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Riassunto del libro "Il cristiano nel mondo" (Teologia 3), Sintesi del corso di Teologia

Riassunto dettagliato del libro "Il cristiano nel mondo" di A. Fumagalli per l'esame di Teologia 3.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 01/05/2020

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Scarica Riassunto del libro "Il cristiano nel mondo" (Teologia 3) e più Sintesi del corso in PDF di Teologia solo su Docsity! IL CRISTIANO NEL MONDO - INTRODUZIONE ALLA TEOLOGIA MORALE «Maestro, che cosa devo fare di buono…?» (Mt 19,16) Ed ecco, un tale si avvicinò e gli disse: 1) «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?». 2) Gli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». Gli chiese: «Quali?». Gesù rispose: «Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il falso, onora il padre e la madre e amerai il prossimo tuo come te stesso». Il giovane gli disse: «Tutte queste cose le ho osservate; che altro mi manca?». 3) Gli disse Gesù: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!». Udita questa parola, il giovane se ne andò, triste; possedeva infatti molte ricchezze. Tolta la breve indicazione introduttiva e il triste epilogo, il dialogo tra il giovane ricco e Gesù può essere suddiviso nei tre momenti indicati, imperniati attorno a tre principali concetti: 1. la vita eterna 2. i comandamenti di Dio 3. la sequela di Gesù La morale cristiana è dialogo interpersonale, relazione vitale di due persone. Il desiderio dell’uomo Il dialogo della scena evangelica comincia con la domanda di «un tale» che resterà anonimo. L’anonimato del «tale» universalizza la sua identità: quel tale rappresenta ogni uomo che s’interroga sul bene e la felicità. La domanda che inaugura il dialogo verte, infatti, sul bene da praticare in vista di una vita pienamente compiuta. Tale domanda esprime verbalmente il desiderio di felicità. Su cosa sia la felicità vi è disaccordo e la gente non la definisce allo stesso modo. Alcuni, poi, hanno ritenuto che al di là di tutti questi molteplici beni ne esista un altro che è Bene in sé. La domanda che egli pone non riguarda solo il fine della felicità, ma anche i mezzi per raggiungerla. Il giovane già sa che per essere felice dovrà obbligatoriamente fare il bene. Il legame che la coscienza dell’uomo può riconoscere tra il desiderio di felicità e la legge naturale quale condizione per realizzarlo può aiutare a fugare il sospetto che la legge morale sia d’impedimento al raggiungimento della felicità. La morale cristiana potrà essere meglio apprezzata nella misura in cui si mostrerà come essa non solo non inibisce, ma favorisce il desiderio di felicità dell’uomo. La chiarezza con cui l’uomo sa che deve fare il bene ed evitare il male si attenua quando egli deve determinare nel concreto delle singole situazioni e dei casi particolari «che cosa» è buono o cattivo. Desideroso di essere felice, il giovane interroga dunque Gesù sul bene da farsi nelle sue particolari circostanze di vita. La necessità di personalizzare il bene potrebbe essere confusa con il soggettivismo di chi vuole essere giudice del bene e del male da se stesso, senz’altra regola che la propria libertà. Tra le patologie dell’agire morale non vi è solo quella del soggettivismo arbitrario, ma anche quella dell’oggettivismo legalista di chi ritiene che il bene coincida con la pratica letterale della legge. La legge di Dio La risposta di Gesù non frena la ricerca del giovane, ma la apre, anzi, a un orizzonte infinito. Egli invita il giovane ad attivarsi personalmente nel cammino di ricerca: Gesù non manca di fornirgli le indicazioni essenziali per orientarsi e percorrerlo. L’«uno solo Buono» è Dio. La domanda morale del giovane riguardante il suo agire nel mondo viene rivelata da Gesù nel suo legame cioè con Dio: interrogarsi sul bene da fare è già mettersi sulle tracce di Dio. Gesù svela al giovane che la vita pienamente felice cui aspira, la vita eterna che desidera è niente meno che una vita divina. Predestinato ad essere divinamente felice, l’uomo non è abbandonato a se stesso nel perseguimento della vita divina, ma da Dio stesso istruito circa il cammino da compiere. La legge morale di cui l’uomo è naturalmente dotato lo induce a fare il bene non in astratto, ma già insegnando alcuni modi concreti di vivere, quelli appunto dettati dai comandamenti. La conoscenza naturale del bene e del male da parte dell’uomo non è assolutamente garantita da ogni errore. L’elenco fornito da Gesù al giovane contempla i comandamenti della seconda tavola: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». Ci si potrebbe chiedere come mai Gesù si limiti ai comandamenti della seconda tavola, sospettando magari che questi comandamenti riguardanti il prossimo possano essere sganciati da quelli della prima tavola, relativi a Dio. Ma Gesù ha già ricordato al giovane la stretta relazione tra il bene morale e Dio. I comandamenti della seconda tavola, volti a salvaguardare la vita fisica, familiare e sociale trovano compendio nel comandamento di amare il prossimo. Riassumendo tutti i comandamenti nell’amore del prossimo, non si intende escludere l’amore di Dio. L’interpretazione che riassume i comandamenti nell’amore del prossimo e scorge in questo l’amore di Dio. L’interpretazione amorosa del Decalogo permette di evitare l’equivoco di interpretare i comandamenti come un limite all’amore. Il desiderio di felicità inscritto nell’uomo non trova appagamento nella mera osservanza dei comandamenti. Essi sono una condizione necessaria ma non sufficiente per essere felici. La sequela di Gesù La risposta di Gesù alla richiesta del giovane verte sulla vendita delle ricchezze a favore dei poveri. Il desiderio di perfezione del giovane viene subito calibrato sugli altri. La perfezione morale non consiste nella inappuntabile pratica di precetti impersonali, ma nella dedizione personale agli altri, scegliendo di preferenza i poveri. L’invito di Gesù a far del bene al prossimo sembrerebbe configurare la morale cristiana come una morale semplicemente umana. La vendita di ciò che possiede è richiesta al giovane affinché possa seguire Gesù senza impedimenti, imitandone lo stile di vita. Una volta stretto il legame con Gesù, la vendita dei propri beni in favore dei poveri è più che un atto di giustizia sociale: diviene testimonianza della relazione con Gesù e dell’amore per gli altri che essa genera. Invitando il giovane a seguirlo, Gesù, da maestro che indica la via, si propone egli stesso come la via che conduce alla felicità desiderata. Nel Figlio Gesù l’uomo incontra Dio Padre. Seguire Gesù è immergersi nell’amore che stringe in Uno la Trinità divina. Sulla base di queste considerazioni si potrebbe definire la Il tempo passa e impedisce di fare la scelta che non si è fatta in passato. Ciò che è avvenuto nel frattempo fa sì che non si possa più fare ciò che non si è fatto. Per qualche tempo e in una certa misura può anche sembrare di farcela, di recuperare tempo, ma anche questo ha un limite. A un certo punto finisce: l’uomo muore. Questo esito è lì a ricordarci che la vita trascorre e che ciò che è stato non è più. La libertà è sempre costretta a fare qualcosa, è sempre in azione. La libertà è azione. Costretta a fare il bene o il male, costretta comunque a fare. Alla libertà manca la cosa più fondamentale, la scelta iniziale di esistere. La libertà è legata all’uomo. L’uomo non può disfarsene. La persona è libertà. La libertà legata La libertà e il corpo La libertà è ciò che fa di un corpo una persona umana. Nei confronti del corpo non si può fare ciò che si vuole: compromettere il corpo significa compromettere la propria libertà. Il corpo è anzitutto fonte dei motivi che inclinano la libertà a compiere determinate azioni: il dolore e il piacere percepito attraverso i sensi spingono l’uomo a evitare i pericoli e a ricercare il benessere. Il corpo non è solo la sede che muove la libertà a operare, è anche il modo mediante il quale la libertà si esprime. Questo modo impone alla libertà dei limiti. Il legame della libertà col corpo si esprime inoltre nelle emozioni. Oltre che dalle emozioni, la libertà è condizionata anche dalle abitudini che non le consentono di cambiare le proprie scelte con la fermezza e la rapidità con cui vorrebbe: caffè e sigarette sono esempi eloquenti. C’è poi un livello biologico del corpo che condiziona la libertà in modo pressoché assoluto: eventi come la nascita, la crescita, la morte sono realtà indisponibili all’uomo. Per quanto libera sia una persona, non può prescindere da questi condizionamenti che le sfuggono. Ciò che per un verso è condizionamento, per altro verso è condizione di possibilità. Questa ambivalenza si ritrova in tutti gli altri legami della libertà. La libertà e il mondo La libertà non è rinchiusa nel corpo. Ciò che sta intorno all’uomo, l’ambiente che lo circonda è parte integrante della sua vita. La cultura è ciò che scaturisce dalla libertà che opera nella natura. L’accelerazione della civiltà comporta la sostituzione del naturale con l’artificiale. L’ultima frontiera dello sviluppo tecnologico, quella telematica, sta riconfigurando il mondo dell’uomo. Il mondo virtuale contende il primato a quello reale. La libertà e gli altri Sono gli altri che consentono all’uomo di venire al mondo. Gli altri non solo ci mettono al mondo, ma al mondo pure ci consentono di stare: la cosa è quanto mai lampante nei primi anni di vita. Non solo gli altri ci mantengono in vita, ma danno vita alla nostra identità personale: scopro di essere bianco perché ci sono i neri, maschio perché ci sono femmine, ecc.. Ciò che vale per gli aspetti più generali vale anche per la mia individualità specifica: chi sono io lo scopro al contatto con gli altri. C’è un legame, quello coi genitori, che ci portiamo inscritto fin nel patrimonio cromosomico. Ad esso è normalmente associato un profondo legame affettivo che diventa vincolante. La libertà personale è intrinsecamente sociale: l’essere umano è essere-con-gli-altri. Gli altri, per quanto ci consentano di vivere, sono comunque dei limiti alla libertà personale: possono favorire od ostacolare la mia libertà. Sempre, in un modo o nell’altro, la legano. La libertà trasgressiva Per quanto legata a qualcos’altro, la libertà non è totalmente schiava: c’è uno spazio che non le può essere tolto. La libertà personale conserva sempre un margine di indipendenza. Quando ciò accade, la libertà comincia a sentire i legami col corpo, col mondo, con gli altri come il prigioniero sente le mani legate dietro alla schiena: Non si cerca di liberarsi dei chili di troppo, fino talvolta a rifiutare il cibo? I figli non ritengono spesso i genitori gli oppressori della loro indipendenza giovanile? Se legame deve esserci, spetta alla libertà deciderlo. L’io umano vorrebbe essere come Dio, senza leggi da osservare che non siano quelle da lui stesso stabilite. Essere autonomi è la più grande tentazione e il più grande tentativo mai sperimentato dall’uomo. Ma come conquistare l’autonomia assoluta? La libertà risulta necessariamente legata al corpo, al mondo, agli altri. Trasgredire i legami che le sono imposti: è questo il programma d’azione mediante la quale la libertà tenta di essere totalmente libera. Trasgressione e dominio sono in fondo la medesima cosa: andare oltre ogni limite è volersi imporre ovunque. Libertà totale e violenza sociale sono parenti prossimi. C’è un modo di vivere off-limits che fa tendenza → oggi la trasgressione giovanile non è più ideologica, motivata cioè da un ideale sociale che intenda rivoluzionare lo status quo. Si vuole dimostrare, soprattutto al branco di cui si è parte, il brivido e il piacere di una libertà estrema. L’egoismo proviene sempre dalla medesima origine: il tentativo della libertà di farsi padrona dell’alterità, sia essa il suo stesso corpo, il mondo circostante, gli altri. L’inevitabile oltre della libertà Il corpo, il mondo e gli altri sono gli inevitabili legami con cui la libertà gioca la sua partita. Ma che cosa o chi ci ha consentito di giocare da titolari? Che cosa sta al principio della libertà? Il perché l’uomo viva, il perché debba giocarsi senza aver scelto di giocare, è una domanda che l’uomo porta inevitabilmente con sé. Ed è una domanda a cui, anche qualora non lo voglia, dà comunque una risposta. Disinteressarsi del legame con Dio è già una risposta pratica: una simile posizione è la conferma che l’uomo è inevitabilmente legato a Dio. La libertà dell’uomo è libertà reale, ma finita: non ha il suo punto di partenza assoluto, ma nell’esistenza dentro cui si trova e che rappresenta per essa, nello stesso tempo, un limite e una possibilità. Il riconoscimento dell’uomo come creatura è il confine cui giunge l’indagine sulla libertà. L’uomo non scorge ciò che sta oltre, e tuttavia, riconoscendo l’esistenza di un confine, solleva la questione dell’oltre. Benché soltanto umana, l’esistenza della nostra libertà pone necessariamente la questione di Dio. Etica laica e teologia morale L’etica postmoderna si struttura sulla base della sola libertas. Privata di ogni tratto oggettivo e universale, la verità diviene una realtà soggettiva e regionale. L’odierna etica della sola libertas è sorta e si è affermata opponendosi a quella che potrebbe essere definita morale della sola veritas. La morale religiosa ha con insistenza rivendicato il primato della verità oggettiva. L’etica laica della sola libertas e la morale religiosa della sola veritas soffrono del medesimo difetto. Entrambe riducono l’equazione dell’agire morale a una sola variabile. Da questa convinzione deriva lo statuto epistemologico della teologia morale, schematicamente rappresentabile come un’equazione a due variabili: la libertà implicata nell’agire dell’uomo e la verità relativa all’agire di Dio. Accedendo alla Rivelazione di Dio, il sapere morale scopre la variabile divina presente nell’agire umano e viene così a disporre anche dell’altra variabile, oltre a quella umana, necessaria per studiare l’equazione propria della teologia morale, ovvero la collaborazione dell’agire umano e dell’agire divino. CAPITOLO SECONDO - LA LEGGE DELLA LIBERTÀ È nell’intreccio narrativo dell’evento pasquale che si possono scorgere i dinamismi essenziali della morale cristiana. I dinamismi pasquali della morale cristiana Gesù preannuncia ai discepoli il senso della sua imminente morte e risurrezione: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». L’annuncio di Gesù suggerisce una lettura dei racconti degli eventi pasquali attenta al loro profilo morale, cioè all’intreccio tra l’agire divino e l’agire umano. «Chinato il capo, consegnò lo Spirito» Tra le cause fisiologiche della morte di Gesù è verosimile comprendere l’asfissia. Così morì, emettendo l’ultimo respiro. Ma questo ultimo respiro diventa un segno che rivela il dono dello Spirito santo, consegnato all’umanità da Cristo proprio in virtù della sua morte. «Padre, perdonali» La morte e la risurrezione di Cristo sono il culmine della rivelazione di Dio Padre. Ma che cosa accade nella pasqua di Cristo, in preciso riferimento alla libertà degli uomini peccatori? Egli giunge a perdonare tutti, anche i suoi avversari. Anzi, trova quasi una scusa per coloro che lo stanno uccidendo: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno». Gesù dimostra che Dio offre il perdono ai peccatori ancora prima che costoro abbiano deciso di convertirsi. Il perdono di Gesù dalla croce raggiunge l’umanità in ogni tempo e in ogni luogo, grazie allo Spirito santo da lui donato alla Chiesa. In questo modo, la libertà umana viene perdonata delle molteplici forme di rifiuto di Dio. Il perdono di Gesù crocifisso non solo purifica le colpe dei peccatori, ma (ri)mette costoro nella condizione di affidarsi a Dio. «Salva te stesso» Raggiunta dagli effetti della pasqua di Cristo, la libertà degli uomini può irrigidirsi in un rifiuto: tale rifiuto si è effettivamente verificato. La crocifissione di Gesù è stato il tentativo estremo dei suoi avversari di mostrare la falsità della sua consapevolezza di essere il Figlio di Dio: se egli lo fosse veramente, non potrebbe morire maledetto dalla legge divina. Successivamente, i discepoli di Gesù furono a lungo perseguitati e martirizzati. L’amore sino alla fine → Benché infusa nell’intimo dell’uomo, la legge nuova non è posta nel suo cuore come un tesoro sepolto in un terreno. La traccia scritta della legge nuova è rinvenibile nel Nuovo testamento, più puntualmente ancora nel Discorso della montagna: esso illustra la via graduale ed ascendente sulla quale la libertà umana è attirata dallo Spirito santo sino a raggiungere la piena conformazione a Cristo. L’amore di Gesù consiste nel dono totale di sé per gli altri. Il comandamento nuovo dell’amore, assegnando all’amore umano il «come» dell’amore di Gesù, giunge sino a comprendere persino i nemici. La sua esplicita formulazione è «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano». La legge naturale La figura integrale della legge morale non si esaurisce nella legge nuova, ma deve essere integrata considerando la «legge naturale», cosiddetta perché propria della natura umana. Legge posta nell’intimo La relazione tra la legge naturale e la legge nuova può essere stabilita rispetto alla loro intima presenza nell’uomo. A questo riguardo si deve riconoscere una somiglianza e una dissomiglianza. • La somiglianza della legge naturale con la legge nuova è dovuta al fatto che entrambe sono leggi infuse. • La dissomiglianza della legge naturale rispetto alla legge nuova riguarda il fatto che quest’ultima, oltre che esigere il bene, è la risorsa per compierlo. Tale risorsa risulta quanto mai essenziale in vista del grado eccelso di bene cui la legge nuova dispone rispetto al grado di bene prospettato dalla legge naturale. L’amore del prossimo Come nel Discorso della montagna, che illustra il comandamento nuovo di Gesù, si esprime la legge nuova, così la legge naturale trova espressione scritta nei comandamenti del Decalogo. I comandamenti del Decalogo convergono nell’unico comandamento dell’amore del prossimo. Quale analogia ricorre tra il comandamento di amare il prossimo e il comandamento nuovo dell’amore di Gesù? Lo spunto per il confronto è presente nel Discorso della montagna. L’amore dei nemici eleva l’amore umano sino all’altezza dell’amore divino. L’amore dei nemici imita da vicino l’amore di Cristo più di quanto non faccia l’amore del prossimo. Benché di grado inferiore, l’amore del prossimo non si contrappone all’amore sino alla fine. Se l’amore sino alla fine è la vetta dell’amore, l’amore del prossimo rappresenta l’imprescindibile base da cui partire. Caratteristiche della legge morale L’interpretazione proposta della legge morale in chiave amorosa o, meglio, dell’amore come legge può essere continuata con l’indicazione delle sue principali caratteristiche. Interpersonalità In quanto amore, la legge morale è essenzialmente interpersonale, riguarda cioè la relazione amorosa tra (almeno due) persone. L’amore per gli altri non costituisce più la sostanza della legge morale, ma l’obbligo che essa impone. L’altro è amato in nome della legge e non per amore. La legge morale non sarebbe dunque intrinseca all’amore interpersonale, ma risulterebbe ad esso estrinseca, imposta dall’autorità che detta legge. Obbligatorietà Se la legge morale consiste essenzialmente nel legame amoroso con l’altro, sorge la domanda circa la sua obbligatorietà. L’amore sembrerebbe escludere ogni obbligo. Esso sussiste nella misura in cui la legge è intesa come ordine impersonale cui il soggetto deve adeguarsi. Qualora però si definisca la legge nel quadro di un legame amoroso, essa perde la sua incompatibilità con la libertà personale, arrivando anzi a suscitarla. L’amore obbliga facendo appello alla propria responsabilità per l’altro. Un’immagine di questa debolezza dell’amore trova espressione nel vagito del neonato che, nella sua estrema fragilità, fa appello alla responsabilità amorevole dei genitori. La sua fragilità è comandamento d’amore: l’amore obbliga suscitando un’obbedienza amante. Universalità e immutabilità L’interpretazione in chiave amorosa della legge morale si prolunga in una rinnovata comprensione di due caratteri riconosciuti dalla tradizione teologico-morale alla legge naturale: l’universalità e l’immutabilità. Essi esprimono in ogni circostanza spaziale e temporale la validità del comandamento dell’amore, l’«ovunque» e il «sempre» dell’esigenza di amare. In negativo, universalità e immutabilità della legge morale dichiarano che non esiste alcun luogo e alcun momento in cui gli uomini possano vivere all’altezza della loro natura interpersonale prescindendo dall’amore: l’universalità della legge morale esige di amare in ogni dove, senza eccezioni; l’immutabilità indica l’invariabilità del comandamento dell’amore, cui non può mai essere preferito l’odio. L’universalità e l’immutabilità della legge naturale non sono sinonimo di fissità. Esse fissano sì come condizione imprescindibile l’essenziale natura “amorosa” dell’uomo, ma non precludono, e anzi includono la possibilità che essa evolva oppure deperire sino a scomparire. Gradualità Tracciando il limite al di sotto del quale l’amore scompare, la legge naturale non lo delimita superiormente. Al di sopra, il livello è indicato dalla legge nuova. L’amore, pur universale e immutabile, può essere conosciuto e vissuto a diversi gradi e, dunque, trovare diversa espressione nello spazio e nel tempo, a seconda che sia più vicino al livello basilare dell’amore del prossimo o al livello superiore dell’amore dei nemici. Ne deriva una concezione della legge morale che può essere detta «legge della gradualità amorosa». La legge della gradualità amorosa fissa nell’amore sino alla fine il livello amoroso da perseguire e nei precetti del Decalogo il livello amoroso imprescindibile. La declinazione graduale dell’amore potrebbe essere espressa dicendo che la legge morale è, allo stesso tempo, uguale e non uguale per tutti: non solo perché tutti devono amare il prossimo al grado basilare della legge naturale, ma anche perché l’amore del prossimo deve essere perfezionato sino alla fine, sino cioè a comprendere anche il nemico. A ciascuno è comandato di amare senza pretendere l’impossibile, ma senza nemmeno rinunciare al qui e ora possibile. Mentre il Decalogo stabilisce il limite oggettivo al di sotto del quale l’amore scompare, il comandamento nuovo fissa la meta amorosa. CAPITOLO TERZO - I DINAMISMI DELLA LIBERTÀ La legge morale consente e comanda di amare come Cristo. La legge si rivolge all’uomo libero: senza libertà, la legge finirebbe per essere un’imposizione violenta. L’attrazione indotta dallo Spirito, che consente e comanda di amare come Cristo, suscita un’azione libera. La risposta dell’uomo sarà non semplicemente verbale-intellettuale, ma esistenziale- pratica. L’azione è la dimora della libertà. L’analisi della libertà agente deve dunque prendere avvio là dove essa abita, nell’agire concreto. Analitica dell’atto Lo studio della singola azione è paragonabile alla vista oculare che, sullo sfondo di ciò che vede, fissa un punto mettendolo a fuoco: la vista focale non prescinde dalla vista periferica che permette di situare i particolari altrimenti incomprensibili. La singola azione Senza il concetto di singola azione, il buon senso comune finirebbe smarrito. La descrizione e la valutazione dell’agire umano sarebbe rimandato postmortem, perché solo allora l’agire potrebbe dirsi compiuto. Impossibilitato a valutare il suo agire prima che esso sia compiuto, l’uomo resterebbe senza responsabilità. L’agire morale sarebbe in realtà un evento naturale come gli altri, e come tale l’unico metodo adeguato per valutarlo sarebbe quello delle scienze positive. L’azione morale Il linguaggio comune segnala la differenza tra azione umana ed evento naturale. L’ingegno di Tommaso ha dato statuto filosofico al senso comune distinguendo tra gli atti che sono propri dell’uomo (actus humanus), e gli atti che sono comuni all’uomo e agli altri animali (actus hominis). • Negli atti propriamente umani è presente la libertà, assente invece negli atti genericamente dell’uomo. • La distinzione tra i due tipi di atti è indicata nominando i primi come «azioni» e i secondi come «passioni», mettendo cioè in luce come i primi siano agiti, tramite l’esercizio della libertà, e i secondi, invece, piuttosto patiti, dovuti cioè ad altri dinamismi, fisici, psichici, ecc., di cui l’uomo è costituito. Non essendo l’uomo puro spirito angelico o solo corpo animale, ma «totalità unificata» di spirito e corpo, le azioni umane sono sempre intreccio di azione e passione. I due concetti segnalano i due poli estremi entro la cui tensione si costituiscono le azioni. Le azioni sono dunque costituite dalla «reciprocità di volontario e involontario». Senza però nemmeno un briciolo di libertà, l’atto fuoriesce dall’ambito d’interesse e di competenza della scienza morale, divenendo oggetto di altre discipline. Volendo tracciare l’estensione dell’agire libero, potremmo fissare al limite inferiore dell’agire morale l’azione impulsiva. All’estremo superiore, invece, potremmo collocare l’azione differita in cui una decisione è presa, ma la sua esecuzione è subordinata da un segnale che non dipende da me (circostanze materiali, condizioni corporee, eventi sociali ecc.)». I tempi dell’azione comandamento non è l’esigenza di amare Dio e il prossimo, ma la loro correlazione. La relazione con il Dio invisibile si gioca nelle relazioni con i beni visibili. Non ogni scelta particolare incide allo stesso modo sull’opzione fondamentale. Si potrebbe allora distinguere tra «atti profondi», che coinvolgono totalmente la libertà della persona, e «atti periferici», che lo fanno solo parzialmente: negli atti profondi ne va dell’opzione fondamentale, in quelli periferici essa rimane sostanzialmente invariata. La pur diversa incidenza delle azioni particolari sull’opzione fondamentale comporta la variazione di quest’ultima, fino al suo rovesciamento da positiva a negativa o, al contrario, da negativa a positiva. Il passaggio dal sì al no nei confronti di Dio costituisce il peccato; quello dal no al sì la conversione. L’opzione fondamentale per il Bene assoluto, Dio, possa giocarsi nelle scelte particolari riguardanti i beni umani. La coscienza La consapevolezza e deliberazione delle scelte in cui si attua l’opzione fondamentale introduce il tema della coscienza morale. Il termine coscienza è paragonabile a un attaccapanni su cui le varie discipline scientifiche appendono le loro diverse interpretazioni. • Per Marx, la coscienza morale è il riflettersi nella mente del singolo della sovrastruttura sociale prodotta dai rapporti di produzione economica. • Per Freud, la coscienza morale coincide con il territorio psichico del Super-Io, prevalentemente inconscio e derivante dall’interiorizzazione dell’autorità dei genitori. • Per Nietzsche, la coscienza morale non è che «la voce del gregge in noi», ovvero l’effetto dovuto all’introiezione di norme morali di una determinata società. • Per Darwin la coscienza altro non è che il prodotto sofisticato di meccanismi neurobiologici. Consapevolezza psicologica e coscienza morale L’etimologia del termine coscienza ci rimanda a una realtà che è in relazione con altro da sé. Perché si possa parlare di coscienza morale non basta che un soggetto si dica colpito da un valore morale. Il semplice essere colpiti appartiene al livello psicologico della coscienza, a quella che potremmo definire «consapevolezza psicologica». Un esempio può chiarire la somiglianza e la differenza tra la coscienza in senso psicologico e in senso morale. Si tratta della differenza tra innamoramento e amore. L’uno e l’altro non sono estranei eppure non coincidono. La coscienza morale non consiste semplicemente nella consapevolezza di essere in relazione con qualcosa o con qualcuno, ma risponde delle relazioni che inevitabilmente intrattiene. In tal senso si parla giustamente della coscienza morale in termini di coscienza «responsabile», abile cioè nel rispondere a ciò che la interpella. La responsabilità della coscienza morale è essenzialmente dovuta alla libertà di determinarsi rispetto a ciò che la interroga. La risposta della coscienza non risulta cioè predeterminata alla stregua di un impulso incontrollabile o di un istinto automatico, ma libera, anche se non in modo assoluto. La libertà è attività cosciente. La libertà, di cui pur gode la coscienza morale, non è libertà assoluta, sciolta cioè da ogni legame: la coscienza è sempre coscienza di..., e dunque la coscienza sussiste nella misura in cui è in dialogo con. La coscienza morale come eco della voce di Dio Una considerazione adeguata delle relazioni costitutive della coscienza prevederebbe di passarne in rassegna almeno quattro: 1. la relazione ambientale con la natura e la cultura 2. la relazione intrapersonale con il corpo 3. la relazione interpersonale con il prossimo umano 4. la relazione religiosa con Dio. La censura o l’esagerazione di una di queste relazioni compromette la coscienza morale. La coscienza ora la si è intesa soprattutto come voce di Dio (Agostino), che l’uomo può sentire quando rientra nell’intimo di se stesso; ora la si è considerata maggiormente come voce dell’uomo (Tommaso). In questa seconda visione – la più influente nella dottrina morale cattolica – la coscienza morale comprende sia la stabile percezione dei principi della moralità sia il giudizio concreto su atti che sono già o non ancora stati compiuti. Necessità di concepire la coscienza come «testimonianza di Dio stesso, la cui voce e il cui giudizio penetrano l’intimo dell’uomo». Si potrebbe intendere la coscienza come l’eco che si produce nel contatto dello Spirito divino con la libertà umana. La coscienza morale sarebbe allora il “suono” che scaturisce dall’intreccio tra l’iniziativa amorosa dello Spirito e il tipo di accoglienza che la libertà gli riserva. Concepita come eco dello Spirito santo che “risuona” in base alla diversa disposizione amorosa della libertà, la coscienza è un «fenomeno relazionale», derivante cioè dalla relazione che la libertà umana intrattiene con lo Spirito divino. Storia dell’atto Mentre l’uomo agisce istruito e sorvegliato dalla coscienza, simultaneamente, opta pro o contro Dio. L’analisi di questo processo può essere illuminata ricorrendo ai due concetti di «possesso» e di «privazione». Il decidere per un verso permette all’uomo di venire in possesso di ciò che ha scelto, per altro verso lo priva di ciò che non ha scelto. Quando la scelta è di ordine morale, riguarda cioè il bene da fare, succede che l’uomo, compiendolo, ne entra in possesso, diviene cioè (più) buono; mentre, invece, omettendolo se ne priva, divenendo (più) cattivo. La bontà di cui l’uomo attraverso le sue scelte entra in possesso o si priva diviene condizione/condizionamento del suo agire, diviene un habitus, il quale, a seconda che sia buono o cattivo, si specifica, rispettivamente, come virtù o vizio. • Si può definire la virtù come la «storia buona della libertà» • Si può intendere il vizio quale «storia cattiva della libertà» • In quanto qualificazione buona della storia della libertà, la virtù appartiene alla libertà ed entra dunque a determinare il bene fatto dalla libertà • al contrario, in quanto qualificazione cattiva della storia della libertà, il vizio appartiene alla libertà ed entra dunque a determinare il male fatto dalla libertà. Virtù La virtù è acquisibile dall’uomo mediante l’esercizio ripetuto e costante di un’azione buona, dal quale deriva la disposizione stabile a fare il bene spontaneamente. La virtù è dunque il prodotto dell’attività dell’uomo. Virtuoso è l’agente buono che agisce bene. Secondo la visione cristiana, piuttosto che nel terreno della volontà umana, la virtù è piantata in quello della grazia divina. L’originale integrazione operata da Tommaso non manca di presentare la virtù come ciò che l’uomo acquisisce; ma ritiene che ciò sia possibile per dono di Dio. La definizione divenuta classica nella dottrina cristiana segnala proprio questa particolarità: l’uomo «ha» la virtù perché Dio gliela «infonde». L’articolazione delle virtù Tommaso provvede all’integrazione del quartetto delle virtù morali di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, introdotte nel cristianesimo col nome di «virtù cardinali» con la triade delle virtù teologali di fede, speranza e carità. L’integrazione operata da Tommaso estende il concetto di habitus infusus, propriamente riferito alle virtù teologali, a tutte le altre virtù della vita morale, a partire dalle quattro «virtù cardinali». In particolare è Paolo che formula la triade: fede, speranza e carità. L’abbraccio è un eccellente simbolo evangelico da cui traspare l’incontro di Dio con l’uomo. Possiamo definire: - la carità come l’attrazione dell’amore di Dio - la fede come l’affidamento all’amore di Dio - la speranza come il movimento nell’amore di Dio. Così espresse, le virtù teologali possono essere intese come la Trinità stessa che raggiunge e coinvolge la libertà dell’uomo: il Padre che attrae, il Figlio che gli si abbandona, lo Spirito che li unisce. La carità è la più grande delle virtù teologali: essa è l’origine, il senso il movimento, e anche il fine della vita cristiana. Lo sviluppo morale Poiché l’infusione della virtù nell’uomo è opera dello Spirito santo, la virtù stessa può essere altrimenti descritta come la «forma spirituale della libertà». Tale forma non è realizzata dallo Spirito in un attimo, ma durante l’intera storia dell’uomo, che mediante le singole sue scelte plasma la sua personalità morale. Il recupero di una visione dinamica dell’agire morale può oggi avvalersi della categoria di «legge della gradualità» → in essa si evidenzia l’essenziale storicità dell’uomo: l’«essere storico» dell’uomo motiva il carattere propriamente dinamico della vita morale. Si sviluppa così un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore definitivo e assoluto nell’intera vita personale e sociale dell’uomo». «La cosiddetta “legge della gradualità” non può identificarsi con la “gradualità della legge”, come se ci fossero vari gradi e varie forme di precetto della legge divina per uomini e situazioni diverse». La corretta interpretazione e applicazione della legge della gradualità non esime dal costante riferimento al bene non ancora raggiunto e dall’impegno di porre le condizioni necessarie per acquisirlo. che il comandamento di Dio non è riducibile al non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, ma prevede di mangiare dei frutti degli altri alberi; il comandamento diventa solo negativo, scatta il desiderio della trasgressione. Il racconto mette in luce come il peccato abbia la sua genesi nella tentazione interiore (concupiscenza), tentazione che mira anzitutto a falsificare lo sguardo sulla realtà: l’immagine del mondo viene distorta. Se l’attività immaginativa è all’origine della tentazione ne consegue che la strategia migliore per non cadere in tentazione è quella di vigilare sulla propria immaginazione. La conversione perfetta La conversione, fin dal suo sorgere, è orientata a Dio. Per dire del perfezionarsi della conversione si è fatto ricorso al tema della «sequela» e dell’«imitazione di Cristo». Attirando l’uomo nella comunione con Cristo e con il Padre, lo Spirito evita che l’imitazione dei cristiani si riduca al tentativo fallimentare delle loro sole forze. Anche al suo più maturo livello, come agli esordi, la conversione si configura anzitutto come fede nella grazia dello Spirito santo. Il discernimento morale La storia della libertà conosce la fondamentale alternativa del peccato e della conversione. Dal punto di vista morale l’uomo non è definitivamente né diavolo né santo. Semmai è più prossimo all’uno o all’altro. Le situazioni conflittuali Il conflitto in cui la libertà umana si trova a vivere nella storia non riguarda la scelta del peccato o della conversione. Il conflitto riguarda piuttosto i singoli beni, che sono la modalità storica mediante la quale l’uomo si decide rispetto al Bene divino. Alcuni autori negano che possa capitare che i beni e i valori entrino in conflitto: la ragione può essere indicata nel fatto che ogni valore si colloca in un universo di valori gerarchicamente ordinato. Il diverso livello su cui si collocano impedirebbe che sorga il conflitto di valori. Ma i valori o beni sono sempre situati in una storia che non realizza il bene assoluto ma solo quello possibile qui e ora. La morale non diventa la modalità per sottrarsi alla responsabilità, ma l’itinerario mediante il quale l’uomo si fa carico del male che inevitabilmente ancora compie. Il conflitto tra il bene (da fare) e il male (di cui farsi carico), che costituisce il cuore stesso della questione morale, non può essere risolto al di fuori della coscienza personale. La formazione della coscienza La teologia morale non si limita a rendere intelligibile l’agire umano, ma svolge anche un ruolo direttivo. Il compito è soprattutto quello di «formazione della coscienza». Anamnesi La diffusa crisi della coscienza può essere intesa come l’esito di due rivoluzioni avvenute nella civiltà occidentale, definibili come l’implosione e l’esplosione della coscienza. • L’implosione della coscienza → Fino al Medioevo la coscienza era intesa come ricettacolo terreno delle leggi divine. Il suo compito si esaurisce nell’applicare diligentemente le leggi di Dio alle situazioni della vita concreta. Questo modo di intendere la coscienza è stata criticata in epoca moderna: ai fini della coscienza, Dio è morto. • L’esplosione della coscienza → L’implosione della coscienza ha oscurato la relazione con Dio. Le scienze umane vengono sguinzagliate alla ricerca dell’identità propria dell’uomo. L’uomo contemporaneo si presenta come decostruito in una varietà di aspetti che dicono di lui qualcosa, ma in nessun caso la verità. Dopo Dio, anche l’uomo sembra morto. La coscienza individuale risulta mutevole a seconda della situazione e del momento in cui si trova. Evidente è la netta separazione tra ambito pubblico e sfera privata: - Nell’ambito pubblico prevale il ruolo, definito da regole di ogni tipo, che la coscienza individuale subisce come il prezzo da pagare per la convivenza sociale, o utilizza come strumento per ottenere il proprio tornaconto. Oggi il lavoro è condizione sopportata, in vista di altro: i soldi, la posizione, la carriera…. Ma la pressione in ambito lavorativo, subìta o accettata, necessita di sfogo. - E così, la vita privata diventa una sorta di valvola di scarico: le tensioni familiari, le trasgressioni coniugali, l’incremento delle forme di evasione. Ciò che succede a livello civile sembra accadere anche in ambito ecclesiale. Il cristiano entra in un certo ruolo per assicurarsi l’appartenenza alla Chiesa, ma gestisce poi privatamente le scelte riguardanti la sua vita personale e familiare. Macroscopico in tal senso è il fenomeno della richiesta di ricevere i sacramenti, ancora alta nonostante il forte calo della pratica religiosa. Cure palliative Quali rimedi sono immaginati e praticati per fronteggiare la dispersione della coscienza? Possiamo indicarne tre: 1. il primo tenta di trattenere la coscienza vincolandola alla legge 2. il secondo scommette sulla sufficiente capacità della coscienza di autovincolarsi 3. il terzo suggerisce alla coscienza di ritardare o viceversa affrettare il tempo delle scelte. Il rischio è l’assunzione dell’una a scapito delle altre. La somministrazione singola finisce per essere, rispetto alla crisi della coscienza, una semplice cura palliativa. - La formazione imposta → la sola considerazione della «legge oggettiva» riduce la funzione della coscienza a un meccanismo automatico. I pericoli che ne derivano sono quelli dell’idealismo e del legalismo, dove ciò che più conta è essere all’altezza dell’ideale o rispettare la legge. I contraccolpi sono la frustrazione per l’incapacità di raggiungere l’ideale, o la trasgressione della legge per sottrarsi alla sue durezze. - La formazione spontanea → Il favore esclusivo per la «coscienza soggettiva» trasforma il giudizio di coscienza in opinione personale. Nessuno può pretendere di stabilire il bene e il male poiché ciascuno ha il diritto di deciderlo da sé. I rischi sono quelli del relativismo e dell’arbitrarietà. - La formazione affrettata o rimandata → Il tempo rischia di divenire tiranno per una vera maturazione della coscienza, a seconda che lo si esageri o lo si annulli. Nel primo caso non si decide mai, aspettando che il tempo riveli quel motivo in più che ci renderebbe del tutto sicuri di una scelta; nel secondo caso si saltella da una scelta a un’altra, senza mai concedersi il tempo sufficiente per passare dall’esperimento all’esperienza. Terapia Lo Spirito agisce plasmando la coscienza quale capacità di riconoscere e scegliere il bene. Lo Spirito dà vita alla coscienza morale dell’uomo. La coscienza morale dunque prende forma per opera dello Spirito santo, il quale abilita l’uomo al discernimento morale. La formazione della coscienza morale più che attività dell’uomo è disponibilità dell’uomo nei confronti dello Spirito Santo. Ma come si può stare sotto l’azione dello Spirito? Molteplici sono i luoghi in cui lo Spirito può essere percepito: Sacra Scrittura, sacramenti, comunità cristiana. Coscienza e sacramenti → In quanto comunicano lo Spirito santo, tutti i sacramenti provvedono alla formazione della coscienza. In uno di essi, tuttavia, sembra più facile percepire l’azione dello Spirito. L’esperienza di tanti cristiani, e specialmente dei santi, testimonia la grande efficacia del sacramento della riconciliazione in ordine alla formazione della coscienza. L’efficacia è legata alla profonda personalizzazione che tale sacramento consente. L’esercizio di confessare ciò che sta nell’intimo della propria coscienza permette di imparare a meglio conoscersi e a vivere più responsabilmente. Non è possibile riconoscere la coscienza che si ha senza considerare ciò che si fa. Coscienza e comunità cristiana → Non è immaginabile formare la coscienza laddove le relazioni siano deteriorate. Ciò comporta, da una parte, l’impegno reciproco a fornire una buona relazione affinché l’altro possa formare la sua coscienza; ma implica un legame inscindibile tra le coscienze. Se per un verso ciò vuol dire che la coscienza amorfa o deforme dell’altro incide sulla mia, per altro verso ciò significa che per quanto amorfa o deforme la mia coscienza può contare sul beneficio della coscienza formata dell’altro. Tra le relazioni essenziali che la coscienza cristiana vive vi è quella con il Magistero gerarchico del Papa e dei vescovi: ad essi spetta un compito rilevante nella formazione della coscienza morale. Anche il rapporto tra coscienza personale e Magistero gerarchico è divenuto conflittuale. protagonista che “prenda in mano” la nostra vita. Questi due poli fondamentali trovano sintesi nei termini di natura e tecnica. Il cambiamento invoca una risposta e la bioetica si è proposta come tale. L’identità della bioetica La comprensione pratica di natura e tecnica La definizione della bioetica, della sua identità e del suo metodo, si lega alla comprensione di cosa siano natura e tecnica e del loro rapporto. (In)comprensioni riduttive di natura e tecnica e conseguenti paradigmi (bio)etici Un primo riferimento implicito nella descrizione della natura è al suo livello empirico. Natura viene qui definita intendendo le cose naturali e i meccanismi organici. L’uomo partecipa delle leggi bio-fisiche dell’universo. Questa è la natura che emerge dallo sguardo oggettivante della scienza positiva: si parla di fatti, di dati. La descrizione di momenti del vivere, secondo questa prospettiva, riporterà l’elenco dei meccanismi e delle procedure di ordine bio-chimico, psichico e sociale che li regolano. Per questo, ogni interpretazione che consideri la natura unicamente come il livello empirico si presenta come una riduzione indebita. Il percorso logico suonerebbe in questi termini: la persona si riduce all’organismo corporeo che la compone. La denuncia di tale riduzionismo non significa che il livello empirico sia da escludere dal discorso morale. I recenti studi sull’ermeneutica hanno dimostrato non solo che il livello empirico descritto non può essere l’unico atto a dare contenuto alla parola “natura”, ma anche che l’accesso a questo strato non può avvenire in modo diretto. Lo sguardo non può accedere ai contenuti empirici senza passare attraverso le varie interpretazioni in cui quei dati ci vengono consegnati. Ci troviamo in un secondo livello: la natura è l’insieme dei significati storicamente e culturalmente interpretati, accessibili al soggetto. Natura di una carezza, in questo secondo senso, è l’insieme dei significati che quel gesto veicola attraverso le diverse interpretazioni culturali e soggettive. Il rischio di una nuova forma di riduzionismo si presenta nell’innalzamento di questo livello ad unico in grado di definire la natura. La natura sarebbe – in questo senso – la cultura: tutto l’uomo è ridotto ad interpretazione storica e relativa. Compito della nuova etica, della bioetica, è la costituzione di un livello ulteriore rispetto a quello delle diverse morali contenutistiche. Ulteriore conseguenza di questa linea di pensiero: nel discorso morale possono entrare solo coloro che godono di una libertà da difendere. Chi non ha ancora libertà, intesa come capacità e possibilità di scegliere (ad esempio embrioni, feti, infanti, etc.), chi non l’ha più (affetti da morbo di Parkinson, malati in coma, etc) o chi non l’avrà mai (ritardati mentali, bambini anencefalici, etc.) non sono, per questa prospettiva, persone in senso proprio. Essi non hanno alcun diritto se non in quanto loro attribuiti da una specifica comunità morale. I diversi rilievi critici che possono essere avanzati ad una simile teoria sono raccoglibili nella consapevolezza di una visione ridotta della natura dell’uomo. Questo ci permette di entrare a considerare le interpretazioni diffuse attorno alla tecnica. Ad un primo e superficiale livello, con “tecnica” si considera l’insieme degli strumenti e delle procedure che hanno come scopo il raggiungimento di un fine. Questo ha due conseguenze: 1. gli strumenti sono opera dell’uomo, quindi la tecnica sarebbe frutto intimamente legato all’essere umano 2. la tecnica si presenterebbe come eticamente neutra, riferendosi il discorso morale unicamente ai fini. Siamo di fronte ad una diffusa e comune interpretazione antropologica della tecnica. Dall’altra parte, lo strumento si offre all’uso dell’uomo in maniera neutra: un martello non è buono o cattivo, lo è il fine per cui io lo impugno. Nell’utilitarismo la giustificazione del comportamento etico si fonda sulla ricerca del maggior benessere possibile e sulla minimizzazione del male. Questo procedimento non può però cedere all’individualismo, ma per corrispondere all’esigenza etica, deve avere un carattere universale. Si tratta, per Singer, di esprimere «una legge universale». La norma morale deve così essere fondata sull’uguale considerazione degli interessi di tutte le persone in grado di manifestarli. In questo modo è persona umana, non chi appartiene alla specie umana, ma chi, in quando dotato di autocoscienza, è in grado di esprimere interessi. Comprensione pratica di natura e tecnica Il compito di una comprensione della natura e della tecnica, necessario per la definizione dell’identità della bioetica, deve assumere questi diversi elementi in una lettura che non lasci spazio a riduzioni. Ciò è possibile riconoscendo il legame intrinseco tra natura e tecnica e inserendo entrambi in una più globale visione del vivere dell’uomo. L’uomo si percepisce preceduto, indisponibile ad una totale determinazione di sé. È chiamato invece ad agire, ad interpretare con il suo agire, quella natura che lo precede. La tecnica è una delle modalità dell’interpretazione della natura. Ciò che è specifico si comprende però nel quadro di ciò che è generale: la tecnica – come la natura – non può essere separata dall’agire dell’uomo. La seconda conseguenza di questa comprensione del binomio natura-tecnica tocca più da vicino l’identità della bioetica. In questo senso la configurazione concreta dell’attuale interpretazione tecnica della natura non invoca semplicemente delle limitazioni, ma che se ne consideri esplicitamente la qualità etica. Tale livello non può essere considerato né ovvio né superfluo. L’etica infatti non si esaurisce nel riferimento ad uno dei due termini del binomio come vorrebbero alcuni interpreti. La bioetica come etica speciale Riassunto → Il disagio nei confronti di una disciplina recente quale la bioetica ha mosso la ricerca attorno alla sua identità. Tutto però è stato mosso dal disagio avvertito nei confronti di uno squilibrio tra le dimensioni fondamentali del vivere, definite con i termini di natura e tecnica. Tale crisi è stata provocata dall’avanzare delle nuove forme della tecno-scienza e della medicina. Identificato il cuore della bioetica nella risposta a questa esperienza, abbiamo tentato una definizione dei due termini emersi. L’esito di questo sforzo teorico è sintetizzabile nel riconoscimento del rapporto tra i due termini come espressione dell’agire dell’uomo chiamato a interpretare il suo riceversi nelle forme concrete e culturalmente mediate del suo darsi. Non si tratta tanto di gestire conflittualità, quanto di sostenere la coscienza chiamata a scegliere nei singoli atti tra il proprio perdersi e il proprio compiersi. La bioetica si colloca quindi nel contesto del sapere propriamente etico, come etica speciale. La bioetica come etica Dire che la bioetica si comprende come etica significa che essa ne condivide l’identità, la funzione e l’epistemologia. Come l’etica in generale, la bioetica si definisce come attività speculativa chiamata a rendere ragione dell’agire morale dell’uomo nei suoi tratti di libertà, consapevolezza e responsabilità e nel suo orientamento al bene. La funzione della bioetica si configura quindi come sostegno all’esperienza etica della persona. La bioetica, in sostanza, non può subentrare alla coscienza di chi è chiamato a scegliere nelle diverse situazioni del suo vivere. La bioetica come etica speciale La collocazione della bioetica all’interno dell’etica chiede ora di considerare che cosa la specifichi e la identifichi come disciplina autonoma all’interno del sapere morale. La considerazione della dinamica etica inclusa nel rapporto in questione si offre come dimensione specifica della bioetica. In definitiva, la bioetica risulta come la scienza morale – rivolta quindi alla spiegazione, giustificazione e valutazione dell’agire morale – specificata dalla considerazione dell’intreccio di natura e tecnica che descrive il vivere dell’uomo nei suoi momenti più significativi (nascere, morire, guarire, ecc.). La bioetica si definisce come la scienza morale del rapporto tra natura e tecnica. CAPITOLO SECONDO - UN NUOVO MODO DI GENERARE? 1978 nasce Louise Brown → nascita del primo essere umano generato in provetta. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita “Procreazione medicalmente assistita”: sotto questa etichetta si collocano una pluralità di tecniche classificabili secondo criteri diversi Classificazione secondo la sede della fecondazione Un primo criterio per orientarsi tra le varie tecniche riguarda il “luogo fisico” in cui avviene l’unione dei gameti. Si distingue così tra • PMA in vitro dove la penetrazione dello spermatozoo avviene “in provetta”, cioè in un terreno di coltura, per procedere poi al trasferimento dell’embrione all’interno delle tube o dell’utero femminile. 1. FIVET (fecondazione in vitro e trasferimento di embrione) → appare invasivo nei confronti della donna, sottoposta a diversi trattamenti ormonali per consentire il prelievo di un numero adatto di ovuli e la buona riuscita dell’impianto dello zigote. 2. Un’ulteriore tecnica è la ICSI (iniezione di uno spermatozoo). • PMA intracorporea in cui spermatozoo e ovulo si incontrano all’interno del corpo Tra le tecniche intracorporee si riconoscono l’inseminazione artificiale (IA) e la cosidetta GIFT (Gamete IntraFallopian Transfer). 1. IA → si procede attravero il prelievo del seme maschile che viene inserito nelle tube durante il periodo di ovulazione. Questo tipo di procedura appare indicato a superare alcune patologie dell’organo genitale femminile. 2. GIFT → consiste nel prelievo di entrambi i gameti e nel loro reinserimento nelle vie genitali femminili in maniera simultanea, ma separata. Una simile criteriologia può sembrare un peso eccessivo e apparire sproporzionata rispetto alle normali vicende che conducono una famiglia ad accogliere nuove vite. A riguardo di queste considerazioni ci sembra di poter evidenziare due elementi: 1. Tale criteriologia si propone come aiuto alle coscienze → Il dovere urgente è quello di arrivare ad una scelta libera, consapevole e responsabile. 2. Inoltre, il riferimento al dovere di una genitorialità responsabile esercitata anche attraverso il discernimento dei fini che muovono la ricerca di un figlio, è dovere di ogni famiglia, indipendentemente dalle opzioni particolari. La valutazione dei mezzi: il criterio della dignità dell’embrione Alla valutazione dei fini che muovono la richiesta di accesso alla PMA, deve seguire una valutazione dei mezzi. Serve una ulteriore valutazione morale e occorrono dei criteri per svolgerla. 1. Un primo criterio si lega al rispetto dell’embrione. Le posizioni si differenziano e possono essere classificate in tre grandi categorie: A) Una prima opinione difende l’idea di una personalizzazione immediata. Secondo gli esponenti di questa corrente il feto è portatore di diritti dal momento in cui avviene l’incontro tra i due gameti. B) Una seconda posizione attribuisce tutela all’embrione a partire dal suo annidamento in utero che avviene attorno al 14° giorno dalla fecondazione. La scelta di questo confine si motiva con la comparsa delle prime tracce riconoscibili del sistema nervoso centrale. La valutazione dei mezzi: il criterio della dignità della procreazione Un ulteriore criterio entra a contribuire ad un giudizio etico attorno alle procedure di PMA: è il rispetto della dignità della procreazione umana. Per questo si dovrà riconoscere come non rispettoso della dignità della procreazione umana ogni tecnica che realizzi una dissociazione tra i diversi significati dell’agire. Altro aspetto rilevante è il carattere sociale della scelta di generare. In questo senso ogni tecnica che non consenta una consapevolezza e un esercizio di tale responsabilità nei confronti della famiglia umana appare lontana dalla qualità alta della libertà che si configura nella forma genitoriale. Ripresa sintetica Il giudizio etico sulle tecniche di PMA Un grave disordine etico si riscontra in tutte le tecniche che appaiono non rispettose della dignità dell’embrione: procedure di selezione e soppressione embrionale o di sperimentazione su di essi per finalità altre rispetto al benessere dell’individuo stesso. Un problema complesso e diverso riguarda poi la sorte delle centinaia di migliaia di embrioni attualmente conservati nei vari centri di ricerca e di cura della sterilità. Si deve badare a preservare l’embrione da una deriva culturale che lo consideri come semplice prodotto o materiale a disposizione. Il secondo criterio elencato, riguardante la dignità della procreazione umana, sembra escludere ogni procedura che provochi consapevolmente una frammentazione dei ruoli genitoriali (madre surrogata). Riflesso di ciò sono le conseguenze sociali che ne vengono: i problemi anche legali circa il riconoscimento della paternità e maternità, i riflessi psicologici che simili procedure possono avere sulle nuove generazioni sono tutti segnali di un disordine morale. Quindi rimangono le tecniche di FIVET e di IA omologhe: nelle FIVET la procreazione è letta con le categorie dell’efficacia e della procedura, tipiche della tecnologia. Le pratiche di IA o la GIFT non sembrano porre simili o maggiori difficoltà. Però a questo livello diventa discriminante quel processo di verifica e purificazione delle intenzioni. Il discernimento della Chiesa L’insegnamento morale autorevole della Chiesa è intervenuto in diverse occasioni su questi temi. Alla base sta una visione dell’uomo che viene dalla Scrittura e da essa si alimenta. La persona umana si presenta come totalità unificata nel suo corpo, creata a immagine e somiglianza del suo Creatore e chiamata a proseguire l’opera della creazione attraverso la sua attività. Il corpo è reale presenza della dignità della persona e come tale deve essere considerato anche nelle pratiche mediche e di ricerca. Pertanto la scienza e la tecnica richiedono, per il loro stesso intrinseco significato, il rispetto incondizionato dei criteri fondamentali della moralità: debbono essere cioè, al servizio della persona. Il criterio della dignità della persona si declina nel rispetto della dignità dell’uomo chiamato alla vita e nel riconoscimento della dignità dell’atto generativo. Riconoscimento che il magistero non intende impegnarsi nella definizione dello statuto ontologico dell’embrione. Si riconosce infatti che questa questione impegna in un’«affermazione di indole filosofica» estranea alle funzioni di discernimento della Chiesa. Questo non toglie che «l’embrione umano ha fin dall’inizio la dignità propria della persona». Una seconda sottolineatura viene dalla formulazione di un criterio generale per la valutazione dell’intervento tecnico nell’agire umano → L’intervento medico è rispettoso della dignità delle persone quando mira ad aiutare l’atto coniugale sia per facilitarne il compimento sia per consentirgli di raggiungere il suo fine. Questo criterio sintetico, tradizionalmente conosciuto come “criterio dell’adiuvatio naturae” è stato oggetto di ampia discussione e di diverse interpretazioni, ma ci sembra corrispondere all’indicazione da noi proposta: la tecnica è chiamata ad entrare nell’agire interpretativo del senso rispettandone le tracce offerte. CAPITOLO TERZO - UN NUOVO MODO DI CURARE? 2000 → completamento della mappatura dell’intero codice genetico umano. È stata definita come la “terza rivoluzione”: la rivoluzione genomica. «La rivoluzione biotecnologica colpirà tutti gli aspetti della nostra vita» Alcuni dati essenziali La genetica umana Il nucleo di ogni singola cellula del nostro organismo contiene l’intero codice che regola il tutto-individuale caratteristico della nostra specie. Le informazioni sono contenute in geni, A sua volta il DNA è “impacchettato” nei cromosomi. Ogni nostra cellula somatica contiene 23 paia di cromosomi. Un ulteriore passaggio, nel progresso della genetica contemporanea, avviene con la scoperta della tecnica del DNA ricombinante nel 1973. Attraverso questa procedura diventa possibile tagliare sezioni specifiche del DNA, legarlo ad altre catene e duplicarle. Nasce così la biotecnologia. Il Progetto Genoma Umano (PGU) Il Progetto Genoma Umano inizia nel 1990. La lettura del codice genetico si struttura fondamentalmente in due fasi: la mappatura e il sequenziamento del DNA. Conoscere la sequenza genetica dell’uomo dice ancora molto poco sul reale funzionamento dello sviluppo e della vita organica dell’individuo. Ma il Progetto Genoma è un programma ampio che comprende ricerche etiche, rapporti con la politica e l’economia. Una rivoluzione medica? Le tecniche genetiche ci aprono le porte ad una nuova medicina? Oltre una visione essenzialista Diverse posizioni: • Tra le prime troviamo le espressioni entusiaste di chi vede qui il superamento trionfale del limite estremo dell’uomo: la possibilità di intervenire sul funzionamento proprio del suo vivere, la capacità di creare nuova vita. • Contro costoro si esprimono le posizioni di chi vede in questo progresso un orizzonte terribile. L’uomo sembra aver varcato un confine fondamentale per la conservazione di sé. Ciò che è visto con entusiasmo o con preoccupazione è propriamente questa possibilità di manipolare, conservare l’identità stessa dell’uomo. La persona è racchiusa e determinata, in entrambe le prospettive, dal codice genetico, cuore dell’identità di ogni uomo. Il DNA sembra determinare ciò che siamo e che saremo. Il rischio è la diffusione culturale di una visione essenzialista che riconosca nell’informazione genetica l’identità dell’uomo e della natura. Essa però non riconosce il ruolo svolto dall’ambiente nella costruzione di un’identità personale. La singolarità delle informazioni legate al genoma potrà comprendersi meglio solo se inserita nell’attenzione globale alla dignità della persona e del suo corpo. Una medicina sperimentale L’obiettivo specifico della medicina si intreccia con gli scopi propri della scienza e della tecnica. È evidente il rischio a cui si potrebbe andare incontro qualora la ricerca di nuove conoscenze sovrasti la prioritaria cura per la persona. Oggi si parla di un nuovo modello di medicina, la medicina scientifica o sperimentale, in cui le due espressioni della cura e della ricerca appaiono indistinguibili. Ma più che ad un nuovo elemento, si è di fronte al riemergere in maniera più consapevole di una caratteristica “normale” del medico: quella del ricercatore. L’aspetto di ricerca è perciò insito nello sguardo del medico da sempre. Il carattere sperimentale della ricerca si declina così in due modi: da un lato con il tratto delle scienze esatte e del fare tecnico rivolto alla conoscenza delle dinamiche generali e all’acquisizione di nuove competenze; dall’altro con l’attenzione della cura rivolta al singolo paziente e alla sua condizione. L’espressione di un consenso libero e consapevole da parte del paziente che accetti di sottoporsi a cure anche sperimentali è certo necessario, ma non basta. Bisogna comprendere questo strumento all’interno di una cura reale del rapporto tra medico e paziente, del contesto in cui esso è inserito e, ancor prima, della comprensione dell’esperienza della malattia e della cura. 1. lo splitting → consiste nel provocare e gestire il fenomeno della gemellazione dividendo gruppi di cellule nelle prime fasi dello sviluppo embrionale. Queste danno vita ad individui autonomi ed identici, proprio come gemelli omozigoti. 2. il trasferimento nucleico → si procede prendendo un ovulo femminile e inserendovi all’interno il nucleo di una cellula somatica dell’organismo da clonare. Con questa procedura è nata nel 1996 la celebre pecora Dolly. Il dibattito etico si è concentrato sull’applicazione di queste tecniche all’uomo. È unanime il rifiuto di clonazione per finalità riproduttive, mentre le posizioni si differenziano a riguardo della cosidetta “clonazione terapeutica”. Lo scopo di questa pratica è la produzione di cellule staminali compatibili con l’individuo. Questo materiale, successivamente coltivato in vitro, può sviluppare tessuti e potenzialmente anche organi utili poi ad una terapia o ad un trapianto. Ciò che non deve essere trascurato in una valutazione etica è il fatto che la clonazione terapeutica, come la riproduttiva, sia per finalità sperimentali che di cura, si avvale delle medesime procedure e comporta la produzione di un embrione umano. In conclusione, una valutazione etica attenta delle pratiche sperimentali su questo campo deve riconoscere la necessità morale del rispetto della dignità di tutti gli individui coinvolti. La valutazione negativa dell’impiego di cellule staminali embrionali si basa sull’irriducibilità dell’altro a strumento anche nel caso che i fini che ci guidano siano altissimi. Non si tratta quindi di porre limiti alla ricerca scientifica, ma di orientarla in nome di un carattere etico che è intrinseco all’obiettivo di un reale progresso per l’uomo. L’obiettivo di un reale sviluppo della famiglia umana chiede una considerazione globale dell’uomo in tutte le sue dimensioni che trovano sintesi attorno alla qualità della sua libertà. CAPITOLO QUARTO - UN NUOVO MODO DI MORIRE? L’esperienza del morire oggi La dimensione bio-fisiologica Fino a qualche anno fa il momento della morte era un istante solenne. Oggi la cosa si fa più complessa: l’inaugurazione degli strumenti di rianimazione e la chirurgia dei trapianti ha modificato il momento del morire e l’immagine del cadavere. La morte non è più un attimo, ma un processo. Nuovo criterio di morte → non più basato sull’interruzione di cuore, cervello, polmoni, ma con riferimento al sistema celebrale. Discussione su questo tema: • Da un lato si sono schierati coloro che non ritengono sufficiente la certificazione della morte di un solo organo per definire il morire di un uomo e quindi difendono il criterio tradizionale • Dall’altra coloro che ritengono sufficiente la definitiva perdita della coscienza per definire morto l’individuo come persona. La dimensione psichica A rigore di termini si deve dire che non esiste la morte in sé, esiste invece la persona che muore. Dinamica psichica che accompagna la coscienza di colui/colei che muore: 1. l’impatto iniziale con la consapevolezza di una morte prossima o di una malattia inguaribile provoca una reazione di rifiuto. Il rifiuto è meccanismo di difesa necessario per poter continuare a vivere. 2. Il morente, successivamente, si carica di una forza rabbiosa che scarica indiscriminatamente in tutte le direzioni: contro i familiari, contro il personale medico, contro la società ritenuti in qualche modo responsabili della situazione. 3. Si configura poi una terza fase in cui si cerca un compromesso. Si cerca di negoziare, normalmente con Dio, per ottenere un prolungamento della vita. 4. Il malato vede il disfarsi della propria immagine corporea, l’impossibilità del suo agire. Tutto ciò sfocia in un senso di depressione. Questa «depressione è un modo per preparare all’imminente perdita di tutti gli oggetti del proprio amore, che facilita lo stato di accettazione». 5. Finalmente il morente potrà raggiungere uno stadio di accoglienza del proprio destino. Non si tratta di una fase di gioia, ma di comprensione di un passaggio ormai inevitabile. L’abbandono genera serenità. C’è un tratto in queste 5 fasi che sembra accomunare tutti questi momenti del morire: è la speranza. Ciò che appare necessario è un contesto relazionale fondato su una comunicazione profonda e rispettosa. Una comunicazione sincera, consapevole però che la verità non è solo quella della diagnostica scientifica. La dimensione sociale «Quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo» → Un simile quadro sembra far sintesi di una situazione ampiamente diffusa nella cultura e società occidentale. 2 principali radici del tentativo di allontanamento della morte dalla nostra vita: 1. secolarismo che ha tolto i linguaggi per dire la morte. La morte è un tabù di cui non si può, non si deve e non si sa parlare (es: si nasconde la morte ai bambini) 2. l’edonismo di una società capitalistica. L’ideologia progressista non ammette blocchi ed interruzioni e di fronte all’inevitabilità del morire genera macchine che sopravvivano agli uomini. In questo senso la modernizzazione, con il rifiuto delle forme rituali e l’assunzione di un ideale di benessere, attraverso l’individualismo e la privatizzazione dei sentimenti, ha avuto la necessità di trovare un nuovo ambito in cui porre la morte. Questa dinamica culturale rifluisce sulle strutture e sui legami relazionali e sociali ridefinendoli. Il più grande rischio è essenzialmente la solitudine di degenti in reparti di rianimazione, l’indifferenza delle comunità di fronte alla scomparsa di loro membri, all’assenza delle persone care al momento del trapasso. Idea che il medico e l’équipe a lui legata, in quanto detentori delle conoscenze e possibilità tecnologiche e terapeutiche che si applicano alla condizione del paziente, sappiano anche automaticamente quale sia il bene per il malato moribondo. In opposizione a questo modello paternalista, è andato emergendo in questi ultimi anni, l’affermazione di un principio di autonomia del paziente di fronte alle terapie. Anche questa posizione però è caduta in grandi rischi rileggendo la figura del medico in chiave solo esecutiva. Sembra urgente integrare gli elementi positivi delle due posizioni. Di fronte al morente è auspicabile una medicina capace di farsi carico della morte, capace di accompagnare la persona che muore rispettandone i tempi e le legittime scelte. Si tratta di costruire un rapporto di collaborazione nelle reciproche competenze e autonomie, nella fiducia e nel dialogo capace di fondare una vera e propria alleanza terapeutica. La dimensione teologica L’esperienza del morire pone inevitabilmente la questione del senso: perché esiste la morte? «La morte deve essere entrambe le cose; la fine dell’uomo in quanto persona spirituale è compimento attivo dall’interno ed è allo stesso tempo rottura dall’esterno. Il carattere di passività si esprime nel legame tra la morte e il peccato. La forma originale del peccato è la pretesa dell’uomo di realizzarsi da sé rompendo il vincolo di dipendenza da Dio. La morte è la concretizzazione estrema della sua scelta. Di contro si riconosce come solo l’attimo del morire permetta una piena presenza dell’uomo a sé stesso. Solo il morire raccoglie in un attimo il tutto della persona e le consente di orientarlo in modo pieno e totale. La morte compie la libertà perché nel momento in cui essa si decide verso questo evento non può più porsi e diventa così indisponibile a sé. La morte è realizzazione piena dell’opzione definitiva della libertà. La sintesi dell’agire Le dimensioni descritte corrispondono ai caratteri propri dell’agire dell’uomo chiamato a decidere di sé, con gli altri, verso Dio. Gli elementi emersi consegnano alcuni criteri per la custodia e la valutazione della qualità di questa libertà: essa è chiamata a non accettare forme riduttive che interpretino tutto il discorso sulla morte, in difesa della vita o in difesa della libertà di autodeterminazione, sul piano bio-fisiologico. Il morire coinvolge tutta la persona. Questo perché la morte è comunque momento del vivere. È quindi necessario preservare questo momento da ogni tipo di invasione indebita, garantendone la massima corrispondenza possibile alla grandezza del momento. Interpretazioni inautentiche del morire: eutanasia ed esubero terapeutico Chiarificazione dei termini in gioco: eutanasia In antichità la parola “eutanasia” esprimeva quanto è racchiuso nella sua etimologia: essa significava “morte bella” e indicava la ricerca di tutte le condizioni affinchè il soggetto potesse vivere una morte degna del suo stato di uomo e cittadino. Con l’epoca moderna il termine si è piegato al riferimento ad un atto che procura o accelera la morte al fine di alleviare le sofferenze. Oggi, con eutanasia intendiamo la scelta che procuri la morte in una persona per compassione verso la sua condizione di sofferente o di malato in stato ritenuto disumano. Abbandonare la distinzione tra eutanasia attiva o passiva: la prima sarebbe intesa come l’agire di chi attivamente pone in essere un insieme di strategie che procurino la morte, PARTE TERZA - SESSUALITÀ E MATRIMONIO CAPITOLO PRIMO - GLI ENIGMI DELL’AMORE Tra teologia morale, diritto e teologia sistematica Gli argomenti relativi alla sessualità e al matrimonio erano affrontati comunemente tra i capitoli della morale e del diritto canonico. Concentrazione di tutta la riflessione morale sul problema della delimitazione del lecito e dell’illecito. Mancava nella teologia dei manuali, una trattazione generale dell’argomento sessualità, o dell’argomento matrimonio. La rappresentazione fondamentale della sessualità, nella teoria tradizionale, è quella di facultas generativa. Alla radice di tale rappresentazione c’è per un lato l’identificazione tra sesso e organi genitali. L’aspetto funzionale del sesso costituisce l’aspetto “obiettivo”. Il sesso inteso come funzione procreativa è infatti insieme considerato come funzione al servizio della specie, e non dell’individuo. La dimensione “umana”, “personale” del sesso era denominata come appetitus e delectatio; desiderabile per i sensi. La morale sessuale che ne consegue tutta può riassumersi nell’imperativo di contenere l’inclinazione sessuale nei confini della ragione. Il peccato in questa materia ha il nome tecnico di luxuria: la virtù invece quello di castitas o pudicitia. L’istituto del matrimonio assumeva il compito di contenere e indirizzare la funzione procreativa dentro un ambito accettabile dal punto di vista morale, riconoscibile dalla società, formativo per la crescita della prole. In ordine a questi obiettivi, gli sposi stipulavano un “contratto”, espresso nella forma del “consenso”, che permetteva lo scambio di quegli atti che erano moralmente leciti. La dimensione affettiva del legame di coppia non era considerata l’oggetto proprio della riflessione morale. Il matrimonio è descritto in termini “amicali” e quasi asessuati. Una scelta metodologica: ascoltare il contesto Tra le principali scelte metodologiche che hanno segnato la svolta conciliare nel considerare la riflessione cristiana sui dati della fede registriamo l’invito a guardare con attenzione empatica i differenti contesti in cui vivono le creature umane. Il modo migliore per comprendere il discorso del rapporto uomo-donna nella famiglia è elencare le caratteristiche della famiglia di oggi, quali sono le esigenze, i bisogni che il rapporto di coppia deve affrontare per mandare avanti una famiglia e quali sono le difficoltà che il rapporto di coppia comporta. La riflessione sistematica è chiamata ad avvicinarsi alla realtà (in questo caso quella della sessualità e della coppia). Gli odierni enigmi della sessualità e della vita di coppia Dimensione sessuale: dopo la cosiddetta “rivoluzione sessuale” avvenuta in occidente tra la metà degli anni ’60 e gli anni ’70, ciò che per tanto tempo era stato taciuto, viene detto e “parla” in ogni angolo della nostra società; ciò che la morale cattolica era riuscita a contenere ed ordinare, viene ora espresso e vissuto senza regole stringenti. La nostra cultura sembra allergica alle relazioni, sentite e sopportate come “legami”, “vincoli”. Alcuni trend che possiamo ritrovare in una fenomenologia della relazione di coppia oggi nella cultura occidentale (italiana in particolare): • Non possiamo non dare un posto di rilievo alla considerazione della dimensione sessuale delle relazioni, affettive e non: almeno a livello di immaginario collettivo, ogni “contatto” tra le persone ha una forte connotazione sessuale. Per secoli la Chiesa è stata recepita come istituzione portatrice di una visione riduttiva della sessualità, presentata e riletta quasi esclusivamente in termini funzionali (in vista della riproduzione) e morali (per disciplinare gli istinti). • L’istituto del matrimonio (civile e religioso) era il binario su cui vivere rettamente la funzione sessuale, in una forma socialmente accettata; questo oggi non accade più. • Anche se non sorge in vista di un’unione matrimoniale, l’inizio di una seria relazione amorosa è frutto di una decisione “libera” dei due soggetti. Sono sentiti molto meno vincolanti i motivi socio-economici (famiglie d’origine, classe sociale) che spingevano verso la costituzione di una nuova famiglia. • Ne consegue che anche il permanere in una “storia” affettiva e la sua evoluzione verso figure di tipo matrimoniale sono meno dipendenti dalle regole sociali e lasciate quasi esclusivamente al “sentire” dei due, i quali tendono a desiderare dal partner sempre il top • Si è invertita la direzione del rapporto tra individuo e società: fino a cinquant’anni fa il singolo sentiva di trarre il suo “valore” e la sua stabilità dall’appartenenza ad un gruppo sociale; oggi è l’individuo che assegna valore a ciò che lo circonda, e lo fa “preferendo” questo a quest’altro, ora questo, ora l’altro. Le attese sul partner: la sfida della diversità 2 tra le più evidenti caratteristiche della stagione dell’amore di coppia che stiamo attraversando: i due decidono l’avvio e la permanenza nella relazione in maniera molto più autonoma, e lo fanno in quanto riconoscono un legame affettivo significativo che li lega. Un arco di tempo ben più lungo è abitualmente richiesto dal processo della decisione di cominciare ed eventualmente sposarsi. Questo dato non basta per dire che la scelta sia più ponderata: altri fattori entrano in gioco a rendere complessa la fase della scelta del partner e delle modalità della relazione. Decisione di giungere al matrimonio → oltre ad essere non più scontata, essa viene caricata di molteplici attese: il problema che le coppie oggi hanno di fronte è che non basta essersi riconosciuti, essersi amati, aver deciso insieme a un certo punto di sposarsi…occorre anche che questo consenso venga continuamente confermato per tutto il tempo in cui il matrimonio dura. Questo significa che l’uomo e la donna, quando decidono di sposarsi, hanno delle aspettative, l’uno nei confronti dell’altra, non solo elevate, ma che dovrebbero trovare una continua verifica positiva perché possa continuare il legame che hanno deciso inizialmente. Questo significa una maggiore consapevolezza della “qualità” che dovrebbe caratterizzare una vita in due; d’altro canto, per essere conservata a questo “livello” richiede un impegno non indifferente per i soggetti coinvolti. Infatti, nel momento in cui vengono meno le conferme proprie o del partner alle attese, ecco che la coppia individua presto una via d’uscita legale che la liberi dagli aspetti difficili del legame: si chiede la separazione, avviando l’iter verso il divorzio. Divorzio → La possibilità di interrompere il legame può comportare un minore spirito di sacrificio, meno voglia di spendere in faticosi mutamenti delle situazioni negative. Possono dare l’impressione di costituire una chance in più, una tappa obbligata della vita. La relazione matrimoniale non può essere “per abitudine”, bensì deve essere decisa, fatta oggetto di riflessione. Tra “sé” e “noi”: il nodo dell’identità Se il legame affettivo può essere messo in discussione con facilità è perché esso viene vissuto come un “giogo” nel senso negativo di ciò che appesantisce, impedisce la realizzazione personale. La vita di coppia può quindi essere intesa sostanzialmente come “concorrenziale” alla vita del singolo: quest’ultimo si darebbe prima e a prescindere dalla vita di relazione, e si “concederebbe” al legame affettivo solo per il tempo strettamente necessario e a condizione che essa non sia “pietra di inciampo” della realizzazione personale; al contrario, tanto più i legami si fanno esigenti e “stretti”, tanto più finiscono spesso per essere avvertiti come “vincoli”, non come risorsa. A questo proposito, sono interessanti le categorie di “relazione pura” e di “amore convergente”, due modi per provare ad agguantare lo stile contemporaneo di intendere i rapporti di coppia: si starebbe insieme solo per quello spazio-tempo in cui “convergono” gli “interessi” di vario tipo dei soggetti coinvolti. • Una relazione pura si mantiene stabile fin tanto che entrambe le parti ritengono di trarne sufficienti benefici come per giustificarne la continuità. L’amore si sta spostando verso questa forma di relazione. • L’amore convergente è amore attivo. La società “separante e divorziante” di oggi diventa la conseguenza piuttosto che la causa della nascita dell’amore convergente. L’amore convergente presuppone la parità nei conti del dare e dell’avere affettivo. Perché una coppia possa costituire una realtà solida e duratura, deve essere formata da due individui nettamente differenziati e individuati sia nei confronti delle famiglie di origine, sia tra i membri della coppia stessa. Questa realtà è sempre più difficile che si realizzi nella nostra società. La “rinegoziazione” dei ruoli: la fatica della quotidianità Nel contesto della “privatezza” del legame, i coniugi si trovano soli e spesso solitari nel prendere sia le decisioni fondamentali che quelle quotidiane della loro vita personale e di coppia. I mutamenti introdotti nei ruoli socialmente riconosciuti all’essere maschio o femmina (i gender), comportano una serie di modifiche nella gestione degli ambiti vitali: l’organizzazione del lavoro e le esigenze economiche, il tempo libero e la qualità delle amicizie, la cura della casa… Chi deve fare cosa? A chi tocca quella parte? Proprio sulle minute esigenze della realtà quotidiana nascono frequenti motivi di conflitto. Ora che i ruoli sono intercambiabili e non ci sono più nette divisioni dei compiti fra uomo e donna, fra moglie e marito, ogni giorno si devono rinegoziare semplici incombenze. Le vicende dell’amore si scontrano con la fatica della quotidianità… e su questa spesso cedono. La “fragilità” matrimoniale: la gradualità della storia Le vicende plurali e molteplici dell’amore di coppia inducono le nuove generazioni a preferire modelli di relazione affettiva meno vincolanti rispetto a quello matrimoniale. Principali trasformazioni strutturali che la famiglia italiana ha vissuto e sta ancora vivendo: 1. Diminuisce drasticamente la dimensione numerica dei nuclei di convivenza unicità ha bisogno dell’intensità dell’attrazione fisica per rivelarsi. L’amore va quindi considerato nella linea della rivelazione del vero valore della persona umana. La dimensione comunionale dell’“una caro” Nel momento in cui l’essere umano riconosce di essere “due”, afferma di essere nell’unità di due corpi, due storie. Le proprietà dell’amore sono tali che l’amata e l’amante non costituiscono più due esseri, ma uno solo...; i due non si trovano solo uniti, ma sono uno. «Una sola carne», dunque, è anzitutto quella della comunione delle condizioni di vita, della storia: tutto questo dovrebbe essere raccolto, significato e attuato dalla gestualità dell’amplesso sessuale, che ha come sua caratteristica di unire i corpi e di essere aperta al dono del passaggio di questa vita alla prole. La sessualità è dunque di per sé contrassegnata da un orientamento verso l’alto. Dio è Amore in quanto è comunione di persone che si realizzano nella reciprocità del dono. La relazione interpersonale è dunque la dimensione più profonda del mistero di Dio. La “fecondità” della comunione si conserva a patto che i due restino “due”: differenti, desiderosi l’uno dell’altra, portati e portatori di amore. Il “mistero” del e nel matrimonio Essere «sottomessi gli uni agli altri» è dunque una declinazione del “camminare nell’amore”, legge fondamentale dei rapporti interpersonali all’interno della comunità, senza differenza di condizione, di età e di sesso. L’“essere sottomessi” vale dunque indipendentemente da ogni altra determinazione personale e non indica solo il comportamento della donna verso l’uomo: quando si è reciprocamente sottomessi gli uni agli altri, non può esservi un “superiore” e un “inferiore” nel senso di una supremazia. Al posto di un rigido principio gerarchico subentra un ben più rilevante motivo: «nel timore di Cristo». L’unione tra Cristo e la Chiesa trova la sua massima espressione nell’evento della Pasqua, in cui lo Sposo si prende cura della propria Sposa col gesto supremo del dare la vita per lei. L’invito fatto agli uomini ad entrare in questa relazione è sempre mediato dalla figura del Figlio: si gode della comunione trinitaria a partire dalla modalità concreta rivelata da Gesù. La rivelazione da parte di Cristo dell’amore del Padre e della sua comunione con lui chiama l’umanità a farsi “figlia” nello Spirito Santo. La Chiesa tutta è “sacramento” dell’incontro tra Dio e gli uomini. La coniugalità umana trova nell’amore intratrinitario la sua origine, il suo modello, il suo compimento. Il sacramento delle origini Giovanni Paolo II → Il matrimonio come sacramento primordiale costituisce, da una parte, la figura secondo cui viene costruita la fondamentale struttura portante della nuova economia della salvezza e dell’ordine sacramentale. In tal modo il matrimonio, come sacramento primordiale, viene assunto ed inserito nella struttura integrale della nuova economia sacramentale. Tutti i sacramenti della Nuova Alleanza trovano in un certo senso nel matrimonio quale sacramento primordiale il loro prototipo. Il desiderio di Dio-Trinità è precisamente quello di edificare comunione, come è nella sua natura: «Dio è amore». Dio si disporrà verso il suo popolo con la stessa intensità di uno sposo appassionato, fedele, disposto al perdono, capace di pagare di persona per il bene dell’amata. Tutti i beni di cui gode l’intera umanità, ed in particolare la comunità cristiana, possono essere interpretati come doni d’amore dello Sposo per la sua Sposa. La Chiesa Sposa risulta essere non solo “beneficiaria” di tali doni, ma rispondente alla proposta d’amore del Cristo-Sposo. Il matrimonio non è solo paragonabile al vincolo tra Cristo e la Chiesa, bensì contribuisce per se stesso a far sì che la Chiesa nella sua concretezza appaia come sposa di Cristo. Crediamo sia questo il senso da assegnare alle espressioni di Giovanni Paolo II, quando definisce il matrimonio «sacramento primordiale» – sorge con le origini stesse della creazione – e «prototipo» – come tutti i sacramenti, è un dono dell’amore “coniugale” di Cristo che suscita e richiede l’adesione integrale della sua Chiesa. La qualità sacramentale dell’amore coniugale Quando due esseri si amano veramente, Dio è presente tra loro e il loro amore è santo. Certamente Dio già li univa fin dal loro primo incontro, quando essi imparavano a conoscersi, ma nel giorno del loro matrimonio li unisce ancora di più. Essi devono solo dire: “sì, lo voglio!”, cioè: voglio lasciare che si compia l’opera di Dio in questo segno sacro del nostro impegno reciproco». Il matrimonio-sacramento è una manifestazione cultuale, manifesta l’autopartecipazione di Dio all’uomo attraverso la grazia. Manifesta l’essenza della Chiesa la quale è, in Cristo, il sacramento fondamentale, manifesta anche l’atto libero in cui questa partecipazione viene accettata. A tutti i discepoli di Cristo viene “comandato” di imitare Dio, camminando nell’amore; vengono indicati lo stile e la fonte: “come Cristo” ama e dà la vita. CAPITOLO TERZO - LE CARATTERISTICHE DELL’AMORE Il nome proprio dell’amore: “come Cristo amò la Chiesa” Sono dunque le dimensioni dell’amore di Cristo ad essere il “criterio” di ogni altra forma d’amore: per sapere cosa è l’amore, dobbiamo guardare a Lui. Dimensioni dell’amore coniugale: 1. È amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale. Non è quindi semplice trasporto di istinto e di sentimento, ma anche e principalmente è atto della volontà libera, destinato non solo a mantenersi, ma anche ad accrescersi mediante le gioie e i dolori della vita quotidiana. 2. È amore totale, vale a dire una forma in cui gli sposi condividono ogni. Chi ama davvero il proprio consorte, non lo ama soltanto per quanto riceve da lui, ma per se stesso. 3. È amore fedele ed esclusivo fino alla morte. Così infatti lo concepiscono lo sposo e la sposa nel giorno in cui assumono l’impegno del vincolo matrimoniale. 4. È amore fecondo, che non si esaurisce tutto nella comunione dei coniugi, ma è destinato a continuarsi, suscitando nuove vite. Le caratteristiche dell’amore di Cristo Il matrimonio cristiano è il luogo ove l’amore di Cristo si trasmette tra i coniugi e da costoro viene trasmesso ai figli. 4 tratti essenziali dell’amore di Cristo: 1. È totale: Cristo ha amato con tutto se stesso. 2. È fedele: Cristo ha vissuto fedelmente l’amore per i suoi 3. È indissolubile: Cristo ha amato i suoi sino alla fine della sua vita terrena 4. È fecondo: Cristo ha dato la sua intera vita affinché i suoi avessero la vita e l’avessero in abbondanza. Il racconto vivente dell’amore “sino alla fine” di Gesù è indelebilmente impresso nel memoriale dell’Eucaristia. La celebrazione dell’Eucaristia insegna che il dono della vita non comincia quando la si offre, ma quando la si riceve. Ne deriva che l’amore cristiano può essere vissuto e donato nella misura in cui è ricevuto da Cristo. La qualità cristiana della relazione amorosa, anche di coppia, dipende essenzialmente dall’essere innestata in Cristo e alimentata dalla linfa del suo Spirito d’amore. Sacramento dell’amore totale La caratteristica della “totalità” cui aspira l’amore può essere descritta come “entrare nell’altro”, nella sua vita a tal punto da formare con la persona amata “una sola carne”, “una caro” senza cadere nel rischio di una fusione tale da smarrire l’identità di ciascuno dei due. Dal punto di vista fisico, si può esprimere con l’unione sessuale. In ciascuna di tali unioni si rinnova, in certo modo, il mistero della creazione in tutta la sua originaria profondità e forza vitale». L’una caro a cui aspira l’amore può essere descritta e sospinta verso differenti “gradazioni”: 1. unione dei corpi, a sua volta precisata in: • anatomica: l’accostamento delle membra e la penetrazione reciproca • biologica: mentre la prima potrebbe darsi anche senza la volontà piena di chi compie l’atto (si pensi alla violenza o alla prostituzione), qui intendiamo precisare che alla “materialità” dei corpi sia connessa la volontà, la “vita” (bios) dei partner • sessuale: è quando entrambi dispongono la propria intimità verso l’altro, riconoscendosi e offrendosi precisamente come uomo e come donna, con le caratteristiche della sessualità umana 2. unione degli animi, intendendo considerare le dimensioni “invisibili” delle persone: • emotive • psicologiche: è il livello del radicamento personale delle emozioni • affettive 3. unione delle persone: • integrale, cioè riguardante ogni dimensione dei due individui • originale, con tratti propri e inconfondibili perché composta da due identità che scelgono di unirsi in un modo specifico e unico • durevole, coinvolgente le persone nel loro essere futuro 4. unione nel generare la vita: • anzitutto la coppia è il nuovo “figlio” dell’amore della coppia • responsabile, nella decisione comune di aprirsi all’accoglienza di una nuova creatura • aperta alle differenti modalità in cui la fecondità può esprimersi 5. unione nella vocazione: la coppia prende coscienza che la totalità a cui aspira è la risposta comune ad essere insieme sacramento di quell’amore che Cristo ha vissuto e vive per la sua Sposa, la Chiesa 6. unione nel futuro: totalità che coinvolga totalmente la vita di entrambi 7. unione nell’eternità: la mistica dell’amore coniugale intravvede la gioia del ritrovarsi e dell’amarsi anche nella vita del cielo. Il desiderio di comunione integrale implica che ciascuno dei due orienti se stesso all’unione con l’altro/a: La “totalità” dell’amore coniugale è espressa dalle parole del reciproco consenso degli sposi: “Io, accolgo te, come mio sposo/a…”. Nel riceversi e nel donarsi come sposi è già implicita l’aspirazione e l’esigenza della “fedeltà”. Gli sposi esplicitano questa dimensione del loro amore quando, dopo aver scelto di essere sposi, continuano promettendosi reciprocamente fedeltà: “… e prometto di esserti fedele…”. La promessa di essere fedele viene poi subito precisata con il “sempre”: “… e prometto di esserti fedele sempre”, cosicché si delinea l’”indissolubilità” dell’amore matrimoniale. La qualità indissolubile del matrimonio viene specificata per ogni tempo dell’amore: “…nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia…” e per tutta la durata della vita: “…e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Nel riceversi e nel donarsi all’altro come sposo è già inscritta anche la “fecondità” dell’amore nell’emblematica forma della generazione dei figli. Il rito del matrimonio lo esplicita immediatamente prima del consenso, quando agli sposi viene domandato se sono disposti ad “accogliere con amore i figli che Dio vorrà” donare loro. Nel tempo che precede il rito sacramentale la grazia opera già sui futuri sposi; così pure, nel tempo che segue il giorno del matrimonio, la grazia non smette di attirarli nella verità tutta intera dell’amore cristiano. La vita famigliare è dunque “tempo di grazia”, “spazio di salvezza”, nel quale in coppia ci si dirige verso la meta, cioé la qualità sponsale dell’amore di Cristo verso la Chiesa sua Sposa. La vicenda amorosa di un uomo e di una donna viene significativamente descritta con tre verbi al futuro. Sembra di poter cogliere qui l’allusione a ciò che la storia vissuta di innumerevoli coppie insegna, al fatto cioè che la comunione amorosa è tutt’altro che immediata, sta piuttosto davanti ai due come una promessa futura. È quindi giunto il momento di descrivere i “sentieri” lungo i quali tutti i soggetti coinvolti accompagnano lo sviluppo di questo dono: l’aurora, la maturazione e la perseveranza nell’amore di Cristo da parte delle coppie che si amano. CAPITOLO QUARTO - I SENTIERI DELL’AMORE Sentieri che si aprono Quando e dove “comincia” la “via dell’amore”? Potremmo dire dal grembo materno, cioè da quando la nuova creatura percepisce che il suo stesso esistere trae origine da un “gesto” d’amore tra un uomo e una donna, posto all’interno di una storia d’amore. L’educazione dei cuori L’educazione di cuori → oggi è da rilanciare in particolare la costruzione di solide identità personali, capaci di entrare in una sana relazione con la “diversità” di cui il partner è portatore; sarà da interiorizzare il significato del tempo. 3 fasi della preparazione al matrimonio: 1. una preparazione remota 2. una prossima 3. una immediata In un processo graduale e continuo che va dall’infanzia alla vigilia delle nozze. La formazione resta una scelta morale del soggetto, che si dispone attivamente a lasciarsi plasmare. La cura dei fidanzati l’uno per l’altra Il compito di prendersi cura reciprocamente l’uno dell’altra diventa un dovere morale della coppia, nuovo soggetto dell’agire. Pilastri basilari di un itinerario che gli innamorati possono costruire e verificare: • anzitutto i fidanzati stessi prendano coscienza e decidano di dare vita e di applicarsi in un cammino che tende al sacramento • la coppia abbia un interlocutore spirituale, che la aiuti a rileggere la sua vicenda • le famiglie d’origine e quelle degli amici siano ambiti ascoltati per un discernimento sulla qualità di un amore di coppia che non si chiude, ma anzi è “verificato” dalla sua capacità di distendersi sui più “prossimi” • tra gli obiettivi ci sia la franchezza di rivelarsi l’uno all’altra in modo sempre più completo, col sano desiderio di crescere nella conoscenza amorevole di sé e dell’altro/a • si lavori insieme per il sostegno di ciò che edifica ciascuno dei due e quindi entrambi • i fidanzati dedichino un’apposita cura alla preparazione di una significativa vita sessuale • formazione all’arte del perdono reciproco La cura ecclesiale per i fidanzati La comunità cristiana qualifica la formazione che ogni coppia assume come proprio compito morale. Il fidanzamento si presenta come un tempo di grazia che trae forza dal battesimo e dalla stessa vocazione coniugale che attende di essere concretizzata. È un tempo di formazione caratterizzato da una propria spiritualità. Le scelte teologiche e pastorali della Chiesa italiana qualificanti per la formazione dei fidanzati sono state così precisate: • predisporre percorsi articolati • intendere e proporre i corsi in preparazione al matrimonio cristiano come vere occasioni per rinnovare la scelta di fede dei nubendi • affidare precise responsabilità educative a coppie coniugate mature, in nome della grazia sacramentale da esse ricevuta • preparare gli sposi alla famiglia e non solo alla vita di coppia, e a riconoscersi soggetti sociali, titolari di diritti e di doveri nella società e nella Chiesa. Sentieri quotidiani Giunti alla celebrazione nuziale si dà avvio alla vita coniugale. Unirsi nel matrimonio sacramentale significa coinvolgere Dio nella propria vita, volere che l’amore che Lui ha vissuto diventi lo stile della propria vita di coppia. Celebrare il sacramento del matrimonio significa ricevere la possibilità di amare il proprio uomo, la propria donna, i figli, con lo stesso stile con cui Gesù amò i suoi. Il sacramento intreccia l’amore della coppia con l’amore di Cristo. Più decisivo è che la coppia cristiana coltivi la grazia del sacramento del matrimonio con una vita cristiana che consideri l’ascolto della Parola, la pratica dei sacramenti, la partecipazione alla vita di carità della comunità cristiana. La spiritualità coniugale Spiritualità → è la vita secondo lo Spirito del Signore, cioè vita nell’amore, resa possibile dalla grazia dei sacramenti. La guida e norma della famiglia è lo Spirito di Gesù, diffuso nei cuori con la celebrazione del sacramento del matrimonio: il loro amore è frutto dello Spirito. La famiglia cristiana viene così animata e guidata con la legge nuova dello Spirito ed in intima comunione con la Chiesa. Gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità sono onesti e degni; compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi». Amandosi l’un l’altro, gli sposi amano Dio. L’etica matrimoniale L’etica matrimoniale si pone al servizio di una risposta completa all’attrazione dello Spirito: le esigenze che rendono autentico l’amore coniugale che desidera essere sacramento non sono altro rispetto alle leggi della morale matrimoniale. Totalità, fedeltà, indissolubilità, fecondità sono le caratteristiche che le regole morali intendono salvaguardare e favorire. Tali regole accordano le azioni e i comportamenti affinché siano in sintonia con l’intenzione della coppia di essere una cosa sola. In particolare esse riguardano l’intimità sessuale, in quanto espressione propria e distintiva dell’amore matrimoniale. Donarsi e accogliersi totalmente Essere sacramento dell’amore totale di Cristo implica che ciascuno dei due orienti se stesso all’unione con l’altro/a. Affinché ciò possa avvenire è necessario che l’io sia messo nelle condizioni di assumere le dimensioni di cui è costituito (corpo, mente, cuore) e di rivolgerle al tu. • Entro l’esperienza specificamente amorosa il corpo fa riferimento alla gestualità erotica e alla capacità procreativa • la mente riguarda la dimensione psichica dei pensieri e dei sentimenti • il cuore indica la dimensione spirituale della scelta libera, cioè consapevole e volontaria. Affinché l’io si dia integralmente al tu è necessario che tutte queste dimensioni vengano coinvolte e destinate all’unione con l’altro. • A livello del corpo si tratterà di educare le proprie pulsioni erotiche e di conoscere la propria fertilità • a livello della mente si tratterà di imparare a vivere i propri pensieri e sentimenti senza fuggire dalla realtà • a livello del cuore, si tratterà di non lasciarsi tiranneggiare dalle voglie irrobustendo la propria capacità di scegliere con decisione e con costanza. Allo stesso modo, ciascuno dei due deve accogliere l’altro, in tutte le sue dimensioni. Occorre vigilare perché anche il voler perdersi nell’altro/a, invece che favorire la comunione (che esige la differenza delle persone e salvaguarda l’identità personale di ciascuno) può generare confusione tra le individualità: non si potrà ridurre l’amato/a al suo solo corpo né imporgli convinzioni, scelte. Percorsi ulteriori La valutazione critica dell’ipotesi circa l’eventualità di nuove nozze a seguito della fine di un precedente matrimonio non può prescindere dalla domanda circa il grado del loro riconoscimento ecclesiale. Nell’eventuale determinazione, non si potrà misconoscere la differenza tra la seconda unione e il primo matrimonio. Secondo la dottrina ortodossa, il matrimonio è indissolubile e contratto a vita in conformità con le parole del Signore. L’indissolubilità per l’ortodossia è stata interpretata come indissolubilità morale (il matrimonio ‘non deve’ essere sciolto) e non come indissolubilità ontologica (il matrimonio ‘non può’ ontologicamente essere sciolto da nessun potere umano). Il divorzio è dunque ammesso, ma come un’eccezione a questo principio o a questa regola generale, eccezione ammessa in quanto concessione alla debolezza del peccato dell’uomo inerenti al nostro stato imperfetto. Anche per la Chiesa ortodossa allora il matrimonio è unico ed è sacramento, ma se fallisce, la Chiesa si pone il problema della salute spirituale degli sposi e delle loro anime affinché non si perdano. La Chiesa non scioglie il vincolo del matrimonio, ma prende atto di un male operato contro Dio e contro la Chiesa dai coniugi divorziati e decide l’atteggiamento da usarsi per chi torna pentito. Negare la pienezza del valore sacramentale delle seconde nozze non vuol dire che esse non abbiano alcun valore sacramentale. Le seconde nozze infatti partecipano in certa misura della pienezza del valore sacramentale. PARTE QUARTA - PERSONA E SOCIETÀ CAPITOLO PRIMO - UN’ETICA SOCIALE CRISTIANA Tre domande per cominciare Obiettivo di questa parte del testo è di indagare il fondamento, ovvero la fondatezza di un’etica sociale cristiana. In altre parole, si tratta di individuare gli elementi di base, sempre necessari per interpretare un fenomeno sociale di qualsiasi tipo. 3 elementi basilari della questione: 1. l’elemento «sociale», in quanto oggetto specifico di questo approccio etico: Che cos’è società, oggi? Quali sono le sue caratteristiche peculiari? 2. l’«eticità» del sociale: in che senso la vita sociale è frutto di decisioni libere, quindi responsabili, assoggettabili a un giudizio etico? In che senso la società è luogo per esercitare la libertà? 3. la «cristianità» del sociale: in che senso la fede cristiana ha a che fare con la società? In che modo la verità del Vangelo può avere impatto sulla vita sociale del nostro tempo? Sguardo all’attuale fenomeno sociale Quale società? La società si presenta oggi all’insegna della «complessità», ovvero come una realtà in cui è necessario “tenere insieme” le differenti tensioni presenti al suo interno. Il tratto sintetico caratteristico del nostro tempo è la «globalizzazione», con i relativi pregi (l’incrementarsi delle possibilità comunicative a raggio mondiale) e difetti (rischi accentuati di omologazione, di appiattimento delle differenze). Quale libertà entro la società? Fino a che punto siamo liberi (e responsabili) nella vita sociale? Come sono percepite e vissute le responsabilità a livello sociale? È necessario a questo punto esaminare le differenti forme della relazione sociale rilevanti dal punto di vista etico. La tensione fondamentale oggi sussistente sembra essere quella tra individuo e società. Alcuni sintomi di questo orientamento possono essere rintracciati nello scarto tra il cittadino e la società. In realtà, la persona è sempre un «essere-in- relazione»: riceve vita da altri, è educata, cresciuta da altri. Esiste allora l’io isolato, che non dipende da nessuno? A fronte di tale approccio individualista, particolarmente apprezzate sono oggi le relazioni comunitarie o “primarie”, in cui prevalgono i tratti del pieno riconoscimento dell’altro, dell’attivo coinvolgimento dei membri di una famiglia o di un gruppo. Queste modalità relazionali sono da ritenersi certo un livello essenziale, ma da integrare alla luce degli altri aspetti della relazionalità. Giunti a questo punto occorre domandarsi quale ruolo rivestono oggi le istituzioni sociali, o meglio l’agire (personale, comunitario) mediato dalle grandi istituzioni sociali. L’istituzione merita di essere riconosciuta come “prodotto” dell’accumularsi della libertà di molti e che predispone, orienta tutte le scelte che ad essa si riferiranno. Istituzioni familiari, educative, economiche, politiche… → Tali realtà rendono più strutturata e agevole la vita sociale. Consentono alla società di tramandare se stessa, la propria cultura estendendola nel tempo e nello spazio: le istituzioni vanno ben oltre il tempo e il luogo in cui sono state costituite. Tuttavia esse condizionano e predeterminano sempre lo stesso vissuto sociale. L’istituzione è realtà anch’essa viva: essa proviene dalla libertà congiunta dei molti che nel tempo hanno dato vita ad essa, e rivive di continuo in forza delle persone che la animano. L’aspetto istituzionale dei rapporti sociali dice d’altra parte che è possibile raggiungere, amare… non soltanto il vicino, ma anche colui che non conosceremo mai in modo immediato, e tramite le istituzioni ci sarà possibile considerare non semplicemente un volto anonimo, ma un “altro” che può essere riconosciuto nella sua singolarità. Quale verità per la società? «Quale verità» sia possibile per una società multireligiosa, multietnica e multiculturale? Ha senso ricercare una verità della vita sociale? La fede cristiana ha ancora qualcosa da dire alla società di oggi? Quali compiti per la verità cristiana: imporsi, estraniarsi, proporsi…? Le tre dimensioni della vita sociale Considerazione intrinsecamente relazionale della libertà dell’uomo, che si rende afferrabile in queste tre dimensioni: 1. personale 2. comunitaria 3. istituzionale. Ciò significa che ogni problema sociale, se vuole essere adeguatamente rivisitato, necessita di essere indagato almeno sotto questi tre profili. Un’etica sociale dovrà strutturarsi secondo queste dimensioni. Possiamo cogliere anche nella società tratti di “soggettività” che ne dicono la singolarità specifica; aspetti “comunitari”, organici nel concorrere delle varie membra del “corpo sociale” al buon andamento del tutto come pure nel ricevere da esso; e la necessità di una “struttura portante”, in grado di conferirle solidità e forma stabile. Prendersi cura della società è un modo di prendersi cura dell’altro nel senso più ampio possibile, anche di colui che non conosciamo. Edificare la società è servire fin d’ora l’umanità del futuro, coincide cioè col prendersi cura degli uomini e della loro storia. Un metodo per l’etica sociale Principali tappe di un metodo, di un percorso che abiliti al riconoscimento, entro ogni fenomeno sociale, dei tratti essenziali finalizzati a una sua interpretazione in senso etico. Le tre tappe sono rappresentabili secondo lo schema seguente: 1. Al primo posto è il fenomeno sociale letto a partire dall’uomo: la società è infatti essenzialmente fenomeno antropologico, che accomuna la vicenda di tutti 2. al secondo posto si trova la Bibbia, in quanto attestazione rivelatrice di Dio all’uomo e dell’uomo a se stesso • dichiara che occorre rendere a Dio e a Cesare. A proposito del rendere a Dio e a Cesare vi sono due letture errate della questione: 1. o a Dio o a Cesare: la contrapposizione tra fede e società o fede e politica, o anche separazione tra esse, così che si debba rendere un po’ all’Uno e un po’ all’altro, secondo le circostanze 2. a entrambi senza distinguerli: sovrapponendo i due Regni, fino a confonderli La lettura più corretta del duplice rendere, a Dio e a Cesare, insegnato da Gesù prevede la composizione nella distinzione. Il Regno di Dio ha attese ben più profonde, ultime, qualitativamente e infinitamente superiori rispetto al regno di Cesare, che non salva, ma può e deve realizzare una serie di beni per la società. Il Regno di Dio quindi non si sostituisce al regno di Cesare. In questa logica si colloca il tema della laicità della politica, intesa come corretta relazione della politica a ciò che la supera: la verità, il senso ultimo della vita sociale. La sfera sociale dispone quindi di una autonomia relativa, o relazionale; il suo compito irrinunciabile e insostituibile è di porsi al servizio di ciò che la precede e la supera. L’etica fa riferimento alla verità, che non può essere il risultato di un approccio politico o di un voto. La verità va cercata prima e oltre le risorse della politica. Il cristiano non potrà mai fare della sua fede una scusante per sottrarsi all’impegno sociale e politico, perché è volontà di Dio che egli si faccia carico anche di rendere a Cesare. Anche il regno di Cesare ha un posto, infatti, nel piano di Dio. Prospettiva ultima è allora che il cristiano veda i due regni non contrapposti, ma l’uno finalizzato all’altro. Paolo e gli altri scritti del NT I principali atteggiamenti della Chiesa apostolica in riferimento alla società sono: 1. la lealtà nei riguardi dell’autorità che implica una sostanziale fedeltà. Per essere autentica, deve essere integrata da almeno altri due atteggiamenti: 2. la distanza critica dai poteri terreni 3. la contrapposizione radicale alle richieste del potere qualora esso giunga ad assolutizzare sé stesso, proponendosi come anti-Dio. Al di sopra di tutto il cristiano sarà chiamato a riconoscere il primato assoluto della carità, la prima e la più grande di tutte le virtù. In Gesù di Nazareth soltanto si compie ogni giustizia ed ogni agape; in Lui e nel suo Spirito la comunità dei discepoli è chiamata a rivivere. L’esigenza di un Fondamento Gesù è il solo Giusto: in Lui si rivela la giustizia autentica, la piena solidarietà con l’umanità, fino alle estreme conseguenze. Nell’intera vicenda biblica sono riconoscibili tre livelli veritativi, ovvero di vera giustizia nelle relazioni, che autorizzano e fondano autenticamente il vivere sociale. Circa il fenomeno sociale Le relazioni si presentano anzitutto nella loro verità come vincolo, come legame da riconoscere con ogni altro. Riconoscere la verità della società significa, a questo livello, crescere nella consapevolezza del valore dell’essere obiettivamente inseriti, insieme, in una determinata società, cultura, storia, così da saper realmente apprezzare la presenza dell’altro, non potenziale avversario ma nativamente fratello. Circa la prospettiva etico-sociale Le relazioni si presentano poi come occasione di solidarietà, di condivisione. Le relazioni esigono di essere riconosciute non soltanto come vincolo obiettivo, ma come occasione favorevole per compiere il bene. Riconoscere la verità della società significa, a questo livello, cogliere l’importanza di un agire sociale, in cui cioè si ricerchi anzitutto il bene dell’altro e di tutti, insieme. Ricercare la verità delle relazioni implica un renderle occasione di vero scambio, di vero bene. Circa la verità ultima della società La Scrittura rivela tuttavia una più profonda verità delle relazioni, interpersonali e sociali; la forma più originaria delle relazioni si manifesta infatti come essere-da: dall’altro, e soprattutto dall’Altro. In ogni relazione riletta in profondità, si rivela non tanto quanto è da farsi, da parte nostra per l’altro, ma quanto gli altri sono già stati per noi gratuitamente e fiduciosamente. Si pensi in questo all’esperienza dell’«essere generati da», costitutiva per ciascuno di noi; un essere generati non da due genitori soltanto, ma anche da un’intera società. Siamo fruitori, fin dal nostro nascere, di un immenso patrimonio di valori, di sapere, di condizioni di vita create da altri per noi; nascere in un determinato contesto sociale piuttosto che in un altro pone già differenze straordinarie quanto a possibilità e qualità di vita. Questa riscoperta più profonda del bene che non soltanto è un da farsi, ma ci raggiunge anticipando ogni nostro volere, è in grado di fondare autenticamente la vita sociale. Siamo anzitutto in debito, e di noi stessi anche della società. L’agire sociale si configurerà allora come un riconoscere tutto questo in forma pratica; un rendere, in altra forma, ad altri in quella stessa prospettiva di gratuità e di fiducia che è ultimamente sottesa a ogni agire relazionale. Dio e gli altri devono avere il primato assoluto in ogni azione, anche sociale. Riconoscere la verità della società implica, a questo ultimo livello, uno sguardo di autentico stupore nei riguardi della società. Nota sulla Dottrina sociale della Chiesa Il presente momento etico-sociale esige poi non soltanto di essere fondato nell’orizzonte biblico-teologico, ma ulteriormente sviluppato attingendo alle fonti della tradizione ecclesiale, vale a dire a quel patrimonio vissuto e tramandato entro cui hanno potuto prendere forma e vita propria valori, principi, riflessioni. La «dottrina sociale della Chiesa» ci offre gli strumenti di base ai fini di un discernimento non semplicistico o parziale. CAPITOLO SECONDO - UN’ECONOMIA A SERVIZIO DELL’UOMO Introduzione all’etica delle relazioni economiche Che cos’è «economia»? L’economia concerne le norme di condotta per coloro che coabitano. Essa si occupa di un aspetto dell’abitare il mondo da parte dell’uomo, quello legato ai suoi bisogni. L’uomo, infatti, riconosce come attinenti al suo vivere una serie di bisogni: da quelli di tipo primario a quelli di carattere più elevato. Si noti che i primi scaturiscono con maggiore immediatezza dalla natura dell’uomo, mentre i secondi e tutti gli altri vedono il prevalere della libertà; in ogni caso, il bisogno è sempre sintesi di necessità e di libertà. L’economia non si occupa di tutti i possibili bisogni dell’uomo, ma di quei bisogni dell’uomo per cui possono essere soddisfatti mediante beni scambiabili, dotati quindi di un certo valore di scambio. In questo senso, si parla di bisogni e di beni economici. • I beni economici possiedono attitudini in grado di soddisfare alcuni aspetti dei bisogni umani: il loro aspetto più immediato, di maggiore urgenza. Tale attitudine è detta utilità; un bene è tanto più utile quanto più è in grado di soddisfare bisogni molteplici o ricorrenti. • I beni economici possono essere di natura materiale (cibo, vestiario, farmaci, ecc.), o immateriale (si pensi all’acquisto di diritti: di fabbricazione di un prodotto, di pubblicazione di un testo, o altro). • Beni economici sono pure i servizi Il problema economico sorge in quanto i bisogni e beni economici si presentano contrapposti quanto a disponibilità: • i bisogni si presentano come illimitati oltre che ricorrenti; potremmo dire illimitati nello spazio, quanto a quantità e qualità, e nel tempo (rinascono di continuo, e tendono ad accrescersi in frequenza). In questa tensione all’illimitatezza, si manifesta la tensione della libertà dell’uomo a sporgersi oltre la propria condizione verso il non ancora possibile • viceversa, i beni si presentano come scarsi, limitati. Tra bisogni e beni, la mediazione è istituita anzitutto dai valori. Il valore è giudizio di apprezzamento circa la capacità di un determinato bene di soddisfare un determinato bisogno. Le sue due componenti basilari sono il giudizio circa il valore d’uso di un bene e il suo valore di scambio. I tre momenti fondamentali in cui l’attività economica, in quanto generatrice di valore, può essere ripartita, sono connessi: 1. alla produzione, in quanto momento generativo o incrementativo di utilità 2. alla distribuzione, in quanto connessa agli scambi mediati da beni economici 3. al consumo, in quanto momento di utilizzo del bene prodotto, nelle varie forme possibili Ai tre momenti indicati, si possono aggiungere: 1. l’estrazione, ovvero l’utilizzo delle risorse primarie: minerali, aria, acqua, ecc 2. il riciclo, ovvero lo sforzo di riportare alle origini almeno parte del materiale originario utilizzato. Tra i tre momenti fondamentali dell’attività economica vi è una relazione di circolarità, nel senso che la produzione è evidentemente in funzione delle altre due, e così ciascuna di esse; non vi può essere neppure consumo senza adeguata produzione e distribuzione, ecc. Come anche la carenza di uno solo di questi tre aspetti è sufficiente a indebolire l’intero sistema. e agli ultimi. Tale principio se da un lato fonda il diritto alla proprietà privata (o meglio: al coesistere della proprietà privata con altre forme di possesso pubblico), d’altro lato evita che la proprietà privata stessa sia immaginata come diritto assoluto. Quale sistema economico? Quale globalizzazione? Quale sistema economico per l’oggi? Il capitalismo? Se con «capitalismo» si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa del mercato, della proprietà privata e della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva. Ma se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa. La Chiesa non ha modelli da proporre. La Chiesa offre la propria dottrina sociale, che riconosce la positività del mercato e dell’impresa, ma indica, nello stesso tempo, la necessità che questi siano orientati verso il bene comune. In sostanza, la Dottrina Sociale della Chiesa è per una particolare modalità di sistema economico, alla quale possono corrispondere in concreto differenti modelli: 1. un’economia in cui Stato, mercato e corpi intermedi abbiano ciascuno un compito riconosciuto e apprezzato al servizio del bene comune 2. un’economia in cui al mercato sia riconosciuto un ruolo positivo, ma sempre, anch’esso, da orientarsi al bene comune. La Dottrina Sociale della Chiesa richiede pertanto un mercato del lavoro, dei beni e servizi e dei capitali equo. Un mercato quindi non finalizzato a se stesso, ma all’uomo e al suo servizio 3. un’economia articolata e basata su una pluralità di interventi e di soggetti. Entro questo quadro, l’odierna globalizzazione è intesa nella sua ambivalenza: da un lato capace di alimentare «nuove speranze», dall’altro «anche inquietanti interrogativi». Essa rappresenta sia un’occasione di incontro e di crescita per l’umanità presente e futura, sia una realtà da sottoporre a costante vigilanza e responsabilità. In positivo, si auspica l’orientamento generalizzato della solidarietà. CAPITOLO TERZO - UNA POLITICA PER IL BENE DI TUTTI Che cos’è «politica»? La politica è una risorsa, possibilità o anche potenzialità posta al servizio del progresso della civiltà. La politica ha reso possibili in numerose occasioni enormi progressi, ha saputo diffondere una pluralità di beni e servizi un tempo disponibili a pochissimi. D’altro canto, occorre riconoscere che dalla politica scaturiscono e sono scaturiti anche guerre, distruzioni. La forza della politica risiede nel fatto che essa attinge a un potere proveniente da molti, e che interagisce direttamente con moltissimi altri. Le sue scelte in ogni caso riguardano i molti, la totalità di una società. La politica può essere riferita a tre livelli basilari: 1. la policy, ovvero l’orizzonte più ampio degli orientamenti ideali; finalità, valori, contenuti del dibattito, costume, modi di vivere. Così intesa, la politica è attività che non soltanto compete a tutti, ma che in qualche misura tutti svolgono. 2. la polity, ovvero il livello concernente gli aspetti istituzionali, strutturali, della politica e il loro governo 3. la politics, vale a dire la politica attiva, l’attività politica in senso proprio. Rappresenta anche il livello di riflessione, di studio specifico della scienza politica. Si notino le possibili interazioni tra i tre livelli visti: 1. il primo orizzonte è fondamentale, gli altri due devono essere posti al suo servizio 2. il secondo rappresenta la strutturazione istituzionale della politica e il suo attuarsi 3. il terzo, il luogo specificamente decisionale che a sua volta dipende e interagisce con gli altri due, in quanto di essi si alimenta e su di essi interviene, influenzandoli. La ricerca della verità nella vita politica La Rivelazione biblica Antico Testamento In primo piano troviamo la Legge e i suoi mediatori. Un ruolo altrettanto importante è svolto dalla Profezia. I profeti affermano l’esigenza non solo di istituzioni giuste, ma di una giustizia (sociale) praticata dai re, dai capi. Nuovo Testamento Gli scritti del Nuovo Testamento sottolineano anzitutto il potere politico e sociale nella sua radicale ambivalenza; esso costituisce una tra le massime tentazioni, quella di asservire altri e se, fosse possibile, Dio stesso, alle proprie finalità. L’agire politico è soggetto al peccato. Il potere come servizio → “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere”. Il potere è in apparenza servizio, ma in realtà costruisce una propria etica e quasi una sua religione. Il senso dunque è di svelare l’ambiguità sottesa al potere economico-politico. Grandezza e limiti del potere politico → “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Queste affermazioni sono a deciso favore delle autorità esistenti. Non si intende legittimare i potenti, quanto piuttosto istruire i cristiani. Non si dice in alcun modo che ogni forma di esercizio dell’autorità è legittimo e che l’obbedienza debba essere acritica e incondizionata. Quindi possiamo dire che: • il potere politico e sociale appare in tutta la sua limitatezza; è potere circoscritto in quanto radicalmente sottoposto alla suprema potestà di Dio • la possibilità autentica insita nel potere è di divenire servizio L’insegnamento della storia L’itinerario della fede cristiana nella storia presenta svariati modelli. 1. In epoca patristica vige il modello di S. Agostino, che presenta la dialettica tra le due città, la città di Dio e la città terrena. Lo Stato è definito da “quanto il popolo ama”, non da ciò che è bene per tutti. Tra sensibile e spirituale, temporale ed eterno, tra utilizzabile e fruibile, sussiste un’irriducibile tensione. Ne consegue un tratto decisamente pessimista: la politica è radicalmente contrassegnata dal peccato. La principale conseguenza è la differente logica che a essa occorre riconoscere. 2. In epoca medievale prevale il modello di S. Tommaso, secondo il quale i due poteri, ecclesiale e civile, sono qualitativamente differenti ma coordinati entro l’unica città degli uomini. In quanto realtà naturale, la politica è per sé buona e ragionevole. 3. In epoca moderna la politica risulta separata dalla fede e dall’etica, confinate prevalentemente a livello individuale. La natura genera l’uomo, l’uomo crea la politica come attività specifica per disciplinare l’uso del potere pubblico. Quattro sono le figure dello Stato nazionale moderno. Esso si configura come: o assoluto: l’esercizio del potere assoluto da parte del sovrano è ritenuto necessario per la coesione dello Stato o liberale: si afferma la libertà di coscienza, i diritti inviolabili del cittadino, la tutela dei suoi beni e dei suoi interessi legittimi. Lo Stato interviene minimamente, ed è al servizio del cittadino o totalitario: si afferma lo Stato etico, che ha valore in sé. La politica risulta essere un elemento totalizzante: decide tutto o democratico: principio fondamentale di questa figura dello Stato è la sovranità popolare. Le principali regole del gioco sono rappresentanza e rappresentatività, maggioranza e minoranza, ecc.. 4. Nell’attuale epoca postmoderna prevale il tentativo di perseguire la giustizia per via politica. Emblematica, in tal senso, è la teoria di John Rawls della giustizia come equità → intento di ricercare una formulazione della giustizia adeguata alle democrazie contemporanee: la giustizia è per lui «il primo requisito delle istituzioni sociali». Il suo studio tende a ricercare, per l’intera società le regole in grado di realizzare delle effettive condizioni di parità per tutti. Ma come pervenire ad una società più giusta? La condizione preliminare affinché le persone possano darsi un patto secondo giustizia, è che agiscano sotto il cosiddetto “velo di ignoranza → Poiché ognuno gode di un’identica condizione, e nessuno è in grado di proporre dei principi che favoriscano la sua particolare situazione, i principi di giustizia sono il risultato di un accordo o contrattazione equa. L’ingiustizia, quindi, coincide semplicemente con le ineguaglianze che non vanno a beneficio di tutti. Un duplice principio consente la realizzazione della giustizia: 1. un principio di giustizia come eguaglianza, in base al quale tutte le libertà, i diritti, i beni primari debbono essere distribuiti in modo eguale entro una società. Beni primari sono, essenzialmente: o libertà di pensiero e libertà di coscienza; libertà di associazione; la libertà politica o la libertà di movimento e scelta di un’occupazione o Poteri e attribuzione di cariche e posizioni di responsabilità gli ordinamenti democratici, oltre che una delle maggiori garanzie di permanenza della democrazia. Il governo democratico, infatti, è definito a partire dall’attribuzione, da parte del popolo, di poteri e funzioni, che vengono esercitati a suo nome, per suo conto e a suo favore; è evidente, dunque, che ogni democrazia deve essere partecipativa. Atteggiamenti personali e valori dell’agire etico-politico Ritratto del politico cristiano → La coerenza chiesta al cristiano riguarda sia i contenuti che i metodi della politica. Egli è chiamato a operare secondo una logica di servizio al bene comune, preferendo il dialogo allo scontro, rispettando le esigenze del metodo democratico. Principali valori dell’agire etico-politico → il primato e la centralità della persona; la tutela della vita umana in ogni istante della sua esistenza; la promozione della famiglia fondata sul matrimonio; la dignità della donna e il suo ruolo nella vita sociale; l’effettiva libertà dell’educazione e della scuola ecc… Riguardo a questi valori, occorre individuare strategie per la loro concreta attuazione. Democrazia, laicità e dialogo Nell’insegnamento sociale della Chiesa l’opzione preferenziale è per la democrazia. La Chiesa apprezza il sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte politiche. Essa non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone mediante l’educazione e la formazione ai veri ideali, sia della «soggettività» della società mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia. La laicità attiene a qualcosa che pertiene a tutti, indistintamente. La laicità non implica pertanto rinuncia all’etica; anzi, aiuta a cogliere che la decisione politica ha sempre a che fare con l’etica, in quanto ingloba in sé elementi favorevoli o meno all’uomo. Il riferimento alla laicità aiuta inoltre a comprendere come i valori sopra indicati non siano apprezzabili solo entro l’orizzonte dei credenti. Non si tratta infatti di valori esclusivi dell’interpretazione cristiana, ma proponibili a tutti perché compresi esattamente come momenti, modalità del bene di tutti. In altre parole, tali valori non sono proposti dai cristiani perché da essi posseduti in proprio, ma perché da essi riconosciuti come patrimonio comune dell’umanità. La laicità è condizione favorevole per il dialogo con e tra tutti. Ma quali sono gli obiettivi del dialogo: la ricerca di un confronto, l’accordo ad ogni costo o altro? Una democrazia non può limitarsi ad amministrare un insieme di procedure e regole asettiche, in quanto suo compito principale è di garantire le condizioni alle quali un dialogo davvero costruttivo possa avvenire. Per questa ragione il dialogo non può limitarsi a pura formalità espressiva. Il dialogo autentico è il confronto schietto e rispettoso delle diverse identità, politicamente regolato dalle leggi della democrazia rappresentativa. La politica è esercizio del potere che si giustifica solo in quanto posto a servizio del vero e del bene; diversamente essa scade inevitabilmente a servizio di se stessi. CAPITOLO QUARTO - UN DIRITTO PER LA VERA GIUSTIZIA Legge e giustizia nella sacra Scrittura Nell’Antico Testamento la Legge è espressione dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo, guida di un cammino di fede che insegna all’uomo a custodire le due relazioni fondamentali, con Dio e il fratello. In negativo, il significato della Legge è quello di delimitare il male, favorendo la corretta percezione del bene. Già nell’Antico testamento è possibile scoprire l’annuncio di una nuova Legge e, di conseguenza, di una nuova giustizia. La giustizia non può evitare di confrontarsi con la verità; essa deve porsi alla ricerca della verità, al suo servizio. In sintesi, possiamo concludere che l’autentica giustizia non può attestarsi al semplice livello dell’osservanza di procedure o delle tradizioni. Essa impone piuttosto di mettersi in gioco nei confronti della verità. Diritto, morale e costume nel corso della storia Tappe della vicenda storica riguardanti la giustizia e il diritto nell’ambito della vita sociale. Le origini Il diritto è dato per tutti e, tendenzialmente, per sempre: è universale e perenne. L’epoca romana Fondamento del diritto è considerata la natura dell’uomo, ragione per cui i principi generali del diritto sono applicabili a chiunque. L’epoca medioevale e la sistemazione di S. Tommaso Nel Medioevo si verifica la massima vicinanza tra diritto e giustizia. La giustizia, considerata virtù, contempla tre forme: 1. generale o legale (si concretizza nell’osservanza delle leggi) 2. distributiva 3. commutativa. Il diritto costituisce il contenuto obiettivo della giustizia. L’integrazione/correzione della giustizia è realizzata tramite l’equità, in quanto miglioramento qualitativo, in sede pratica, dell’esercizio della giustizia. Il perfezionamento della giustizia è opera della carità. La stagione moderna L’intesa tra diritto e giustizia diviene sempre più faticosa. Diritto è ciò che è comandato dalla legittima autorità, quindi dal sovrano: la legge è il comando di chi in quel momento è detentore del potere. Accanto alla legge naturale si afferma la legge positiva (giuspositivismo). La giustizia ne esce attenuata: è giusto il comportamento conforme alle leggi dello Stato; delle motivazioni, intenzioni, della qualità dell’agire giusto non ci si occupa. Il diritto diviene mediazione esteriore dei rapporti sociali: media tra me e la società. Tra etica individuale e diritto sociale si darà sempre maggiore, reciproca estraneità. Il diritto pretenderà che le leggi siano osservate, disinteressandosi della questione del bene. Dall’illuminismo ad oggi È la stagione dei diritti dell’uomo e del cittadino, come fondamento di tutte le altre leggi. Oggi sono presenti alcune nuove forme della giustizia sociale, poste a base dell’intera società. In particolare, la teoria della giustizia come equità prospettata da J. Rawls esige il crearsi di una parità di condizioni per tutti quale premessa necessaria al costituirsi di una nuova società. La condizione basilare perché si approdi a questo tipo di giustizia consiste nel decidere dietro un “velo di ignoranza”, ovvero nel creare una società in cui sia possibile proporre una redistribuzione di oneri e vantaggi equa, perché attuata a prescindere dalla previsione del ruolo svolto in essa da ciascun proponente. Le due principali regole di questa concezione della giustizia sono: 1. l’uguaglianza, per la quale i beni fondamentali in una società devono essere distribuiti in modo equivalente, senza distinzioni 2. la differenza, in base alla quale ogni diversità dev’essere adeguatamente compensata o giustificata da una maggiore utilità comune. Significato e limiti del diritto Il diritto è un linguaggio a servizio della giustizia e della verità, del bene di ciascuno e di tutti Sul versante del legislatore Il compito del legislatore implica non un semplice adattamento della legislazione al costume corrente, ma una precisa responsabilità in questa interpretazione. La massima oggettività di una legge si dà nella sua massima capacità di predisporre al bene comune, cioè di tutti e di ciascuno. Il legislatore è consapevole che la legge non è soltanto indicatrice di comportamenti. Suo compito è anche di promuovere, orientare il buon agire di tutti. Ciò implica un agire responsabile e responsabilizzante. La prima questione inerente al senso della produzione di leggi nello Stato democratico riguarda il livello di impegno da richiedersi da parte di tutti. Si tratta anzitutto di individuare alcuni nuclei centrali i cui contenuti appaiono irrinunciabili; ad esempio i diritti e la dignità della persona umana. Questi diritti sono di solito sanciti dalle Carte costituzionali, per riferimento all’ambito dei Diritti dell’uomo. Quanto alla rimanente legislazione, quella cioè non immediatamente inerente alla tutela dei diritti e doveri sopra citati, il criterio dominante rimane quello del miglior bene comune realizzabile, al fine di perseguire le finalità che uno Stato si è data a livello di Carta costituzionale. Questo assegna particolare rilievo al momento costituente di uno Stato. Nasce così l’esigenza di una legislazione il più possibile coerente, unitaria. Il livello minimo di coerenza è quello di una legislazione che eviti quanto meno di passare da livelli anche molto elevati di tolleranza a casi opposti, in cui un comportamento di minimo rilievo sociale può risultare pesantemente sanzionato. Entro l’attuale contesto, occorre evitare che la tolleranza esprima semplicemente il minimo dell’impegno sociale, a fronte della ricerca di obiettivi di solidarietà sociale, nella direzione dei quali diviene possibile impegnarsi. Ciò vale quanto più un’entità sociale è diversificata al suo interno (vedi ad esempio l’Unione Europea): la presenza di numerose, differenti identità non impedisce, infatti, di tendere ad obiettivi comuni anche elevati. In tutti gli altri casi, risulta adottabile il criterio del miglior bene possibile.