Scarica L'Infinito: lo strano bacio del poeta al mondo di Davide Rondoni - Prof. Cristaldi e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! E come il vento. L’infinito: lo strano bacio del poeta al mondo (D. RONDONI) Davide Rondoni ci invita a salire su di un treno che viaggia su un duplice binario: quello, concreto, della nostra meravigliosa penisola italiana e quello dei versi del poema leopardiano. Il viaggio è reale, perché Rondoni crede fermamente nell‘azione concreta della poesia che, attraverso il suo linguaggio mette a fuoco ciò che è una visione miope per tutti gli altri; è come se il poeta avesse un paio di occhiali speciali per guardare il mondo, la realtà che lo circonda, come se attraverso le sue parole potesse rendere partecipi gli altri di ciò che vede e sente. La poesia non abita in un altrove lontano e misterioso. Essa è ovunque, in tutto ciò che ci circonda. Cos’è l’infinito secondo Davide Rondoni? In che modo bisogna affrontare la lettura del poema leopardiano? Che vuol dire capire una poesia? E soprattutto che cos’è quest’infinito che sbuca ogni tanto sulla bocca dei poeti e che si concretizza vivido davanti ai nostri occhi nella poesia di Leopardi? Questi alcuni degli interrogativi che il viaggio all’interno delle parole del Rondoni ci pone e cerca di affrontare. Ciò che avvertiamo sin dal principio è che questa ricerca non parte da mete astratte e lontane, bensì dalla quotidianità, dal dolore, dai confini. L’infinito risiede nell’essere in un qualche modo sospeso, nella possibilità sempre varia degli avvenimenti quotidiani, nonché nella nostra continua ricerca e nei nostri interminabili interrogativi. Nell’analisi di Rondoni, l’infinito risiede anche nelle esclamazioni di stupore di un gruppo di giovani studenti che, durante una visita guidata, percepisce l’infinito nelle parole di Leopardi declamate dal Rondoni. In questo viaggio vi è un continuo ritornare alla realtà del quotidiano; segmenti di vita reale si alternano a riflessioni filosofiche e riportano concretamente la poesia nel luogo in cui nasce, che non è affatto lontano da ciò che circonda il poeta. Ecco perché vediamo come essa risieda e metta radici nei luoghi più impensati, come i campi di sterminio o le carceri, dove il Rondoni ascolta i detenuti che parlano di orizzonti paradossalmente sconosciuti prima, quando erano in libertà. O nelle trincee, luogo in apparenza agli antipodi rispetto alla poesia, che diviene invece il grembo in cui germogliano piccoli semi d’infinito, proprio nelle parole poetiche. Nella seconda parte del suo libro, l’autore analizza la poesia verso per verso, concentrando la sua attenzione sulla scelta delle singole parole, facendo emergere quella che è la microscopica attenzione al dettaglio che è propria del Leopardi. «Sempre caro mi fu quest'ermo colle» Inizia con "sempre", smisurata parola già messa così, subito davanti, ma anche alle spalle. L'inizio di queste grandi poesie ci appare come inevitabile. Come se non potesse, e non avesse mai potuto, iniziare in altro modo. Lo scrisse Piero Bigongiari: l'esperienza dell'Infinito fu fortissima e lunga. Giuseppe Savoca e Novella Primo evidenziano come già nell'esperienza giovanissima di traduttore dai classici, poi in tutte le traduzioni nel corso del tempo sono presenti segni dell'infinito. Leopardi sapeva che Omero, scrivendo i suoi poemi, vagava liberamente per i campi e sceglieva quello che gli pareva, giacché tutto gli era presente, non avendo esempi anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista. La cultura, la tradizione, ciò che è a me anteriore, sembra dire Leopardi, può chiudere all'esperienza della presenza "effettiva" del mondo. L'uomo e il poeta moderni potranno dunque cercare un'esperienza del mondo effettiva solo riconoscendo l'eredità di una condizione limitata. Si tratta di riconoscere che la struttura della vita umana è sospesa tra finito e infinito. Ma come risuona, come trema la parola "sempre" in un ventenne? Di certo indica una consuetudine, come dire: ogni giorno, spesso. Ma ancora di più indica una dismisura dell'affetto, dell'essere caro. Sin dal primo verso, l’autore utilizza parole scelte con una cura meticolosa; l’aggettivo “caro” che utilizza per definire il colle insieme con l’avverbio “sempre” danno un senso di familiarità assoluta. "L'ermo colle" è consueto, un isolamento consueto, è caro in quanto molto frequentato, però è "ermo". Caro e solitario. La scelta del tempo verbale, su cui nelle varianti tentenna tra "è" e "fu", ricade poi sul remoto. "Sempre" e "fu", così il termine delizioso e tremante "caro" è tra due precipizi. «E questa siepe, che da tanta parte Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando» La siepe arriva come una sommessa sorpresa. La grande teoria della matematica moderna e contemporanea ha riflettuto a lungo sul fatto che l'infinito, per essere attuale deve fare i conti con un "limite". Solo il limite, infatti, rende "attuale" una realtà. Come dire che la presenza della siepe rende "attuale" l'infinito. Leopardi ha creato con il "sempre" e il "fu" un effetto di profondità e di rilievo che sostiene e dà corpo credibile agli altrimenti neutri e muti "questo", "questa"... I "questi" sono nell'ambito affettivo creato dalla partenza del "sempre caro"; i "quelli" diventano subito e per contrappeso segno di distanze, alterità, lontananze. Aveva la sua giovinezza colma di letture, un alveare di parole in testa, una miriade di versi mandati a memoria. In quei mesi voleva scappare da Recanati, voleva fuggire da una giovinezza-reclusione verso l'ultimo orizzonte. Pietro di Craon sostiene che un artista viva a un livello superiore, distaccato, lontano dalle preoccupazioni ma il livello a cui sta l'Infinito è più in basso. È un sottosuolo feroce di pensieri, studio, lotta coi fantasmi, timori e umiliazioni per il compito che nessuno sembra avergli dato: cercare la forma. Questo saggio non è un commento filologico, ma un viaggio in cui più vicino allo sguardo si mettono le parole e i versi del testo. Rondoni ama ripetere nel libro che tutto ciò che succede, succede non altrove dalla poesia. Questo gli permette di non dare eccessiva importanza alla critica delle varianti e delle versioni precedenti, tutto ciò che serve è nel testo così come è stato consegnato alle stampe da Leopardi. Ciò non gli impedisce di farci dare un’occhiata al percorso di scrittura col quale il poeta di Recanati è arrivato alla versione definitiva, facendoci vedere alcune autentiche pepite. Non sapevamo, ad esempio, che nella primissima versione della poesia la siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte esclude lo sguardo di Leopardi era un roveto, con tutto il portato di senso e il riferimento che questa parola implica. «Ma sedendo e mirando» Elio Gioanola ha scritto pagine molto interessanti di commento, ispirandosi alla psicanalisi. Nel gesto di porsi a sedere e guardare c'è una predisposizione a guardare fuori guardando anche dentro. Se si sta su un colle e si vuole guardare oltre una siepe non ci si dovrebbe sedere, semmai alzarsi sulle punte o spostarsi di lato. Fin da Lucrezio la metafora dell'uomo che siede al sicuro e osserva un naufragio nel mare è un topos della letteratura. L'uomo che osserva il naufragio da terra è al sicuro. Nelle varianti dell'interpretazione del passo, si succedono poi altri modi di lettura. Ad esempio, quelli che non distinguono più tra osservatore e naufrago. In questo caso, l'uomo saggio assiste al proprio naufragio con pacata rassegnazione. Per altri la vita stessa è di per sé un naufragio e non vi è condizione di tranquilla navigazione, ma solo di autocoscienza del fenomeno tragico. Il suo spettatore diviene poi un uomo che naufraga, ma dolcemente. Il ragazzo siede, come il saggio antico ha una postazione sicura, inizialmente sottratta all'infinito del mare. L'aver specificato qui una posizione del corpo indica un legame tra l'accadere del corpo e l'accadere della poesia. Non sono le menti a comporre poesia, ma, come dicevano gli antichi, “tre dita scrivono e tutto il resto del corpo compone”. È finito il tempo dei soli ingegneri e si apre un tempo dove le sapienze del linguaggio umano, dalla filosofia alla letteratura, avranno importanza nel dialogo con gli inventori di nuove tecnologie. Si sta aprendo una nuova era che riscoprirà legami con un sapere antico. Il gesto di sedersi prima di mirare indica un'attitudine, una disposizione, l'avvio di un movimento dello sguardo e dello spirito. Mentre il corpo si ferma e si dispone si avvia il complesso e profondo organismo della visione. Ogni epoca è dura e piena di ambiguità. Ogni epoca è una danza della verità. Lo dice il mare che nel buio, là, non smette di brillare. «interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi» eterno e tempo. Qui, invece, prodigiosamente convivono. La voce udita tra le fronde genera uno spazio che non provoca più spauramento, ma una diversa disposizione. Una disponibilità ad annegare "in questa immensità". L’eterno, dunque, non è un infinito inimmaginabile, ma qualcosa che, evocato da un segno e in uno spazio di comparazione poetica, sovviene. Questo strano evento, che ha triplice natura, musicale («il vento»), conoscitiva («Vo comparando») e involontaria («mi sovvien»), mette in condizione di affrontare «questa immensità» con una disposizione differente dalle soglie dello spauramento precedente. Ma non va letta questa esperienza dell'eterno come una specie di trance, siamo in una viva e nuovamente consapevole percezione. O forse è semplice: il vento tra le fronde è come una canzone, come una poesia. E che canzone, che poesia: vi parla dentro un che di paragonabile a un infinito e sovrumano silenzio. Secondo Montale il sovvenire è in quei «silenzi in cui si vede / in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata Divinità». Qualcosa di simile scrive anche il Premio Nobel lituano Czesław Milosz, quando in una poesia dice che a volte, passeggiando sotto la luna, pare che il mondo si stia per rivelare. Il mondo guardato come segno che sta per rivelarsi. Un enigma che a tratti sembra sul punto di sciogliersi. Una misteriosa concomitanza, come la chiamava Mario Luzi, lettore dialogante agonisticamente con Leopardi. Giulia Abbadessa nota che "sovvien" è evidentemente la terza persona del presente indicativo di sovvenire, verbo di lunga data nell'italiano anche letterario. La prima significazione non è quella di "affiorare", "venire alla mente" o addirittura "ricordarsi", ma "soccorrere", "venire in aiuto", "intervenire a proposito". Nell'Infinito di Leopardi il verbo, pur evocando e solo in maniera obliqua quest'ultima significazione, in realtà mantiene l'accezione più antica del lemma perché esso compare poco prima dell'immagine conclusiva della poesia che concerne la sfera semantica della dolcezza, la quale va a contrapporsi alla sfera semantica della paura che l'Io lirico aveva provato prima; comparazione a seguito di cui emergono l'eterno, e le morte stagioni, e la presenta, e viva, e il suon di lei. Sotto, per così dire, c'è il silenzio, quell'infinito e sovrumano silenzio. Ma sopra, vicino ai nostri sensi, sta il suon di lei, della vita che si vive ora. Dopo il segno della presenza di Dio nella storia, secondo il racconto biblico, o il segno di una voce che qui si manifesta ( la poesia? O quale altra voce?), che può esser termine di paragone con «quello infinito silenzio», avviene il prodigio di questa compresenza dei tempi e dell'oltretempo. Non a caso il professore e romanziere Alessandro D'Avenia ha fatto apprezzare a tanti giovani la figura di Leopardi come possibile compagno della loro "arte di essere fragili". In un'epoca segnata da una pretesa prestazionale, da una riduzione delle identità alle azioni, dei rapporti fondamentali sempre più simili a fili, sul punto di spezzarsi, di aggrovigliarsi di continuo. «Così tra questa Immensità s'annega il pensier mio» Immensità: poche parole sono così belle nella nostra lingua, e così potenti e aperte, con una sorta di quasi impercettibile dolcezza. Nel manoscritto il poeta aveva messo: "in questa immensitade il pensiero mio s'annega". Ma ora c'è quella "a" accentata, in quarta sillaba, che slancia ritmicamente e fa sentire per contrasto l'annegare. «E il naufragar m'è dolce in questo mare» Pietro Citati dice che nell'Infinito è come se uno tentasse di immaginare Dio al di fuori di ogni forma. Leopardi obbliga l'infinito a esistere, a non essere una "finzione" ma qualcosa dove sia possibile finalmente naufragare. Leopardi dice «naufragar m'è dolce», non si ha una dissoluzione dell'Io, un annichilimento nel naufragio, perché nell'indicare che «m'è dolce» esiste un Io che avverte la dolcezza e il naufragio. Non siamo in un azzeramento della persona in un vago indistinto. Alla domanda sollevata da Leopardi nel suo Canto notturno di un pastore errante dell'Asia la cultura e la società contemporanea spesso rispondono legando l'identità a qualcosa che si realizza, o alle tendenze di natura sessuale o a vario genere di appartenenza etnica o religiosa. In tale modo il nostro tempo delle identità è divenuto il tempo dell'ansia e del conflitto. L'ansia deriva dal fatto che se la tua identità risiede in quel che fai, be', sei inevitabilmente succube di stress da prestazione e dall'incubo di fare/essere un errore. Abbiamo un serio problema a rispondere alla domanda del Canto: "e io che sono?" Abbiamo gonfiato l'lo, ma non sappiamo che cosa la faccia veramente volare. Il giovane Leopardi aveva intuito in questa poesia che l'unica cosa adeguata a "contenere" l'lo, a corrispondergli, a svelarne l'identità profonda e autentica è il rapporto con l'infinito. «Abyssum abyssus invocat», un abisso che chiama un abisso, dice il libro antico della sua giovinezza (Salmo 42).