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Riassunto del libro Diritto dei Lavori e dell' Occupazione | G. Santoro Passarelli, Appunti di Diritto del Lavoro

Riassunto chiaro e conciso del libro "Diritto dei Lavori e dell' Occupazione" di Giuseppe Santoro Passarelli. Perfetto per esame universitario. Università degli Studi di Roma La Sapienza (UNIROMA)

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 13/11/2022

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Scarica Riassunto del libro Diritto dei Lavori e dell' Occupazione | G. Santoro Passarelli e più Appunti in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! CAPITOLO 1: PARTIZIONE DELLA MATERIA E FUNZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO Il diritto che dal lavoro prende il nome e ragione è costituito da tre parti: il diritto sindacale, il rapporto individuale di lavoro e la previdenza sociale. Le basi costituzionali del diritto sindacale italiano sono costituite dagli articoli 39 e 40 Costituzione. L'articolo 39 stabilisce che l'organizzazione sindacale sia libera e ciò significa non solo che i lavoratori possono costituire associazioni sindacali per tutelare i loro interessi, ma anche che l'ordinamento riconosce alle associazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori il potere di regolare da sé i loro interessi attraverso la conclusione del contratto collettivo. E l'articolo 40 stabilisce che lo sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano e quindi riconosce ai soggetti collettivi e ai singoli di autotutelare i propri interessi. Funzione di sostegno esemplare è svolta dallo statuto dei lavoratori. In conclusione quindi l'oggetto principale dello studio del diritto sindacale è: -La libertà e l'esercizio dell'attività sindacale posta in essere dai singoli e dalle associazioni sindacali per tutelare interessi collettivi e mai interessi individuali dei lavoratori -il contratto collettivo -l'autotutela ossia il ricorso da parte dei sindacati e dei lavoratori allo sciopero per far valere i loro interessi nei confronti dei datori di lavoro. Una parte non meno importante del diritto del lavoro ha come oggetto lo studio dei rapporti di lavoro. Infatti va subito detto che accanto al rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato che resta il prototipo socialmente più rilevante, esiste una serie numerosa di rapporti temporali come il contratto a tempo determinato, la somministrazione, l'apprendistato, il lavoro intermittente o speciali come il lavoro a domicilio o il lavoro domestico o il lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione o di lavoro autonomo come le collaborazioni continuative e coordinate nella misura in cui permane ancora questo tipo contrattuale dopo il decreto legislativo numero 81 del 2015. È bene chiarire subito che tutti questi rapporti e, segnatamente il rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato hanno origine contrattuale e sono contraddistinti rispetto agli altri contratti dall'implicazione della persona del lavoratore. Per questa ragione si dice che la disciplina del contratto di lavoro è costituita in massima parte da norme inderogabili ossia da norme di legge e clausole del contratto collettivo che non possono essere modificate dalla volontà delle parti individuali, norme che stanno a presidio dell'interesse della parte debole del rapporto di lavoro, ossia del lavoratore. Rientra nel campo di applicazione della nostra disciplina anche il lavoro autonomo e più in particolare, il lavoro autonomo debole. E infine una terza parte del diritto del lavoro è costituita dal diritto della previdenza sociale. In origine la previdenza sociale si occupava delle provvidenze riconosciute dal sistema ai lavoratori che avevano raggiunto l'età pensionabile e avevano maturato il diritto a un trattamento pensionistico e cioè un reddito per il periodo di non lavoro. Non c'è dubbio ormai che la scelta della tipologia contrattuale di assunzione o di impiego del personale da parte del datore di lavoro è condizionata dall'incidenza del costo dei contributi dovuti dal datore di lavoro all'Inps. Non si può ignorare l'esistenza di un sistema di sicurezza sociale che si fonda sulla solidarietà universale quando i beneficiari della prestazione sono tutti i cittadini bisognosi indipendentemente dall'esistenza di un rapporto contributivo perché il finanziamento le prescinde e quindi avviene attraverso il generale prelievo fiscale, ma questo rientra nel diritto della previdenza di cui questo manuale non si occupa. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Viceversa, questo manuale si occuperà di tutte le misure che riguardano: -L'incidenza della contribuzione sul costo del lavoro per le imprese e, di conseguenza, sulla scelta della tipologia contrattuale economicamente più conveniente e le modalità attraverso le quali l'ordinamento favorisce il ricorso a determinate tipologie contrattuali di assunzione -Le forme di tutela dell'occupazione in costanza di rapporto di lavoro -I servizi per l'impiego e le politiche attive -Le forme di tutela dell'occupazione per lavoratori che ricercano un posto di lavoro e le politiche attive, e le relative condizioni per usufruire dei trattamenti. A queste misure, di solito ad appannaggio dei manuali della previdenza sociale, è dedicata la quarta parte del manuale, che giustifica l'aggiunta del titolo "diritto dei lavori e dell'occupazione". Si tratta di provvedimenti legislativi e amministrativi che stanno acquisendo una loro identità e che ha come Comun denominatore non soltanto l'articolo 38 della costituzione, ma ancor prima L'articolo 4 della costituzione. Infatti, l'articolo 38 della costituzione sancisce il principio che siano forniti i mezzi adeguati e cioè un reddito in caso di disoccupazione involontaria e cioè di perdita del posto di lavoro o di mancanza del lavoro in costanza di rapporto. Invece l'articolo 4 riconosce il più ampio diritto al lavoro, inteso ovviamente non come diritto individuale ad avere un determinato posto di lavoro, ma come il diritto a ricevere assistenza e formazione nella ricerca di un posto di lavoro e cioè misure efficaci di incentivo e di tutela del lavoro e dell'occupazione. L'insieme delle norme legali e collettive, che costituiscono il sistema del diritto del lavoro, è nato e si è sviluppato per regolare e limitare, da un lato, l'esercizio dei poteri del datore di lavoro sul prestatore, e dall'altro, per garantire e tutelare in misura progressiva i diritti del prestatore di lavoro, che rimane, pur sempre, la parte debole del contratto. Il contemperamento dei diritti dei lavoratori e dell'impresa, una volta che ai primi sia garantito il minimo vitale, è consacrato dall'articolo 41 della costituzione, che consente al legislatore di stabilire limiti esterni e non funzionali ai diritti dell'impresa. La fonte tipica della nostra disciplina, come si è detto, è il contratto collettivo, istituto che consente alle parti collettive, sindacati e imprese di comporre, secondo valutazioni di opportunità e di convenienza in perfetta autonomia, i loro interessi contrapposti e di determinare buona parte del contenuto del contratto individuale di lavoro. Non bisogna dimenticare che il contratto collettivo, nato per limitare la concorrenza tra lavoratori, per evitare cioè che i lavoratori pur di lavorare offrissero la loro prestazione ad una mercede inferiore a quella stabilita dal contratto collettivo, successivamente ha assolto funzioni ulteriori e diverse rispetto a quella tipica e originaria e cioè quella normativa, di regolazione del contenuto del contratto individuale. D'altra parte, la funzione del contratto individuale che regola il rapporto tra il singolo lavoratore e datore di lavoro,di lavoro subordinato, proprio perché il suo contenuto è in buona parte determinato dal contratto collettivo e dalla legge, è stata, è, e dovrebbe restare quella di tutelare la persona che scambia il suo lavoro contro una mercede. CAPITOLO 2: LE FONTI DEL DIRITTO DEL LAVORO L'approccio allo studio delle fonti del diritto del lavoro prende le mosse dall'articolo 1 delle preleggi, ai sensi del quale sono fonti del diritto la legge, i regolamenti, le norme corporative e gli usi. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Nel caso in cui lo Stato non provveda ad attuare la direttiva nei termini stabiliti, il privato cittadino ha diritto al risarcimento del danno da parte dello Stato ma ovviamente non può pretendere l'applicazione immediata della direttiva, non attuata, nei rapporti con altri privati, perché, altrimenti, la stessa direttiva avrebbe non solo efficacia verticale ma anche quella orizzontale, propria dei regolamenti. Inoltre, la corte di giustizia ha più volte affermato che il giudice nazionale deve comunque interpretare il diritto interno, quando non vi sia un insanabile contrasto tra disposizioni interne e quelle comunitarie, in conformità al diritto comunitario (cosiddetta interpretazione conforme). Anche la costituzione repubblicana, che già nel suo primo articolo riconosce al lavoro un valore fondante della Repubblica, garantisce ed assicura un sistema di tutela e, in particolare retributiva e di sicurezza sociale, alla lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, non solo attraverso la mediazione della legge ordinaria e quindi del giudice, ma soprattutto attraverso il riconoscimento e la mediazione dell'autonomia collettiva e dello sciopero, elevato a rango di diritto costituzionalmente garantito. In seguito alla modifica del titolo V e articolo 117 della costituzione, si possono ragionevolmente ritenere inclusi tra i rapporti privati sia la disciplina del rapporto individuale di lavoro, sia il diritto sindacale nella sua dimensione privatistica. Alla legislazione concorrente o residuale delle regioni compete invece la disciplina della formazione professionale, la tutela e sicurezza del lavoro, la promozione dell'occupazione nonché la previdenza complementare ed integrativa e la disciplina delle professioni. E tuttavia la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi, se approvata dalle camere, restituirebbe una serie di materie al potere legislativo esclusivo dello Stato. Infatti, il disegno di legge limita la competenza regionale concorrente e riserva in via esclusiva alla legge statale le disposizioni generali e comuni in tema di tutela e sicurezza del lavoro, l'ordinamento delle professioni e la previdenza complementare ed integrativa, nonché le norme sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, tese ad assicurarne l'uniformità sul territorio nazionale. Inoltre, anche nelle ridotte materie di competenza regionale, la legge dello Stato potrebbe comunque intervenire, su proposta del governo, a tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, o dell'interesse nazionale. La legge statale e le fonti ad esso equiparati, e cioè i decreti legge e decreti legislativi, costituiscono il vero telaio della disciplina del rapporto di lavoro. Quanto agli usi, bisogna distinguere gli usi normativi (articolo 2078 codice civile), che possono prevalere su norme dispositive di legge, se più favorevoli per il lavoratore, ma non possono modificare la disciplina inderogabile del rapporto individuale di lavoro, dagli usi aziendali che sono usi negoziali (articolo 1340 codice civile). Secondo un orientamento per lungo tempo accolto dalla giurisprudenza, gli usi aziendali si concretano nella concezione generalizzata, durevole e costante di trattamenti non previsti da altre fonti e quindi integrano il contenuto del contratto individuale con l'ulteriore conseguenza che possono essere modificati solo con il consenso del lavoratore che ne è destinatario, e prevalgono anche sulla disciplina collettiva. Secondo la più recente giurisprudenza condivisa da una parte della dottrina, l'uso aziendale farebbe sorgere in capo al datore di lavoro un obbligo unilaterale di carattere collettivo produttivo di effetti giuridici sui singoli rapporti individuali di lavoro "allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale", sicché per la sua modifica o soppressione potrebbe risultare sufficiente un accordo con il sindacato. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Il rapporto di lavoro è regolato da un triplice ordine di fonti, ovviamente intese in senso non formale, costituite dalle norme di legge, dalle clausole del contratto collettivo e dalle clausole del contratto individuale. Lo spazio maggiore è occupato dalle disposizioni inderogabili di legge e dalle clausole inderogabili del contratto collettivo che assolvono ad una funzione di integrazione, specificazione e miglioramento delle tutele previste dalla legge, anche attraverso la previsione e il riconoscimento di diritti di origine esclusivamente collettiva. E tuttavia non si può fare a meno di rilevare la tendenza più recente del legislatore di riconoscere al contratto collettivo una funzione derogatoria in peius delle stesse disposizioni imperative della legge. Ciò non significa che non residui spazio per l'autonomia individuale rilevante nel momento costitutivo del rapporto di lavoro, se non altro per la libertà riconosciuta al lavoratore di accettare o rifiutare la proposta di assunzione del datore di lavoro, e, in ogni caso, di scegliere altre forme di impiego della manodopera (contratto a tempo determinato, a tempo parziale, eccetera), ma soprattutto della fase di svolgimento del rapporto, quando le parti, datore di lavoro e il singolo lavoratore, possono pattuire trattamenti più favorevoli di quelli previsti dal contratto collettivo. Da quanto si è detto emerge che il contratto collettivo rimane pur sempre atto di autonomia privata ed espressione della libertà sindacale, ma opera in modo non diverso dalla legge, anche se in posizione ad essa sottoordinata, e con l'efficacia soggettivamente limitata, per la mancata attuazione dell'articolo 39 costituzione. Occorre sottolineare che numerose disposizioni legislative emanate a partire dalla seconda metà degli anni 70 hanno ampliato notevolmente le competenze del contratto collettivo. Queste norme attribuiscono ai contratti collettivi una funzione integrativa o di completamento del dettato legislativo ovvero riconoscono agli stessi contratti il potere di derogare disposizioni legali non modificabili per mezzo di accordi individuali. La corte costituzionale ha sempre sostenuto che tali contratti assolvono una funzione regolamentare delegata loro dalla legge e, in alcuni casi, anche derogatoria. E pertanto dalla legge, e non dall'accordo sindacale, scaturisce l'obbligo del datore di lavoro di conformare i propri comportamenti alle previsioni dei contratti collettivi. Tra le fonti extra ordinem meritano una menzione particolare gli accordi triangolari di concertazione tra le confederazioni maggiormente rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro e il Governo. CAPITOLO 3: BREVE PROFILO STORICO DEL DIRITTO SINDACALE ITALIANO La connessione tra attività sindacale e prestazione di lavoro si realizza storicamente, sul piano fenomenico, nella fabbrica di tipo fordista, che in Italia si sviluppa tra la fine del secolo 19º e gli inizi del secolo scorso. La fabbrica è il luogo in cui si costituiscono i primi rapporti di lavoro tra gli operai, che lavorano gomito a gomito, e il padrone della fabbrica. E la medesimezza degli interessi dei suddetti lavoratori favorisce la formazione delle prime coalizioni occasionali operaie per ottenere migliori condizioni economiche dai datori di lavoro. Risulta quindi che almeno in prima istanza l'interesse dei lavoratori che prestano la loro opera in fabbrica è espresso da una coalizione inizialmente occasionale e poi stabile, denominata sindacato e che tale interesse è contrapposto a quello del titolare della fabbrica. Contrapposizione evidenziata dai primi scioperi nella fine del secolo 19º e risolta con la stipula dei primi accordi collettivi, denominati concordati di tariffa perché determinavano la tariffa, cioè la retribuzione minima che il datore di lavoro si impegna a corrispondere agli operai. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Le parti che stipulano il concordato di tariffa sono da un lato il gruppo di lavoratori e dall'altro il singolo datore di lavoro. In altre parole, quest'ultimo, singolarmente considerato, è parte dell'accordo di tariffa, mentre i lavoratori non sono legittimati a stipulare tale accordo singolarmente, ma solo collettivamente. Le prime coalizioni occasionali di tutela degli interessi dei lavoratori si formano con un duplice scopo: da un lato escludere la concorrenza tra gli appartenenti al gruppo e conseguentemente neutralizzare il diverso e minore potere contrattuale che l'operaio come singolo ha di fronte al datore di lavoro, o meglio padrone; dall'altro lato, tali coalizioni si costituiscono anche per ottenere qualche miglioramento retributivo attraverso la stipula di contratti collettivi. Sia tali coalizioni, sia gli stessi scioperi, sono strumenti molto deboli e di precaria difesa degli interessi dei lavoratori. È vero, infatti, che lo sciopero non è più considerato reato dal codice penale Zanardelli. Tuttavia, pur depenalizzato, lo sciopero rimane una forma di inadempimento contrattuale e quindi possibile causa di licenziamento, in quanto non era allora previsto alcun tipo di limite al potere di recesso da parte del datore di lavoro. Verso la fine dell'ottocento in Italia le coalizioni occasionali tendono a trasformarsi in strutture stabili e cioè in veri e propri sindacati. Si tratta spesso di associazioni di lavoratori che operano in un determinato ramo d'industria, ad esempio i metallurgici, gli edili, e talvolta di associazioni di lavoratori che svolgono un determinato mestiere, ad esempio l'associazione dei carpentieri. Il sindacato assume quindi la forma giuridica dell'associazione, dalle quali però si contraddistingue perché è portatore di un interesse collettivo e non soltanto comune. L'interesse collettivo è individuato di volta in volta dallo stesso sindacato. Con la diffusione dei concordati di tariffa, nel 1893, è istituita la magistratura dei probiviri, che decide le controversie di lavoro secondo equità. Non esistevano, infatti, norme legali a tutela dei diritti dei lavoratori. Le prime forme di legislazione sociale si sarebbero sviluppate solo qualche anno più tardi e limitatamente a particolari categorie di soggetti e solo per qualche materia come, ad esempio, l'orario di lavoro. Risulta che tale magistratura predispose una serie di massime a tutela degli interessi dei lavoratori. E tali massime costituirono una sorta di disciplina applicabile ai casi uguali o simili. Nel 1906, per la prima volta, nell'ambito di un accordo sindacale tra la Fiom e la fabbrica di automobili ITALA viene formalmente istituita la commissione interna, organismo non associativo interno alla fabbrica, di tutela degli interessi dei lavoratori. Successivamente, il concordato di tariffa è diventato contratto collettivo, dal momento che non si è limitato a determinare il salario che il datore di lavoro doveva corrispondere ai dipendenti, ma ha provveduto a regolare anche altre materie come le mansioni, l'orario di lavoro, le sanzioni disciplinari, eccetera. Si può quindi affermare che le prime forme di regolazione dei diritti e degli obblighi dei lavoratori in fabbrica hanno origine nel contratto individuale e collettivo. Bisogna aggiungere che in quel periodo vi fu una forte resistenza all'intervento legislativo di regolazione del contratto di lavoro e di tutela degli interessi dei lavoratori. La ragione principale di contrarietà a questa legge è che limitava il principio allora intangibile della libertà contrattuale delle parti. Prima del 1889, ossia sotto la vigenza del codice penale sardo del 1859, in Italia erano considerati reati sia indurre ingiustamente ed abusivamente gli operai ad una diminuzione del salario da parte dei datori di lavoro, sia le imprese di operai allo scopo di sospendere e ostacolare o fare rincarare il lavoro senza ragionevole causa. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 contratto collettivo di diritto comune, in linea di principio efficace nei confronti degli iscritti, di fatto si applichi poi a tutti i lavoratori se le parti collettive non hanno la forza contrattuale di stipularne un altro. Alcune ricostruzioni sostenute in passato, ma non generalmente accolte, stanno tuttavia tornando di attualità: si è riacceso, per esempio, il dibattito sulla natura del contratto collettivo e sulla possibile collocazione di quest'ultimo nel sistema delle fonti del diritto. Autorevole dottrina pubblicistica sostiene da tempo la natura normativa del contratto collettivo di diritto comune e la possibilità di inquadrarlo tra le fonti del diritto. Tali assunti non sono però accolti dalla maggioranza della giuslavoristica, che, ribadisce la natura privata degli interessi collettivi destinati a prevalere su quelli individuali. Dall'articolo 39 della costituzione si desume che i gruppi sono legittimati a regolare e soddisfare i loro interessi alla stessa stregua dei singoli. E perciò ben si può dire che accanto all'autonomia privata individuale il nostro ordinamento riconosce spazio all'autonomia privata collettiva, diretta a regolare non già gli interessi individuali degli appartenenti all'organizzazione sindacale, ma l'interesse collettivo degli stessi. E sotto questo profilo l'autonomia collettiva è una species del genus autonomia privata. Sempre l'articolo 39 della costituzione sancisce la libertà dell'organizzazione sindacale. Inoltre al comma 4, è previsto un particolare procedimento di estinzione dell'efficacia soggettiva del contratto collettivo a tutti gli appartenenti alla categoria, ma non è stato attuato per la contrarietà dei sindacati. I sindacati minoritari, e in particolare modo la Cisl erano, infatti, contrari a dare attuazione a una norma che, riconoscendo un potere contrattuale proporzionato al numero di iscritti, avrebbe confermato l'egemonia della Cgil in quanto sindacato maggioritario. Viceversa, l'unità di azione tra i tre sindacati storici Cgil, Cisl e Uil ha favorito nel 1972 la conclusione di un patto con il quale le suddette organizzazioni si riconoscevano reciprocamente una pari rappresentatività sindacale. Nel 1970 fu emanato lo statuto dei lavoratori che rafforzò in modo rilevante la posizione dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro perché introdusse il sindacato in azienda riconoscendo al medesimo una serie di diritti che rendevano l'effettivo esercizio dell'attività sindacale e al singolo lavoratore una serie di diritti nel rapporto di lavoro come il diritto alla tutela della professionalità, alla riservatezza, al divieto di controllo a distanza, al divieto di indagini sulle opinioni politiche del lavoratore, al divieto di discriminazione per ragioni sindacali e politiche e di sesso, ecc. e infine il diritto alla stabilità del posto di lavoro prevedendo come stazione la reintegrazione rispetto alla licenziamento illegittimo. Con l'articolo 18 si sanzionava un principio importante e cioè che tra il diritto del datore di lavoro alla temporaneità del vincolo contrattuale e quello del lavoratore alla stabilità del posto di lavoro, il legislatore privilegiò quest'ultimo. Oggi il diritto del lavoro non ha più come oggetto soltanto la tutela dei diritti di chi ha il lavoro, ma anche la tutela del reddito nei periodi di non lavoro e, infine, la promozione dell'occupazione per inoccupati, cioè a coloro che sono in cerca di prima occupazione, e per i disoccupati, cioè coloro che hanno perduto il posto di lavoro, anche attraverso le variazioni di norme che incentivano i datori di lavoro ad assumere nuovo personale. Per queste ragioni è opportuno aver aggiornato anche il titolo del manuale, giungendo a "Diritto dei lavori", l'espressione "e dell'occupazione". CAPITOLO 4: LA LIBERTÀ SINDACALE Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Il diritto sindacale si fonda sul principio della libertà di organizzazione sindacale, riconosciuta e regolata, oltre che da fonti normative interne, da diverse fonti internazionali ed europee. Tra le fonti internazionali assumono anzitutto rilievo le convenzioni numero 87 e 98 dell'organizzazione internazionale del lavoro, ratificata in Italia con legge 23 marzo 1958 numero 367, e intitolate l'una alla libertà sindacale e alla protezione del diritto sindacale, l'altra al diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva. Nella prima si stabilisce che i lavoratori e datori di lavoro, senza alcuna distinzione, hanno diritto di costituire, senza autorizzazione preventiva da parte dello Stato, organizzazioni sindacali che non possono essere sciolte da provvedimenti autoritativi. Nella seconda viene, invece, stabilito che i lavoratori hanno diritto di essere garantiti contro qualsiasi discriminazione con la quale il datore di lavoro tenti di compromettere la libertà sindacale. In ambito europeo, la normativa in materia di rapporti collettivi di lavoro è scarsamente considerata, a causa della matrice essenzialmente economica dell'unione europea e della diffusa idea che i fenomeni collettivi debbano essere lasciati all'autonomia delle parti. Il trattato di Maastricht, anche nella versione consolidata, esclude infatti la competenza delle politiche UE in materia di retribuzioni, diritto di associazione, diritto di sciopero e diritto di serrata. La carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000, invece, riconosceva la libertà di associazione sindacale e il diritto di negoziazione collettiva e di sciopero. La costituzione europea non è però mai entrata in vigore a causa delle difficoltà emerse in sede di ratifica ed alcuni Stati membri, in modo particolare in Francia e Olanda. Rispetto alle fonti interne il rilievo principale deve essere dato alla costituzione italiana, che sancisce il principio fondamentale della libertà di organizzazione sindacale dell'articolo 39 della costituzione. Rispetto al più generale diritto di associazione garantito dall'articolo 18 della costituzione, la libertà di organizzazione sindacale è più specifica e più ampia allo stesso tempo. È più specifica poiché tale libertà è contraddistinta dall'attributo sindacale, anche se l'articolo 39 non indica i limiti, il contenuto o l'oggetto, determinato, come si vedrà, dalla prassi sindacale. d'altra parte, la libertà di cui si discorre è più ampia perché tutela la dimensione individuale e collettiva e ogni forma di organizzazione associativa e non associativa, perciò è opportuno esaminarne i diversi profili. L'articolo 39 della Costituzione riconosce ad ogni cittadino lavoratore il diritto di svolgere attività sindacale, nonché di costituire o aderire o strutture sindacali. E ai sindacati viene riconosciuto il diritto di organizzarsi con strutture che hanno diversa forma giuridica, associativa e non associativa, e seconda dei criteri di aggregazione. Tra questi vanno segnalati quello del mestiere e quello per ramo di industria. La libertà sindacale, come detto, rileva come libertà dell'organizzazione sindacale e ha una dimensione individuale e una collettiva. Un altro profilo della libertà sindacale riguarda la libertà negoziale riconosciuta dall'articolo 39 della Costituzione ai sindacati. La norma costituzionale riconosce ai sindacati il potere di regolare da sé i propri interessi attraverso la stipula di contratti collettivi con il singolo datore di lavoro o con le contrapposte associazioni di datori di lavoro. La libertà negoziale ha ovviamente una dimensione collettiva. Un terzo profilo della libertà sindacale collettiva concerne la libertà di inquadramento sindacale. Sono gli stessi sindacati, e non più la legge come invece avveniva nell'ordinamento corporativo, a determinare l'ambito di applicazione del contratto collettivo. Vi è poi un quarto profilo della libertà sindacale, che ha una dimensione individuale a rilievo collettivo, in quanto tutela l'interesse della lavoratore a non subire discriminazioni per ragioni sindacali nell'ambito del rapporto individuale di lavoro. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 In altri termini, la garanzia della libertà sindacale vieta al datore di lavoro di compiere atti idonei a limitare l'esercizio della libertà sindacale dei lavoratori alle sue dipendenze (ad esempio licenziare un lavoratore perché si è iscritto ad una determinata associazione sindacale o perché ha partecipato ad uno sciopero). Quindi la libertà sindacale, all'interno del singolo rapporto di lavoro, tutela i lavoratori contro le discriminazioni per ragioni sindacali perpetrate dal datore di lavoro. Ciò garantisce non solo l'interesse individuale dei singoli lavoratori, ma indirettamente, anche l'interesse sindacale delle stesse organizzazioni sindacali. Nel nostro ordinamento la garanzia della libertà sindacale si estende anche al lavoratore che non aderisce ad alcuna organizzazione sindacale e che non esercita alcuna attività sindacale. La libertà sindacale esclude in radice non solo l'esistenza di un sindacato unico per ogni categoria, ma, ancor prima, la categoria ontologica o autoritativamente determinata. Nel sistema sindacale repubblicano il sindacato è configurato come associazione privata non riconosciuta e la categoria non preesiste al sindacato, ma è determinata dalle parti e quindi è un posterius rispetto al sindacato. Sicché rispetto ad una medesima categoria intesa come attività merceologica possono esistere, come esistono, una pluralità di sindacati, non a caso denominati di categoria. Il pluralismo sindacale in Italia ha diverse origini: la prima di natura ideologica. La Cgil, infatti, dopo l'entrata in vigore della costituzione ha subito due scissioni: la prima ad opera del sindacalismo bianco e cattolico che ha dato vita alla Cisl e la seconda di matrice laica del 1949 ha dato vita alla Uil. D'altra parte, il sindacalismo autonomo in alcuni settori, come il pubblico impiego, e la nascita dei COBAS (organizzazioni spontanee sorte in funzione critica rispetto ai sindacati tradizionali), sorti spesso a tutela degli interessi dei gruppi assai ristretti di lavoratori, hanno contribuito ad alimentare il pluralismo sindacale. Si pensi alla forte incidenza, almeno in un certo periodo, dei COBAS dei macchinisti delle ferrovie dello Stato. La mancata attuazione dell'articolo 39 della Costituzione è dipesa in gran parte dalla ferma volontà dei sindacati di impedire qualsiasi interferenza delle legislatore limitativa della loro autonomia. Viceversa, lo statuto dei lavoratori, legge 20 gennaio 1970 numero 300, non è stato osteggiato ma accolto con favore dalle organizzazioni sindacali perché è una legge che non limita, ma sostiene e rafforza le prerogative e i diritti del sindacato maggiormente rappresentativo. E non ha inciso sulla natura giuridica del sindacato come associazione privata e sulla qualificazione del contratto collettivo come contratto di diritto privato. Sono titolari della libertà sindacale i lavoratori subordinati e i loro sindacati, mentre si pone il problema della titolarità di tale libertà in capo ai lavoratori autonomi per due ragioni: in primo luogo per la non omogeneità degli interessi perseguiti dagli stessi lavoratori autonomi e conseguentemente per la scarsa propensione dei medesimi ad organizzarsi sindacalmente, ad eccezione, come è noto, della storica categoria degli agenti e rappresentanti di commercio. Ai dipendenti pubblici è ormai riconosciuta sia la titolarità della libertà sindacale che l'esercizio del diritto di sciopero. Tuttavia, nei confronti dei militari e degli appartenenti alla polizia la legge pone precise limitazioni in ragione della particolarità della loro attività. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 CAPITOLO 5: L'ORGANIZZAZIONE SINDACALE SEZIONE 1: L'ORGANIZZAZIONE SINDACALE E LE ASSOCIAZIONI RAPPRESENTATIVE DEI DATORI DI LAVORO I lavoratori sono liberi di costituire strutture sindacali associative e non associative. Tra quelle associative primeggia il sindacato, ma il riferimento all'organizzazione sindacale contenuto nell'articolo 39, non è limitato al modello associativo: l'organizzazione, infatti, è più ampia e il Costituente ha lasciato ampia libertà di costituire organismi di tutela negli interessi dei lavoratori. La nostra esperienza sindacale, infatti, ha conosciuto e conosce anche strutture sindacali non associative, o perché rispondenti del requisito della stabilità, o perché assunte da soggetti che vogliono mantenere la loro libertà di azione rispetto alle associazioni sindacali. Esempio del primo tipo sono le coalizioni operaie sorte per stipulare i concordati di tariffa e, per venire a periodi più recenti, i comitati unitari di base (CUB), sorti durante l'autunno caldo sindacale degli anni 68 e 69. Sono esempi del secondo tipo i COBAS dei macchinisti delle ferrovie, sorti per attivare una politica di rivendicazioni salariali limitate al profilo professionale del macchinista rispetto all'insieme dei dipendenti delle ferrovie dello Stato. Le associazioni sindacali sono regolate dal diritto comune quali associazioni non riconosciute. Il sindacato, tuttavia, ha una sua tipicità in virtù della natura collettiva dell'interesse perseguito, distinta dall'interesse comune che contraddistingue di norma il genus dell'associazione non riconosciuta. Si tratta di una disciplina piuttosto scarna: l'articolo 36 codice civile, attribuisce agli accordi degli associati la competenza a regolare l'ordinamento interno e l'amministrazione dell'associazione. L'articolo 37 interdice agli stessi associati di chiedere la divisione del fondo comune finché dura l'associazione, come pure la restituzione della quota in caso di recesso. L'articolo 38 stabilisce che i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune oppure, in via solidale e con responsabilità illimitata, sulle persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione. Bisogna distinguere un duplice interesse del sindacato: come associazione non riconosciuta che rileva sul piano patrimoniale e rispetto al quale sussiste la responsabilità prevista per gli amministratori nei limiti stabiliti dall'articolo 38 del codice civile, e l'interesse del sindacato come istituzione che riguarda le scelte di politica sindacale assunte dei dirigenti del sindacato su temi di politica economica o più strettamente di natura sindacale come la elaborazione di una piattaforma sindacale ossia l'insieme delle rivendicazioni nei confronti della controparte o la proclamazione dello sciopero. Accanto all'interesse del sindacato come istituzione rileva l'interesse collettivo che pur essendo in concreto gestito dal sindacato riguarda l'insieme dei lavoratori iscritti o che comunque si riconoscono in un determinato sindacato con il voto. L'interesse collettivo si distingue dall'interesse pubblico perché pur potendo essere riferito a gruppi molto ampi non riguarda la generalità dei cittadini. Secondo la dottrina privatistica, tale interesse collettivo, tipico dell'associazione sindacale, si distingue da quello comune perché trascende gli interessi individuali ed è indivisibile. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Ogni interesse, anche individuale, può diventare collettivo se e nella misura in cui il gruppo lo considera come tale. Inoltre, la manifestazione di volontà non è individuale, ma del gruppo, e deve avvenire osservando il procedimento di formazione della volontà che può definirsi collettiva perché è riferibile al gruppo. D'altra parte, i lavoratori che aderiscono al gruppo autolimitano la loro autonomia individuale e i loro interessi individuali alla volontà collettiva del gruppo. E questa autolimitazione aiuta a comprendere perché l'interesse collettivo prevalga sugli interessi individuali dei singoli appartenenti al gruppo e come l'autonomia del gruppo prevalga sull'autonomia dei singoli lavoratori. Infine, l'interesse collettivo di cui è portatore il sindacato deve essere distinto dall'interesse individuale a rilevanza collettiva di cui è portatore il lavoratore, che, ad esempio, subisca un trattamento discriminatorio per ragioni sindacali o venga licenziato per aver partecipato ad uno sciopero. Il funzionamento interno dei sindacati, come per ogni associazione non riconosciuta, è regolato dalle disposizioni contenute negli atti costitutivi e nei relativi statuti. Questi, di regola, prevedono le condizioni di ammissione, i diritti e gli obblighi degli associati, la composizione degli organi attraverso i quali si esprime la volontà collettiva dell'associazione sindacale. Come ogni associato, il lavoratore che si iscrive al sindacato si obbliga ad osservare lo statuto, a pagare i contributi, e a uniformarsi alle deliberazioni sindacali, e tra queste, all'osservanza del contratto collettivo stipulato dall'associazione di appartenenza. Il lavoratore iscritto esercita i suoi diritti di associato, partecipando con il voto all'approvazione delle delibere assembleari, all'elezione degli organismi dirigenti, eccetera. È comunque opportuno precisare che all'osservanza formale delle procedure non corrisponde sempre un'effettiva democrazia sindacale. In altri termini, le politiche sindacali, le rivendicazioni sindacali, le strategie sindacali sono spesso decise dagli organismi dirigenti dei sindacati a livello nazionale e sono, di regola, approvate dagli iscritti. Le associazioni degli imprenditori, per resistere alle rivendicazioni sindacali, replicano le caratteristiche costitutive del sindacato dei lavoratori, delineando un'organizzazione di livello categoriale (locale o nazionale) e intercategoriale, anche europeo. A livello intercategoriale queste associazioni si aggregano secondo tre grandi settori economici: quello industriale, quello agricolo e quello del terziario. Così Confindustria è una confederazione intercategoriale che, esattamente come le grandi confederazioni dei lavoratori, riunisce nel proprio ambito di associazioni delle diverse categorie: la Federmeccanica per le imprese metalmeccaniche, la Federchimica per quelle chimiche e chimico-farmaceutiche e così, similmente, in ogni settore. L'unità di base della Confindustria è l'associazione provinciale degli industriali, che riunisce gli industriali di tutte le categorie produttive nell'ambito di una stessa provincia. Allo stesso modo e con simili ripartizioni organizzative, sono associazioni intercategoriali anche Confcommercio e Confesercenti per il settore terziario e Confagricoltura insieme a Confcoltivatori e Coldiretti per il settore agricolo, mentre l'ABI riunisce le imprese bancarie. Si anticipa che, ai fini di garantire una maggiore stabilità e univocità della contrattazione del pubblico impiego, la pubblica amministrazione in qualità di datore di lavoro viene rappresentata dall'ARAN, in base ad un sistema di rappresentanza unico di matrice legale, tanto per la negoziazione di categoria, quanto a livello intercategoriale. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Gli enti bilaterali sono enti di fatto istituiti dai contratti collettivi e costituiti dai sindacati dei lavoratori e dalle associazioni degli imprenditori, che designano i rispettivi rappresentanti negli organi dell'ente. La presenza in un unico ente di datori di lavoro e lavoratori ha lo scopo di salvaguardare gli interessi degli uni e degli altri nella gestione e cura delle materie affidate all'ente bilaterale, attraverso una composizione mista e paritetica all'interno dell'organo. Va precisato che gli enti bilaterali già esistevano da tempo: basti pensare alle casse edili, che svolgono compiti in materia di formazione professionale, sicurezza del lavoro, prestazioni previdenziali ed altro ancora. SEZIONE 2: LA STRUTTURA DEL SINDACATO I grandi sindacati in Italia hanno una struttura confederale, sono cioè confederazioni, ossia associazioni intercategoriali che riuniscono a livello nazionale le rispettive associazioni nazionali delle diverse categorie merceologiche. Ad esempio la Cgil, Cisl, Uil e la Ugl sono confederazioni che riuniscono al proprio interno le federazioni dei sindacati dei metalmeccanici, dei chimici, così come degli edili, degli alimentari, ed altre ancora. I sindacati di categoria, a loro volta, e diversamente dai sindacati di mestiere, riuniscono i lavoratori per ramo d'industria, prendendo come riferimento organizzativo lo specifico settore produttivo in cui l'impresa opera. Pertanto, in tal modo, il sindacato organizza tutti i lavoratori che sono occupati in un'impresa di una determinata categoria merceologica, a prescindere dei diversi mestieri o specifiche professionalità che, all'interno della singola impresa, i diversi lavoratori possiedono. In altre parole, nel sistema corporativo la categoria preesisteva al sindacato, del sistema attuale il sindacato preesiste alla categoria. I sindacati nazionali delle diverse categorie, a loro volta, sono associazioni di associazioni, e cioè riuniscono al proprio interno i sindacati regionali, e questi a loro volta riuniscono i sindacati provinciali di una stessa categoria. Esiste anche una struttura intercategoriale territoriale. Ad esempio la struttura territoriale intercategoriale della Cgil è la Camera del lavoro. Diversamente dal sindacato di categoria, il sindacato di mestiere, tipico delle prime forme di associazionismo operaio, ed oggi utilizzato da alcune particolari figure professionali, ha come punto di riferimento non l'attività produttiva svolta dalla singola impresa, bensì l'attività lavorativa prestata dei singoli lavoratori. Il mestiere realizza forme di solidarietà collettiva limitata agli interessi dei lavoratori che svolgono una determinata o un insieme di mansioni omogenee. Esempio attuale di sindacati di mestiere sono quello dei piloti, quello degli insegnanti, quello dei macchinisti delle ferrovie. Come si è detto in precedenza, in Italia il sindacato esterno all'azienda ha avuto una struttura essenzialmente confederale e quindi a base associativa, mentre in azienda ha quasi sempre avuto una struttura non associativa. La struttura sindacale dell'azienda si forma su base elettorale, rappresentando quindi tutti i lavoratori dell'azienda, iscritti e non iscritti, a differenza del sindacato-associazione. La commissione interna rappresenta sicuramente l'espressione più antica di questo tipo di rappresentanza non associativa. La sua istituzione risale ai primi del 900: fu regolata per la prima volta da un accordo sindacale tra la federazione italiana operai metallurgici (FIOM) e la fabbrica di automobili Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 decadenza dalla qualifica di componente di r.s.u. e la decadenza dal godimento dei diritti collegati a tale qualifica, e perciò anche del diritto di usufruire dei permessi sindacali. Nel caso in cui le dimissioni o destituzioni coinvolgano più del 50% dei componenti della r.s.u., il testo unico oggi prevede la decadenza della stessa r.s.u. con la necessità di procedere al suo rinnovo. E la rilevanza del principio della maggioranza come criterio di funzionamento dell'organo implica il riconoscimento della natura collegiale della r.s.u., confermata dalla regola secondo la quale le decisioni si prendono a maggioranza. La natura collegiale dell'organismo rende necessaria la distinzione tra diritti sindacali a gestione individuale (come ad esempio i permessi) dai diritti sindacali a gestione collettiva, quale l'assemblea. I primi sono attribuiti ai singoli componenti della r.s.u., mentre i secondi sono assegnati alla r.s.u. in quanto organo collegiale. CAPITOLO 6: L'ATTIVITÀ SINDACALE SEZIONE 1: L'ATTIVITÀ SINDACALE IN GENERALE L'attività sindacale può essere esercitata dai lavoratori per perseguire e tutelare un interesse collettivo o un interesse individuale di rilevanza collettiva, ma mai un interesse esclusivamente individuale. Ovviamente l'attività sindacale può essere esercitata dal sindacato attraverso i propri iscritti e in particolare attraverso i dirigenti sindacali che agiscono in nome e per conto del sindacato. Si pensi, ad esempio, all'opera di proselitismo e alla raccolta di contributi, all'affissione di un comunicato o all'elaborazione di una piattaforma sindacale e, infine, alle stesse trattative per il rinnovo del contratto collettivo. È vero che in questo ultimo caso si tratta di una vera e propria attività negoziale, ma non si può negare che anche l'attività negoziale posta in essere dal sindacato rientri nell'oggetto dell'attività sindacale. Parimenti, rientra nell'attività sindacale anche la designazione da parte del sindacato dei propri iscritti nei consigli di amministrazione degli enti pubblici e previdenziali, nonché degli organi a rilevanza costituzionale come il CNEL. Oltre a questa forma di partecipazione alla funzione pubblica, il sindacato è consultato in audizioni parlamentari quando si discute l'approvazione di una legge in materia di lavoro. Il diritto sindacale appare contrassegnato, in forza dell'articolo 39, oltre che dal principio dell'autonomia privata collettiva, anche da quello dell'effettività dell'attività sindacale. La norma costituzionale non assegna al sindacato alcuna competenza ne determina alcun oggetto dell'attività sindacale. E allora si ritiene che, nel nostro ordinamento, l'attività sindacale sia delimitata da una frontiera mobile che estende o restringe il proprio territorio in ragione della rappresentatività del sindacato in un determinato momento e contesto storico. L'effettività dell'attività sindacale consente di affermare che ogni attività può essere considerata sindacale se il sindacato ha la forza di farla valere come tale nel rispetto delle competenze degli organi costituzionali e delle amministrazioni pubbliche. Inoltre, l'assenza di limiti e competenze legislativamente delineati ha attribuito al sindacato un potere di fatto, cui è connessa una responsabilità politica e non giuridica rispetto al proprio intervento. Il sindacato, oltre ad essere negoziatore di contratti, in passato ha preteso e ottenuto di partecipare al negoziato sulle riforme politiche, assumendo quindi il ruolo di soggetto politico. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 A partire dagli anni 80, inoltre, il sindacato partecipa come interlocutore privilegiato rispetto a determinate scelte di politica economica del governo, con l'avvio di un nuovo e diverso metodo di consultazione delle parti sociali, denominato concertazione. La concertazione è un metodo decisionale attraverso cui il governo, il sindacato e le associazioni imprenditoriali determinano di comune accordo gli obiettivi economico-sociali da realizzare e si assumono la responsabilità politica di adoperarsi per la loro concreta realizzazione secondo le proprie competenze. L'oggetto della concertazione non si esaurisce, quindi, nella consultazione delle parti sociali, ma prevede anche uno scambio e cioè la conclusione di un accordo trilaterale tra sindacati, le associazioni imprenditoriali e il Governo, che si fa parte negoziale e non semplice mediatore, mediante risorse finanziarie o provvedimenti. Gli accordi di concertazione hanno una natura giuridica diversa dagli altri contratti collettivi, tale da collocarsi, secondo la Corte costituzionale, fuori dall'articolo 39 costituzione perché, accanto a clausole obbligatorie concernenti la regolazione del sistema contrattuale e giuridicamente vincolanti per le parti sociali, vi è una parte contrassegnata dallo scambio non soltanto economico, ma anche e soprattutto politico. Nelle parti che impegnano il Governo in campo legislativo o in sede amministrativa, gli accordi di concertazione non hanno natura negoziale in senso tecnico perché, sempre secondo la corte costituzionale, la rappresentanza politica parlamentare deve restare libera di valutare le proposte presentate dall'esecutivo, essendo la sola legittimata a interpretare la volontà popolare ed a realizzare la sintesi degli interessi generali, anche qualora venga meno il consenso sindacale sui provvedimenti da adottare. E in tal caso non è da escludere e non è da sottovalutare, quale reazione dei sindacati all'inadempimento del governo, la sanzione della proclamazione dello sciopero generale. Inoltre, l'impegno politico tra parti sociali e Governo costituisce il presupposto e la condizione di efficacia giuridica dello stesso accordo sindacale. Tra le esperienze più significative di concertazione, si segnalano il protocollo Scotti del 1983, primo esempio di concertazione sindacale, l'accordo che abolì la cosiddetta scala mobile nel 1992 e il protocollo del 23 luglio 1993 a sostegno dell'occupazione e del contenimento dell'inflazione. Nel periodo del 1996-1998 la concertazione giunge a svolgere una funzione di coordinamento tra legislazione e autonomia collettiva, specie per l'adeguamento all'ordinamento comunitario, con lo sviluppo anche a livello territoriale mediante i cosiddetti patti territoriali e i contratti di area. La concertazione, tuttavia, funziona se tutte le parti coinvolte, e cioè i sindacati, le associazioni degli imprenditori e il Governo, danno il loro assenso all'individuazione degli obiettivi e alla loro realizzazione per le parti di loro competenza. In altri termini, senza il consenso di una parte o di una componente rappresentativa delle parti sociali, la concertazione viene meno. In taluni casi, il Governo ha abolito il metodo concertativo e lo ha sostituito con il dialogo sociale. Più di recente pare difettare la stessa volontà politica di seguire il metodo concertativo, perché dopo un tentativo di ripresa di un modello di concertazione, con alcuni iniziali risultati, da parte del del governo di centro-sinistra nel periodo 2006 2008, il terzo governo Berlusconi ha abbandonato l'esperienza della concertazione ed anche i governi Monti, Letta e Renzi non hanno seguito il metodo concertativo. Il mutato atteggiamento politico dei Governi più recenti rappresenta un importante spiegazione dei fallimenti del metodo concertativo, ma non l'unica. Infatti, il metodo concertativo presuppone un'adeguata disponibilità, in capo al governo, di risorse economiche da scambiare. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Un altro esempio della poliedricità dell'oggetto dell'attività sindacale è costituito dai diritti di informazione e consultazione del sindacato. Il riconoscimento di questi diritti consente al sindacato di conoscere preventivamente le scelte imprenditoriali (fase di informazione) e di condizionarle o attraverso il ricorso allo sciopero o avviando con il datore di lavoro una fase di consultazione che può concludersi con accordi sindacali diretti a comporre in via negoziale eventuali ricadute economiche, giuridiche e sociali e rapporti di lavoro derivanti da quelle stesse scelte imprenditoriali. In Italia, diversamente da altri paesi, come la Germania e la Gran Bretagna, i sindacati confederali hanno preferito mantenere la loro identità e non hanno mai operato in concreto, a parte qualche dichiarazione di rito, per realizzare l'unità organica, ma hanno generalmente privilegiato l'unità di azione sindacale pur perseguendo politiche con obiettivi sindacali talvolta diversi. L'articolo 43 della Costituzione prevede la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'azienda. Si tratta di una norma assolutamente inattuata e probabilmente destinata a rimanere sulla carta per diverso tempo, perché in Italia, diversamente dalla Germania, non c'è una tradizione sindacale di cogestione. A questo proposito è opportuno evidenziare che la cogestione, essendo una vera e propria partecipazione del sindacato negli organi di amministrazione della società o dell'ente datore di lavoro, è ben diversa sia dalla concertazione, sia dalla fase di informazione e consultazione, in cui non viene meno il ruolo di antagonista della parte sindacale rispetto al datore di lavoro. Come espressamente previsto dall'articolo 37 statuto dei lavoratori, le disposizioni dello statuto dei lavoratori si applicano anche ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Pertanto, ai lavoratori pubblici sono estesi sia il godimento che l'esercizio dei diritti sindacali, pur nei limiti e con le modalità stabilite dalla normativa speciale contenuta nel cosiddetto testo unico sull'impiego pubblico, il decreto legislativo numero 165 del 2001. SEZIONE 2: L'ATTIVITÀ SINDACALE NEI LUOGHI DI LAVORO Nello statuto dei lavoratori, che disciplina le tutele previste nei luoghi di lavoro, emerge in maniera evidente la distinzione concettuale e normativa tra libertà e attività sindacale. Infatti, il titolo II dello statuto riconosce a tutti i lavoratori la libertà sindacale nei luoghi di lavoro sancendo, da un lato, il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, dall'altro, il divieto di discriminazioni. Si tratta di norme che ripetono sostanzialmente quanto già solennemente affermato dall'articolo 39 della costituzione, con la specificazione che tali garanzie valgono anche all'interno dei luoghi di lavoro. Tuttavia, il titolo III riserva ai singoli lavoratori solamente il diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo in favore delle loro organizzazioni sindacali, senza pregiudizio del normale svolgimento dell'attività aziendale, mentre la titolarità di una serie di diritti che rendono effettivo l'esercizio dell'attività sindacale è riconosciuta soltanto ad alcuni soggetti individuati dall'articolo 19 dello statuto del lavoro, cioè le rappresentanze sindacali aziendali. L'articolo 20 statuto dei lavoratori disciplina l'assemblea, cioè il diritto dei lavoratori a riunirsi, nell'unità produttiva in cui sono occupati. L'assemblea può svolgersi fuori dell'orario di lavoro o durante l'orario di lavoro. In quest'ultimo caso, ciascun lavoratore ha diritto a 10 ore annue retribuite, o ad un monte ore maggiore stabilito dalla contrattazione Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Non deve essere neanche considerato una forma di partecipazione alla gestione dell'azienda e, soprattutto, non elimina ma in qualche modo rafforza il ruolo di antagonista del sindacato nei confronti del datore di lavoro. In alcune specifiche ipotesi la legge ha stabilito che le imprese occupanti più di 15 dipendenti debbano avviare la fase di informazione provvedendo ad effettuare una comunicazione per iscritto alle r.s.a. o, in mancanza, alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. L'inosservanza da parte del datore di lavoro della procedura di informazione e consultazione sindacale è qualificata come condotta antisindacale. L'attività sindacale viene disciplinata dallo statuto dei lavoratori nel titolo II del titolo III. Secondo una valutazione di opportunità il legislatore non obbliga i piccoli imprenditori e i datori di lavoro non imprenditori a svolgere le attività indicate dal titolo III, perché tali attività creano obblighi particolari in capo al datore di lavoro e hanno anche un costo economico. Pertanto, l'ambito di applicazione del titolo tre dello statuto dei lavoratori è stabilito dall'articolo 35, che ha adottato come criterio identificativo l'unità produttiva con più di 15 dipendenti. In verità l'articolo 35 non richiama testualmente il termine unità produttiva, ma la sede, stabilimento, ufficio o reparto autonomo. Tuttavia, secondo la giurisprudenza prevalente e parte della dottrina, queste denominazioni sono sinteticamente espresse dal termine riassuntivo di unità produttiva, la quale deve essere intesa come articolazione autonoma dell'impresa avente idoneità ad esplicare in tutto o in parte l'attività di impresa, la quale costituisce una componente tecnica ed amministrativa. Tra coloro che non vanno computati vi sono i dipendenti con contratto di apprendistato e i lavoratori assunti temporaneamente in sostituzione di quelli che hanno diritto alla conservazione del posto. Mentre i lavoratori a tempo parziale ed i lavoratori intermittenti sono computati in proporzione all'orario svolto. Il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. L'articolo 47 distingue due ipotesi: nelle aziende occupanti fino a 15 dipendenti il rappresentante per la sicurezza è di norma eletto direttamente dai lavoratori al loro interno o è individuato per più aziende nell'ambito territoriale o del comparto produttivo. Invece, nelle aziende che occupino più di 15 dipendenti il rappresentante per la sicurezza deve essere eletto o designato all'interno delle rappresentanze sindacali in azienda, o, in mancanza di queste ultime , eletto dai lavoratori. Il contratto collettivo stabilisce il numero, le modalità di designazione o elezione, il tempo di lavoro retribuito e gli strumenti per l'espletamento delle funzioni. L'articolo 48, poi, prevede la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale, eletto o designato secondo quanto previsto dagli accordi interconfederali o nazionali. L'articolo 50 determina le attribuzioni della rappresentante per la sicurezza. In particolare, ha diritto a ricevere una formazione adeguata, promuove l'elaborazione, l'individuazione e l'attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori, riceve le informazioni e la documentazione aziendale inerente la valutazione dei rischi nonché quelle inerenti alle sostanze e ai preparati pericolosi, le macchine, gli impianti, l'organizzazione e gli ambienti di lavoro, gli infortuni e le malattie professionali, avverte il responsabile dell'azienda dei rischi individuati nel corso della sua attività. Il contratto nazionale e non quello aziendale determinano le modalità per l'esercizio di queste funzioni. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 CAPITOLO 7: RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTATIVITÀ SINDACALE La rappresentanza e la rappresentatività sono sostantivi riferibili a diversi settori disciplinari. Infatti, la rappresentatività è una nozione socio-politica che esprime un giudizio di valore volto ad indicare l'idoneità del sindacato ad aggregare consenso o, se si preferisce, a rappresentare in senso atecnico gli interessi di collettività di lavoratori più ampi degli iscritti o, ancora, la relazione intercorrente tra associazione sindacale e categoria o gruppo professionale. La rappresentanza, invece, è un istituto giuridico, che assume precisi significati e produce determinati effetti a seconda della sua qualificazione giuridica. Così, per esempio, si può distinguere la rappresentanza volontaria da quella istituzionale. In Italia storicamente sorge prima la rappresentanza sindacale, intesa come potere del sindacato di compiere atti in nome e per conto degli associati. Secondo un'altra ricostruzione, la rappresentanza sindacale si distingue da quella civilistica perché il sindacato non agisce a tutela degli interessi dei propri iscritti, ma dell'interesse collettivo di cui è portatore. Secondo l'articolo 39 della costituzione, la rappresentatività del sindacato è misurata dal numero degli iscritti e ciascun sindacato ha un potere contrattuale e proporzionato alla propria consistenza associativa. Si tratta, quindi, di una rappresentatività effettiva e misurabile e serve a identificare l'agente negoziale legittimato a stipulare contratti con efficacia generale. L'articolo 19 dello statuto, invece, nella versione originaria, per individuare i soggetti ai quali è consentito svolgere attività sindacale all'interno dell'unità produttiva utilizzata come criterio selettivo non ha la rappresentatività effettiva e misurabile ma una maggiore rappresentatività presunta. Infatti, il testo originario dell'articolo 19 prevedeva che le rappresentanze sindacali aziendali (r.s.a.) fossero costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito: -Delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale -Delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell'unità produttiva. Di conseguenza, l'articolo 19 non consentiva la costituzione delle rappresentanze sindacali a quei sindacati che, pur avendo un elevato numero di iscritti in azienda, non fossero aderenti alle suddette confederazioni. D'altra parte, l'articolo 19 statuto dei lavoratori nella formulazione originaria, proprio perché presumeva la maggiore rappresentatività delle associazioni sindacali confederali, non ha individuato gli indici di riconoscimento della maggiore rappresentatività, e a questo compito ha provveduto la giurisprudenza desumendoli dalla struttura confederale del sindacato. Gli indici elaborati dalla giurisprudenza in base al vecchio testo dell'articolo 19 erano: -La intercategorialità, e cioè la presenza del sindacato in diverse categorie merceologiche -la pluricategorialità, e cioè la rappresentanza di più categorie professionali di lavoratori -La nazionalità, e cioè l'estensione geografica del sindacato nel territorio nazionale -il numero dei lavoratori iscritti -La capacità di mobilitazione dei lavoratori agli scioperi Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 -l'effettiva attività di contrattazione, e cioè l'autentica partecipazione alle trattative e non la semplice adesione al contratto collettivo. Giova anche rilevare che l'avverbio maggiormente non individua una comparazione tra un sindacato e un altro, ma una soglia al di sopra della quale tutti i sindacati erano ugualmente rappresentativi e per questo motivo erano legittimati a esercitare i diritti sindacali. Questo rilievo aiuta a comprendere perché la maggiore rappresentatività presunta abbia funzionato come criterio selettivo fino a quando ha retto il patto di unità di azione del 1972 fra le tre confederazioni storiche Cgil, Cisl e Uil, con il quale le stesse si riconobbero una pari rappresentatività sindacale. Il criterio selettivo della maggiore rappresentatività presunta non ha più funzionato quando è venuta meno l'unità di azione delle tre confederazioni e, contestualmente, si sono sempre più sviluppati i sindacati autonomi. Per evitare la censura di costituzionalità dell'articolo 19 il legislatore aveva riconosciuto la possibilità di costituire r.s.a. anche a quelle organizzazioni sindacali, non affiliate alle maggiori confederazioni, che avessero sottoscritto il contratto collettivo nazionale o provinciale applicato in azienda. Sia l'ipotesi espressione della cosiddetta rappresentatività presunta, sia gli incisi "non affiliate alle predette confederazioni", "nazionali o provinciali", sono stati abrogati dal referendum del 11 giugno 1995 con l'obiettivo di eliminare la maggiore rappresentatività non verificata e, nello stesso tempo, di aprire ai sindacati diversi da quelli confederali. All'esito del referendum del 1995 l'unico indice di riconoscimento della rappresentatività ai fini dell'articolo 19 è direttamente indicato dal legislatore nella stipulazione del contratto collettivo. Pertanto, i sindacati che non sottoscrivono il contratto non sono legittimati a costituire tali strutture e ad esercitare i conseguenti diritti. Ma ciò significa, in concreto, che l'esercizio dei diritti sindacali dipende dalla stipulazione del contratto collettivo e non deriva direttamente dalla legge. A seguito dell'abrogazione referendaria dell'inciso "nazionali e provinciali" contenuto nel vecchio testo dell'articolo 19, l'attuale formula ricomprende sicuramente il contratto nazionale, ogni forma di contratto territoriale, il contratto aziendale, nonché gli accordi interconfederali che regolano un istituto e quegli accordi a contenuto obbligatorio. Il nuovo testo dell'articolo 19 dello statuto dei lavoratori è stato più volte sottoposto al vaglio di costituzionalità per contrasto con gli articoli 39 della costituzione e 3 della costituzione. La corte costituzionale ritenne nel 1996 perfettamente ragionevole il criterio individuato dal legislatore nella sottoscrizione del contratto collettivo applicato, purché l'organizzazione sindacale avesse effettivamente partecipato alle trattative e non si fosse limitata a sottoscrivere per adesione. L'elemento della sottoscrizione deve, infatti, essere indicativo della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale. Anche in tempi più recenti l'articolo 19 è stato oggetto di forti tensioni interpretative. Infatti, il rifiuto della Fiom di sottoscrivere il contratto Fiat ha interdetto a questo sindacato la costituzione di una propria r.s.a. Questa vicenda ha determinato un imponente contenzioso giudiziario, che ha indotto a soluzioni giurisprudenziali diametralmente opposte. Alcune sentenze, che hanno interpretato in maniera estensiva l'articolo 19, hanno riconosciuto il diritto di costituire r.s.a. anche al sindacato non firmatario del contratto collettivo, in ragione della sua riconosciuta rappresentatività; altre, viceversa, hanno negato tale diritto, sulla base di una interpretazione più aderente alla lettera della norma statutaria. A fronte di questa totale incertezza interpretativa, la questione è stata rimessa al vaglio della corte costituzionale. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 D'altra parte, mancando una normativa di attuazione dell'articolo 39 della Costituzione, la disciplina del contratto collettivo è stata necessariamente rinvenuta nelle disposizioni del codice civile in materia di contratti in generale e questo spiega perché il contratto collettivo si chiami contratto collettivo di diritto comune. E tuttavia l'asserita natura privatistica dei contratti collettivi lascia insoluti sul piano giuridico formale tre problemi di grande rilevanza: quello dell'efficacia erga omnes, quello della sua inderogabilità e quello dell'interpretazione. Tali problemi non sono risolti neppure dalla dottrina che tende a valorizzare il contratto collettivo come fonte e, quindi, a privilegiarne la natura normativa rispetto a quella negoziale. Le procedure di stipulazione del contratto collettivo non sono regolate da norme di legge: la formazione del contratto resta regolata dalla disciplina generale del codice, con i soggetti collettivi che si autoriconoscono reciprocamente come controparti. Corollario della ricostruzione privatistica del contratto collettivo e del principio di libertà sindacale è appunto la libertà di scelta del contraente. Tale libertà risulta temperata, tuttavia, dal principio di effettività dell'attività sindacale, per effetto del quale il contratto collettivo finisce generalmente per essere stipulato con le associazioni sindacali più rappresentative, che si impongono come controparti contrattuali, e non con quelle che propongono piattaforme rivendicative e meno onerose per il datore di lavoro. Le associazioni più rappresentative avrebbero presumibilmente la forza di costringere la controparte datoriale a rinegoziare con loro il contratto collettivo. Alcune indicazioni in merito alle trattative per il rinnovo del contratto collettivo sono contenute nel protocollo 23 luglio Milano 1993 che, al fine di minimizzare i costi connessi ai rinnovi contrattuali e di evitare periodi di vacanza contrattuale, rimanda agli stessi contratti nazionali la definizione delle procedure di presentazione delle piattaforme rivendicative e dei tempi di apertura dei negoziati. Ai sensi del protocollo le parti si incontrano per avviare le trattative tre mesi prima della scadenza del contratto. La piattaforma rivendicativa solitamente non porta all'integrale sostituzione del testo contrattuale, ma alla sola modifica delle parti sulle quali si è formato il consenso. Il protocollo prevede meccanismi di raffreddamento volti a prevenire azioni dirette e durante le trattative, garantendo ai lavoratori uno specifico emolumento al prolungarsi delle stesse oltre i limiti stabiliti. Le trattative si chiudono con la sottoscrizione dell'ipotesi di accordo, il cui testo sintetizza reciproche concessioni che le parti inevitabilmente si fanno durante la negoziazione. L'ipotesi di accordo, pertanto, non coincide mai con la piattaforma rivendicativa sulla quale si è iniziato a trattare. Quando le trattative si prolungano ben oltre la scadenza del contratto collettivo, possono essere programmati scioperi e il conflitto può inasprirsi. Quando la controversia riguarda i rinnovi contrattuali particolarmente importanti, può intervenire la mediazione di un soggetto pubblico. Prima della stipulazione del contratto collettivo, l’ipotesi di accordo sarà sottoposta all'approvazione dei lavoratori tramite assemblee oppure al referendum. Trattandosi di ipotesi di accordo, in una fase in cui il contratto collettivo vero e proprio non è stato ancora sottoscritto, l'eventuale approvazione dei lavoratori non può essere configurato come una ratifica in senso tecnico: essa assume più valore politico che giuridico. Il contratto collettivo si conclude con la sottoscrizione delle parti: le associazioni datoriali e i sindacati, in caso di contratto nazionale, o il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali in azienda, in caso di contrattazione aziendale. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Quando i tavoli delle trattative si allargano ad un numero crescente di sigle sindacali, eventualmente su più tavoli separati, può anche accadere che determinate organizzazioni, pur non avendo partecipato effettivamente alle trattative per il rinnovo del contratto collettivo, lo sottoscrivano egualmente al fine di estenderne gli effetti ai propri iscritti. Questo tipo di sottoscrizione è definita per adesione. È vero che il sindacato ha l’aspirazione di riconoscere al contratto collettivo l'efficacia generale ma tale esigenza può essere soddisfatta, soltanto se il legislatore annoveri tra le fonti del diritto oggettivo il contratto collettivo o preveda un procedimento di estensione dell'efficacia soggettiva del contratto collettivo. È in entrambi i casi l'intervento del legislatore che limita inevitabilmente l'autonomia del sindacato. Va comunque sottolineato che da tempo la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che l'efficacia soggettiva del contratto collettivo si estende anche ai rapporti di lavoro tra datori di lavoro iscritti alle organizzazioni imprenditoriali stipulanti e lavoratori non iscritti al sindacato. Nell'ipotesi in cui il datore di lavoro o i datori di lavoro non siano iscritti, il problema dell'efficacia può risolversi con i rimedi di diritto comune e cioè con l'accettazione espressa o tacita o per comportamento concludente del datore di lavoro. Un altro modo di estinzione dell'efficacia soggettiva è la clausola di rinvio al contratto collettivo contenuta nel contratto individuale. Con la clausola di rinvio le parti del contratto individuale convengono di assoggettare il rapporto posto in essere alla regolamentazione dettata da un determinato contratto collettivo nazionale di categoria e dalle successive modifiche, in modo che le condizioni economico-normative applicabili siano quelle del contratto nazionale di riferimento tempo per tempo vigente. Si tratta evidentemente di rimedi che presuppongono l'applicazione volontaria del contratto da parte dei non iscritti. È opportuno osservare, inoltre, che la clausola di rinvio può funzionare soltanto se il rinvio si rivolge ad un unico contratto collettivo applicabile. Normalmente, il contratto nazionale di categoria è uno solo. Può accadere, tuttavia, che esistano due contratti nazionali entrambi vigenti ed applicabili, come avvenuto di recente nel settore metalmeccanico. In questo caso non è chiaro a quale delle due discipline collettive possa fare riferimento la clausola di rinvio. In conclusione, la funzione della clausola di rinvio può essere assolta soltanto laddove esista un solo contratto collettivo applicabile, mentre risulta paralizzata in caso di concorrenza tra più contratti collettivi dello stesso livello. La determinazione giudiziale della retribuzione nei confronti del non iscritto non comporta l'estensione dell'efficacia soggettiva del contratto collettivo nei confronti di quest'ultimo, anche perché sarebbe in contrasto con l'articolo 39 della costituzione. È invece il provvedimento del giudice (sentenza costitutiva) e non il contratto collettivo a costituire il titolo in base al quale il lavoratore che abbia agito in giudizio, ottiene la retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e comunque sufficiente. I problemi di determinazione della retribuzione si complicano in presenza di una pluralità di contratti collettivi nell'ambito dello stesso settore merceologico, qualora nessuno di essi sia applicabile perché il lavoratore non è iscritto alle associazioni stipulanti e non vi sia alcun rinvio nel contratto individuale di lavoro al contratto collettivo. La Corte ha precisato che anche un contratto collettivo di ambito più ristretto rispetto a quello nazionale, come un contratto aziendale o territoriale, può essere assunto come parametro retributivo di riferimento applicabile alla fattispecie dedotta in giudizio, con la Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 conseguenza che il giudice di merito può considerare sufficiente la determinazione della retribuzione pattuita in sede aziendale in misura inferiore rispetto a quella nazionale. Tuttavia, la corte di cassazione ha talvolta sostenuto che la determinazione giudiziale della retribuzione per un importo inferiore ai minimi salariali previsti dalla contrattazione collettiva non può essere motivata con il richiamo a condizioni ambientali o territoriali, ancorché peculiari del mercato del lavoro nel settore di attività a cui appartiene il rapporto di lavoro dedotto in giudizio, ma solo con riguardo a profili oggettivi della prestazione. Si tratta, in ogni caso, di un indirizzo contraddetto da decisioni di segno opposto. Un secondo problema, non facilmente risolubile, è costituito dalla difficoltà di individuare una norma come l'articolo 2077 codice civile sulla quale fondare la inderogabilità in pejus del contratto collettivo da parte del contratto individuale in termini di efficacia reale. L'articolo 2077 codice civile, infatti, regolava i rapporti tra contratto corporativo, qualificato atto normativo, e contratto individuale. E tuttavia la giurisprudenza continua ad applicare l'articolo 2077 anche al rapporto tra contratto individuale e contratto collettivo di diritto comune perché le soluzioni approntate da quella norma del codice non sono garantite da alcun altra norma e tantomeno dalle ricostruzioni che la dottrina si è sforzata di proporre. Mi riferisco alle tesi più note e cioè a quella del mandato collettivo irrevocabile, che pretendeva di far derivare l'inderogabilità del contratto collettivo dall’ irrevocabilità del mandato collettivo e a quella che utilizzava l'articolo 1374 codice civile in tema di integrazione del contratto. Allo stato attuale, il nuovo testo dell'articolo 2113 codice civile, dà per scontato che possono essere inderogabili le clausole del contratto collettivo. Ma certamente questa disposizione non ha la chiarezza e soprattutto la pluralità di effetti previsti dall'articolo 2077 codice civile, e cioè: la invalidità delle clausole meno favorevoli del contratto individuale, la loro sostituzione con quelle del contratto collettivo, e la prevalenza delle clausole del contratto individuale, anche preesistenti, più favorevoli. Per la determinazione del trattamento più favorevole la posizione della giurisprudenza non è univoca. Secondo una parte di essa si deve procedere a un raffronto tra i trattamenti complessivi previsti dal contratto individuale e quelli previsti dal contratto collettivo. Se, ad esempio, nel contratto individuale si stabilisce un minor numero di giorni di ferie ma una riduzione dell'orario settimanale di lavoro, occorrerà procedere alla comparazione tra trattamenti complessivi stabiliti da ciascuna fonte secondo il criterio del conglobamento e, quindi, applicare la disciplina negoziale che risulti complessivamente più favorevole per il lavoratore. Salvo che le parti di comune accordo scelgano il criterio del cumulo tra le due discipline e cioè applichino le clausole più favorevoli dei due contratti. Secondo un'altra parte della giurisprudenza, invece, la comparazione va effettuata non tra discipline complessive né tra singole clausole, ma tra le discipline dei diversi istituti. È vero però che diversi contratti collettivi contengono le clausole cosiddette di inscindibilità, nelle quali si stabilisce per l'appunto che le clausole di ogni istituto sono inscindibili tra loro e non cumulabili con altri trattamenti derivanti da altra fonte. La presenza di siffatte clausole impedisce il ricorso in ogni caso al criterio del cumulo e nell'altro caso a quello del conglobamento. Il contratto collettivo si divide di regola in una parte normativa e in una parte obbligatoria. Le clausole normative sono così denominati perché vincolano direttamente i datori di lavoro e lavoratori che rientrano nell'ambito di efficacia del Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 che considera il contratto collettivo incorporato nel contratto individuale (cosiddetta teoria dell'incorporazione). Secondo la teoria dell'incorporazione, il contratto collettivo successivo non potrebbe modificare la disciplina collettiva precedente, proprio perché il contratto collettivo scaduto risulta ormai incorporato nel contratto individuale. La tesi dell'incorporazione determina uno sbarramento alle dinamiche della contrattazione collettiva e nello stesso tempo supporta la teorica dei cosiddetti diritti quesiti. Per comprendere la portata e le conseguenze di questa teorica è bene chiarire preliminarmente che i diritti del lavoratore possono avere origine in norme inderogabili di legge, di contratto collettivo e clausole del contratto individuale. In primo luogo i diritti che hanno la loro fonte in una norma inderogabile di legge non possono ovviamente essere modificati o eliminati dal contratto collettivo, neppure su mandato espresso e ad hoc del singolo lavoratore, nella misura in cui tali diritti non siano disponibili dal titolare del diritto. In secondo luogo, i diritti che hanno origine o sono quantificati dal contratto collettivo sono modificabili anche in peius da un contratto successivo fino a quando non siano acquisiti nel patrimonio del singolo lavoratore. In terzo luogo i diritti riconosciuti dal contratto individuale non possono essere eliminati dal contratto collettivo successivo. Da questa disamina risulta che i diritti acquisiti definitivamente al patrimonio del lavoratore possono essere qualificati più precisamente come situazioni esaurite e vanno distinte dalle pretese a conservare il stabilmente il miglior trattamento previsto dal contratto collettivo precedente. Questa pretesa è destituita di fondamento, perché il contratto collettivo precedente non esiste più come fonte di regolazione del rapporto individuale di lavoro. Diversa e distinta dalla pretesa a conservare un certo trattamento previsto dal contratto scaduto è l'ipotesi della disponibilità da parte del sindacato dei diritti perfetti e nascenti dal contratto collettivo vigente ed entrati nel patrimonio del lavoratore. In questo caso, si tratta delle cosiddette transazioni collettive, il sindacato può modificare il regolamento contrattuale in corso e disporre con effetto retroattivo di siffatti diritti nascenti dal contratto collettivo solo in presenza di un mandato ad hoc o di una ratifica del lavoratore interessato e sempre che si tratti di diritti disponibili. Tra contratto nazionale e contratto aziendale non esiste un rapporto gerarchico, come tra contratto collettivo e contratto individuale, ma un rapporto di pari-ordinazione perché non esiste una norma di legge che regola i rapporti tra i due livelli contrattuali. Per questa ragione la dottrina si è posta il problema del concorso-conflitto tra fonti di diverso livello nella regolamentazione di un medesimo istituto accogliendo nel tempo una serie di criteri per dirimere tale conflitto. Solo per un certo periodo di tempo la giurisprudenza ha accolto quello cronologico, cioè la prevalenza dell'ultimo contratto, sia esso nazionale o aziendale. Questo criterio è stato successivamente abbandonato perché presuppone che la regolamentazione provenga dalla stessa fonte mentre, nel caso in esame, è contenuta in fonti diverse, anche se dotate di pari forza giuridica. Successivamente la giurisprudenza ha accolto il criterio della specialità, ossia la prevalenza del contratto aziendale anche se peggiorativo, perché è più vicino agli interessi da regolare, criterio temperato da quello della competenza e dell'autonomia, nel senso che l'accordo aziendale in peius è legittimo se la clausola interviene su materie sulle quali il contratto è competente a disporre interpretando la volontà delle parti, senza perdere di vista l'intero sistema contrattuale in cui inserire il patto derogatorio. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Questi criteri trovano applicazione soltanto nell'ipotesi in cui tale contratto sia stato siglato dalle articolazioni locali delle organizzazioni firmatarie del contratto collettivo in ambito più esteso. In altri termini, i criteri di specialità e di competenza presuppongono l'unità e la razionalità del sistema contrattuale complessivo. I criteri interpretativi della legge e del contratto, ferma l'unità del procedimento interpretativo, sono diversi e distinti, e tuttavia tale distinzione si appanna quando l'interpretazione accolta è oggetto del contratto collettivo di diritto comune. Il linea generale, tuttavia, il contratto collettivo deve essere interpretato applicando i criteri in materia di interpretazione del contratto nella sequenza indicata dal codice e non quelli stabiliti dall'articolo 12 delle preleggi. Si deve tenere conto, però, di alcune peculiarità: in primo luogo, la struttura e la funzione normativa del contratto collettivo, in secondo luogo, la fase di formazione del contratto collettivo, diversa rispetto ai normali contratti. Rispetto alla funzione e alla struttura del contratto collettivo, le clausole normative, al pari delle norme di legge, contengono precetti generali ed astratti diretti a destinatari diversi dai suoi autori. Quanto alle peculiarità della fase di formazione, queste ultime rendono problematica la ricostruzione della comune volontà delle parti, per una serie di ragioni: -I rinnovi periodici del contratto collettivo, possono comportare modifiche parziali, correttive, adattamenti, bilanciamenti e compensazioni tra le parti, che non sostituiscono integralmente il testo del precedente contratto collettivo, ma determinano, nel tempo, una stratificazione di discipline collettive -alla formula di una clausola contrattuale che pure rimanga inalterata può essere attribuito dalle parti un significato diverso da quello originario -Per l'interpretazione dei contratti collettivi diventa irrilevante il comportamento delle parti durante le trattative, se, come spesso accade, i verbali non sono pubblicati -La conclusione del contratto avviene sulla base di un compromesso, che spesso risulta distante dai punti di partenza indicati nelle piattaforme contrattuali e nelle direttive delle assemblee, le quali finiscono per avere un significato più politico che un valore giuridicamente rilevante -È altresì frequente che i testi delle clausole contrattuali, pur risultando volutamente ambigui, siano ugualmente sottoscritti dalle parti nella piena consapevolezza della loro ambiguità. Ne consegue che gli unici parametri di riferimento per accertare la comune intenzione delle parti sono il testo contrattuale e le note a verbale. Proprio tale criterio, secondo una recente giurisprudenza della cassazione, costituisce il mezzo prioritario e fondamentale per la corretta ricostruzione della comune intenzione delle parti laddove il significato letterale delle parole, secondo la loro connessione, si presenti esaustivo nel disvelare l'effettiva volontà dei contraenti. In caso contrario, l'interprete dovrà tenere in considerazione il comportamento successivo delle parti nell'applicazione della clausola stessa. Si dovrà tenere conto dei criteri extratestuali e cioè dell'ambiente sociale in cui la volontà sia manifestata, ovvero della natura e dell'oggetto del contratto collettivo. Si tratta pur sempre di criteri sussidiari rispetto a quelli cosiddetti soggettivi e cioè che ad essi si può far ricorso soltanto se e nella misura in cui i criteri soggettivi non siano idonei a garantire una corretta interpretazione del testo contrattuale. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Il contratto collettivo non può essere interpretato analogicamente: l'articolo 13 delle preleggi, infatti, vieta l'applicazione analogica dei contratti corporativi e quindi, a fortiori, dei contratti collettivi di diritto comune. Le osservazioni appena formulate non appaiono contraddette dall'articolo 420-bis codice procedura civile. Questa disposizione, come l'articolo 64 del decreto legislativo numero 165 del 2001, facoltizza il giudice a sospendere il giudizio quando deve definire una controversia sulla validità, efficacia o interpretazione delle clausole di un contratto collettivo nazionale. La sospensione del processo ha lo scopo di consentire alle parti di addivenire ad un accordo sostanzialmente transattivo, denominato di interpretazione autentica. D'altra parte l'articolo 360 codice di procedura civile, ormai ammette il ricorso alla Cassazione per violazione o falsa applicazione delle clausole dei contratti collettivi nazionali. In altre parole, la Corte di Cassazione assolve alla funzione di nomofilachia non soltanto rispetto alla legge, ma anche ai contratti collettivi nazionali che disciplinano i rapporti alle dipendenze di datori di lavoro privati e, come vedremo successivamente, dei datori di lavoro pubblici. Le due norme processuali appena richiamate consentono all'interprete di privilegiare i criteri di interpretazione oggettiva del contratto collettivo, ma sempre nei limiti sopra esposti, e cioè nel rispetto della sequenza stabilita dalle norme del codice civile in tema di interpretazione dei contratti. CAPITOLO 10: LEGGE E CONTRATTO COLLETTIVO Legge e contratto collettivo, in quanto fonti di disciplina del rapporto di lavoro, si rapportano vicendevolmente secondo modelli che assumono maggiore o minore importanza anche a seconda del contesto socio-economico di riferimento. Tra legge e contratto collettivo, in particolare, si instaurano rapporti di: -gerarchia, fondati sull'inderogabilità della norma legale da parte del contratto collettivo -integrazione funzionale, incentrati sui rinvii operati dalla legge alla disciplina pattizia. L'autonomia privata, seppur collettiva, è subordinata alla legge: quest'ultima, il linea generale, detta una disciplina inderogabile da parte del contratto collettivo. In linea generale, pertanto, il contratto collettivo non può peggiorare i livelli di trattamento e le condizioni stabilite direttamente dal legislatore. Sebbene in linea di principio interventi legislativi limitativi della autonomia collettiva, che restano comunque poco frequenti nell'esperienza sindacale italiana, possono sollevare dubbi di legittimità costituzionale, detti dubbi possono essere superati quando tali interventi rispondono a logiche di tutele dell'interesse pubblico. L'interesse pubblico, infatti, prevale sull'interesse collettivo dei lavoratori, che, per quanto ampio, resta un interesse particolare. L'integrazione funzionale tra legge e contratto collettivo segna il passaggio da una tutela legale rigida, inderogabilmente fissata dalla legge e rispetto alla quale il contratto collettivo può operare tutt'al più in senso migliorativo, ad una tutela più flessibile e variegata, suscettibile di essere completata, integrata o addirittura derogata dal contratto collettivo. Si possono distinguere, pertanto, i rinvii in funzione: -integrativa Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Mentre sono le federazioni nazionali di categoria le strutture legittimate a stipulare contratti nazionali che disciplinano i minimi di trattamento economico e normativo e le relazioni sindacali tra i soggetti stipulanti. Ai primi contratti nazionali di categoria si affiancano così importanti accordi interconfederali sui licenziamenti individuali e collettivi e sulle commissioni interne. Lo sviluppo economico del nostro sistema produttivo nell'immediato dopoguerra creò le premesse per un rafforzamento del sindacato e per la proposizione di strategie sindacali. Nel luglio del 1962 le federazioni di categoria dei sindacati metalmeccanici firmarono con l'Intersind e l'ASAP, le associazioni delle imprese a partecipazione statale, un accordo che stabiliva i principi del nuovo sistema contrattuale, articolato su due livelli, determinato di "contrattazione articolata", poi recepito dai diversi contratti nazionali di categoria. La contrattazione aziendale svolgeva un'importante funzione di volano per l'evoluzione della stessa contrattazione nazionale successiva. I miglioramenti introdotti dalla contrattazione aziendale, infatti, venivano poi generalmente riproposti nei successivi rinnovi dei contratti nazionali e finivano, quindi, per essere estesi alla più ampia cerchia di lavoratori. Si deve sottolineare che la contrattazione articolata fu più importante dal punto di vista del principio del decentramento, introdotto dal nostro sistema di relazioni sindacali, che non dal punto di vista operativo. Infatti il contratto nazionale continua ad essere il perno del sistema contrattuale e ad esso spettava determinare le competenze ed i soggetti della contrattazione aziendale, competenze peraltro ancora poco rilevanti come, per esempio, la disciplina della distribuzione dell'orario di lavoro, dei ritmi di lavoro, del cottimo, del sistema di valutazione delle mansioni, ecc. Gli imprenditori, inoltre, non accettarono passivamente la contrattazione articolata, ma ottennero quale contropartita, la sottoscrizione da parte dei sindacati delle clausole di pace sindacale, finalizzate a non promuovere azioni o rivendicazioni intese a modificare, integrare, innovare quanto già concordato ai vari livelli di contrattazione nel periodo che intercorre tra un rinnovo e l'altro. Già sul finire degli anni ‘60 ploriferarono iniziative spontanee di lotta sindacale dei lavoratori attraverso la costituzione del Cub, comitati unitari di base, ossia di organizzazioni di lavoratori che, senza la mediazione delle strutture sindacali tradizionali, avanzano nuove rivendicazioni (ad esempio aumenti uguali per tutti, riduzione dell'orario di lavoro, parificazione normativa tra impiegati e operai). La protesta dei lavoratori era diretta non solo contro la controparte imprenditoriale, ma anche contro il burocratismo e il verticismo delle organizzazioni sindacali. La forte conflittualità dell'autunno caldo sindacale degli anni 68-69 e il conseguente rifiuto di sottoscrivere le clausole di pace sindacale travolsero, dunque, inevitabilmente la contrattazione articolata. Il contratto dei metalmeccanici del dicembre 1969, che concluse l'autunno caldo sindacale, decretò anche la fine della contrattazione articolata, non conservando le competenze della contrattazione aziendale e delineando un sistema nuovamente centralizzato. Alla contrattazione articolata, che presupponeva il coordinamento tra i due livelli di contrattazione, si sostituì la contrattazione non vincolata: un sistema di relazioni sindacali articolato ancora su due livelli, nazionale e decentrato, ma non più coordinati tra loro. Successivamente, però, il periodo di recessione economica determinato anche dalla prima crisi petrolifera determinò un aumento considerevole dei prezzi e un conseguente aumento nominale dei salari, automaticamente adeguati al costo della vita per mezzo del meccanismo della contingenza. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Proprio il meccanismo della contingenza fu considerato responsabile dell'aumento dell'inflazione e del valore nominale dei salari. Con l'accentuarsi della crisi il contratto aziendale, fino ad ora sempre acquisitivo, cominciò anche ad introdurre clausole peggiorative rispetto a quella del contratto nazionale. La successiva evoluzione del sistema, a partire dagli anni ‘80, continuò a caratterizzarsi per una progressiva centralizzazione della contrattazione, culminata nel 1983 con il primo protocollo triangolare che apri la stagione della concertazione. L'accordo interconfederale del 1993, dopo un periodo di centralizzazione contrattuale, delinea nuovamente un sistema di contrattazione collettiva articolato in due livelli, quello nazionale e quello territoriale o aziendale. Il contratto collettivo aveva durata quadriennale per la parte economica e biennale per quella retributiva. L'aumento delle retribuzioni in sede di rinnovo biennale era collegato al tasso di inflazione programmata, la cui comparazione con quello di inflazione effettiva del biennio precedente costituiva un punto di riferimento per il successivo negoziato. Il contratto decentrato doveva intervenire su materie ed istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli regolati dal contratto di primo livello, secondo le modalità e negli ambiti di applicazione definitivi dallo stesso contratto nazionale. Dopo la parentesi costituita dall'accordo interconfederale del 2009, non sottoscritto dalla Cgil e pertanto immediatamente rivelatosi altamente ineffettivo, intervengono due importanti accordi interconfederali sottoscritti unitariamente da Cgil, Cisl e Uil: l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, con la postilla del 21 settembre dello stesso anno, e il protocollo d'intesa del 31 maggio del 2013. Si tratta di accordi molto importanti perché, almeno a livello interconfederale, segnano la riaffermazione del principio di unità di azione sindacale, messo in crisi a partire dal 2009 e anche su alcuni versanti nazionali ed aziendali. Le federazioni aderenti alla Cgil, infatti, non avevano sottoscritto rinnovi come quello dei metalmeccanici e del commercio, né le r.s.a (Fiom) avevano firmato gli accordi Fiat di Pomigliano e Mirafiori. Queste vicende aiutano a comprendere le ragioni che hanno portato, prima, all'accordo del 2011 e, poi, a quello del 2013. Entrambi gli accordi vengono stipulati per dettare regole certe e condivise finalizzate alla gestione del dissenso sindacale, rispettivamente in ambito aziendale e a livello nazionale. L'obiettivo è garantire una maggiore stabilità della disciplina contenuta nei contratti collettivi, senza che l'eventuale dissenso si traduca in una paralisi della contrattazione o nella stipulazione di accordi non unitari destinati a non tenere sul piano dell'effettività. Punto centrale della nuova disciplina è che il contratto stipulato nel rispetto delle regole e delle procedure concordate unitariamente a livello interconfederale, vincoli poi tutti soggetti che hanno accettato quelle regole, anche se dissenzienti rispetto ai contenuti del contratto. SEZIONE 2: LA DISCIPLINA DELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA I contenuti degli accordi del 2011 e del 2013 sono stati poi trasposti, con specificazioni ed integrazioni, nel testo unico della rappresentanza del 10 gennaio 2014 tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, che costituisce oggi la principale fonte di disciplina della contrattazione collettiva. Le ragioni che hanno portato alla sottoscrizione del testo unico sono: Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 -L'opportunità di riordinare, attuare ed accorpare in un unico documento contrattuale la disciplina della contrattazione aziendale, contenuta principalmente nell'accordo del 2011, e quella della contrattazione nazionale, prevalentemente dettata dall'accordo del 2013 -l'esigenza di delineare la disciplina dell'esigibilità degli impegni assunti con i contratti collettivi, al fine di rafforzare i meccanismi di gestione del dissenso e la tenuta della contrattazione collettiva -L'opportunità di tener conto della sentenza della corte costituzionale numero 231 del 2013, che, ai fini dell'esercizio dei diritti sindacali, attribuisce una grande rilevanza al concetto di partecipazione alle trattative -l'esigenza di attuare i principi di riforma delle r.s.u. delineati dall'accordo del 2013. Il Testo unico è articolato in quattro parti, oltre alle clausole transitorie e finali: 1. Misura e certificazione della rappresentanza ai fini della contrattazione collettiva nazionale e di categoria 2. Regolamentazione delle rappresentanze in azienda 3. Titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva nazionale di categoria ed aziendale 4. Disposizioni relative alle clausole e alle procedure di raffreddamento e alle conseguenze dell'inadempimento. Sono ammesse alla contrattazione nazionale le organizzazioni sindacali che abbiano nel settore una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tal fine la media tra i due diversi dati: quello associativo e quello elettorale. Il dato associativo si ricava dalla percentuale di lavoratori iscritti ad una determinata associazione rispetto al totale delle deleghe conferite dai lavoratori. Il dato elettorale si valuta sulla base dei voti ottenuti da una determinata lista rispetto al totale dei voti espressi nelle elezioni delle R.s.u. Nel procedimento sono coinvolti soggetti diversi: le federazioni nazionali ammesse alle trattative e la delegazione trattante. Le prime definiscono le piattaforme contrattuali e stipulano il contratto collettivo al termine delle trattative; la seconda conduce le trattative sulla base delle piattaforme presentate fino alla raggiungimento di un accordo con la controparte. Il procedimento di contrattazione si apre con la presentazione delle piattaforme: l'accordo interconfederale, sotto questo aspetto, prevede impegni in capo alle organizzazioni sindacali ed in capo alla parte datoriale. Le prime favoriranno, in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie. Laddove ciò non avvenga, tuttavia, la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si rinviene sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50% +1. Il contratto collettivo stipulato all'esito del procedimento di contrattazione sopra descritto può avere una particolare efficacia, non limitata alle federazioni stipulanti e ai lavoratori dalle stesse rappresentati, Se si verificano due condizioni ulteriori: -il contratto nazionale sia formalmente sottoscritto dalle organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50% +1 della rappresentanza -il contratto sia approvato mediante una consultazione certificata dei lavoratori, a maggioranza semplice, secondo modalità da stabilire ad opera delle categorie per ogni singolo contratto. Nell'ambito del procedimento di contrattazione appena descritto, il testo unico apporta un'importante novità. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Un ulteriore valore aggiunto delle clausole di esigibilità rispetto alle clausole di tregua sta poi nella predeterminazione di sanzioni più funzionali dei rimedi offerti in linea generale dal diritto civile, poco utili sul piano dei rapporti collettivi. Il testo unico, infatti, prefigura tre tipi di sanzioni: -sanzioni pecuniarie -sospensione dei diritti sindacali di fonte contrattuale -sospensione di ogni altra agibilità derivante dal testo unico. Nelle more dell'introduzione delle clausole di esigibilità nei contratti nazionali, il testo unico prevede una procedura di conciliazione e arbitrato per la valutazione di eventuali comportamenti non conformi agli accordi. È opportuno accennare alla contrattazione del gruppo Fiat (ora FCA), che, pur interessando un elevato numero di lavoratori del settore industriale, non è regolata dall'accordo interconfederale e costituisce un sistema autonomo. Proprio le vicende Fiat, del resto, hanno contribuito in modo rilevante all'evoluzione del sistema di contrattazione appena delineato. Nel dicembre 2011, infatti, Fiat è uscita da Confindustria e ha dato vita ad una propria contrattazione del tutto peculiare, recedendo da Federmeccanica e disdettando tutti i contratti collettivi vigenti a partire dal 1 gennaio 2012. Per il gruppo Fiat esiste oggi un contratto collettivo, definito espressamente contratto collettivo specifico di lavoro, stipulato con le federazioni nazionali di Cisl, Uil ma non anche della Cgil. Questa situazione presenta tre punti di particolare interesse: -il superamento dell'autoqualificazione del contratto Fiat come contratto di primo livello -l'atteggiarsi delle relazioni sindacali in azienda -La diversa impostazione delle clausole di esigibilità del contratto Fiat. Il contratto Fiat è stato da ultimo rinnovato il 7 luglio 2015 ed è applicabile a tutte le società del gruppo. Diversamente dai testi precedenti, l'ultimo contratto non è più definito di primo livello, alla stregua, cioè, di un contratto nazionale di categoria. Il superamento di questa denominazione nell'ultimo testo contrattuale appare quanto mai opportuno. La categoria, infatti, deve per definizione trascendere la singola azienda, per quanto importante e diffusa su tutto il territorio nazionale: tratto essenziale del contratto di categoria è la vocazione solidaristica volta ad assicurare trattamenti uniformi ai lavoratori di tutte le aziende dello stesso settore merceologico. Per esempio, un contratto di categoria potrebbe essere, casomai, quello del settore auto. In questo senso Federmeccanica, proprio per scongiurare l'eventuale fuga di altre aziende, principalmente del cosiddetto indotto Fiat, ha assicurato, il 22 dicembre 2011, un protocollo d'intesa sulla disciplina specifica del comparto auto, ad integrazione e modifica del CCNL metalmeccanici. CAPITOLO 12: LO SCIOPERO Lo sciopero è un diritto di rango costituzionale e l'articolo 40 della costituzione rinvia al legislatore ordinario il compito di regolarne le modalità di esercizio. In realtà, la norma costituzionale è stata considerata, sin dalle origini, pur in assenza della normativa di attuazione, immediatamente precettiva, e cioè applicabile direttamente dal giudice. L'assenza di una norma di legge ordinaria, come pure rinvia l'articolo 40 della Costituzione, spiega perché la giurisprudenza abbia dovuto assolvere ad una funzione di Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 supplenza, risolvendo dell'arco di un cinquantennio in via interpretativa, tre ordini di problemi: -La qualificazione dello sciopero e la conseguente determinazione delle finalità illecite del medesimo -La questione della titolarità del diritto di sciopero, risolta dalla dottrina maggioritaria privilegiando la tesi della titolarità individuale rispetto a quella della titolarità collettiva -Le modalità di esercizio del diritto di sciopero. Dette modalità sono state individuate e regolate dall'intervento massiccio e reticolare della giurisprudenza di legittimità e, soprattutto, della corte costituzionale. Le norme del codice penale sardo sancivano il divieto di coalizione e consideravano reati sia lo sciopero sia la serrata. Il codice penale Zanardelli del 1889 hanno depenalizzato lo sciopero che, insieme alla serata, restava reato solo se posto in essere con violenza o minaccia. Pertanto, lo sciopero fu considerato una libertà di fatto, cioè un atto penalmente lecito, mentre continuava essere considerato un illecito civile, cioè un inadempimento tale da giustificare il licenziamento. Il codice penale Rocco del 1930, entrato in vigore durante la dittatura fascista, ha sanzionato penalmente ogni forma di sciopero e di serrata, sia nel settore privato, sia nel settore pubblico. Oltre allo sciopero per fini contrattuali, ossia quello diretto contro il datore di lavoro al fine di ottenere la modifica delle condizioni di lavoro stabilito nel contratto collettivo, è sanzionato anche lo sciopero per fini non contrattuali, ossia per fine politico o per costringere la pubblica autorità a emettere od omettere un provvedimento ovvero ad influire sulle deliberazioni di essa (sciopero di imposizione politico economica) o sciopero di protesta o di solidarietà, nonché la serrata dei piccoli imprenditori senza dipendenti, in seguito qualificata come sciopero da una sentenza della Corte costituzionale del 1975. Infine, lo sciopero dei pubblici dipendenti era sanzionato dagli articoli 330-333, relativi all'abbandono collettivo di pubblici uffici, impieghi servizi o lavori; mentre l'articolo 340 puniva l'interruzione da parte dei privati di un ufficio, servizio pubblico o di un servizio di pubblica utilità. Una delle prime dottrine post-costituzionali aveva definito lo sciopero come astensione concertata dal lavoro per la tutela di un interesse economico professionale. In base a questa definizione fu qualificato come diritto soltanto lo sciopero per fini contrattuali, mentre furono esclusi dall'area della tutela altre forme di sciopero. Con la promulgazione della Costituzione lo sciopero fu elevato a rango di diritto costituzionale e fu qualificato dalla dottrina più risalente come diritto potestativo. Secondo tale ricostruzione, l'esercizio del diritto potestativo legittima il lavoratore a sospendere la sua obbligazione e colloca il datore di lavoro in una posizione di soggezione perché non può evitare l'esercizio del diritto di sciopero. La qualificazione dello sciopero come diritto potestativo conseguì due effetti: in primo luogo contribuire a consolidare la tesi della titolarità individuale del diritto di sciopero e a scinderne la titolarità dal problema dell'esercizio necessariamente collettivo; in secondo luogo, individuando il soggetto passivo del diritto di sciopero esclusivamente nel datore di lavoro, portò a considerare legittimi soltanto gli scioperi diretti contro di lui. D'altra parte, se è vero che l'esercizio del diritto potestativo legittima il titolare, e cioè il lavoratore, a sospendere l'esecuzione della prestazione, è altrettanto vero che il datore di lavoro, a fronte della sospensione dell'obbligazione di lavorare, è legittimato a sospendere Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 la sua obbligazione, cioè la retribuzione. Non sembra pertanto che il datore di lavoro venga a trovarsi in situazioni di vera e propria soggezione. Successivamente lo sciopero fu qualificato dalla dottrina come diritto assoluto della persona. La qualificazione dello sciopero come diritto assoluto della persona ha conseguito due obiettivi: In primo luogo ha individuato nello sciopero un mezzo per la realizzazione del principio di uguaglianza sostanziale; in secondo luogo ha rafforzato la inscindibilità del binomio titolarità individuale-esercizio collettivo del diritto di sciopero, favorendo in questo modo l'accantonamento della tesi della titolarità collettiva dello sciopero. Lo sciopero può essere fatto valere, non soltanto contro i datori di lavoro, ma anche contro il governo e la pubblica amministrazione. La corte ha legittimato, oltre allo sciopero contrattuale, anche lo sciopero di imposizione politico economica. Con questa definizione si intende lo sciopero effettuato per rivendicazioni nei confronti dei pubblici poteri rispetto a beni che non sono della disponibilità dei datori di lavoro, ma che trovano comunque riconoscimento e tutela della disciplina dei rapporti economici (Sciopero per la riforma fiscale, sanitaria, della previdenza, per la distribuzione degli alloggi, per l'occupazione, per il costo della vita, ecc). La corte costituzionale ha successivamente affermato anche la legittimità dello sciopero politico in senso stretto o puro. Questa forma di sciopero si esercita contro atti politici del governo. Ad esempio, contro le missioni militari in paesi stranieri o contro iniziative del governo che possono compromettere l'equilibrio ambientale. La corte costituzionale, dichiarando la illegittimità costituzionale dell'articolo 503 codice penale, nella parte in cui incriminava lo sciopero per fini non contrattuali, ha sancito, accanto al diritto di sciopero, la rilevanza della libertà di sciopero in quanto tale e cioè indipendentemente dal diritto di sciopero. La corte costituzionale ha lasciato in vigore l'articolo 503 del codice penale solo in due casi: quando lo sciopero politico sia diretto a sovvertire l'ordinamento costituzionale, e nell'ipotesi in cui oltrepassando i limiti di una legittima forma di pressione, si converta in uno strumento atto ad impedire od ostacolare il libero esercizio di quei diritti e poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare. La corte ha ritenuto legittimo lo sciopero di coazione sulla pubblica autorità. La consulta, senza dichiarare l'incostituzionalità dell'articolo 505 del codice penale che punisce lo sciopero di solidarietà, con una sentenza interpretativa di rigetto ha riconosciuto la legittimità di questa forma di protesta ogniqualvolta il giudice ordinario accerti l'esistenza di un collegamento necessario degli interessi economici del gruppo che si astiene dal lavoro a sostegno delle pretese di un altro gruppo già in sciopero. Secondo l'opinione prevalente, lo sciopero è un diritto individuale ad esercizio collettivo: individuale perché titolare del diritto è il singolo lavoratore; ad esercizio collettivo perché lo sciopero è finalizzato a tutelare un interesse collettivo e non è semplicemente un interesse individuale del lavoratore. La distinzione tra titolarità individuale ed esercizio collettivo può sollevare qualche perplessità perché, come osservato, lo sciopero può essere attuato solo per la difesa di un interesse collettivo. Alla formula della titolarità individuale ed esercizio collettivo dello sciopero, potrebbe contrapporsi la formula della titolarità collettiva e dell'esercizio individuale, ovvero quella della doppia titolarità, sia individuale sia collettiva. La titolarità collettiva del diritto di sciopero presuppone che la proclamazione sia un requisito di legittimità dell'esercizio di tale diritto. Viceversa, la titolarità individuale del diritto di sciopero non riconosce alcuna rilevanza alla proclamazione dello sciopero ai fini Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 percettiva con una parte che affida il governo del conflitto ad altre fonti e, in particolare, alla contrattazione collettiva. E tuttavia anche i sindacati hanno difficoltà a realizzare il compito ad essi affidato dalla legge per la frammentarietà della rappresentanza sindacale, favorita dal fatto che il legislatore non ha dettato criteri per la individuazione dei soggetti legittimati a proclamare lo sciopero. La legge numero 146 ha previsto, inoltre, come fonti di disciplina dello sciopero: il contratto collettivo, il regolamento di servizio emanato sulla base dell'accordo collettivo, i codici di autoregolamentazione proprie dei lavoratori autonomi, il lodo emanato dalla commissione di garanzia, il potere di regolamentazione provvisoria della stessa commissione e l'ordinanza di precettazione. La legge indica diversi limiti all'esercizio dello sciopero: -il preventivo esperimento delle procedure di raffreddamento e conciliazione del conflitto -l'obbligo del preavviso -l'obbligo di comunicare per iscritto la data, la durata, le modalità, nonché la motivazione dello sciopero sia al datore di lavoro, sia all'autorità precettante, che a sua volta è tenuta a trasmettere immediatamente tale comunicazione alla commissione di garanzia -il divieto del cosiddetto effetto annuncio, tipizzando la fattispecie dell'azione sindacale sleale -La rarefazione oggettiva, ossia il rispetto degli intervalli da osservare tra l'effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo -il rispetto di misure dirette a consentire l'esecuzione delle prestazioni indispensabili. Tali limiti, come ha avuto cura di precisare la giurisprudenza, sono da intendersi tassativi. Una delle novità più rilevanti, introdotta dalla legge numero 83 del 2000, riguarda l'inserzione obbligatoria nei contratti o accordi collettivi delle procedure di raffreddamento e di conciliazione, da esperire prima della proclamazione dello sciopero. Queste procedure intervengono, di solito, quando è già in essere uno stato di agitazione e sono effettuate durante il periodo di preavviso, al fine di differire lo sciopero (raffreddamento) o di evitarlo (conciliazione). Si dice, pertanto, che esse svolgono una funzione regolativa dello sciopero. Laddove le parti non intendono avvalersi delle procedure previste dagli accordi, possono esperire una diversa procedura di conciliazione in via amministrativa, presso la prefettura, il Comune o il Ministero del Lavoro a seconda della rilevanza territoriale del conflitto. A carico delle parti sociali sussistono una serie di doveri inerenti alla fase della proclamazione: in particolare, il dovere di rispettare le misure dirette a consentire l'erogazione delle prestazioni indispensabili e l'obbligo, per i soggetti che proclamano lo sciopero, di comunicare per iscritto nel termine di preavviso la durata, le modalità di attuazione e le motivazioni dell'astensione collettiva dal lavoro. Destinatari della comunicazione sono le amministrazioni o imprese che erogano il servizio e l'apposito ufficio costituito presso l'autorità tenuto ad adottare l'ordinanza di precettazione, che ne cura l'immediata trasmissione alla commissione di garanzia. L'articolo 2 formalizza il divieto del cosiddetto effetto annuncio. Ai sensi di questa disposizione, al di fuori dei casi in cui sia intervenuto un accordo tra le parti o vi sia stata una richiesta della commissione di garanzia o dell'autorità competente ad emanare l'ordinanza di precettazione, la revoca spontanea dello sciopero già programmato, dopo che ne è stata data informazione all'utenza, costituisce forma sleale di azione sindacale. Tale condotta è valutata dalla commissione di garanzia ai fini sanzionatori previsti dall'articolo 4. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 In primo luogo, il preavviso tutela l'interesse degli utenti ad utilizzare servizi alternativi o a programmare diversamente l'uso del servizio. Non bisogna dimenticare, infatti, che nei servizi pubblici in generale, e in quelli essenziali in particolare, sono gli utenti i soggetti più colpiti dallo sciopero. In secondo luogo, il preavviso consente all'amministrazione o all'ente erogatore del servizio di predisporre le misure necessarie per l'esecuzione delle prestazioni indispensabili e per favorire eventuali tentativi di composizione del conflitto. Come si è già detto, la legge stabilisce che devono essere garantite le prestazioni indispensabili durante lo sciopero. E la legge affida in primo luogo le parti sociali, attraverso la stipula di accordi collettivi a livello aziendale o a livello nazionale, il compito di individuare le prestazioni indispensabili, ossia quelle prestazioni che devono essere comunque assicurata e durante la citazione per garantire il con temperamento dell'esercizio del diritto di sciopero con l'esercizio dei diritti costituzionalmente garantiti. In mancanza dell'accordo fra le parti la legge riconosce alla commissione di garanzia, il potere di individuare le prestazioni indispensabili, stabilendo così i limiti che devono essere rispettati dalla commissione nell'esercizio del suddetto potere, denominato di provvisoria regolamentazione. In primo luogo, deve essere assicurato il 50% delle prestazioni normalmente erogate, in secondo luogo, devono riguardare quote strettamente necessarie di personale non superiori mediamente al terzo del personale normalmente utilizzato per la piena erogazione del servizio nel tempo interessato dallo sciopero. Gli stessi limiti devono essere rispettati dalla commissione di garanzia per la valutazione dell'idoneità degli atti negoziali e di autoregolamentazione. Nel caso di astensione dal lavoro dei lavoratori autonomi, liberi professionisti e piccoli imprenditori, la disciplina delle prestazioni indispensabili e contenuta in codice di autoregolamentazione adottati dalle associazioni che li rappresentano. I contratti e gli accordi collettivi devono anche indicare intervalli minimi da osservare tra l'effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo. Lo scopo della cosiddetta rarefazione oggettiva è, appunto, quello di garantire la continuità del servizio pubblico, impedendo la concomitanza o il sovrapporsi di scioperi in un medesimo arco temporale ed incidenti sullo stesso servizio finale o bacino di utenza. La legge assegna al contratto collettivo un ruolo centrale nel governo del conflitto. In tale prospettiva, il contratto collettivo diventa fonte, sia pure extra ordinem, di disciplina dello sciopero. Nella legge 146 del 1990 è riconosciuto ampio spazio ai codici di autoregolamentazione dello sciopero dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori. Le associazioni dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori, diversamente dai sindacati dei lavoratori subordinati, devono provvedere unilateralmente a limitare l'astensione dal lavoro dei loro iscritti attraverso l'adozione di codici di autoregolamentazione per contemperare l'esercizio del diritto di sciopero con l'esercizio dei diritti della persona costituzionalmente garantiti. L'obbligo di garantire l'esecuzione delle prestazioni indispensabili è sancito dall'articolo 2 e incombe: -sui soggetti che promuovono lo sciopero, o che vi aderiscono -sui lavoratori che esercitano il diritto di sciopero -sulle amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 -sulle associazioni dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori in solido con i singoli iscritti. Quanto ai soggetti che promuovono lo sciopero, va subito osservato che questa formula così ampia legittima alla proclamazione dello sciopero non solo le organizzazioni sindacali, ma ogni struttura sindacale anche non associativa e occasionale. I lavoratori che esercitano il diritto di sciopero sono obbligati a garantire, durante lo sciopero, le prestazioni indispensabili individuate preventivamente dalla contrattazione collettiva. In assenza di accordi collettivi o qualora essi non siano ritenuti idonei, i lavoratori devono attenersi alle modalità stabilite dalla provvisoria regolamentazione adottata dalla commissione a norma dell'articolo 13. Anche le imprese e le amministrazioni erogatrici dei servizi sono obbligate a garantire le prestazioni indispensabili. L'articolo 2, legge numero 146 del 1990, prevede a carico degli enti erogatori di servizi pubblici essenziali, importanti obblighi di informazione a favore dell'utenza al fine di garantire la concreta attuazione degli scopi indicati nella legge: gli enti erogatori di servizi pubblici essenziali, i servizi di informazione pubblici e privati, le amministrazioni e imprese erogatrici di servizi di trasporto sono soggette a obblighi di informazione tempestivi nei confronti degli utenti. Anche i lavoratori autonomi in solido con le loro associazioni sono tenuti a garantire l'esecuzione delle prestazioni indispensabili stabilite dai loro codici di autoregolamentazione o in mancanza dalla commissione di garanzia. La Commissione di garanzia, a giudizio di molti, deve essere annoverata fra le autorità indipendenti, cioè quelle autorità dotate di un elevato grado di autonomia e indipendenza che si collocano al di fuori dell'organizzazione gerarchica della pubblica amministrazione, in posizione di terzietà e neutralità rispetto agli interessi regolati dalla loro azione. Si può dire che la commissione di garanzia tende a creare con la sua giurisprudenza orientamenti e linee guida per le parti sociali, finendo così per assolvere quella funzione nomofilattica propria della cassazione. La legge numero 146 attribuisce alla commissione di garanzia una serie di poteri: -Potere d'ordine della commissione di garanzia. La commissione in alcuni casi può invitare i soggetti che hanno proclamato lo sciopero a differire la data dell'astensione dal lavoro e in generale può invitare le amministrazioni o imprese a desistere da comportamenti che possono determinare l'insorgenza o l'aggravamento di conflitti in corso. -valutazione di idoneità. Alla commissione compete il potere di valutare positivamente o negativamente l'idoneità delle prestazioni indispensabili e delle procedure di raffreddamento e di conciliazione e delle altre misure individuate con accordo dalle parti sociali e dirette a realizzare il contemperamento del diritto di sciopero con i diritti costituzionalmente garantiti. Qualora non ci sia un accordo l'impresa può proporre un accordo non vincolante (in quel momento) alle parti discordanti. La commissione di garanzia è inoltre titolare di un potere sanzionatorio, che può comportare l'irrogazione di: -sanzioni individuali nei confronti dei singoli lavoratori -sanzioni collettive nei confronti delle organizzazioni sindacali -sanzioni nei confronti degli enti erogatori dei servizi -sanzioni nei confronti dei lavoratori autonomi e delle loro associazioni. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 inducono una o più persone a non stipulare patti di lavoro, a non somministrare materie prime o attrezzature e a non comprare i prodotti. CAPITOLO 15: LA SERRATA La serrata, quale mezzo di lotta sindacale dell'imprenditore, consiste nella chiusura, totale o parziale, dei luoghi di lavoro da parte dell'attore di lavoro e nella conseguente sospensione dell'attività lavorativa. In tale caso, il lavoratore mantiene il diritto alla retribuzione pur non effettuando la prestazione lavorativa, poiché l'impossibilità di rendere la prestazione è imputabile esclusivamente al datore di lavoro. La nostra costituzione tace per quanto concerne la serrata. Dato che la serata non è un diritto, si tratta di accertare se sul piano penale sia una libertà di fatto o se con l'avvento della costituzione possa e debba qualificarsi come libertà costituzionalmente garantita. Sul punto si è pronunciata la corte costituzionale dichiarando incostituzionale l'articolo 502 del codice penale, sia della parte che incriminava il reato di sciopero per fini contrattuali, sia nella parte che incriminava il reato di serrata per fini contrattuali. La corte afferma che la serrata, pur non essendo stata riconosciuta come diritto dall'articolo 40 della costituzione, costituiva pur sempre una manifestazione del principio di libertà sindacale garantito all'articolo 39 della costituzione e, pertanto, non poteva essere considerata una condotta penalmente perseguibile. La serrata si presenta attualmente come un atto penalmente non vietato o, come si suol dire, penalmente lecito. Esistono tre forme di serrata: -cd offensiva: tendente a conseguire una modificazione in danno dei lavoratori di condizioni preesistenti -cd difensiva: diretta a scoraggiare iniziative dei lavoratori in tese a conseguire condizioni più favorevoli -cd di ritorsione: come reazione ai modi di conduzione della lotta sindacale da parte dei lavoratori. Continuano ad essere considerati reati ai sensi dell'articolo 505 del codice penale, la serrata per protesta e di solidarietà, perché, come ha affermato la corte costituzionale, la libertà costituzionale di serrato opera nel quadro dei rapporti fra datori di lavoro e lavoratori, ma non comprende, diversamente dallo sciopero, i comportamenti estranei alla ambito di quei rapporti. Se la serrata per fini contrattuali è un comportamento penalmente lecito, sul piano civile integra un inadempimento o più precisamente, un'ipotesi di mora del creditore. Quando l'imprenditore ricorre alla serrata cessa di cooperare all'adempimento dell'obbligazione del lavoratore: gli effetti sono stabiliti dagli articoli 1206 e successivi del codice civile, si concretano nel risarcimento del danno derivante dalla mora dello stesso imprenditore che sera l'azienda. Tuttavia, è doveroso sottolineare come sia consentito all'imprenditore rifiutare legittimamente la prestazione di lavoratori non scioperanti quando questo non sia proficuamente utilizzabile in concreto, a causa dello sciopero di altri dipendenti, come meglio descritto nel paragrafo seguente. Non ricorre ai sensi dell'articolo 1206 del codice civile la fattispecie della mora del creditore qualora l'imprenditore datore di lavoro rifiuti la prestazione di lavoro per un motivo legittimo. E sulla base di questa norma la giurisprudenza ha ritenuto che la serata Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 di ritorsione, ossia di risposta ad uno sciopero articolato, costituisce un motivo legittimo che esclude la mora del creditore. Quindi la sospensione dell'attività produttiva può essere civilmente lecita, cioè non impone al datore di lavoro l'obbligo del risarcimento del danno e quindi la corresponsione delle retribuzioni corrispondenti, soltanto in due casi: -nello sciopero a singhiozzo -nello sciopero a scacchiera. Infine, la serrata può rilevare come comportamento antisindacale, qualora l'azione del datore impedisca l'esercizio dei diritti sindacali e, in genere, l'esercizio dell'attività sindacale. Si pensi, ad esempio, alla chiusura dell'azienda da parte del datore di lavoro proprio nel giorno in cui si sarebbe dovuta tenere l'assemblea sindacale. CAPITOLO 16: LA TUTELA CONTRO LE DISCRIMINAZIONI PER MOTIVI SINDACALI La rilevanza della libertà sindacale nel rapporto individuale di lavoro impone al datore l’obbligo di non discriminare il lavoratore in ragione dello svolgimento dell'attività sindacale. L'articolo 15 dello statuto dei lavoratori, infatti, sancisce la nullità degli atti discriminatori, precisando che possono essere qualificati come tali i patti o gli atti diretti a subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che questo aderisca o non aderisca ad un'associazione sindacale ovvero cessi di farne parte. Sono altresì considerati discriminatori i fatti o gli atti diretti a licenziare un lavoratore, discriminarlo nell'assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. L'articolo 15 inoltre, nel suo testo originario, vietava la discriminazione per ragioni sindacali, politiche e religiose, per motivi di razza, di lingua o di sesso, per handicap, età, orientamento sessuale o le convinzioni personali. La sanzione comminata dall'ordinamento è la nullità degli atti discriminatori. Si tenga ben in mente la differenza tra atti discriminatori e condotta antisindacale: i primi ledono interessi individuali a rilievo collettivo, mentre la seconda può ledere interessi collettivi, interessi individuali a rilievo collettivo e interessi del sindacato associazione. L'articolo 16 dello statuto dei lavoratori vieta i trattamenti economici collettivi aventi finalità discriminatorie. L'esempio tipico è quello della corresponsione di benefici ai lavoratori che non hanno partecipato allo sciopero, ma può anche consistere in un vantaggio volta incentivare l'adesione dei lavoratori a organizzazioni sindacali maggiormente gradite al datore di lavoro. L'articolo 16 non prevede la nullità di tali trattamenti, ma l'irrogazione di una sanzione civile nei confronti del datore di lavoro, consistente nel pagamento al fondo pensioni dell'Inps di una somma pari all'importo dei trattamenti economici corrisposti illegittimamente ai lavoratori nell'arco di un anno. L'articolo 17 dello statuto dei lavoratori vieta al datore di lavoro e alle associazioni datoriali di costituire e sostenere, con mezzi finanziari o in qualunque altro modo, le organizzazioni sindacali dei lavoratori. Tali organizzazioni, definite dall'articolo 17 come sindacati di comodo, nel linguaggio corrente vengono denominati "sindacati gialli". La sanzione non può comportare lo scioglimento del sindacato di comodo, ma soltanto la cessazione del sostegno del datore di lavoro al sindacato stesso. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Lo statuto dei lavoratori, all'articolo 22, prevede un particolare apparato di tutele per i dirigenti delle rappresentanze sindacali, al fine di assicurare lo svolgimento della loro attività sindacale e garantirli contro eventuali ritorsioni da parte del datore di lavoro. Tale tutela si concreta in una protezione specifica contro i licenziamenti e i trasferimenti e vale per un periodo di un anno successivo alla cessazione dell'incarico. La giurisprudenza ha riconosciuto come beneficiari della tutela coloro che hanno diritto ad usufruire dei permessi sindacali. L'articolo 22 prevede che i soggetti tutelati possano essere trasferiti da un'unità produttiva all'altra solo previo nullaosta delle associazioni sindacali a cui appartengono. L'Articolo 18 dello statuto dei lavoratori prevede una particolare procedura cautelare, esperibile su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato: il giudice, quando ritenga che gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro siano irrilevanti o insufficienti, può ordinare in ogni stato e grado del giudizio di merito la reintegrazione del dirigente sindacale nel posto di lavoro. In particolare, il comma 14 della articolo 18, al fine di indurre il datore di lavoro ad ottemperare all'ordine di reintegrazione impartito dal giudice, prevede l'irrogazione di una efficace sanzione amministrativa, consistente nella corresponsione al fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione dell'ordine di reintegrazione. CAPITOLO 17: LA REPRESSIONE DELLA CONDOTTA ANTISINDACALE L'articolo 28 dello statuto dei lavoratori è una norma estremamente innovativa, perché legittima l'intervento del giudice nell'ambito delle relazioni industriali, tradizionalmente riservato al governo delle parti. Infatti, l'articolo 28 legittima il giudice a reprimere ogni comportamento del datore di lavoro diretto a impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale o del diritto di sciopero. In primo luogo, è importante evidenziare l'ampiezza dell'ambito di applicazione soggettivo, che riguarda tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, a prescindere dalle dimensioni aziendali. In secondo luogo, si tratta di una tutela giurisdizionale dell'interesse sindacale leso. Tale tutela è sia inibitoria, in quanto comporta la cessazione del comportamento illegittimo, sia ripristinatoria, attraverso la rimozione degli effetti della condotta antisindacale e la ricostruzione della situazione precedente. In terzo luogo, la scelta del legislatore di limitare la legittimazione attiva ai soli organismi locali dei sindacati nazionali si è rilevata di grande equilibrio, perché il sindacato ricorrente ex articolo 28 statuto dei lavoratori deve valutare anche le ricadute che possono derivare alla propria credibilità dall'eventuale rigetto del ricorso. In quarto luogo, è opportuno segnalare che l'introduzione della tutela giurisdizionale non solo opera un importante bilanciamento dei poteri tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali, ma rappresenta una significativa novità in un'area tradizionalmente riservata ai rapporti tra le parti. Ne consegue che la condotta del datore di lavoro può essere definita antisindacale quando si oppone al conflitto e non quando si oppone alle pretese del sindacato. L'articolo 28 è una norma cosiddetta in bianco perché non definisce una fattispecie specifica: la condotta del datore di lavoro si configura come antisindacale ogni volta che impedisce o limita l'esercizio effettivo della libertà sindacale, dell'attività sindacale nonché del diritto di sciopero. L'indeterminatezza della previsione normativa deriva dal fatto che i beni oggetto della tutela possono essere lesi da una varietà di comportamenti e da una serie di modalità che non è possibile determinare a priori. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 funzionamento dell'intero sistema contrattuale, in quanto dalle votazioni effettuate in questa struttura si ricava il dato elettorale. Le rappresentanze sindacali unitarie sono interamente elettive e vengono eletti a suffragio universale, con voto segreto. La ripartizione dei seggi è rigorosamente proporzionale ai voti conseguiti da sindacati ammessi alle trattative a livello nazionale e anche da altri sindacati, a condizione che siano costituiti in associazione, abbiano un proprio statuto e abbiano aderito agli accordi o contratti collettivi che disciplinano l'elezione e il funzionamento dell'organismo. Secondo l'articolo 43 del decreto legislativo numero 165 del 2001, l'Aran (agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) ammettere alle trattative per il rinnovo del contratto nazionale le organizzazioni sindacali che abbiano una rappresentatività non inferiore al 5% nel comparto o nell'aria. Per il calcolo di tale percentuale viene considerata la media tra il dato elettorale e il dato associativo. Il dato associativo è espresso dalla percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali rilasciate nell'ambito considerato, mentre il dato elettorale è espresso dalla percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale rispetto al totale dei voti espressi nell'ambito considerato. SEZIONE 2: LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA NEL LAVORO PUBBLICO La legge quadro numero 93 del 1000 novecento 83 aveva intestato la contrattazione collettiva, per definizione consensuale, sul modello autoritativo del pubblico impiego. Per realizzare questo innesto aveva ritenuto indispensabile la ricezione del contratto collettivo in un regolamento, con la conseguenza che la legge quadro aveva formalizzato e irrigidito la contrattazione, strumento di per sé dinamico, e aveva privilegiato la centralizzazione a discapito della contrattazione collettiva decentrata. Del nuovo quadro normativo disegnato dalle cosiddette due privatizzazioni prima richiamate, il contratto collettivo non è +1 elemento necessario di un procedimento che si chiude con la ricezione del contratto collettivo in regolamento, ma è considerato un atto di autonomia privata che, seppure con qualche particolarità, regola direttamente i rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici allo stesso modo in cui il contratto collettivo di diritto comune regola i rapporti di lavoro privati. Come si vedrà in seguito, sono numerosi i dati normativi che consentono di rilevare la diversità tra i due tipi di contratto collettivo. Ai sensi dell'articolo 40 del decreto legislativo numero 165 del 2001, la contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali. Questa formulazione ha sostituito la precedente "si svolge su tutte le materie relative al rapporto di lavoro ed alle relazioni sindacali" e risulta certamente più ambigua. Essa sembra evidenziare, infatti, una sorta di sfiducia delle legislatore nella contrattazione collettiva quale fonte del rapporto di lavoro pubblico a competenza generale. La nuova formulazione, infatti, sembra voler circoscrivere l'ambito di intervento del contratto collettivo ad un'area più limitata rispetto alla precedente. Le parti, e cioè l'Aran e le confederazioni rappresentative ai sensi dell'articolo 43, definiscono attraverso accordi i comparti di contrattazione che riguardano settori omogenei o affini. Icontratti collettivi che definiscono o modificano i comparti o le aree o che regolano istituti comuni a tutte le pubbliche amministrazioni o applicabile a più comparti sono denominati accordi quadro. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 In ogni comparto è stipulato il contratto nazionale di comparto. I dirigenti costituiscono un'area professionale autonoma relativa a uno o più comparti. La struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli e la durata dei contratti nazionali e integrativi sono regolate dalla stessa contrattazione collettiva in modo che vi sia coincidenza tra la vigenza della disciplina giuridica e di quella economica. Le pubbliche amministrazioni possono attivare autonomi livelli di contrattazione integrativa nel rispetto di una serie di vincoli, in primo luogo legati ad esigenze di bilancio, resi più stringenti dal decreto legislativo numero 150 del 2009. I limiti di spesa costituiscono ovviamente un limite alla libertà di contrattazione, tanto che diverse leggi nel corso degli ultimi anni hanno bloccato i rinnovi contrattuali e solo di recente, all'esito della sentenza della corte costituzionale del 23 giugno 2015, detti i blocchi sono stati rimossi per il futuro. Le pubbliche amministrazioni non possono sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti previsti dai contratti collettivi nazionali o che disciplinino materie non espressamente delegate ovvero che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. Le clausole difformi sono nulle e non possono essere applicate. Esse, inoltre, solo sostituire ai sensi degli articoli 1339 e 1419 del codice civile. Questa previsione assicura una gerarchia tra i livelli contrattuali, che, nel settore privato, non è sancita da alcuna norma di legge. L'aran, ossia l'agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, ha personalità giuridica di diritto pubblico, il potere di organizzarsi autonomamente e rappresenta legalmente le pubbliche amministrazioni agli effetti della contrattazione collettiva nazionale. Essa, inoltre, esercita ogni attività relativa alle relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi e all'assistenza delle pubbliche amministrazioni al fine dell'uniforme applicazione dei contratti stessi. I comitati di settore sono organismi espressi dalle forme associative o rappresentative delle diverse amministrazioni, previsti dall'articolo 41 del decreto legislativo numero 165 del 2001, e svolgono una funzione di indirizzo politico-amministrativo e indica all'Aran gli obiettivi che deve perseguire nel rispetto della sua competenza tecnica. Inoltre, l'Aran deve acquisire il parere favorevole del comitato di settore sull'ipotesi di accordo. E il comitato di settore deve essere costantemente informato delle trattative dall'Aran. La gestione finanziaria dell'Aran è sottoposta al controllo consultivo e non preventivo della corte dei conti. L'Aran non ha una competenza propria sulla contrattazione integrativa, ma se richiesta, può assistere le singole amministrazioni. Come si è già visto, il decreto legislativo numero 165 del 2001, stabilisce le soglie per ammettere i sindacati alle trattative. Quando i sindacati abbiano raggiunto queste soglie sono considerati rappresentativi e l'Aran all'obbligo di ammetterli alle trattative. Inoltre, il contratto collettivo può essere legittimamente stipulato quando sia sottoscritto da sindacati che nel loro complesso realizzano un indice di rappresentatività pari al 51% come media tra dato associativo e dato elettorale ovvero al 60% se si assume il solo dato elettorale. Queste ultime percentuali devono essere verificate, come chiarito dal Consiglio di Stato. La legge ha previsto una procedura molto formalizzata e, comunque, distinta per la stipulazione del contratto di comparto e del contratto decentrato. E questa formalizzazione costituisce sicuramente un elemento di diversità rispetto alla contrattazione di diritto comune. Innanzitutto, il legislatore si preoccupa della copertura finanziaria della contrattazione. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 E infatti l'articolo 48 del decreto legislativo numero 165 del 2001 abilità il Ministro dell'economia e delle finanze a quantificare l'onere derivante dalla contrattazione a carico del bilancio dello Stato con apposita norma da inserire nella legge finanziaria. Si noti che la disposizione ha cura di precisare che devono essere quantificati allo stesso modo gli oneri aggiuntivi per la contrattazione integrativa. La procedura di contrattazione regolato dall'articolo 47 del decreto legislativo numero 165 del 2001. I comitati di settore formulano gli atti di indirizzo nei confronti dell'Aran, quest'ultima trasmette a sua volta ha detti comitati le ipotesi di accordo, al fine di ottenere un parere favorevole. A questo punto interviene il controllo della corte dei conti, che attua una funzione di controllo e bilancio. La corte dei conti delibera entro 15 giorni, decorsi i quali la certificazione si intende effettuata positivamente. In caso la certificazione sia positiva, il presidente dell'Aran sottoscrive definitivamente il contratto collettivo, altrimenti è necessario riaprire le trattative. Nel caso in cui la certificazione non positiva sia limitata a singole clausole contrattuali, l'ipotesi può essere sottoscritta, ferma restando l'inefficacia delle clausole contrattuali non positivamente certificate. Il decreto legislativo numero 150 del 2009 a interrotto una particolare tutela retributiva per i dipendenti pubblici nelle more del rinnovo del contratto collettivo nazionale, consentendo, decorsi 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge finanziaria che dispone in materia di rinnovi dei contratti collettivi, l'erogazione, in via provvisoria, degli incrementi previsti per il trattamento stipendiale, salvo conguaglio all'atto della stipulazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Ci si chiede se il contratto abbia la stessa natura giuridica sia nel settore privato che in quello pubblico. A questo proposito va ricordato che la contrattazione nel settore pubblico è tenuto a farsi carico anche di interessi diversi da quelli delle parti contrapposte e, perciò, sarebbe, secondo questa dottrina, funzionalità data. Il contratto collettivo, quindi, si configurerebbe come contratto di diritto pubblico, fonte del diritto dotata come tale di efficacia generale. Se questa tesi può suscitare qualche perplessità perché nella lavoro pubblico è ancora forte l'esigenza di superare l'impostazione precedente del contratto recepito il regolamento, tuttavia è meritevole di aver segnalato i molteplici limiti che incontra l'autonomia contrattuale delle parti individuali e collettive in ragione della natura pubblica del datore di lavoro. In realtà, non si tratta di limiti funzionali, bensì di limiti esterni che non funzionalizzano l'attività contrattuale, ma certamente la limitano dall'esterno e le circoscrivono l'ambito di liceità. In conclusione, questo contratto, allo stato della tua legislazione, presenta una duplice natura: di atto negoziale e di fonte, ovviamente non in senso formale ma extra ordinem. CAPITOLO 19: DIRITTO SINDACALE NELL'UNIONE EUROPEA Con la direttiva 22 settembre 1994 attuata nel nostro ordinamento dal decreto legislativo 2 aprile 2002 numero 74, è stato istituito il comitato aziendale europeo (CAE). Si tratta di una procedura per l'informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensione comunitaria. Successivamente, questa direttiva è stata abrogata dalla direttiva 2009-38 CE , introdotta per incrementare l'utilizzo dei CAE. Quest'ultima ha cercato di risolvere i problemi Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 La commissione, pertanto, riveste sia il ruolo di propulsore del dialogo sociale, ma anche di controllo effettivo della conformità degli accordi con il diritto comunitario e della rappresentatività delle parti sociali. La commissione, in nota del 1993, ha indicato i criteri utili ai fini del riconoscimento del carattere rappresentativo a livello comunitario delle parti sociali. Esse dovranno: -essere interprofessionali, settoriali ed organizzare a livello europeo -essere composte da organizzazioni riconosciute dalle strutture sindacali degli Stati membri e avere la capacità di negoziare accordi, nonché, nella misura possibile, essere rappresentative in tutti gli Stati membri -disporre di strutture adeguate che consentono loro di partecipare in modo efficace il processo di consultazione. A questo punto l'interrogativo sulla qualificazione della contrattazione collettiva europea come espressione di autonomia collettiva sorge spontaneo. E la risposta non può che essere, a mio avviso, duplice. Da un lato, alla cosiddetta contrattazione istituzionale risulta problematico riconoscere i connotati dell'autonomia collettiva se quest'ultima è qualificata come potere riconosciuto alle parti di autoregolamentare i loro interessi. E infatti il ruolo di custode dei trattati che la commissione pretende di svolgere si concreta rispetto all'eventuale sconfinamento degli accordi collettivi istituzionali in un controllo pressante. Forse è eccessivo, come pure si è sostenuto, qualificare valutazione di questo tenore alla stregua di clausole di gradimento, ma è legittimo chiedersi quali sarebbero le conseguenze di una valutazione della commissione che giudicasse negativamente le scelte di merito compiuta dalle parti sociali. Dall'altro lato, la contrattazione collettiva cosiddetta libera nei contenuti e nelle procedure risulta più agevolmente riproducibile all'autonomia collettiva, anche se bisogna essere avvertiti che la rilevanza del contratto collettivo nell'ordinamento europeo si presenta problematica, per le ragioni già menzionate (incerto raccordo tra organizzazioni europee e organizzazioni sindacali, limiti all'attuazione del contratto europeo nell'ordinamento degli Stati membri). E, soprattutto, allo stato attuale non esiste. Lo sviluppo della contrattazione collettiva libera, tutta via, sarebbe auspicabile perché potrebbe in qualche misura contrastare pratiche di dumping sociale che recentemente si stanno diffondendo. SEZIONE III: LO SCIOPERO NELL'UNIONE EUROPEA L'unione europea non ha competenza in materia di sciopero e serrata: entrambi questi diritti sono espressamente esclusi dalle misure di politica sociale che l'unione pone in essere a sostegno e completamento dell'azione degli Stati membri. Il diritto di sciopero si pone oggi sullo stesso piano delle libertà economiche sancita dei trattati. Precedentemente al trattato di Lisbona, invece, il quadro normativo era molto diverso. È stata la giurisprudenza della corte di giustizia, pertanto, a tracciare i confini della tutela del diritto di sciopero. Possono essere, a tal proposito, ricordati due importanti sentenze della corte di giustizia: la Wiking e la Laval, che chiariscono i termini di questo bilanciamento. Le libertà di mercato vengono considerati da queste pronunce alla stregua di diritti fondamentali della persona, Che non possono essere limitati dall'esercizio del diritto di sciopero. Laddove l'esercizio del diritto di sciopero si traduca in una limitazione di una Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 libertà fondamentale, tale limitazione può essere tollerata solo se è idonea, necessaria e proporzionata alla tutela di ragioni imperative di interesse generale. In conclusione, la corte di giustizia ha considerato la libertà di impresa prevalente rispetto al diritto di sciopero: quest'ultimo poteva essere esercitato solo nell'ambito dei limiti esterni posti dallo stesso diritto comunitario. In altri termini, lo sciopero veniva tutelato solo in quanto strumentale alla realizzazione di un obiettivo ulteriore, suscettibile di contrapporsi alle libertà economiche garantite dai trattati. Se nel caso Wiking che in quello Laval, ad esempio, una ragione imperativa di interesse generale è considerata la tutela dei lavoratori: il diritto di azione collettiva, suscettibile di limitare le libertà economiche, non viene quindi riconosciuto di per sé, ma solo in quanto strumento di realizzazione di questo particolare finalità. CAPITOLO 20: INTRODUZIONE ALLO STUDIO DEI RAPPORTI DI LAVORO Nel decreto legislativo 15 giugno 2015, numero 81, di attuazione della legge deroga 10 dicembre 2014 numero 183, l'articolo 1, recita "il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro". In secondo luogo, come stabilisce la cosiddetta legge di stabilità del 2015, il datore di lavoro non è obbligato a pagare i contributi previdenziali e assistenziali per i primi tre anni di durata del rapporto di lavoro per gli assunti fino al 31 dicembre 2015. Non si può negare infatti che la disciplina del contratto a tempo indeterminato era divenuta nel corso degli anni progressivamente sempre più rigida e più costosa per il datore di lavoro. Ed infatti il contratto a tempo indeterminato, pur continuando a rimanere dal punto di vista statistico il rapporto più diffuso, è stato contornato non solo da una serie di rapporti di lavoro subordinati flessibili, come per esempio il contratto a tempo determinato, il lavoro intermittente, la somministrazione di lavoro, le varie forme di apprendistato, il lavoro a tempo parziale, ma anche da una serie di rapporti di lavoro che non sono subordinati, ma autonomi o associativi. Rispetto a questi ultimi basti pensare: -alle collaborazioni continuative e coordinate, che, anche se negli ultimi decenni hanno avuto una serie di tutele processuali e sostanziali, inizialmente avevano costi di contribuzione previdenziale e fiscale assai contenuti rispetto ai costi del lavoro subordinato (10% a fronte del 33%) -Al proliferare dei contratti d'opera con lavoratori autonomi muniti di partita Iva, in virtù dell'assenza di obblighi contributivi a carico del committente e di tutele sostanziali per il lavoratore. Tali motivazioni hanno indotto il legislatore del 2012 ad introdurre nuove misure contro il cosiddetto "falso lavoro autonomo" -alla diffusione anomala dell'associazione in partecipazione con apporto di lavoro dell'associato, anche questo caso favorito dal regime contributivo più favorevole per l'associante e dalle minori tutele per il lavoratore, e per questo contrastato dalla legge numero 92 del 2012 attraverso un duplice meccanismo presuntivo -al rapporto del socio d'opera nelle società di persone e ora - All'emissione di strumenti finanziari a fronte dell'apporto di opera o servizi da parte dei soci o di terzi, consentito espressamente alle società per azioni a seguito della modifica dell'articolo 2346 del codice civile -al rapporto di lavoro del socio di cooperativa di produzione e lavoro -ai rapporti di lavoro delle organizzazioni di volontariato e delle cooperative sociali -ai tirocini formativi che non costituiscono rapporti di lavoro subordinato. Si tratta di tirocini pratici e stages volti a realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e ad agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta dei contesti lavorativi. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 I motivi che hanno spinto il datore di lavoro a utilizzare sempre più frequentemente schemi contrattuali alternativi al contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, sono essenzialmente due: -minori costi in termini di contribuzione previdenziale e fiscale -rapporti spesso sottratti al regime della normativa sul licenziamento illegittimo nel contratto a tempo indeterminato, sanzionato fino al 2012 con la reintegrazione. CAPITOLO 21 LE ORIGINI DEL CONTRATTO DI LAVORO Nel 1901 Barassi, il fondatore del diritto del lavoro in Italia, nella sua monografia sul contratto di lavoro individua nella subordinazione del locator operarum, cioè del lavoratore rispetto al datore di lavoro, il tratto identificativo della locatio operarum. Nel pensiero di quest'autore, la subordinazione innestata sul rapporto locativo assolve la funzione di conciliare le esigenze della dogmatica civilistica con quelle della tutela del lavoro in fabbrica, ma non è identificabile in base ad indicatori di tipo socio-economico. La ricostruzione di Barassi può considerarsi l'inizio di una revisione critica secondo la quale il diritto che dal lavoro ha nome e ragione, comincia a distaccarsi dal diritto dei beni, come diritto speciale, quando prende atto, in particolare per merito della dottrina germanica, che la locatio operarum è un'astrazione e che in realtà il prestatore di lavoro non impegna nel rapporto di lavoro il suo patrimonio ma la sua persona. Del 1923 fu emanato un decreto di regolamentazione dell'orario di lavoro per gli operai e impiegati delle aziende industriali o commerciali di qualunque natura, mentre, solo dopo una lunga e laboriosa gestazione fu emanato il r.d.l. 13 novembre 1924 numero 1825 sull'impiego privato limitato a regolare il lavoro intellettuale con esclusione del lavoro manuale. Questa legge segna una tappa significativa del processo di legificazione del contratto di lavoro, continuato nel periodo corporativo e regolato dal codice del 1942 come fattispecie tipica non più limitata ai soli impiegati ma a tutti i prestatori di lavoro e cioè anche agli operai. A proposito della legge sull'impiego privato è opportuno formulare due osservazioni. In primo luogo nella legge non compare ancora la nozione di subordinazione come dato di qualificazione dell'obbligazione di lavorare dell'impiegato, mentre con la formula "il contratto di impiego privato è quello per il quale una società o privato, gestori di un'azienda, assumono al servizio dell'azienda stessa, l'attività professionale dell'altro contraente" viene, da un lato, confermato che l'oggetto del contratto è costituito dall'attività professionale, e cioè dalle operae, e dall'altro lato, viene affermata per la prima volta la rilevanza giuridica del collegamento del contratto di impiego privato con l'azienda. In secondo luogo, rispetto alla tesi sostenuta da qualche dottrina anche autorevole secondo la quale la legge sull'impiego privato avrebbe avuto un'impronta classista perché è diretta a tutelare esclusivamente il ceto impiegatizio tradizionalmente più vicino al ceto imprenditoriale e allora padronale, si può osservare con Turati che i commessi di negozio sono sparpagliati in mille botteghe e subiscono più facilmente le rappresaglie dei padroni e difficilmente possono fare uno sciopero che sarebbe pure un'arma difensiva non indifferente. CAPITOLO 22: IL CONTRATTO DI LAVORO SUBORDINATO NELL'IMPRESA A TEMPO PIENO ED INDETERMINATO Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Il metodo più rigoroso di qualificazione del rapporto per l'applicazione della disciplina della subordinazione, contrassegnato da un elevatissimo tasso di inderogabilità, è quello della sussunzione della fattispecie concreta del tipo legale designato dall'articolo 2094 del codice civile. In altre parole la fattispecie concreta deve presentare tutti i connotati della fattispecie astratta e coincidere con essa. Ma è altrettanto opportuno ricordare come a questo metodo se ne contrappone un altro, ossia quello tipologico, che fa leva sulla distinzione tra tipo legale e normativo. Il tipo normativo non individua un tipo legale determinato, ma soltanto talune e non tutte le caratteristiche di un tipo legale, sicché l'applicazione del metodo tipologico consente al giudice di non sussumere la fattispecie concreta in quell'astratta, ma di ricondurre la prima al tipo normativo. CAPITOLO 23: CONTRATTO E RAPPORTO DI LAVORO Il prestatore di lavoro subordinato è sempre una persona fisica. Il datore di lavoro, invece, può essere una persona fisica o giuridica o comunque un'organizzazione dotata di soggettività giuridica. La natura pubblica o privata del datore di lavoro e l'oggetto dell'attività svolta non incidono sulla capacità giuridica e di agire del datore di lavoro, ma possono essere rilevanti ai fini della disciplina legale e collettiva applicabile al rapporto. L'articolo 37 della costituzione prevede che sia la legge a stabilire l'età minima per l'ammissione al lavoro salariato. In base alla normativa vigente, l'età minima di accesso al lavoro coincide con la cessazione del periodo di istruzione obbligatoria e non può, comunque, essere inferiore al 16º anno di età. Previa autorizzazione della direzione territoriale del lavoro e assenso scritto dei titolari della potestà genitoriale, è, però, ammesso l'impiego degli infrasedicenni in realtà lavorative di carattere culturale, sportivo, pubblicitario e nel settore dello spettacolo. È appena il caso di precisare che la violazione dei divieti previsti è penalmente sanzionata. Resta, inoltre, applicabile l'articolo 2126 del codice civile, che assicura il diritto alla retribuzione. Di norma, il lavoratore acquista la capacità di stipulare il contratto di lavoro al compimento del 18º anno di età, salva l'emancipazione del minore con il matrimonio. Sono comunque fatte salve le leggi speciali che stabiliscono un'età inferiore al 18º anno per la stipulazione del contratto di lavoro, riconoscendogli l'abilitazione "all'esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro". Gli elementi essenziali del contratto di lavoro sono: -l'accordo delle parti, in quanto si tratta di un contratto consensuale, anche se la legge e i contratti collettivi pongono numerosi limiti all'autonomia privata -la causa, che consiste nello scambio tra lavoratore e retribuzione. Si tratta, quindi, di un contratto a prestazioni corrispettive, che mette in evidenza gli interessi contrapposti delle parti e non un interesse comune. -la forma. Per il contratto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato non è richiesto alcun requisito di forma, per cui la volontà delle parti può essere dichiarata anche oralmente o per comportamento concludente. Tuttavia il datore di lavoro è obbligato a comunicare agli uffici preposti (il centro per l'impiego) l'avvenuta stipulazione del contratto, nonché a consegnare al lavoratore copia di tale comunicazione o, in alternativa, copia del contratto individuale contenente tutte le informazioni relative al contenuto del rapporto. -L'oggetto del contratto di lavoro è costituito dalle mansioni e dalla retribuzione. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 -la onerosità, in quanto il contratto di lavoro, oltre ad essere a prestazioni corrispettive, è un contratto oneroso, perché la controprestazione del datore di lavoro è costituita dalla retribuzione. Il patto di prova deve risultare da atto scritto ad substantiam , Che può essere precedente o contestuale all'assunzione. Durante tale periodo di prova, che non può superare i 6 mesi, le parti possono recedere liberamente, senza obbligo di preavviso, salvo sia convenuta una durata minima. L'origine contrattuale del rapporto di lavoro non è messa in discussione neppure dalla rilevanza giuridica attribuita dal codice alla prestazione di fatto, in quanto la norma presuppone pur sempre un contratto invalido. Si vuole, cioè, garantire che la tutela dei diritti che il lavoratore avrebbe maturato nel corso della esecuzione del rapporto non sia pregiudicato dalla nullità o annullamento del contratto, salvo che non derivi dall'illiceità dell'oggetto della causa. Se il lavoro è stato prestato con violazione di norme poste a tutela del lavoratore, questi ha comunque diritto alla retribuzione. La conclusione del contratto di lavoro si conclude con la sottoscrizione delle parti. Con la conclusione del contratto si instaura il rapporto di lavoro che, come è stato autorevolmente affermato, ha una struttura complessa, perché accanto alle due obbligazioni fondamentali gravitano una serie di oneri e obblighi strumentali o accessori e corrispondenti pretese, potestà di preposizione e corrispondenti soggezioni che rimanendo distinti dal debito e dal credito di lavoro e di retribuzione concorrono a formare la posizione del prestatore e datore di lavoro. Quando un rapporto di lavoro viene instaurato in violazione degli obblighi vigenti in materia amministrativa, fiscale, previdenziale e assicurativa si parla di lavoro irregolare. Per contrastare tale fenomeno è prevista un'attività di vigilanza sulla corretta applicazione della normativa in materia di lavoro e di legislazione sociale. L'ispettorato nazionale del lavoro svolge l'attività di vigilanza ispettiva, attraverso l'accesso nei luoghi di lavoro, l'esame della documentazione aziendale, l'acquisizione delle dichiarazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro. Nell'esercizio della funzione di vigilanza gli ispettori operano in qualità di ufficiale di polizia giudiziaria e hanno un potere di accertamento delle eventuali infrazioni compiuta dal datore di lavoro. CAPITOLO 24: I POTERI DEL DATORE DI LAVORO Con la sottoscrizione del contratto di lavoro il datore di lavoro è legittimato a esercitare i poteri nei confronti del lavoratore assunto. Tali poteri hanno la loro fonte nel contratto ma l'esercizio è spesso regolato dalla legge. La norma costituzionale, infatti, ha sancito che l'iniziativa economica privata è libera, e non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. Secondo l'interpretazione che qui si condivide, l'utilità sociale non costituisce un limite funzionale ma un limite esterno rispetto all'iniziativa economica. Un limite funzionale risulterebbe in palese contrasto con il comma 1 dell'articolo 41 della costituzione. La funzionalizzazione dei poteri dell'imprenditore può fondarsi sulle clausole generali di buona fede e correttezza che sono norme di condotta, non idonee a creare obbligazioni autonome in capo alle parti del contratto di lavoro. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Il primo dei poteri che spetta al datore di lavoro è il potere direttivo. In primo luogo il datore di lavoro attraverso l'esercizio del potere direttivo determina le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro. Il datore di lavoro, attraverso l'esercizio del potere direttivo, non solo è legittimato a stabilire i termini e i modi in cui la prestazione lavorativa deve essere svolta affinché la medesima risulti utile per la realizzazione del programma produttivo, ma è legittimato altresì a modificare unilateralmente, in corso di rapporto, le suddette modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. In secondo luogo il datore di lavoro deve adibire il lavoratore alle mansioni pattuite. In deroga ai principi generali, l'articolo 2103 del codice civile riconosce al datore di lavoro, in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, il potere di modificare unilateralmente il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, ancorché questo sia stato determinato consensualmente nel contratto di lavoro al momento dell'assunzione. Il trasferimento comporta un mutamento definitivo del luogo di lavoro. In tale ipotesi, il sindacato del giudice ha come oggetto il nesso di causalità tra la ragione tecnica, come tale insindacabile, il trasferimento del lavoratore. Si tratta, quindi, di un controllo di legittimità e non di merito, l’onere della prova circa l'esistenza delle ragioni legittimanti, spetta al datore di lavoro. Per il trasferimento all'estero la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono necessario il consenso del lavoratore perché l'obbligo di collaborazione non copre un mutamento così radicale delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa. Di norma è pattuita la corresponsione di un'indennità estero aggiuntiva rispetto alla retribuzione tabellare e la previsione di rimborsi spese di viaggio e eventualmente di alloggio per sé e la famiglia. Dal trasferimento si distingue la trasferta che determina un mutamento solo temporaneo del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa e per la quale è dovuta, secondo le previsioni dei contratti collettivi, un'indennità o il rimborso spese. La trasferta a sua volta si distingue dal contratto che ha come oggetto la prestazione di lavoro del trasfertista. Questo rapporto si concreta nello spostamento continuo del lavoratore da un luogo a un altro e quindi nello svolgimento del lavoro attraverso una serie continua di trasferte. Diverso dalla trasferta e dal trasferimento è il distacco, perché in questo caso il lavoratore è inviato dal datore di lavoro, a svolgere la sua prestazione presso altro datore di lavoro temporaneamente e nell'interesse del distaccante. Ulteriore requisito previsto espressamente dall’articolo 30 è che l'attività lavorativa oggetto del distacco deve essere determinata, non potendo risolversi in una mera messa disposizione delle energie lavorative. La violazione di uno dei requisiti di cui al citato comma 1, comporta il diritto del lavoratore di chiedere, mediante ricorso giudiziale, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze del soggetto che ne ha utilizzato la prestazione lavorativa. L'articolo 30 ha confermato che il datore di lavoro distaccante mantiene, durante il distacco, la piena titolarità del rapporto e rimane perciò responsabile del trattamento economico e normativo spettante al lavoratore. Gli accordi sindacali possono prevedere il distacco come misura alternativa al licenziamento. Ai lavoratori distaccati si applicano le medesime condizioni di lavoro stabilite per i lavoratori che svolgono prestazioni lavorative analoghe presso l'impresa in cui il distaccato svolge la sua opera con lo stesso trattamento retributivo comprensivo della maggiorazione per lo straordinario e le ferie annuali retribuite. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Peraltro, non può tenersi conto ad alcun effetto della sanzione dopo due anni dalla sua applicazione. Tra le varie espressioni del potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro deve essere ricordato anche la cosiddetta sospensione cautelare, finalizzata ad assicurare lo svolgimento ordinario ed efficiente dell'attività aziendale in presenza di fatti tali da rendere opportuno il temporaneo allontanamento di un dipendente dal servizio. Come manifestazione del potere direttivo, la sospensione cautelare può essere disposta unilateralmente dal datore di lavoro anche in assenza di una specifica disciplina legale o contrattuale della stessa. In alcuni casi, tuttavia, la sospensione cautelare è espressamente prevista dai contratti collettivi. La sospensione cautelare non deve essere confusa con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione, menzionata dall'articolo 7 dello statuto dei lavoratori. Mentre quest'ultima è una sanzione disciplinare, la sospensione cautelare non ha natura disciplinare, ma è una misura di carattere provvisorio e strumentale all'accertamento di possibili responsabilità penali o disciplinari del dipendente, solitamente di gravità tali da comportare il licenziamento per giusta causa. In primo luogo, alla sospensione cautelare non si applica l'articolo 7 statuto dei lavoratori, che procedimentalizza l'esercizio del suo potere disciplinare. Il provvedimento di sospensione, pertanto non deve essere preceduto da una formale contestazione di addebito. La sospensione cautelare produce effetti soltanto per il periodo di tempo necessario all'esaurimento del procedimento penale o disciplinare. Tali effetti decadono con l'adozione delle licenziamento disciplinare o di una sanzione disciplinare conservativa. La sospensione cautelare non priva il lavoratore del diritto alla retribuzione, risolvendosi in una sospensione dell'obbligazione lavorativa ma non anche dell'intero rapporto di lavoro. Ne consegue, pertanto, che durante il periodo di sospensione il dipendente matura ogni altro diritto connesso all'anzianità di servizio. In ogni modo, quanto alla retribuibilità del periodo di sospensione cautelare, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che il contratto collettivo possa eventualmente anche sospendere l'obbligazione retributiva, qualora espressamente lo preveda. Qualora il procedimento disciplinare si concluda in senso sfavorevole al lavoratore con adozione del licenziamento per giusta causa, gli effetti del recesso retroagiscono al momento in cui era stata disposta la sospensione cautelare. Viceversa, qualora venga applicata una sanzione conservativa, o il procedimento si concluda in senso favorevole al dipendente, il principio è quello della piena retribuibilità del periodo di sospensione cautelare. Tra i poteri più significativi che competono al datore di lavoro rientra quello di estinguere il rapporto di lavoro attraverso l'esercizio del potere di recesso. Essendo il contratto di lavoro fonte di un rapporto di durata, il recesso estingue il rapporto ex nunc e, quindi, non pregiudica le prestazioni eseguite. Il recesso del datore di lavoro è denominato convenzionalmente licenziamento. Si noti però che l'articolo 2118 del codice civile, riferisce il termine recesso non solo a licenziamento, ma anche alle dimissioni del prestatore tant'è che i due atti avevano lo stesso trattamento normativo. CAPITOLO 25: L'INQUADRAMENTO E GLI OBBLIGHI DEL PRESTATORE DI LAVORO Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 L'assegnazione delle mansioni al lavoratore comporta l'inquadramento dello stesso nelle categorie legali o nelle categorie contrattuali o livelli o aree professionali previste dalla contrattazione collettiva. L'articolo 2095 del codice civile prevede quattro categorie di lavoratori subordinati: gli operai, impiegati, i quadri e i dirigenti. Le categorie legali dei lavoratori vanno distinte da quelle contrattuali, da quelle cioè create dalla contrattazione collettiva. Basti pensare alla categoria dei funzionari istituita, in passato, dai contratti del settore assicurativo e del credito. Nel nostro sistema, i criteri per determinare l'appartenenza del lavoratore a ciascuna delle categorie legali sono stabiliti dalla contrattazione collettiva. D'altra parte questa, provvedendo a individuare per ciascun livello retributivo o aria professionale le qualifiche e le rispettive mansioni quantifica il trattamento economico e specifica quello normativo applicabile ai lavoratori delle diverse categorie. La categoria dei quadri comprende i lavoratori "che pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa". Questa definizione ha scarsa rilevanza poiché le organizzazioni dei quadri, nonostante il riconoscimento legislativo della legge numero 190 del 1985, non sono riusciti ad ottenere dalla controparte una propria contrattazione collettiva, come per esempio i dirigenti, sicché i quadri, allo stato attuale, sono inquadrati nei livelli apicali o nelle aree professionali dei contratti collettivi applicati agli impiegati e operai. La legge non individua i tratti che identificano la figura del dirigente. È perciò importante stabilire i criteri che delimitano tale figura. La giurisprudenza ha elaborato una definizione piuttosto restrittiva di dirigente definendolo come alter ego dell'imprenditore. Viceversa, le determinazioni della contrattazione collettiva hanno applicato notevolmente la figura individuando il dato significativo della natura dirigenziale del rapporto di lavoro nell'incidenza sulle scelte di politica aziendale e sugli obiettivi complessivi dell'impresa che distingue il dirigente dall'imprenditore direttivo. È invece definitivamente superato dalla stessa contrattazione collettiva l'atto di nomina del datore di lavoro come condizione necessaria per l'inquadramento del lavoratore nella categoria dei dirigenti. Anzi, può essere considerato pseudo dirigente il lavoratore che, pur avendo avuto la nomina, non esercita le funzioni dirigenziali. L'articolazione dei livelli dirigenziali e i rispettivi trattamenti economici sono previsti dalla contrattazione collettiva. Tuttavia i dirigenti di vertice determinano direttamente nel contratto individuale il loro trattamento economico. Ai dirigenti non sono applicabili parti importanti della normativa prevista per la generalità dei lavoratori subordinati: così la disciplina in materia di orario di lavoro, in materia di apposizione del termine, e soprattutto in materia di licenziamento. Un discorso a parte merita il problema della applicabilità delle garanzie procedimentali di cui all'articolo 7 dello statuto dei lavoratori al licenziamento del dirigente. Mutando un loro precedente orientamento, le sezioni unite della corte suprema di cassazione, hanno affermato che le garanzie procedimentali determinate dall'articolo 7 dello statuto dei lavoratori, devono comunque trovare applicazione sia quando il datore di lavoro addebiti al dirigente un comportamento negligente e sia quando ponga alla base del recesso condotte che avrebbero fatto venir meno la fiducia. Con il passare del tempo la distinzione impiegati-operai ha perso importanza a favore di un nuovo sistema classificazione professionale (cosiddetto inquadramento unico). Questo è avvenuto non solo perché si sono progressivamente attenuate le differenze nei Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 trattamenti normativi applicabili alle due categorie, ma soprattutto perché la maggior parte dei contratti collettivi ha proceduto all'inquadramento del personale in livelli retributivi. Qualche contratto collettivo procede all'inquadramento del personale per aree professionali, ciascuna articolata in livelli retributivi. Lo scopo è quello di consentire al datore di lavoro di chiedere al lavoratore tutte le mansioni ricomprese nell'area professionale e non soltanto quelle del livello retributivo. Una dottrina autorevole ha considerato la qualifica professionale come una variazione semantica delle mansioni perché la qualifica non fa altro che indicare in modo sintetico le mansioni che il dipendente svolge. Questa indeterminatezza normativa non ha aiutato la dottrina alla ricostruzione di una nozione di qualifica sulle mansioni. Tuttavia non si può fare a meno di riconoscere uno spazio autonomo alla qualifica almeno in due casi e cioè: -quando sia riconosciuta al lavoratore la qualifica convenzionale. Questa consiste nell'attribuzione formale di un diverso e superiore inquadramento non dipendente dallo svolgimento di mansioni superiori ma collegati ad altri fatti, come il conseguimento di un titolo di studio o il decorso dell'anzianità di servizio, considerati idonei da qualche contratto a determinare progressioni di carriera. -I casi in cui la contrattazione collettiva prevede la cosiddetta promozione per merito comparativo, nella quale il titolo di merito può essere costituito proprio dalla qualifica di inquadramento, indipendentemente dall'effettivo svolgimento delle relative mansioni. Come si è già accennato, il contratto di lavoro è contrassegnato dall'intuitus personae, ossia dal carattere fiduciario. Tale carattere non consente al lavoratore di farsi sostituire nell'esecuzione del lavoro senza il consenso del datore di lavoro, a meno che ciò non sia consentito da norme legali e contrattuali, come avviene per il lavoro di semplice attesa o custodia dei portieri o nell'ipotesi di sostituzione delle lavoranti a domicilio. La personalità della prestazione di lavoro esclude che il prestatore possa valersi nello svolgimento della prestazione di sostituti o ausiliari. Tuttavia in certi casi, come per esempio nello svolgimento di attività professionali o direzione, è opportuno distinguere l'ipotesi dell'adempimento mezzo terzi, che è pur sempre una forma di adempimento personale del dipendente, dall'adempimento del terzo estraneo non consentito senza il consenso del datore di lavoro. Ai sensi dell'articolo 2103 del codice civile, l'obbligo di eseguire la prestazione lavorativa si traduce nell'obbligo di eseguire: -Le mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto -quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito -Le mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte -mansioni inferiori, nelle ipotesi previste dalla legge. Ciò significa che permane il potere del datore di lavoro di spostare unilateralmente il lavoratore a mansioni diverse rispetto alle ultime effettivamente svolte. Di conseguenza: -il giudice non potrà più sindacare il potere del datore di lavoro di spostamento a mansioni diverse utilizzando il criterio della equivalenza professionale, ma potrà verificare soltanto se le nuove mansioni rientrano nello stesso livello di inquadramento stabilito dal contratto Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 L'articolo 36 della costituzione stabilisce che tale compenso deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto, comunque sufficiente a garantire al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa. Il criterio della sufficienza e della proporzionalità della retribuzione non vanno confusi con la determinazione di una nozione legale della retribuzione, che nel nostro ordinamento non esiste se non per la quantificazione di determinati istituti, come il trattamento di fine rapporto. La proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro e la sua sufficienza non sono demandate alla valutazione delle parti individuali ma alla determinazione del contratto collettivo. In omaggio al principio del favor verso il prestatore di lavoro sono fatte salve comunque le clausole più favorevoli del contratto individuale. La funzione riconosciuta al contratto collettivo di determinare la retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e comunque sufficiente incontra il limite dell'efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto comune, applicabile, come è noto, ai soli iscritti alle associazioni stipulanti, stante l'inattuazione dell'articolo 39 della costituzione. Il problema si supera quando le parti accettino tacitamente o per comportamento concludente il contratto collettivo, anche se non iscritti alle associazioni stipulanti, o quando il contratto individuale contenga una clausola che rinvia al contratto collettivo per la disciplina del rapporto individuale. Quando invece le parti non siano di comune accordo, la giurisprudenza affida al giudice il compito di determinare la retribuzione sufficiente utilizzando il combinato disposto dell'articolo 36 della costituzione e dell'articolo 2099 del codice civile. Questa disposizione prevede che in mancanza di norme corporative o di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, il quale può, ma non è obbligato, ad adottare come parametro di riferimento la retribuzione prevista dal contratto collettivo. Anche in caso di presenza di più contratti collettivi è sempre il giudice di merito a scegliere discrezionalmente, come parametro di riferimento, il contratto collettivo più adeguato a realizzare il precetto della retribuzione sufficiente. La corte di cassazione ha talvolta sostenuto che la determinazione giudiziale della retribuzione per un importo inferiore ai minimi salariali previsti dalla contrattazione collettiva non può essere motivata con un mero richiamo a condizioni ambientali o territoriali, ancorché peculiari del mercato del lavoro nel settore di attività cui appartiene il rapporto di lavoro dedotto in giudizio, ma solo con riguardo a specifiche situazioni locali o a profili oggettivi della prestazione. In altri termini, secondo questo orientamento, solo il concreto contesto operativo o l'effettiva qualità della prestazione lavorativa possono indurre a ritenere adeguata una retribuzione inferiore ai minimi previsti dai contratti collettivi. Questo criterio è stato adottato dal legislatore a molti fini, ma, a parte tali ipotesi particolari si deve ribadire che il contratto collettivo nazionale di categoria stipulato dal sindacato comparativamente più rappresentativo non vincola il giudice ad applicare la stessa retribuzione al lavoratore non iscritto al sindacato stipulante. La retribuzione è corrisposta normalmente in danaro, e, spesso, a cadenza mensile, in base al principio della postnumerazione. Il pagamento è perciò tutto posticipato rispetto all'esecuzione della prestazione lavorativa. Il pagamento in danaro consente il controllo del rispetto dei requisiti della sufficienza e della proporzionalità e costituisce la base di calcolo degli istituti legali o contrattuali di retribuzione differita o aggiuntiva nonché della contribuzione previdenziale. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 La retribuzione in natura prevista dall'articolo 2099 può assolvere anche ad una funzione integrativa della retribuzione in danaro. Così, per esempio, sono assicurativi vitto e alloggio ai lavoratori domestici. Questione diversa è, invece, se alcune provvidenze riconosciuto ai dipendenti, sovente sottoforma di risparmio di spesa abbiano o meno natura retributiva (ossia la riduzione del costo del servizio per i dipendenti dell'impresa che produce: ad esempio i dipendenti dell'Enel hanno una riduzione del prezzo dell'elettricità e così dipendenti delle aziende telefoniche, o la concessione dell'uso dell'autovettura o l'alloggio, eccetera). È opportuno qualche osservazione sull'indennità di mensa, l'indennità di trasferta e l'indennità estero. Quanto alla prima, la legge numero 359 del 1992 stabiliva che l'indennità sostitutiva del servizio mensa è computata nella retribuzione mensile, in quelle aggiuntive e del TFR solo se lo prevede il contratto collettivo e per l'importo dello stesso stabilito. Rispetto all'indennità di trasferta e quella per servizi all'estero, di norma la contrattazione collettiva considera le suddette indennità per il 50% di natura risarcitoria e per il 50% di natura retributiva, e quindi, secondo la giurisprudenza, le stesse indennità vanno riconosciute ai lavoratori nella percentuale del 50% nel calcolo degli altri istituti contrattuali. In passato la nozione di retribuzione imponibile ai fini fiscali era diversa da quella imponibile ai fini previdenziali. Attualmente il decreto legislativo numero 314 del 1997 ha stabilito che entrambi i fini "costituiscono redditi da lavoro dipendente e tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d'imposta, anche sottoforma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro" salve le eccezioni tassativamente previste. Tuttavia, la retribuzione imponibile ai fini fiscali è costituita soltanto da ciò che lavoratore ha effettivamente percepito, mentre la retribuzione imponibile ai fini previdenziali non può essere inferiore all'importo della retribuzione fissata a livello collettivo, anche se in concreto sia stata corrisposta in misura inferiore. Infine, talune voci sono assoggettate a imposizione tributaria ma non a quella previdenziale. La retribuzione può essere corrisposta a tempo o a cottimo. Nella retribuzione a tempo, sicuramente è più diffusa, l'unità di misura del corrispettivo consiste nel decorso del tempo indipendentemente dal risultato anche se, come si vedrà, la diligenza nello svolgimento della prestazione lavorativa è pur sempre un criterio di verifica dell'esattezza dell'adempimento. La retribuzione a cottimo invece implica la remunerazione della quantità di lavoro occorrente nell'unità di tempo a produrre un risultato. In altre parole, il sistema di retribuzione a cottimo presuppone il calcolo del tempo occorrente al lavoratore di media diligenza per produrre un determinato prezzo o una fase o parte del prodotto finale e costituisce, da un lato, un incentivo a lavorare di più, ma è, dall'altro, una forma di maggiore sfruttamento dei lavoratori. Non a caso è vietato nell'apprendistato, mentre è obbligatorio nel lavoro a domicilio (cottimo pieno) o quando il prestatore di lavoro sia vincolato all'osservanza di un determinato ritmo produttivo ovvero la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato dei tempi di lavorazione. Il cottimo può essere individuale, relativo al singolo lavoratore, o collettivo e cioè relativa ad un gruppo di lavoratori, ma non puoi ogni caso ledere il criterio della sufficienza del corrispettivo. Non a caso, spesso la contrattazione collettiva prevede la forma del cottimo Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 misto, cioè di un compenso commisurato al risultato che si aggiunge alla retribuzione a tempo. Al contratto collettivo spetta il compito di stabilire i criteri per la formazione delle tariffe per evitare abusi del datore di lavoro, il quale deve comunicare preventivamente ai lavoratori i dati riguardanti gli elementi costitutivi della tariffa. La determinazione delle tariffe da parte dei contratti collettivi nazionali vincola l'imprenditore ad una certa organizzazione del lavoro e quindi le stesse tariffe possono essere modificate soltanto se intervengono mutamenti delle condizioni di esecuzione del lavoro e in ragione degli stessi. Altre forme di retribuzione sono le partecipazioni agli utili e la provvigione o la partecipazione ai prodotti, diffusa in agricoltura. Poco diffusa è l'emissione di azioni a favore dei lavoratori dipendenti anche se fiscalmente incentivata. Il sistema di relazioni industriali del protocollo del luglio del 1993 affida alla contrattazione aziendale il ruolo di accrescere, ove possibile, la retribuzione del lavoratore prevedendo emolumenti correlati ai risultati conseguiti dall'impresa. In altri termini, alla retribuzione minima, fissata a livello nazionale, la contrattazione aziendale aggiungeva una parte variabile, collegata ad incrementi di produttività o redditività dell'impresa. Per incentivare la diffusione di questi trattamenti, il legislatore ha previsto che il salario variabile di produttività previsto dai contratti di secondo livello, aziendali e territoriali, può essere escluso entro certi limiti, a domanda delle imprese, dalla base imponibile per il calcolo dei contributi assistenziali e previdenziali. Come si è accennato, nel nostro ordinamento non esiste una nozione legale generale di retribuzione. Secondo la disciplina vigente, quindi, sono di norma le parti collettive e, più raramente, le parti individuali, a determinare il trattamento retributivo dovuto al lavoratore, salvo l'accertamento giudiziale, in caso di controversie, della retribuzione proporzionata è sufficiente. Bisogna però precisare che la legge delega numero 183 del 2014 prevede l'introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, di un compenso orario minimo e cioè di una soglia minima di retribuzione a tempo del prestatore di lavoro subordinato, commisurato all'unità oraria di lavoro. La legge delega, tuttavia, prevede che il compenso orario minimo opera esclusivamente nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Le componenti della retribuzione inserite nella busta paga sono numerose, ma tre, in particolare, risultano sempre presenti: la paga base o tabellare prevista dal contratto collettivo con riferimento al livello retributivo in cui ha inquadrato il lavoratore; gli scatti di anzianità collegati all'anzianità di servizio maturata, di solito a cadenza biennale; l'indennità di contingenza, ossia quella sopraindicata in busta paga ormai in cifra fissa e cioè ormai congelata nel suo ammontare da quando ha cessato di avere vigore l'automatismo retributivo di aggiornamento dei contratti collettivi, che aveva la funzione di adeguare automaticamente la retribuzione al costo della vita. Il contratto collettivo di categoria, a seconda dei diversi settori merceologici, determina anche il numero delle cosiddette mensilità aggiuntive (la 13ª o anche la 14ª mensilità) e, in taluni casi, anche l'attribuzione del premio di produzione, di qualità, collegati all’adattamento economico dell'azienda, o di presenza, o anche di rendimento, collegati all'esecuzione della prestazione lavorativa. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non consentiva al lavoratore defunto di disporre per testamento delle suddette indennità. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente l’indennità a causa di morte sarebbe acquistata iure proprio dai soggetti indicati dal comma 1 dell'articolo 2122, mentre sarebbe acquistata iure successionis e quindi per testamento o secondo le regole della successione legittima in assenza dei soggetti indicati dal comma 1 dell'articolo 2122 del codice civile. L'articolo 2120 del codice civile stabilisce che l'anticipazione è detratta dall'indennità a causa di morte e quindi può essere opposta da datore di lavoro ai superstiti. Normalmente, in una trattazione sul contratto di lavoro non è preso in esame il diritto del lavoratore alla posizione contributiva, che è oggetto di studio della previdenza sociale perché attiene al rapporto avente ad oggetto l'obbligazione contributiva (rapporto contributivo). Con la conclusione del contratto di lavoro, sorge il diritto del lavoratore subordinato a una posizione contributiva, previsto dalla legge, al versamento da parte del datore di lavoro all'Inps dei contributi previdenziali calcolati sulle somme corrisposte al lavoratore in dipendenza del rapporto di lavoro. Con la conclusione del contratto di lavoro sorge, altresì, l'obbligo di pagamento all'Inps dei contributi previdenziali da parte del datore di lavoro anche per la parte (circa 1/3) dovuta dal lavoratore, salvo il diritto di rivalsa. Nell'ambito della tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, tale principio trova piena applicazione, mentre per l'assicurazione di invalidità, vecchiaia e superstiti l'applicabilità è limitato ai contributi non prescritti (cosiddetto principio dell'irricevibilità dei contributi prescritti). La contribuzione previdenziale, tra parte dovuta dal datore di lavoro e parte dovuta dal lavoratore, è una voce del costo del lavoro che assorbe circa il 33% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali corrisposta al lavoratore. La somma dei diversi importi annuali accantonati costituisce il montante contributivo individuale che, moltiplicato per un coefficiente determinato dalla legge e che varia in funzione dell'età di pensionamento, indica l'importo annuo della prestazione previdenziale. Il prestatore di lavoro ha diritto di essere riconosciuto autore dell'invenzione fatta nello svolgimento del rapporto di lavoro (articolo 2590 codice civile). Le invenzioni possono essere il risultato di un'attività inventiva prevista come oggetto del contratto (invenzione di servizio), o dell'esecuzione della prestazione lavorativa (invenzione da azienda). Nella prima ipotesi, prevalente nella prassi, il lavoratore non ha diritto ad alcun compenso aggiuntivo, poiché l'attività inventiva è oggetto del contratto e perciò specificatamente retribuita. Nella seconda ipotesi, invece, l'invenzione non è prevista quale oggetto del contratto, e perciò in questo caso il lavoratore ha diritto ad un equo premio solamente se e quando il datore di lavoro consegue il brevetto relativo all'invenzione. Una terza ipotesi è la invenzione occasionale rientrante nel campo di attività dell'azienda, ma realizzato dal dipendente per iniziativa propria, in via occasionale, al di fuori dello svolgimento del contratto di lavoro. In tal caso, il datore di lavoro ha il diritto di prelazione per l'uso esclusivo o meno dell'invenzione e per l'acquisto del brevetto verso il pagamento di un corrispettivo da cui dovrà essere dedotta una somma pari agli aiuti che l'inventore abbia ricevuto dal datore di lavoro per pervenire all'invenzione. CAPITOLO 27: I DIRITTI PERSONALI DEL LAVORATORE Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Per "diritti personali del lavoratore" si intendono quei diritti propri del lavoratore in quanto persona e dunque, a prescindere dal contenuto economico della prestazione da questi svolta. Le sanzioni previste dalla legge rispetto agli atti del datore di lavoro che ledono i diritti cosiddetti personali, consistono nell'invalidità di tali atti, nel risarcimento del danno o nella irrogazione di sanzioni amministrative, spesso di natura economica, o anche nell'irrogazione di sanzioni penali. Queste ultime hanno lo scopo di indurre il datore di lavoro a porre in essere comportamenti che ripristinino la situazione preesistente all'atto lesivo. SEZIONE 1: I DIRITTI DI LIBERTÀ DEL LAVORATORE Talvolta può verificarsi l'ipotesi che il datore di lavoro emargini il lavoratore non mettendolo in condizione di svolgere le mansioni assegnate. In questo caso si discute se: il lavoratore abbia diritto ad eseguire la prestazione e se abbia diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto allo svolgimento delle mansioni assegnate. Anche nei rapporti in cui non sussista un interesse del prestatore di lavoro oggettivamente giustificato dalla natura del contratto, si potrebbe sostenere che il mancato svolgimento della prestazione lavorativa protratto per un certo periodo determini una perdita o riduzione di professionalità e comunque una lesione della dignità personale. Lo statuto dei lavoratori riconosce ai lavoratori il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero nei luoghi dove prestano la loro opera. Questo fondamentale diritto, che ha le sue radici nell'articolo 21 della costituzione, è garantito sia attraverso il divieto di indagini sulle opinioni politiche religiose dei lavoratori e su ogni altro fatto non rilevante ai fini della valutazione dell'attitudine professionale, sia attraverso il divieto di atti discriminatori. L'articolo 8 dello statuto dei lavoratori garantisce il diritto del lavoratore alla riservatezza. Il divieto di indagine deve essere inteso in senso ampio e impedisce non soltanto l'assunzione di informazioni dirette sulle opinioni dei lavoratori ma anche in via indiretta. Le indagini, per essere legittime, devono riguardare il profilo qualitativo della prestazione. Il datore di lavoro può compiere indagini sulle opinioni del lavoratore o su fatti inerenti alla sua sfera privata soltanto quando questi siano rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale. Attualmente, il divieto di indagini stabilito dall'articolo 8 dello statuto dei lavoratori, va coordinato con il cosiddetto codice della privacy, che fa espressamente salvi gli articoli 4 e 8 dello statuto dei lavoratori e, per l'appunto, regola il trattamento dei dati personali dei cittadini. Per dato personale si intende qualsiasi informazione relativa ad una persona fisica o giuridica, purché identificata o identificabile, mentre il trattamento del dato personale è qualsiasi operazione effettuata su queste informazioni, tranne quelle ad uso esclusivamente personale. Tra i dati personali si distinguono quelli cosiddetti sensibili, in quanto idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, organizzazioni religiose, ecc, nonché lo stato di salute e la vita sessuale. SEZIONE 2: LA TUTELA DELL'INTEGRITÀ PSICO-FISICA E DELLA PERSONALITÀ MORALE DEL LAVORATORE Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 L'articolo 2087 del codice civile tutela l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore nello svolgimento della prestazione lavorativa. La norma, infatti, obbliga l'imprenditore ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro. La disposizione del codice civile costituisce una proiezione dell'articolo 32 della costituzione, che, come noto, riconosce alla salute sia il rango di diritto fondamentale ed indisponibile dell'individuo, che di interesse della collettività. L'articolo 2087 del codice civile ha avuto il merito di istituire nell'ordinamento positivo il cosiddetto obbligo generale di sicurezza. Il contenuto di tale obbligo si misura attraverso i tre parametri previsti dalla norma: la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica. La particolarità del lavoro impone di adeguare le cautele preventive ai rischi specifici che l’attività produttiva esercitata può presentare. Il criterio dell'esperienza esige che si tenga conto dell'efficacia dei presidi antinfortunistici già adottati e degli incidenti e delle malattie già verificatesi. Infine, il riferimento alla tecnica richiede che vengano adottati tutti gli accorgimenti progressivamente acquisiti al patrimonio tecnico-scientifico e normalmente utilizzati nel settore produttivo di riferimento. Il datore di lavoro è tenuto, quindi, al continuo adeguamento delle misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica. In ciò si sostanzia il principio della cosiddetta massima sicurezza tecnologicamente disponibile, che se da un lato tende a tenere costantemente aggiornato il sistema preventivo aziendale e a garantire il massimo livello di tutela, dall'altro rischia di rendere incerti i confini dell'obbligo di sicurezza e difficoltoso il suo adempimento. La responsabilità civile che incombe sul datore di lavoro ex articolo 2087 del codice civile, non è oggettiva, ma ha natura contrattuale, in quanto le prescrizioni in materia di sicurezza integrano l'accordo negoziale tra le parti ai sensi dell'articolo 1374 del codice civile. Da ciò discende che nei confronti del datore di lavoro che non rispetti l'obbligo di sicurezza, il lavoratore potrà rifiutare di eseguire la prestazione sollevando eccezione di inadempimento ai sensi dell'articolo 1460 codice civile. Inoltre la responsabilità contrattuale è più vantaggiosa per il lavoratore rispetto a quella extracontrattuale, sia perché consente di beneficiare di un termine di prescrizione di 10 anni, anziché di 5, sia perché rende più agevole assolvere l'onere della prova. All'obbligo generale contenuto nell'articolo 2087 codice civile, sì è affiancata, costituendone specificazione, un'articolata disciplina speciale, che ha regolato minuziosamente le misure antinfortunistiche e di igiene ambientale. Tale disciplina è stata oggetto di un complessivo riassetto ad opera del decreto legislativo numero 81 del 2008, a sua volta successivamente integrato e modificato. Il campo di applicazione del testo unico sicurezza è estremamente esteso, sia dal punto di vista oggettivo, che soggettivo. Dal punto di vista oggettivo si arriva a ricomprendere tutti i settori di attività, sia privati, che pubblici e tutte le tipologie di rischio, salvo alcune discipline differenziate per alcune particolari attività. Questo decreto fornisce una nozione soggettiva del lavoratore: "persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un'arte o una professione". Inoltre il decreto basa il suo impianto normativo su due pilastri fondamentali. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 La lesione dell'integrità psicofisica determina anzitutto un riflesso sulla propria sfera patrimoniale. All'interno del danno patrimoniale distinguono le categorie del danno emergente (danno attuale esempio le spese mediche) e del lucro cessante (danni futuri, mancato guadagno, perdita di chances). Se rispetto al danno emergente non si pongono particolari problemi, al contrario, con riferimento alla quantificazione del lucro cessante subentrano diverse complicazioni. Gli articoli 2056 e 1226 codice civile, infatti, richiedono la necessità della prova, anche presuntiva, della sua reale esistenza, per quanto futura. La perdita di chances, dunque, deve basarsi sul margine apprezzabile di probabilità. Il decreto legislativo numero 38 del 2000, sulla scorta di una giurisprudenza della Corte costituzionale, ha definito, sia pure in via sperimentale e ai soli fini dell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, il danno biologico come la lesione all'integrità psicofisica del lavoratore suscettibile di valutazione medico-legale garantita. La liquidazione del danno biologico può essere effettuata dal giudice, con ricorso al metodo equitativo, anche attraverso l'applicazione di criteri predeterminati e standardizzati, quali le cosiddette tabelle, ancorché non recepite norme di diritto. In concreto viene liquidato con riferimento a due voci: l'invalidità temporanea (che consiste del numero di giorni necessari per la guarigione e il ritorno alla normale attività) e l'invalidità permanente (che si quantifica tenendo conto dell'età e dei cosiddetti punti di invalidità). La giurisprudenza nel tempo ha riconosciuto spazio ad una autonoma voce di danno, convenzionalmente denominato danno esistenziale, distinto sia dal danno morale che dal danno biologico. Per danno esistenziale si intendeva ogni pregiudizio di natura oggettivamente accertabile e provato, che altri le proprie abitudini e i propri assetti relazionali, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità. SEZIONE 3: LE DISCRIMINAZIONI Diverse fonti normative vietano discriminazioni nell'accesso al lavoro, intendendosi per discriminazioni ogni atto, patto o comportamento che, direttamente o indirettamente, produca un effetto pregiudizievole nei confronti di un lavoratore in quanto appartenenti ad una categoria normativamente tipizzata. Il divieto di discriminazione dei lavoratori nell'accesso al lavoro si rinviene in primis negli articoli 8 e 15 della legge numero 300 del 1970. Detti articoli, letti in combinato disposto tra loro, consentono di comprendere anche tutta l'evoluzione normativa successiva, come registrato in ambito nazionale e comunitario. Sia nell'ordinamento comunitario che nell'ordinamento italiano non è ancora sancito un principio generale di non discriminazione, perché tali motivi discriminatori sono tassativi. Le stesse direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE forniscono una definizione della discriminazione, sia diretta che indiretta. La discriminazione diretta sussiste quando per le causali tipizzate dalla legge una persona è trattata meno favorevolmente di quanto, sia stata, o sarebbe stata trattata un'altra persona in una situazione analoga. La discriminazione indiretta sussiste invece quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto un patto o un comportamento possono mettere le persone, per le medesime ragioni discriminatorie , in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Sono ammesse eventuali differenze di trattamento giustificate in virtù della particolare natura dell'attività svolta o del contesto in cui essa sia espletata, quando si tratti di caratteristiche essenziali ai fini dello svolgimento dell'attività medesima. Sono altresì ammesse differenze di trattamento in ragione dell'età, le quali possono riguardare anche le condizioni di accesso all'occupazione e alla formazione, nonché le condizioni di licenziamento e retribuzione. Il materia di parità fra sessi, in particolare, la disciplina italiana ha subito una profonda evoluzione anche per effetto della normativa comunitaria e, nel tentativo di dare progressivamente effettività al principio di parità come previsto dall'articolo 37 della costituzione, ha raggiunto il suo culmine del decreto legislativo numero 198 del 2006, recante il codice delle pari opportunità fra uomo e donna, come modificato ed integrato dal decreto legislativo numero 5 del 2010, con il quale è stata operata la trasposizione nell'ordinamento nazionale della direttiva 2006/54/CE. In sostanza la discriminazione diretta si caratterizza: -per l'onnicomprensibilità della previsione, estesa ora a tutti gli eventuali atteggiamenti del datore di lavoro idonei a determinare disparità di trattamento tra lavoratori in ragione del fattore sessuale -per l'adozione di una nozione di discriminazione in senso oggettivo, nella quale rileva esclusivamente il risultato concreto, cioè il prodursi di un trattamento meno favorevole nella comparazione con situazioni analoghe, ferma restando, la necessità di una lesione attuale e non solo potenziale della parità. Successivamente, anche la legge numero 183 del 2010, cosiddetta "Collegato lavoro" all'articolo 21, rubricato "misure atte a garantire pari opportunità, benessere di chi lavora e assenza di discriminazioni nelle amministrazioni pubbliche. La discriminazione collettiva sussiste quando siano stati posti in essere atti, patti, comportamenti che riguardino una pluralità di soggetti, anche quando non siano individuabili in modo diretto ed immediato fisico di lavoratori lesi. Il codice delle pari opportunità detta che ora definizione delle molestie, che sono considerati fattispecie discriminatorie, insieme alle molestie sessuali prese in considerazione dalla direttiva 2002/CE. In particolare, per molestie si intendono quei comportamenti indesiderati, adottati per motivi di razza o di origine etnica, di religione, di condizioni personali, di handicap, età, sesso o tendenze sessuali aventi lo scopo o comunque l'effetto di violare la dignità di tale persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante umiliante o offensivo. Per molestie sessuali, invece, si intende quella situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, avente lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona, in particolare creato un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo. Affinché sia integrata la fattispecie della discriminazione è necessario provare l'elemento soggettivo specifico e cioè l'intento discriminatorio, poiché, a differenza della violazione degli obblighi di buona fede e correttezza, l'atto discriminatorio esige una rigorosa indagine anche sotto il profilo psicologico dell'intento non tanto di avvantaggiare altri lavoratori preferiti preferiti, quanto quello di nuocere ad alcuni per i motivi tipizzati citati. Grava sul lavoratore l'onere della prova delle ragioni discriminatorie. Tale onere probatorio, dal 2008, risulta agevolato qualora il ricorrente fornisca elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a fondare una presunzione relativa di atti, patti o comportamenti discriminatori a sostegno della pretesa del lavoratore. In tali casi, infatti, viene posto a carico del datore di lavoro l'onere di fornire la prova contraria, in mancanza della quale l'atto, patto o comportamento discriminatorio denunciato, si dà per accertato. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Il procedimento giurisdizionale di tutela contro le discriminazioni appare immediato e incisivo, mirato alla cessazione della discriminazione, alla predisposizione di strumenti volti ad evitare la ripetizione, e alla rimozione degli effetti lesivi. SEZIONE 4: IL TEMPO DELLA PRESTAZIONE Al fine di salvaguardare l'integrità psicofisica del prestatore di lavoro mediante la concessione di adeguati intervalli di riposo, nonché di garantire l'osservanza di consuetudini sociali e di pratiche religiose ampiamente diffuse, la costituzione stabilisce che la durata massima della giornata lavorativa debba essere stabilita dalla legge e riconosce altresì al prestatore di lavoro il diritto irrinunciabile al riposo settimanale e alle ferie. Il decreto legislativo numero 66 del 2003 determina i limiti dell'orario normale (40 ore) e dell'orario massimo (48 ore comprensive dello straordinario) esclusivamente su base settimanale, e non attraverso soglie massime bensì mediante l'indicazione di limiti medi, differenziandosi così dalla legislazione preveggente che prevedeva limiti massimi all'orario di lavoro normale e straordinario su base giornaliera o settimanale. Per "limiti medi" si intende il fatto che i contratti collettivi possono riferire l'orario normale "alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno" e che il rispetto dell'orario massimo viene valutato con riferimento alla durata media dell'orario di lavoro osservato entro un arco temporale di quattro mesi, elevabile nei contratti collettivi sino a sei mesi o, a fronte di ragioni oggettive e specificate, 12 mesi. La durata massima giornaliera di lavoro non viene regolata espressamente, ma si desume dalla fissazione di un numero minimo giornaliero di ore di riposo. Nella disciplina rientra il lavoro straordinario, inteso come la prestazione lavorativa svolta oltre l'orario normale, le cui modalità di svolgimento e di remunerazione, per l'appunto, sono normalmente definite dai contratti collettivi. Nei rapporti di lavoro non sottoposti alla disciplina di un contratto collettivo, lo svolgimento dello straordinario può invece avvenire sulla base di accordi individuali per non più di 250 ore annue. Viene inoltre ammesso in via generale lo svolgimento di lavoro straordinario in particolari circostanze (eccezionali esigenze tecnico produttive, causa di forza maggiore o situazioni di pericolo imminente). La determinazione del compenso aggiuntivo per lo svolgimento del lavoro straordinario e oggi rimessa in via esclusiva ai contratti collettivi, non più soggetti al limite minimo del 10% rispetto alla normale retribuzione ordinaria, ormai ampiamente derogato in melius dalle stesse fonti collettive. È onere del lavoratore che pretende il compenso per lavoro straordinario provare le prestazioni cui esso si riferisce. I contratti collettivi possono anche prevedere che a fronte dello svolgimento dello straordinario il lavoratore sia autorizzato, in via alternativa rispetto al pagamento delle retribuzioni aggiuntive e delle relative maggiorazioni, a godere di equivalenti riposi compensativi. Il legislatore dedica particolare attenzione anche al lavoro notturno, in ragione della sua maggiore gravosità intrinseca. Secondo la definizione ripresa dalla direttiva, i lavoratori meritevoli di specifica produzione sono quelli normalmente impegnati "per almeno tre ore", al giorno nel periodo notturno, descritto come un periodo di sette ore comprensivo dall'intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino, oppure coloro che svolgono attività lavorativa in periodo notturno per almeno 80 giornate l'anno, salva diversa previsione dei contratti collettivi. Il controllo sindacale è garantito da un obbligo di consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali, precedente all'introduzione del lavoro notturno; si affida alla Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Attualmente le forze armate sono costituite solo da militari professionisti arruolati su base volontaria. Per l'adempimento di funzioni pubbliche elettive o di cariche sindacali, nel pieno rispetto del principio costituzionale di cui all'articolo 51, i lavoratori privati possono essere collocati in aspettativa, richiesta, per la durata del mandato. Il periodo di aspettativa non è retribuito, ma è considerato utile ai fini della tutela pensionistica e assicurativa. Permessi sindacali retribuiti sono riconosciuti ai lavoratori per riunirsi in assemblea nel limite di 10 ore annue e ai dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali per l'espletamento del loro mandato. Tali previsioni garantiscono il principio costituzionale di libertà sindacale di cui all'articolo 39 della costituzione. Lo sciopero sospende l'adempimento di entrambe le obbligazioni delle parti, come pure l'accantonamento ai fini del TFR e la contribuzione previdenziale. L'articolo 10 dello statuto dei lavoratori garantisce il diritto allo studio e prevede che lavoratori studenti, purché iscritti e frequentanti corsi regolari di studio, siano agevolati per la partecipazione ai corsi e alla preparazione degli esami. Inoltre, i lavoratori studenti, compresi quelli universitari, che devono sostenere prove di esame, hanno diritto ad usufruire di permessi giornalieri retribuiti. CAPITOLO 29: LE MODIFICAZIONI DEL RAPPORTO DI LAVORO Nello svolgimento del rapporto di lavoro le modificazioni oggettive possono determinare la novazione oggettiva del contratto, e cioè l'estinzione del rapporto di lavoro esistente e l’instaurazione di uno nuovo e diverso rispetto al primo. Il lavoratore non può cedere ad altri il contratto di lavoro per il carattere personale della prestazione, salvo qualche eccezione stabilita dalla legge. Il datore di lavoro, invece, può cedere il contratto e il cessionario succede nel rapporto di lavoro, e continua senza soluzione di continuità. Di regola, la cessazione del contratto di lavoro da parte del datore di lavoro è riconducibile alla fattispecie della cessazione del contratto ex articolo 1406 del codice civile e necessita del consenso del debitore ceduto e cioè del lavoratore. Un'eccezione alla regola del consenso del lavoratore ex articolo 1406 del codice civile si ha quando la cessazione del contratto di lavoro rientri nella fattispecie del trasferimento di azienda o di parte dell'azienda ex articolo 2112 codice civile, come modificato dal decreto legislativo numero 18 del 2001 e dall'articolo 32 del decreto legislativo numero 276 del 2003. Ciò significa che nel nostro ordinamento non è riconosciuto al lavoratore il diritto di opposizione al trasferimento del suo rapporto di lavoro in occasione del trasferimento di azienda. Al lavoratore è riconosciuta soltanto la facoltà di rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa con gli effetti di cui all'articolo 2119 del codice civile qualora le sue condizioni di lavoro subiscano una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento. In caso di trasferimento d'azienda, il rapporto di lavoro continua presso il datore di lavoro cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Il principio della conservazione dei diritti del lavoratore, sancito dalla nuova formulazione dell'articolo 2112 del codice civile, non è più limitato ai diritti derivanti dall'anzianità raggiunti anteriormente al trasferimento, ma a tutti i diritti che derivano dal rapporto di lavoro intercorso con il datore di lavoro cedente. Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Il comma 2 dell'articolo 2112 prevede la solidarietà dell'alienante e dell'acquirente per tutti i crediti che il prestatore di lavoro aveva al tempo del trasferimento. In altri termini, l'articolo 2112 aggiunge al primo e naturale debitore un secondo debitore, del resto in armonia con il principio di carattere generale sancito dall'articolo 2560 del codice civile, relativo alla successione dei debiti relativi all'azienda, Anche se occorre precisare che nell'ipotesi prevista dall'articolo 2112 del codice civile, non è richiesto il consenso del creditore, cioè del lavoratore. Pertanto il prestatore di lavoro è legittimato a far valere i crediti maturati anteriormente al trasferimento anche nei confronti del cessionario, in forza di una regola di solidarietà sancita dalla legge a maggior garanzia della sua posizione creditoria. Il cessionario, in qualità di obbligato solidale, è tenuto a soddisfare i crediti del lavoratore anche se temporalmente imputabili al cedente, cioè maturati prima del trasferimento di azienda, salvo ovviamente il diritto di rivalsa nei confronti di quest'ultimo. Secondo il vigente testo dell'articolo 2112, il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa del cessionario. L'effetto di sostituzione si produce soltanto fra contratti collettivi del medesimo livello. L'articolo 2112 codice civile, precisa che, ferma la facoltà del cedente di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento di azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Diversa è invece l'ipotesi in cui, a seguito del trasferimento d'azienda, si determina un mutamento della struttura organizzativa dell'imprenditore cessionario. Nel caso in cui il cedente receda dal rapporto di lavoro e il momento istintivo si verifichi dopo il trasferimento, il rapporto di lavoro ovviamente continua con l'acquirente, che risponde anche dell'illegittimo licenziamento, fermo restando la responsabilità solidale dell'alienante.. La novità più rilevante introdotta dal nuovo testo dell'articolo 2112, è costituita dall'oggetto del trasferimento e cioè dalla nozione di impresa e di parte impresa trasferita. Dalla direttiva 98/50/CE l'impresa è definita come entità economica, intesa come insieme di mezzi organizzati. Ai sensi dell'articolo 2112 il trasferimento di azienda determina il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata. Questa definizione richiama quella dell'articolo 2082 del codice civile che definisce l'impresa. Ne consegue che oggetto del trasferimento non è più l'azienda intesa come complesso di beni e rapporti potenzialmente idonei all'esercizio dell'impresa, ma l'impresa intesa come organizzazione e attività. La formulazione in vigore dal 2003 consente alle parti, cedente e cessionario, di identificare il ramo d'azienda al momento del suo trasferimento. In altre parole il cedente e il cessionario possono delimitare al momento del trasferimento l'ambito dell'articolazione funzionalmente autonoma oggetto del trasferimento e quindi individuare in quello stesso ambito i beni e rapporti giuridici che restano presso il cedente e quelli che sono oggetto del trasferimento. E tra i rapporti giuridici oggetto di scelta rientrano i rapporti di lavoro. Quanto all'autonomia del lavoratore, occorre preliminarmente precisare che l'articolo 3 della direttiva del consiglio 14 febbraio 1977 numero 77/187/CEE nell'interpretazione della corte di giustizia non ho sto che un lavoratore occupato dal cedente al momento del trasferimento si opponga al trasferimento del suo rapporto al cessionario e lascia alle legislazioni degli Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205 Stati membri di fissare le condizioni alle quali il rapporto di lavoro permane o si risolve con il datore di lavoro e cedente. Ma anche per l'ipotesi di trasferimento di parte dell'azienda la legislazione italiana non riconosce al lavoratore un diritto di opposizione al trasferimento, bensì il mero diritto alle dimissioni per giusta causa ex articolo 2119 codice civile, in caso di mutamento sostanziale delle condizioni lavorative. CAPITOLO 30: L'EVOLUZIONE DELLA NORMATIVA SULL'ESTINZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO Se si ha riguardo al codice civile del 1942, la forma comune di estinzione del rapporto di lavoro era costituita dalla recesso del datore di lavoro, denominato licenziamento, e dal recesso del lavoratore, denominato dimissioni. Entrambi questi atti sono qualificati negozi giuridici unilaterali che producono l'effetto estintivo del rapporto nel momento in cui vengono a conoscenza dell'altra parte, ma non hanno bisogno del consenso dell'altra parte. D'altra parte, ai sensi dell'articolo 2118 del codice civile, tali atti erano liberi e cioè non dovevano essere motivati, tant'è che si parlava di licenziamento ad nutum: era sufficiente per il datore di lavoro un cenno della mano o del capo per intimare il licenziamento. L'unico obbligo che aveva il recedente dal rapporto di lavoro, e cioè il datore di lavoro ma anche il lavoratore, come tutti i rapporti di durata, però l'obbligo del preavviso. Il preavviso, nel rapporto di lavoro, alla funzione di evitare una repentina cessazione del rapporto e di consentire all'altra parte, in particolare al lavoratore, un congruo periodo di tempo, stabilito di regola dei contratti collettivi, per riorganizzare la propria vita lavorativa. Accanto alla recesso ad nutum il codice civile prevede e regola il recesso per giusta causa. E quando sussiste una giusta causa, ancora oggi, il rapporto si estingue in tronco, cioè senza neppure l'obbligo del preavviso. In questo caso, però, la parte recedente aveva e ha l'onere di provare la sussistenza di una giusta causa. Secondo questa disposizione, la giusta causa non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto, e, secondo la giurisprudenza prevalente, può consistere in un inadempimento grave o in un fatto diverso dall'inadempimento che tuttavia idoneo a far venire meno la fiducia tra le parti. La libertà di recesso per entrambe le parti, con sostanziale vantaggio per il datore di lavoro, dura più di 20 anni e cioè dal 1942 al 1966. La legge numero 604 del 1966 introduce per la prima volta l'obbligo a carico del datore di lavoro di motivare il licenziamento e l'onere di provare la sussistenza di un giustificato motivo. L'articolo 3 della stessa legge definisce la nozione di giustificato motivo soggettivo costituito dalla notevole inadempimento degli obblighi contrattuali e la nozione di giustificato motivo oggettivo costituito dalle esigenze oggettive dell'azienda. Le due fattispecie rimangono ancora oggi in alterate nonostante il susseguirsi di diverse normative che hanno regolato diversamente gli effetti del licenziamento ingiustificato e cioè del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo. Ai sensi dell'articolo 8 della legge numero 604 del 1966, quando il giudice accerta valigie estetica terza della licenziamento condannava il datore di lavoro o a riassumere il lavoratore può pagargli un'indennità tra un minimo e un massimo di mensilità. Ciò significava che il licenziamento, pur essendo ingiustificato, era valido e cioè idoneo ad estinguere il rapporto di lavoro, ma era il lecito. In altri termini, la normativa del 1966 continuo a tutelare l'interesse del datore di lavoro alla temporalità del vincolo contrattuale perché, pur prevedendo un obbligo di motivazione, si Scaricato da pedro infante ([email protected]) lOMoARcPSD|15341205