Scarica Riassunto del Libro di procedura penale TONINI-CONTI. e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! DIRITTO PROCESSUALE PENALE TONINI-CONTI CANALE B 1 PARTE PRIMA EVOLUZIONE STORICA DEL PROCESSO PENALE 1. SISTEMA INQUISITORIO, ACCUSATORIO E MISTO DIRITTO PENALE E DIRITTO PROCESSUALE PENALE La legge processuale penale regola il procedimento con cui si accerta se sia stato commesso un fatto di reato, se l’imputato ne è l’autore e, in caso positivo, quale pena debba essergli applicata, laddove la legge penale definisce i tipi di fatto che costituiscono reato e le sanzioni previste per coloro che li commettono. Il diritto processuale penale è il complesso delle norme di legge che disciplinano le attività dirette all’attuazione del diritto penale nel caso concreto; esso ha quindi, una funzione strumentale rispetto al diritto penale sostanziale. Quest’ultimo, vieta determinati fatti mediante la minaccia della pena; i suoi precetti si rivolgono a tutti i cittadini. Il diritto processuale penale, prescrivendo i comportamenti processuali da tenere, si rivolge a tutti i soggetti del procedimento. La legge penale sostanziale ha la finalità di regolare le azioni delle persone e non di accertarle, questo compito spetta al diritto processuale. LA PROTEZIONE DELLA SOCIETA’ E LA DIFESA DELL’IMPUTATO Il processo penale deve perseguire contemporaneamente la funzione di tutelare la società contro la delinquenza e di difendere l’accusato dal pericolo di una condanna ingiusta. Sta di fatto che la protezione della società è realizzata con mezzi che impediscono o ostacolano la difesa dell’imputato e il legislatore è costretto a trovare un compromesso tra la difesa della società e quella dell’imputato: è più accettabile condannare un innocente o assolvere un colpevole? SISTEMA INQUISITORIO E ACCUSATORIO Per valutare se un ordinamento che si afferma garantista lo sia effettivamente, è sufficiente esaminare quale sistema processuale penale accolga. Già nel periodo medioevale, il sistema inquisitorio attribuiva al giudice il potere di attivarsi d’ufficio, per ricercare i reati e acquisirne le prove; nel sistema accusatorio il giudice non esercitava alcun potere d’ufficio, poiché erano le parti ad avere l’iniziativa (apportavano le prove) e il giudice poteva solo prendere decisioni su richiesta di parte. Oggi, con i termini accusatorio e inquisitorio ci si riferisce a tipi di processo penale , ai quali sono attribuite determinate caratteristiche. Il sistema inquisitorio si basa sul segreto e sulla scrittura, mentre quello accusatorio si fonda sul contraddittorio e sull’oralità. La maggior parte degli ordinamenti sono di tipo misto. 2 b. Giudizio abbreviato –> l’imputato può chiedere che il processo sia definito nell’udienza preliminare, sulla base degli atti raccolti nel fascicolo delle indagini; in caso di condanna la pena è ridotta di un terzo. c. Giudizio immediato –> se la prova è evidente e l’imputato è stato invitato a rendere interrogatorio, il p.m. può chiedere al g.i.p. il rinvio a giudizio senza udienza preliminare. Se anche l’imputato chiede al giudice il rinvio, questi è obbligato a disporlo. d. Giudizio direttissimo –> quando la persona è arrestata in flagranza o l’indagato ha confessato durante l’interrogatorio, il p.m. può condurlo direttamente davanti al giudice in dibattimento. e. Procedimento per decreto –> per i reati meno gravi il p.m. può presentare al g.i.p. richiesta motivata di emissione di un decreto penale di condanna ad una pena pecuniaria. LE MODIFICHE SUCCESSIVE AL 1989 Il nuovo codice ha decretato il passaggio dal sistema misto a quello accusatorio; il passaggio è stato tuttavia repentino, causando problemi sul piano, teorico, operativo e psicologico (carenza di garanzie nell’istruttoria, carenza di uffici e impatto dei giudici con il nuovo processo). L’inerzia del Governo e del Legislatore ha spinto la Corte Cost. ha dichiarare illegittime numerose norme del c.p.p. perché contrastanti il principio di ragionevolezza e in seguito ai delitti di mafia degli anni ’90 si sono avute le riforme auspicate: la L. 332/1995 ha ripristinato alcuni aspetti della separazione delle funzioni prima del dibattimento. La legge, da un lato, ha aumentato i poteri di controllo spettanti al gip sugli atti che devono essere valutati al fine di applicare le più gravi misure cautelari; da un altro lato, ha riconosciuto espressamente la legittimità delle indagini svolte dal difensore ed ha sancito che la relativa documentazione può essere presentata al gip. La L. 267/1997 ha regolamentato l’ipotesi in cui un imputato, nel corso delle indagini, renda dichiarazioni contro un altro imputato: il legislatore ha limitato l’utilizzabilità di tali dichiarazioni ai fini della decisione sulla reità dell’imputato accusato. Ciò ha provocato delle reazioni nella magistratura, che hanno indotto la Corte Cost. ad estendere a tale ipotesi le norme che permettevano di utilizzare le precedenti dichiarazioni del testimone rimasto silenzioso, ritenendo la situazione dell’imputato accusatore, chiamato a deporre su un fatto altrui, simile a quella del testimone. LA COSTITUZIONALIZZAZIONE DEI PRINCIPI DEL GIUSTO PROCESSO CONSIDERAZIONI PRELIMINARI L’intervento della Corte contrastava con il testo della L.267/1997, che richiedeva il contraddittorio nella formazione della prova, suscitando le reazioni del Parlamento, che ha addebitato alla Corte di avergli sottratto la competenza a legiferare. I PRINCIPI ATTINENTI AD OGNI PROCESSO Fu così che si avviò il meccanismo di revisione costituzionale, sfociato nella riforma dell’art. 111 Cost. del 1999, che introdusse il concetto di giusto processo, espressione che sintetizza i seguenti principi (attinenti ad ogni processo): 5 La riserva di legge: il 1° comma dell’art. 111 Cost. sancisce che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Quindi, soltanto il legislatore può regolare lo svolgimento del processo; tale compito non può essere svolto da organi amministrativi né giurisdizionali. Il contraddittorio debole: nel 2° comma viene enunciato il principio del contraddittorio, comportante la necessità che la decisione del giudice sia emanata audita altera parte. Si tratta di quel significato debole del principio secondo cui il soggetto, che subirà gli effetti di un provvedimento giurisdizionale deve essere messo in grado di esporre le sue difese prima che il provvedimento stesso sia emanato. La parità delle parti: sancito dal 2° comma dell’art. 111 cost., il quale, ha una potenzialità diversa nel processo civile e in quello penale. Nel processo civile, infatti, è possibile attuare la piena parità delle armi tra attore e convenuto. Nel processo penale, parità significa non identità ma equilibrio di poteri. L’imparzialità del giudice: il processo deve svolgersi davanti a un giudice terzo e imparziale (2° comma). L’imparzialità impone che non vi siano legami tra il giudice e le parti. La terzietà impone che il giudice non cumuli altre funzioni processuali. In definitiva, la Costituzione accoglie il principio della separazione delle funzioni processuali tra giudice, accusa e difesa. La ragionevole durata del processo: previsto dal 2° comma, la cui attuazione è rimessa al legislatore. Con l’espressione giusto processo si riferisce ad un concetto ideale di giustizia, che preesiste rispetto alla legge e che è direttamente collegato a quei diritti inviolabili di tutte le persone coinvolte nel processo. PRINCIPI INERENTI AL PROCESSO PENALE I commi successivi enunciano principi che si riferiscono solo al processo penale: I diritti dell’accusato –> la persona sottoposta all’indagine deve essere informata riservatamente della natura e motivi dell’accusa nel più breve tempo possibile (comma 3); tale espressione non significa immediatamente, bensì non appena l’avviso all’indagato è compatibile con l’esigenza di genuinità ed efficacia delle indagini. La norma prosegue riconoscendo all’accusato il diritto di disporre del tempo e delle condizione necessarie per preparare la difesa. Il diritto a confrontarsi con l’accusatore –> l’accusato ha il diritto, davanti al giudice, di interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico. All’imputato è riconosciuto anche il diritto di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa, nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore. Il principio del contraddittorio – l’art. 111 Cost., nei commi 3 e 4, accoglie il principio del c. in senso forte, cioè in relazione alla materia della prova. Il principio è utilizzato in due significati differenti: o Il contraddittorio in senso oggettivo –> (comma 4) si tratta del c. nella formazione della prova. Una prova che sia attendibile non si ottiene in segreto con espressioni unilaterali, ma in modo dialettico (attraverso l’esame incrociato).Il comma 5 dell’art. 111 Cost. prevede una serie di eccezioni. Il comma 5 prevede, infatti, che la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato, per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. o ll contraddittorio in senso soggettivo –> costituisce il riconoscimento a livello costituzionale del diritto dell’imputato di confrontarsi con l’accusatore dinnanzi al 6 giudice: la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. Il diritto a confrontarsi trova la sua sanzione attraverso l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da chi ha eluso il contraddittorio. L’ATTUAZIONE DEI NUOVI PRINCIPI COSTITUZIONALI L’entrata in vigore dei principi del giusto processo ha spinto il Parlamento a modificare il sistema probatorio. Ciò si è avuto: da un lato, con la previsione della riduzione dell’area del diritto al silenzio, e dall’altro, prevedendo l’inutilizzabilità in dibattimento delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini. CENNI SULLA SUCCESSIONE DELLE NORME PROCESSUALI NEL TEMPO Può accadere che la nuova legge rechi una disciplina apposita oppure taccia in proposito ed in questo caso si deve fare riferimento ai principi generali. In merito alla prima ipotesi la legge può dettare norme intertemporali o norme transitorie: 1. le prime indicano il criterio in base al quale si individua la disciplina per il caso concreto (si limitano ad individuare, nell’ambito dei rapporti pendenti, quali tra di essi saranno regolati dalla nuova disciplina e quali, invece, resteranno sotto il regime della disciplina previgente), 2. le seconde sono norme materiali di diretta applicazione, che prevedono una disciplina speciale per il caso concreto. In merito alla seconda ipotesi vale il principio tempus regit actum previsto dall’art. 11 disp. prel. c.c., che sancisce da un lato l’efficacia immediata della nuova disciplina e dall’altro ne prevede l’irretroattività: gli atti già compiuti restano regolati dalla disciplina previgente, quelli ancora da compiere da quella nuova. LE FONTI INTERNAZIONALI DI DIRITTO PROCESSUALE Tra le fonti del diritto processuale penale, il diritto internazionale ha sempre assunto una particolare rilevanza. Il diritto internazione consuetudinario: l’art. 10.1 Cost. sancisce che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Tale disposizione è denominata trasformatore permanente poiché ha la funzione di adattare automaticamente il diritto interno al diritto internazionale consuetudinario. In particolare, il diritto comunitario: L’art. 11 Cost. ha provocato l’effetto che le norme comunitarie hanno efficacia obbligatoria nel nostro ordinamento. Il giudice italiano applica direttamente i Regolamenti e le Direttive self-executing e valuta se la legge nazionale è compatibile con la norma comunitaria; il giudice disapplica la legge interna che è incompatibile con la norma comunitaria se la legge europea è priva di effetti diretti. Le norme internazionali pattizie comuni. il rango delle norme dei Trattati introdotte nel nostro ordinamento è quello della legge contenente l’ordine di esecuzione del Trattato stesso. L’art. 117.1 Cost. impone al legislatore italiano il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Da ciò deriva che le norme contenute nei Trattati assumono la denominazione e la natura di norme interposte, con un rango inferiore alla Cost. e superiore al livello della legge ordinaria. Di conseguenza: 7 L’esercizio dell’azione penale determina due effetti. Pone al giudice l’obbligo di decidere su un determinato fatto storico. fissa in modo tendenzialmente immutabile l’oggetto del processo, e cioè impone al giudice il divieto di decidere su un fatto storico diverso da quello precisato nell’imputazione. L’addebito provvisorio formulato dal p.m. durante le indagini non costituisce imputazione. I SOGGETTI E LE PARTI Soggetti —> Si ritiene che possano essere definiti soggetti coloro che sono titolari di potere di iniziativa nel procedimento (giudice, p.m., polizia giudiziaria, imputato, parte civile, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria, persona offesa e difensore). Non sono invece considerati soggetti i testimoni e i periti, perché costoro non hanno poteri di iniziativa in relazione al procedimento; essi rientrano nella nozione ampia di persone che partecipano al procedimento. Le parti —> sono parti il soggetto attivo e quello passivo dell’azione penale, cioè colui che ha chiesto al giudice una decisione in relazione all’imputazione e colui contro il quale tale decisione è chiesta. Sono parti necessarie il p.m. e l’imputato. L’azione civile di danno —> entro il processo penale il danneggiato dal reato può esercitare l’azione civile tendente ad ottenere la condanna dell’imputato al risarcimento del danno derivante dal reato. Il danneggiato esercita l’azione civile costituendosi parte civile successivamente al momento in cui il p.m. ha esercitato l’azione penale (è una parte eventuale). Il risarcimento può essere chiesto anche contro il responsabile civile, cioè il soggetto responsabile civilmente per il fatto dell’imputato (parte eventuale). IL GIUDICE GIUDICI ORDINARI E SPECIALI La giurisdizione non è impersonata da un organo unitario ma frazionata in più organi con competenza limitata, attribuita per materia, territorio, funzione e connessione. Si può definire competenza quella parte della funzione giurisdizionale che è svolta dal singolo organo. Si distingue innanzitutto tra giudici ordinari e speciali: i primi hanno competenza generale a giudicare tutte le persone, sono magistrati ordinari dell’ordinamento giudiziario; i secondi sono competenti a giudicare solo alcuni soggetti e non appartengono all’ordinamento giudiziario. I giudici penali ordinari: 1. quelli di primo grado sono il tribunale in composizione collegiale o monocratica, la corte di assise, il giudice di pace e il tribunale dei minorenni. 2. Quelli di appello sono la corte d’appello, la corte d’Assise di appello e la sezione della corte di appello per i minorenni. 10 3. Vi è poi la Corte di Cassazione: essa ha sede a Roma, è unica per tutto il territorio nazionale e davanti ad essa possono essere impugnate tutte le sentenze per motivi di legittimità. La Corte può controllare se vi è stata inosservanza della legge e se il giudice inferiore ha motivato in modo corretto, ma non può decidere nel merito (es. non può valutare l’attendibilità delle dichiarazioni di un testimone). I giudici penali speciali —> sono i giudici militari e la Corte Costituzionale. I tribunali militari in tempo di pace sono competenti soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate. La Corte cost. è competente a giudicare i delitti di alto tradimento e attentato alla Cost. commessi dal Presidente della Repubblica (art. 90 Cost.). Il potere giudiziario si caratterizza per la sua indipendenza e imparzialità. L’art. 104 Cost. dispone che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, di conseguenza, il potere giudiziario, si distingue dagli altri poteri dello Stato (potere legislativo e potere esecutivo). Il potere giudiziario ha la funzione di emanare sentenze, e cioè di applicare la legge al caso concreto. Il giudice è sottoposto solo alla legge e non ad altra fonte (art. 101 Cost.). L’indipendenza del giudice è garantita attraverso un apposito organo, e cioè il C.S.M. I controlli previsti per il potere giurisdizionale sono solo interni e si esercitano attraverso il sistema dei ricorsi. Il termine giurisdizione puo avere un duplice significato, può riferirsi alla funzione oppure all’organo che la svolge: Nel primo senso puo essere definita giurisdizione quella funzione dello stato che consiste nell’applicare la legge al caso concreto con forza cogente; Nel secondo senso, giurisdizione è quel potere dello stato che è impersonato da organi che hanno la caratteristica dell’indipendenza e dell’imparzialità. Giusto processo: non puo esservi giurisdizione senza giusto processo. Occorre che sia garantito lo svolgimento della funzione del giudice indipendente. LA COMPETENZA PER MATERIA E FUNZIONE In generale, col termine competenza si intende l’insieme delle regole che consentono di distribuire i procedimenti all’interno della giurisdizione ordinaria. La competenza per materia è ripartita in base a due criteri: qualitativo , in base al tipo di reato; quantitativo , relativo alla pena edittale. Quando la legge utilizza quest’ultimo criterio, occorre tenere presenti le regole generali dettate dall’art. 4. In base ad esse, per determinare la competenza si ha riguardo alla pena massima stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione e della recidiva. Non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle circostanze che il c.p. denomina ad effetto speciale in quanto comportano un aumento della pena superiore ad un terzo. La competenza per materia è distribuita tra: la Corte d’Assise, tribunale per i minorenni , giudice di pace e 11 tribunale . Il tribunale per i minorenni si occupa dei reati commessi dai minori degli anni 18. Questa competenza è esclusiva: è competente il tribunale per i minorenni anche se il minore ha commesso un reato che sarebbe di competenza della corte di Assise, del tribunale o del giudice di pace. Per quanto concerne i reati commessi da persone adulte, la competenza per materia è ripartita tra la corte di assise ed il giudice di pace; il tribunale ha una competenza, di regola, residuale, salvo determinati reati espressamente indicati dalla legge. Alla corte d'assise (giudice collegiale composto da due giudici di carriera e sei giudici popolari) è attribuita, in estrema sintesi, la competenza a giudicare i più gravi fatti di sangue e i più gravi delitti politici. Di recente, la competenza per materia della corte d’assise è stata lievemente ampliata dal decreto legge 10/2010, convertito nella legge 52/2010. Il Giudice di Pace è un giudice non professionale, nominato a tempo determinato che si occupa dei reati caratterizzati da sanzione tenue e che richiedono un accertamento semplice (es. Tra i reati procedibili d’ufficio: in materia di somministrazione di bevande alcoliche a minori o infermi di mente; tra i reati procedibili a querela: le percosse, lesioni volontarie, diffamazione, furti lievi…) Il tribunale ha una competenza residuale per i fatti che non rientrano nella competenza dei predetti organi (art. 6) e sopperisce quindi alle carenze tecnico/giuridiche della Corte d’Assise. Il tribunale ha anche una competenza a giudicare reati che sono previsti in modo specifico da singole norme di legge (es. i reati commessi a mezzo cinema, stampa, radio e televisione). Il Tribunale in composizione collegiale (formato da 3 giudici) si occupa: Reati puniti con pena superiore nel max a 10 anni ma inferiori ai 24, purchè non siano di competenza della corte d’assise; Reati di criminalità organizzata; Reati di aborto; Delitti concernenti le armi ecc. Il tribunale monocratico si occupa: Reati puniti con pena nel max fino a 10 anni purchè non siano di competenza del giudice di pace; Produzione e traffico illecito di stupefacenti. La competenza funzionale —> competenza a svolgere determinati procedimento o particolari fasi o gradi di procedimento o a compiere determinati atti. E ancora la competenza a giudicare sull’appello proposto contro le sentenze pronunciate in primo grado dalla corte d’assise e dal tribunale (collegiale o monocratico), spetta rispettivamente alla corte d’assise di appello e alla corte di appello. COMPETENZA PER TERRITORIO (art. 8) La competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato, in quanto ivi è più facile e veloce la ricerca delle prove. Si ha consumazione quando il reato è giunto al massimo grado di gravita, quando sono presenti tutti gli elementi costitutivi della norma incriminatrice nella massima gravita. 12 Occorre precisare che tradizionalmente si ritiene che il termine naturale faccia riferimento alle norme relative alla competenza per territorio (locus commissi delicti). I CONFLITTI DI GIURISDIZIONE E DI COMPETENZA I conflitti di giurisdizione e di competenza (artt. 28- 32) —> i confl. di giurisdizione avvengono tra un giudice ordinario e uno speciale o tra più speciali. I confl. di competenza avvengono tra più giudici ordinari. Si ha conflitto positivo quando più giudici prendono cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona; si ha conflitto negativo quando più giudici rifiutano tale cognizione, ritenendo la propria incompetenza. Il conflitto può insorgere in ogni stato e grado del processo, e può essere denunciato dal p.m. o dalle parti ad uno dei giudici in conflitto, o rilevato d’ufficio. L’ordinanza che rileva il conflitto è trasmessa alla Cassazione che decide in modo vincolante, ma né l’ordinanza, né la denuncia hanno effetto sospensivo del processo. La corte di cassazione decide in camera di consiglio con sentenza che indica qual è il giudice competente a procedere. LA DICHIARAZIONE DI INCOMPETENZA (artt. 21- 27) L’inosservanza delle disposizioni che regolano la competenza comporta che i giudice dichiari la propria incompetenza. Di regola le prove acquisite dal giudice incompetente restano efficaci, mentre le dichiarazioni, se ancora ripetibili, sono utilizzabili in giudizio solo con il meccanismo delle contestazioni probatorie. Le misure cautelari già disposte conservano un efficacia provvisoria limitata a 20 giorni dalla ordinanza che dichiara l’incompetenza; entro tale termine il giudice competente deve decidere se rinnovarla o meno. Incompetenza per materia —> in caso di incompetenza per difetto (quando procede un giudice inferiore, meno idoneo a giudicare rispetto uno superiore) tale incompetenza è rilevabile fino al pervenire della sentenza irrevocabile. L’incompetenza per eccesso (quando sta procedendo un giudice superiore per un reato di competenza di un giudice inferiore) può essere rilevata anche d’ufficio, ma non oltre le questioni preliminari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Se il giudice di primo grado ritenga erroneamente di essere competente, la Corte di Appello che accerti un’incompetenza per eccesso deve decidere nel merito. Incompetenza per territorio —> eccepibile dalle parti e rilevabile dal giudice fino alla chiusura della discussione finale dell’udienza preliminare o se questa è assente, deve essere eccepita o rilevata nel corso delle questioni preliminari in dibattimento. La declaratoria di incompetenza —> nel corso delle indagini preliminari il giudice dichiara l’incompetenza con ordinanza e restituisce gli atti al p.m. procedente; l’ordinanza produce effetti limitatamente al provvedimento richiesto e non impedisce al p.m. di svolgere le indagini. Dopo la chiusura delle indagini il giudice dichiara l’incompetenza con sentenza e trasmette gli atti al p.m. presso il giudice competente. La decisione della corte di cassazione di regola è vincolante nel processo. La questione puo essere riproposta successivamente soltanto nel caso in cui risultino nuovi fatti dai quali emerga un’ 15 incompetenza per materia in cui risultino nuovi fatti dai quali emerga un’incompetneza per materia per difetto, di modo che sarebbe competente un giudice superiore. L’incompetenza per connessione —> deve essere rilevata o eccepita a pena di decadenza entro gli stessi termini previsti per la incompetenza per territorio. Ciò vale anche per quando la connessione incide sulla competenza per materia. INOSSERVANZA DELLE DISPOSIZIONI SULLA COMPOSIZIONE COLLEGIALE O MONOCRATICA DEL TRIBUNALE (art. 33 – 33 nonies). La violazione delle norme sulla corretta composizione non incidono sulla capacità dell’organo giudicante e non danno vita a nullità processuale; i rapporti tra le due articolazioni del tribunale (monocratico e collegiale) sono configurati come un modulo organizzativo interno all’ufficio giudiziario. Non si tratta quindi di un problema di competenza, bensì di cognizione. La legge 479/1999 ha introdotto due modelli procedurali per il tribunale monocratico: il primo, relativo ai reati più gravi, prevede l’udienza preliminare; il secondo, previsto per i reati meno gravi, non prevede l’udienza preliminare. Il termine entro cui si può eccepire o rilevare d’ufficio l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale è simile a quello che vale per l’incompetenza per territorio. Inosservanze per eccesso —> in quest’ambito si possono verificare due ipotesi: 1) Può accadere che nell’udienza preliminare il giudice rilevi che per il reato doveva procedersi senza udienza preliminare, con citazione diretta in giudizio: in tal caso il giudice trasmette gli atti al p.m. perché questi emetta il decreto di citazione in giudizio. 2) La seconda ipotesi si ha quando il giudice collegiale in dibattimento rilevi che il procedimento spetti al tribunale monocratico, il questo caso il collegio trasmette gli atti al giudice competente per il dibattimento. Inosservanze per difetto: 1) Se il giudice monocratico, nel dibattimento instaurato a seguito di citazione diretta, rilevi che si tratti di un reati per il quale è prevista l’udienza preliminare, trasmette gli atti al p.m. che eserciterà nuovamente l’azione penale. 2) se il giudice monocratico in dibattimento ritiene che il procedimento spetti al tribunale collegiale deve trasmettere gli atti al giudice competente per il dibattimento. Nonostante l’eccezione di parte può darsi che il giudice ritenga corretta la propria cognizione, in tal caso spetterà ad una delle parti proporre appello. Se la corte d’Appello ritiene che la cognizione era del giudice collegiale, annulla la sentenza del giudice monocratico e trasmette gli atti al p.m., nel caso opposto, la corte d’appello decide direttamente nel merito. L’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina l’invalidità degli atti del procedimento ne l’inutilizzabilità delle prove già acquisite. LE SEZIONI DISTACCATE DEL TRIBUNALE Sono uffici collocati all’interno del circondario del tribunale. Esse sono competenti solo sulle materie nelle quali il tribunale giudica in composizione monocratica. Nella sede principale del tribunale sono svolte, in via esclusiva, le funzioni di gip e gup. È stata prevista la soppressione di molti uffici con la legge 148/2011. Ciascun tribunale soppresso è stato interamente accorpato ad altro analogo ufficio giudiziario. 16 Quanto alle sezioni distaccate di tribunale, sono previste situazioni diverse. Nella gran parte dei casi la sezione distaccata deve essere accorpata alla sede centrale; in altri casi è prevista una ridefinizione del territorio dei singoli circondari, secondo una duplice modalità: a) mediante scorporo di una intera sezione distaccata dal tribunale originario per essere accorpata, nella sua globalità, ad un diverso ufficio; b) mediante ridefinizione, comune per comune, del territorio dei due tribunali LA CAPACITÀ DEL GIUDICE (art. 33) È il complesso dei requisiti necessari per un legittimo esercizio della funzione giudicante. Si distingue la capacità di acquisto, che riguarda il possesso di tutti i requisiti necessari all’assunzione della qualità di giudice (es. età, cittadinanza, titolo di studio), dalla capacità di esercizio, che riguarda l’esistenza delle condizioni richieste per il valido esercizio delle funzioni giurisdizionali (es. il decreto ministeriale di nomina). Capacità generica e specifica —> la nullità assoluta degli atti è prevista solo in caso di difetto di capacità generica, ossia la nomina e l’ammissione al ruolo, ma non in caso di difetto di capacità specifica che presuppone la regolare costituzione del giudice nell’ambito di un determinato processo. Ripartizione tra tribunale collegiale e monocratico —> l'art. 33.3 esclude che l'attribuzione degli affari penali al tribunale collegiale o monocratico attenga alla capacità del giudice o al numero dei giudici necessario per costituire l'organo giudicante. La violazione delle norme sul riparto della cognizione tra le due articolazioni del tribunale e l'inosservanza delle disposizioni ordinamentali concernenti l'assegnazione dei magistrati a sezioni o collegi non danno logo a nullità processuali. Da quanto abbiamo esposto, si può ricavare che il codice di procedura penale attribuisce una limitata rilevanza alla garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.) in quanto circoscrive tale garanzia alla mera individuazione dell'organo giudiziario nel suo complesso. IMPARZIALITÀ DEL GIUDICE L’imparzialità perché sia effettiva, deve essere fondata su 3 principi: 1. La soggezione del giudice alla legge: Soltanto la presenza di leggi, che indichino con precisione quali fatti sono reato e quali poteri processuali debbano essere esercitati, impedisce che il giudice sia influenzato dall'esterno (dal potere politico, economico, sindacale) o dall' interno (soggettivismi caratteriali ed ideologismi del singolo magistrato). Non è sufficiente garantire il precise, certe, che non lascino al giudice quelle scelte discrezionali che devono essere compute dal potere legislativo. 2. La separazione tra funzioni giurisdizionali e quelle che sono tipiche di una parte (accusa, difesa e giudice) 3. Garanzie procedimentali che consentano di estromettere il giudice parziale (astensione, ricusazione, rimessione) 17 sulla ricusazione di un giudice del tribunale, della corte di assise o della corte di assise di appello decide la corte di appello; su quella di un giudice della corte di appello decide una sezione della corte stessa, diversa da quella a cui appartiene il giudice ricusato. Sulla ricusazione di un giudice della corte di cassazione decide una sezione della corte, diversa da quella a cui appartiene il giudice ricusato (art. 40.1 e 2). Una volta accertata la situazione pregiudizievole, viene designato un altro magistrato in base alle norme sull'ordinamento giudiziario (art. 43). Il procedimento con cui si decide sulla dichiarazione di ricusazione è un procedimento incidentale di carattere giurisdizionale. Le poche disposizioni contenute nel codice sono state integrate da sentenze della corte costituzionale e delle sezioni unite della cassazione che hanno teso ad attuare il principio di imparzialità e terzietà del giudice (art. 111.2 Cost.). La dichiarazione di ricusazione può essere proposta in udienza subito dopo compiuto l'accertamento della costituzione delle parti; in ogni altro caso, prima del compimento dell'atto da parte del giudice (art. 38.1). La dichiarazione contenente l'indicazione dei motivi e delle prove è proposta con atto scritto ed è presentata, assieme ai documenti, nella cancelleria del giudice competente a decidere. Copia della dichiarazione è depositata nella cancelleria dell'ufficio cui è addetto il giudice ricusato. La dichiarazione, quando non è fatta personalmente dall' interessato, può essere proposta a mezzo del difensore o di un procuratore speciale (art. 38, commi 3 e 4). Nel frattempo, il giudice ricusato non deve sospendere la sua attività, ma non può pronunciare una sentenza (art. 37.2). Se la dichiarazione è valutata come inammissibile (art. 41.1), gli atti compiuti restano efficaci. Ma se è accolta la dichiarazione di ricusazione la corte chiamata a decidere deve valutare il grado di compromissione del giudice sospetto. Nel caso in cui concorrano una dichiarazione di ricusazione e una di astenzione, l’accoglimento dell’astensione fa considerare come non proposta la ricusazione (art. 39) [approfondimento: pg. 97] RIMESSIONE DEL PROCESSO (art. 45) Vi sono casi in cui è pregiudicata l’imparzialità dell’intero ufficio giudicante territorialmente competente. In questi casi il codice prevede lo spostamento della competenza per territorio ad un organo giurisdizionale individuato ex art. 11 e con la stessa competenza per materia previa verifica della Cass. (art. 45). La richiesta motivata può essere presentata dall’imputato, dal pm e dal procuratore generale; lo spostamento è deciso dalla Cassazione. I casi di rimessione: a. Quando sono pregiudicate la sicurezza e l’incolumità pubblica; b. Quando è pregiudicata la libera determinazione delle persone che partecipano al processo (coartazione fisica o psichica); c. In presenza di gravi situazioni locali che determinano motivi di legittimo sospetto. Questa situazione deve essere idonea a giustificare la rappresentazione di un concreto pericolo di non imparzialità del giudice inteso come intero ufficio giudicante. Oggetto di tutela non è 20 un’imparzialità presunta, ma sostanziale, che può essere messa in pericolo quando le circostanze ambientali appaiano idonee a compromettere la serenità della decisione. In tutti i casi nei quali è prevista la remissione devono essere presenti gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento fra processo e non altrimenti eliminabili. La situazione deve essere grave, occorre che sia presente una obiettiva situazione di fatto che lasci fondatamente presagire uno svolgimento non sereno del giudizio. Deve essere non diffusa sull'intero territorio nazionale. Deve essere locale, e cioè esterna rispetto al processo, e cioè non deve consistere in un fenomeno connesso alla dialettica processuale. Infine, deve essere non eliminabile con gli strumenti a disposizione del potere esecutivo. Procedimento di rimessione —> La richiesta di rimessione può essere presentata dall'imputato, dal pubblico ministero presso il giudice che procede e dal procurator generale presso la corte d'appello. La richiesta deve essere depositata nella cancelleria del giudice che procede e deve essere notificata alle altre parti a pena di inammissibilità (art. 46). Il giudice trasmette l'istanza alla corte di cassazione e può sospendere il procedimento in attesa della decisione della suprema corte (art. 47.1); deve, tuttavia, sospendere il processo prima dello svolgimento delle conclusioni e non può pronunciare sentenza (né emettere il decreto che dispone il giudizio). Il provvedimento, che ordina la sospensione, non impedisce il compimento di atti urgenti;, ha effetto fino a che la cassazione non si sia pronunciata sulla richiesta di rimessione (art. 47.3) e comporta la sospensione della prescrizione del reato e dei termini di custodia cautelare (art. 47.2). La sospensione del processo non è disposta quando la richiesta sia fondata su elementi identici rispetto a quelli di altra istanza già rigettata o dichiarata inammissibile (art. 47.2). Decisione sulla richiesta —> La Cassazione decide in camera di consiglio, dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni. Il giudice designato provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione su richiesta delle parti purchè si tratti di atti ripetibili (art. 48). Ove accolga la richiesta, trasferisce il processo ad un altro giudice. La rimessione determina uno spostamento della (sola) competenza per territorio. Il giudice designato provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione quando ne è richiesto da una delle parti e non si tratta di atti di cui è diventata impossibile la ripetizione (art. 48.3). Ove la cassazione rigetti o dichiari inammissibile la richiesta delle parti private, queste con la stessa ordinanza possono essere condannate al pagamento a favore della cassa delle ammende di una somma da 1.000 a 5.000 euro. QUESTIONI PREGIUDIZIALI ALLA DECISIONE PENALE Il principio di autosufficienza della giurisdizione penale —> Il giudice penale ha il potere di risolvere ogni questione da cui dipende la sua decisione. Nel momento in cui si deve accertare la responsabilità dell’imputato, il giudice penale può avere la necessità di risolvere una questione pregiudiziale: una questione che si pone come antecedente logico-giuridico per giungere alla decisione (es: altruità della cosa nel furto). Egli si limita a risolvere la questione in via incidentale, cioè solo in quanto presupposto dell’accertamento della responsabilità dell’imputato; la sua decisione non ha efficacia vincolante in nessun altro processo (art. 2.2). Per contenere la durata del procedimento, nel risolvere la pregiudiziale il giudice non è vincolato ai limiti di prova previsti dalle leggi civili. L’unica eccezione è prevista per lo stato di famiglia e la cittadinanza (art. 3.4 la sentenza irrevocabile del giudice civile sullo stato di famiglia e di cittadinanza ha efficacia di giudicato nel processo penale). 21 L’autosufficienza è totale per le questioni pregiudiziali penali. I temperamenti al principio dell'autosufficienza della giurisdizione penale —> vi sono una serie di eccezioni, più o meno marcate, alla giurisdizione del giudice penale su controversie non direttamente attribute alla propria cognizione. In particolare: 1) Le controversie attinenti alle restituzioni delle cose sequestrate o confiscate non sono risolte dal giudice penale, ma sono attribute al giudice civile territorialmente competente (art. 263.3). 2) In presenza di controversie sullo stato di famiglia o sulla cittadinanza, il giudice penale può sospendere il processo se concorrono i requisiti di cu all'art. 3. Il giudice penale, in base all'art. 3.1, può sospendere il processo soltanto quando la questione abbia due requisiti concorrenti, e cioè: a. la questione deve essere seria; b. l'azione a norma delle leggi civili deve essere già in corso. Si tratta, quindi, di un'autosufficienza parziale. 3) Le questioni pregiudiziali relative a una controversia civile (ma diverse da quelle sullo stato di familia o sulla cittadinanza) o amministrativa possono comunque determinare la sospensione del processo penale laddove siano di particolare complessità e laddove il procedimento extrapenale sia già in corso. Se tuttavia entro un anno quest'ultimo non è concluso, il giudice può revocare l'ordinanza di sospensione. 4) Le questioni relative alla compatibilità con la Costituzione di leggi o atti aventi forza di legge rilevanti per il giudizio penale devono essere sollevate, dal giudice procedente, innanzi alla Corte costituzionale (cd. pregiudiziale di costituzionalità). 5) Le questioni interpretative del diritto comunitario devono essere deferite alla Corte di Giustizia (cd. pregiudiziale comunitaria). IL PUBBLICO MINISTERO. LE FUNZIONI LE FUNZIONI Il PM rappresenta l’interesse generale dello Stato alla repressione dei reati ed è frazionato in tanti uffici ciascuno dei quali svolge le sue funzioni, di regola, soltanto davanti all’organo giudiziario presso cui è costituito (art. 51.3). Le funzioni del pm nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono svolte, presso il tribunale monocratico e collegiale da un ufficio denominato Procura della Repubblica presso il tribunale. Per i giudizi d’appello vi è una procura generale presso la corte d’appello. Presso la cassazione vi è un ufficio di procura generale. Il pm: a) Veglia sull’osservanza delle leggi, sulla regolare amministrazione della giustizia e sulla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci; b) Promuove la repressione dei reati (indagini); c) La Costituzione (art. 112) gli impone di esercitare l’azione penale a meno di archiviazione; d) Fa eseguire i giudicati ed ogni altro provvedimento del giudice. Egli svolge nel procedimento la funzione di parte pubblica. Egli rappresenta l’interesse dello stato- comunità e cioè l’interesse della collettività leso dal reato. Il magistrato che fa parte dell’ufficio del pm: ha una piena indipendenza di status regolata dalla Costituzione; è inamovibile nel grado e nella sede; 22 a) i procedimenti sono connessi a norma dell’art. 12; b) se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il profitto, il prezzo, il prodotto o l’impunità; c) se la prova di più reati deriva anche in parte dalla stessa fonte. La proposta di Giovanni Falcone, poi approvata dal Parlamento, è stata quella di istituire le procure distrettuali e di porle sotto il controllo e lo stimolo del procuratore nazionale antimafia. La procura distrettuale è l’ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di ciascuno dei ventisei distretti di corte d’appello. L’ufficio svolge le funzioni del pubblico ministero in primo grado in relazione ai delitti: di criminalità organizzata mafiosa e assimilati (art. 5.3-bis), dei delitti con finalità di terrorismo, ai delitti consumati o tentati in materia di pedopornografia, di reati informatici, di intercettazione abusiva. All’interno della procura distrettuale è costituita una Direzione Distrettuale Antimafia (D.D.A.) che si dedica esclusivamente ai procedimenti attinenti alla criminalità organizzata mafiosa e assimilati. Essa fa sì che le indagini sulla criminalità mafiosa siano attribuite alle ventisei procure distrettuali, questo permette che vi sia un coordinamento tra gli stessi. La procura nazionale antimafia è un ufficio con sede in Roma; è nominato dal CSM in seguito ad un accordo (definito concerto) col ministro della Giustizia. La direzione nazionale è composta da venti magistrati del pubblico ministero nominati dal CSM, sentito il procuratore nazionale. Il procuratore nazionale antimafia ha compiti di controllo che gli permettono di verificare se sia effettivo il coordinamento tra i singoli uffici del pubblico ministero che stanno compiendo indagini per i delitti di criminalità mafiosa ed assimilati; in caso di mancato coordinamento, il procuratore nazionale deve avocare le indagini (art. 371-bis). Il procuratore nazionale ha poteri sia di impulso nei confronti dei procuratori distrettuali, sia di controllo sull’attività degli organi centralizzati di polizia giudiziaria. Egli non può dare direttive vincolanti nel merito alle procure distrettuali, e non può compiere direttamente indagini, ma può avocare le indagini condotte da quella procura distrettuale che abbia dimostrato una grave inerzia o che non abbia voluto coordinarsi con gli altri uffici. LA POLIZIA GIUDIZIARIA POLIZIA GIUDIZIARIA E SICUREZZA Lo Stato tutela l’ordine e la legalità servendosi delle forze di polizia: la Polizia di Stato, l’Arma dei Carabinieri, la Guardia di finanza, il Corpo di polizia penitenziaria e il Corpo forestale dello Stato. La polizia amministrativa si occupa dell’osservanza della legge e dei regolamenti amministrativi, in esecuzione delle funzioni proprie del potere esecutivo. La polizia di sicurezza ha come compito la tutela della collettività, dell’ordine pubblico e della sicurezza delle persone: prevenzione dei reati. La polizia giudiziaria deve, anche di propria iniziativa, prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale (art. 55) 25 La distinzione tra polizia giudiziaria e di sicurezza —> Quando svolge la funzione amministrativa o di sicurezza, la polizia di regola non gode di poteri coercitivi, e cioè non può direttamente limitare le libertà fondamentali. Viceversa, non appena giunge la notizia che è stato commesso un reato, viene esercitata la funzione di polizia giudiziaria con l’uso dei poteri coercitivi. In situazioni di necessità ed urgenza la polizia giudiziaria procede all’arresto in flagranza o al fermo di una persona gravemente indiziata (artt. 380-384); inoltre, in caso di flagranza può perquisire persone o luoghi (art. 352). La funzione di polizia di sicurezza è diretta da un organo unitario, e cioè il ministro dell’interno; in sede locale la direzione spetta al prefetto e al questore. La dipendenza funzionale della polizia giudiziaria —> La funzione di polizia giudiziaria è svolta sotto la direzione del pubblico ministero (art. 56) e sotto la sorveglianza del procuratore generale presso la corte d’appello. La sorveglianza sul corretto esercizio della funzione di polizia giudiziaria spetta ai ventisei procuratori generali presso le corti d’appello. LA DIPENDENZA DALL’AUTORITA’ GIUDIZIARIA Le sezioni di polizia giudiziaria —> Il maggior grado di dipendenza è riscontrabile nelle sezioni. Si tratta di organi costituiti presso gli uffici del pubblico ministero di primo grado e composti, di regola, da ufficiali e agenti della polizia di Stato, dei carabinieri e della guardia di finanza. Le sezioni svolgono esclusivamente funzioni di polizia giudiziaria sotto la dipendenza del capo del singolo ufficio del pubblico ministero, che dirige e coordina le attività. Il singolo magistrato del pubblico ministero incarica delle indagini nominativamente un ufficiale di polizia giudiziaria. I servizi di polizia giudiziaria —> qui si riscontra un minor grado di dipendenza funzionale. Questi sono costituiti presso i corpi di appartenenza (questure, comandi dei carabinieri e della guardia di finanza); si considerano servizi tutti gli uffici e le unità ai quali è affidato dalle rispettive amministrazioni il compito di svolgere in via prioritaria e continuativa le funzioni di polizia giudiziaria (art. 12 disp. att.). Il minor grado di dipendenza funzionale consiste nel fatto che il magistrato del pubblico ministero dà un incarico non personalmente ad un ufficiale di polizia giudiziaria, bensì impersonalmente all’ufficio; sarà il responsabile di questo a scegliere l’ufficiale che condurrà le investigazioni. Gli altri uffici di polizia giudiziaria —> Gli organi di polizia giudiziaria che non sono ricompresi nelle sezioni o nei servizi restano, comunque, sotto la dipendenza funzionale della magistratura. Il potere disciplinare spettante alla magistratura è azionabile dal procuratore generale presso la corte d’appello. Soggetta alla giurisdizione disciplinare è, oltre al personale delle sezioni e dei servizi, qualsiasi altra persona che abbia la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. Oggetto del potere disciplinare sono tutti gli illeciti che riguardano l’espletamento dei compiti di polizia giudiziaria. UFFICIALI E AGENTI DI POLIZIA GIUDIZIARIA Sono ufficiali di polizia giudiziaria con competenza generale i soggetti previsti nell’art. 57.1. Si tratta delle persone alle quali l’ordinamento dell’amministrazione della pubblica sicurezza riconosce tale qualità, ed inoltre gli ufficiali superiori e inferiori ed i sottufficiali dei carabinieri, della guardia di finanza, del corpo di polizia penitenziaria e del corpo forestale dello Stato. Sono ufficiali e agenti di polizia giudiziaria con competenza limitata a determinati reati i soggetti previsti nell’art. 57.3: sono altresì ufficiali e agenti di polizia giudiziaria le persone alle quali le leggi e i regolamenti attribuiscono le funzioni previste dall’art. 55, e cioè le funzioni di polizia giudiziaria. 26 L’IMPUTATO All’inizio del procedimento penale le indagini possono svolgersi contro ignoti oppure contro un indagato. La polizia giudiziaria trasmette la denuncia al pubblico ministero e questi ordina alla segreteria di iscriverla nell’apposito registro, denominato registro delle notizie di reato (art. 335). L’imputato è la persona alla quale è attribuito il reato nell’imputazione formulata con la richiesta di rinvio a giudizio o con l’atto omologo nell’ambito del singolo procedimento speciale. L’imputazione è composta dalla enunciazione in forma chiara e precisa del fatto storico di reato e dalla indicazione delle norme di legge violate e della persona alla quale il reato è addebitato (art. 417). Nel procedimento ordinario l’assunzione della qualifica di imputato avviene con la richiesta di rinvio a giudizio. Viceversa, nei procedimenti speciali la qualifica di imputato si acquista nel momento in cui si instaura il singolo rito. La qualità di imputato si conserva, ai sensi dell’art. 60.2, in ogni stato e grado del processo sino a che non sia più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere, sia divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento o di condanna, o sia diventato esecutivo il decreto penale di condanna. La qualità di indagato —> Il legislatore vuole che il pubblico ministero prenda una posizione definitiva sull’addebito soltanto quando, terminate le indagini preliminari, chiede il rinvio a giudizio. Infatti, l’imputazione deve essere sorretta da una consistente base probatoria. Occorre che gli elementi, raccolti nelle indagini preliminari, devono essere tali che, se confermati in dibattimento, possano permettere al pubblico ministero di chiedere la condanna dell’imputato. Prima che sia stata formulata una imputazione, il codice fa riferimento alla persona sottoposta alle indagini preliminari. L’INTERROGATORIO Il codice prevede che l’interrogatorio possa essere svolto da vari soggetti; facciamo l’ipotesi che l’interrogatorio sia svolto dal pubblico ministero nelle indagini preliminari. Le regole generali dell’interrogatorio sono precisate nell’art. 64. Dall’interrogatorio si potranno ottenere dichiarazioni soltanto se e nei limiti in cui l’indagato decida liberamente di renderle. La norma si propone, infatti, di rispettare la libera scelta di tale soggetto. l’art. 64.2 fa divieto di utilizzare, anche se vi fosse il consenso dell’indagato, metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti. In base al c. 3 l’indagato riceve una serie di avvisi prima che abbia inizio l’interrogatorio: a. È avvertito che le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti. Se l’autorità inquirente omette di rivolgere il predetto avviso, o lo rivolge in modo incompleto, il codice stabilisce che le dichiarazioni rese dall’interrogato sono inutilizzabili. b. L’indagato deve essere avvertito che ha la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda; egli è avvertito altresì che ha l’obbligo di rispondere secondo verità sulla sua identità personale. Anche in questo caso, l’omissione o l’irritualità dell’avviso è sanzionata con l’inutilizzabilità. c. l’indagato è avvertito che se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone. Le regole dell’interrogatorio sul merito —> sono contenute nell’art. 65. Il pubblico ministero, prima di rivolgere domande all’indagato, deve: rendergli noto in forma chiara e precisa il fatto che gli è attribuito; quindi deve indicargli gli elementi di prova esistenti contro di lui; 27 LA RAPPRESENTANZA TECNICA Si può definire difesa la tutela contro un attacco che venga mosso ai diritti di un soggetto con qualsiasi procedura giudiziaria. In particolare, la difesa penale è quella forma di tutela che permette all’imputato di ottenere il riconoscimento della piena innocenza o comunque di essere condannato ad una sanzione non più grave di quella applicabile secondo la legge. La difesa è un diritto, e cioè consiste nel potere di esigere da altri soggetti un comportamento conforme alla legge. Il diritto di difesa può essere esercitato sia personalmente (autodifesa), sia per mezzo del difensore (difesa tecnica). Esempio di autodifesa è il diritto, spettante all’indagato, di ricevere personalmente notizia del procedimento penale in corso attraverso l’informazione di garanzia. Esempio di difesa tecnica è il potere del difensore di condurre l’esame incrociato (art. 498). Il difensore è una persona che ha particolare competenza tecnico-giuridica e che ha determinate qualifiche di tipo penalistico, privatistico e processuale. La qualifica penalistica è quella di esercente un servizio di pubblica necessità; la qualifica privatistica si individua nel rapporto di prestazione di opera intellettuale che lega il difensore al cliente (art. 2230 c.c.); la qualifica processualistica è quella di rappresentante tecnico della parte. La rappresentanza tecnica è il potere, conferito al difensore, di compiere atti processuali per conto del cliente. La rappresentanza tecnica è conferita dal cliente al difensore mediante una procura ad litem. La rappresentanza volontaria per gli atti personali —> Quando si deve compiere nel procedimento un atto personale e non può essere presente la parte assistita, è necessario che la parte conferisca una rappresentanza volontaria al difensore o ad altra persona di sua fiducia, e ciò lo può fare soltanto con la procura speciale a compiere un determinato atto (art. 122). Ci sono atti personalissimi per i quali non vi può essere rappresentanza volontaria; (es. rendere l’interrogatorio o l’esame incrociato). Rapporti difensore-imputato —> Tra l’imputato ed il proprio difensore esiste una rappresentanza tecnica che assume la forma della assistenza nel senso che l’imputato può sempre compiere personalmente gli atti che non siano per legge riservati al difensore. Assistenza può essere definita come quella particolare forma di rappresentanza tecnica che non esclude l’autodifesa del soggetto assistito. Il diritto di autodifesa dell’imputato prevale sul diritto alla difesa tecnica, in considerazione del fatto che nel procedimento penale è in questione un diritto di libertà. Il rapporto tra il cliente ed il difensore ha natura fiduciaria. Prima dell’accettazione del mandato, il difensore può rifiutare la nomina; è sufficiente che lo comunichi immediatamente a colui che l’ha effettuata ed all’autorità che procede. La non accettazione ha effetto dal momento in cui è comunicata a quest’ultima (art. 107.1 e 2). Dopo che ha accettato il mandato, il difensore può rinunciare allo stesso. La rinuncia non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore e non sia decorso il termine a difesa, non inferiore a sette giorni, che sia stato concesso a quest’ultimo; fino a tale momento la parte è rappresentata dal difensore rinunciante. Lo stesso avviene quando il cliente revoca il mandato al difensore (art. 107.4). Il difensore non è il giudice del proprio cliente; egli ha un dovere di correttezza, ma non ha l’obbligo di ricercare e introdurre nel processo gli elementi sfavorevoli alla parte assistita. La differenza fondamentale rispetto al pubblico ministero sta nel fatto che il difensore collabora all’accertamento dei fatti limitandosi a presentare gli elementi a favore del cliente: non ha l’obbligo di ricercare la verità contro il cliente. Egli persegue un interesse privato e non pubblico. DIFENSORE DI FIDUCIA E DIFENSORE D’UFFICIO 30 L’imputato ha il diritto di farsi assistere da non più di due difensori di sua scelta (denominati difensori di fiducia). La nomina è un atto a forma libera e può essere effettuata in tre modi: 1) con dichiarazione, scritta o orale, resa dall’indagato all’autorità procedente; 2) con dichiarazione scritta consegnata all’autorità procedente dal difensore; 3) con dichiarazione scritta trasmessa all’autorità procedente con raccomandata. Ove l’indagato si trovi in stato di fermo, arresto o custodia cautelare, la nomina può essere fatta, con le stesse forme, da un prossimo congiunto, finché l’indagato stesso non vi provveda. Quando l’indagato non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo, il codice prevede l’istituto della difesa d’ufficio (art. 97). L’imputato non potrebbe esercitare una autodifesa esclusiva neanche se avesse la qualità di avvocato. La designazione del difensore d’ufficio spetta al consiglio dell’ordine degli avvocati di ciascun distretto di corte d’appello. Quando il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria devono compiere un atto per il quale è prevista l’assistenza del difensore e l’imputato ne sia privo, essi devono chiedere il nominativo del difensore d’ufficio al consiglio dell’ordine del distretto. La difesa d’ufficio ha la funzione di attuare il contraddittorio in un processo basato sul principio dialettico. L’imputato assistito da un difensore d’ufficio ha piena libertà di scelta della linea difensiva: egli può togliere effetto all’atto compiuto dal difensore e può nominarne uno di fiducia, così che il difensore d’ufficio cessa delle sue funzioni. Il difensore d’ufficio, poiché non svolge una funzione di assistenza sociale, ha diritto ad essere retribuito. Il difensore, qualunque sia la parte che lo abbia designato, ha il potere di nominare un sostituto. Questi esercita i diritti e assume i doveri del difensore medesimo (art. 102.2). La nomina del sostituto non è condizionata al caso di impedimento del titolare e può avvenire per qualsiasi motivo. IL DIFENSORE DELLA PERSONA OFFESA L’offeso può nominare il difensore nelle medesime forme semplificate che sono previste per il difensore dell’imputato. L’offeso ha il potere di esercitare quei diritti e facoltà che sono a lui espressamente riconosciuti dalla legge. L’offeso può agire anche personalmente nel procedimento; ad esempio, può presentare memorie ed indicare elementi di prova. L’offeso non può (a differenza dell’imputato) togliere effetto ad un atto del proprio difensore; l’unico modo che ha per evitare una difesa tecnica non gradita è quello di revocare la nomina del difensore e nominarne un altro. IL DIFENSORE DELLE PARTI PRIVATE DIVERSE DALL’IMPUTATO (ES. PARTE CIVILE) Ai sensi dell’articolo 100, la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria stanno in giudizio col ministero di un difensore. La rappresentanza tecnica —> L’atto, mediante il quale la parte civile conferisce al difensore la procura ad litem, è denominato procura speciale (art. 100.1). La procura ad litem si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo. In forza di tale atto, il difensore può compiere e ricevere per conto della parte rappresentata tutti gli atti del procedimento che dalla legge non sono a essa espressamente riservati. La rappresentanza volontaria —> Perché possa compiere atti in nome della parte rappresentata, il difensore deve essere munito della procura speciale, con la quale il cliente può nominarlo proprio 31 procuratore speciale per il compimento di determinati atti. In forza di tale rappresentanza volontaria il difensore può compiere atti che incidono sulla situazione giuridica sostanziale della parte rappresentata, in nome e per conto della stessa: si tratta di un’ulteriore procura speciale. IL PATROCINIO PER I NON ABBIENTI La legge 217/1990 (sostituita dal Testo unico spese di giustizia) ha istituito il patrocinio a spese dello Stato in favore delle persone che hanno un reddito annuo non superiore a euro 11.000. Il patrocinio è concesso su istanza ai soggetti che sono (o possono diventare) parti private. Il patrocinio a spese dello Stato assicura la difesa tecnica nel procedimento penale per reati non di tipo tributario. L’istanza di ammissione al patrocinio è sottoscritta dal non abbiente; il difensore ne autentica la firma e può presentare l’istanza stessa. Le false dichiarazioni sono punite con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309,87 a 1549,37. L’ammissione al patrocinio a spese dello Stato è deliberata dal magistrato davanti al quale pende il processo o da quello che ha emesso il provvedimento impugnato, se procede la cassazione; nel corso delle indagini è deliberata dal giudice per le indagini preliminari. La legge consente che la persona, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nomini un consulente tecnico anche fuori dei casi di perizia. Inoltre, il difensore può nominare un sostituto o un investigatore privato autorizzato al fine di svolgere l’attività di investigazione difensiva. L’INCOMPATIBILITA DEL DIFENSORE L’art. 106.1 prevede la possibilità che la difesa di più imputati sia assunta da un difensore comune purché le diverse posizioni non siano tra loro incompatibili. L’incompatibilità non deriva dalla semplice diversità tra le affermazioni di diversi imputati o tra le loro posizioni processuali, ma deve sussistere in concreto un nesso di interdipendenza in base al quale un imputato abbia effettivamente interesse a sostenere una tesi difensiva sfavorevole ad un altro imputato. L’incompatibilità può essere eliminata in due modi: mediante la rinuncia del difensore a sostenere una o più difese; mediante la revoca della nomina da parte dell’imputato. Se l’incompatibilità è rilevata nel corso delle indagini preliminari, il provvedimento di sostituzione è adottato dal giudice su richiesta del pubblico ministero o di taluna delle parti private, sentite le parti interessate. L’ABBANDONO ED IL RIFIUTO DELLA DIFESA L’art. 105.1 riconosce al consiglio dell’ordine forense la competenza esclusiva per le sanzioni disciplinari relative ai casi di abbandono della difesa o di rifiuto della difesa di ufficio. L’articolo 105.3 dispone che se l’abbandono o il rifiuto sono motivati da violazioni del diritto di difesa e il consiglio dell’ordine ritiene giustificato il comportamento del difensore, la sanzione non si applica, anche se il giudice ha escluso la sussistenza della violazione del diritto di difesa. Si tratta di una norma importante, poiché conferma l’indipendenza dell’ordine forense rispetto all’ordine giudiziario. LA GARANZIA PER IL LIBERO ESERCIZIO DELL’ATTIVITÀ DIFENSIVA 32 L’esercizio dell’azione civile nel processo penale è fondato su due regole: l’azione civile resta ospite nel processo penale : comporta che l’azione civile mantenga la sua natura e le sue caratteristiche civilistiche. L’azione resta facoltativa e disponibile, nel senso che il danneggiato in ogni momento del processo penale può revocare la costituzione di parte civile (art. 82). l’azione civile subisce la regolamentazione di quest’ultimo : comporta che i poteri ed il comportamento processuale della parte civile sono disciplinati dal codice di procedura penale. La parte civile ha il dovere di deporre con l’obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità, quando sia citata come testimone, al contrario del processo civile. Il danneggiato che eserciti l’azione civile nel processo penale incontra vantaggi: non anticipa le spese del procedimento, non deve affannarsi a ricercare le prove; inoltre gode dei tempi più ristretti della Giustizia penale rispetto a quella civile. La costituzione di parte civile deve essere fatta mediante una apposita dichiarazione resa per scritto ai sensi dell’art. 78; la quale deve essere sottoscritta dal difensore della parte civile; essa deve contenere a pena di inammissibilità i seguenti elementi: a. le generalità della persona fisica; b. le generalità dell’imputato nei cui confronti viene esercitata l’azione civile; c. il nome e il cognome del difensore e la indicazione della procura a questi rilasciata; d. l’esposizione delle ragioni che giustificano la domanda, che consiste nella richiesta al giudice di pronunciare la condanna dell’imputato al risarcimento del danno (petitum). Le ragioni consistono nei motivi per i quali si asserisce che il reato ha provocato un danno patrimoniale o non patrimoniale (causa petendi). I motivi consentono al giudice di valutare se il richiedente è legittimato a costituirsi parte civile; e. la sottoscrizione del difensore. Vi sono due termini per costituirsi parte civile: il primo scatta all’inizio dell’udienza preliminare nel momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti, l’altro nel momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti prima dell’inizio del dibattimento. Dopo tale momento la dichiarazione di costituzione di parte civile è inammissibile. La costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo (c.d. principio di immanenza della costituzione di parte civile; art. 76.2). Se non esistono i presupposti sostanziali o i requisiti formali per la costituzione di parte civile, il giudice, con ordinanza, ne dispone l’esclusione su richiesta motivata del pubblico ministero, dell’imputato o del responsabile civile ovvero d’ufficio. Revoca della parte civile —> La presenza della parte civile viene meno anche nelle ipotesi di revoca espressa o tacita: È espressa la revoca effettuata con dichiarazione resa in udienza dalla parte civile personalmente o da un suo procuratore speciale; si ha invece revoca tacita qualora la parte civile non presenti le proprie conclusioni scritte in dibattimento al momento della discussione finale. Il danneggiato dal reato può esercitare l’azione di danno davanti al giudice civile e può restare inerte, e cioè non esercitare l’azione risarcitoria né in sede penale, né in sede civile. Se il danneggiato resta inerte, corre il rischio che il giudice penale assolva l’imputato con una formula ampia, che acquista la 35 forza del giudicato. Nell’altro caso, l’azione civile può svilupparsi senza subire sospensioni; un’eventuale assoluzione dell’imputato nel processo penale non vincola il giudice civile né gli impedisce di condannare l’imputato-convenuto al risarcimento del danno. OFFESO E DANNEGGIATO NEL CODICE DEL 1988 Il codice del 1988 ha riconosciuto alla persona offesa un ruolo meramente penalistico, e cioè un interesse ad ottenere soltanto la persecuzione penale del colpevole del reato; viceversa, al danneggiato che si sia costituito parte civile il codice ha voluto riconoscere un ruolo meramente civilistico, e cioè ha inteso tutelarne soltanto l’interesse ad ottenere il risarcimento del danno derivante dal reato. Nelle indagini preliminari è tutelata soltanto la persona offesa dal reato nel suo interesse penalistico ad ottenere il rinvio a giudizio dell’imputato; non viene in nessun modo tutelata la situazione soggettiva di danneggiato dal reato. ALTRI SOGGETTI DEL PROCEDIMENTO PENALE GLI ENTI RAPPRESENTATIVI DI INTERESSI LESI DAL REATO Nel procedimento possono essere presenti altri soggetti oltre alla persona offesa dal reato ed alla parte civile: l’ente rappresentativo di interessi lesi dal reato (art. 91); il responsabile civile (art. 83); la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria (art. 89); e gli enti responsabili in via amministrativa per i reati commessi da loro rappresentanti o dirigenti. Un soggetto che si può qualificare come persona offesa di creazione politica è l’ente o associazione rappresentativa di un interesse leso dal reato. L’ente può esercitare in ogni stato e grado del procedimento i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa dal reato; l’ente è un soggetto del procedimento e non una parte. L’ente rappresentativo dell’interesse leso dal reato è soltanto un soggetto che si colloca come accusatore a fianco del pubblico ministero, senza poter esercitare né l’azione penale, né l’azione civile di danno. IL RESPONSABILE CIVILE Il responsabile civile è il soggetto obbligato a risarcire il danno causato dall’autore del reato. Può essere citato nel processo penale a richiesta della parte civile (art. 83) o può intervenire volontariamente quando vi è stata costituzione di parte civile (art. 85). Se il danneggiato esercita, nel processo penale, l’azione civile risarcitoria contro l’imputato, può anche scegliere di chiedere la condanna del responsabile civile. Il responsabile civile può intervenire volontariamente nel processo penale per chiedere l’ammissione di prove che lo liberino da responsabilità o che dimostrino l’innocenza dell’imputato. Il responsabile civile è una parte eventuale del processo penale perché la sua presenza richiede che, in primo luogo, il danneggiato si sia costituito parte civile e, in secondo luogo, che il responsabile civile sia stato citato o sia intervenuto volontariamente. LA PERSONA CIVILMENTE OBBLIGATA PER LA PENA PECUNIARIA La persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria è una parte eventuale del processo penale: essa è citata a richiesta del pubblico ministero o dell’imputato (art. 89). 36 In base all’art. 196 i soggetti civilmente obbligati al pagamento della pena pecuniaria sono individuati nelle persone che sono rivestite di autorità, direzione o vigilanza sull’autore del reato, se si tratta di violazioni di disposizioni che le predette persone erano tenute a far osservare. GLI ENTI RESPONSABILI IN VIA AMMINISTRATIVA PER I REATI COMMESSI DA LORO RAPPRESENTANTI O DIRIGENTI Il d.lgs. 231/2001 ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo tipo di responsabilità amministrativa, attribuita alle persone giuridiche ed alle società e associazioni in relazione ai reati commessi, nell’interesse o a vantaggio dell’ente, da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione dell’ente medesimo. Si tratta di una responsabilità limitata ad alcuni reati, come i delitti di concussione, corruzione, di indebita percezione di erogazioni, di truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico. Agli enti è addebitata una responsabilità di tipo amministrativo. 2. GLI ATTI GLI ATTI DEL PROCEDIMENTO PENALE CONSIDERAZIONI GENERALI Viene definito atto del procedimento penale quell’atto che è compiuto da uno dei soggetti (giudice, pubblico ministero, polizia giudiziaria, parti private, ecc.) e che è finalizzato alla pronuncia di un provvedimento penale (sia esso una sentenza, una ordinanza o un decreto); rientrano nel concetto di atto sia gli atti delle indagini preliminari, sia gli atti dell’udienza preliminare e del giudizio. Atti a forma vincolata: Gli atti più importanti del procedimento. Es. art. 125.1, secondo cui la legge stabilisce i casi nei quali il provvedimento del giudice assume la forma della sentenza, dell’ordinanza o del decreto. Atti a forma libera —> Quando il codice non impone una forma vincolata. Tutti gli altri provvedimenti del giudice sono adottati senza formalità e anche oralmente. Gli atti del procedimento sono compiuti in lingua italiana (Art. 109.1). Se il cittadino italiano appartiene ad una minoranza linguistica riconosciuta, egli è, a sua richiesta, interrogato o esaminato nella madrelingua e il relativo verbale è redatto anche in tale lingua. Sottoscrizione degli atti —> (art. 110) La sottoscrizione avviene di propria mano, in fine dell’atto (c. 1); non è valida la sottoscrizione apposta con mezzi meccanici o con segni diversi dalla scrittura (c. 2). Data e luogo di formazione degli atti —> (art. 111.1) quando la legge richiede la data di un atto, sono indicati il giorno, il mese, l’anno e il luogo in cui l’atto è compiuto. L’indicazione dell’ora è necessaria solo se espressamente prescritta. Il codice tratta materie attinenti prevalentemente agli atti di indagine preliminare. Si tratta, in particolare, del divieto di pubblicazione di atti del procedimento. Copie, estratti e certificati —> (art. 116.1) durante il procedimento e dopo la sua definizione chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti. Il rilascio avviene su autorizzazione, disposta dal pubblico ministero o dal giudice che 37 Tra gli atti che costituiscono espressione del potere coercitivo si può collocare l’accompagnamento coattivo (artt. 132 e 133). L’istituto consiste in una restrizione della libertà personale poiché l’accompagnamento può essere eseguito con la forza (si tratta di una limitazione della libertà). L’accompagnamento coattivo ha una finalità limitata che è quella di condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile la acquisizione di un contributo probatorio. Tra i destinatari del provvedimento di accompagnamento coattivo vi sono sia l’imputato o indagato (art. 132), sia le altre persone indicate nell’art. 133 (il testimone, il perito, il consulente tecnico, l’interprete ed il custode di cose sequestrateI). Il potere del giudice è molto ampio perché concerne i procedimenti per qualsiasi reato anche di minima entità. Per quanto riguarda l’imputato e l’indagato, l’accompagnamento di regola deve essere preceduto da un invito a presentarsi o da una citazione rimaste senza effetto. L’art. 133 detta una apposita norma per le persone diverse dall’imputato che omettono di comparire senza addurre un legittimo impedimento: il giudice, oltre a disporre l’accompagnamento, può condannarle al pagamento di una somma di denaro e alle spese processuali alle quali la mancata comparizione ha dato causa. GLI ATTI DELLE PARTI Atti delle parti sono le richieste, le memorie o le conclusioni, che devono essere presentate al termine del dibattimento. In altri casi il codice prevede il consenso, l’accettazione, la rinuncia o la revoca. Infine, è atto delle parti l’impugnazione, che è regolamentata nell’art. 581. È richiesta ogni tipo di domanda che le parti rivolgono al giudice al fine di ottenere una decisione (richiesta di procedere ad incidente probatorio, richiesta della parte civile di ottenere la provvisoria esecuzione della condanna al risarcimento del danno). Sulle richieste ritualmente formulate dalle parti il giudice deve provvedere senza ritardo e comunque entro quindici giorni. Se non adempie a tale obbligo, la parte può presentargli formale istanza ai sensi dell’art. 3 l. 117/1988 sulla responsabilità dei magistrati. A questo punto il giudice deve decidere entro trenta giorni. L’inosservanza delle norme del codice può dar luogo ad una responsabilità disciplinare ai sensi dell’art. 124. L’altro modello generale è la memoria, che ha un contenuto meramente argomentativo teso ad illustrare questioni in fatto o in diritto. Nel codice si trovano le memorie che la persona offesa può presentare in ogni stato e grado del procedimento (art. 90). IL PROCEDIMENTO IN CAMERA DI CONSIGLIO (art. 125.4) il giudice delibera in segreto i propri provvedimenti in camera di consiglio (luogo in cui il giudice si ritira per formare il proprio convincimento sulla singola questione da decidere). Per camera di consiglio qui si intende la modalità di svolgimento di un’attività giurisdizionale, alla quale le parti e le altre persone interessate (es. l’offeso) hanno il diritto di partecipare. Il procedimento in camera di consiglio presenta due caratteristiche: l’assenza del pubblico (art. 127.6) la non necessaria partecipazione delle parti, delle persone interessate e dei loro difensori (art. 127.3). Il modello ordinario —> L’atto iniziale è il decreto di fissazione dell’udienza. Alle parti, agli altri interessati ed ai loro difensori è dato avviso della data fissata per l’udienza almeno dieci giorni prima della stessa. Fino a cinque giorni prima dell’udienza gli interessati possono presentare memorie presso la cancelleria del giudice. 40 Il contraddittorio eventuale —> All’udienza il contraddittorio è soltanto eventuale, perché la partecipazione delle parti, degli interessati e dei loro difensori è facoltativa. Il giudice ha comunque l’obbligo di ascoltare, a pena di nullità, tutti coloro che intervengono all’udienza. Se l’imputato o il condannato sono detenuti in luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice, alla loro audizione deve procedere a pena di nullità il magistrato di sorveglianza prima che abbia luogo l’udienza in camera di consiglio (art. 127.3). Il provvedimento conclusivo della procedura camerale assume la forma dell’ordinanza, che è impugnabile mediante ricorso per cassazione. LA DOCUMENTAZIONE DEGLI ATTI Gli atti del procedimento penale devono essere documentati perché se ne possa conservare traccia. Il codice prevede che a tale documentazione si provveda mediante verbale (...) che contiene la menzione del luogo, dell’anno, del mese, del giorno e, quando occorre, dell’ora in cui è cominciato e chiuso, le generalità delle persone intervenute (...); esso deve riprodurre sia la domanda, sia la risposta. Mediante il verbale l’ausiliario si limita ad attestare quello che è avvenuto in sua presenza e le dichiarazioni ricevute; spetterà poi al giudice valutare se le dichiarazioni rese sono vere o false. Il valore probatorio. Il codice del 1988 ha eliminato il valore fidefacente del verbale (a differenza della normativa previgente) e non ha riprodotto l’istituto dell’incidente di falso. Ciò comporta che il verbale di un atto del procedimento può essere sottoposto ad una verifica da parte del giudice quanto alla correttezza e veridicità della descrizione di ciò che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuto in sua presenza. In dibattimento di regola deve essere redatto il verbale in forma integrale con la stenotipia o altro strumento meccanico ovvero, in caso di impossibilità di ricorso a tali mezzi, con la scrittura manuale (art. 134.2). Una seconda modalità di documentazione è il verbale in forma riassuntiva (art. 134.3); riassuntivo non significa riassunto del concetto delle dichiarazioni, ma solo sommaria esposizione degli elementi extra-dichiarativi. Quando il verbale è redatto in forma riassuntiva deve essere effettuata anche la riproduzione fonografica. Il verbale in forma riassuntiva senza riproduzione fonografica: si effettua quando gli atti da verbalizzare hanno contenuto semplice o limitata rilevanza (art. 140.1). Si tratta della verbalizzazione in forma riassuntiva senza riproduzione fonografica. LA NOTIFICAZIONE Considerazioni preliminari Nel corso del procedimento penale sorge più volte l’esigenza di fornire conoscenza di atti a determinate persone, perché queste possano esercitare i propri diritti o adempiere ai propri doveri. La notificazione è lo strumento previsto dalla legge per rendere noto al destinatario un atto (o una attività) del procedimento; di regola essa è eseguita mediante la consegna, al destinatario, della copia dell’atto stesso. Questo può essere un atto del procedimento (es. la richiesta di archiviazione), o l’avviso di una attività già compiuta o da compiere (es. l’avviso che è depositato in segreteria il verbale di un atto di indagine). L’organo che esegue la notificazione è, di regola, l’ufficiale giudiziario o chi ne esercita le funzioni (art. 148). 41 Il codice ha voluto da un lato, portare alla conoscenza effettiva del destinatario l’atto da notificare, da un altro, l’esigenza di accertare il reato e assicurare la celerità degli adempimenti formali, in modo da non ritardare il corso del procedimento penale. Il codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. 196/2003) ha voluto tutelare la riservatezza della persona destinataria della notifica. Infatti, quando la notifica non può essere eseguita in mani proprie del destinatario, l’atto è consegnato in busta sigillata (es. al portiere). La relazione di notificazione è il verbale di una attività compiuta; come tale, è destinata a far prova di quanto il pubblico ufficiale ha compiuto e dei fatti da lui constatati. La notificazione produce effetto per ciascun destinatario dal giorno della sua esecuzione (art. 168.3); pertanto, da tale momento l’atto si presume conosciuto dal destinatario. I soggetti legittimati a disporre le notificazioni Notificazioni disposte dal giudice —> Nei procedimenti con detenuti ed in quelli davanti al tribunale del riesame il giudice può disporre che, in caso di urgenza, le notificazioni siano eseguite dalla polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti. Le notificazioni di atti del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari sono eseguite dall’ufficiale giudiziario, ovvero dalla polizia giudiziaria nei soli casi di atti di indagine o provvedimenti che la stessa è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire. Gli esempi rispettivamente sono i seguenti: la notifica dell’invito a presentarsi (art. 375) per compiere l’interrogatorio delegato alla polizia giudiziaria; la notifica di un decreto di sequestro che la polizia giudiziaria è delegata ad eseguire. Notificazioni chieste dalle parti private —> Le parti private possono effettuare le notificazioni di loro interesse secondo le regole ordinarie oppure valersi di una modalità semplificata. I destinatari delle notificazioni Le notificazioni al pubblico ministero sono eseguite nel modo ordinario o anche direttamente dalle parti mediante consegna di copia dell’atto alla segreteria. Anche le notificazioni al difensore possono essere eseguite nel modo ordinario. L’ufficio che invia l’atto deve attestare in calce ad esso di avere trasmesso il testo originale. Le notificazioni all’imputato detenuto sono eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona (art. 156.1). Se questa si rifiuta di ricevere l’atto, se ne fa menzione nella relazione di notificazione e la copia rifiutata è consegnata al direttore dell’istituto o a chi ne fa le veci. Il codice disciplina la dichiarazione o l’elezione di domicilio. Nel primo atto compiuto con l’intervento dell’imputato o dell’indagato, l’autorità procedente lo invita a dichiarare o eleggere il proprio domicilio. Dichiarare il domicilio significa indicare quel luogo, ove l’imputato abita o lavora, nel quale gli atti saranno a lui notificati; eleggere il domicilio (dal latino eligere, scegliere) comporta l’indicazione di un domiciliatario, e cioè di una persona differente dall’imputato, che viene da lui scelta per ricevere copia dell’atto da notificare. Nel caso in cui non sia stato possibile invitare l’imputato a dichiarare o eleggere il domicilio, scatta una ulteriore normativa. Di regola la prima notificazione è eseguita mediante consegna di copia alla persona (c.d. a mani proprie), e ciò può avvenire sia nel domicilio sia altrove; la notifica può anche essere eseguita mediante consegna di copia dell’atto ad una persona che conviva anche temporaneamente con l’imputato o, in mancanza, al portiere o a chi ne fa le veci. 42 3) il diritto, spettante specificamente all’arrestato, di essere informato dei motivi dell’arresto. L’art. 119 si riferisce al sordo, al muto e al sordomuto quando costoro non sappiano leggere o scrivere. In queste ipotesi eccezionalmente la qualità di interprete può essere assunta da un prossimo congiunto della persona interessata. La nomina dell’interprete è necessaria anche quando il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria hanno personale conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare (art. 143.3). Il conferimento dell’incarico impone all’interprete l’obbligo di verità e quello di conservare il segreto su tutti gli atti che si compiano per suo mezzo o in sua presenza (art. 146.2). Non può svolgere il ruolo di interprete colui che è incompatibile come teste (art. 144.1, lett. d); l’interprete è incompatibile anche con il testimone, il perito, il consulente tecnico e, più in generale, con tutte quelle persone che hanno la facoltà di astenersi dal testimoniare, quali sono il prossimo congiunto dell’imputato (art. 199) ed il titolare di un segreto professionale (art. 200). LE CAUSE DI INVALIDITÀ DEGLI ATTI CONSIDERAZIONI GENERALI I requisiti formali che devono avere i singoli atti del procedimento penale danno luogo al modello legale del singolo atto. L’atto perfetto è quello che è conforme al modello descritto dalla norma processuale; esso è valido e produce gli effetti giuridici previsti dalla legge, primo fra tutti quello di essere utilizzato dal giudice nella decisione. L’atto che non è conforme al modello legale può essere invalido o meramente irregolare. È invalido quando la singola inosservanza di legge è prevista come causa di decadenza, di inammissibilità, di nullità o di inutilizzabilità. L’atto è irregolare se la difformità dal modello legale non rientra in una delle suddette cause di invalidità; l’inosservanza di legge nel compiere l’atto non è prevista a pena di invalidità. Pertanto l’atto irregolare è valido, e il giudice potrà tenerne conto ai fini della decisione. L’atto invalido —> L’inammissibilità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta presentata da una parte quando la richiesta stessa non ha i requisiti previsti dalla legge. La decadenza comporta l’invalidità dell’atto che sia stato eventualmente compiuto dopo che è scaduto un termine perentorio (art. 173). L’inutilizzabilità è una invalidità che colpisce direttamente il valore probatorio di un atto: il giudice non può basarsi su di esso per emettere una decisione. IL PRINCIPIO DI TASSATIVITÀ Vige uno stretto principio di tassatività, nel senso che l’inosservanza della legge processuale è causa di invalidità soltanto quando una norma espressamente vi ricollega una delle invalidità di cui sopra. Il principio di tassatività è dettato specificamente per la nullità e per la decadenza; tuttavia esso è desumibile dall’intero sistema delle cause di invalidità. L’INAMMISSIBILITA Questa causa di invalidità impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta avanzata da una parte effettiva o potenziale del procedimento, quando la richiesta non ha i requisiti stabiliti dalla legge a pena di inammissibilità. Il requisito può riguardare il tempo entro il quale deve essere compiuto l’atto, il contenuto dell’atto, può toccare un aspetto formale, o ancora può riguardare la legittimazione al compimento dell’atto. 45 L’inammissibilità è rilevata dal giudice su eccezione di parte o anche d’ufficio; quando la rileva, il giudice dichiara l’inammissibilità della domanda (con ordinanza o con sentenza) e non decide sul merito della stessa. LA DECADENZA; LA RESTITUZIIONE DEL TERMINE La decadenza La decadenza denota la perdita del potere di porre in essere un atto a causa del mancato compimento dello stesso entro un termine perentorio. L’atto eventualmente compiuto oltre il termine perentorio è giuridicamente invalido. Gli strumenti che impongono una determinata cadenza al procedimento sono denominati termini; essi indicano il momento in cui un atto può o deve essere compiuto (art. 172). Sono denominati termini perentori quelli che prescrivono il compimento di un atto entro e non oltre un determinato periodo di tempo. Sono denominati termini ordinatori quelli che fissano il periodo di tempo entro il quale un determinato atto deve essere compiuto; tuttavia, a differenza dei termini perentori, l’atto è validamente compiuto anche se realizzato dopo il decorso del termine. Sono denominati termini dilatori quelli con i quali si prescrive che un atto non può essere compiuto prima del loro decorso; la prassi li definisce termini liberi. La finalità è quella di garantire che uno (o più) dei soggetti processuali abbia il tempo necessario per prepararsi al compimento di un determinato atto. I termini sono definiti acceleratori quando la legge prevede il limite temporale entro il quale un determinato atto deve essere compiuto; la finalità è quella di ottenere che il procedimento si svolga in modo celere al fine di assicurarne la ragionevole durata. Il codice, di regola, stabilisce che gli atti compiuti da una parte oltre un termine perentorio sono inammissibili. Il termine è perentorio quando è stabilito a pena di decadenza. L’art. 173.1 pone in materia un espresso principio di tassatività: i termini si considerano stabiliti a pena di decadenza soltanto nei casi previsti dalla legge. Ove la legge non preveda la decadenza, né l’inammissibilità, l’atto compiuto oltre il termine è valido. Il termine stesso, in tal caso, deve ritenersi di tipo ordinatorio. La restituzione nel termine La restituzione nel termine è un rimedio di carattere eccezionale, destinato a riassegnare alle parti la possibilità di esercitare un potere che si era estinto per l’inutile decorso di un termine processuale previsto a pena di decadenza. Il codice prevede tre differenti istituti, uno di carattere generico e due di carattere specifico: a. La restituzione in termini di tipo generico (175.1) concerne tutti i termini a pena di decadenza che non sono stati osservati per caso fortuito o forza maggiore, cioè per situazioni di impossibilità oggettiva non imputabile alla parte. Si tratta di eventi naturali (es. catastrofi, alluvioni) o fatti umani che concretano un impedimento non vincibile (es. scioperi, blocchi stradali, violenza fisica o morale esercitata da terzi, errori di operatori giudiziari). Di regola decide sulla richiesta di restituzione quel giudice che procede al tempo della presentazione della stessa; (es. il giudice del dibattimento se la richiesta è presentata in tale momento). La richiesta di restituzione generica deve essere presentata al giudice competente entro dieci giorni da quello nel quale è cessato il fatto costituente caso fortuito o forza maggiore (175.1). La restituzione (sia 46 generica, sia specifica) non può essere concessa più di una volta per ciascuna parte in ciascun grado del procedimento L’ordinanza che concede la restituzione nel termine deve essere motivata (art. 125); essa può essere impugnata non autonomamente bensì soltanto con la sentenza che decide sulla impugnazione o sull’opposizione (art. 175.5). Al contrario, l’ordinanza che respinge la richiesta di restituzione nel termine è autonomamente impugnabile: contro di essa può essere proposto ricorso per cassazione. b. La restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale. La l 67/2014, avendo eliminato l’istituto della contumacia, ha abrogato il rimedio specifico della restituzione nel termine contro la sentenza contumaciale. Quest’ultimo istituto rimane in vigore per i procedimenti nei quali alla data del 17 maggio 2014 è già stato pronunciato il dispositivo della sentenza, e ciò in base alla l 118/2014 che pone ulteriori prescrizioni di dettaglio. c. La restituzione nel termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna. I termini per la richiesta di restituzione nel termine per proporre opposizione al decreto penale di condanna sono di trenta giorni, a partire da quello in cui l’imputato ha avuto conoscenza effettiva del provvedimento; il regime probatorio è in favore dell’imputato. Ottenuta la restituzione, l’imputato può proporre opposizione. Al giudice per le indagini preliminari spetta la competenza sulla richiesta di restituzione nel termine, in quanto a lui tocca la decisione sulla ammissibilità o meno dell’opposizione. LA NULLITÀ Questa causa d’invalidità colpisce un atto del procedimento che è stato compiuto senza l’osservanza di quelle disposizioni che sono imposte dalla legge appunto a pena di nullità . Non è possibile applicare la nullità per analogia: se anche il caso appare simile ad una ipotesi sanzionata con la nullità, quest’ultima non può regolare il caso non previsto; una volta accertata una nullità, non è possibile valutare se vi sia stato un pregiudizio concreto per l’interesse protetto o se comunque l’atto nullo abbia raggiunto l’effetto. Sulla base della modalità di previsione dell’inosservanza, si distingue tra nullità speciali e generali. Le nullità speciali sono quelle previste per una determinata inosservanza precisata nella species. Le nullità generali sono previste per ampie categorie di inosservanze e sono indicate nell’art. 178. Per quanto riguarda il regime giuridico, le nullità si distinguono in tre tipi: Sono colpite da nullità assoluta le inosservanze più gravi che sono previste dall’art. 179 e che riguardano i soggetti necessari del procedimento penale. Sono rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento e sono insanabili. Sono colpite da nullità intermedia le inosservanze di media gravità che sono disciplinate nell’art. 180 e che riguardano una sfera più ampia di soggetti. Sono rilevabili anche d’ufficio, ma entro determinati limiti di tempo. Le nullità relative sono quelle nullità speciali che non rientrano tra quelle assolute e quelle intermedie (art. 181); sono dichiarate su eccezione di parte ed entro brevi limiti di tempo; inoltre sono sanabili. Nullità assolute Rientrano in questa categoria (art. 179.1) le violazioni delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice, intese nel senso di capacità generica all’esercizio della funzione giurisdizionale (es. la mancanza della laurea in giurisprudenza). 47 Le Sezioni unite della Cassazione hanno mostrato un'inedita apertura nei confronti della categoria dell'abuso del diritto. In particolare, si sono soffermate su di un'ipotesi in cui la difesa eccepiva la nullità generale ex art. 178, lett. c per il mancato riconoscimento dei termini a difesa a seguito di mutamento del difensore (art. 108). A detta della Cassazione, il diniego di termini a difesa, ovvero la concessione di termini ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108.1, non possono dar luogo ad alcuna nullità quando la relativa richiesta non risponda ad alcuna reale esigenza difensiva e l'effettivo esercizio del diritto alla difesa tecnica dell'imputato non abba subito alcuna lesione o menomazione . Nella fattispecie si era verificato un reiterato avvicendamento di difensori posto in essere in chiusura del dibattimento, secondo una strategia non giustificata da alcuna reale esigenza difensiva, ma con la sola funzione di ottenere una dilatazione dei tempi processuali con il conseguente effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione. Le Sezioni unite hanno escluso nel caso di specie qualsiasi violazione del diritto di difesa sul rilievo che lo svolgimento e la definizione del processo di primo grado erano stati ostacolati da un numero esagerato di iniziative difensive attraverso il reiterato avvicendamento di difensori in chiusura del dibattimento, la proposizione di eccezioni di nullità manifestamente infondate e di istanze di ricusazione inammissibili con il solo obiettivo di ottenere una reiterazione tendenzialmente infinita dele attività processuali. L’INUTILIZZABILITA Profili generali Il termine inutilizzabilità da un lato, indica il vizio da cui può essere affetto un atto o un documento; da un altro lato, illustra il regime giuridico al quale l’atto viziato è sottoposto, e cioè il non poter essere messo a fondamento di una decisione del giudice oppure di un atto del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. L’inutilizzabilità è un tipo di invalidità che ha la caratteristica di colpire non l’atto in sé, bensì il suo valore probatorio. L’inutilizzabilità dell’atto è: assoluta quando il giudice non può basarsi su di esso per emettere un qualsiasi provvedimento; relativa, quando la legge indica le persone nei confronti delle quali non può essere utilizzato un determinato atto o la categoria di provvedimenti che non possono basarsi su tale atto. Si ha inutilizzabilità speciale ogni qualvolta una norma del codice commini espressamente tale sanzione per il mancato rispetto delle condizioni previste per l’acquisizione di una determinata prova. L’inutilizzabilità generale si riferisce a categorie di inosservanze delineate nel genere. L’inutilizzabilità patologica consegue ad alcuni tra i vizi più gravi del procedimento probatorio (ammissione, assunzione e valutazione della prova). L’inutilizzabilità fisiologica è una conseguenza del principio della separazione delle fasi del procedimento ed è posta a tutela del principio del contraddittorio: essa tende ad evitare che siano utilizzate per la decisione prove raccolte nel corso delle indagini preliminari. In tale fase, infatti, di regola non viene garantito il principio del contraddittorio nella formazione della prova, salvo l’ipotesi dell’incidente probatorio. L’inutilizzabilità patologica L’inutilizzabilità patologica di tipo generale è disciplinata dall’art. 191.1, in base al quale le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate. 50 In base all’art. 191 l’inutilizzabilità è la conseguenza che deriva dall’aver acquisito una prova violando un divieto probatorio. Il vizio consiste nel fatto che il giudice ha esercitato nell’acquisizione di una prova un potere che la legge processuale vietava. Quando è stata violata una semplice modalità di assunzione di una prova, questa di regola è utilizzabile. L’art. 240.2 stabilisce che i documenti, i supporti e gli atti concernenti conversazioni e comunicazioni, relativi al traffico telefonico e telematico illegalmente formati o acquisiti sono inutilizzabili e debbono essere distrutti. Tale categoria ricomprende le interferenze illecite nella vita privata e le intercettazioni abusive, sanzionate dagli artt. 615-bis ss. c.p. Il regime giuridico dell’inutilizzabilità L’inutilizzabilità colpisce non l’atto in se stesso, bensì il suo valore probatorio. Il giudice d’ufficio, o su richiesta di parte, dichiara che l’atto è inutilizzabile. L’art. 191.2, pone la regola secondo cui l’inutilizzabilità deve essere rilevata anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del procedimento, e cioè dalle indagini preliminari alle impugnazioni. L’inutilizzabilità è un tipo di invalidità che si traduce direttamente in un limite al libero convincimento del giudice. I divieti probatori, per opera dell’art. 191, costituiscono una sorta di prova legale negativa nel senso che il legislatore esclude alcuni elementi di prova dal materiale che è utilizzabile dal giudice per prendere una decisione e motivarla. I divieti probatori impliciti non sono direttamente ricavabili dalla norma che disciplina una determinata prova, bensì discendono dai principi generali del sistema. Al tema dei divieti probatori impliciti si collega la questione relativa alla configurabilità della c.d. prova incostituzionale. Quegli elementi di prova che vengono acquisiti con modalità non disciplinate dal codice di rito e lesive dei diritti fondamentali dell’individuo costituzionalmente tutelati. Nel momento in cui riconosce come inviolabili alcuni diritti fondamentali dell’individuo, stabilendo che eventuali limitazioni sono consentite nei soli casi e modi stabiliti dal legislatore ordinario, la Costituzione fissa altrettanti divieti probatori. La violazione dei predetti divieti probatori costituzionali rinviene la propria sanzione e la propria disciplina nell’art. 191. Principio di non sostituibilità —> è vietato l’impiego di una prova, tipica o atipica, volto a aggirare le garanzie stabilite dagli strumenti tipici predisposti dal legislatore. Ci si chiede se sia configurabile la c.d. inutilizzabilità derivata e cioè se l’illegittimità di una prova si estenda ad un’altra prova il cui reperimento sia stato determinato dalla prima. Il caso tipico è quello della perquisizione illegittima seguita da sequestro, ma si può pensare anche ad una intercettazione inutilizzabile dalla quale si è tratta una informazione determinante per un successivo atto investigativo. Vi sono due orientamenti: l’inutilizzabilità derivata non esiste, perché in materia di inutilizzabilità non vi è una norma espressa che la commina; l’inutilizzabilità dell’atto antecedente non si estende all’atto successivo (cd. teoria del male captum bene retentum). il nesso funzionale di dipendenza tra perquisizione e sequestro comporta l’estensione della inutilizzabilità alla prova successivamente reperita. L’inutilizzabilità fisiologica Alcune norme del codice prevedono l’inutilizzabilità di determinate categorie di atti non perché questi siano stati compiuti in violazione di un divieto probatorio, ma soltanto perché sono stati acquisiti prima del dibattimento. 51 Si tratta di un uso improprio della nozione di inutilizzabilità in situazioni che sono non patologiche, bensì sono fisiologiche: l’atto è stato compiuto regolarmente, ma prima del dibattimento. Infatti, il codice pone la regola in base alla quale il giudice può utilizzare ai fini della deliberazione soltanto le prove legittimamente acquisite nel dibattimento. L’ATTO INESISTENTE E L’ATTO ABNORME L’atto inesistente —> Si tratta di una causa di invalidità che è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non essendo essa prevista espressamente nel codice. L’inesistenza di una sentenza impedisce che si formi il giudicato, di modo che l’invalidità può essere rilevata dal giudice anche dopo che la sentenza stessa sia diventata irrevocabile, e cioè non più impugnabile. Fra i casi di inesistenza possiamo ricordare i seguenti: 1) la carenza di potere giurisdizionale del giudice, come avviene nell’ipotesi di sentenza penale emessa da un organo della pubblica amministrazione; 2) la sentenza pronunciata contro un imputato totalmente incapace perché coperto dall’immunità (es. un agente diplomatico). In tali casi l’atto non esiste in senso giuridico; l’eventuale irrevocabilità della sentenza non impedisce al giudice di rilevare e dichiarare l’inesistenza. In definitiva, l’inesistenza è una deroga al principio di tassatività delle invalidità. L’atto abnorme —> può essere sottoposto a ricorso per cassazione prima dell’irrevocabilità della sentenza. È abnorme sia il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, (abnormità strutturale), sia il provvedimento che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite, quando l’atto determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo (abnormità funzionale). L’impugnabilità per cassazione del provvedimento abnorme dipende dalla sua conoscenza concreta; il termine per ricorrere è quello ordinario. CENNI SUL PROCESSO PENALE TELEMATICO Considerazioni generali Documento: è un atto esterno al procedimento penale; Documentazione: che è la rappresentazione di un atto del procedimento penale. Il processo penale telematico ha fatto la sua prima comparsa nel 2014, data a decorrere dalla quale le notificazioni a persona diversa dall'imputato devono essere necessariamente effettuate a mezzo PEC. Oltre alla notificazione vi è stata l'informatizzazione de registri generali. Il limite è la frammentarietà dei sistemi operativi e la loro limitata interoperabilità. Il punto di accesso per l'autorità giudiziaria è la consolle del magistrato. L'emergenza sanitaria ha agito come un forte acceleratore nell'introduzione di alcuni strumenti del processo penal telematico. Processo penale telematico nel periodo di emergenza sanitaria La normativa introdotta ha presentato le seguenti caratteristiche: 1) la carenza di un progetto generale di intervento; 2) la situazione di urgenza nella quale si è operato; 52 se il fatto storico non è conforme al fatto tipico, il giudice assolve l’imputato con una delle formule previste dal codice (art. 530). Il dispositivo è quella parte della sentenza nella quale il giudice emette un ordine, che può essere (in sintesi) di condanna o di assoluzione. Il contenuto logico dei tre momenti fondamentali della decisione del giudice è: L’accertamento del fatto storico —> l’accusa afferma l’esistenza di un fatto storico commesso dall’imputato, che non è certo; la difesa in tutto o in parte la nega. Il conflitto tra accusa e difesa non può essere risolto in base ad un atto di fede, bensì deve essere verificato mediante un accertamento basato su principi razionali. Il giudice deve spiegare i motivi sui quali fonda la sua convinzione. Caratteristiche per cui l’accertamento sia razionale: o deve essere basato su prove —> Provare vuol dire indurre nel giudice il convincimento che il fatto storico sia avvenuto in un determinato modo. Tale fatto deve essere rappresentato al giudice mediante altri fatti. La prova è quel procedimento logico in base al quale da un fatto noto si deducono l’esistenza del fatto storico da provare e le modalità con le quali si è veri ficato. o deve essere oggettivo —> L’accertamento, perché sia oggettivo, non deve fondarsi sulla conoscenza privata del giudice, bensì su elementi esterni, e cioè su prove. Il massimo grado di oggettività si ha quando il giudice si trova in una situazione di piena terzietà, anche di tipo psichico, rispetto alla prova. Ciò avviene quando sono le parti a ricercare la prova, a chiederne l’ammissione, ad assumerla ponendo le domande ai testimoni e agli altri soggetti che rendono dichiarazioni, come avviene nel nostro ordinamento. o deve essere basato sui principi della logica, dell’esperienza e della scienza —> basato sui principi razionali che regolano la conoscenza. L’assunzione delle prove deve permettere al giudice di valutare la credibilità e l’attendibilità di colui che rende dichiarazioni. Inoltre, il risultato di una prova deve essere messo a confronto con i risultati di altre prove: se vi è una contraddizione, questa deve essere risolta. L’accertamento, effettuato dal giudice, può dar luogo a due soluzioni alternative. Può consistere in un giudizio sull’esistenza di un fatto storico così come esso è stato descritto nell’imputazione, oppure, in un giudizio che esclude che il fatto storico si sia verificato nel modo ipotizzato dall’ accusa. L’individuazione della norma penale incriminatrice —> Si tratta di un accertamento di tipo giuridico e non di fatto. Il giudice esamina la legge penale e ricava da essa il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. Il ragionamento svolto dal giudice è di tipo giuridico per due motivi: o ha per oggetto le disposizioni di legge; o usa il metodo dell’interpretazione per chiarire il significato esatto della legge e per ricostruire il fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. Il giudizio di conformità —> Il giudice valuta se il fatto storico, ricostruito mediante prove, è conforme al fatto tipico previsto e sanzionato dalla norma penale incriminatrice; se il fatto storico non rientra nel fatto tipico, il giudice proscioglie l’imputato; se è conforme al fatto tipico, il giudice condanna l’imputato. Il dispositivo, di assoluzione o di condanna, esplicita la volontà del giudice. IL RAGIONAMENTO INFERENZIALE: PROVA E INDIZIO I significati del termine prova . Fonte di prova 55 Sono fonti di prova le persone, le cose ed i luoghi che forniscono un elemento di prova. Il reato, come qualsiasi fatto umano, lascia tracce sia nella memoria delle persone che lo hanno percepito, sia nelle cose presenti nei luoghi nel quale si è verificato. Mezzo di prova è lo strumento col quale si acquisisce al processo un elemento che serve per la decisione;. Elemento di prova è l’informazione (intesa come dato grezzo) che si ricava dalla fonte di prova, quando ancora non è stata valutata dal giudice (art. 65.1). Questi valuta la credibilità della fonte e l’attendibilità dell’elemento ottenuto, ricavandone un risultato probatorio (art. 192.1). Pertanto, il risultato probatorio è l’elemento di prova valutato in base ai criteri della credibilità e della attendibilità. Attraverso i risultati delle prove acquisite nel processo, il giudice ricostituisce il fatto storico di reato (c.d. conclusione probatoria). Un fatto si può ritenere accertato quando l’ipotesi formulata corrisponde alla ricostruzione del fatto effettuata mediante prove. Il ragionamento inferenziale Il fatto storico di reato può essere conosciuto soltanto attraverso le tracce che ha lasciato nel mondo del reale o nella memoria degli uomini; da tali tracce, attraverso le prove, il giudice ricava l’esistenza del fatto del passato. Nel suo insieme la prova può essere definita come un ragionamento che da un fatto noto (es. dichiarazione del testimone) ricava l’esistenza di un fatto che è avvenuto in passato e delle cui modalità di svolgimento occorre convincere il giudice (da qui la denominazione inferenziale per il ragionamento probatorio). Nel processo penale il fatto da provare è precisato nell’art. 187.1. È oggetto di prova, in primo luogo, il fatto descritto nell’imputazione, e cioè il fatto storico addebitato all’imputato. Sono fatti da provare anche quelli che permettono di quantificare la sanzione penale e quelli dai quali dipende l’applicazione di norme processuali (art. 187.2). La prova rappresentativa Si distingue tra prova rappresentativa e di indizio. Con il termine prova rappresentativa si fa riferimento a quel ragionamento che dal fatto noto ricava, per rappresentazione, l’esistenza del fatto da provare. Il giudice deve valutare l’affidabilità della fonte e l’attendibilità della rappresentazione prima di decidere se e quale risultato probatorio se ne possa ricavare. È una valutazione razionale di credibilità e di attendibilità basata su regole logiche, scientifiche e di esperienza. Detta valutazione è operata di regola attraverso lo strumento dell’esame incrociato (domande, contestazioni). Tra il fatto noto (la rappresentazione) e il fatto ignoto (da provare) vi è di mezzo la valutazione di credibilità della fonte e di attendibilità della rappresentazione. Una volta valutati tutti i risultati derivanti dagli altri elementi di prova acquisiti, il giudice nella motivazione ricostruisce il fatto storico, indicando per quali ragioni ritiene attendibili le prove poste a base della decisione e non attendibili le prove contrarie (art. 546.1 lett. e). La prova indiziaria. Con il termine indizio (definito anche prova critica) si fa riferimento a quel ragionamento che da un fatto provato (cd. circostanza indiziante) ricava l’esistenza di un ulteriore fatto da provare (ad esempio, il fatto addebitato all’imputato). L’oggetto da provare può essere sia il fatto storico che è addebitato all’imputato (e che è denominato nella prassi fatto principale); sia un’altra circostanza indiziante, che viene denominata fatto secondario e dalla quale, con una ulteriore inferenza, si può ricavare l’esistenza del fatto principale. La massima di esperienza 56 La massima di esperienza è una regola di comportamento che esprime quello che avviene nella maggior parte dei casi (id quod plerumque accidit); essa è una regola che è ricavabile da casi simili al fatto noto (circostanza indiziante). L’esperienza può permettere di formulare un giudizio di relazione tra fatti; vi è una relazione quando si ricava che una categoria di fatti si accompagna ad un’altra determinata categoria di fatti. La massima di esperienza dà luogo ad un giudizio di probabilità e non di certezza. Tuttavia, non esiste altra possibilità di accertamento, quando non sia disponibile una valida prova rappresentativa. La prova rappresentativa e l’indizio differiscono non per l’oggetto da provare, bensì per la struttura del procedimento logico. L’oggetto da provare può essere sia il fatto principale (fatto di reato), sia un fatto secondario (un’altra circostanza indiziante). Quest’ultima, infatti, può essere provata sia mediante una prova rappresentativa, sia mediante una prova critica (es. la presenza dell’imputato nei pressi del luogo del reato può essere provata sia mediante un testimone, sia attraverso una impronta digitale o genetica). Parimenti, la responsabilità dell’imputato può essere provata sia mediante un testimone che ha visto svolgersi il fatto di reato, sia mediante un indizio. Il metodo di elaborazione della regola di esperienza: Il giudice applica un ragionamento induttivo quando esamina casi simili alla circostanza indiziante e formula una regola di esperienza; e cioè, da casi particolari ricava l’esistenza di una regola generale. Successivamente il giudice svolge un ragionamento deduttivo, e cioè applica alla circostanza indiziante la regola generale che ha ricavato in precedenza; il punto cruciale del ragionamento probatorio è quindi la scelta della massima di esperienza. Il giudice deve formulare le regole in base alla migliore esperienza e non in base a scelte personali arbitrarie o all’opinione dell’uomo medio. Inoltre, il giudice deve scegliere in modo corretto quale, fra più massime di esperienza, è applicabile al caso concreto, tenuto conto delle particolarità di quest’ultimo (deve applicare quella regola che meglio si attaglia al caso di specie e non automaticamente quella che appare la più probabile in astratto). La bontà del ragionamento del giudice emerge dalla motivazione della sentenza nella quale, come precisa l’art. 192.1, si deve dare conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. La legge scientifica In materie che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche, il giudice deve affidarsi a persone che hanno conoscenze specialistiche in quella determinata disciplina (art. 220). Costoro potranno valutare quale legge della natura è applicabile ad un determinato fatto, al fine di individuarne le cause. Da un lato, la legge scientifica dà maggiore certezza, poiché è possibile conoscere esattamente in quanti ed in quali casi risulta attendibile. Da un altro lato, restano margini di opinabilità, poiché si tratta di: a. scegliere la legge scientifica che deve essere applicata al caso di specie; b. valutare in quale modo deve essere applicata; c. individuare i fatti ai quali applicarla. Si tratta, cioè, di interpretare correttamente un fenomeno e di considerare quali sono le condizioni simili nelle quali si è verificato, in modo da valutare quale è la probabilità che un determinato fatto lo abbia causato. Per leggi scientifiche si intendono quelle leggi che esprimono una relazione certa o statisticamente significativa tra due fatti della natura, e che hanno le caratteristiche della generalità, della sperimentabilità e della controllabilità. 57 Il provvedimento di ammissione —> Il giudice deve provvedere sulla richiesta di ammissione senza ritardo con ordinanza (art. 190.1); egli deve motivare l’eventuale rigetto della richiesta e soprattutto deve provvedere subito. Il codice prevede espressamente il diritto alla prova contraria; l’imputato ha diritto all’ammissione delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico (art. 495.2). Il medesimo diritto spetta al pubblico ministero in ordine alle prove a carico dell’imputato sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico. La parte avversa ha diritto all’ammissione della prova che ha per oggetto il medesimo fatto ed è finalizzata a dimostrare che non è avvenuto o che si è verificato con una differente modalità. La garanzia costituzionale —> L’art. 111.3 Cost. proclama il diritto per l’imputato di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore (ma anche le prove richieste dall’imputato devono superare il vaglio giudiziale di ammissibilità). Il diritto ad ottenere l’ammissione della prova di tipo dichiarativo è stato limitato nelle ipotesi di imputazione avente ad oggetto i delitti di criminalità organizzata ed alcuni reati in materia di violenza sessuale e di pedofilia (art. 190-bis). Se la persona ha già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio, l’esame è ammesso soltanto in due casi: 1) se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni; 2) se il giudice o una delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze (art. 190-bis). I poteri di iniziativa probatoria del giudice —> Nella fase dell’ammissione della prova il giudice, di regola, ha soltanto il potere di decidere se ammettere o meno il mezzo di prova chiesto da una delle parti; egli di regola non può introdurre un mezzo di prova senza una richiesta di parte, e cioè d’ufficio. Ai sensi dell’art. 190.2, è la legge a stabilire i casi eccezionali in cui le prove sono ammesse d’ufficio (es. in dibattimento, in via eccezionale, il giudice può ammettere una prova quando questa sia assolutamente necessaria). L’ASSUNZIONE DELLA PROVA L’assunzione della prova avviene con il metodo dell’esame incrociato. Rientra nel diritto alla prova la partecipazione delle parti alla assunzione del mezzo di prova attraverso la formulazione diretta delle domande al dichiarante; spetta al giudice il potere di vietarle (art. 499). L’esame incrociato è comunemente ritenuto il miglior strumento che permette di valutare se il dichiarante risponde secondo verità. Se correttamente usato, esso consente di smascherare la persona che dice il falso in modo intenzionale o anche soltanto inconsciamente, a causa di difetti nella percezione o nella memoria. Si ritiene credibile quel dichiarante che sa resistere alle contestazioni che gli sono poste. Se al giudice fosse affidato il compito istituzionale di porre le domande cercherebbe soltanto conferme alla tesi che ha accettato e non sarebbe la persona più idonea a porre quelle domande, per questi motivi il codice attribuisce al presidente il potere di porre domande soltanto dopo che le parti hanno concluso l’esame incrociato (art. 506.2); successivamente alle domande poste dal giudice, le parti possono riprendere l’esame. La tutela della libertà morale del dichiarante —> generale divieto probatorio, che concerne le modalità di assunzione della prova dichiarativa, (art. 188 c.p.p.): non possono essere utilizzati, 60 neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti. L’acquisizione della prova —> Il termine acquisizione indica l’ammissione della prova precostituita, e cioè formata fuori del procedimento o prima del dibattimento; è anche utilizzato per ricomprendere anche l’ammissione e l’assunzione della prova non precostituita quale è la dichiarazione. LA VALUTAZIONE DELLA PROVA Le parti hanno il diritto di offrire al giudice la propria valutazione degli elementi di prova. Si tratta del potere di argomentare sulla base dei risultati che siano stati acquisiti. In dibattimento ciò avviene al momento della discussione finale (art. 523). Al diritto delle parti corrisponde il dovere del giudice di dare una valutazione logica dell’elemento di prova raccolto: (art. 192) il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati, e cioè delle regole di esperienza e leggi scientifiche che ha utilizzato. Il giudice nella motivazione non può trascurare di esaminare i risultati di una prova che appaia pertinente e rilevante; nella sentenza il giudice debba indicare le prove poste a base della decisione e le ragioni per le quali ritiene non attendibili le prove contrarie (art. 546.1, lett. e). Il giudice è libero di convincersi e, al tempo stesso, è obbligato a motivare razionalmente in relazione alla attendibilità degli elementi di prova ed alla credibilità delle fonti. Il convincimento del giudice deve consistere in una valutazione razionale delle prove e in una ricostruzione del fatto conforme ai canoni della logica ed aderente alle risultanze processuali. Di fronte alla motivazione che sia carente di tali requisiti le parti possono proporre impugnazione (appello e ricorso per cassazione). Se si tratta di una sentenza di condanna, il giudice deve motivare perché le prove d’accusa sono risultate idonee ad eliminare ogni ragionevole dubbio sulla fondatezza dell’imputazione; se si tratta di una sentenza di assoluzione, il giudice deve fornire una spiegazione razionale sul perché la ricostruzione dell’accusa è infondata o comunque lascia residuare un dubbio ragionevole. Nel processo penale, a differenza di quanto avviene nel processo civile, non esiste l’istituto della prova legale. Nel processo civile si ha prova legale in tutte quelle ipotesi nelle quali la legge si sostituisce al libero convincimento del giudice nella valutazione di un determinato elemento di prova (es. Confessione). Viceversa, nel processo penale la confessione è sempre liberamente valutabile dal giudice, che può ritenerla non attendibile. LA FORMULAZIONE DELLA MIGLIORE IPOTESI ED IL TENTATIVO DI SMENTITA Verificatosi un fatto di reato, l’investigatore deve formulare un’ipotesi ricostruttiva su come si è svolta la vicenda, identificando le possibili cause di ogni accadimento. In questa fase le leggi scientifiche e le massime d’esperienza vengono utilizzate a ritroso (dall’effetto B alla causa A). Le leggi scientifiche e le massime di esperienza consentono di affermare che, dato l’evento A, seguirà come conseguenza l’evento B. Colui che deve ricostruire la causa di un evento utilizza inizialmente il suo bagaglio di conoscenze per formulare tutte le ipotesi sulle possibili cause; tra queste l’investigatore sceglie quella che appare la più probabile in riferimento al caso concreto. Il tentativo di smentita —> Formulata un’ipotesi che ricostruisce lo svolgimento dei fatti, l’investigatore verifica se questa trova conferma nella realtà; es. se la causa di B era l’evento A, sappiamo che in base ad altre regole scientifiche o di esperienza dovrebbe essersi verificato anche l’evento C, di solito collegato ad A. Quindi si va a cercare se l’evento C si è verificato in concreto, e la cui rilevanza potrebbe emergere soltanto nell’ipotesi selezionata. La legge scientifica, anche nella 61 migliore delle ipotesi in cui il ragionamento a ritroso abbia funzionato, permette soltanto di collegare un evento ad una presumibile causa, ma non può accertare l’esistenza di tutti i fatti che si vogliono provare (in contraddizione con la tendenza ad attribuire alle leggi scientifiche e alla tecnologia un carattere risolutivo nella ricostruzione della vicenda processuale). L’ONERE DELLA PROVA La presunzione di innocenza L’art. 27.2 Cost. afferma che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. L’Assemblea costituente con tale formula ha voluto soddisfare insieme due esigenze insopprimibili: quella di prevedere la custodia cautelare prima della sentenza irrevocabile; l’esigenza di affermare la presunzione di innocenza. In un’unica formula si sono volute combinare: Una regola di trattamento, che impone il divieto di anticipare la pena, mentre consente l’applicazione di misure cautelari nei suoi confronti. Una regola probatoria, che tende ad ottenere l’effetto che è enunciato dall’art. 2728.1 c.c., secondo cui le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite. La presunzione d’innocenza è una presunzione legale relativa, e cioè valida finché non sia stato dimostrato il contrario. Pertanto l’onere della prova ricade su quella parte che sostiene la reità dell’imputato. Nel procedimento penale spetta al pubblico ministero formulare un addebito prima provvisorio (art. 65.1) e poi definitivo (art. 405); pertanto su di lui ricade in prima battuta l’onere della prova. L’onere sostanziale della prova Provare significa convincere il giudice della esistenza di un fatto storico affermato da una parte. Ciò costituisce un onere in senso sostanziale per la parte, perché l’inosservanza dello stesso comporta la situazione svantaggiosa del rigetto della domanda da parte del giudice. L’onere della prova costituisce una regola probatoria, nel senso che individua la parte sulla quale ricadono le conseguenze del non aver convinto il giudice dell’esistenza del fatto affermato. Se colui che accusa ha provato la reità dell’imputato, l’onere della prova può considerarsi soddisfatto; a questo punto incombe sull’imputato l’onere della prova contraria. Alla difesa spetta di provare la mancanza di credibilità delle fonti o l’inattendibilità delle prove d’accusa. L’imputato può anche provare direttamente che egli non ha tenuto la condotta asserita dall’accusa o che un evento non è avvenuto. Si tratta della c.d. prova negativa, che cioè tende a dimostrare la fondatezza dell’affermazione che nega l’esistenza di un fatto. L’onere formale della prova L’elemento di prova deve essere introdotto nel processo, e cioè la parte interessata ha l’onere di chiedere al giudice l’ammissione di quel mezzo di prova la cui ammissione permetterà il formarsi dell’elemento stesso: si tratta di un onere c.d. formale. L’onere formale di introdurre la prova è previsto nell’art. 190.1, secondo cui le prove sono ammesse a richiesta di parte». L’onere di introdurre la prova attribuisce alle parti il compito: a. di ricercare le fonti di prova; b. di valutare la necessità del mezzo di prova al fine di ottenere il risultato vantaggioso, e cioè dimostrare l’esistenza del fatto affermato; 62 fatti aveva esposto nel corso delle indagini. Lo stesso vale quando il testimone è deceduto prima del dibattimento. Il nuovo c. 5 dell’art. 111 Cost. ha tipizzato le situazioni eccezionali nelle quali è possibile derogare al principio del contraddittorio: la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. QUESTIONI PREGIUDIZIALI E LIMITI PROBATORI Il giudice, quando accerta se vi è corrispondenza tra un fatto storico e una norma di legge, a volte deve risolvere questioni civili o amministrative che rappresentano l’antecedente logico-giuridico della decisione penale. La questione costituisce un antecedente (ed è chiamata pregiudiziale) quando dalla sua soluzione dipende o meno l’esistenza di un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice che deve essere applicata. a. Quando la questione pregiudiziale ha per oggetto una controversia sullo stato di famiglia e di cittadinanza, il giudice penale è vincolato ai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili. b. Quando la questione pregiudiziale ha un qualsiasi altro oggetto, il giudice penale non è vincolato ai limiti di prova posti dalla relativa materia, bensì applica soltanto le regole probatorie del processo penale. IL GIUDICE, LO STORICO E LO SCIENZIATO Considerazioni preliminari Il compito dello storico è quello di ricostruire come si è svolto un fatto che è avvenuto nel passato e che ha cessato di esistere. Si tratta di un fatto non ripetibile, che può essere conosciuto soltanto attraverso le tracce che ha lasciato nel mondo del reale o nella memoria degli uomini. Gli strumenti, dei quali egli si serve, consistono nelle prove rappresentative e indiziarie. Il compito dello scienziato è quello di esaminare un fatto che è ripetibile nel senso che è riproducibile o, comunque, si è riprodotto in modo da poter essere osservato. La finalità è quella di ricavare le leggi della natura che ne regolano lo svolgimento. Lo scienziato utilizza una conoscenza empirica: individua determinate categorie di fatti, studia i rapporti che intercorrono tra di essi e ricava leggi che sono valide fino a quando non si dimostrano errate. Successivamente, lo scienziato formula una ipotesi in base alla quale individua una causa ed un effetto ed i rapporti che devono intercorrere tra i due. Ripetendo l’esperimento, lo scienziato controlla se le misurazioni quantitative del fenomeno corrispondono alla ipotesi formulata. Il giudice e lo storico L’attività del giudice è molto vicina a quella dello storico perché il fatto di reato è non ripetibile ed appartiene al passato; il giudice lo conosce mediante prove sottoposte ad un controllo di razionalità. Ma le differenze sono molteplici: L’attività dello storico è libera, mentre quella del giudice è vincolata da regole legali. Inoltre, lo storico accerta quei fatti (singoli o collettivi) che a lui sembrano utili per ricostruire un macroevento; nel fare ciò, utilizza i criteri più vari: rilevanza culturale, sociale, economica, politica, religiosa ecc.; viceversa, il giudice accerta un fatto singolo al fine di valutare la responsabilità penale di una persona in relazione ad una imputazione formulata non da lui, ma da un organo di accusa; per il giudice, l’unico criterio di valutazione è quello previsto dalla legge penale e l’unica responsabilità è quella individuale. 65 Per lo storico il metodo di ricerca delle prove è libero: egli può utilizzare anche intercettazioni effettuate illecitamente, informazioni confidenziali o documenti contenenti dichiarazioni anonime. Per il giudice il metodo di ricerca, ammissione, assunzione, e valutazione delle prove è fissato dalla legge. Lo storico non ha limiti di tempo: può sospendere il proprio giudizio su determinati fatti in attesa che si aprano archivi al momento chiusi; al contrario, il giudice non può sospendere il giudizio: il processo penale si deve svolgere entro tempi prestabiliti fino alla sentenza irrevocabile e al conseguente formarsi del giudicato. Il giudice e lo scienziato L’attività del giudice rispetto a quella dello scienziato differisce in partenza per l’oggetto della conoscenza: lo scienziato esamina un fatto della natura che è riproducibile, mentre il giudice esamina un fatto umano (es. un reato) che è avvenuto nel passato e che, ovviamente, è non ripetibile da parte di quelle determinate persone ed in quelle circostanze. Lo scienziato può dichiarare che un problema al momento non è risolvibile con dati controllabili e misurabili, mentre il giudice deve decidere al termine di un processo che si svolge in tempi predeterminati. I rapporti tra il metodo storico e quello scientifico Posto un fatto provato, può essere necessario applicare ad esso una legge scientifica che illustri quali sono le conseguenze derivanti dalla sua esistenza. Oppure, accertato un fatto, occorre impiegare una legge scientifica che precisi quale è la causa che lo ha determinato. Nella ricostruzione della legge scientifica e nella sua applicazione nel caso concreto, il giudice può aver bisogno dell’attività dello scienziato in veste di perito o di consulente di parte. Ma può anche accadere che lo scienziato entri in contatto con il metodo storico. Ciò avviene quando il fenomeno, che deve esaminare, è avvenuto nel passato. I metodi di accertamento dei fatti sono due: quello dello storico quello dello scienziato. Il giudice deve permettere la verifica di credibilità della fonte e di attendibilità dell’elemento di prova, e inoltre deve rispettare il principio del contraddittorio (e infine è obbligato a decidere). La scienza e il diritto penale Nel mondo dell’essere lo scienziato può ricavare, attraverso l’osservazione della realtà, le regole dell’accadere dei fatti, e cioè i collegamenti causa-effetto: si tratta delle leggi scientifiche. Viceversa, la legge penale fa parte del dover essere, e cioè dei comandi normativi. Le leggi scientifiche e quelle penali hanno natura e finalità differenti. Le leggi scientifiche sono regole che si ricavano dall’accadere dei fatti; lo scienziato si limita a conoscerle come esistenti in natura. Le leggi penali sono regole di produzione dei fatti perché tendono a imprimere agli accadimenti una direzione che essi da soli non prenderebbero senza che fosse imposta una sanzione giuridica. Il fondamento della legge penale sta nei valori sui quali si basa la società civile: la dignità dell’uomo, la libertà e la solidarietà. Lo scienziato può riferire al giudice soltanto quale è la probabilità statistica astratta di collegamento tra un tipo di fatto (la causa) ed un altro tipo di fatto (l’effetto). Spetta al giudice valutare la probabilità logica di un singolo accadimento. Non è sufficiente provare la causalità 66 generale (statistica), ma occorre anche provare la causalità individuale. In definitiva, il giudice non può delegare allo scienziato il tema dell’accertamento del fatto e della responsabilità penale. L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI SCIENZA Dal positivismo al post-positivismo —> fino alla metà del secolo scorso è stata accolta una concezione positivistica della scienza; in base a questa, la scienza era considerata: illimitata perché si riteneva che ogni singola legge scientifica avesse un valore generale e assoluto. completa nel senso che la singola legge era idonea a spiegare interamente l’andamento di un fenomeno. infallibile perché era unica e non poteva sbagliare; se mai, potevano sbagliare gli scienziati. Dagli anni quaranta si è iniziato a mettere in crisi questa concezione. Si è constatato che la scienza è: limitata : di un fenomeno è possibile cogliere un numero limitato di aspetti e rappresentarli con una legge scientifica. incompleta : non appena altri aspetti del medesimo fenomeno sono conosciuti, la legge scientifica deve essere aggiornata e modificata per rappresentare anche tali aspetti. fallibile : ogni legge scientifica ha un tasso di errore che deve essere ricercato. Questa nuova concezione della scienza prende il nome di post-positivismo: una legge, per essere ritenuta certa, occorre che sia sottoposta a tentativi di falsificazione. La scienza è quel tipo di conoscenza che ha le seguenti caratteristiche: a. ha per oggetto i fatti della natura; b. è ordinata secondo un insieme di regole generali che sono denominate leggi scientifiche e che sono collegate tra loro in modo sistematico; c. accoglie un metodo controllabile dagli studiosi nella formulazione delle regole, nella verifica e nella falsificabili delle stesse. La conoscenza scientifica è costituita da un insieme di regole collegate tra loro in modo da costituire un sistema di principi tendenzialmente completo. Le regole sono ricavate in modo empirico, e cioè riproducendo fenomeni naturali e misurando i loro effetti: la legge indica le relazioni quantitative che legano una causa ad un effetto. Il falsificazionismo —> Data una ipotesi su come si è svolto il fenomeno in un caso particolare, si deducono dalle regole ad esso applicabili quali sono le conseguenze che devono essersi verificate. Quindi si procede alla osservazione empirica per verificare in concreto se tali conseguenze si sono verificate. In caso positivo, la regola è validamente applicabile. In caso negativo si deduce che la regola potrebbe non essere valida per spiegare l’esistenza di quel fenomeno. Una decisione è giusta se si fonda su di una prova scientifica ritenuta valida al momento in cui una sentenza è pronunciata. UN ASPETTO APPLICATIVO: LA PROVA DEL RAPPORTO DI CAUSALITÀ TRA CONDOTTA ED EVENTO Un tema attualmente oggetto di un acceso dibattito concerne la prova del rapporto di causalità tra condotta ed evento. L’art. 40.1 c.p. stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Tale norma comporta che il giudice, nel processo penale, debba accertare l’esistenza del rapporto di causalità tra condotta ed evento. Tuttavia tale accertamento non è sempre facile. Alcuni esempi: 67 È possibile affermare che il sistema appare informato al principio di legalità della prova, in base al quale quest’ultima costituisce uno strumento di conoscenza disciplinato dalla legge. La prova atipica deve rispettare i precisi parametri stabiliti dall’art. 189 (idoneità ad assicurare l’accertamento dei fatti; rispetto della libertà morale dell’individuo). Dal punto di vista procedurale, occorre che il giudice senta le parti sulle modalità di assunzione. È discussa la figura della c.d. ricognizione informale dell’imputato: in dibattimento il pubblico ministero usa chiedere al testimone se è presente nell’aula l’autore del reato. La giurisprudenza ritiene che nel corso di un mezzo di prova, quale è la testimonianza, si possa introdurre un elemento atipico. La dottrina ha enucleato il c.d. principio di non sostituibilità tra metodi probatori: quella disciplina legale che traccia le caratteristiche essenziali di una prova non può essere elusa attraverso l’impiego di differenti modalità acquisitive, tipiche o atipiche. Atipicità e mezzi di ricerca della prova —> La dottrina maggioritaria e le Sezioni unite della Cassazione hanno affermato che è ben possibile configurare mezzi di ricerca della prova atipici, come ad esempio le video-riprese di immagini in luoghi diversi dal domicilio. Qualora si tratti di mezzi di ricerca della prova atipici, anziché configurare un contraddittorio anticipato sulla ammissione nel corso delle indagini, si potrà svolgere un contraddittorio successivo sull’utilizzabilità degli elementi acquisiti. LA TESTIMONIANZA CONSIDERAZIONI PRELIMINARI Il codice distingue in modo netto tra due mezzi di prova: la testimonianza (artt. 194 ss.) e l’esame delle parti (artt. 208 ss.). Il testimone ha l’obbligo penalmente sanzionato di presentarsi al giudice e di dire la verità (artt. 198 cpp. e 372 c.p.). Viceversa l’imputato, quando si offre all’esame incrociato ai sensi dell’art. 208, non ha l’obbligo di presentarsi (art. 208), né l’obbligo di rispondere alle domande (art. 209.2), né l’obbligo di dire la verità. Testimone e parti sono esaminati sui fatti che costituiscono oggetto di prova, e cioè sulla responsabilità dell’imputato e sui fatti che servono a valutare la credibilità delle fonti e l’attendibilità degli elementi di prova (art. 187). La loro deposizione avviene nella forma dell’esame incrociato (art. 209.1). La qualità di testimone può essere assunta dalla persona che ha conoscenza dei fatti oggetto di prova ma che, al tempo stesso, non riveste una delle qualifiche alle quali il codice riconduce l’incompatibilità a testimoniare (es. la qualifica di imputato). La persona così delineata diventa testimone soltanto se e quando su richiesta di parte (o d’ufficio nei casi previsti) è chiamata a deporre davanti ad un giudice nel procedimento penale. Il testimone ha i seguenti obblighi: l’obbligo di presentarsi al giudice (art. 198); se non si presenta senza un legittimo impedimento, il giudice può ordinare il suo accompagnamento coattivo a mezzo della polizia giudiziaria e può condannarlo al pagamento di una somma da euro 51 a euro 516 nonché alle spese alle quali la mancata comparizione ha dato causa (art. 133). l’obbligo di attenersi alle prescrizioni date dal giudice per le esigenze processuali (art. 198). l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte. 70 La libertà morale della persona nell’assunzione della prova dichiarativa. Secondo l’art. 188: non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare o di valutare i fatti (tortura fisica o psichica, narcoanalisi, ipnosi e il poligrafo o macchina della verità). È stato introdotto nel 2017 il reato di tortura. All’art. 191 è stato indicato che: le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale. Il divieto probatorio contenuto nelle disposizioni citate vale nei confronti della persona quando essa viene in rilievo come fonte di prova dichiarativa e cioè quando ciò che si cerca appartiene al foro interno dell’individuo e non esiste indipendentemente dalla sua attivazione. In tal caso, infatti, la dichiarazione non esiste senza la collaborazione dell’individuo. La persona come fonte di prova reale —> Se una persona riveste interesse probatorio non per ciò che dice, ma per ciò che è, vengono in questione gli atti di indagine e i mezzi di prova e di ricerca della prova che mirano ad ottenere elementi diversi dalle dichiarazioni. L’individuo ha un volto, una voce, un corpo. Vengono in rilievo attività come le identificazioni, le ricognizioni, le ispezioni, le perquisizioni, i sequestri, le consulenze tecniche e le perizie. LA DISPOSIZIONE: OGGETTO E FORMA La deposizione è resa in dibattimento con le forme dell’esame incrociato. Il testimone è esaminato sui fatti che costituiscono oggetto di prova (art. 194.1). Le domande devono essere pertinenti, e cioè devono riguardare sia i fatti che si riferiscono all’imputazione, sia i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali (art. 187), come l’accertamento dell’attendibilità di una dichiarazione. Il testimone di regola non può esprimere valutazioni né apprezzamenti personali; l’esame del testimone può estendersi ai rapporti di parentela o di interesse che lo legano alle parti o ad altri testimoni. Le deposizioni sulla moralità dell’imputato sono ammesse ai soli fini di qualificare la personalità dello stesso in relazione al reato ed alla pericolosità e sempre che si tratti di fatti specifici (art. 194.1). LA TESTIMONIANZA INDIRETTA Il testimone ha una conoscenza diretta dei fatti da provare quando ha percepito personalmente il fatto da provare con uno dei cinque sensi. Ha una conoscenza indiretta quando ha appreso il fatto da una rappresentazione che altri ha riferito a voce, per scritto o con altro mezzo (es. con immagini o gesti). Pertanto si ha una testimonianza indiretta quando il fatto da provare non è stato percepito personalmente dal soggetto che lo sta narrando, ma a costui è stato rappresentato da un’altra fonte (si afferma che nella testimonianza indiretta il fatto da provare è stato conosciuto dal testimone per sentito dire). La persona da cui si è sentito dire è comunemente indicata dagli studiosi italiani con l’espressione teste di riferimento: egli può avere percepito personalmente il fatto (ed allora è denominato teste diretto); oppure può averlo sentito dire da un’altra persona (ed allora è anch’egli un teste indiretto). Il problema della testimonianza indiretta sta nel seguente punto. Nel processo penale attraverso l’esame incrociato è possibile accertare la credibilità e l’attendibilità del testimone che ha avuto una conoscenza personale del fatto da provare; a tal fine, il codice permette che siano fatte le contestazioni (art. 500) e le domande-suggerimento nel controesame (art. 499.3). Quando il fatto è 71 conosciuto dal testimone per sentito dire occorre che sia possibile accertare l’attendibilità sia del testimone indiretto, sia del testimone diretto. Ecco perché il codice pone alcune condizioni all’utilizzabilità della deposizione indiretta; esse permettono di effettuare il controllo sulla credibilità della persona da cui si è sentito dire e sull’attendibilità di quanto è stato riferito. La prima condizione, posta dall’art. 195.7, richiede che il testimone indiretto indichi la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame; si deve individuare fisicamente la persona o la fonte del sentito dire. Quando non è individuato il teste diretto o, comunque, la fonte (es. il documento) da cui si è appreso il fatto riferito, la testimonianza non è utilizzabile. Una seconda condizione opera soltanto quando una delle parti chiede che venga sentita nel processo la persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto; in tal caso il giudice è obbligato a disporne la citazione (art. 195.1). Se il giudice omette la citazione, la testimonianza indiretta non è utilizzabile. Eccezione alla seconda condizione —> In via eccezionale la testimonianza indiretta è utilizzabile quando l’esame del testimone diretto risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità (art. 195.3). In particolare, l’irreperibilità del testimone è una situazione che presuppone che lo stesso sia già stato individuato e identificato con nome, cognome o eventuale soprannome, compito rientrante tra le funzioni tipiche della polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 349. L’irreperibilità presuppone che sia stato impossibile notificare la citazione a comparire ai sensi dell’art. 167 al testimone già identificato. Valutazione della testimonianza indiretta —> Se anche la testimonianza indiretta è utilizzabile, essa tuttavia dovrà essere valutata con particolare cura (es. mediante riscontri con altri elementi di prova). Il codice permette al giudice di disporre d’ufficio la citazione del testimone diretto se essa non è stata richiesta da alcuna delle parti (art. 195.2). È vietato assumere deposizioni su fatti appresi da persone vincolate da segreto professionale o d’ufficio, salvo che queste abbiano comunque divulgato tali fatti (art. 195.6). Il codice pone un divieto di testimonianza indiretta sulle dichiarazioni rese dall’imputato (o dall’indagato) in un atto del procedimento (art. 62): la prova delle dichiarazioni rese dall’imputato (o dall’indagato) deve ricavarsi unicamente dal verbale che deve essere redatto ed utilizzato con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimento. In sede di interrogatorio e di sommarie informazioni, all’indagato deve essere dato avviso della facoltà di non rispondere allo scopo di tutelare la sua libertà nei confronti dell’autorità inquirente. il divieto ha natura oggettiva, e cioè si riferisce a chiunque riceva le dichiarazioni, sia esso un testimone qualsiasi o un appartenente alla polizia giudiziaria; il divieto ha per oggetto dichiarazioni in senso stretto, e cioè espressioni di contenuto narrativo; le dichiarazioni, nei cui confronti opera il divieto, sono quelle rese nel corso del procedimento (art. 62). Pertanto un testimone, che ha assistito ad un colloquio tra un indagato ed un’altra persona o che ha ricevuto una dichiarazione fuori di un atto tipico del procedimento, può legittimamente riferire quanto ha sentito dire. il divieto riguarda le dichiarazioni dell’imputato che abbiano una valenza di prove. La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria: l’ambito del divieto di utilizzazione —> L’art. 195.4 stabilisce che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto sia delle sommarie informazioni assunte da testimoni o imputati connessi; sia delle denunce, querele o istanze; sia delle informazioni e delle dichiarazioni spontanee rese dall’indagato. La ratio consiste 72 Il destinatario del divieto —> Il medesimo comma stabilisce un divieto probatorio che ha come destinatario il giudice. 1. Quando il testimone rifiuta di rispondere ad una domanda autoincriminante, la legge vieta al giudice di costringerlo a parlare. Pertanto, se il giudice costringe il teste a deporre e successivamente si riconosce l’esistenza del privilegio contro l’autoincriminazione, le dichiarazioni eventualmente rese sono inutilizzabili. Quando il testimone rifiuta di rispondere ed oppone il privilegio, deve dare una giustificazione allo stesso, con l’ovvio limite che non può essere obbligato a precisare troppi dettagli; in caso contrario potrebbe fornire elementi contro di sé. 2. Le risposte autoincriminanti. L’art. 63.1 disciplina le dichiarazioni indizianti rese davanti all’autorità giudiziaria da una persona che non sia imputata o indagata. Una volta che il testimone abbia reso una dichiarazione dalla quale emergano indizi di reità a suo carico per un reato pregresso, l’autorità procedente deve: a. per prima cosa interrompere l’esame; b. in secondo luogo deve avvertire il soggetto che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti; c. infine deve invitarlo a nominare un difensore. Dichiarazioni rese da un testimone che avrebbe dovuto essere sentito come indagato o imputato —> (art. 63.2) Poiché gli inquirenti avrebbero dovuto sentire quella persona nella qualità di indagato o di imputato, avvertendola della facoltà di non rispondere, il codice commina l’inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese da tale soggetto: le dichiarazioni non possono essere utilizzate né contro la persona che le ha rese, né contro altre persone. IL TESTIMONE PROSSIMO CONGIUNTO DELL’IMPUTATO I prossimi congiunti dell’imputato non possono essere obbligati a deporre come testimoni (art. 199). sono prossimi congiunti: 1. gli ascendenti e i discendenti, 2. il coniuge, 3. i fratelli e le sorelle, 4. gli affini nello stesso grado, 5. gli zii e i nipoti, 6. Adottato o adottante Il c.p.p. impone che il testimone prossimo congiunto dell’imputato sia avvisato dal giudice della facoltà di astenersi dal rendere la deposizione, se l’avviso è omesso, la dichiarazione resa è affetta da nullità relativa e l’eventuale reato di falsa testimonianza non è punibile. Nel caso in cui il prossimo congiunto, regolarmente avvisato, decida di deporre come testimone, egli non può più rifiutarsi di rispondere alle singole domande; se afferma il falso, egli commette il reato di falsa testimonianza e non opera, in suo favore, la causa di non punibilità dell’art. 384.1 c.p. Persone assimilate ai prossimi congiunti (art. 199.3): la facoltà di astensione ed il diritto al preavviso opera con alcuni limiti in favore: a. chi conviva o abbia convissuto con l’imputato; b. del coniuge separato dell’imputato; c. della persona nei cui confronti sia intervenuta sentenza di annullamento, scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con l’imputato. 75 In questi tre casi la facoltà di astensione dalla testimonianza è limitata ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza coniugale. Perdita della facoltà di astenersi dal deporre —> i prossimi congiunti (ed i soggetti equiparati) non possono astenersi e, quindi, sono obbligati a deporre, quando hanno presentato denuncia, querela o istanza, oppure essi, o un loro prossimo congiunto, sono offesi dal reato (art. 199.1). In detti casi, i prossimi congiunti (ed i soggetti equiparati) non devono ricevere gli avvisi di cui all'art. 199. LA VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DEL TESTIMONE Prima che inizi l’esame incrociato, il giudice avverte il testimone dell’obbligo di dire la verità e lo informa della conseguente responsabilità penale. Nell’esame incrociato il testimone è tenuto a rispondere alle domande poste, di regola, dalle parti ed, eccezionalmente, dal presidente. Quando appare che il testimone violi l’obbligo di rispondere secondo verità, soltanto il giudice può rivolgergli l’ammonimento a rispettare l’obbligo di dire il vero. Le parti non possono ammonire il testimone, mentre possono sollecitare il giudice ad esercitare tale potere. In primo luogo, può accadere che il testimone rifiuti di deporre fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. In tal caso il giudice provvede ad avvertirlo sull’obbligo di deporre secondo verità. Se il testimone persiste nel rifiuto, il giudice dispone l’immediata trasmissione degli atti al pubblico ministero perché proceda a norma di legge (art. 207.1). In secondo luogo, può accadere che il testimone renda dichiarazioni contraddittorie, incomplete o contrastanti con le prove già acquisite. Il giudice, su richiesta di parte o d’ufficio, gli rinnova l’avvertimento dell’obbligo di dire il vero. IL SEGRETO PROFESSIONALE Alcuni testimoni con determinate qualifiche hanno il potere-dovere di non rispondere a determinate domande quando la risposta comporti la violazione dell’obbligo del segreto professionale (professionisti qualificati). Tale segreto può essere definito qualificato perché la possibilità di non rispondere spetta soltanto ai professionisti indicati espressamente dall’art. 200 del codice di procedura penale. Per segreto si intende una notizia che non deve essere portata alla altrui conoscenza e che, pertanto, non è già di per sé notoria. Di solito, si tratta di un fatto della vita privata che il singolo ha interesse a mantenere riservato. Il codice penale, all’art. 622, stabilisce un divieto di rivelazione in capo a chiunque abbia avuto notizia di un fatto segreto per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte. La rivelazione, che sia effettuata senza una giusta causa, è punita quando possa nuocere alla persona che si è rivolta al professionista. I professionisti che invece non rientrano tra le persone qualificate indicate nell’art. 200 (c.d. professionisti comuni), sono considerati alla pari degli altri testimoni e devono rispondere secondo verità (pertanto non commette delitto di rivelazione di segreto). Se il professionista qualificato depone comunque su un fatto del genere, egli non può invocare la giusta causa e risponde di violazione del segreto professionale. È necessario che il professionista qualificato non abbia comunque un obbligo giuridico di riferire un fatto all’autorità giudiziaria. Ciò accade, ad es. al medico professionista privato che ha prestato la propria assistenza alla persona offesa di un delitto procedibile d’ufficio (non di una contravvenzione). In tal caso egli ha l’obbligo del referto, sia pure limitatamente al delitto che emerge dall’accertamento sanitario (art. 365 c.p.); su tali fatti il medico non può opporre segreto professionale e, pertanto, deve deporre come testimone. 76 Naturalmente, la rivelazione di quanto il medico ha appreso non costituisce delitto di rivelazione del segreto professionale poiché l’obbligo di deporre, derivante dall’obbligo di referto, costituisce una giusta causa ai sensi dell’art. 622 c.p. [esempio del medico è importante] Le categorie di professionisti qualificati elencati dall’art. 200 sono: a. i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano; b. gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai; c. medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria; d. gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale. Il segreto professionale è esteso ai giornalisti con alcuni limiti: esso può essere mantenuto relativamente ai nomi delle persone dalle quali è stata appresa una notizia di carattere fiduciario nell’esercizio della professione. possono opporre questo segreto soltanto i giornalisti professionisti iscritti nell’albo professionale. il giornalista è comunque obbligato a indicare al giudice la fonte delle sue informazioni quando le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata soltanto attraverso l’identificazione della fonte della notizia (art. 200.3). il segreto bancario cede di fronte all’esigenza di accertare fatti penalmente rilevanti. IL SECRETO D’UFFICIO E DI STATO; GLI INFORMATORI DI POLIZIA In determinati casi previsti da leggi o regolamenti il buon funzionamento della pubblica amministrazione può imporre che sia mantenuto il segreto su alcune specie di notizie che concernono lo svolgimento del servizio pubblico. In tali ipotesi siamo in presenza del segreto d’ufficio, la cui violazione integra il delitto previsto dall’art. 326 c.p. Ai sensi dell’art. 201, l’obbligo di astenersi dal rispondere viene meno quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio hanno l’obbligo di riferire all’autorità la notizia di reato; e cioè, in sostanza, quando hanno l’obbligo di denuncia. Una particolare specie di segreto d’ufficio è il segreto di Stato, che ai sensi dell’art. 39 l. 124/2007 copre gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato. In base all’art. 202.1, i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre come testimoni su fatti coperti dal segreto di Stato. [pg. 313 controllare] Il segreto di polizia sugli informatori —> Un’altra specie di segreto è quella che consente di non rivelare i nomi degli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. Legittimati ad opporre tale segreto sono sia gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, sia il personale dipendente dai servizi per le informazioni e la sicurezza militare o democratica (art. 203). Costoro possono mantenere segreti i nomi degli informatori; ma tutto quello che affermano di aver sentito dire da loro non può essere acquisito né utilizzato, se non quando l’informatore sia stato esaminato. 77 In linea generale l’imputato concorrente gode delle stesse garanzie che sono riconosciute all’imputato principale. a. L’unica differenza consiste nel fatto che l’imputato concorrente ha l’obbligo di presentarsi per rendere l’esame. b. All’imputato concorrente che non si presenta, il giudice ne ordina l’accompagnamento coattivo (art. 210.2); c. deve essere avvisato che ha la facoltà di non rispondere; d. inoltre, deve essere assistito da un difensore. Ove non sia presente il difensore di fiducia, deve essere designato un difensore d’ufficio (art. 210, c. 3). 1. L’esame degli imputati concorrenti nel medesimo reato (art. 12, lett. a). Per il codice, l’imputato di un procedimento connesso nelle ipotesi di concorso nel medesimo reato e situazioni assimilate (imputato concorrente) è incompatibile con la qualifica di testimone, fino a che nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile (art. 197 lett. a). Disciplina codicistica —> Occorre che l’esame dell’imputato connesso sia stato chiesto da una delle parti del procedimento principale o, nei casi previsti dalla legge, sia stato deposto d’ufficio dal giudice. Se l’imputato concorrente decide di rispondere, egli non ha l’obbligo penalmente sanzionato di dire la verità. Può dire il falso senza incorrere nel delitto di falsa testimonianza perché egli è incompatibile con il testimone (art. 197). La facoltà di non rispondere riguarda sia le domande sul fatto di reato addebitato all’imputato concorrente, sia le domande su fatti commessi dall’imputato del procedimento principale. L’imputato concorrente può tacere anche se dal fatto affermato potrebbe non emergere alcuna sua responsabilità penale. 2. L’esame degli imputati collegati o connessi teleologicamente . L’art. 210.6 stabilisce un regime peculiare per gli imputati connessi teleologicamente o collegati che non hanno reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato. Costoro hanno: a. il dovere di presentarsi; b. sono assistiti da un difensore (di fiducia o d’ufficio); c. sono avvisati che hanno la facoltà di non rispondere e una disposizione specifica impone che sono altresì avvertiti che, se renderanno dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità di altri, assumeranno la qualifica di teste limitatamente a tali fatti. L’imputato connesso teleologicamente o collegato ha facoltà di tacere e, se parla, non ha obbligo di verità. Tuttavia, se rende dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilità altrui, da quel momento egli diventa compatibile con la qualifica di testimone assistito limitatamente ai fatti dichiarati. IL RISCONTRO DELLE DICHIARAZIONI RESE DALL’IMPUTATO CONNESSO O COLLEGATO Per riscontro si intende comunemente il controllo di attendibilità di una dichiarazione; sotto questo profilo, tutte le dichiarazioni rese nel corso del procedimento penale devono essere sottoposte ad un riscontro di tipo originario : si tratta di vedere se i fatti che sono stati affermati dal dichiarante trovino conferma negli altri elementi raccolti. Ai sensi dell’art. 192.1, il giudice deve valutare la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. L’obbligo del riscontro è posto dal codice come condizione per valutare le dichiarazioni rese sia dal coimputato del medesimo reato, sia dall’imputato di un procedimento connesso o collegato probatoriamente; il medesimo obbligo di riscontro è posto per il testimone assistito (art. 197-bis.6). L’imputato è la persona che ha, di regola, l’interesse più forte in relazione all’esito del procedimento penale; egli sarà toccato sia dalle misure cautelari nel corso del procedimento, sia dalle conseguenze 80 sulla sua libertà e sul suo onore in caso di sentenza di condanna irrevocabile. Le dichiarazioni di un imputato connesso potrebbero essere finalizzate ad alleggerire la propria posizione. A causa di ciò, l’imputato ha un forte interesse a dire il falso, se del caso accusando altre persone, per ottenere un qualche vantaggio o, quanto meno, un minore svantaggio. Il riscontro è particolarmente accurato, perché il codice impone di valutare altri elementi di prova; è sufficiente che questi siano tali da permettere semplicemente di affermare l’attendibilità del dichiarante su quel determinato punto. Può accadere che l’imputato ammetta la propria responsabilità, indicando altri come colpevoli del medesimo fatto di reato. In tal caso si ha quella che comunemente viene definita chiamata di correo. Il codice precisa che il riscontro deve avere ad oggetto altri elementi di prova ; se ne ricava che gli elementi devono essere esterni (o estrinseci) rispetto alla dichiarazione stessa. Oggetto della prima verifica deve essere la credibilità del dichiarante. La giurisprudenza afferma che la dichiarazione deve essere valutata al suo interno (riscontro intrinseco) al fine di controllare se essa è precisa, coerente in se stessa, costante, spontanea. Il riscontro estrinseco (esterno) può dirsi effettuato in modo pieno quando l’attendibilità della dichiarazione è dimostrata da altri elementi di tipo oggettivo. Il riscontro esterno può basarsi anche su dichiarazioni di altre persone, e cioè di altri testimoni o coimputati (riscontri incrociati). La giurisprudenza riconosce che questo tipo di riscontro è ammesso, purché sia rispettata la caratteristica dell’altruità dell’elemento di prova. Infine, ogni dichiarazione è frazionabile, e cioè deve essere riscontrata per ogni fatto asserito e per ogni soggetto indicato come responsabile. LA TESTIMONIANZA ASSISTITA La l. 63/2001 ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo istituto, che è denominato testimonianza assistita (art. 197- bis). L’imputato è sentito con l’assistenza obbligatoria del proprio difensore di fiducia o d’ufficio, in ragione del collegamento tra il reato, che gli è addebitato, e quello che è oggetto del procedimento nel quale è chiamato a deporre. Vi sono due categorie di testimonianza assistita: Una categoria opera nei confronti dei soli imputati collegati o connessi teleologicamente ed unicamente quando il procedimento penale a loro carico non si è ancora concluso con sentenza irrevocabile. Tali soggetti possono deporre come testimoni se hanno reso dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri (art. 64.3, lett. c). La compatibilità con la qualifica di teste è limitata alla deposizione sui fatti altrui già dichiarati. Un’altra categoria scatta dopo che si è concluso con sentenza irrevocabile il procedimento a carico dell’imputato connesso o collegato di qualsiasi tipo. L’art. 197-bis detta alcune regole comuni a entrambe le categorie: a. Al testimone assistito si applicano le norme sulla testimonianza ; pertanto egli ha l’obbligo di presentarsi al giudice (c. 1). Inoltre, nel corso della deposizione, tutti i testimoni assistiti godono del normale privilegio contro l’autoincriminazione con riferimento a reati ulteriori e diversi da quelli che sono (o sono stati) oggetto del procedimento a loro carico; b. Ai sensi del c. 3, i testimoni in oggetto devono essere assistiti da un difensore; in mancanza del difensore di fiducia deve essere loro designato un difensore d’ufficio; c. Il c. 5 stabilisce che le dichiarazioni rilasciate dai testimoni assistiti non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto addebitato al dichiarante; 81 d. Il c. 6 stabilisce che le dichiarazioni dei testi assistiti sono utilizzabili solo in presenza di riscontri che ne confermino l’attendibilità (si ritengono tali testimoni poco affidabili). 3. I testimoni assistiti prima della sentenza irrevocabile (art. 197-bis.2). In presenza di quali presupposti scatti l’obbligo di deporre come testimone: a. è necessario che l’imputato sia stato ritualmente avvisato che se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà (...) l’ufficio di testimone (art. 64.3, lett. c). Per fatto altrui si deve intendere un fatto che concerne la responsabilità di altri per un reato connesso o collegato con quello addebitato al dichiarante. b. una volta avvertito, l’imputato collegato o connesso teleologicamente deve aver reso dichiarazioni su un fatto altrui. L’imputato collegato o connesso teleologicamente diventa compatibile con la qualifica di testimone assistito: è una compatibilità parziale e condizionata (condizionata perché scatta solo se l’imputato in questione ha reso dichiarazioni sul fatto altrui; parziale perché è limitata al singolo fatto altrui già dichiarato). Il testimone assistito con procedimento pendente gode del privilegio contro l’autoincriminazione con riferimento a reati diversi da quelli che sono oggetto del procedimento a suo carico. Inoltre, all’imputato collegato o connesso teleologicamente è riconosciuto un ulteriore singolare privilegio: ai sensi dell’art. 197-bis.4, egli non può rispondere sui fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti. Poiché l’obbligo testimoniale è limitato ai fatti altrui già dichiarati nel dibattimento o nelle indagini, l’unico caso in cui l’escussione del teste assistito può inerire alla propria responsabilità è l’ipotesi nella quale le precedenti dichiarazioni vertano su fatti inscindibili. Tutto ciò trova applicazione anche se questi tipi di processo sono stati riuniti. 4. La testimonianza assistita dell’imputato giudicato (art. 197-bis.1). Il secondo tipo di testimonianza assistita è quella che viene resa dall’imputato dopo che la sentenza, che lo riguarda, è diventata irrevocabile, sia essa una sentenza di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento. L’imputato giudicato può essere sempre chiamato (art. 197-bis.1) come testimone assistito in un procedimento collegato o connesso, anche se non ha mai reso dichiarazioni su fatti altrui o non ha ricevuto l’avviso previsto dall’art. 64.3, lett. c. In questo caso l’imputato connesso o collegato giudicato è testimone permanente . La persona giudicata con sentenza irrevocabile gode del privilegio contro l’autoincriminazione in relazione a fatti diversi di quelli a proprio carico; viceversa, tale dichiarante non gode di alcun privilegio sul fatto proprio coperto dalla sentenza irrevocabile. Quando il dichiarante è stato condannato con sentenza irrevocabile, gode del privilegio sul giudicato se nel procedimento originario aveva negato la sua responsabilità (anche rendendo dichiarazioni) o non aveva reso alcuna dichiarazione (art. 197-bis.4). Con la sentenza 381/2006 la Corte costituzionale ha affermato che l’imputato assolto con sentenza irrevocabile per non aver commesso il fatto deve essere trattato in modo simile al testimone comune; l’assoluzione irrevocabile con formula piena proclama la totale estraneità del soggetto rispetto al fatto. Tale sentenza elimina qualsiasi legame tra il processo, ormai concluso, a carico del dichiarante e quello nel quale egli è chiamato a deporre. L’imputato, assolto con sentenza irrevocabile per non aver commesso il fatto, deve essere esaminato quale testimone senza l’assistenza di un difensore e senza che sia indispensabile acquisire un riscontro esterno. 82 Attraverso la sottoscrizione di tale verbale, il collaboratore di giustizia si impegna per il futuro a rendere dichiarazioni su quei fatti (propri o altrui) che sono riconducibili alle inforazioni in esso contenute, pena la perdita dei benefici riconosciuti in base al programma di protezione. il collaboratore di giustizia sarà sentito come imputato concorrente (senza obbligo di verità penalmente sanzionato) o come testimone assistito (con obbligo di verità sul fatto altrui già dichiarato) secondo il tipo di legame che intercorre tra il proprio procedimento e quello nel quale è chiamato a deporre e in base all'oggetto dele precedenti dichiarazioni. Il testimone di giustizia —> La specificità della situazione del testimone di giustizia è stata assicurata sotto vari profili: 1) La legge ha fornito una precisa definizione giuridica in base alla quale è testimone di giustizia colui che ha i seguenti requisiti: a. ha reso dichiarazioni di fondata attendibilità intrinseca e rilevanti per le indagini o per il giudizio (a differenza del collaboratore di giustizia, per il quale è chiesto che siano di notevole importanza, nuove e complete); b. si trova in una situazione di grave, concreto e attuale pericolo rispetto alla quale le ordinarie misure di sicurezza non sono adeguate; c. non ha riportato condanne per delitti dolosi o preterintenzionali né ha tratto profitto dall'essere venuto in relazione con il contesto delittuoso, mentre è ammissibile che abbia tenuto comportamenti penalmente rilevanti a causa dell'assoggettamento a singoli o alle associazioni criminali (a differenza del collaboratore di giustizia, che può essere responsabile di reati anche gravissimi, d. non è (né è stato) sottoposto a misure di prevenzione. 2) La legge ha dato al testimone di giustizia una protezione preferibilmente nel luogo di origine con misure di sostegno economico e di reinserimento. 3) La legge ha attribuito al testimone di giustizia l'assistenza di un referente che lo accompagna in tutto il suo percorso fin dall'inserimento nel piano provvisorio di protezione e che funge da sostegno psicologico nei rapporti con le istituzioni. 4) La legge ha previsto che nei confronti del testimone di giustizia possano essere utilizzati gli strumenti processuali dell'incidente probatorio e dell'esame a distanza. CONFRONTI, RICOGNIZIONI ED ESPERIMENTI GIUDIZIALI CONSIDERAZIONI PRELIMINARI Alcuni mezzi di prova hanno una caratteristica comune: nella fase di assunzione esiste un vero e proprio potere di direzione spettante al giudice. Rispetto a tali atti le parti si limitano a controllare che l'atto si svolga in modo regolare; in particolare, non possono procedere ad esame incrociato. IL CONFRONTO Il confronto consiste nell'esame congiunto di due o più persone (testimoni o parti) che siano già state esaminate o interrogate, quando vi è disaccordo tra di esse su fatti e circostanze importanti (art. 211). La ratio dell'istituto è quella di vagliare le dichiarazioni contrastanti. Il primo presupposto di questo mezzo di prova consiste nell'esistenza di un disaccordo tra due o più persone su fatti e circostanze importanti; 85 Il secondo, nella necessità che le persone da mettere a confronto siano già state esaminate o interrogate. Quest'ultimo requisito lascia comprendere che protagonisti possono essere sia imputati (o indagati), sia testimoni, sia altre parti private. Ovviamente l'imputato può avvalersi del diritto al silenzio. L'esigenza che vi siano precedenti dichiarazioni discordanti indica che il momento a partire dal quale il mezzo può essere disposto è: nella fase delle indagini, quando si siano già raccolte dichiarazioni (artt. 364 e 370); in udienza preliminare (art. 422); in dibattimento (anche nella sottofase degli atti urgenti di cui all'art. 467); in appello (art. 603); nel giudizio di rinvio (art. 627.2) e nel giudizio di revisione (art. 636). Il mezzo può inoltre essere esperito in incidente probatorio, quando vi sia il pericolo di dispersione o di inquinamento della prova (art. 392, lett. e). Il confronto, in quanto mezzo di prova, ne segue i principi generali innanzitutto in punto di ammissione: di regola è richiesto dalle parti, ma in dibattimento può anche essere disposto dal giudice in base all'art. 507. Il confronto è non manifestamente irrilevante quando vi è un disaccordo tra dichiaranti; ed è pertinente quando il disaccordo verte su fatti e circostanze importanti, e cioè oggetto di prova ai sensi dell'art. 187. Le modalità —> La normativa esalta il ruolo del giudice (o del pubblico ministero nelle indagini), al quale spetta un potere propulsivo oltre che direttivo; è ridotto il potere delle parti, limitato al controllo della regolarità di svolgimento dell'atto, non essendo previsto l'esame incrociato. Il giudice richiama ai protagonisti le precedenti dichiarazioni discordanti e chiede loro se le confermano. Ove il disaccordo persista, li invita alle reciproche contestazioni. Tutto ciò che avviene durante il confronto deve essere verbalizzato. In ogni caso l'imputato (e lo stesso vale per l'imputato connesso; art. 210) continua a godere del diritto al silenzio. LA RICOGNIZIONE La ricognizione di persone è quel mezzo di prova mediante il quale, ad una persona che abbia percepito con i propri sensi un essere umano, si chiede di riconoscerlo individuandolo tra altri simili (art. 213). La ricognizione è disposta anche quando occorre procedere al riconoscimento di cose (art. 215), voci, suoni o quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale (art. 216). L'atto può essere compiuto nel corso del dibattimento o nell'incidente probatorio e si svolge nel rispetto del contraddittorio tra le parti. Il potere direttivo del giudice si manifesta sia al momento degli atti preliminari alla ricognizione, sia nel corso della stessa. Le modalità di svolgimento del mezzo di prova sono particolarmente dettagliate. Accertamenti sull'attendibilità (art. 213) —> Il giudice invita colui, che deve eseguire la ricognizione (c.d. ricognitore), a descrivere la persona (che ha visto) indicando tutti i particolari che ricorda. Gli chiede poi: se sia stato in precedenza chiamato a eseguire il riconoscimento; 86 se, prima e dopo il fatto per cui si procede, abbia visto, anche se riprodotta in fotografia o altrimenti, la persona da riconoscere; se la stessa gli sia stata indicata o descritta; se vi siano altre circostanze che possano influire sull'attendibilità del riconoscimento. Nel verbale deve essere fatta menzione degli adempimenti previsti e delle dichiarazioni rese; il tutto a pena di nullità della ricognizione. La predisposizione della scena (art. 214) —> In assenza di colui che è chiamato ad effettuare il riconoscimento, il giudice dispone che siano presenti almeno due persone (c.d. distrattori) il più possibile somiglianti anche nell'abbigliamento a quella sottoposta a ricognizione. Invita quindi quest'ultima a scegliere il suo posto rispetto alle altre persone; curando che si presenti, sin dove è possibile, nelle stesse condizioni nelle quali sarebbe stata vista dalla persona chiamata a operare il riconoscimento. Il tentativo di riconoscimento —> Nuovamente introdotto il ricognitore, il giudice gli chiede se riconosce taluno dei presenti; ciò presuppone che il giudice deve informare il ricognitore che l'indiziato potrebbe non essere tra le persone presenti. Nel caso in cui il ricognitore affermi di riconoscere qualcuno, il giudice lo invita a indicare chi abbia riconosciuto e a precisare se ne sia certo. Il verbale, a pena di nullità, deve menzionare le modalità di svolgimento della ricognizione (art. 214.3). Se vi è fondata ragione di ritenere che il ricognitore possa subire intimidazione dalla presenza della persona sottoposta a ricognizione, il giudice dispone che l'atto sia compiuto senza che quest'ultima possa vedere il primo (art. 214.2); es. il ricognitore guarda attraverso uno spioncino. Quando occorre procedere alla ricognizione di una cosa, si osservano modalità analoghe a quelle esposte: il giudice dispone che siano procurati almeno due oggetti simili a quello da riconoscere (art. 215). Oltre al testimone, anche l'imputato può essere chiamato ad operare una ricognizione; in tale sede può esercitare il suo diritto al silenzio (art. 143). La ricognizione può svolgersi nel corso del dibattimento, ma la sua naturale collocazione dovrebbe essere durante le indagini nella forma dell'incidente probatorio (art. 392). Nella prassi essa avviene nella forma dell'individuazione quale atto di iniziativa del pubblico ministero (art. 361). L’ESPERIMENTO GIUDIZIALE L'esperimento giudiziale è ammesso quando occorre accertare se un fatto sia o possa essere avvenuto in un determinato modo (art. 218). L'esperimento consiste nella riproduzione, per quanto è possibile, della situazione in cui il fatto si afferma o si ritiene essere avvenuto e nella ripetizione delle modalità di svolgimento dello stesso. Scopo dell'esperimento è quello di valutare la verosimiglianza della ricostruzione riproducendone le modalità di svolgimento. Il mezzo di prova si basa sulle metodologie proprie delle sperimentazioni scientifiche. 87 L'ammissione della perizia —> Di regola la perizia è disposta a richiesta di parte; ma può essere disposta anche di ufficio nel dibattimento (art. 224.1) perché il giudice può avvertire la necessità di motivare la sentenza sulla base di un sapere specialistico che deve essere applicato ad un fatto provato. Durante le indagini la perizia può essere svolta nella forma dell'incidente probatorio, e quindi soltanto a richiesta del pubblico ministero e dell'indagato; Essa è disposta dal giudice per le indagini preliminari nelle ipotesi previste dall'art. 392: e cioè, in sintesi, quando la persona, le cose o i luoghi da esaminare sono soggetti a modificazione non evitabile o quando si prevede che la perizia durerà più di sessanta giorni. Il giudice sceglie il perito in base a precisi vincoli: ai sensi dell'art. 221.1, deve scegliere di regola una persona iscritta in appositi albi esistenti presso il singolo tribunale o, eccezionalmente, al di fuori di tali albi, ma tra coloro che siano forniti di particolare competenza tecnica, sulla quale dovrà dare congrua motivazione. Sono previste situazioni di incapacità ed incompatibilità del perito (art. 222) simili a quelle previste per il giudice: il legislatore vuole che il perito sia in una situazione di terzietà e impregiudicatezza. Il perito ha l'obbligo di prestare il suo ufficio (art. 221.3), salvo che sussista uno dei motivi di astensione (art.223). Uno dei motivi di incompatibilità del perito: questi non può prestare il suo ufficio se è stato citato come testimone, e cioè se ha conosciuto fatti oggetto di prova prima di assumere l'incarico (art. 222.1, lett. d). Il conferimento dell'incarico —> Il perito deve presentarsi in udienza ed impegnarsi ad adempiere al proprio ufficio secondo verità (artt. 226.1; 373 c.p.). La formulazione dei quesiti, da sottoporre al perito, spetta al giudice con la più ampia garanzia del contraddittorio (art.226.2). Il giudice, sentite le parti presenti, formula in via definitiva i quesiti. Da questo momento i consulenti possono assistere allo svolgimento della perizia, presentare al giudice osservazioni e riserve e, infine, proporre specifiche indagini (art. 230.1 e 2). L'attività del perito —> Una volta che il giudice ha precisato i quesiti, il perito gode di propri poteri di direzione e di impulso; tuttavia, egli resta sotto il controllo del giudice sia nel momento in cui prende contatto col materiale probatorio, sia quando occorre risolvere questioni relative ai propri poteri (art. 228.4). In particolare, il perito può prendere visione soltanto degli atti acquisibili al fascicolo per il dibattimento (art. 228.1). Il giudice può autorizzare il perito ad assistere all'esame delle parti o all'assunzione di prove (art. 228.2). Il perito può chiedere notizie all'imputato, all'offeso e ad altre persone informate, con il limite che gli elementi acquisiti possono essere utilizzati soltanto ai fini dell'accertamento peritale (art. 228.3). Il perito può essere autorizzato dal giudice a servirsi di ausiliari di sua fiducia per lo svolgimento di attività materiali. Infine, il giudice ha il potere di adottare tutti gli altri provvedimenti che si rendono necessari per l'esecuzione delle operazioni peritali (art. 224.2). Ad es, può ordinare con poteri coercitivi la consegna al perito di documenti o scritture di comparazione in caso di perizia per falsità in atti. La relazione peritale —> Il prodotto finale della perizia è la relazione che il perito dovrebbe svolgere, di regola, oralmente e che può formulare per scritto su autorizzazione del giudice (art. 227.5). Nella prassi il perito ottiene sempre l'autorizzazione alla relazione scritta. 90 Tuttavia, dopo che ha presentato la relazione scritta, il perito può essere sottoposto all'esame incrociato su richiesta di parte (art. 501); in tal modo viene recuperato il contraddittorio sulla prova scientifica. Al pari di quanto avviene per gli altri mezzi di prova, il giudice non è vincolato dalla perizia. Il divieto di perizia criminologica. L'art. 220.2 pone il divieto di ammissione di perizie volte ad accertare il carattere e la personalità dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche: parimenti sono vietate le perizie tendenti a stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato» e la «tendenza a delinquere. Sono quindi ammesse sull'imputato soltanto quelle perizie che tendono ad accertare una malattia mentale o una situazione a questa assimilata. La ratio del divieto può essere rinvenuta nell'esigenza di tutelare la presunzione di innocenza dell'imputato. Gli accertamenti criminologici sulla personalità del soggetto potrebbero condizionare il giudizio sulla reità dell'imputato in relazione a quel fatto che deve essere accertato nel processo. Viceversa, dopo la condanna irrevocabile la perizia criminologica è ammessa in relazione alla fase dell'esecuzione della pena o della misura di sicurezza. Occorre considerare che, in tal caso, la perizia è svolta nei confronti di un colpevole ed è funzionale alla richiesta di una misura alternativa alla pena detentiva. IL CONSULENTE TECNICO DI PARTE ALL’INTERNO DELLA PERIZIA Quando è stata disposta perizia, le parti hanno facoltà di nominare propri consulenti tecnici in numero non superiore a quello dei periti (art. 225.1). Al consulente tecnico si applicano le medesime cause di incapacità e di incompatibilità che sono previste per il perito (art. 225, comma 3). Le parti private non hanno l'obbligo di scegliere il consulente all'interno di albi; tuttavia, sarà loro interesse nominare persone di riconosciuta capacità tecnica. Il pubblico ministero deve nominare il consulente tecnico di regola scegliendo una persona iscritta negli albi dei periti. I consulenti possono assistere al conferimento dell'incarico e presentare al giudice richieste, osservazioni e riserve delle quali è fatta menzione nel verbale. Inoltre, i consulenti possono assistere allo svolgimento della perizia proponendo al perito specifiche indagini (art. 230.1 e 2). Se sono nominati dopo l'esaurimento delle operazioni peritali, i consulenti possono prendere conoscenza delle relazioni e chiedere al giudice di essere autorizzati a esaminare la persona, la cosa o il luogo oggetto della perizia (art.230.3). La normativa sulla consulenza tecnica di parte è ricavabile per analogia con quanto previsto per il perito, salvo le differenze dettate espressamente dal codice. Si ritiene comunemente che l'oggetto della consulenza tecnica di parte sia identico a quello della perizia: si tratta di svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche (art. 220.1). Identici sono i limiti, come il divieto di accertamenti sul carattere e sulla personalità dell'imputato (art. 220.2). Sia il perito sia il consulente tecnico, in dibattimento, sono sentiti con lo strumento dell’esame incrociato, che si svolge in forme simili a quelle con le quali è escusso testimone. Alcune differenze sostanziali: Mentre il perito assume l'obbligo penalmente sanzionato di far conoscere la verità (art. 226), nessun obbligo di questo tipo è previsto dal codice per il consulente di parte. Ovviamente, se dall'esame incrociato risulta che il consulente non è stato corretto nel valutare i fatti, il suo discostarsi dal vero potrà avere influenza sul giudizio di attendibilità che sarà formulato dal giudice. 91 Natura della consulenza tecnica di parte —> La consulenza di parte è espressione della difesa tecnica di una parte e insieme, mezzo di prova scientifica, tecnica o artistica. Approfondimento. La prassi sull'obbligo di verità del consulente tecnico —> Le Sezioni unite hanno riconosciuto all'esperto di parte pubblica l'obbligo di verità penalmente sanzionato dai delitti di false informazioni ex art. 371-bis c.p. e di falsa testimonianza di cui all'art. 372 c.p. in relazione sia ai fatti, sia ai profili valutativi oggetto della consulenza. IL CONSULENTE TECNICO DI PARTE FUORI DAI CASI DI PERIZIA La consulenza tecnica di parte fuori dei casi di perizia (art. 233) è il nuovo istituto introdotto dal codice del 1988 al fine di attuare il diritto delle parti alla prova per esperti. Sia il pubblico ministero, sia le parti private possono avvalersi dell'opera di specialisti al fine di raccogliere elementi di prova scientifica, tecnica, artistica; e ciò, a prescindere dal fatto che il giudice abbia ammesso, o meno, una perizia. Questo strumento è in grado di fornire al giudice le valutazioni necessarie per motivare la decisione: il consulente delle parti private e quello del pubblico ministero sono sentiti in dibattimento con esame incrociato su domande del pubblico ministero e del difensore (art. 501); nell'udienza preliminare in base a domande poste dal giudice (art. 422). La natura di mezzo di prova è stata riconosciuta in modo espresso dalla Corte costituzionale (sentenza n. 33 del 1999), secondo la quale i consulenti di parte possono fornire al giudice elementi utili per la decisione, rendendo così superflua la nomina di un perito. Consulenza tecnica fuori della perizia e sistemi processuali —> Nel processo misto prevalentemente inquisitorio del 1930 il consulente di parte era un ausiliario della medesima; non poteva essere sottoposto ad interrogatorio e si doveva limitare a presentare memorie scritte. Nel sistema accusatorio puro di tipo anglo-americano al posto della perizia esistono soltanto i testimoni esperti (expert witnesses) che sono nominati dall'accusa e dalla difesa e vengono ammessi a deporre in dibattimento. Nel codice del 1988 la consulenza di parte è diventata un mezzo di prova a disposizione della medesima, ma non ha le caratteristiche della testimonianza. Il codice vigente dimostra di aderire ad un sistema accusatorio temperato. L'oggetto della consulenza di parte —> Mediante la nomina di un consulente tecnico fuori della perizia (art. 233) ciascuna parte ha il diritto di tentare di convincere il giudice applicando la legge scientifica che ritiene più corretta, viene così eliminato quel filtro tra il giudice e gli esperti di parte, che era costituito dalla necessaria presenza del perito. I consulenti tecnici della parte pubblica e quelli delle parti private possono svolgere la propria attività anche quando il giudice non ha disposto la perizia (art. 233). Il consulente di parte propone valutazioni tecniche, che si traducono in memorie scritte (art. 233.1) e che possono essere oggetto di deposizione orale nell'esame incrociato previsto espressamente dall'art. 501. Il consulente nominato da una parte privata può svolgere investigazioni difensive per ricercare ed individuare elementi di prova e può conferire con le persone che possono dare informazioni (art. 391-bis) nonché può esaminare, previa autorizzazione, il materiale che l'autorità giudiziaria ha posto sotto sequestro (art. 233, comma 1-bis). Di regola, il difensore della parte privata può scegliere se presentare, o meno, al giudice gli elementi di prova che siano stati raccolti dal consulente tecnico (art. 391-octies). 92 oppure concerne l'effettuazione di accertamenti medici. Ad es, accertamento medico in materia di violenza sessuale: è stato imposto all'imputato l'obbligo di sottoporsi agli accertamenti tendenti ad individuare patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalità del fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime. Si tratta di un'ipotesi di accertamento coattivo sull'imputato che è espletato nelle forme della perizia. I limiti —> Non sono ammesse: le operazioni che contrastano con espressi divieti posti dalla legge; che possano mettere in pericolo la vita, l'integrità fisica o la salute della persona o del nascituro, che secondo la scienza medica, possano provocare sofferenze di non lieve entità (art. 224- bis.4). Il legislatore ha prescritto alcune direttive di metodo: le operazioni peritali sono comunque eseguite nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto. Inoltre, a parità di risultato, sono prescelte comunque le tecniche meno invasive (art. 224-bis.5). L'ordinanza che dispone la perizia coattiva —> La perizia coattiva viene disposta con ordinanza motivata (art. 224-bis.2). Anzitutto, l'ordinanza reca quelle stesse indicazioni che sono contenute nel provvedimento che dispone la comune perizia. Ai sensi dell'art. 224, richiamato dall'art. 224-bis.2, l'ordinanza contiene la nomina del perito, la sommaria enunciazione dell’oggetto delle indagini, l'indicazione del giorno, dell'ora e del luogo fissati per la comparizione del perito. Inoltre, il provvedimento che dispone la perizia coattiva deve contenere a pena di nullità: 1) le generalità della persona da sottoporre all'esame e quanto altro valga ad identificarla; 2) l'indicazione del reato per cui si procede, con la descrizione sommaria del fatto; 3) l'indicazione specifica del prelievo o dell'accertamento da effettuare e delle ragioni che lo rendono assolutamente indispensabile per la prova dei fatti; 4) l'avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore o da persona di fiducia; 5) l'avviso che, in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento, potrà essere ordinato l'accompagnamento coattivo; 6) l'indicazione del luogo, del giorno e dell'ora stabiliti per il compimento dell'atto e delle relative modalità. Regolamentazione —> L'ordinanza è notificata all'interessato, all'imputato e al suo difensore nonché alla persona offesa almeno tre giorni prima di quello stabilito per l'esecuzione delle operazioni peritali (art. 224-bis.3). Qualora l'interessato non compaia senza addurre un legittimo impedimento, il giudice può disporre l'accompagnamento coattivo, nel luogo, nel giorno e nell'ora stabiliti (art. 224-bis.6). Può anche accadere che l'individuo compaia e continui a manifestare un atteggiamento ostile al compimento del prelievo. In tal caso, il giudice dispone che le operazioni siano eseguite coattivamente ed è consentito l'uso di mezzi di coercizione fisica per il solo tempo strettamente necessario all'esecuzione del prelievo o dell'accertamento (art. 224- bis.6). La persona sottoposta ad accompagnamento coattivo non può essere tenuta a disposizione oltre il compimento dell'atto previsto e di quelli consequenziali per i quali perduri la necessità della sua presenza. In ogni caso, la persona non può essere trattenuta oltre le ventiquattro ore (art. 132.2). LA PROVA DOCUMENTALE LA DEFINIZIONE DI DOCUMENTO 95 Il documento è quella rappresentazione di un fatto che è incorporata su di una base materiale con un metodo analogico o digitale. Da ciò si ricava che il concetto di documento comprende quattro elementi: 1) Il fatto rappresentato: Nel concetto di fatto rappresentato devono essere ricompresi sia i fatti, persone o cose (ai quali fa riferimento l'art. 234), sia i contenuti di pensiero che sono espressi nelle dichiarazioni di scienza o di volontà. Pertanto, il fatto rappresentato è, in sintesi, tutto ciò che può essere oggetto di prova. In particolare, può trattarsi non soltanto di un accadimento naturalistico (es. una fuga di gas), ma anche di un atto umano, e quindi di una dichiarazione. 2) La rappresentazione: Rappresentare un fatto significa costruirne un equivalente, in modo da renderlo conoscibile quando non è più presente; pertanto, la rappresentazione è la riproduzione di un fatto. Le modalità di rappresentazione sono le più varie: parole, immagini, suoni o gesti. La rappresentazione può avvenire per opera dell'uomo (es. testimonianza) o automaticamente mediante uno strumento (es. apparecchio di registrazione). 3) L'incorporamento è l'operazione mediante la quale la rappresentazione è fissata su di una base materiale. Il codice prevede le forme più varie di incorporamento: l'art. 234 cita la scrittura accanto alla fotografia, alla fonografia e alla cinematografia, ma lascia la possibilità che l'incorporamento avvenga con qualsiasi altro mezzo. Visti i progressi della tecnica, possiamo affermare che oggi i metodi di incorporamento sono due: quello analogico e quello digitale. 4) La base materiale sulla quale è incorporata la rappresentazione può essere la più varia. È sufficiente l'idoneità a conservare la rappresentazione al fine di riprodurla quando occorra. Non è richiesto che la base materiale sia particolarmente durevole, anche se ciò è auspicabile. Sulla base di quanto abbiamo esposto finora possiamo tracciare due definizioni basilari. Il documento tradizionale può essere definito come quella rappresentazione di un fatto che è incorporata su di una base materiale con un metodo analogico; es. uno scritto; una fotografia incorporata su una pellicola di celluloide. Il documento informatico può essere definito come quella rappresentazione di un fatto che è incorporata in una base materiale con un metodo digitale. es. un file word o MP3; un messaggio WhatsApp; una pagina di internet. DOCUMENTO E DOCUMENTAZIONE Distinzione fondamentale tra il concetto di documento e quello di documentazione. Il documento —> Il codice non dà una definizione di documento, bensì si limita a tracciare un requisito positivo e uno negativo. Il requisito positivo (art. 234.1): perché vi sia un documento è sufficiente uno scritto o altro oggetto comunque idoneo a rappresentare un fatto, una persona o una cosa. Il requisito negativo: l'oggetto rappresentato deve essere un atto o un fatto differente da un atto del procedimento penale (es. il diario dell'indagato o quello dell'offeso). Nel significato tecnico accolto dal codice il documento è quella rappresentazione di un fatto che è incorporata su di una base materiale, quando il fatto rappresentato è differente da un atto del procedimento penale. 96 La regolamentazione del documento è contenuta negli artt. da 234 a 243 del codice, collocati nel libro terzo sulle prove. Il documento, in quanto mezzo di prova, di regola è utilizzabile nel dibattimento. La documentazione —> Viceversa, se il fatto rappresentato è un atto del procedimento penale, il codice utilizza il termine documentazione. La documentazione è quella rappresentazione di un atto del procedimento penale che è incorporata su di una base materiale e che è formata da un soggetto del procedimento (giudice, pubblico ministero, polizia giudiziaria, difensore). Es. il verbale di un interrogatorio o di una perquisizione. La modalità di documentazione di un atto del procedimento è, di regola, il verbale, ed è disciplinata dagli artt. da 134 a 142 nel libro secondo sugli atti. Alla documentazione si applicano quelle norme del codice che prevedono la formazione dei fascicoli, le letture e le contestazioni (es. artt. 431, 433, 500-514). Pertanto, l'utilizzabilità in dibattimento dipende dal singolo atto di cui si tratta. Es. gli atti di indagine sono, di regola, inutilizzabili in dibattimento, salvo i casi di non ripetibilità, di provata minaccia al dichiarante e di consenso dell'imputato previsti dal comma 5 dell'art. 111 Cost. IL VALORE PROBATORIO DEL DOCUMENTO CONTENENTE DICHIARAZIONI Subito dopo l'entrata in vigore del codice del 1988, un'opinione dottrinale ha sostenuto che il documento contenente una dichiarazione non è utilizzabile come prova del fatto narrato perché ciò sarebbe contrario al principio di oralità. La Corte costituzionale con la sentenza 142/1992 ha precisato che l'art. 234 non distingue tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di dichiarazioni; pertanto, il documento contenente una dichiarazione può costituire prova del fatto rappresentato nella medesima e può essere ammesso. Poiché in materia vale il diritto alla prova (artt. 24.2 e 111.3 Cost.), ne consegue che le eccezioni all'utilizzabilità del documento devono essere espressamente previste dalla legge mediante divieti probatori. Un limite di diritto positivo è rinvenibile nell'art. 111.4 Cost., in base al quale la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore. Da tale disposizione si può ricavare il principio secondo cui è garantito costituzionalmente il diritto dell'imputato a confrontarsi con l'autore della dichiarazione, anche se tale dichiarazione è contenuta in un documento. IL DOCUMENTO ANONIMO La prova documentale può essere valutata dal giudice nella sua affidabilità quando è noto l'autore del documento. Infatti, all'autore, chiamato a deporre, possono essere rivolte le domande che servono a valutarne la credibilità e l'attendibilità (art. 194.2). È un processo giusto quello che permette all'imputato di confrontarsi con il suo accusatore; e ciò non è possibile se l'addebito proviene da un documento anonimo. In un primo approccio, si definisce anonima quella rappresentazione della quale non è identificabile l'autore (art. 239). Il codice distingue l'ipotesi in cui il documento contenga una dichiarazione anonima dall'ipotesi in cui il documento contenga una rappresentazione diversa dalla dichiarazione (es. una foto). 97