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Riassunto del libro "Animale politico" di Damiano Palano, Dispense di Scienza Politica

Riassunto del libro "Animale politico" di Damiano Palano

Tipologia: Dispense

2023/2024

Caricato il 25/02/2024

martina-castelli-11
martina-castelli-11 🇮🇹

4.3

(4)

6 documenti

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Scarica Riassunto del libro "Animale politico" di Damiano Palano e più Dispense in PDF di Scienza Politica solo su Docsity! Capitolo primo La nascita ed evoluzione della parola “politi ca” Nella “Politica” Aristotele definisce l’uomo come animale politico: l’uomo è per natura un animale politico che vive in comunità e chi vive fuori da essa è considerato abietto o superiore all’uomo. Il filosofo fa riferimento al fatto che gli umani a differenza degli animali possiedono l’uso della parola per esprimere il giusto e l’ingiusto e possono vivere in comunità. Secondo egli nella polis si può realizzare davvero l’umanità abbandonando totalmente la condizione barbara; partecipando alla vita della polis gli individui sviluppano totalmente la loro personalità. La comunità più alta è quella politica in quanto è quella che ha come obiettivo il perseguimento di un determinato scopo: la polis, che persegue il bene supremo dell’uomo. L’idea di politica aristotelica è fondata nella polis ed è completamente diversa dall’idea di politica che abbiamo noi oggi: i Greci vivevano una dimensione politica lontana dalla nostra e, infatti, le traduzioni della parola polis in città-stato e di zoon politikon in animale sociale risultano insoddisfacenti in quanto identificano qualcosa di diverso in passato. La parola politica italiana deriva dal termine greco tà politikà, che sta ad indicare le cose che riguardano la città, ed esso è strettamente collegato all’esperienza della polis. La nascita delle polis non è ben definita ma ricollocabile intorno al VIII secolo a.C. e già nei poemi omerici la parola polis sarà presente nel suo significato più tardo di “città politicamente autonoma”, mentre originariamente il termine indicava una fortezza. Il termine polis assumerà il significato di comunità politica in seguito al processo di sinecismo, ovvero quando in diverse aree della Grecia si realizzarono degli agglomeramenti territoriali attorno ad un centro. La polis greca era una comunità di cittadini dove lo spazio urbano era connotato da uno spazio religioso e allo stesso tempo politico: l’agorà. Questa visione di comunità di cittadini si ritrova nella riforma oplitica, dove l’esercito della cavalleria viene sostituito dagli opliti (essi possedevano un equipaggiamento accessibile anche al ceto medio e ai piccoli proprietari contadini). Il ceto medio sarà responsabile della comunità incominciando ad assumere un potere politico. Tra loro le polis sono piuttosto differenti ma tutte condividono i valori di autonomia e libertà (che le distinguono dall’Impero persiano). Esse sono in grado di darsi autonomamente le leggi e anche il singolo cittadino è considerato autonomo. La polis si distingue dall'oikos: la casa. Nella casa i rapporti gerarchici sono naturali e dettati dalle leggi della natura: il padre di famiglia esercita un potere di comando naturale su moglie, figli e schiavi. La dottrina dell'oikos comprende la totalità dei rapporti umani e delle attività della casa. L’oikos è il fondamento della struttura sociale. Al contrario la polis è una dimensione non naturale ma artificiale, una sfera nella quale vigono rapporti e leggi differenti da quelli che regolano l'oikos: nella polis vige il valore dell’uguaglianza. Lo spazio della polis non equivale solo a un'area territoriale nei confini della città, ma identifica una sfera composta dai caratteri della concezione che i greci hanno della vita umana, di ciò che la distingue dalla vita animale. Secondo Arendt, la polis si contrappone alla componente naturale dell’esistenza umana in quanto non rispetta le strutture delle composizioni delle famiglie. Il sorgere delle città-stato fa sì che il cittadino viva una sorta di seconda vita (bios politikos), mentre la comunità naturale della casa è frutto della necessità, la polis configura la sfera della libertà. Libertà per i Greci significa essere liberi dalle disuguaglianze connesse al dominio e muoversi in una sfera dove non bisogna né governare né essere governati. La condizione di eguaglianza è ristretta solo a un piccolo nucleo di abitanti della polis. Nel mondo greco per riferirsi alla comunità politica viene utilizzata la parola politeìa, che ha un'importanza maggiore rispetto a tà politikà. Con politeìa ci si riferisce al diritto di cittadinanza e alla giusta costituzione della città (giusta organizzazione): le legge con cui viene regolato il potere dei cittadini e dei poteri pubblici (secondo Isocrate “l’anima della città” o per Aristotele “la vita stessa della città”). Non tutte le costituzioni sono però buone: il punto di avvio del pensiero politico occidentale coincide per molti sulla costituzione delle diverse forme costituzionali (dialogo tripolitico ne “Storie di Erodoto” dove i confrontano tre e personaggi: monarchia, aristocrazia e democrazia). Quando le polis greche perdono la loro indipendenza, politeìa e tà politikà cominciano a smarrire il loro significato originario. I due termini cadono in disuso e si perde memoria di cosa è stata la politica per i greci. Nel tardo Medioevo i termini riprendono ad essere utilizzati, ma il loro significato è diverso da quello iniziale: la concezione della polis come spazio orizzontale non esiste più e la politica viene ricollocata in una dimensione verticale (dall’alto verso il basso). Lo spazio orizzontale della polis I greci erano consapevoli dell'esistenza di poteri dall'alto verso il basso ma questo genere di relazioni non legava l'idea della polis. L’esempio verticale era incarnato dagli imperi del Vicino Oriente da cui le polis videro minacciate la loro indipendenza e libertà. Per i greci la politica andava a coincidere con quel sacro cerchio egualitario che secondo Omero era ritratto sullo scudo di Achille. Nei poemi omerici è possibile distinguere due modelli opposti di organizzazione comunitaria: con la figura del re Agamennone, un comando stabile riconducibile a una piramide; dall'altra parte Achille, con un potere fondato sul consenso. Tra le molte interpretazioni dell'invenzione greca, una delle più affascinanti è proposta da Hannah Arendt, che emigrò dalla Germania verso gli Stati Uniti e si pose l'obiettivo di comprendere le radici più profonde del totalitarismo e la decadenza della dimensione politica della vita umana che i greci avevano valorizzato. Per cogliere il significato della polis bisogna rifarsi non solo ai poemi omerici, bensì alla consapevolezza della mortalità umana che avevano i Greci. Il ciclo della natura immortale si riproduce mentre il contrassegno dell’esistenza umana è la mortalità che definisce la linearità dell’esperienza umana opposta alla vita biologica (circolare). I Greci ricercano una via specifica all’immortalità che si riconduce alla capacità di svolgere azioni immortali che rimangano ai posteri nei ricordi. Chi compie queste azioni consegue un’immortalità e rivela una natura divina, distinguendosi dagli animali. Le cose immortali a cui i greci mirano hanno a che vedere con la vita activa e non con la vita contemplativa. Non tutte le forme di attività come il lavoro, l'opera o l’azione possono davvero consentire una fama immortale perché non tutte rendono l’individuo unico. Solo l’azione secondo i greci può consentire di conseguire questo obiettivo perché comprende le gesta eroiche, le grandi imprese compiute sul campo di battaglia e la capacità di pronunciare i grandi discorsi: attraverso il discorso e l’azione, gli uomini si distinguono. per far si che le azioni producano cose immortali è necessario vi sia un pubblico testimone. Questa componente è cruciale nell’invenzione della polis in quanto la costruzione di essa riflette un tentativo di dar forma a un ambito capace di non dimenticare le azioni umane. Secondo Arendt la polis ha così due funzioni: essa moltiplica le opportunità per distinguersi; garantisce che ciascun individuo abbia la possibilità di conquistare una fama immortale depositando il proprio ricordo (è un’organizzazione per la memoria collettiva: discorsi e azioni non si dissolvono). Lo spazio di cui parla Arendt è soprattutto uno spazio immateriale disposto a durare nel tempo: nell’idea che questa sfera sia destinata a sopravvivere, gli individui compiono azioni immortali. prodotto storico dell’ambiente in cui vivono mentre molti mostrano come alcuni tratti considerati esclusivi dell'homo sapiens siano in realtà condivisi con altre specie animali (scimmie). Troviamo quindi diversi modi con cui sono stati concepiti i rapporti tra natura umana e politica: antropologie ottimiste e le antropologie pessimiste. Possiamo delineare gli elementi di quattro grandi modelli di interpretazione di queste relazioni: il modello aristotelico, il modello giusnaturalista (moderno), il modello storicista e il modello evoluzionista. Il modello aristotelico risulta prevalente nel mondo antico mentre gli altri emergono con il passaggio alla modernità. I modelli trovano una contrapposizione fra prospettive individualiste e prospettive olistiche o contrapposizioni tra concezioni culturali e naturaliste. Schmitt fornirà un contributo alla discussione sulla definizione della politica: da ogni raffigurazione dell'essere umano scaturisce un'immagine specifica dell'ordine politico (se si concepisce l'essere umano come conflittuale, si avrà una certa immagine dell'ordine politico). Il modello aristotelico Quasi tutte le trattazioni classiche sulla politica prendono le mosse da una discussione dei tratti distintivi dell’animale politico. Le raffigurazioni della natura umana fornite dalla riflessione politica occidentale hanno reso articolata riflessione sul rapporto tra esseri umani e comunità politica. Possiamo riconoscere una contrapposizione tra antropologie e ottimiste e antropologie pessimiste. I presupposti che delineano un'immagine ottimistica della natura umana sono che gli individui tendono per loro inclinazione a essere socievoli, pacifici e cooperativi, spinti verso la ricerca del bene. Gli esponenti del realismo politico definiranno tali visioni come idealiste o moraliste (non rappresentano la realtà). Nell’ambito ottimista si può rinvenire ad Aristotele e alla sua concezione dell’animale politico, il pilastro fondativo di una visione che vede la politica come manifestazione massima e dove si può riconoscere la proiezione dell’individuo verso il bene comune. Aristotele non nega il conflitto e nemmeno la componente forza. La città è il luogo in cui il genere umano riconosce il suo fine. La comunità politica, secondo il filosofo, nasce dalla natura umana ed è dove l’essere umano può compiere un’esistenza pienamente realizzata: tutte le comunità sono quindi naturali. Ogni comunità è inoltre autarchica in quanto autosufficiente. A contrassegnare la politicità dell’essere umano è il fatto che la sua natura gli consente di riconoscere il bene, il male, il giusto e l’ingiusto. L’animale politico è dunque un animale sociale che vive insieme ai suoi simili per il bisogno politico e per vivere un’esistenza pienamente realizzata (raggiungibile solo nella polis). La comunità politica è naturale poiché l’individuo non è mai isolato, fin dal principio (nasce in una famiglia). La politica è quindi la capacità di costituire e conservare le consociazioni umane al fine di garantire a tutti una “buona vita”. In questa immagine della politica emergono qualificanti gli elementi che consentono ai membri di risolvere pacificamente le controversie. Il modello di Aristotele definisce le coordinate entro cui si svolge la riflessione occidentale sulla politica. A riprendere l’impianto di Aristotele sarà Tommaso d’Aquino. A partire dal XVIII secolo questo modello sarà surclassato da un nuovo modello.  Il modello aristotelico a punti, Norberto Bobbio: 1) Gli individui nascono in uno stato di natura, una società naturale; 2) Prima della costituzione della comunità politica gli individui si trovano già in una condizione sociale; 3) L’assetto prepolitico è già costituito da rapporti gerarchici; 4) Tra società originaria e comunità perfetta esistono delle aggregazioni intermedie; 5) La costruzione della comunità politica avviene per effetto di un processo naturale di evoluzione delle società minori (soddisfare bisogni sempre maggiori); 6) Il principio di legittimazione della comunità politica è definito dalla natura delle cose. Il realismo politi co e la criti ca realista Nella storia del pensiero politico occidentale troviamo anche un pessimismo antropologico che vede l’essere umano come conflittuale e come un animale assetato di potere. Esso viene ricondotto nel filone del realismo politico con una concezione politica fondata su una visione realistica degli esseri umani, che hanno dei caratteri immutabili definiti da una natura umana. Il realismo politico è contrassegnato dall'idea che esista una natura umana invariante nel tempo, che educazione o costumi non possono modificare. La rappresentazione di questa natura è piuttosto pessimistica (razionalità, esempio del peccato originale-> scoperta dell’imperfezione della natura). In Grecia possiamo riconoscere i pilastri fondativi della visione realista. Il grande padre del realismo politico è Tucidide, che condivide la visione della natura umana, definendo che esiste una vera e propria legge di natura dove ogni umano punta alla ricerca dell'onore e dell'utile. La ricerca dell'onore, di sicurezza e di utile non sono frutto di condizionamenti storici, culturali o religiosi, ma obiettivi impostati dalla natura. Questi obiettivi possono essere collettivi e raffigurati come grandi uomini. Nella “Guerra del Peloponneso” Tucidide intende dimostrare quanto affermato (Spartani che allargano il loro dominio). L’altro elemento del realismo politico è l'idea che la politica sia soprattutto il regno della forza: le istituzioni e le leggi sono il risultato dell'esercizio della forza di alcuni su altri. Per Tucidide il diritto del più forte è una legge incisa nella natura (come tra ateniesi e spartani). Le etiche sulla giustizia sono poste in secondo piano: chi si trova in una posizione di supremazia, esercita il diritto del più forte e chi è più debole non può imporsi contro. Platone realizzerà una critica a riguardo affermando, tra tutto, che gli esseri umani rispettano le leggi solo se sono costretti con la forza perché questo intaccherebbe il loro utile e che le leggi servono ai deboli per proteggersi dai più forti, o ancora, che a definire legittimo un governo sia proprio la forza esercitata.  Il realismo politico a punti: 1) la natura umana è invariante; 2) rappresentazione dell’essere umano in modo pessimistico; 3) l’idea che la politica sia il regno della forza; 4) dato che la natura umana è immutabile è possibile ricercare delle ricorrenti regolarità (progetto di scienza). Il realismo politico non si contrappone completamente al modello aristotelico poiché viene considerata in entrambi una comunità naturale che enfatizza le gerarchie (Aristotele non è lontano dal negarle). A partire dal ‘600, il pensiero politico occidentale incomincia a negare l'idea della dimensione naturale e nella svolta con la modernità si recide il legame originario tra politica e natura umana. La politica inizierà ad essere concepita come qualcosa di artificiale. Si producono tre innovazioni teoriche: - Il soggetto centrale delle discussioni politiche inizia a essere l'individuo come soggetto autonomo e distinto dal gruppo in cui nasce. La modernità inaugura una stagione individualista; - La modernità tende a vedere la storia con uno sviluppo progressivo, un miglioramento delle condizioni di vita garantito dalla razionalità e dalle innovazioni tecniche a partire dalla rivoluzione industriale (progresso); - Viene ridimensionata l'idea che la natura umana sia connessa alla politica, gli individui riescono a costruire grazie alla razionalità. L'essere umano non è più visto come un animale politico ma come un animale razionale che realizza istituzioni per garantire il rispetto della società. Si possono individuare tra i principali direttrici a proposito dei modi con cui la modernità concepirà politica e natura. La prima direttrice ha una visione individualista: l'individuo è un soggetto originariamente autonomo, dotato di una propria razionalità e di diritti originali. Si contrapporranno in seguito visioni individualiste e visioni olistiche. La seconda direttrice contrappone coloro che ritengono che la politica sia naturale e coloro che invece la pensano come qualcosa di artificiale. I pensatori individualistici vedono la politica come un insieme di strumenti artificiali. La terza direttrice dove la storia dell'umanità è interpretata come un costante progresso, anche la politica e le sue istituzioni, concepite come un prodotto storico, un'invenzione culturale. Il modello giusnaturalisti co Il modello giusnaturalista moderno prende il nome dall'idea che esistano delle leggi naturali e che la riflessione sulla politica debba procedere dal diritto naturale (differenza tra concezione moderna e antica del diritto naturale). Nel mondo antico troviamo l'idea che esistesse un diritto naturale comune a ogni società e che le disposizioni giuridiche fossero riconducibili al diritto naturale di base (legislatore divino). Esempio dell'antica Roma, che vede il diritto come la sostanza comune dell'umanità e dove il compito della scienza giuridica era scoprire gli elementi alla base del diritto naturale. La concezione del giusnaturalismo moderno prende forma a partire dal ‘600 con dei pensatori che vengono ricondotti alla famiglia del giusnaturalismo perché adottano il medesimo metodo di studio. Essi si ri fanno al metodo razionale senza ricorrere alle considerazioni teologiche. Pufendorf concepirà il diritto naturale come un insieme di diritti di cui gli individui dispongono in virtù della loro natura di esseri razionali e autodeterminanti. 1) Esiste una condizione originaria non politica in cui gli esseri umani sono vissuti prima della formazione delle comunità politiche, “stato di natura”; 2) Gli individui vivono prevalentemente in condizioni non associate; 3) All’origine gli individui si trovano in condizioni di libertà e uguaglianza; 4) Il passaggio alla società politica avviene in seguito ad atti volontari (artificiale); 5) Lo stato politico viene costituito per limitare i difetti dello stato di natura; 6) Il principio di legittimazione è dato dal consenso dei consociati. Con l'avvento del modello giusnaturalista la contrapposizione tra antropologia e pessimista e ottimista viene riformulata. Locke, Kant, Hobbes, Rousseau condividono l'idea che la politica sia un artificio. Hobbes colloca al centro l'individuo razionale, protagonista della modernità e non più un individuo inserito nelle strutture comunitarie. Gli individui sono naturalmente conflittuali e l'unico rimedio al disordine è un ordine politico artificiale. Questo quadro è analogo a quello di Tucidide (gli individui non cercano per natura dei soci, ma li cercano per trarre vantaggio). Nel “Leviatano” un’entità artificiale concentrata nelle mani del sovrano, un potere enorme. L'elemento che consente di tenere a freno le passioni è la paura della punizione secondo Hobbs. Locke presenta lo Stato di natura in un modo più ottimistico, dove gli uomini vivono in una condizione di libertà e uguaglianza secondo quelle leggi di natura e all’insorgere di controversie sull'interpretazione della legge naturale si fa sì che si costituisca un governo. predecessore Erodoto per le scelte metodologiche e stilistiche che lo faranno uno dei primi politologi e il primo alfiere di uno studio scientifico dei fenomeni politici. Nella “Guerra del Peloponneso” Tucidide punta a portare alla luce le cause dei singoli eventi, utilizzando documenti, testimonianze e illustrando le motivazioni che hanno portato al conflitto tra le due città greche. Egli vuole poter fornire una spiegazione utile anche agli studiosi di domani e a questo è correlata l'idea che gli avvenimenti passati sono uguali o simili a quelli di oggi poiché esiste una natura umana costante (insieme di tratti costanti, destinati a ripresentarsi). La base realistica della natura umana può decifrare la regolarità dei fenomeni politici e per questo diventa possibile spiegare il comportamento politico e fare delle previsioni. A egli si assegna un ruolo di iniziatore della scienza politica nella sua accezione più ampia. Le opere politiche di Platone illustrano la differenza tra e scienza politica (spiega i fenomeni politici) e filosofia politica (definire dei modelli ideali, modello dell’“ottima Repubblica”). Nelle opere di Platone non mancano osservazioni che potrebbero essere definite realistiche intorno alla natura umana e ciò che contraddistingue la sua indagine è il tentativo di procedere verso una verità superiore. La vera differenza si trova da dove le indicazioni prescrittive derivano e per Tucidide derivano dalla spiegazione della realtà dei fenomeni politici, mentre secondo Platone derivano dalla riflessione sul significato di bene che non può essere condotta semplicemente dagli esseri umani, ma serve una riflessione sulla metafisica. Anche Aristotele può essere condotto all'interno della storia lunga. Le due logiche si possono intrecciare ed è il caso di Aristotele che sostiene che la politica non appartiene alle scienze teoriche ma alle scienze pratiche che riguardano la vita reale. Nell'impossibilità di dimostrare cosa sia il buono, bisogna tenere conto delle specificità delle singole situazioni. Aristotele conduce un'indagine di tipo politologico che chiarisce per quali motivi una costituzione è più stabile di un'altra perché nel momento in cui si presentano caratteristiche simili è possibile formulare previsioni su ciò che potrebbe accadere. LA VERITA’ EFFETTUALE DELLA COSA Nella sua accezione più ampia, la scienza politica non può comunque essere considerata come una forma di conoscenza esclusivamente occidentale ma la ritroviamo anche in Cina, in India e nel mondo arabo. Sulla soglia della modernità individuiamo Niccolò Machiavelli che rinsalda la connessione tra pessimismo antropologico e un'indagine realistica della politica, fornendo le basi del machiavellismo, della ragion di Stato e della Machtpolitik (ricerca della potenza). L'immagine che fa di Machiavelli il teorico di una politica immorale, che legittima il ricorso a qualsiasi mezzo pur di conquistare e conservare il potere è evidenziata nei “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio”. La morale presente appartiene al modello classico di un cives che colloca il bene della patria al di sopra dei propri interessi individuali. Il ritratto dipinto da Machiavelli della natura umana rimane congruente con quello definito dai precedenti cultori del realismo politico: gli esseri umani hanno un insaziabile desiderio di impossessarsi di cose nuove e nel tentare di perseguire sempre nuovi obiettivi possono persino sottovalutare i pericoli. L'ambizione e l'invidia, il desiderio servono per comprendere la politica. L'obiettivo di Machiavelli è portare alla luce la verità delle cose, prescrivendo ai governanti delle regole di condotta realistiche, anche se in contrasto con i principi morali. Una conoscenza realistica e scientifica dei fenomeni politici serve a predisporre una guida operativa per i governanti che metteranno in atto una politica realista -> “Principe”. Nel ‘500-‘600 lo studio sistematico della storia sarà finalizzato a fissare delle regole da seguire per conservare e amministrare il potere, ovvero i cardini della “ragion di Stato”. Da questa prospettiva prende forma lo stesso concetto moderno di Stato. LA NASCITA DELLE SCIENZE DELLO STATO Oggi la ragion di Stato identifica il criterio di giustificazione per le attività svolte dallo Stato per conseguire il proprio interesse ma originariamente definisce la tecnica con cui risolvere i concreti problemi statali. I ragionatori di Stato spesso prendono le distanze da Machiavelli perché sostengono che il perseguimento dell'utile dello Stato corrisponde al perseguimento del bene comune. Giovanni Botero definisce la ragion di Stato come il mezzo per conservare e ampliare un dominio. L'intera schiera dei cultori della ragion di Stato punta a ripercorrere la storia per individuare le leggi che possano sorreggere un buon governo. Botero si colloca su un sentiero politologico simile a quello di Tucidide e Aristotele. Nell'indagine di Machiavelli sulla verità delle cose si sviluppano due modalità di studio sistematico della politica, una prima si concentra sull’individuazione degli interessi degli Stati e sulle condotte più convenienti. L’antropologia pessimista di Macchiavelli sul realismo politico classico subisce una sostanziale modificazione: l'individuo e la sua psicologia scompaiono e rimangono protagonisti gli Stati come degli uomini in grande. La seconda direzione concerne invece l'attività amministrativa dello Stato: il cameralismo presente in Austria e Germania si propone di integrare in un corpus sistematico tutte le diverse teorie pratiche, economiche e politiche per l'esercizio del governo. Queste scienze camerali e di polizia sono finalizzate agli obiettivi dello Stato di benessere e compongono l’insieme delle scienze dello Stato. Il quadro delle scienze camerali appare distinto in tre branche: la vera e propria scienza camerale, la scienza economica e la scienza della polizia. Le prime due prefigurano le scienze delle finanze e dell'economia politica, mentre la terza si discosta da quella che diventerà la scienza politica nell'accezione ristretta indicata da Bobbio (la scienza empirica della politica) mentre si avvicinerà alla scienza dell'amministrazione. In questa fase non è definita la distinzione tra indagine scientifica dei fenomeni politici e riflessione filosofica sui fondamenti del potere dell'ottimo governo. Haller ritiene che il compito della Staatswissenschaft consista nel mostrare che il fondamento dello Stato si trovi nel diritto naturale stabilito da Dio: le relazioni gerarchiche sono una componente originaria e la scienza politica non si limita a studiare la realtà empirica ma deve procedere oltre. Lo sviluppo delle scienze dello Stato conosce un'accelerazione dopo la metà dell'Ottocento (in Francia viene fondata l’Ecole libre des sciences politiques). In Italia troviamo l'esigenza di istituire nuove facoltà universitarie che subiranno però degli ostacoli soprattutto da parte dei cultori delle scienze giuridiche e inizialmente non saranno le istituzioni statali a contribuire allo sviluppo delle scienze sociali e politiche. La scienza politica non è ancora distinta dalle scienze politiche, che risulta composta dall'insieme delle discipline per il supporto di governo e dell'amministrazione pubblica: si tratta di una scienza concepita in chiave normativa. Rompendo questa connotazione normativa, la scienza politica positivista tra 800’ e ‘900 comincerà a qualificarsi come una disciplina volta a studiare le trasformazioni dei sistemi politici, senza riferirsi a un modello di ottimo governo. LA SCIENZA POLITICA NELL’ETA’ DEL POSITIVISMO La storia breve della scienza politica ha origine negli ultimi decenni dell'Ottocento, quando le nuove scienze della società hanno l'ambizione di conquistare una conoscenza analoga a quella delle scienze naturali sui fenomeni naturali. La sociologia si sta alimentando grazie a Saint Simon, Comte, Spencer e Marx che si concentrano sul decifrare le leggi del movimento sociale. Essi hanno la convinzione che la storia umana sia volta al progresso però non escludono la presenza di leggi oggettive; in questo senso il compito della scienza della società è quello di riconoscere tali leggi evolutive (secondo Spencer, il compito delle istituzioni pubbliche è di non interferire con il meccanismo evolutivo della società; Marx crede che la rivoluzione proletaria possa accelerare la transizione tra metodo di produzione capitalista e società socialista destinata a realizzarsi in ogni caso). La scienza politica di fine ‘800 nasce segnata dal positivismo evoluzionista, ed è contrassegnata dalla convinzione che sia possibile individuare delle leggi che regolano il funzionamento degli organismi politici naturali. Il nuovo modo di studiare la politica si ritiene fondato sull'adozione di un metodo empirico simile a quello adottato dalle scienze naturali. L’obiettivo prescrittivo non è più considerato come il fine della ricerca scientifica ma ora il fine è l'obiettivo di individuare delle relazioni nelle dinamiche politiche. I cultori della scienza politica hanno posizioni differenti a proposito delle componenti che regolano la vita degli organismi politici e su quali siano le leggi della politica, ma ad accomunarli è il fatto che le ipotesi devono essere fatte su dati oggettivi. Bisogna infatti fondare le teorie a prescindere dai caratteri morali o valoriali poiché una conoscenza realmente scientifica deve prendere atto delle differenze tra individui e gruppi. Degli esempi significativi della scienza politica positivista sono “Le origini della Francia contemporanea”, “Physic and politics”. In ambito tedesco si fornisce una declinazione piuttosto differente da quella originaria: Rochau con Realpolitik (individua la legge del potere senza basarsi sulla moralità). LA SCIENZA POLITICA IN ITALIA In Italia la scienza politica di matrice positivista conosce un certo sviluppo sul finire dell'Ottocento. Importanti sono gli studi di Achille Loria che evidenziano un determinismo economico e alcuni dei lavori riconducibili alla scuola criminologica di Cesare Lombroso che affrontano temi politici riguardanti rivolte, rivoluzioni, dinamiche psicologiche e la corruzione politica. Gaetano Mosca è considerato il fondatore della nuova scienza politica italiana. La sua teoria della “classe politica” sarà lo spartiacque tra scienza politica nella sua accezione più ampia e nuova scienza politica. Negli “Elementi di scienza politica”, Mosca evidenzia come lo studio degli organismi politici debba portare alla luce le tendenze psicologiche costanti. Mosca ragiona a partire dall'”homo oeconomicus” che ha individuato le leggi che regolano la distribuzione della ricchezza nella società. Secondo lo studioso siciliano coloro che hanno indagato realisticamente forniscono degli esempi di arte politica, perché il loro obiettivo principale è di indirizzare i governanti. Gli obiettivi veri della scienza politica devono essere invece conoscitivi, secondo Mosca. L'arte politica è l'insieme delle abilità per giungere al supremo potere, mentre la scienza politica è lo sforzo di determinare le tendenze costanti presenti in tutte le società umane. Mosca ritiene che la politica possa essere studiata scientificamente in quanto la natura umana comprende delle uniformità. La scienza politica deve rivolgersi verso la storia e lo studio delle varie organizzazioni sociali che troviamo nella storia. La rinascita della scienza politica avverrà nelle università americane e rispetto alla disciplina di Mosca troviamo una differenza importante che sta nelle condizioni organizzative, in cui quelle due visioni della medesima disciplina prendono forma. Mosca svolge la ricerca politica nello stesso modo di Machiavelli o di Hobbs e si tratta di una ricerca sostanzialmente individuale, il cui supporto è offerto dalle indagini condotte da altri studiosi o da documenti; la political science emerge invece in dipartimenti specializzati, dotati di ingenti risorse finanziarie. In più la disciplina si sviluppa in un periodo storico in cui gli Stati Uniti assumono un ruolo di egemone a livello globale, in seguito alla Guerra fredda. Le generalizzazioni della scienza politica di Mosca sono accantonate a favore delle ricerche empiriche. Lo sviluppo dello studio scientifico dei fenomeni politici segue due traiettorie differenti: si delinea una divisione tra una disciplina che deve studiare le dinamiche interne a ciascun sistema politico (scienza politica) e una disciplina che invece è incaricata di studiare la politica estera, le relazioni tra i sistemi politici (Relazioni Internazionali). Il metodo di indagine si precisa nel corso degli anni ma le relazioni internazionali conservano ancora una prospettiva realista. Negli anni 20 e 30, la cosiddetta Scuola di Chicago (gruppo di politologici tra cui Merriam, Lasswell, Catlin) riprende le riflessioni di Mosca confrontandosi anche con tributi classici. L'orientamento di questi studiosi è rivolto verso la ricerca empirica (sottoporre le ipotesi teoriche al controllo empirico) e questo conduce a una frattura con il passato. Il comportamentismo (behavioralism) è lo spartiacque fra due modi opposti di concepire la scienza politica, da una parte la tradizione continentale (trovare teorie generali normative) e dall'altra un modo innovativo (ricerca e controllo empirico). L’insoddisfazione della scienza politica deriva anche da un complesso di inferiorità nei confronti di altre discipline sociali, ma il comportamentismo scaturisce un ottimismo nello sviluppo di una scienza politica che possa incidere nella vita (fornire strumenti utili a difendere l'Occidente). Il comportamentismo ambisce a una scienza capace di offrire chiare indicazioni operative a coloro che devono prendere decisioni. La psicologia sperimentale della nuova political science utilizzerà un metodo di indagine nuovo rispetto a quello della tradizione europea, ovvero la focalizzazione sul comportamento. La psicologia a cui avevano guardato Mosca e Pareto è fondata sull’introspezione. Nell’ambito psicologico troviamo Fechner (Germania), che ritiene che la psicofisica possa individuare scientificamente la relazione tra spirito e materia secondo una legge matematica. Anche Donders contribuisce alla psicologia sperimentale, studiando i tempi di reazione di alcuni volontari dinanzi ai medesimi stimoli. Le precedenti premesse conducono Wundt, il fondatore della moderna psicologia sperimentale, a istituire presso l'Università di Lipsia il primo laboratorio di psicologia che esercita un'enorme influenza sulla storia successiva della disciplina. Qui si formano alcuni giovani psicologi americani che porteranno modello di Wundt negli Stati Uniti e consolidando il percorso di una psicologia sperimentale abbandonando il modello tedesco. Per Wundt la psicologia sperimentale e la fisiologia appartengono all'ambito delle scienze della natura, mentre la psicologia sociale e la psicologia dei popoli sono scienze dello spirito. A illustrare il nuovo comparto di comportamentismo psicologico è inizialmente Watson che propone di concentrare le ricerche sui comportamenti osservabili degli individui con la sua convinzione che le azioni degli individui possano essere condizionate dagli stimoli. Il lavoro degli psicologi si indirizza verso processi osservabili e misurabili oggettivamente. Il behaviorismo incontra un'enorme fortuna negli Stati Uniti anche con Skinner che dà origine a un comportamentismo radicale (la psicologia deve limitarsi a studiare i fenomeni osservabili riconoscendo la formulazione S- R, stimolo-risposta). Skinner sarà il più influente esponente della psicologia sperimentale del ‘900 realizzando il manifesto di una nuova ingegneria sociale simile alla politica scientifica. I politologi americani giunsero a recidere quasi completamente il legame con la vecchia scienza politica, dando origine alla nuova scienza politica con l'idea che il controllo empirico fosse indispensabile e con la convinzione di doversi dedicare solo ai comportamenti realmente osservabili (studio empirico). La fase pionieristica della scuola di Chicago si conclude piuttosto presto quando l'ateneo esprime dubbi sulla validità delle ricerche empiriche. Il vero comportamentismo politologico prende forma dopo la Seconda guerra mondiale, all'interno di uno scenario intellettuale contrassegnato dalla convinzione che le diverse scienze del comportamento debbano fornire una spiegazione generale dei comportamenti umani. La rivoluzione comportamentista è caratterizzata da metodi scientifici, ricerca ed analisi, ed è contrassegnata dall'esistenza di uniformità del comportamento umano che possono essere verificate mediante prove empiriche. Essa è basata sull'osservazione oggettiva e quindi i valori dei ricercatori devono essere esclusi e la priorità del comportamentismo è la spiegazione e la comprensione dei processi politici. I political scientist non possono essere davvero neutrali anche solo perchè sostengono un modello democratico e dei valori occidentali. Il comportamentismo si distanzia dal vecchio positivismo di fine ‘800 per le basi epistemologiche e per le posizioni politiche (il vecchio positivismo aveva alimentato una politica antidemocratica). Il ritorno dell’oggettivismo nelle scienze sociali è avvenuto insieme a una sorta di naturalizzazione. Il comportamentismo riguarderà soprattutto la scienza politica interna mentre le Relazioni Internazionali procederanno differentemente: questo porterà a una differenziazione dei metodi impiegati per lo studio delle due discipline. Il campo delle Relazioni Internazionali Nel 1919 in Galles viene istituita la prima cattedra di politica internazionale affidata a Zimmern (storico) e viene creata con intento di diffondere una cultura favorevole alla pace. Il nuovo metodo di studiare la politica internazionale si pone quindi in contrasto alla dottrina dello “stato potenza”. Il testo più noto di questa fase è “La grande illusione” di Angell e comprende una critica alla dottrina dello stato potenza, affermando che l'idea che la guerra sia uno strumento per migliorare la posizione di uno Stato è solo una grande illusione. Il contesto postbellico, e la grande illusione contribuisce a inaugurare una nuova disciplina: lo studio della politica internazionale. La critica verso Angel viene svolta soprattutto da Carr: essa verrà definita come il primo grande dibattito, dove al suo interno si delinea la frattura tra il campo realista e quello liberale (idealista). Alla vigilia del secondo conflitto mondiale Carr mette in luce come dietro il progetto di armonia è presente la volontà di Francia e Gran Bretagna di preservare lo status quo ai danni della Germania. Lo studioso esplicita i cardini di una prospettiva realista che colloca in primo piano il potere (Macchiavelli): la storia è un susseguirsi di cause ed effetti; la realtà ispira la teoria; l'etica è una funzione della politica. Secondo Carr le dottrine relative alla morale sono il prodotto di un gruppo dominante per imporre la propria visione. La sua critica definisce due modi di intendere la politica internazionale e la scienza è in grado di studiarne le tendenze. Alla divisione tra realisti e liberali si aggiunge un ulteriore motivo di divaricazione, il metodo con cui le relazioni tra gli Stati devono essere studiate e che tipo di leggi si cerca di scoprire. Il primo grande dibattito appare come una critica indirizzata dai realisti ai liberalisti e questo consente di fornire un'identità a una disciplina in formazione. Con il secondo grande dibattito coincide una grande battaglia intellettuale combattuta dagli alfieri di una disciplina che sta ottenendo il proprio riconoscimento accademico. Con la pubblicazione di “Scientific Mans vs Power Politics”, Morgenthau assume come bersaglio i positivisti. Egli si volge verso lo studio della politica internazionale e si confronta con due elementi che contrastano decisamente la sua formazione influenzata da Nietzsche: dalla psicoanalisi di Freud e dal pensiero di Schmitt. Il campo delle relazioni internazionali si divide ulteriormente tra cultori della tradizione degli studi internazionali e studiosi positivisti. Oltre a contribuire alle relazioni internazionali, Morgenthau fissa i cardini del realismo internazionalistico. Nel suo testo più importante scrive che la politica interna e internazionale può essere definita come la lotta per il potere. Secondo lui la politica può essere studiata scientificamente, con prospettive e obiettivi ben diversi dai filoni positivisti e neopositivisti, ma lo studioso contesta l'idea che si possano individuare le leggi (per la complessità dei fenomeni sociali), inoltre l'oggetto della ricerca non è qualcosa di effettivamente distinguibile dal soggetto che la indaga: non esiste mai una realtà davvero oggettiva. Formulare previsioni è una pretesa piuttosto ingenua. Nel secondo dibattito, la contrapposizione che divide gli studiosi di politica internazionale riguarda il metodo di studio. Esso si conclude senza vincitori, ma il filone vicino alle posizioni comportamentiste nel campo delle relazioni internazionali viene spesso etichettato come positivista o neopositivista. Singer fissa la logica operativa neopositivista, precisando i tre obiettivi che il modello analitico deve prefiggersi: l'osservazione e la descrizione di determinati fatti; una teoria che spieghi quei fatti; le implicazioni osservabili che devono essere oggetto del controllo empirico. Questi obiettivi pongono spesso problemi soprattutto tra la distinzione fra descrizione e spiegazione, in quanto non è sempre chiara. La formulazione di un modello analitico richiede di rinunciare a una descrizione puntuale per ricercare uniformità. All'interno del campo dei politologici neopositivisti si afferma un ulteriore criterio di distinzione che riguarda il livello analitico al quale l'indagine può collocarsi (Waltz, tre immagini). Le tre immagini vengono di solito indicate nel dibattito politico come livelli analitici e identificano il livello al quale si possono collocare le indagini e l'ipotesi di spiegazione. Emergeranno in seguito delle nuove discussioni etichettate come terzo e quarto dibattito e con questi dibattiti emergerà il costruttivismo. Scienza politi ca e fi losofi a politi ca I dibattiti alla fine degli anni ’70 sanciscono la fine del comportamentismo. La rivoluzione comportamentista lascia tracce profonde sulla disciplina e sui metodi di indagine: continueranno ad essere adottati all’interno della disciplina alcuni aspetti del behavioralism. Uno dei centri dell'indagine politologica continua ad essere la ricerca di regolarità, definite come uniformità accertabili nel comportamento umano e l'esistenza di tali uniformità può essere dimostrata tramite le prove empiriche. Gli studiosi della seconda metà del ‘900 fissano una linea di demarcazione fra la scienza e le discipline non scientifiche. Un contributo verrà dato da Popper, secondo il quale la scientificità dipende dal fatto che una teoria possa essere falsificabile, ovvero possa essere sottoposta a un controllo empirico. La scienza politica non comprende come nel passato qualsiasi studio o analisi del fenomeno politico condotta con sistematicità, ma diventa una disciplina contrassegnata dall’utilizzo di un determinato metodo operativo: uno studio dei fenomeni politici condotto con la metodologia L'idea che la scienza dei fenomeni politici possa condurre a una conoscenza realmente neutrale è stata al centro di un ripensamento, in quanto bisogna mantenere la consapevolezza che i principali strumenti di cui si serve la politica sono i concetti (il prodotto di conflitti, di rapporti di forza). Molti dei concetti cui la scienza politica si serve comportano disaccordi in quanto per quanto possano aspirare a una completa oggettività anche i concetti utilizzati dalle scienze sociali non possono in alcun modo sottrarsi a una soggettività. Nella conferenza dedicata alla scienza come professione, Weber era esplicito sull'importanza del rigore nell'utilizzo dei concetti, il ricercatore non può astenersi dal diritto di esprimere i propri valori nella discussione pubblica ma deve tenere nettamente separate l'osservazione della realtà dall'esercizio della valutazione soggettiva. Richiamando la lezione weberiana, dobbiamo essere ben consapevoli che non è possibile liberarsi dai valori e di osservare con una prospettiva del tutto oggettiva. Capitolo quinto Negli anni ‘70 del secolo scorso, il primatologo olandese Waal iniziò una ricerca sistematica su una grande colonia di scimpanzé, dove riconobbe una serie di comportamenti machiavellici (per ottenere potere). Waal si persuase che l'antica espressione di Aristotele, animale politico, doveva essere quindi intesa sottolineando soprattutto la radice animale. Egli intendeva la politica come una manipolazione sociale per assicurarsi posizioni influenti, secondo lui la politica degli esseri umani è fatta di contese, contrapposizioni e competizione al fine di ricercare potente potere e influenza (l'interesse per il potere che muove gli scimpanzé non è diverso da quello umano). Le conclusioni a cui giunse Waal si inseriscono all'interno delle spiegazioni etologiche della politica, che tendono a imputare i comportamenti umani alla storia evolutiva dell'Homo sapiens. La somiglianza agli scimpanzé riporta quindi l'immagine della natura umana delineata dal realismo politico. I cultori delle scienze sociali tendono a ritenere irrilevanti gli studi etologici, però una piena comprensione di alcuni fenomeni politici deve tenere conto delle evidenti somiglianze tra il comportamento degli scimpanzé e quello degli esseri umani. È importante chiedersi se per comprendere cosa sia l'animale politico si debba considerare come rilevante la componente animale o se invece la politicità va concepita come qualcosa di esclusivamente culturale. L’originaria espressione aristotelica identificava la specificità degli esseri umani nella loro capacità di entrare in relazione e spesso questa formula è stata intesa come socievolezza e seguendo questa linea si arriva al fatto che la politica non è una prerogativa soltanto umana (anche gli animali sono esseri socievoli). Nelle società animali sono presenti delle suddivisioni di ruoli che sono a delle gerarchie politiche. Tra gli insetti sociali troviamo delle divisioni che non sono soggette a mutamento e questo modello è interpretato nei termini di un'organizzazione politica fortemente gerarchica. Secondo alcuni studiosi il modello degli insetti è quello della società perfetta. In un famoso passaggio del “Capitale” possiamo cogliere la differenza cruciale che esiste tra una società degli insetti e una società umana, la differenza consiste nel fatto che le norme che regolano la vita di un alveare sono programmate geneticamente e non sono l'esito di una costruzione culturale. Troviamo meno differenze tra la società umana e società mammifera dove l'organizzazione è meno rigida e si modifica nel corso del tempo reagendo all'ambiente e alle dinamiche interne, così come muta il ruolo dei singoli individui. Anche qui troviamo una gerarchia ma è meno rigida. Non tutti gli aspetti di organizzazione sociale sono ascrivibili alla natura, perché si possono riconoscere delle tracce di elementi culturali circoscritte all'interno di uno specifico gruppo (scimpanzè). Alcuni studiosi come Heidegger, Gehlen e Cassirer seguendo traiettorie differenti hanno avuto il merito di collocare la “scimmia nuda” su un territorio in cui natura e cultura si intrecciano. L’animale progett uale Heidegger non dedica un’attenzione particolare ai fenomeni politici ma l'obiettivo che si pone è determinare il problema dell'essere umano. L'uomo deve essere concepito come quell'ente che si interroga sul senso dell'umano e non può essere ridotto a oggetto: il modo di esistere dell'essere umano non è una relazione tra soggetto che conosce un oggetto, bensì come un costitutivo essere in relazione a (il poter essere che vuole progettare). A differenza di tutti gli animali, gli esseri umani sono consapevoli della loro mortalità e la morte si rivela dunque come una possibilità incondizionata, insuperabile al singolo. Questa condizione accompagna ogni essere umano dal momento in cui esso acquista una coscienza della propria fragilità e per questo rappresenta il senso autentico dell'esistenza. L'angoscia dell’essere umano non è determinata da un pericolo specifico, ma dall'assenza di senso di progettualità. La proiezione verso il futuro è definita dal filosofo come “cura” che definisce una condizione che contrassegna l'umano. L'essere nel mondo dell'essere umano ha la caratterizzazione di essere la cura e questa specifica prospettiva domina tutta la sua vicenda temporale del mondo. Il progetto di Heidegger è al centro della riflessione dell'antropologia filosofica, una corrente di pensiero che intende indagare la specifica differenza umana. Un esponente sarà Gehlen che afferma che l'essere umano costituisce uno speciale problema biologico, perché non appare del tutto adatto all'ambiente mentre gli animali e gli insetti risultano adatti a vivere nel loro habitat. L'essere umano non appare definito dal punto di vista biologico, in quanto apporta una serie di carenze, anche fisiche. In virtù di queste carenze, i figli degli esseri umani devono essere accuditi per un lunghissimo periodo. L'essere umano appare quindi incompiuto e questa incompiutezza lo induce a cercare all'esterno il proprio corpo gli strumenti di difesa. La specie umana risulta contrassegnata da una specifica apertura al mondo che si configura come un limite, ma al tempo stesso fa sì che l'essere umano trasformi le sue condizioni di deficit in possibilità per conservare la sua vita. Il modo con cui l'uomo persegue la conservazione della vita, chiarisce in quali termini si debba intendere il rapporto natura cultura. Secondo il filosofo, la nozione di stato natura è fuorviante, in quanto la sua incompiutezza allo stato originario lo pone davanti alla necessità di trasformare l’ambiente. Rispondendo alle necessità, l'essere umano costruisce un mondo artificiale fatto anche di regole. L’insieme degli elementi artificiali diventa una sorta di seconda natura. La costruzione del mondo artificiale deve essere dunque intesa come un distanziamento dalla natura e questo è un distanziamento spaziale e temporale. Gli elementi che consentono il distanziamento sono il linguaggio e i simboli. Gli elementi con cui l'uomo mette la natura al suo servizio rappresentano il modo in cui l'umano si adatta all'ambiente in cui si trova a vivere: l'uomo non soddisfa solo i bisogni del presente ma si muove per poter soddisfare anche quelli futuri, conducendo un’interminabile attività di progettazione del futuro dove la vita pulsionale deve essere controllata. Lo strumento principale con cui la vita pulsionale viene disciplinata è rappresentato dalle istituzioni (l'insieme di istituti, leggi, norme). Per sua stessa natura, l'uomo vive sempre in un mondo culturale. Cassirer sviluppa una riflessione che chiarisce in quali termini bisogna intendere la seconda natura degli esseri umani. Gli esseri umani si sono dovuti adattare all'ambiente circostante, come tutte le altre specie viventi, ma hanno messo in atto una strategia specifica che mette in luce la differenza qualitativa dell’uomo: negli animali troviamo un sistema ricettivo e un sistema reattivo mentre negli esseri umani si può invece riconoscere anche una componente ulteriore: un sistema simbolico di cui fanno parte il linguaggio, il mito, l'arte, la religione e la scienza,… il ruolo del sistema simbolico è così importante che l'uomo dovrebbe essere definito come animal symbolicum. Queste riflessioni offrono al rompicapo della natura umana una soluzione che invita a riconoscere la differenza degli esseri umani nella loro natura di animali progettuali e simbolici. L’animale comunitario Friedrich propone una definizione dell'essere umano che rivisita l'antica idea dell'animale politico, sottolineando con forza la politicità dell'homo sapiens. Per Friedrich l'umano è infatti, come per Aristotele, un essere che vive in comunità e che comunica tramite un linguaggio. La formula di Friedrich riconosce cinque caratteri fondamentali che contrassegnano la natura degli umani e che nella loro costanza spiegano la variabilità della loro esperienza: 1) Il vivere in comunità: si riferisce al fatto che è impossibile comprendere le caratteristiche dell'homo sapiens senza considerare la dimensione comunitaria; l'essere umano è un essere comunitario; 2) La duttilità e adattabilità: l’essere umano è in grado di adattarsi ad ambienti differenti e la sua risposta alle sollecitazioni modifica il contesto in cui si trova; l'uomo inventa continuamente nuovi modi di gestire situazioni inedite; 3) L'intenzionalità: gli umani sono in grado di fissarsi degli obiettivi e di perseguirli per un lungo periodo di tempo anche grazie alla memoria di cui sono dotati; gli umani si caratterizzano come essere intenzionali che si prefiggono degli scopi.; 4) La percezione di sé: l’umano ha la convinzione che nel corso della vita individuale, il sé rimanga costante: identità e la personalità rimangono identiche. Ogni essere umano ritiene che una simile esperienza di sé caratterizzi anche tutti i propri simili, ma in maniera differente.; 5) Il linguaggio: consiste in un insieme di simboli che consentono la comunicazione all'interno di un gruppo umano, nello spazio e nel tempo. Anche le istituzioni politiche sono il frutto dell'esperienza comunicativa; tutte le altre caratteristiche non sarebbero concepibili senza il linguaggio. La definizione di Friedrich punta a ritrovare la politica nella dimensione comunitaria: ai suoi occhi una comunità si configura come una comunità politica quando i suoi membri possono essere definiti come persone, dotati di identità distinte. I ruoli che un individuo nella propria vita è chiamato a ricoprire realizzano l'identità personale. La comunità unisce gli individui in base a dei valori, degli scopi o degli interessi e una comunità politica è perciò un gruppo di persone unite dall’avere in comune alcuni o tutti questi valori. La comunità politica a differenza delle altre non è perfetta, come voleva dimostrare Aristotele, ma la più ampia e comprensiva (essendo formata da persone è impossibile eliminare qualsiasi traccia di dissenso): le comunità politiche riconoscono che ciascun soggetto è dotato di una propria identità irriducibile. Le concrete comunità politiche possono differire per la strutturazione, l'obiettivo o il legame e quindi Friedrich distingue tra: comunità fondate sull'amore e comunità fondate sulla legge; tra comunità organiche e comunità intenzionali; tra comunità esistenti e comunità immaginarie. Friedrich adotta una visione orizzontale della politica.