione omerica. Minoides scoprì le favole in versi di Babrio e alcuni trattatelli di Galeno. Capitò pure che le speranze di scoperte riuscissero ingannevoli: nel 1823 Giacomo Leopardi che al suo tempo era il migliore filologo classico in Italia, trovò nella Biblioteca Vaticana quello che sembrava essere un nuovo pezzo di prosa attica classica. Il testo però risultò essere un'opera patristica relativamente comune, composta in stile atticista: la lettera di s. Basilio ai nipoti sui vantaggi di leggere i classici. Un notevole ritrovamento recente è il trattatello di Galeno “De indolentia”. In latino c'è meno da ricordare, poiché la maggior parte delle grandi scoperte dei tempi moderni sono state compiute nei palinsesti, come si è detto sopra. Un'importante eccezione è la “Cena di Trimalchione” di Petronio, stampata per la prima volta nel 1664. Un'altra scoperta recente è la raccolta di poesie latine, detta “Epigrammata Bobiensa” per il fatto che è contenuta in un apografo umanistico di un codice di Bobbio. TESTI EPIGRAFICI: Anche le collezioni di epigrafi, cospicue e in continuo aumento, sono esse pure monumenti dell'enorme numero di testi che ci sono pervenuti tracciati su bronzo, pietre e simili. Un esempio importante sono le “Res gestae divi Augusti”: sono la registrazione delle imprese compiute da Augusto, da lui lasciata con l'esplicito desiderio che fossero incise su bronzo e pose sulla facciata del suo mausoleo. Tanto il manoscritto quanto l'originale iscrizione sono periti senza tracce: ma nelle province furono esposte copie. Queste rientrano nella tradizione della “laudatio”, o commemorazione funebre. È famosa la “Laudatio Turiae”, orazione funebre per una matrona romana del tardo I secolo a.C.. Ma anche le pietre hanno la loro morte, e molte delle virtuose azioni di questa forte signora sarebbe caduto in oblio se infine la penna non fosse venuta in aiuto. D'interesse storico e letterario è la tavoletta bronzea di Lione che conserva il discorso tenuto in Senato nel 48 d.C. dall'imperatore Claudio per perorarvi l'ammissione dei nobili Galli. Un notevole testo filosofico è dovuto invece all'impegno filantropico di Diogene di Enoanda, che scrisse un'esposizione della filosofia epicurea nella piazza del mercato di Enoanda, in Licia. Il testo era lungo 40 metri. L'editore si ritrova a dover ricomporre un mosaico di proporzioni monumentali; una caratteristica peculiare dell'iscrizione è il modo in cui la disposizione in colonne e la preoccupazione per la comodità del lettore riproducono in scala ingrandita le convenzioni dei libri dell'epoca. EPILOGO: Dopo aver presentato piuttosto in sunto il cammino della filologia fra la fine del Rinascimento e l'inizio di quella che può propriamente essere considerata la filologia moderna nell'Ottocento è ora tempo di tirare le fila. Con la stampa si è conclusa la nostra storia, dal momento che è stata assicurata la conservazione dei testi. In alcuni paesi esistevano limitazioni alla libertà intellettuale. Gli eruditi del Rinascimento formarono anche accademie, come quella che lavorò attorno ad Aldo. Anche le università per molto tempo non riuscirono a coordinare i loro sforzi e gestirono singolarmente le proprie case editrici. CRITICA DEL TESTO: Il compito della critica testuale è in un certo senso quello di rovesciare il processo, di seguire a ritroso i fili della trasmissione, cercando di restituire i testi alla loro forma primitiva. Poiché non restano autografi di autori classici, le nostre conoscenze su di loro dipendono dai codici e talvolta da edizioni a stampa. Qualunque tentativo di ristabilire il testo originale richiede evidentemente l'impiego di un procedimento lungo e difficile, che si divide in due fasi. Il primo momento è la recensione (recensio). Lo scopo della recensione è ricostruire dalla testimonianza visibile dei manoscritti sopravvissuti la più antica forma recuperabile del testo che sta sotto di essi. A meno che la tradizione scritta non dipenda da un unico testimone, è necessario: – Definire le relazioni reciproche dei codici esistenti – Eliminare dall'esame quelli che sono derivati esclusivamente da altri esemplari conservati e che perciò non hanno valore indipendentemente – Usare le relazioni accertate di quelli che restano per ricostruire il manoscritto o i manoscritti perduti, da cui discendono i testimoni rimasti Quando il testo è stato restituito nello stato più primitivo che si può ricavare dai codici, comincia la seconda fase. Il testo trasmesso va esaminato e il critico deve decidere se è autentico o no (“examinatio”); se non lo è il suo compito è di emendarlo (“emendatio”). La formazione della teoria della critica testuale: l'invenzione della stampa e in particolare l'apparire delle prime edizioni di Cicerone nel 1465 ebbero la conseguenza di garantire per la prima volta il futuro dei classici, ma anche un difetto: gli antichi stampatori, imprimendo un testo, tendevano a dare a quella forma un'autorità e una stabilità che di fatto era raramente meritata. L' “editio princeps” di un autore classico fu in genere poco più di una trascrizione di un qualunque codice umanistico che il tipografo sceglieva di usare come sua copia, una replica a stampa di un recente manoscritto. Questo testo ripetuto più volte presto finì col costituire una vulgata, che la forza d'inerzia e il conservatorismo resero difficile abbandonare in favore di un testo radicalmente nuovo. Un primo passo vero verso una critica testuale più scientifica fu il rigetto della vulgata come base di discussione e insieme ad essa dell'illogico conservatorismo che vedeva l'uso dei codici come un allontanamento dalla tradizione piuttosto che un ritorno ad essa. Il primo impulso venne dagli studi sul N. Testamento, dove il problema era più evidente: la ricchezza di testimonianze manoscritte lasciava scarse possibilità di emendamenti congetturali e il compito di scegliere la verità dalle varianti era impedito dalla sanzione quasi divina attribuita al “textus receptus”. Nel 1721 Bentley progettò un'edizione del N. Testamento basata solo sugli antichi codici e sulla Vulgata latina. Il conservatorismo dei teologi impedì di realizzare il progetto fino all'edizione di Lachmann del 1831, ma l'attacco al “textus receptus” fu rinnovato qualche anno dopo Bentley da Wettstein. L'ininterrotto accumularsi di testimonianze manoscritte durante il Sei e il Settecento accentuò il bisogno di escogitare un metodo valido per separare la farina dalla crusca. Molti filologi contribuirono ad elaborare la teoria stemmatica della recensione, che fu formulata nelle sue linee essenziali entro la metà dell'Ottocento e, quantunque il suo contributo personale sia molto meno importante di quanto si fosse supposto, è ancora associata con il nome di Lachmann: tale metodo rivoluzionò l'edizione dei testi classici. Barlumi del criterio genealogico esistevano già in età umanistica: Poliziano capì che i codici derivanti da un più antico esemplare sopravvivente non avevano valore ed applicò praticamente il principio dell' “eliminatio” ad alcune copie delle “epistole” di Cicerone. Nel 1508 Erasmo postulò un singolo archetipo da cui sarebbero discesi tutti i manoscritti conservati di un testo: riuscì a spiegare come si produca facilmente un errore comune a tutti i testimoni. Il concetto di archetipo medievale sembra sia stato formulato per la prima volta da Giuseppe Giusto Scaligero, che nel 1577 tentò di dimostrare che i manoscritti di Catullo erano derivati da un padre comune. Lo Scaligero superò di molto il suo tempo. Solo nel Settecento ci fu di nuovo qualche progresso, partendo sempre dalla filologia neotestamentaria. Bengel si accorse che i codici del N. Testamento si potevano classificare su basi genealogiche, anzi addirittura egli parlò del giorno in cui sarebbero stati ridotti a ciò che egli chiamava una “tabula genealogica”. Nel 1830 Lachmann, preparando la via alla sua edizione del N. Testamento, enunciò in modo più preciso le regole esposte da Bengel per la scelta delle varianti; nel 1831 Carl Zumpt, nell'edizione delle “Verrine”, disegnò quello che risulta essere stato il primo “stemma codicum” per un testo classico e gli diede il nome che fu comunemente accettato; Ritschl e Madvig raffinarono poi il metodo. Il più famoso di tutti gli stemmi, quello di Lucrezio, fu costruito da Jacob Bernays nel 1847. LA TEORIA STEMMATICA DI RECENSIONE: L'esposizione classica della teoria stemmatica è quella di Paul Maas. In pratica questa teoria presenta dei seri limiti, come ben comprese Maas, poiché si può applicare con successo solo se la tradizione è chiusa: di questi limiti si parlerà dopo. I punti essenziali della teoria sono i seguenti. “La costruzione di uno stemma”: di fondamentale importanza nella stemmatica sono gli sbagli che l'amanuense commette mentre copia, perché forniscono il mezzo più valido per scoprire i rapporti tra i codici; una attenzione speciale viene prestata alle omissioni e trasposizioni. Ai fini dello stemma gli errori si possono dividere in (a) quelli che mostrano che due manoscritti sono più strettamente connessi tra loro che con un terzo (“errores coniunctivi”) e (b) quelli che mostrano che un manoscritto è indipendente da un altro, perché il secondo contiene uno o più errori dai quali il primo è esente (“errores separativi”). Occorre giurare con cura se si tratti di sbagli “significativi”, cioè non tali che due copisti abbiano probabilità di commetterli per vie indipendenti, o tali da poter essere eliminati senza sforzo per congettura. Su queste basi si ricavano un passo per volta i legami tra i codici e i gruppi di codici, fino a ricostruire idealmente uno stemma dell'intera tradizione manoscritta. “L'applicazione dello stemma”: l'applicazione meccanica dello stemma per ricostruire le lezioni dell'archetipo si può illustrare bene con un esempio ipotetico, come disegnato sopra. Omega rappresenta l'archetipo; i manoscritti intermedi perduti, dai quali discendono gli esemplari superstiti, sono indicati con lettere greche. I codici superstiti sono otto (ABCDEXYZ); riguardo alla figura si suppone che E sia un frammento contenente solo una piccola parte del testo. – Se B è derivato solo da A, differirà da A solo nell'essere più corrotto. Il primo passo quindi è eliminare B. – Il testo di gamma può essere dedotto dall'accordo di CD o dall'accordo di uno di essi con un testimonio estraneo (A o alfa). – Il testo di beta può essere ricavato dall'accordo di ACD, o di AC contro D, o di AD contro C, oppure dall'accordo o di A o di gamma con alfa. – Il testo di alfa si può ricavare dall'accordo di XYZ, o di due di essi contro il terzo, oppure (se probabilità di essere quella esatta: questa opinione è giustificata dal fatto che gli amanuensi tendevano talvolta inavvertitamente ad eliminare dai testi le forme linguistiche rare o arcaiche non più facilmente intese, o a semplificare un complesso procedimento logico che non riuscivano ad afferrare; termini equivalenti per indicare questo modo di agire sono interpolazione o trivializzazione. Spesso però questo concetto è stato abusato. Forme fluide di trasmissione: testi tecnici e letteratura popolare: Noi ci siamo concentrati soprattutto sulla letteratura. Ma la trasmissione è riprodurre il testo con la maggior esattezza possibile e in totale la fedeltà con cui i classici sono stati traditi è straordinaria. Alcuni tipi di scritti prestano a forme più fluide di trasmissione e evolvono col tempo per adeguarsi a esigenze o circostanze mutate. Fra questi si annoverano manuali di vario tipo, testi nei quali l'intenzione letteraria è secondaria o trascurabile e lo scopo primario è di fornire al lettere informazioni utili e pratiche. Il modo in cui Planude trattò alcuni passi dei “Fenomeni” di Arato è un esempio in merito. Questi libri vengono meno al loro scopo se le informazioni che contengono sono sorpassate se sono insufficienti per le esigenze del lettore. Convenzioni nell'apparato critico: I termici latini sono spesso abbreviati, come “coni(ecit)”, “suppl(evit)”, “del(evit)”. Mentre “cos./codd.”, “ms./mss.”, “om.”, “add.”, e P. o Pap. Per papiro non creeranno imbarazzo, può non essere ovvio er un principiante che “gl.” sta per glossa interlineare; che “sch.” indica “scholia”; che “lm.” indica “lemma”; e, mentre “edd.” indica gli editori, “ed.pr” è il modo comune di riferirsi alla prima edizione a stampa. Un'altra abbreviazione utile è “cett.” (“ceteri codices”). Il simbolo stigma è usato usato per indicare uno o più manoscritti tardi, detti anche “recc.”, quando sono ritenuto di minore importanza rispetto alla tradizione precedente oppure da esso discendono. Per le citazioni da dizionari antichi o medievali, come la “Suda” o Esichio è comune indicare la voce in questione con “s.v.” “sub voce”. Può essere necessario dire che una parola è scritta sopra la riga e per questo si usa “s.l” “supra lineam”. I manoscritti sono spesso stati corretti e a questo scopo si dirà Mac, Mpc (“ante correctionem, post correctionem”); è auspicabile che l'editore dica da qualche parte chi era il correttore. M1 può essere usato invece di Mac, e con M2 si indicano le lezioni di una seconda mano; c'è anche la questione delle doppie lezioni. Quando sono date negli scolii, “v.l” (“varia lectio”) è una formula comune; ma molte varianti sono annotate nei codici stessi, in greco di solito marcate con la sigla gamma + rho o per esteso “gràfetai”; in latino con una “l con una sbarra in mezzo” (“vel”) o “al.” (“alias”). Le parentesi uncinate < > racchiudono qualcosa che la tradizione manoscritta omette e che perciò i filologi hanno integrato. Al contrario, le parentesi quadre e graffe segnano porzioni di testo trasmesse da tutti o almeno dalla maggior parte dei testimoni ma che l'editore ritiene spurie e tarde aggiunte. Corruttele: Per ricavare la verità dalle testimonianze manoscritte i filologi devono avere familiarità con i vari tipi di corruttele che vi ricorrono. La causa principale di esse fu l'incapacità degli amanuensi di eseguire una copia precisa del testo che avevano davanti e la maggior parte degli errori furono involontari. Ma ciò risulta non vero. È davvero difficile ricopiare un testo, anche se breve. Molte sono le trappole a cui è soggetto il copista. A) Gli errori prodotti da particolari caratteristiche di scritture antiche o medievali possono essere collocati in una prima categoria, che si potrebbe supporre molto più numerosa di ogni altra: ma lo studio accurato di un apparato critico fa sorgere dubbi in proposito. Cause tipiche nell'ambito di questo gruppo sono la mancanza di divisione tra le parole in molti manoscritti; una stretta somiglianza di alcune lettere in una scrittura, che conduce a farle confondere; lo scioglimento sbagliato delle abbreviazioni (come i “nomina sacra”, per alcuni termini della teologia cristiana). Spesso i numeri andavano confusi e scorrettamente tramandati. B) Altre corruttele nacquero dai cambiamenti di ortografia e di pronuncia. Per esempio nel tardo latino i suoni “ae” e “e” divennero identici, mentre “b” fu pronunciata come una fricativa e confusa con “v”. in greco parecchie vocali e dittonghi furono ridotti all'unico suono di “i”: fenomeno dello iotacismo. Sparì la distinzione fra “o” ed omega. C) Le omissioni costituiscono una terza numerosa categoria di errori. Talvolta troviamo l'omissione di non più qualche lettera; se ciò si verifica in un asso ove il copista ha scritto un gruppo di lettere solo una volta dove dovevano venire ripetute, prende il nome di aplografia. Questo errore nasce quando l'amanuense procede troppo velocemente nel suo lavoro; una forma più estesa dello stesso sbaglio è spesso indicata come “saut du meme au meme”. Qui lo scriba, trovando la stessa parola due volte in un breve spazio, copia il testo fino al punto in cui la incontra per la prima volta; poi fissa inavvertitamente gli occhi dove questa ricorre per la seconda volta e prosegue da quel punto. Causa di errori sono pure due vocaboli vicini con uguale inizio e uguale fine: si chiama omoarcto o omoteleuto. Poi c'è l'omissione di un'intera riga del testo. D) In un quarto gruppo rientrano gli errori di aggiunta. Di questi il più semplici è la pura ripetizione di alcune lettere o sillabe, chiamata dittografia. Più considerevole è l'inserzione nel testo di materiale esplicativo o illustrativo: il tipo più frequente in questa categoria è l'incorporazione di una glossa. Moltissimi manoscritti greci presentano numerose brevi note interlineari che spiegano parole rare o difficili e facilmente vengono inserite nel testo nel corso della trascrizione. In poesia ciò risulta evidente perché fa violenza al metro, ma a volte la glossa aggiunta ha lo stesso valore metrico e nascono problemi. Ancor più difficile è identificare le glosse in un testo di prosa. E) Le trasposizioni costituiscono un'altra ben nota categoria di errori. La trasposizione di lettere è frequente. In poesia i versi vengono spesso copiati in ordine sbagliato. Spesso il testo della tragedia soffrì per un motivo particolare. Un comune metro bizantino era un verso dodecasillabo, press'a poco come il giambo classico, ma soggetto a regole differenti, di cui la più importante era la presenza dell'accento, a quest'epoca intensivo, sulla penultima sillaba. Di conseguenza, forse senza rendersene conto, alcuni copisti alterarono versi della tragedia per conformarli a questa norma: tale processo è chiamato “vitium Byzantinum”. F) In un sesto gruppo si possono includere gli errori provocati dal contesto. La flessione di una parola può venire erroneamente assimilata a quella di una parola vicina. Gli amanuensi si lasciarono influenzare da vocaboli o frasi che avevano appena copiato o stavano per copiare. G) Alcuni errori tradiscono l'influenza del pensiero cristiano: tutti i lettori del Medioevo erano cristiani più o men devoti e sarebbe molto strano se fossero riusciti a copiare migliaia di manoscritti senza commettere sbagli di questo tipo. H) Esiste una categoria di errori che deriva da una consapevole attività del copista. Come si è visto sopra, i lettori dell'antichità e del Medioevo cercavano di emendare i passi che trovavano difficili o corrotti e i loro tentativi furono talvolta mal condotti o male impostati: esempio tipico è quello di Triclinio, che mutilò alcune parti liriche in Euripide perché sapeva che la responsione metrica avrebbe dovuto essere restaurata, ma non aveva familiarità sufficiente con la lingua della poesia classica per emendare come occorreva. Tali correzioni difettose si definiscono spesso interpolazioni. Un altro tipo di interpolazione, di cui non sono responsabili i copisti, è quello dovuto agli attori nelle tragedie greche. Il consiglio è seguire la regola enunciata da Haupt, e riaffermata da Housman: “il primo requisito un buon emendamento è da partire dalla ragione; solo dopo bisogna tenere conto di altre considerazioni, come quelle metriche e di altre possibilità come lo scambio delle lettere. Se il senso lo richiede, sono pronto a scrivere “Constantinopolitanus” dove i codici presentano l'interiezione monosillabica “o””.