Scarica riassunto del libro la tutela antidiscriminatoria e più Sintesi del corso in PDF di Diritto solo su Docsity! LA TUTELA ANTIDISCRIMINATORIA Fonti Strumenti Interpreti (M. Barbera e A. Guariso) CAP 1: PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA e DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE 1.I significati dell’eguaglianza L’eguaglianza è l’elemento costitutivo dell’individualismo liberale ed è alla base della struttura formale del diritto moderno. Nel suo significato fondante, l’eguaglianza: Da una parte, esprime il PROGETTO LIBERALE per cui ogni individuo è un’incarnazione dell’intera umanità, e come tale, è uguale ad ogni altro individuo ed egualmente libero. L’eguaglianza è impiegata come protezione della libertà dei singoli dall’autoritarismo del potere pubblico, ma non è in contrasto con: - le disuguaglianze di ricchezza e potere sociale (che appaiono come il frutto della disuguaglianza originaria nel possesso dei beni o del gioco spontaneo del mercato) - l’esclusione dalla comunità degli uguali di donne, schiavi, neri ebrei e altri fuori casta (giacché l’eguaglianza riguarda solo uomini liberi e razionali, dotati di libertà di scelta e tali non sono considerati dalla corrente del giusnaturalismo quanti appartengono ai gruppi prima nominati) Dall’altra, è un PRINCIPIO POLITICO e una regola di trattamento che dispone che gli individui sono uguali davanti alla legge e vanno trattati in modo uguale dalla legge. L’eguaglianza è associata al principio di sovranità: si è uguali perché si è sottoposti tutti alla legge, alla stessa legge. L’eguaglianza è dunque connessa al principio di legalità, alla legge dello Stato sovrano che si pone come stato di diritto. Vi è qui una separazione netta tra diritto e politica, tra l’eguaglianza formale di tutti nella legge e la concreta misura di eguaglianza sociale realizzata dallo stato. E siccome la politica degli stati liberali del diciottesimo secolo è moderata, moderata sarà anche l’eguaglianza. Nelle costituzioni democratiche del novecento l’eguaglianza viene a collocarsi tanto fra gli enunciati che riguardano la forma di governo (ossia le regole che legittimano il potere politico e il suo esercizio) quanto tra gli enunciati che riguardano i diritti della personalità del singolo in ambito pubblico e privato Nel principio di eguaglianza si ritrova pertanto la distinzione e sovrapposizione di due diversi significati di costituzione: - costituzione in quanto forma politica - costituzione in quanto dichiarazione di diritti inalienabili Eguaglianza come regola di ragionevolezza Il principio di eguaglianza è stato impiegato dalle Corti costituzionali come regola di ragionevolezza: secondo cui l’eguale va trattato in modo eguale e il diseguale in modo diseguale. Da qui il problema di trovare una giustificazione alle differenziazioni e parificazioni operate dal potere politico. Questo richiede che i fini perseguiti dal legislatore siano legittimi e che i mezzi siano correlati ai fini e cioè, in sintesi, che il processo decisionale sia razionale. Nell’esperienza costituzionale del dopoguerra, però, la democrazia non era più difendibile solo come regola del gioco (formalismo procedurale alla kelsen che separa nettamente il diritto e i valori) , ma doveva legittimarsi anche sul piano dei valori. Eguaglianza come eguale cittadinanza politica e sociale L’eguaglianza sostanziale penetra così nelle concezioni procedurali dell’uguaglianza, traducendosi nella pretesa a un’eguale partecipazione alla formazione della volontà politica (eguale cittadinanza politica) ma anche dando titolo a un’eguale dotazione di beni, risorse e opportunità (eguale cittadinanza sociale). 2.l’eguaglianza come garanzia del pluralismo sociale. Il ruolo antimaggioritario delle corti Una prima breccia in una costruzione meramente procedurale dell’eguaglianza era stata operata dalla teoria delle suspect classes, sviluppata dalla giurisprudenza nordamericana a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. Secondo tale teoria una classificazione che facesse riferimento alla condizione dello straniero o alla razza, doveva ritenersi sospetta di per se (e dunque soggetta a un sindacato giudiziale più rigoroso di quello ordinario), in quanto sintomo dell’esistenza di ostilità e pregiudizi. Tuttavia tale teoria rivestì per alcuni decenni un’importanza secondaria: la dottrina dominante era quella del “separate but equal”, con cui gli Stati del Sud giustificavano il sistema di segregazione razziale allora vigente. Es. Nel 1886 (nel caso Plessi v. Ferguson) la Corte Suprema aveva dichiarato conforme a costituzione la legge della Luisiana che imponeva ai viaggiatori di uno stesso treno di sistemarsi in vagoni separati a seconda che fossero bianchi o neri. La dottrina del separati ma uguali verrà superata solo nel 1954 con la sentenza Brown v. Board of Education, che dichiarò l’incostituzionalità del sistema di segregazione scolastica: la legge è imparziale perché pensata, in realtà, allo scopo di escludere i neri e non viceversa. Intorno alla metà degli anni ’30, inoltre, emerge la possibile funzione antimaggioritaria del principio di non discriminazione. Il ruolo antimaggioritario ascrivibile ai giudici e alla giustizia costituzionale viene per la prima volta articolato nella sentenza UnitedStates v. Carolene Products Co. del 1938; qui si afferma che sono meritevoli di una tutela speciale quei gruppi minoritari all’interno della popolazione che, a causa dello loro caratteristiche fisiche o culturali, sono distinti dagli altri e isolati nella struttura sociale. Il pregiudizio e l’assenza di empatia del legislatore e dei consociati impediscono una fair rappresentation. La dottrina in questione ha avuto un durevole influsso sulla giurisprudenza costituzionale nordamericana e anche sulle corti canadese e africana, ma non si è mai imposta nel contesto europeo. Perché? La difficoltà di applicazione deriva dall’uso della categoria di “minoranza” intesa come un gruppo distinto e isolato, alcuni infatti, nonostante meritino una speciale tutela, non rientrano in questa definizione: es. donne, omosessuali, poveri. Si manifesta così una delle principali contraddizioni del modello tradizionale di tutela antidiscriminatoria, vale a dire il suo essere una tutela selettiva, che può non trovare applicazione proprio nei casi più manifesti di disuguaglianza sociale. La discriminazione non è dunque solo un problema di eguaglianza violata, ma anche di libertà violata. Quanto al campo di applicazione, se nelle clausole che accompagnano il riconoscimento dei diritti fondamentali nelle dichiarazioni di tipo universale a essere protetto è ancora l’uomo astratto, nelle convenzioni aventi a oggetto fattori e ambiti specifici la protezione riguarda l’uomo concreto e la donna concreta. Quanto all’effettività dei divieti di discriminazione posti dal diritto internazionale, essi hanno carattere cogente (sono obblighi precettivi e inderogabili, tendenti alla tutela diretta dell’individuo)e sono efficaci erga omnes. TUTTAVIA la loro effettività risulta indebolita: - dalla tecnica della ratifica con riserva, per mezzo della quale gli Stati si riservano di non dare applicazione a norme particolari delle convenzioni, ove queste contrastino con disposizioni di legge interne - dalla mancanza nel sistema internazionale di una corte o di un sindacato giurisdizionale a tutela dei diritti umani 5.Eguaglianza e non discriminazione nello spazio comune europeo Diversamente dallo spazio globale, lo spazio pubblico europeo presuppone una sfera pubblica giuridica comune, presieduta da autorità indipendenti e da una corte e, nel caso dell’UE, una cittadinanza comune che non sostituisce ma integra quella nazionale. Nonostante il consiglio d’Europa sia sorto quale sistema di protezione dei diritti umani e la Comunità economica europea (che precedono la UE) quale mercato comune, all’origine dei due momenti fondativi vie è la medesima spinta a non ripetere più i sanguinosi conflitti fratricidi della prima parte del Novecento: essi hanno genesi comune. 6.La tutela antidiscriminatoria nel sistema della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) I trattati internazionali e le convenzioni che hanno dato vita - al Consiglio d’Europa (1949) - alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950) - alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu 1959) hanno creato una cornice giuridica comune e standard di tutela volta a migliorare la protezione dei diritti umani anche a livello nazionale. Con la CEDU (1959), gli individui diventano soggetti a pieno titolo del diritto internazionale. La convenzione mira a proteggere l’individuo dall’esercizio illegittimo del potere da parte delle proprie autorità nazionali, anche se, inizialmente, ha una portata limitata. L’art. 14 assicura il godimento dei diritti e delle libertà riconosciute dalla stessa convenzione, senza discriminazioni di sesso, razza, colore lingua, opinioni politiche o altre, origine nazionale o sociale, appartenenza a una minoranza nazionale, fortuna, nascita o altra situazione. La stessa formulazione ritorna nella Carta sociale europea adottata dal Consiglio d’Europa nel 1962 e rivista nel 1996. TUTTAVIA in questo caso l’ambito dei diritti protetti dalla clausola di non discriminazione è diverso da quello della CEDU: ad essere protetti sono i diritti di seconda generazione, vale a dire i diritti sociali, che vanno ad arricchire il sistema di protezione dei diritti civili e politici fornito dalla CEDU. Con il protocollo, entrato in vigore nel 2005, si arriva a stabilire che il divieto di discriminazione opera rispetto a ogni diritto previsto dalla legge, prescindendo, quindi, dall’ancoraggio alle garanzie espressamente previste dalla Convenzione. Va ricordato, però, che il protocollo si applica solo agli Stati firmatari, che non coincidono con tutti quelli che hanno firmato la Convenzione originaria. La Corte Edu ha così tentato di interpretare in senso espansivo il contenuto dell’art. 14 (ritenendo necessario e sufficiente che i fatti di causa ricadano “sotto l’imperio” di almeno uno degli articoli della Convenzione), pervenendo ad ampliare la portata della protezione offerta. Per altro, la tendenza della Corte a decidere dei ricorsi sottoposti al suo esame sulla base della sospetta violazione di una delle norme sostanziali della Convenzione, senza indagare sull’ulteriore profilo di una sospetta discriminazione, ha depotenziato la forza diagnostica della tutela antidiscriminatoria. Es. nei primi casi relativi ai “Caravan sites”, decidendo solo sulla base dell’art. 8, la Corte Edu non ha mai deciso a favore dei ricorrenti sgomberati dalle autorità pubbliche. Ma in seguito, interrogandosi anche sulla portata discriminatoria delle decisioni prese dall’autorità pubblica e tenendo conto della posizione vulnerabile dei rom in quanto minoranza, che quindi va salvaguardata e preservata,ribalta la sua decisione e decide a favore dei ricorrenti. 7.La funzione dell’eguaglianza nel processo di integrazione europea Il divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità Diverso è il tragitto compiuto dal principio di eguaglianza e non discriminazione nel processo di integrazione europea. I padri fondatori della comunità europea miravano a costruire un mercato fondato sulla libera concorrenza fra le imprese e sulla libera circolazione dei lavoratori da un paese all’altro della comunità. Tale origine spiega perché: I trattati originari si occupano delle discriminazioni limitatamente agli aspetti che possono interferire con il buon funzionamento del mercato (discriminazione per nazionalità e per sesso) Il principio di non discriminazione si presenta inizialmente come regola d’azione di carattere obiettivo (il che corrisponde all’altra sua possibile accezione), non come diritto soggettivo. In questo modo, la Corte ha potuto più agevolmente introdurre nell’ordinamento comunitario un sindacato d’eguaglianza delle scelte politiche sostanzialmente simile a quello esercitato dalle corti costituzionali nazionali, in cui, cioè l’applicazione del principio d’eguaglianza si sostanzia in un controllo della legittimità di tutte le scelte di differenziazione o parificazione operate dai decisori politici nazionali e non solo di quelle basate su caratteristiche soggettive vietate. Poiché il controllo di eguaglianza è influenzato in modo decisivo dai valori, dai principi e dagli scopi fondamentali dell’ordinamento all’interno del quale esso si compie, l’eguaglianza ha finito per giocare nel sistema comunitario la funzione di favorire l’integrazione economica e l’accesso al mercato, più che le sue altre funzioni commutativa e partecipativa, e ancor meno la sua funzione redistributiva (anche se non mancano esempi di questo genere: es. libertà di circolazione dei lavoratori europei). Tuttavia il carattere inizialmente settoriale del principio d’eguaglianza, ha assunto progressivamente una portata generale: l’ordinamento europeo è divenuto un ordinamento a fini generali, un ordinamento che tutela i diritti fondamentali, ma che lo fa unicamente nei casi in cui tale lesione sia configurabile come un ostacolo al perseguimento delle finalità economiche dell’integrazione europea (il soggetto è difeso in quanto market citizen). Dunque, è in quanto market citizen (in relazione al contributo economico che è in grado di dare) che il lavoratore del mercato comune viene immesso nella comunità ospitante, di cui, altrimenti, non condividerebbe i diritti. In quest’ottica viene spiegata anche l’applicazione ai lavoratori migranti di alcuni diritti sociali; applicazione resa possibile da un’interpretazione estensiva della nozione di lavoratore di cui all’art. 39 (ora art. 45 TFUE) e della nozione di vantaggio sociale di cui all’art. 7.2 del Reg. n. 1612 del 1968 La cittadinanza europea e la solidarietà transnazionale: nascita e crisi di un’idea Questo processo subisce un’accelerazione a partire dall’introduzione, con il trattato di Maastricht, delle norme sulla cittadinanza europea (art. 8 TCE, ora art.20 TFUE). Secondo quanto affermato dalla Corte nel caso Martinez Sala e nel caso Zambrano, la cittadinanza europea non si ispira più alla cittadinanza mercantile dei Trattati istitutivi, ma a un’idea di solidarietà transnazionale. Quest’affermazione consente l’accesso ai sistemi di welfare dei Paesi ospitanti anche dei cittadini economicamente inattivi e con esso, il riconoscimento di un certo grado di solidarietà sociale tra estranei. Si tratta però di un’idea entrata presto in crisi con il conseguente ritorno al prototipo del market citizen. Soprattutto il tramonto definitivo dell’idea deriva dal fallimentare progetto di dotare l’Unione europea di una Costituzione, che sarebbe stata la base di legittimazione giuridica e istituzionale al modello di solidarietà transazionale. Il divieto di discriminazioni basate sul genere Secondo la logica originaria del trattato il legislatore europea sarebbe dovuto intervenire unicamente su specifiche distorsioni del mercato del lavoro (tra queste le più evidenti erano quelle riguardanti il costo del lavoro femminile poiché, essendo presenti norme a riguardo solo in alcuni ordinamenti, ponevano le imprese dei paesi con legislazioni più paritarie in una posizione di svantaggio competitivo) MA, come era accaduto per il divieto di discriminazione basato sulla nazionalità, la funzione giocata dal principio di parità retributiva andrà oltre i suoi confini originari. Il processo di affermazione della supremazia del diritto comunitario sul diritto interno e il processo di costituzionalizzazione dell’ordinamento comunitario, procedono di pari passo. La costituzionalizzazione del divieto di discriminazione di genere inizialmente non pare comportare una modifica dei poteri normativi della comunità, con l’attribuzione di competenze ulteriori rispetto a quelle menzionate nel trattato. Nelle sentenze Defrenne I e II, per esempio, nonostante i giudici di Lussemburgo affermino l’efficacia erga omnes dell’art. 119, nonché la sua natura di principio generale dell’ordinamento comunitario e di diritto fondamentale, la Corte stabilisce che nel divieto di discriminazione Una portata più ampia hanno il divieto di discriminazione di genere (si applica anche ai regimi pubblici e privati di sicurezza sociale, nonché all’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura) e quello per razza e origine etnica (si applica anche alla sicurezza sociale, all’assistenza sanitaria, alle prestazioni sociali, all’istruzione, all’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura). 9.Il principio di non discriminazione come “leva di Archimede” In principio era Mangold Dopo la proclamazione nel 2000 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, si era cominciato a ragionare su come la Corte di giustizia e le Corti costituzionali nazionali avrebbero reagito all’interrogativo se la sua adozione avesse o meno esteso le competenze dell’UE oltre i limiti espressamente stabiliti dai trattati. Secondo una delle prime letture, nonostante la Carta superasse il limite principale dell’art. 19 del TFUE (statuente una serie espressa di divieti di discriminazione ma non un diritto soggettivo a non essere discriminati azionabile in via diretta), a causa delle restrizioni poste dalle clausole orizzontali statuite agli art. 51 e 52, tali principi avrebbero potuto essere invocati solo se la disparità di trattamento si fosse verificata in una delle aree di competenza dell’UE e alle condizioni e nei limiti definiti dai Trattati stessi. Altri, invece, dato che, in virtù dell’inclusione di una Carta dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’Unione, tale principio era divenuto espressamente parte integrante di quel sistema giuridico, ritenevano che esso avrebbe potuto essere il grimaldello in grado di scardinare l’assetto ipotizzato dagli Stati membri signori ed estensori della Carta. Il caso Mangold ha confermato tale previsione. La questione trattata nel caso Mangold riguarda la compatibilità di una normativa tedesca (relativa alla stipula di contratti di lavoro a tempo determinato quando il lavoratore abbia raggiunto una certa età) con la direttiva comunitaria 2000/78, ed in particolare con il principio di non discriminazione in ragione dell’età in essa posto. Il datore di lavoro del Sig. Mangold si era avvalso della normativa tedesca per assumerlo, visto che, alla data della stipula del contratto, il termine per l’attuazione della direttiva non era ancora scaduto per la Germania. Dopo aver più volte ricordato come la direttiva tuteli la parità di trattamento ed osti a discipline nazionali contrastanti con essa, il giudice comunitario sembra frenare bruscamente nel punto 74 della sentenza affermando che il principio non deriva direttamente dalla direttiva ma “trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, e che esso deve essere considerato principio generale del diritto comunitario. Si ha quindi l’inversione del ragionamento usualmente seguito: è il principio di eguaglianza (e in particolare il principio generale della parità di trattamento in ragione dell’età) che dà fondamento giuridico autonomo ai divieti di discriminazione, a prescindere dalla loro interdizione espressa nel diritto derivato. Alla luce di ciò la sentenza si conclude con la prescrizione dell’obbligo di disapplicazione della disciplina interna in capo al giudice nazionale “anche quando il temine di trasposizione della direttiva non è scaduto”. Questo perché i divieti di discriminazione vivono di una vita propria, che prescinde dai comportamenti attuativi o omissivi degli stati membri e prescinde anche dall’assetto presente e futuro delle competenze. Da qui, la conseguenza che il principio può spiegare i propri effetti su tutti i consociati ed essere, dunque, invocato dai privati verso lo stato e dai privati verso i privati (diversamente dalle direttive che hanno di solito solo efficacia diretta verticale, cioè nel rapporto Stato-cittadini e non nei rapporti interprivati). La valenza costituzionale del principio di eguaglianza non riguarda solo l’efficacia soggettiva (la sua portata erga omnes), ma anche il suo ambito oggettivo di applicazione (la sua estensione): il controllo di eguaglianza e non discriminazione è effettuato su qualsiasi differenza di trattamento, a prescindere dall’inclusione o meno del criterio impiegato nella lista dei fattori espressi di discriminazione, e senza che rilevino la fonte o la natura delle competenze nel cui esercizio l’atto sia stato adottato. La critica più severa a queste conclusioni si ha nel caso Chacon Navas, dove l’AG Geelhoed esprime la sua preoccupazione riguardo la possibilità di estendere in via interpretativa la lista dei divieti espressamente enunciati all’art. 19 del Trattato, ma soprattutto riguardo la possibilità che i divieti di discriminazione, così intesi, si trasformino in una “leva di Archimede”, in grado di correggere, senza l’intervento degli autori del Trattato o del legislatore comunitario, le valutazioni fatte dagli Stati membri nell’esercizio delle competenze di cui dispongono. La Corte non si sottrae al richiamo alla prudenza e precisa che la conseguenza, del divieto generale di discriminazione stabilito dalla Carta, non è l’estensione per analogia dell’ambito di applicazione della direttiva 78/2000/CE al di là delle discriminazioni fondate sui motivi enunciate in modo esaustivo all’art. 1 della sentenza Chacon Navas. I percorsi tortuosi del dopo Mangold È possibile che con Chacon Navas la Corte abbia voluto: far ritorno a Grant e che perciò, come aveva già fatto allora, quando si era rifiutata di estendere in via interpretativa il divieto di discriminazioni di genere alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, non si sia voluta sostituire al legislatore nel sanzionare come illecito per il diritto un ulteriore fattore di discriminazione, non menzionato espressamente ella legislazione comunitaria compiere un passo indietro rispetto a Mangold e cioè rispetto alla possibilità di introdurre un sindacato di eguaglianza diffuso Ciò che ne deriva è una giurisprudenza oscillante e incerta: - sui grandi principi e sulla teoria delle fonti (il rapporto tra principi e direttive, la portata del primato del diritto dell’UE, il superamento o meno della teoria tradizionale dell’effetto diretto) - su specifiche questioni che il nuovo diritto antidiscriminatorio pone (il rapporto fra principio generale e divieti espressi di discriminazione, la profondità del controllo giudiziale nella loro applicazione) Sono queste le questioni poste alla Corte dal giudice nazionale nel caso Kucukdeveci. L’esistenza di una discriminazione diretta connessa all’età deve essere valutata sulla base del diritto primario dell’Unione, come sembra suggerire la sentenza Mangold, oppure alla luce della direttiva n.78/2000/CE? C’è necessità di passare dalla Corte per disapplicare una normativa nazionale oppure no? Per quanto riguarda il secondo quesito, la risposta data dalla Corte è chiara e coincisa NO, non c’è necessità di sottoporre alla Corte la questione. Per quanto riguarda il primo quesito, invece, il discorso è più complesso secondo la Corte il diritto da far rispettare si pone nel mezzo tra principio generale e direttiva, è il principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente dalla Direttiva 2000/78. Il rapporto in cui si pongono principio e direttiva è, dunque, di tipo circolare: da un lato è il principio generale a dotare le prescrizioni della direttiva della posizione nella gerarchia delle fonti tipica del diritto primario, con la conseguente possibilità di farla valere nei rapporti fra privati; dall’altra, è la direttiva, attraverso il suo campo di applicazione, a consentire, una volta spirato il termine per la sua trasposizione, che la normativa nazionale rientri nell’ambito del diritto europeo. Questo rapporto di circolarità è comprensibile se si guarda ai principi fondamentali (es. principio di eguaglianza e non discriminazione) come principi la cui validità e applicabilità non dipendono da criteri formali o dalla loro specifica collocazione in un ordinamento giuridico particolare, ma da criteri sostanziali. Inoltre, la sentenza chiarisce anche l’ambito di applicazione del principio: il semplice fatto che l’oggetto della controversia rientri nel campo di applicazione della direttiva è sufficiente a far sì che il principio di non discriminazione trovi applicazione., senza necessità di una norma nazionale che costituisca una misura di attuazione della norma stessa. Questa conclusione è apparsa a qualcuno non in linea con l’art. 51 della Carta, dove si dispone che la Carta stessa si rivolge agli Stati membri solo quando essi applicano il diritto dell’Unione. MA nella sentenza Akerberg Fransson, la Corte ha superato questa interpretazione riduttiva, chiarendo che i diritti fondamentali garantiti dalla Carta devono essere rispettati quando una normativa nazionale rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione; a questo proposito è però necessario, come la Corte ha precisato nella sentenza Siragusa, un collegamento di una certa consistenza, che vada al di là dell’affinità tra le materie prese in considerazione. Verso la costruzione di un controllo d’eguaglianza diffuso Kucukdeveci può essere letta in tanti modi: - come un arretramento rispetto a Mangold - come un passo avanti rispetto a Chacon Navas - come un nuovo punto di equilibrio del dialogo tra la Corte di giustizia e le Corti nazionali Nelle sentenze successive, tuttavia, la Corte pare voler rimettere in discussione questo punto di equilibrio, spingendo nella direzione di un controllo d’eguaglianza diffuso, che conferisce ai singoli diritti azionabili erga omnes. La sentenza Test-Achats è la prima a riaprire la questione dell’applicabilità diretta del principio generale di eguaglianza e non discriminazione, MA i casi in cui la Corte statuisce in maniera più chiara e dirompente la diretta applicabilità del principio sono i casi ASM e Dansk Industri. Nel caso ASM, la Corte, nel decidere su una questione riguardante l’art. 27 della Carta, afferma la non diretta applicabilità della norma in questione, diversamente da quando accade con l’art. 21. Nel caso Dansk Industri, la Corte precisa che i giudici nazionali sono obbligati a disapplicare le disposizioni nazionali non conformi al principio generale di eguaglianza e non discriminazione. NB: Sebbene sia il principio generale a spiegare effetti diretti di tipo orizzontale, sono poi le concrete disposizioni della direttiva a trovare applicazione. Il che significa che siamo qui in presenza di un combinarsi di fonti in grado di produrre effetti che nessuna di esse sarebbe in grado, da sola, di avere. Chi ha paura dell’effetto diretto? Come si è visto, è stata la costituzionalizzazione del principio generale di eguaglianza e non discriminazione, operata dalla Carta dei diritti fondamentali, a legittimare la costruzione di un circuito di giurisdizione europeo in grado di bypassare le giurisdizioni delle altre Corti nazionali. Non è un caso che il successivo intervento legislativo in tema di tutela antidiscriminatoria sia focalizzato soprattutto sulla fase attuativa dai divieti. Il TU Immigrazione introduce all'articolo 44 una nuova azione civile contro la discriminazione per motivi razziali, etici, nazionali i religiosi (estesa ora alle discriminazioni per motivi linguistici e di provenienza geografica) e , per l’ambito lavorativo, riconosce la legittimazione attiva anche alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Lo stesso accadrà , in un mutato contesto normativo, con la legge numero 67 del 1 Marzo 2006 , che estende la particolare tutela giurisdizionale, già riconosciuta ai disabili vittime di discriminazioni in ambito lavorativo, a tutte le situazioni in cui è pregiudicato il loro pieno godimento dei diritti civili, politici, economici e sociali. I limiti di effettività del diritto nazionale vengono , in una certa misura, superati da un processo di ampliamento e approfondimento della tutela contro le discriminazioni che prende avvio, ancora una volta, a livello europeo e che segna l'inizio di una nuova stagione del diritto antidiscriminatorio. Il “vecchio” diritto antidiscriminatorio L'orizzonte ideale delle legislazioni antidiscriminatorie promulgate in Nord America e in Europa negli anni '60 e '70 è quello dell'eguaglianza formale , che impone di trattare gli eguali in modo eguale. Tuttavia presto il concetto di discriminazione muta. La nozione di DISCRIMINAZIONE DIRETTA ha una dimensione sostanzialmente individualistica. La discriminazione sussiste quando una persona “similarly situated” rispetto a un'altra è vittima di un trattamento sfavorevole a causa della sua appartenenza a uno dei gruppi protetti e della categorizzazione che subisce a prescindere dal suo merito individuale. Il diritto garantisce, dunque, agli individui di essere trattati come tali, senza risentire di danni dalla loro appartenenza a un gruppo naturale o sociale, purché però TUTTE le altre condizioni siano eguali a quelle del gruppo avvantaggiato a cui essi si comparano, secondo un principio di irrilevanza delle differenze. Ciò significa che l'identità collettiva della persona ha rilevanza solo in funzione dell'individuazione dei soggetti protetti (dalla discriminazione), ma non viene, invece, presa in considerazione in quanto condizione complessiva di vita e modalità di relazione con gli altri. L'idea di giustizia di cui stiamo parlando è un’idea di giustizia individuale. Se, come è molto probabile che sia, le caratteristiche del gruppo di appartenenza di chi lamenta la discriminazione rendono le circostanze del caso diverse (ad esempio, in ragione di percorsi educativi o di storie professionali tipicamente diversi fra uomini le donne), l'autore della condotta avrà buon gioco nel sostenere che non vi è stata discriminazione , in quanto la disparità di trattamento è dovuta ad altri fattori non vietati (per tornare all’esempio di prima, un certo titolo di studio o una qualifica professionale, posseduti tipicamente dagli uomini meno dalle donne). Emerge a questo punto, con chiarezza, come il fondamento individualistico del divieto di discriminazioni dirette costituisca anche il suo limite principale rispetto all’obiettivo del ristabilimento dell’eguaglianza. Il divieto di DISCRIMINAZIONE INDIRETTA, di derivazione giurisprudenziale, nasce dalla presa d’atto di questo limite e dall’intento di dare riconoscimento all’insieme delle differenze connesse all’appartenenza a un gruppo storicamente svantaggiato , in modo che esse non si traducano, senza un’obiettiva necessità, in un ostacolo nell’accesso ai beni e ai vantaggi da distribuire. La discriminazione , di conseguenza, si presume possa sussistere anche quando una prassi o un criterio apparentemente neutro (si pensi alla richiesta a priori di una certa altezza o di un determinato titolo di studio non legato necessariamente alle mansioni di assunzione) producono un effetto proporzionalmente più svantaggioso sugli appartenenti al gruppo protetto. Se non vi è una giustificazione obiettiva, diversa dalla discriminazione, e se questa giustificazione non ha carattere di necessità e non di mera convenienza, la discriminazione presunta muta in discriminazione accertata. Il divieto di discriminazione indiretta si collega dunque al profilo differenziatore dell'eguaglianza, quello che: impone di trattare in modo diverso situazioni diverse postula una visione correttiva dell'eguaglianza richiede di eliminare gli eventuali influssi negativi che derivano dalla categoria naturale o sociale di appartenenza Solo rimuovendo gli ostacoli di partenza e garantendo a tutti eguali opportunità di acquisire conoscenze culturali, capacità lavorative, esperienza professionale potrà assicurarsi una distribuzione dei beni della vita determinata dal talento e dal merito personale. Mentre il divieto di discriminazioni dirette si traduce in un vincolo essenzialmente negativo , in quello di discriminazioni indirette è implicita la richiesta di comportamenti attivi, atti a rimuovere la situazione di fatto produttiva di diseguaglianza. L'accento, tuttavia, cade ancora sull’eguaglianza delle chances, non dei risultati. E, se l'obiettivo è il superamento delle disparità nei punti di partenza, il grado di eguaglianza richiesto dipenderà dal parametro scelto per determinare quali siano tali disparità. Se tale parametro è ampio (tale da prendere in considerazione l'insieme delle disparità di reddito, di cultura, di istruzione, di ruoli familiari, collegate all’appartenenza a una determinata razza o sesso o gruppo etnico, ecc.), allora la riduzione di tali disparità condurrà a un’idea di eguaglianza simile a quella esemplificato nell’espressione eguaglianza di risultati e ha una concezione della giustizia come giustizia di gruppo. Le direttive di nuova generazione disegnano una diversa nozione di discriminazione, più sensibile alle differenze (legata al binomio identità-differenza), e approntano un sofisticato sistema rimediale che richiede un approccio asimmetrico all'eguaglianza (le azioni positive e l'obbligo di soluzioni ragionevoli per i disabili ne sono l'esempio più evidente). Le teorie che hanno ispirato le nuove fattispecie di discriminazione Le nuove definizioni di discriminazioni contenute nelle direttive di nuova generazione sono frutto dell’elaborazione giurisprudenziale, ma è possibile anche individuarvi le tracce di alcune teorie che hanno occupato il dibattito filosofico-politico di questi ultimi decenni. Le teorie femministe costituiscono uno dei contributi più importanti. È stato il pensiero femminista a dare visibilità al dilemma della differenza, cioè al come comportarsi rispetto alle differenze: se con la richiesta di una protezione più intensa che, però, tende a rafforzare la differenza in senso negativo, fissando e riproducendo la debolezza e la marginalità del soggetto protetto; o, viceversa, ignorando la differenza e usando le stesse regole, generali e astratte, solo apparentemente neutre, ma in realtà marchiate dal segno del maschile e dal potere del gruppo socialmente egemone. Negli anni '80, il dilemma viene superato con l’affermarsi della critica al modello liberale di uguaglianza e il manifestarsi di pretese di riconoscimento delle differenze di sesso e di conseguenti trattamenti giuridici differenziati: la differenza di genere diventa un trattato identitario non da superare ma da conservare. Nella frase successiva, inaugurata negli anni '90, la critica non è più incentrata sulla diversità tra uomini e donne, ma sulle diversità esistenti tra le stesse donne e all’interno dei diversi gruppi di minoranza. Fanno parte di queste correnti critiche sia le teorie sull’intersezionalità, che propongono un approccio che intersechi le identità multiple della persona, che la queer theory, che mette in discussione la naturalità dell’idea di genere e la pratica di dividere le persone in categorie definite. Anche il multiculturalismo ha contribuito a destrutturare le categorie giuridiche classiche, ponendo la questione di come i diritti stessi vadano intesi nelle società aperte: se, come vuole l'interpretazione liberale classica, come categorie universali, il che sottintende la loro equalizzazione o come categorie che rispecchiano le diverse identità della persona, il che sottintende diritti speciali e differenziati, anche di gruppo. Ambedue le prospettive presentano paradossi e difficoltà. Le concezioni universalistiche dell'eguaglianza guardano ai divieti di discriminazione come forme di tutele cieche alle differenze. Le teorie multiculturaliste ridefiniscono la non discriminazione come una situazione che rispecchia le differenze attraverso trattamenti e diritti differenziati, con il rischio di proporre visioni immutabili dell'identità delle persone , che lasciano poco spazio alla libertà di abitarle come meglio si crede. La scelta a favore di un multiculturalismo “debole” , che ammette la tutela dei diritti religiosi , etnici, culturali differenziati fino al limite in cui questi non violino i diritti fondamentali garantiti dalla costituzione, il diritto all’eguaglianza e la dignità della persona, rappresenta un compromesso ragionevole tra universalismo e differenziazione. Questo compromesso, però, può rivelarsi difficile da realizzare in concreto. La tutela antidiscriminatoria, nei suoi sviluppi più recenti, assume la prospettiva di chi subisce la categorizzazione, offrendo a ciascuno la possibilità di esibire la propria differenza ma mantenendo anche la libertà di decidere come essere visti. Approfondimento… Più di recente, i disability studies hanno orientato l'analisi verso l'idea che tutte le persone hanno modalità e strategie originali e differenti per vivere nel mondo e che occorre adattare l'ambiente esterno a tale originalità e differenza. Il concetto di soluzione ragionevole in quanto mezzo di adattamento alle differenze, già emerso in relazione alle differenze religiose e potenzialmente applicabile a tutte le differenze soggettive , è il contributo più originale di questo approccio alle teorie della discriminazione. La nozione di discriminazione nel nuovo diritto antidiscriminatorio Mentre le nozioni di discriminazione sono uguali per tutte le direttive, le tutele sono parzialmente differenziate (ad esempio vi sono ambiti di applicazione più o meno ampi e un numero di eccezioni giustificazioni più o meno esteso), il che ha fatto pensare che vi sia una gerarchia fra i fattori, alcuni dei quali sarebbero meno protetti di altri. Ma si tratta di un'opinione mai avallata dalla Corte di Giustizia. Anche nel caso del divieto di discriminazioni basate sull'età che, come vedremo, ammette uno spettro più vasto di giustificazioni, la Corte ha chiarito che l'età resta una classificazione sospetta. Di conseguenza, fra le eccezioni ammesse al divieto di discriminazione diretta non vi sono quelle relative alle cosiddette difese del marcato. Diversamente nel caso delle discriminazioni indirette una giustificazione, compresa una difesa di mercato, è, in linea di principio, ammissibile. Tuttavia, pur ammettendosi, in queste ipotesi, giustificazioni legate alle esigenze economiche dell’impresa, lo standard di controllo non si esaurisce nella verifica della loro effettiva sussistenza e del nesso di causalità fra l’atto impugnato e le giustificazioni addotte, ma si spinge fino all’accertamento della necessità o dell’essenzialità di dette esigenze e della proporzionalità dei mezzi impiegati. In realtà non sempre la Corte si è attenuta al test di necessità sopra descritto, alle volte, infatti, il controllo sulle scelte datoriali o pubbliche non si arresta sulla soglia delle esigenze tecnico- organizzative del’impresa, ma arriva a soppesare, attraverso il principio di adeguatezza e proporzionalità, se non siano praticabili altre soluzioni che comportino almeno una riduzione del grado di esclusione dei soggetti protetti. La Corte arriva, in sostanza, a stabilire una gerarchia dei valori in cui si assegna un rango tendenzialmente prevalente alla tutela di alcune caratteristiche costitutive dell’identità delle persone rispetto a qualsivoglia finalità pubblica o privata. Infine va ricordato che il test di strict security utilizzato dai giudici nei casi di suspect classes (ove esiste una presunzione, in base alla quale qualsiasi disparità di trattamento costituisce una discriminazione, a meno che il legislatore non adduca una giustificazione accettabile, vale a dire oggettiva e ragionevole), pur variando a seconda dei fattori e degli ambiti presi in considerazione, è più rigido e rigoroso di quello impiegato nel controllo ordinario di eguaglianza. La natura autonoma e la funzione rimediale dei divieti di discriminazione Risulta ormai evidente come il diritto antidiscriminatorio si ponga su un piano distinto: - dalle tradizionali forme di civilistiche di controllo della liceità degli atti privati - dagli usuali controlli di legittimità dell’esercizio del potere pubblico La tutela antidiscriminatoria attribuisce ai soggetti tutelati un diritto diverso e ulteriore rispetto ai diritti soggettivi di cui le persone sono già titolari. Infatti, non solo protegge i diritti che già esistono ma protegge anche da scelte discrezionali, agendo da limite ai poteri pubblici e privati e impedendo che fattori costitutivi dell’identità della persona si trasformino in fattori di svantaggio nel momento in cui quella discrezionalità viene esercitata. Questo CARATTERE AUTONOMO e non derivato ha significative implicazioni. In primo luogo, risalta il CARATTERE RIMEDIALE della tutela discriminatoria, che mira a ristabilire condizioni di parità nell’acquisizione e nel godimento di beni o opportunità e a eliminare gli ostacoli che vi si frappongono. È per questa ragione che i provvedimenti giudiziali che risolvono una contesa possono avere carattere costitutivo: ciò avviene ogni volta che il ristabilimento del diritto a non essere discriminati non può che passare dall’attribuzione del bene ingiustamente negato. In questa prospettiva, i divieti di discriminazione non giocano soltanto una funzione risarcitoria, volta al passato, ma anche una funzione redistributiva, volta al futuro. Emerge, così, in secondo luogo, la FUNZIONE IN SENSO LATO POLITICA della tutela antidiscriminatoria: il giudice esercita un sindacato diverso da quello di legittimità, egli è abilitato a un controllo più severo delle scelte pubbliche e private visto il carattere sospetto che tali scelte assumono quando riguardano gruppi sociali sistematicamente svantaggiati e che non trovano rappresentanza nel sistema politico. La struttura del giudizio di discriminazione L’analisi delle diverse fasi del giudizio di discriminazione aiuta a cogliere meglio la struttura e gli elementi costitutivi delle diverse fattispecie di discriminazione. In ogni giudizio occorre: 1) individuare un termine di comparazione (a meno che non si tratti di un caso di molestia o di un caso in cui un trattamento sfavorevole è inestricabilmente connesso a uno dei fattori vietati). La comparazione può essere IPOTETICA; SINCRONICA o DIACRONICA; può addirittura riguardare il diverso trattamento della stessa persona colta in due momenti diversi, prima e dopo l’insorgere del fattore di discriminazione, ad esempio il sopravvenire di una disabilità, l’adesione a una religione o il cambiamento di sesso. La definizione dell’ambito soggettivo e oggettivo della comparazione è un’operazione di tipo valutativo, è quindi sempre una decisione di tipo soggettivo e non oggettivo. NB: Essere in grado di capire quali sono i termini di comparazione rilevanti significa anche essere in possesso delle informazioni necessarie a compiere un simile esercizio. È per questo che la giurisprudenza europea, fin dal caso Danfoss, assegna un peso rilevante al dovere di trasparenza che incombe su chi ha accesso privilegiato alle informazioni, pur senza giungere a riconosce un diritto di accesso dell’attore ai dati relativi agli altri soggetti a cui si compara. 2) una volta stabilito l’ambito di comparazione rilevante, bisogna stabilire chi prova che cosa. Nel caso di molestie (ove non è richiesta comparazione) si tratterà di provare che l’atto o la condotta indesiderata realizzano lo scopo di violare la dignità di una persona e che tale scopo si realizza in virtù del collegamento con uno dei fattori vietati. la molestia va dimostrata in via presuntiva. Essa costituisce di per se discriminazione, come fatto storico, e non in relazione al trattamento di altri lavoratori. Nelle altre ipotesi (discriminazione diretta e indiretta) si tratterà, attraverso lo speciale meccanismo probatorio alleggerito previsto dalla legge - cap.7- , di provare, in via presuntiva: o un trattamento sfavorevole o un particolare svantaggio rispetto al soggetto cui si compara la propria situazione o la presenza di un fattore vietato o un nesso di casualità sufficiente (ma non esclusivo) fra l’uno e l’altro elemento della fattispecie Riguardo al trattamento meno favorevole, che caratterizza le DISCRIMINAZIONI DIRETTE, può trattarsi, con o senza vittima identificabile, di: - un atto - una condotta - un’omissione - un negozio giuridico - una dichiarazione pubblica (es. caso Feryn) L’autore della condotta può non essere il datore di lavoro, ma se la condotta è a lui riconducibile e lui non ne prende le distanze, sarà a lui addebitata. Quanto alle DISCRIMINAZIONI INDIRETTE, l’accezione quantitativa della nozione vigente in precedenza (che faceva riferimento a una percentuale statistica), è stata sostituita da un’accezione qualitativa:il particolare svantaggio. Si tratta di una nozione di derivazione giurisprudenziale, elaborata dalla Corte di giustizia nella sentenza O’Flynn relativa ad un caso di discriminazione per nazionalità: la Corte stabilisce che per poter allegare l’esistenza di una discriminazione vietata è sufficiente anche solo che un unico individuo o uno specifico gruppo protetto sia svantaggiato da una certa disposizione. Tuttavia, né un trattamento indesiderato (molestie), né un trattamento sfavorevole (discriminazione diretta), né un particolare svantaggio (discriminazione indiretta) bastano a integrare una sospetta discriminazione se non si dimostra che vi è un nesso di causalità tra questi elementi e uno dei fattori vietati. Si tratta di un nesso OGGETTIVO: - il fattore vietato non deve necessariamente essere posseduto da l soggetto discriminato (oppure può essere posseduto dalla maggior parte dei soggetti discriminati ma non da tutti) - l’intento soggettivo non è determinante Il nesso di causalità deve essere ADEGUATO. Con un’avvertenza: non si chiede una prova diretta perché equivarrebbe a reintrodurre la richiesta della prova di un intento discriminatorio. Dunque, quel che è necessario è provare il fondamento discriminatorio di una condotta secondo una regola probabilistica, un criterio di ragionevole prevedibilità. Il senso comune, la comune esperienza, ciò che accade nella pratica possono , secondo la Corte di giustizia, essere sufficienti a far ritenere sussistente la discriminazione. Nonostante ciò, il dato statistico ha ancora un certo valore: agevola l’onere probatorio della parte ricorrente denota la dimensione di gruppo della discriminazione porta a un’ obiettivizzazione del giudizio Ad esso si può ricorrere sia nei casi di discriminazione collettiva che nei casi di discriminazione individuale. Deve trattarsi di una causa necessaria, ma non esclusiva. Es. caso di pluricausalità del licenziamento discriminatorio Se il risultato è che i lavoratori licenziati sono disabili o donne che hanno usufruito di congedi parentali, o omosessuali o attivisti sindacali e così via, l’interrogativo che sorge è se, pur giustificato alla luce delle ragioni dell’impresa, tali scelte non siano dovute a ai fattori di discriminazione. All’autore dell’atto spetterà dunque, dimostrare non solo che il licenziamento è sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo oggettivo, ma che la differenza non sussiste o che è dovuta a una delle eccezioni o giustificazioni al divieto di discrimine espressamente previste. Ciò significa che la presenza di una giustificazione tipica non vale a escludere di per sé una discriminazione. Non sempre è agevole distinguere tra discriminazione diretta e indiretta. Nel caso Chez, per esempio, la stessa Corte di giustizia si dichiara incapace di arrivare a una soluzione e rimette la qualifica al giudice nazionale. È importante, inoltre, sottolineare come ad opporsi ad un’ulteriore espansione delle competenze dell’UE, oltre agli stati membri siano state anche le imprese, che hanno interpretato le nuove proposte soltanto come vincoli e costi economici da sostenere. Ai conflitti esterni si sommano poi conflitti interni. È dubbio che si possa parlare di eguaglianza inclusiva. Infatti, a fronte di un principio di parità di trattamento tra italiani e stranieri sancito da varie norme di rango nazionale e sovranazionale, lo status dello straniero nel nostro ordinamento è ancora uno status dimidiato. Dimidiata è anche la condizione degli omosessuali che non possono accedere a condizioni materiali e giuridiche basilari, come il matrimonio, la procreazione, l’adozione. Così come l’uguaglianza di genere nel lavoro e nelle attività economiche. Tutto questo ci rimanda ai limiti del diritto. L’eguaglianza come principio giuridico può poco, se non è sorretto da pratiche politiche e sociali coerenti con l’ideale egualitario. I nuovi confini dell’eguaglianza: una “solidarietà fra estranei” L’eguaglianza ci costringe a interrogarci su quali siano i confini della comunità entro cui praticare la solidarietà. Il riferimento più immediato, quello della comunità di cittadini, non porta a risultati inclusivi: se la cittadinanza è il criterio, lo status di straniero fa si che gli immigrati non soddisfino le condizioni di godimento dei diritti. È per questo che l’idea stessa di cittadinanza si trasforma: i diritti si estendono a tutte le persone in virtù del loro abitare uno stesso territorio e del far parte di una stessa comunità di vita, e non in virtù della loro identità storica culturale. Questa diversa idea di cittadinanza è ripresa anche dall’art. 2 TU Immigrazione, che riconosce allo straniero presente (anche irregolarmente) sul territorio nazionale parità di trattamento con il cittadino italiano quanto alla titolarità dei diritti fondamentali istituiti dalle norme interne e dal diritto internazionale. Inoltre, fondamentale è riflettere sul concetto di popolo. Diversamente da quanto sostengono le visioni identitarie fisse e immutabili proposte dai nazionalismi e dai populismi risorgenti nel continente europeo e altrove, la percezione che una comunità ha di sé può cambiare nel tempo: il popolo non è un concetto definito e autosufficiente, ma è oggetto di una costruzione e ricostruzione di senso, cui non solo noi, i cittadini, ma anche loro, gli stranieri, partecipano. 12.Mobilitazione legale e mobilitazione sociale Anche in Italia, negli ultimi decenni, il diritto è stato utilizzato strategicamente da associazioni e istituzioni pubbliche (es. Asgi, Naga, CGIL, LGBTI ecc..) come leva di cambiamento sociale. A offrire lo spunto per sviluppare una riflessione teorica sull’uso del diritto all’interno di strategie di public interest litigation (cioè quella varietà di pratiche attraverso le quali gli attori, individuali o collettivi, utilizzano il diritto come strumento per promuovere le loro rivendicazioni nei confronti della società e del potere politico) è il caso Brown, nel quale la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilisce che la segregazione razziale nelle scuole pubbliche è incostituzionale. Gli storici sono divisi nel valutare gli effetti prodotti dalla sentenza Brown: negli anni subito successivi infatti i progressi furono estremamente lenti, anzi le leggi razziali vennero addirittura intensificate con le c.d. jim Crow Laws, eppure tutti i movimento che hanno cercato di contrastare nelle aule di giustizia le diseguaglianze fondate sul genere, sull’orientamento sessuale, sulla religione, sullo status da migrante e sulla disabilità continuano a ritornare a Brown. Questo perchè gli effetti non sono misurabili solo sul terreno dei numeri di quante siano le scuole effettivamente desegregate ma anche e soprattutto sull’impatto avuto dalla sentenza sulla popolazione. La decisone ha convinto gli afroamericani a credere che un cambiamento radicale fosse possibile. Inoltre le jim Crow Laws hanno portato al Civil right acts. In definitiva, l’eredità più duratura di Brown risiede nel suo valore simbolico, nella sua capacità di mostrare la forza e limiti del diritto, quello che il diritto può e non può fare. Il diritto può arrivare a rendere illegittimo un sistema consolidato di segregazione razziale (la dottrina del separate but equal), ma fallisce nell’abolirlo effettivamente se: - non è accompagnato da pratiche politiche e sociali coerenti con quell’obiettivo egualitario - non è sostenuto da movimenti sociali che hanno la finalità di combattere la discriminazione non solo nelle corti, ma in un contesto più ampio In mancanza di integrazione tra dinamiche giuridiche e dinamiche sociali, si rischia che l’azione in giudizio non si trasformi in azione collettiva e che le vittorie nei tribunali non si traducano in vittorie politiche. Di conseguenza, non sono solo la dottrina, i giudici e gli avvocati a praticare il diritto; in realtà lo fanno anche i componenti della comunità che tentano di indirizzare il diritto verso il cambiamento sociale e così facendo, lo interpretano. L’idea che la public interest litigation sia in grado di produrre cambiamenti sociali è venuta affermandosi anche in Italia (sistema di civil law), nonostante significative siano le differenze con la situazione e l’ordinamento americano: - non vi è una situazione paragonabile a quella degli Stati uniti in merito alla discriminazione razziale - non si ha un sistema di common law (sistema basato su precedenti giudiziari, dove la legge viene creata dal giudice nel momento in cui si trova di fronte a un caso concreto) NB: il superamento della contrapposizione tra common law e civil law deriva anche dalla crescente importanza della statuatory law nei primi e della case law nei secondi. CAP 2: I FATTORI DI DISCRIMINAZIONE 1.Come si individuano i fattori di discriminazione La tutela antidiscriminatoria fornisce dei rimedi giuridici alla disparità di trattamento che una persona può subire. Le disparità possono derivare da: o Caratteristiche ascritte indipendenti dalla volontà della persona (es. colore della pelle) o Opzioni (almeno in parte) volontarie attraverso cui l’individuo manifesta la propria sfera intima e personale (es. religione) In relazione al CHI del diritto antidiscriminatorio, secondo una classificazione proposta in dottrina, è possibile fare riferimento a 3 modelli: a) MODELLO A LISTA CHIUSA Tale modello comporta un approccio chiuso o tassativo che impedisce al giudice di ampliare la tutela a categorie non esplicitamente numerate. È possibile inoltre che un dato fattore sia tutelato in relazione a determinati ambiti materiali, ma non in relazione ad altri (es. la direttiva 2000/78/CE che riguarda le discriminazioni per età, orientamento sessuale, religione e convinzioni personali, handicap si applica al solo ambito lavorativo, mentre la Direttiva 2000/38/CE riguarda anche altri settori, come assistenza sanitaria, istruzione ecc..) b) MODELLO APERTO Tale modello è proprio del principio di eguaglianza che impone un trattamento normativo uguale per situazioni similari e differenziato in presenza di situazioni diverse. c) MODELLO A “LISTA APERTA” A ELENCAZIONE MERAMENTE ESEMPLIFICATIVA Tale modello si pone a metà strada tra i due precedenti e consiste nell’individuare, sia pure in modo non tassativo, alcuni fattori come meritevoli di tutela così da suggerire all’interprete dei criteri impliciti da seguire. L’esemplificazione migliore di tale tecnica legislativa è data dall’art. 14 CEDU che presenta un’elencazione aperta introdotta dall’inciso in particolare e un’espressione di chiusura che vieta le discriminazioni rispetto a ogni altra condizione diversa e ulteriore rispetto a quelle elencate. I tre modelli delineati possono essere compresenti all’interno dello stesso ordinamento. Così, per esempio, l’art 3 Cost si rifà al modello aperto (tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge), al modello a lista chiusa (senza distinzione di razza, sesso, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali) e al modello a lista aperta a elencazione meramente esemplificativa (condizioni personali e sociali). Criticità del modello a lista chiusa Discrezionalità del legislatore (salvo i correttivi apportati dalla giurisprudenza) nella scelta di quali fattori tutelare attraverso il diritto antidiscriminatorio. Egli può essere influenzato dal contesto sociale, ma anche dalla capacità di un certo gruppo di sensibilizzare la società civile nel suo bisogno di tutela. Discrezionalità del legislatore nella scelta del grado di tutela per ogni singolo fattore protetto. Questa tutela differenziata, in funzione del fattore, ha portato parte della dottrina a parlare, in relazione al diritto antidiscriminatorio UE, di un patchwork di protezione, se non di una sorta di gerarchizzazione tra fattori, essendo alcuni di questi protetti da altri. Tuttavia è evidente che, anche in questo secondo caso, la discriminazione è indissolubilmente legata al fattore religione e quindi si ritiene che la configurazione adottata sia stata preferita solo perchè così il giudice sarebbe stato libero di valutare una soluzione ragionevole e accettabile anche per il datore di lavoro (es. assegnazione di mansione non a contatto con il pubblico). La soluzione migliore sarebbe stata, invece, quella di giocare sulla nozione di requisito essenziale e determinante quale deroga alla disparità di trattamento: per ragioni di sicurezza o di igiene, per esempio, sarebbe legittimo per il datore di lavoro vietare di indossare specifici indumenti religiosi o simboli. 4.I fattori discriminatori La tutela antidiscriminatoria si differenzia in relazione ai singoli fattori vietati, sia per diversa origine storica e funzione, sia per gli ambiti di applicazione e le giustificazioni alla parità di trattamento ammesse. GENERE La costituzione (con l’art. 3 comma 1 e l’art. 37 comma 11) e il TCEE del 1957 (con l’art. 119 comma 1) hanno introdotto nei rispettivi ordinamenti, nazionale e sovranazionale, il genere come fattore di discriminazione vietata, seppure attraverso previsioni aventi portata, ambito di applicazione e funzioni diverse. L’inserimento del principio di parità di trattamento retributivo uomo-donna nell’ordinamento sovranazionale e nazionale è stato sorretto da ragioni diametralmente opposte: economica l’una e sociale l’altra. Tale differenza si è però nel tempo assottigliata. L’art 119 del trattato CEE pone un obbligo diretto nei confronti degli stati membri, è l’unica norma di carattere imperativo contenuta nelle disposizioni sociali del Trattato. Di conseguenza, con la sentenza Defrenne II, la Corte di giustizia: - ne ha riconosciuto la natura self-executing (essa ha efficacia diretta e validità erga omnes, è vincolante sia per l’autorità pubblica che per l’autonomia privata e collettiva) - l’ha definito come un diritto fondamentale della persona umana Un altro intervento significativo della Corte di giustizia è costituito dall’interpretazione e superamento delle rigidità connesse alla locuzione “medesimo lavoro” che, con il tempo, è diventata “lavoro di uguale valore”. Per quanto riguarda l’estensione della parità di trattamento all’occupazione e all’impiego, rileva l’art 157 TFUE, con cui si abbandona la dimensione salariale per estenderla a: Accesso al lavoro (tutte le modalità di ingresso nel mercato del lavoro es. tutela per donne incinte) Formazione Promozione professionale Condizioni di lavoro (le diverse modalità di recesso dal rapporto, quindi licenziamenti, dimissioni e risoluzioni per mutuo consenso es. licenziamento di lavoratrice in stato di gravidanza) Utilizzando la base fornita dall’art 157 , il legislatore comunitario ha adottato la direttiva n. 73 del 2002 e la direttiva n. 54 del 2006 allo scopo di rendere organico e omogeneo il diritto concernente l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. Nell’ordinamento interno, la legislazione in materia di divieto di discriminazione per ragione di genere ha seguito in parte le vicende normative sovranzionali. L’inserimento tardivo del sesso come fattore discriminatorio nel nostro ordinamento non ha una valida giustificazione, anche in riferimento all’art. 37 Cost e alle leggi in materia ( del 1977, del 1991), che pur presenti sono rimaste a lungo inattuate. Solo grazie ad una spinta del legislatore sovranazionale è stato adottato nel 2006 il c.d. Codice delle pari opportunità, poi modificato nel 2010. Codice comunque diffusamente criticato perchè inidoneo a contenere l’intero corpo di regole. NAZIONALITÀ (tra cittadini dell’UE) L’art. 18 TFUE vieta ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità. Il termine nazionalità, qui utilizzato, si riferisce alla disparità di trattamento tra i cittadini di uno stato UE e i cittadini di altri Stati appartenenti all’UE che si trovano a soggiornare nel primo per aver esercitato la libertà di circolazione. Il cittadino di uno stato membro dell’UE, tuttavia, non ha il diritto di essere ammesso a soggiornare nell’altro stato UE sempre e per qualsivoglia motivo. Il divieto di discriminazione per la nazionalità, infatti, opera solo nel momento in cui un cittadino di un Paese membro dell’UE abbia legittimamente esercitato o stia esercitando una delle libertà di circolazione previste dal trattato. Quindi, per quanto riguarda il campo di applicazione soggettivo: Inizialmente il principio di non discriminazione per la nazionalità operava solo in relazione a soggetti economicamente attivi (lavoratori dipendenti o autonomi e prestatori o fruitori di servizi), dagli anni ’90 anche in relazione a soggetti non economicamente attivi (studenti o pensionati) ma soltanto se in possesso di risorse economiche sufficienti e di un’assicurazione contro i rischi di malattia e di infortunio, di modo da non diventare un onere per lo stato membro ospitante. La Corte di Giustizia ha esplicitato tutto ciò nel caso Martinez Sala (1998). A questo punto è doveroso chiedersi se, nel momento in cui un cittadino UE soggiorna irregolarmente in un Paese dell’UE, lo stato può procedere al suo allontanamento. Secondo quanto stabilito dall’art. 14 della direttiva n. 38 del 2004 CE non vi è un automatico provvedimento di allontanamento, bisogna rispettare il principio di proporzionalità e tenere conto della solidarietà finanziaria tra gli Stati dell’UE. Un ulteriore problema riguarda quei cittadini europei che non hanno precedentemente esercitato alcuna libertà di circolazione e di soggiorno all’interno dell’UE. Può capitare infatti che il cittadino di uno Stato UE riceva sul proprio territorio nazionale un trattamento deteriore rispetto a quello che riceverebbe, sulla base del diritto UE, un altro cittadino UE che abbia esercitato una delle libertà fondamentali di circolazione. Si parla in questo caso di discriminazione inversa. La Corte di giustizia ritiene il trattamento deterrente irrilevante perchè dipendente da una situazione puramente interna e stabilisce di conseguenza che l’art. 18 TFUE non è invocabile. Questo non significa che il trattamento deterrente non possa essere censurato da organi giudiziari nazionali attraverso l’applicazione di principi dell’ordinamento interno (es. principio costituzionale di uguaglianza). RAZZA, ORIGINE ETNICA, PROVENIENZA GEOGRAFICA Razza, origine etnica e provenienza geografica sono fattori di difficile definizione. Essi però vengono tutelati a diversi livelli. A livello internazionale è importante ricordare la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (ICERED), redatta dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite ed entrata in vigore nel 1965 ed imprescindibile è il riferimento all’art. 14 CEDU che menziona, espressamente, tra i fattori tutelati la razza, il colore e l’origine nazionale Per quanto riguarda le fonti di diritto dell’UE, per le fonti primarie rileva l’art. 21 CDFUE e per le fonti derivate la direttiva n. 43 del 2000 CE, che dà tutela contro la discriminazione per razza e origine etnica. Nel diritto italiano, accanto all’art. 3 Cost, si deve ricordare il decreto n. 215 del 2003 con cui si è dato trasposizione alla direttiva europea. Oltre a questi, vanno ricordati gli art. 43 e 44 del TU immigrazione: L’art 43 elenca, al comma 1, i fattori tutelati, che sono razza, colore, origine nazionale o etnica, convinzioni e pratiche religiose e al comma 2 una serie non tassativa di comportamenti ritenuti discriminatori. L’art 44 disciplina un’apposita azione giudiziaria in materia di discriminazione, che concerne la discriminazione per motivi raziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi; si dà autonomo rilievo ai motivi linguistici e alla provenienza geografica. Come già affermato dare una definizione di tali fattori è difficile. Per esempio, la direttiva n. 43 del 2000 CE, non lo fa: il legislatore comunitario vuole mostrare di conoscere l’inesistenza scientifica del concetto di razza, ma, allo stesso tempo, si sente in dovere di fornire un’adeguata tutela. La direttiva n. 95 del 2011 invece afferma come il termine si riferisca a considerazioni inerenti al colore della pelle, alla discendenza e all’appartenenza a un determinato gruppo etnico. La stessa origine etnica, secondo quando stabilito dalla Corte di giustizia, non dipende soltanto dal luogo di nascita, ma da una pluralità di criteri. Utile è la considerazione sul punto della Corte Edu: Benchè i concetti di razza e etnia siano correlati e spesso sovrapponibili, il primo può essere ricondotto all’esistenza di caratteri fisiognomici che contraddistinguono un gruppo di persone proveniente dalla medesima area geografica, mentre il secondo si riferirebbe più agli aspetti legati alla cultura, alla lingua, alla storia di una data comunità. CITTADINANZA, NAZIONALITÀ e ORIGINE NAZIONALE Il termine nazionalità è di recente utilizzato come sinonimo di cittadinanza e indica l’insieme dei diritti e dei doveri in capo ad un individuo in un dato Stato territoriale. Può essere utilizzato anche per designare l’insieme degli individui che condividono elementi etnici o linguistici comuni, diversi da quelli del resto della maggioranza di popolazione; il termine nazionalità diviene dunque sinonimo di minoranza nazionale o etnica. Diverso è il significato di origine nazionale. Può fare riferimento: alla discriminazione che un soggetto subisce come conseguenza della sua precedente cittadinanza o di quella dei suoi avi AFFILIAZIONE E ATTIVITÀ SINDACALE Se nell’ordinamento europeo l’appartenenza sindacale è riconducibile nell’ambito della nozione di convinzioni personali, nell’ordinamento interno essa ha avuto un autonomo sviluppo. Affiliazione e attività sindacale sono i primi fattori di discriminazione ad aver fatto la loro comparsa nell’ordinamento italiano. La legge n.300 del 1970 all’art. 15 prevede la nullità di qualsiasi atto o patto diretto a: o subordinare l’occupazione di un lavoratore all’ adesione a una associazione sindacale ovvero al cessare di farne parte o licenziare un lavoratore, discriminarlo nelle assegnazioni delle mansioni o recargli altri pregiudizi a causa della sua affiliazione o attività sindacale o partecipazione ad uno sciopero o fini di discriminazione politica e religiosa La ratio della norma è quella di garantire il libero esercizio dell’attività sindacale, la libertà di manifestazione delle opinioni politiche e della fede religiosa. Il legislatore ha poi previsto all’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori una strumentazione processuale e rimediale particolarmente effettiva contro le condotte antisindacali del datore di lavoro. ORIENTAMENTO SESSUALE E TRANSESSUALE Si tratta di un fattore introdotto nel sistema sovranazionale dalla Direttiva n.78 del 2000 CE e trasposto nell’ordinamento interno con il decreto n.216 del 2003, ma che, in verità ha acquisito rilievo molto tempo prima nelle aule delle corti nazionali ed europee. La Corte di giustizia, infatti, ha svolto un ruolo di anticipazione e di pungolo nei confronti del legislatore sovranazionale. La necessità di tutelare i lavoratori contro le discriminazioni subite in ragione dell’orientamento sessuale e del transessualismo è emersa ed è stata sottoposta all’attenzione dei giudici di Lussemburgo in occasione dei famosi casi Grant e P., che hanno messo in evidenza l’insufficienza della normativa antidiscriminatoria limitata al solo fattore del genere. Con la sentenza Grant, i giudici sovranazionali hanno riconosciuto la discriminazione, ma non la tutela. Nella sentenza D. (riguardante la negazione di un beneficio sociale al compagno omosessuale in mancanza di vincolo di matrimonio), i giudici hanno addirittura negato la discriminazione. Con la sentenza K.B. (riguardante il diniego della pensione di reversibilità al partner convivente) la Corte compie un giro di boa e proprio grazie a questa pronuncia nella successiva sentenza Richards si ritiene discriminatorio il divieto per il soggetto, prima uomo poi donna, di beneficiare della pensione a 60 anni. Questo percorso ha portato all’adozione della Direttiva n.78 del 2000 CE (Direttiva quadro). La prima volta che la Corte di giustizia ha avuto modo di applicarla è stato in occasione del caso Maruko (riguardante il divieto di riconoscere al partner di unione solidale una pensione di vedovo). Per quanto riguarda l’ordinamento interno, il legislatore italiano è, invece, scivolato pesantemente su una previsione che denuncia chiaramente i pregiudizi nei confronti degli omosessuali. Egli, nell’art 3 comma 6 d.lgs. n. 216 del 2003, ha creato un pericoloso e ingiustificato parallelismo tra l’orientamento sessuale e i reati contro i minori e la pornografia. MA, d’altro canto la giurisprudenza ha fatto enormi passi avanti: la sentenza n.2400 del 2015 della Corte di cassazione ha riconosciuto il diritto al matrimonio agli omosessuali e ha affermato che il grado di tutela delle unioni sessuali deve essere equiparabile a quello matrimoniale sulla scorta del monito della Corte di Strasburgo (con cui l’Italia è stata ritenuta colpevole di non aver adottato la legislazione diretta al riconoscimento e alla tutela delle unioni civili tra persone dello stesso sesso)è stato approvata la legge n. 76 del 2016 (LEGGE Cirinnà) sulla regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e sulla disciplina delle convivenze. All’art. 1,in particolare, rileva la clausola di equivalenza. ETÀ È considerato il fanalino di coda tra i fattori introdotti dal legislatore europeo con la direttiva n.78 del 2000 CE, ma ha avuto un impatto dirompente come parametro di valutazione della legittimità: in generale, di tutte quelle disposizioni che utilizzano l’età come criterio per l’applicazione o no di una regola soprattutto, di disposizioni nazionali aventi finalità occupazionali Le disparità di trattamento connesse all’età possono trovare giustificazione se perseguono obiettivi legittimi di politica dell’occupazione, mercato del lavoro e formazione professionale. La direttiva quadro ha dedicato l’intero art. 6 alle possibilità di deroga, facendone un elencazione esemplificativa, e ha specificato che queste sono possibili quando: - sono oggettivamente e ragionevolmente giustificate da una finalità legittima - i mezzi per il conseguimento di tale finalità sono appropriati e necessari Se nel caso nella sentenza Mangold il primo requisito è ritenuto soddisfatto, il secondo no, perché la Corte ha applicato un test di proporzionalità rigido (Intensive scrutinity), diversamente da quanto fece nella successiva pronuncia Palacios de la Villa in cui il giudizio di proporzionalità venne basato non più sulla necessità, ma sulla mera ragionevolezza (searching security). La Corte ha dovuto interpretare la direttiva quadro per valutarne la compatibilità rispetto a alcune disposizioni presenti nell’ordinamento giuridico tedesco: Caso Wolf fissazione del limite massimo di 30 anni per l’assunzione nel servizio tecnico di medio livello dei vigili del fuoco. La Corte ha ritenuto che il requisito dell’età, imposto i ragione della forma fisica, fosse essenziale e determinante e ha verificato che fosse idoneo al perseguimento della finalità dichiarata. Caso Peterson fissazione del limite massimo di 68 anni per l’esercizio della professione di dentista convenzionato. La corte ha individuato 3 finalità: - tutela della salute dei pazienti - ripartizione delle possibilità di impiego tra generazioni diverse - equilibrio finanziario del sistema sanitario tedesco Solo la seconda e la terza giustificano l’applicazione della norma, la prima no. Caso Kucukdeveci decisione di non computare i periodi di lavoro svolti prima di una determinata età (25 anni) ai fini del calcolo dei termini di preavviso per il licenziamento. La Corte ha ritenuto la norma non appropriata e inidonea a garantire al datore di lavoro maggiore flessibilità nella gestione del personale e a rafforzare la tutela dei lavoratori in funzione del tempo trascorso nell’impresa. Nell’ordinamento italiano dubbi di compatibilità sono sorti in relazione all’art. 34 del d.lgs. n. 276 del 2003, secondo cui solo coloro che hanno meno di 25 anni possono stipulare un contratto di lavoro intermittente e dunque, al raggiungimento dell’età massima, essere licenziati. La Corte si è pronunciata nel senso della conformità alla Direttiva: in un contesto di perdurante crisi economica e di crescita rallentata, è preferibile che un giovane possa accedere al mercato del lavoro, anche se con un contratto flessibile e temporaneo, piuttosto che ritrovarsi disoccupato. DISABILITÀ Il fattore della disabilità è accumunato a quello dell’età perché ha, come questo, una regolamentazione peculiare. Vi sono esimenti speciali derivanti, oltre che dalla previsione comune di cui all’ art. 4.1 della Direttiva n. 78 del 2000 CE, anche dall’art 3.4, secondo cui la Direttiva non si applica alle forze armate per le discriminazioni fondate su disabilità e età. In fase di trasposizione, il legislatore italiano ha ampliato il campo di operatività delle deroghe: nel riprendere l’art. 4 in tema di requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, non ha specificato, come richiede il considerando 23, in quali casi strettamente limitati. Degno di nota è il cambio di prospettiva del legislatore sovranazionale: dalla tutela paternalistica (con l’applicazione di strumenti di diritto diseguale es. collocamento obbligatorio dei disabili) alla tutela antidiscriminatoria (con divieto di discriminazione diretta e indiretta, obbligo di adottare soluzioni ragionevoli). A tal fine, determinante è stato l’inserimento della disabilità tra i motivi di discriminazione vietati dall’art. 19 TFUE e dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. La prospettiva della tutela antidiscriminatoria è stata riaffermata con forza dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata nel 2006 e ratificata in Italia nel 2009. È stata la prima convenzione internazionale cui hanno aderito non solo i singoli stati, ma la stessa Unione Europea, con l’effetto di: - vincolare l’UE ad agire nel rispetto della Convenzione - vincolare la Corte di giustizia a interpretare la legislazione europea in modo compatibile con essa MA Se nella teoria è tutto molto chiaro, non lo è nella pratica, soprattutto in relazione al secondo punto. Infatti, la nozione di disabilità data dalla Corte di giustizia non è completamente coincidente con quella della Convenzione, per la quale la disabilità è una condizione che comprende le difficoltà a partecipare alla vita sociale e non soltanto le limitazioni all’esercizio della vita professionale. Per esempio, nella sentenza Z, la Corte ha ritenuto che la signora priva di utero che ha avuto una figlia con metodi alternativi non possa godere del congedo di maternità, non sussistendo una discriminazione fondata sulla disabilità, visto che la sua condizione (mancanza di utero) non ha effetti, in termini di limitazioni fisiche o psichiche, sulla sua vita professionale. Significativa, a livello esemplificativo, è anche la sentenza Kaltoft, con la quale la Corte ha escluso il ricorrente (babysitter obeso e per questo licenziato dopo 15 anni) dalla condizione di disabile perché perfettamente capace di svolgere il proprio lavoro, nonostante il motivo del licenziamento fosse proprio l’obesità e i pregiudizi ad essa connessi. Con riferimento all’infortunio, invece, in occasione della sentenza Daouidi, la Corte si è dichiarata incompetente a valutare se l’infortunio subito dal ricorrente potesse considerarsi disabilità ai fini possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche diverse da quelle del resto della popolazione. A livello sovranazionale, la tutela delle minoranze è prevista dall’art. 10 CEDU e dall’art. 14. Per quanto riguarda l’Unione europea rileva l’art. 19 TFUE, l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e il fatto che uno dei requisiti per diventare Stato membro sia il rispetto e la protezione delle minoranze. Nell’ordinamento interno è importante l’art. 6 Cost. A metà degli anni novanta, il Consiglio d’Europa ha approvato, e l’Italia ratificato, una convenzione-quadro per le minoranze nazionali, istituendo un comitato consultivo per la protezione delle stesse. Il comitato ha affermato più volte che l’esclusione dei Rom dalla tutela linguistica della Convenzione determina una violazione dell’art. 3 della Convenzione e dunque che essi, nonostante non rientrino nella legge n. 482 del 1999 perché non ancorati a un territorio, possano beneficiare della protezione prevista dalla Convenzione. Un ruolo determinante nella tutela delle minoranze è svolto dal diritto antidiscriminatorio: Tutela penale prevista dalla legge n. 654 del 1975, poi integrata e modificata, con la quale l’Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. D. lgs. n. 215 del 2003 attuativo della Direttiva comunitaria n. 43 del 2000 TU immigrazione Tuttavia, gli strumenti descritti sono senza dubbio insufficienti e incapaci di soddisfare le esigenze di tutela delle persone coinvolte. NASCITA, CONDIZIONI SOCIALI e PATRIMONIO sono fattori idonei a produrre degli effetti penalizzanti perché comportano una condizione di svantaggio sociale. Al fine di riequilibrare la situazione, il legislatore sovranazionale, col regolamento n. 800 del 2008, ha disciplinato alcune ipotesi in cui gli aiuti di Stato sono autorizzati. Es. lavoratori svantaggiati e disabili, quindi, secondo quanto stabilito dalla circolare n.41 del 2004, anziani, giovani, donne residenti in particolari aree geografiche, appartenenti a una minoranza etnica. 7.I fattori c.d oggettivi I fattori oggettivi riguardano condizioni personali che non sono frutto di una scelta ma che dipendono, ad esempio, dall’essere parte di un contratto di lavoro atipico (part-time, a tempo determinato, di somministrazione), in ragione del quale subiscono un trattamento differenziato rispetto ai lavoratori con contratto standard (a tempo pieno e a tempo indeterminato). In passato la giurisprudenza ha adottato numerose pronunce, ora il divieto di discriminazione dei lavoratori con contratto atipico è stato esplicitamente inserito nella disciplina sovranazionale, e, di seguiro, nazionale. CAP 3: LE DISCRIMINAZIONI NEL RAPPORTO DI LAVORO 1.La nozione di lavoratore La normativa discriminatoria si applica a tutte le persone con specifico riferimento ad alcune aree, che variano in base al fattore protetto. Accesso al lavoro e condizioni di lavoro costituiscono aree particolarmente importanti in quanto tutti i principi di non discriminazione sono qui applicabili. È utile, dunque, chiarire chi sono le persone che lavorano e quelle che accedono al lavoro; per entrambe le definizioni occorre fare riferimento alla giurisprudenza della Corte di giustizia. Il LAVORATORE, secondo i giudici europei, è la persona che fornisce, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione. L’attività svolta deve inoltre essere reale ed effettiva. Non rileva il c.d nomen iuris: la qualificazione formale di lavoratore autonomo ai sensi del diritto nazionale non esclude che una persona debba essere qualificata come lavoratore se la sua dipendenza è solo fittizia. I lavoratori autonomi, pur non rientrando nell’ambito di applicazione dell’art. 157 TFUE e delle direttive sui lavoratori atipici, beneficiano di taluni principi di non discriminazione come specificato in diverse direttive (es. n. 43 e 78 del 2000, n. 54 del 2006, n. 41 del 2010). Ai sensi della Direttiva n. 41 del 2010 UE, è lavoratore autonomo chiunque eserciti, alle condizioni previste dalla legislazione nazionale, un’attività lucrativa per proprio conto. I requisiti che qualificano il lavoro autonomo sono dunque tre: - L’esercizio di un’attività economica - La presenza di un corrispettivo - L’assenza di un vincolo di subordinazione Di conseguenza, la definizione è sovrapponibile a quella di impresa Nel recepire la normativa comunitaria, il legislatore, senza alcuno sforzo di armonizzazione, ha: riprodotto quanto affermato dalle Direttive modificato maldestramente i testi normativi già in vigore Ad esempio, nell’art 37 CPO (codice delle pari opportunità) si fa riferimento al divieto di discriminazione per quanto riguarda l’ accesso al lavoro sia in forma subordinata che autonoma. Nell’art. 55-ter CPO si prevede un divieto di discriminazione diretta e indiretta per quanto riguarda l’esercizio del lavoro, ma non per l’esercizio del lavoro autonomo, a cui va applicata una disciplina diversa. Si ha un risultato assurdo: il criterio discriminatorio è vietato nell’accesso al lavoro, ma potrebbe essere legittimamente posto in essere una volta stipulato il contratto di lavoro, quindi per esempio per licenziare un lavoratore. La soluzione, per rimediare a tale paradosso, è interpretare estensivamente il termine occupazione, citato dalla direttiva n. 43 e 78 del 2000 CE all’ art. 3.1 lett. c che ne descrive il campo di applicazione, così da ricomprendervi anche il lavoro autonomo. LE PERSONE che ACCEDONO AL LAVORO sono quelle persone che cercano lavoro o che compiono attività finalizzate all’accesso al lavoro, inclusi tirocini, stage, corsi di formazione. Essi, come chiarito dalla Corte di giustizia, beneficiano dei principi di non discriminazione sia nel lavoro autonomo che subordinato. 2.L’ambito della comparazione Per dimostrare che un trattamento produce effetti svantaggiosi nei confronti di un soggetto o di un gruppo individuato in base a un fattore protetto è talora necessario comparare tale trattamento con quello riservato ad un altro soggetto o gruppo. Se il trattamento svantaggioso è espressamente fondato su un fattore protetto, non è necessaria alcuna comparazione. Es. la Corte di giustizia ha affermato che un trattamento svantaggioso per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne e rappresenta quindi una discriminazione diretta a motivo di sesso; la mancanza di candidati maschi da comparare non ha alcuna incidenza. La comparazione è, invece, meramente ipotetica se “un trattamento sfavorevole risulta collegato in modo induttivo, sulla base di fatti notori, alla presenza di uno dei fattori di rischio” Es. la Corte di cassazione francese ha escluso l’esigenza in concreto della comparazione nel caso di una lavoratrice domestica, straniera e priva di permesso di soggiorno, che, per questo, non poteva presentare alcun reclamo contro il datore di lavoro. Altro caso deciso dalle corti francesi, riguarda la discriminazione sindacale: in tale ipotesi la prova della discriminazione può emergere dal diverso trattamento riservato allo stesso lavoratore nel periodo in cui ha svolto attività sindacale e nel periodo in cui non l’ha fatto. Il legislatore europeo ammette talora espressamente la comparazione ipotetica. Nell’art. 5 della Direttiva n. 104 del 2008 CE, per esempio, si afferma che in caso di applicazione del principio di non discriminazione a favore dei lavoratori somministrati, la comparazione è sempre possibile. Per la comparazione bisogna individuare un lavoratore dell’impresa utilizzatrice che abbia le stesse mansioni del soggetto discriminato, se non c’è, è possibile utilizzare un lavoratore precedemente occupato, anche se in questo caso la differenza di salario può dipendere da fattori estranei a qualsiasi discriminazione. La comparazione ipotetica è stata ammessa anche per l’applicazione del principio di non discriminazione in favore dei lavoratori a termine (Direttiva 99/70/CE). Vi sono infine i casi di discriminazione multipla, in cui la comparazione non si addice alla prova della discriminazione: le persone discriminate in ragione di una pluralità di fattori protetti non sono comparabili alle persone discriminate in ragione di un solo fattore. A parere dei giudici europei, se si applicasse il criterio del conglobamento, sovente utilizzato dal legislatore interno, non si garantirebbe una vera trasparenza, una trasparenza che consenta un controllo giudiziale efficace. Ciò rileva non soltanto per la parità di retribuzione tra maschi e femmine, ma anche, in linea generale, per tutti gli aspetti del principio di parità di trattamento. In base al criterio del conglobamento, infatti, il lavoratore non dovrebbe ricevere “un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore comparabile”, ma potrebbe riceverlo in riferimento ad un unico elemento. Al fine di individuare il soggetto/gruppo comparabile, sono spesso necessarie informazioni di cui solo il datore di lavoro dispone. L’importanza dell’obbligo per il datore di mettere a disposizione i documenti necessari per verificare la discriminazione è sottolineata in un rapporto della commissione europea, ma il legislatore italiano non ha previsto alcun obbligo diretto. Inoltre, l’individuazione dei soggetti comparabili è stata resa ulteriormente più complessa dal decentramento e dalla tendenza all’individualizzazione del rapporto di lavoro. Le difficoltà sono ancora maggiori in caso di impiego indiretto della manodopera dove i documenti vanno richiesti a soggetti diversi dal dator di lavoro. 3.L’accesso al lavoro e al mercato del lavoro Principio di non discriminazione, azioni positive e tutela nel mercato Quando, come accade attualmente, la norma inderogabile perde la sua centralità il diritto antidiscriminatorio torna a esercitare pienamente la sua funzione. Esso opera sia quando il rapporto di lavoro è già costituito, sia nella fase precedente. In particolare acquista un ruolo significativo di fronte alla discrezionalità del datore nella scelta del lavoratore da assumere. Per quanto riguarda il diritto comunitario, il divieto relativo ai vari fattori in fase di assunzione ha da sempre trovato applicazione: Art. 14 Direttiva rifusione (2006/54/CE) in tema di parità di trattamento tra uomini e donne Art. 3 Direttiva n.43 (razza e origine etnica) e n.78 (direttiva quadro) Ma qual è esattamente il contenuto del vincolo di parità nella fase di accesso al lavoro? Certamente la prescrizione paritaria comprende il divieto di negare la conclusione del contratto in relazione a un fattore protetto o di proporre condizioni di lavoro diverse in relazione ai fattori vietati. Ma che altro? In proposito, sorgono due problemi. 1) Confronto conflittuale tra divieto di discriminazione e azione positiva Spesso nel campo dell’avviamento al lavoro si ricorre a misure specifiche dirette a compensare o evitare svantaggi correlati a uno dei fattori vietati (azioni positive). Es. corsi di formazione per sole donne o contributi economici che rendano più conveniente l’assunzione di determinati gruppi di lavoratori Così, ad esempio, il d.lgs n. 276 del 2003 CE aveva previsto, in funzione della promozione del loro inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro, condizioni di assunzione meno tutelanti per i lavoratori svantaggiati (tra i quali secondo quanto stabilito da Regolamento CE del 2002, a cui il decreto fa riferimento, erano comprese anche categorie protette dal diritto antidiscriminatorio come le donne, i giovani e gli stranieri). Siamo, dunque, di fronte a una discriminazione o a un’azione positiva? La questione è stata superata con la sostituzione del Reg. 2204 del 2002 con il Reg. n.800 del 2008 che ha abbandonato il riferimento ai fattori vietati dal diritto antidiscriminatorio (salvo che per l'età e la disabilità), ma è comunque significativa della tensione tra divieto e bisogno di trattamenti differenziati in sede di assunzione, cioè tra salvaguardia il divieto di discriminazione ed esigenza di compensare le distorsioni del mercato del lavoro. Il conflitto più rilevante in proposito si manifesta, peraltro, in relazione al fattore età. Per effetto dell’art. 6 della direttiva n. 78 del 2000 CE, il fattore età può essere direttamente indicato come criterio selettivo in sede di assunzione, a condizione tuttavia che siano rispettati i criteri di giustificazione indicati dalla norma. MA la Corte di giustizia non ha avuto, in ordine a detti criteri, una posizione univoca: o In un primo tempo ha affermato che riservare l'assunzione con tipologie contrattuali svantaggiose per il prestatore soltanto a gruppi contraddistinti da una determinata età, pur rispondendo alla finalità legittima di favorire l'occupazione per soggetti maggiormente esposti al rischio di disoccupazione, non costituisce un mezzo proporzionato ogni qual volta il requisito anagrafico venga indicato in quanto tale, senza alcun riferimento ad altre caratteristiche personali che diano ragione del particolare trattamento (es. Sentenza Mangold). o In un secondo tempo, la Corte ha mutato completamente orientamento, affermando che un requisito di età per accedere a un contratto a tutele ridotte risponde non solo a una finalità legittima, ma costituisce di per sé un mezzo proporzionato perché è immaginabile che le aziende possono essere sollecitate dall' esistenza di uno strumento poco vincolante e meno costoso rispetto al contratto ordinario e, quindi, incentivate ad assorbire maggiormente le domande d’impiego provenienti da giovani lavoratori (es. Sentenza Abercrombie) riferita al contratto a chiamata di cui all'articolo 34 comma due decreto legislativo numero 276 del due mila e tre L’esito dei due percorsi è di radicalmente diverso. 2) Momento ove collocare l’insorgere del diritto alla parità: solo quando una trattativa è avviata o anche in una fase antecedente il contratto tra le parti? La risposta della Corte di giustizia è molto netta: secondo quando affermato nella sentenza Feryn il principio paritario opera molto prima della fase precontrattuale e impedisce che venga imposto ai gruppi protetti uno svantaggio anche solo in termini di mero scoraggiamento dal candidarsi per un determinato posto di lavoro. La giurisprudenza nazionale ha, quindi, fatto corretta applicazione, sia in primo che secondo grado, del principio Feryn nel caso di una intervista radiofonica a un avvocato che dichiarava di non voler assumere collaboratori o dipendenti omosessuali. MA la corte di Cassazione ha sollevato un dubbio, sostenendo che non vi può essere alcuna discriminazione se al momento della dichiarazione non era stato indetto alcun concorso perché si tratterebbe semplicemente di una manifestazione di pensiero priva di effetti nel mercato del lavoro,che come tale non può essere sanziona in forza del diritto alla libertà di espressione. Principio di non discriminazione, requisito essenziale della prestazione e cause di giustificazione Nel campo dell’accesso al lavoro, il diritto antidiscriminatorio apre uno spazio aggiuntivo all’utilizzo dei fattori vietati, laddove introduce la nozione di “requisito essenziale alla prestazione”, che è invece estranea agli altri campi della vita sociale e alle altre tipologie contrattuali. NB: In realtà nella vita quotidiana, non di rado capita che, anche in campi diversi da quello lavorativo, fattore vietati vengono presi in considerazione al fine di selezionare il contraente (si pensi all’accesso alla casa e al classico cartello “non si affitta a stranieri”) ma l’ordinamento non consente che in questi campi un fattore vietato possa essere qualificato come requisito essenziale per accedere al contratto. Nel lavoro, invece, avendo riguardo all’elemento personalistico che caratterizza il rapporto di lavoro, questo è possibile, ma entro i limiti delineati: - dagli artt. 4 della Direttiva 2000/78/CE e 2000/43/CE - dall’art. 14.2 della Direttiva 2006/54/CE Cioè quando per il contesto in cui l'attività lavorativa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per il suo svolgimento, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato. Tali criteri di essenzialità e proporzionalità devono ovviamente essere rispettati sia laddove si pretenda di utilizzare direttamente il criterio vietato, sia laddove si pretenda di utilizzare un criterio apparentemente neutro, ma in realtà svantaggioso per un gruppo protetto. Vediamo ora come le problematiche, relative all’applicazione dei criteri, hanno trovato sviluppo con riferimento ai diversi fattori di discriminazione. Quanto al GENERE, va subito ricordato che l'appartenenza al sesso maschile quale requisito essenziale per accedere a determinate professioni appartiene al passato, ma un passato non troppo lontano, se pensiamo che ancora all'Assemblea costituente, nel dibattito sull'articolo 51 e con riferimento all'accesso alla magistratura, è stato affermato che la donna non è indicata per la difficile arte di giudicare; questa richiede grande equilibrio e alle volte l'equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche. Nel primo caso i criteri sono quelli di cui all'art. 9, co. 2, CEDU che ammette limitazioni solo in quanto necessarie, in una società democratica: - alla Pubblica sicurezza - alla protezione dell'ordine, della salute e della sicurezza pubblica - alla protezione dei diritti o delle libertà altrui Criteri dunque piuttosto ampi (tanto da aver consentito alla Corte di Strasburgo di legittimare limitazioni determinate dalla necessità di preservare il valore del vivere insieme, del quale la visibilità del volto è stata ritenuta una componente essenziale), ma le limitazioni devono essere stabilite dalla legge o comunque in una sede pubblica ove gli interessi contrapposti possano essere adeguatamente comparati secondo principi di imparzialità, escludendo così ho un potere unilaterale di soggetti privati o pubblici. Per il datore di lavoro invece i criteri sono quelli di cui ai citati artt. 4 delle Direttive 2000/43/CE e 2000/78/CE e dunque la possibilità di richiedere un determinato abbigliamento passa attraverso il vincolo del “requisito essenziale della prestazione”. In proposito la sentenza della Corte di giustizia Achbita riconosce il diritto del datore di lavoro di perseguire, per sua insindacabile scelta, una politica di assoluta neutralità dell'immagine aziendale, con conseguente diritto di pretendere dai lavoratori dell’azienda un abbigliamento privo di connotazioni religiose, politiche o filosofiche. È già stato segnalato che, così argomentando, la Corte sceglie di comparare tra loro i soli lavoratori che desiderano ostentare un simbolo, concludendo che se tutti i simboli sono vietati non vi sarebbe disparità di trattamento; ma omettendo così una comparazione con quante sono avvantaggiati nell’accesso al lavoro perché privi dell'esigenza di ostentazione. La scelta, inoltre, gioca a discapito di una tutela della identità del dipendente che in un ordinamento ove il lavoro è considerato anche luogo di realizzazione della persona, dovrebbe invece avere adeguato rilievo. Non a caso la corte di giustizia ha in parte corretto il tiro con la sentenza Bougnaoui, precisando che i meri desiderata del cliente non possono costituire ragione giustificatrice del divieto di abbigliamento religiosamente connotato. Resta solo da precisare che la questione si pone in termini diversi in fase di rapporto già costituito e in fase di assunzione: nel primo caso, il tema del requisito essenziale andrà coordinato con le norme in tema di licenziamento, dovendosi quindi tener conto della preesistenza o meno della norma limitatrice, dell' affidamento del dipendente e della sua buona fede e soprattutto della possibilità di consentire il mantenimento del simbolo affidando al dipendente mansioni che non coinvolgano l'immagine aziendale (in applicazione estensiva di un obbligo di “accomodamento ragionevole” che nasce nell’ordinamento con riferimento al fattore disabilità, ma può trovare applicazione a tutti i fattori). Nel secondo caso, invece, il margine di discrezionalità di cui gode il datore di lavoro è più ampio e può risultare difficile la verifica, in concreto, della connessione tra rifiuto di assunzione e abbigliamento religiosamente connotato. Es. In uno dei pochi casi in cui tale connessione era stata esplicitata dal selezionatore (che aveva espressamente motivato la mancata stipula del contratto con la dichiarazione della candidata di voler mantenere il nihab) la Corte d'appello di Milano ha negato che l'assenza del copricapo potesse rappresentare requisito essenziale della prestazione per un breve lavoro di hostess a una fiera di scarpe, ha quindi concluso per la non essenzialità del requisito Quanto infine al fattore CONVINZIONI PERSONALI, non vi è dubbio che qualsiasi tentativo di selezionare il personale da assumere tenendo conto delle sue convinzioni personali ivi comprese quelle politiche o sindacali sia del tutto illegittimo, come peraltro sanciva ben prima dell'avvento delle nuove direttive anti discriminatorie già l'art. 15 della legge n. 300 del 1970. In proposito, il punto di saldatura tra vecchio e nuovo diritto antidiscriminatorio è rappresentata dalla vicenda Fiat e dalla decisione del tribunale di Roma prima e della Corte d'appello poi di qualificare come discriminatoria la decisione della Fiat di escludere - nella scelta degli ex dipendenti dello stabilimento di Pomigliano da ricollocare - gli iscritti alla organizzazione sindacale Fiom. Una disciplina particolare è riservata dall’articolo 4 della Direttiva CE n. 78 del 2000 a CHIESE O ALTRE ORGANIZZAZIONI PUBBLICHE O PRIVATE LA CUI E OTTICA È FONDATA SULLA RELIGIONE O SULLE CONVINZIONI PERSONALI. Queste, anche in fase di accesso al lavoro, sono legittimate a dare rilievo al fattore religione o convinzioni personali, laddove questi fattori, in relazione alla natura dell'attività e al contesto in cui viene esercitata, costituiscono un requisito essenziale, legittimo e giustificato. Sono tre in proposito, le questioni principali che si pongono. 1) l'individuazione di quando un organizzazione (specie se privata e quindi regolata dal principio di autonomia contrattuale) possa ritenersi portatrice di una etica basata sulle convinzioni personali, posto che una eccessiva estensione della interpretazione potrebbe portare qualunque impresa a vantare un'etica di tal genere e quindi un potere di selezionare i dipendenti sulla base della conformità alle “convinzioni” dell’impresa stessa. Trattandosi di deroga eccezionale al regime generale, il criterio sarà restrittivo. 2) la corretta interpretazione del riferimento “alla natura delle attività e al contesto in cui vengono espletate” che porta a escludere la possibilità di dare rilievo alla pretesa dell’ente se le mansioni cui si riferisce l'assunzione sono neutre, cioè non sono di per sé significative dell’etica dell'organizzazione. 3) La rilevanza del solo fattore religione o convinzioni personali, con esclusione, quindi, di qualsiasi regime di favore per gli altri fattori Es. nel caso in cui il giudice ha dovuto valutare se un determinato orientamento sessuale potesse ritenersi requisito essenziale per la assunzione come insegnante di educazione artistica in una scuola di orientamento cattolico. Il giudice (sia di primo che di secondo grado), esaminato il progetto educativo della scuola, non solo ha escluso che tale caratteristica personale potesse rappresentare requisito essenziale e determinante, ma ha soprattutto respinto il tentativo del datore di lavoro di beneficiare del più favorevole regime previsto per le organizzazioni di tendenza qualificando l'orientamento sessuale come elemento costituitivo della dottrina cattolica, giacché, così argomentando, si sarebbe esteso detto regime di favore anche a favore diverso dalla religione. L'insieme delle problematiche relative alle organizzazioni di tendenza hanno poi trovato risposte organiche e significative in due sentenze della Corte di giustizia su casi tedeschi. La prima è relativa a una causa nella quale una candidata non aderente ad alcuna confessione religiosa lamentava di non essere stata assunta, proprio a causa di tale caratteristica, da una Chiesa Evangelica per un posto di lavoro per la elaborazione di un progetto in tema di diritti umani. La seconda riguarda il caso di una società di capitali collegata alla Diocesi di Colonia e avente come scopo lo svolgimento di attività caritatevoli che aveva licenziato un medico primario ospedaliero, per avere questi contratto un nuovo matrimonio civile dopo il divorzio dal primo matrimonio contratto secondo il rito cattolico. In tali sentenze (la seconda delle quali non inerente la fase di assunzione) la Corte ha precisato i criteri interpretativi che delimitano l’ ambito di operatività dell’eccezione prevista per le organizzazioni di tendenza. Ha affermato che, nonostante il diritto dell'unione intenda tutelare l'autonomia delle Chiese, è pur sempre necessario che gli Stati membri prevedano forme di controllo giurisdizionale sull'effettiva natura dell’ente e sulla connessione tra detta natura e il concreto posto di lavoro di cui si tratta Ha affermato che l'aggettivo “essenziale” deve essere interpretato nel senso che l'appartenenza alla religione o l’adesione alle convinzioni personali su cui si fonda l'etica dell’organizzazione deve essere necessaria a causa dell'importanza dell'attività professionale di cui trattasi, per l'affermazione di tale etica o per l'esercizio da parte dell’ente del proprio diritto di autonomia Ha affermato che con l'aggettivo “legittimo” si vuole garantire che il requisito non sia utilizzato dall'organizzazione di tendenza per fini estranei all’etica su cui la stessa si fonda o estranei alla difesa su autonomia. Ha affermato che a causa dell'aggettivo “giustificato” l'organizzazione di tendenza ha l'onore di dimostrare che il rischio di lesione per la sua etica o il suo diritto all’autonomia è probabile e serio e che, pertanto, l'introduzione del requisito è effettivamente necessaria. Così, nel caso del medico ospedaliero, la Corte ha potuto precisare che la adesione al carattere sacro e indissolubile del matrimonio non costituisce condizione essenziale per lo svolgimento di un'attività di tipo prevalentemente tecnico. Quanto all’ETÀ si è già detto che è l’unica tra i fattori vietati a godere del particolare regime di ammissione delle “cause di giustificazione” (riferite a particolari ragioni di mercato del lavoro). Nella fase di accesso al lavoro, l'età può tuttavia anche rilevare come il requisito essenziale della prestazione. La giurisprudenza comunitaria sul punto è particolarmente ampia. Es. in particolare la sentenza della Corte di giustizia Vitale Peréz, secondo la quale il requisito di età inferiore a 30 anni per l'assunzione nella Polizia Locale deve ritenersi non proporzionato, ben potendo i requisiti fisici necessari a sussistere a prescindere dall'età; e la sentenza Wolf, secondo la quale, invece, il limite di 45 anni per l'assunzione nel corpo dei vigili del fuoco non è in contrasto con la direttiva. In questa prima fase di progressivo ampliamento, come si è visto, i cittadini dei paesi terzi non sono stati coinvolti e l’art. 14 della Convenzione OIL, che ammette limitazioni all’accesso solo se necessarie all’interesse dello stato, è rimasto inattuato. I giudici di merito allora si sono schierati nel senso di una lettura costituzionalmente orientata che consentisse l’accesso anche dei cittadini dei paesi terzi, a parità di condizione con i cittadini dell’UE. Nel frattempo sono entrate in vigore le direttive dell’Unione, ma solo la n.83 del 2004 è stata recepita con tempestività, le altre hanno dovuto attendere la legge europea di adeguamento a direttive già scadute (2013) che ha modificato l’art. 38 TU pubblico impiego e ha consentito l’accesso al pubblico impiego anche a: - familiari di cittadini comunitari non aventi la cittadinanza di uno stato membro - titolari dello status di rifugiato - titolari di permesso di soggiorno UE di lungo periodo Oggi, dal punto di vista quantitativo, il rapporto tra regola ed eccezione è ormai invertito e l’ampiezza delle deroghe al vincolo di cittadinanza ha intaccato il fondamento stesso della limitazione: se il lungo soggiornante può identificarsi e perseguire con diligenza fini pubblici, allora può farlo anche una qualsiasi altra persona straniera o con una diversa tipologia di permesso di soggiorno. Gli enti economici che operano sotto il controllo pubblico , e che quindi non fanno parte della PA, non sono soggetti alle limitazioni di cui all’art. 38: si attengono al principio paritario che ammette all’assunzione tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti (art 2 c.3 TU Immigrazione). MA nel 2008 il legislatore è intervenuto, obbligando gli enti ad adottare criteri e modalità analoghi a quelli della PA. Bisogna quindi applicare le medesime limitazioni? La giurisprudenza ha negato questa interpretazione estensiva, sostenendo che ad essere trasporti debbono essere solo i principi di trasparenza e imparzialità. La questione del servizio civile non è sovrapponibile, anche se la ratio è la medesima, con quella del pubblico impiego: a) i giovani in servizio civile non sono dipendenti pubblici b) la norma costituzionale a cui si fa riferimento non è la 51, ma la 52 (“la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”) Il servizio civile è lo strumento che permette di partecipare in modo attivo alla costituzione di una democrazia sana e di nuove forme di cittadinanza e quindi, secondo la Corte Costituzionale, proprio perché carico dei citati valori, resta collocato in quella sfera di diritti per i quali sono ammesse, tra italiani e stranieri, soltanto distinzioni proporzionate e ragionevoli. La distinzione in questione è stata ritenuta non proporzionale e non ragionevole. CAP 7: LA TUTELA GIURISDIZIONALE 1.Un diritto affidato solo ai giudici? L’art 24 Cost, l’art. 6 CEDU e l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali sanciscono il principio della tutela giurisdizionale effettiva: i cittadini hanno diritto a un processo efficace e idoneo a ristabilire il diritto violato. La violazione di un qualsiasi diritto deve godere di “rimedi” (sanzioni e strumenti processuali) qualificati da quattro requisiti indefettibili: efficacia, proporzionalità, dissuasività ed equivalenza. Nel diritto antidiscriminatorio la funzione giurisdizionale assume un ruolo ancora più importante, in questo settore infatti: a) il conflitto è di solito tra un gruppo sociale svantaggiato e un gruppo sociale di maggioranza, è quindi utile l’intervento di un’autorità terza che vada a riequilibrare i poteri, consentendo anche alla parte più debole di far valere i propri interessi b) la mera considerazione dei principi slegata da una attenta valutazione del caso concreto è spesso di scarsa utilità 2.I due riti del processo antidiscriminatorio Il processo discriminatorio si è subito avviato su due strade divergenti. Per quanto riguarda le discriminazioni di genere (per le quali le azioni giudiziarie sono state e sono disciplinate dal libro III titolo I capo III del CPO), i cardini della disciplina sono rimasti inalterati: riconosciuta coesistenza del rito speciale con l’azione ordinaria, la quale è espressamente dichiarata ammissibile struttura del giudizio: ricorso in Tribunale – giudizio a cognizione sommaria – decisione con decreto – eventuale opposizione entro 15 giorni davanti allo stesso tribunale con instaurazione del giudizio di merito (come quella prevista per il procedimento di repressione della condotta antisindacale) competenza territoriale: luogo dove è avvenuto il comportamento denunziato Per quanto riguarda le altre discriminazioni (le cui azioni giudiziarie sono disciplinate nell’art. 44 TU Immigrazione): non riconosciuta coesistenza della dottrina del rito speciale con l’azione ordinaria, ma la giurisprudenza si è orientata diversamente struttura del giudizio: ricorso al tribunale – giudizio a cognizione sommaria – decisione con ordinanza – eventuale reclamo di fronte al tribunale – eventuale successiva introduzione del giudizio di merito competenza territoriale: luogo di domicilio del ricorrente La Cassazione ritiene che tale procedimento vada qualificato come bifasico perché strutturato sulla falsa riga del procedimento cautelare uniforme, ciò comporta: Un PREGIO la tempestività delle decisioni Due DIFETTI la definitiva differenziazione col procedimento previsto per le discriminazioni di genere e la possibilità che, nel tempo necessario ai due gradi di giudizio, le parti perdano interesse a coltivare ulteriormente il contenzioso Le cose sono radicalmente mutate con il decreto “tagliarti” (2011), che ha ridotto i riti speciali codificati a tre soli riti (ordinario, del lavoro e sommario di cognizione). Tutte le azioni discriminatorie, tranne quella di genere, sono state collocate nel rito sommario di cognizione e quindi si svolgono secondo il rito cautelare uniforme disciplinato agli art. 702-bis, ter e quater del c.p.c. La permanenza nell’ordinamento di riti speciali diversi per fattori diversi o addirittura per lo stesso fattore di discriminazione (genere in ambito lavorativo e genere nell’accesso a beni e servizi) è priva di qualsiasi giustificazione. Tanto più considerata la maggiore efficacia del sistema previsto all’art. 702-bis rispetto a quello di cui all’art. 38 CPO che prevede una duplicazione del giudizio davanti al medesimo organo giudiziario. MA, soprattutto, ciò impedisce di prospettare in giudizio l’esistenza di discriminazioni multiple o interiezionali: una donna esclusa dal lavoro perché velata non può far valere in unico giudizio la discriminazione per religione e la discriminazione indiretta di genere. 3.Il giudizio antidiscriminatorio secondo il rito sommario di cognizione Nonostante le azioni discriminatorie, ad eccezione di quelle di genere, siano soggette al rito sommario di cognizione ex art. 702 c.p.c, permangono diverse particolarità: - possibilità di stare in giudizio senza assistenza di un avvocato (art. 28 d.lgs n.150/2011) - competenza territoriale nel foro del domicilio del ricorrente (art. 28 d.lgs n.250/2011) - disposizioni sull’onere della prova - disposizioni sulla legittimazione attiva delle associazioni La competenza territoriale nel foro di domicilio del ricorrente pone un problema significativo, perché pur dettata dall’apprezzabile finalità di favorire il soggetto discriminato, essendo una competenza funzionale e inderogabile, risulta l’unica opzione per il ricorrente anche se ciò non corrisponde al suo interesse. Un’ altra conseguenza illogica (di cui la giurisprudenza si è occupata consentendo l’azione di più attori con domicilio diverso davanti al giudice competente per uno di essi) sarebbe l’impossibilità per gli attori che contestano un unico atto discriminatorio di proporre un’azione congiunta. NB: Se la discriminazione avviene in ambito lavorativo, il soggetto può fruire del rito del lavoro (ex art. 28 d.lgs n.150/2011) o del rito antidiscriminatorio (ex art 413 c.p.c.) , con la conseguenza che la competenza territoriale, qualora i due fori non coincidano, sarà quella del rito prescelta dall’attore: competenza concorrente e facoltativa. 6.I casi residui di giurisdizione amministrativa Quanto detto fin ora potrebbe far pensare che il giudice ordinario sia il giudice generale del dritto soggettivo alla parità di trattamento e alla non discriminazione. In realtà non è esattamente così. Per le discriminazioni di genere in ambito lavorativo il testo del 1977 prevede due giudici, civile e amministrativo. L’azione può essere proposta davanti al giudice del lavoro o davanti al tribunale amministrativo relativamente competente. Essendo nel frattempo intervenuto la privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico, la disposizione resta rilevante in due casi: - per il personale non contrattualizzato - per l’accesso ai concorsi Il rito da applicarsi nel giudizio antidiscriminatorio davanti al TAR è il rito abbreviato di cui all’art. 119 CPA, non c’è alcun rito speciale. Con la conseguenza che il poliziotto o il magistrato che si ritengono discriminati sul lavoro dovranno agire davanti al GA con il medesimo rito che avrebbero seguito per qualsiasi altra domanda. 7. L’onere della prova Se l’onere della prova fosse posto integralmente a carico dell’attore, la possibilità di successo di un’azione antidiscriminatoria sarebbe minima. In molto casi il problema può apparire di agevole soluzione: una volta accertata l’appartenenza del soggetto al gruppo protetto, il nesso tra tale appartenenza e lo svantaggio è documentale e dunque oggettivo e immediato. In molti altri casi, tuttavia, le cose non sono così semplici. Il diritto euro unitario fa riferimento a: Prova dello svantaggio A questo proposito può venire in gioco anche il mero svantaggio da scoraggiamento es. nella sentenza Feryn è discriminatoria e svantaggiosa la semplice comunicazione pubblica che preannuncia criteri di assunzione discriminatori, non è necessario che l’attore dia prova di aver presentato una domanda e di essersela vista respingere. Prova del nesso causale La disciplina euro unitaria dell’onere della prova Come stabilito dalla direttiva n.80 del 1997 e dalle direttive n. 43 e 78 del 2000 “all’attore compete esporre i fatti in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta, spetta invece alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio di parità di trattamento”. Questa previsione integra un mero alleggerimento o una vera e propria inversione dell’onere della prova? La dottrina si è spesso divisa, ma significativa è la sentenza Chez, nella quale la Corte Europea: - usa sempre l’espressione inversione dell’onere della prova - elenca i dati che possono essere presi in considerazione dal giudice nazionale al fine di presumere la sussistenza della discriminazione (ciò che rileva non è solo il dato statistico e numerico della corrispondenza tra svantaggio e appartenenza etnica, ma una valutazione complessiva di tutti gli elementi utili, primo fra tutti nel caso in specie è il pregiudizio diffuso: è un regime più specifico e più favorevole all’attore rispetto alla regola generale ex art. 2697 c.c.) Nel diritto interno, l’attuazione di tali principi è stata particolarmente laboriosa e contraddittoria ed è giunta, come al solito, a conclusioni differenti per la discriminazione di genere e per le altre discriminazioni. Per queste ultime, le norme comunitarie sono rimaste a lungo inattuate. la legge del 2003 non prevedeva alcuna attenuazione dell’onere della prova per l’attore, oltre alla possibilità di avvalersi della presunzione ex art. 2729 c.c. quale strumento ordinario di prova, a cui però poteva già avvalersi qualsiasi attore la Commissione europea ha avviato una procedura di infrazione a carico dell’Italia, che dunque è intervenuta con una prescrizione abbastanza confusa perché non individuava il momento esatto di spostamento dell’onere della prova a carico del convenuto solo con l’art. 28 del d.lgs. n.150/2011 la prescrizione comunitaria ha avuto piena attuazione: una volta formatasi la presunzione attraverso l’esposizione dei fatti (che non devono più essere gravi e concordanti come invece stabiliva la legge del 2003) vi è lo spostamento dell’onere della prova a carico del convenuto, che, a differenza dell’attore, non gode di alcun alleggerimento; la prova a suo carico dovrà essere prova piena. In questo senso, è corretto parlare di un onere asimmetrico. Per le discriminazioni di genere il percorso è meno tormentato, ma assai più insoddisfacente: il vigente art. 40 del CPO si trova a metà strada tra la legge del 2003 e l’art 28, dato che i fatti esposti devono essere precisi e concordanti. Sull’interpretazione da darsi all’art. in questione è intervenuta la Cassazione che attraverso una sentenza nel 2013 ha specificato come: a) sebbene non ci sia un’inversione dell’onere della prova, è però possibile parlare di onere probatorio asimmetrico, grazie alla mancanza del requisito della gravità dei fatti b) il requisito della concordanza richiede che la prova sia fondata su una molteplicità di fatti convergenti nella dimostrazione del fatto non noto c) l’alleggerimento dell’onere dipende dalla materia, non dal rito NB: il regime agevolato sin qui descritto (relativo alla prova della discriminazione),non vale per la prova del danno da discriminazione che deve, invece, seguire inevitabilmente i criteri ordinari. 8.La legittimazione attiva di enti e associazioni La direttive n. 43 e 78 CE del 2000 e la direttiva n. 54 del 2006 CE, così come la direttiva n. 54 del 2014, stabiliscono che associazioni, organizzazioni o altre persone giuridiche che hanno un legittimo interesse possono avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, una procedura di tutela per conto o a sostegno della persona discriminata. La ratio è quella di assicurare un livello più efficace di protezione dato che lo squilibrio di potere delle parti potrebbe indurre il discriminato a non attivare le tutele sia per assenza di strumenti economici, sia per non esporsi direttamente con un azione legale. Con due sentenze fondamentali, la Corte di giustizia ha riconosciuto che le direttive e la relativa tutela trovano applicazione anche in assenza di un soggetto immediatamente individuabile che lamenti di essere stato discriminato. Con la sentenza Feryn, infatti, si ammette la possibilità che un soggetto diverso dalle singole vittime agisca in giudizio, perché senza questa legittimazione la discriminazione collettiva non potrebbe mai essere accertata. Il legislatore italiano ha dato alla materia un assetto alquanto confuso perché non ha previsto alcuna definizione di discriminazione collettiva, ma l’ha citata per tutti i fattori (tranne che per la nazionalità in ambito non lavorativo). La legittimazione di enti e associazioni si può avere solo se i soggetti lesi non sono individuabili in modo diretto e immediato. Ci sono però due eccezioni a quest’affermazione: 1. nel caso della legittimazione attiva delle organizzazioni sindacali nelle discriminazioni sul lavoro ex art. 44 TU Immigrazione 2. nel caso della Consigliera di parità La legittimazione, inoltre, è sottoposta a condizioni diverse a seconda dei singoli fattori. Es. per razza e origine etnica, la legittimazione attiva è riconosciuta a enti e associazioni con il filtro di uno speciale elenco approvato con decreto ministeriale; per il genere nell’ambito lavorativo, la legittimazione attiva spetta a un soggetto pubblico ad hoc ecc… L’assetto normativo così ricostruito suscita evidenti dubbi di costituzionalità: per le diverse modalità di individuazione dei soggetti legittimati (alcuni devono passare per il filtro del decreto ministeriale, altri no) per la mancata individuazione di un soggetto collettivo legittimato al contrasto alle discriminazioni extralavorative per nazionalità per la limitazione, nelle discriminazioni lavorative, alle sole organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative 11.Il risarcimento del danno Se tutti i rimedi per una reintegrazione effettiva della posizione originaria della persona discriminata sono stati consumati dal tempo, si avrà la monetizzazione della disuguaglianza e dunque il rimedio risarcitorio. Il risarcimento non può però semplicemente avere funzione residuale, questo perchè: - essendo un diritto a fondamento costituzionale e esistendo una previsione specifica, è possibile avere una liquidazione del danno non patrimoniale - è un diritto che trova fondamento nell’ordinamento europeo Il rimedio (e pertanto anche il risarcimento) deve rispondere ai requisiti imposti dall’UE, deve essere: effettivo (questo è l’unico requisito che richiama più direttamente il tema dell’attribuzione diretta del bene negato, gli altri invece attengono maggiormente al risarcimento del danno) proporzionale (nel senso che il rimedio deve tenere adeguatamente conto della rilevanza del bene violato e del fatto che i danni subiti vanno compensati integralmente) dissuasivo (si tratta di un requisito strettamente collegato alla possibile funzione sanzionatoria del risarcimento) Sul punto, a sostegno della funzione sanzionatoria del risarcimento, meritano di essere segnalate alcune specificità: a) una funzione sanzionatoria del risarcimento è riconosciuta dalle norme antidiscriminatorie (all’art. 4 d.lgs del 2003) dove si prevede un danno maggiorato in caso di ritorsione, quindi, ai fini della quantificazione del danno, si considera di più la gravità del comportamento tenuto che l’entità del danno subito b) il requisito in questione diviene essenziale nel caso in cui non vi sia un soggetto immediatamente individuale (discriminazione collettiva), in questo caso infatti si riconosce un risarcimento all’associazione, che equivale ad una sanzione per l’autore della discriminazione c) significativa è la nozione di danno comunitario introdotta dalle sezioni Unite, cioè di un danno subito da un lavoratore a cui il datore deve pagare una liquidazione forfetaria, un risarcimento in misura compresa tra le 2,5 e le 12 mensilità Invece in merito ad una funzione non sanzionatoria del risarcimento rilevano: A) la raccomandazione della commissione UE del 2013, dove si legge che dovrebbero essere vietati i risarcimenti punitivi B) la sentenza della Corte di giustizia Camacho, con cui la corte chiarisce di non imporre agli Stati Membri l’adozione di forme di danno punitivo La giurisprudenza nazionale si è sempre mostrata contraria a riconoscere al risarcimento valenza sanzionatoria: le sanzioni stentano a garantire al discriminato quella via d’uscita dalla condizione di discriminazione che sulla carta sembrerebbe segnata. Questo fino alla sentenza n. 16601 del 2017, da qui in avanti, infatti, si riscontra un cambio di orientamento, soprattutto in relazione a casi di molestie razziali Es. la pronuncia del Tribunale di Milano relativa ad un episodio di linguaggio offensivo nei confronti di un dipendente di colore di una Banca 12.La tutela della vittima e il divieto di ritorsione L’art. 11 e 9 rispettivamente delle DIRETTIVE N.78 E 43 DEL 2000 e l’art. 24 della DIRETTIVA N.54 DEL 2006 prevedono che gli Sati membri introducano nei rispettivi ordinamenti giuridici le disposizioni necessarie per proteggere le persone da trattamenti o conseguenze sfavorevoli quale reazione a un reclamo o un’azione volta a ottenere il rispetto dei principi di parità di trattamento. L’ambito soggettivo di applicazione delle previsioni comunitarie non può subire restrizioni, come chiarito recentemente dalla Corte di giustizia europea nel caso Hakelbracht. Secondo la Corte, a poter beneficiare della tutela contro le ritorsioni sono: - la persona discriminata - i suoi difensori - i testimoni del trattamento discriminatorio. Quanto al DIRITTO NAZIONALE, i decreti legislativi, che hanno recepito le direttive comunitarie in tema di tutela della vittima e divieto di ritorsione, contengono una previsione molto significativa soprattutto dal punto di vista dei rimedi della discriminazione: infatti, come già detto (paragrafo 11 punto a), ai fini della quantificazione del danno, si considera di più la gravità della finalità ritorsiva del danneggiante che l’entità del danno effettivamente subito e ciò comporta certamente un allontanamento dallo schema tipico del danno evento e un avvicinamento alla figura del danno sanzione. Si tratta però di una norma che ha avuto scarsa applicazione perchè, in pratica: - potrebbe trovare applicazione solo quando si cumulano due discriminazioni: quella originaria contro la quale il soggetto ha reagito e quella successiva posta in essere quale ritorsione o ingiusta reazione - il soggetto tutelato è solo il discriminato, non essendo tutelate le ritorsioni in danno di terzi Troppo poco, quindi, per considerare pienamente trasposta la tutela delle vittime prevista dalle direttive. Ne sono nate due procedure d’infrazione da parte della Commissione europea, che hanno portato ad un aggiustamento della normativa: viene esteso l’ambito soggettivo della tutela (la tutela non riguarda più soltanto il soggetto già in precedenza leso da una discriminazione, ma qualunque altra persona, vengono così protetti anche soggetti che, pur non essendo gli originari discriminati, hanno svolto una qualsiasi azione a tutela della parità di trattamento. Si ha una valorizzazione del PRINCIPIO di SOLIDARIETÀ) viene esteso l’ambito oggettivo della tutela (la tutela è riconosciuta nel caso di ogni comportamento pregiudizievole e non soltanto con riferimento a un atto o comportamento discriminatorio che è invece contemplato ai fini della eventuale maggiorazione del danno) A fronte di norme di tale ampiezza, si impone però di volta in volta l’esigenza di individuare con maggiore precisione i due elementi costitutivi della fattispecie: 1. pregiudizio cioè un comportamento lesivo, che può essere illegittimo (diffamazione, ingiuria, demansionamento) o legittimo (offesa) 2. nesso causale tra pregiudizio e attività diretta a ottenere la parità di trattamento talvolta il nesso può essere reso manifesto dallo stesso soggetto che ha posto in essere il comportamento, altre volte il nesso è più labile e dunque un principio di prova resterà a carico di chi subisce il pregiudizio, se pure nei limiti previsti dall’art. 28 c. 4 d.lgs n. 150/2011 infine, un collegamento solo indiretto, ma comunque pertinente, con il divieto di ritorsione può rinvenirsi nella norma del c.d whistleblowing, cioè nelle disposizioni che tutelano gli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di rapporto di lavoro pubblico o privato. 13.Le sanzioni accessorie all’accertamento della discriminazione e la tutela penale contro l’inottemperanza alla decisione Gli artt. 4 dei decreti n. 215 e 216 del 2003 prevedono che in caso di accertamento di comportamenti discriminatori si applichi altresì l’art. 44 c.11 TU Immigrazione. Tale norma prevede che se a porre in essere il comportamento discriminatorio è un impresa alla quale sono stati accordati benefici, le amministrazioni o gli enti, che hanno disposto i benefici, li devono revocare e, nei casi più gravi, anche disporre l’esclusione del responsabile per due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazione finanziaria o creditizia, ovvero da qualsiasi appalto. Si tratta di una sanzione accessoria dall’indubbio effetto deterrente. Il problema sta nel fatto che molto spesso il tribunale che ha accertato la discriminazione non sa quali sono le amministrazioni che hanno accordato i benefici o hanno stipulato contratti di appalto con i soggetti condannati. La norma è dunque, allo stato, del tutto inapplicata o inapplicabile. Una sanzione accessoria di questo tipo (ex. art 44 TU Immigrazione) si ha anche per le discriminazioni di genere nell’accesso a beni e servizi. Solo che qui resta del tutto incomprensibile anche a chi il tribunale debba rivolgersi per effettuare la comunicazione che dà luogo alla revoca dei benefici. A questa disfunzione pone parzialmente rimedio la disciplina della sanzione accessoria per le discriminazioni di genere in ambito lavorativo, la quale stabilisce che gli accertamenti di discriminazione vengano comunicati dalla Direzione territoriale del lavoro ai Ministeri nelle cui amministrazioni sia stata disposta la concessione del beneficio. In questo caso, però, la revoca o l’esclusione del responsabile da ulteriori concessioni non è l’unica misura che può essere adottata e soprattutto non vi è alcun automatismo. Nel 2000 con il d.lgs n. 196 l’Italia è intervenuta ridefinendo e potenziando le funzioni, il regime giuridico e le dotazioni strumentali dei consiglieri di parità, essendo consapevole dell’insufficienza degli strumenti predisposti fino a quel momento per garantire le pari opportunità tra uomo e donna nell’ambito lavorativo. Nella stessa direzione si è mosso il legislatore sovranazionale, che nelle più recenti direttive, dopo aver chiarito quale fosse l’obiettivo da perseguire (il raggiungimento dell’effettiva e completa parità), ha rafforzato il ruolo delle istituzioni di parità e creato nuovi organismi. Per quanto riguarda le pari opportunità tra uomo e donna e, dunque, le figure delle consigliere di parità, nel diritto sovranazionale si è trattato di un restyling, di un potenziamento del ruolo: con la direttiva del 2002 e poi con quella del 2006 sono state assegnate a questi organismi nuove competenze. Nell’ordinamento nazionale, l’intera disciplina degli organismi di parità, frutto di una notevole stratificazione è, invece, confluita nel CPO che ha messo insieme, senza adattamenti, le norme già esistenti in materia e ha mantenuto un’articolazione plurale degli organismi: il COMITATO NAZIONALE PER L’ATTUAZIONE DEI PRINCIPI di PARITÀ di TRATTAMENTO e le CONSIGLIERE di PARITÀ relativamente all’ambito del lavoro e del rapporto di lavoro la COMMISSIONE PER LE PARI OPPORTUNITÀ relativamente agli altri ambiti della vita civile e politica Nonostante le numerose competenze e l’articolazione pluralistica e territoriale rafforzino il ruolo degli organismi di parità, non mancano elementi di debolezza, soprattutto in riferimento alla funzione di sollecitazione svolta dal consigliere di parità nei confronti del legislatore: egli non ha poteri di reale incisività o idonei a influenzare realmente le politiche nazionali. Unar La Direttiva n. 43 del 2000 CE prevede, al capo III, che gli Stati membri stabiliscano l’istituzione di uno o più organismi per la promozione della parità di tutte le persone, senza discriminazione fondate sulla razza o l’origine etnica. Il legislatore italiano, allora, ha istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un ufficio (Unar) con funzione di controllo e garanzia: l’Unar ha il compito di svolgere attività di promozione della parità e di rimuovere qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla razza e sul’origine etnica. In particolare, i compiti individuati dal legislatore sono questi: o fornire assistenza nei procedimenti giudiziali o amministrativi intrapresi da soggetti discriminati o promuovere l’adozione, da parte di soggetti pubblici e privati, di misure dirette a evitare o compensare le situazioni di svantaggio connesse alla razza o all’origine etnica o formare raccomandazioni, pareri o proposte di modifica della normativa vigente in materia o redigere una relazione annuale per il Parlamento sull’effettiva applicazione del principio di parità di trattamento e una relazione annuale per il Presidente del Consiglio sull’attività svolta o promuover studi, ricerche,, corsi di formazione e scambi di esperienze L’azione dell’Unar è stata poi specificata nei suoi contenuti in vari documenti ministeriali. L’organismo deve essere imparziale e indipendente; l’imparzialità è garantita da fatto che: - la definizione delle competenze e delle funzioni è affidata direttamente alla legge - il personale (tranne il Direttore che è nominato dal Ministro competente) è reclutato sulla base di requisiti oggettivi di merito e professionalità - l’ufficio è destinatario di un’assegnazione costante di risorse Nonostante il legislatore nazionale abbia rispettato i requisiti di capacità e le risorse richieste dalla direttiva, esiste un gap tra gli obiettivi espressi dal legislatore sovranazionale e la mise en ouvre degli strumenti adottati per il perseguimento di tali obiettivi. Cug La legge n. 183 del 2010 ha disposto l’obbligo per le PA di costituire il Comitato unico di garanzia: per le pari opportunità per la valorizzazione del benessere di chi lavora contro le discriminazioni dovute al genere, all’età, alla disabilità, all’origine etnica, alla lingua, alla razza e all’orientamento sessuale. Con una direttiva del 2011, il Ministero per la PA e il Ministero per le pari opportunità hanno fornito le linee guida sulle modalità di funzionamento e sui criteri di composizione dei Cug: il Comitato è costituito in forma paritetica da componenti effettivi e supplenti nominati dalle organizzazioni sindacali e dalle amministrazioni pubbliche. Di recente, con una direttiva del 2019, il Ministero per la PA ha rafforzato ulteriormente il compito di monitoraggio dei Cug. CAP 8: LE AZIONI POSITIVE 1.Le azioni positive: definizione Secondo la definizione data dall’art. 42 del Codice delle pari opportunità tra uomini e donne, le azioni positive sono misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità e, nell’ambito della competenza statale, sono dirette a favorire l’occupazione femminile e realizzare l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro. Dunque trovano la loro naturale collocazione nell’art. 3 c.2 Cost., in cui il principio di uguaglianza non agisce più come scudo, cioè per paralizzare un azione danno, ma come spada, esigendo per la sua attuazione un intervento riequilibrante. Le azioni positive sono nate in nord America come strumenti idonei a rimuovere condizioni di diseguaglianza dovute a pregiudizi e discriminazioni sulla base della razza, poi sono state progressivamente estese a tutti gli altri fattori: genere soprattutto,ma anche disabilità, età, religione. Questi rimedi hanno due caratteristiche: sono efficaci rispetto a discriminazioni di carattere collettivo sono temporanei (nel senso che le azioni positive sono giustificate solo fino a quando permane una situazione di diseguaglianza di un gruppo rispetto ad un altro) Secondo l’art.23 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, le azioni positive sono misure che prevedono vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali. Una definizione analoga è adottata, per fattori di discriminazione diversi dal sesso, dalle direttive n. 43 e 78 del 2000 CE. Le azioni positive sono, dunque, misure che hanno natura rimediale. Le azioni positive non sono strumenti predeterminati dalla legge e possono assumere le forme più diverse. Sono in genere volontarie, cioè introdotte spontaneamente dal datore di lavoro, anche se esistono alcuni casi in cui la loro adozione è obbligatoria. Es. l’art. 48 CPO obbliga la PA ad adottare piani triennali di azioni positive, pena l’impossibilità di procedere all’assunzione di nuovo personale. Per quanto riguarda la disabilità, è importante non confondere le azioni positive con le soluzioni ragionevoli. Queste ultime costituiscono un obbligo di natura positiva e l’inosservanza di esso si traduce in una discriminazione, invece, le prime, implicano un trattamento preferenziale volontario e non costituiscono violazione del divieto di discriminazione. Una specifica tipologia di azioni positive riguarda le misure rivolte alla flessibilità dell’orario di lavoro ai fini della conciliazione tra tempi di lavoro e di vita, di cui all’art. 50 CPO, come il part- time, il telelavoro e il c.d. smart working. Occorre ricordare però che l’adozione di misure di questo tipo può rivelarsi un’arma a doppio taglio, dal momento che i lavoratori a orario ridotto o che svolgono prestazioni di lavoro a distanza non godono delle stesse possibilità di carriera dei lavoratori standard. Tra le azioni positive elencate all’art. 42 un ruolo importante assumono quelle volte: a promuovere la presenza delle donne nei settori nei quali sono sottorappresentate (es. accesso delle donne all’attività di conducente di autobus) a inserire le donne nei più alti livelli di responsabilità (a questo proposito può ascriversi la legge Golfo-Mosca che obbliga le società quotate in borsa ad assicurare l’equilibrio tra i generi nei consigli di amministrazione, attraverso la presenza di almeno 1/3 degli appartenenti al genere meno rappresentato) All’art. 43 CPO sono elencati i possibili soggetti promotori di azioni positive: il Comitato Nazionale di parità, le Consigliere e i Consiglieri di parità, i centri per la Parità e le pari opportunità, i centri per l’impiego, i centri di formazione professionale, le organizzazioni sindacali e i datori di lavoro pubblici e privati. Negli articoli 52-55 CPO è contenuta una disciplina specifica per le azioni positive per l’imprenditoria femminile. Le statistiche dimostrano infatti che le imprese guidate da donne, benché in crescita negli ultimi anni, sono ancora in numero di gran lunga inferiore a quelle gestite da uomini. L’art. 54 CPO prevede la concessione di agevolazioni per l’avvio e lo sviluppo di imprese a prevalente partecipazione femminile, a questo scopo è stato istituito con la legge n.215 del 1992 un Fondo Nazionale per l’imprenditoria femminile presso il Ministero dello Sviluppo Economico. All’entrata in vigore della legge in questione, però, la Regione Lombardia e la Provincia Autonoma di Trento hanno sollevato alcune questioni di legittimità costituzionale per la violazione delle competenze regionali e provinciali in materia di commercio e di pubblici esercizi, nell’ambito delle quali interventi dello Stato sono ammissibili solo se sorretti da un interesse nazionale. La Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni sollevate: l’attuazione delle azioni positive non può subire difformità o deroghe in relazione alle diverse aree geografiche. 5.Parità e partecipazione politica delle donne. Le quote nelle liste elettorali. Una delle disparità più forti tra i sessi si registra nella partecipazione politica. In Italia, benché incrementata negli ultimi anni, la presenza delle donne nelle istituzioni politiche è inferiore a quella degli uomini. Una prima questione riguarda la necessità di una presenza femminile nelle istituzioni rappresentative. Se così fosse, infatti, si dovrebbero riservare posti anche ad altri gruppi portatori di interessi particolari, come disabili, omosessuali, minoranze etniche e cosi via? NO: la dottrina quando parla di donne non fa riferimento a una categoria portatrice di interessi particolari; esse devono essere presenti in parlamento semplicemente perché costituiscono una connotazione del genere umano, non sono cioè chiamate a rappresentare gli interessi delle donne, ma a farsi interpreti di entrambi gli emisferi del genere umano. Insomma si tratta di una questione di rappresentatività del sistema democratico in sé, è una necessità democratica. Una seconda questione riguarda lo strumento con il quale garantire la partecipazione delle donne alle istituzioni. Nell’ordinamenti italiano, nel 1993: la legge n.81 stabilì che le liste elettorali dovevano essere formate in modo che nessuno dei due sessi potesse essere rappresentato in misura superiore ai 2/3 MA la Corte cost. con una sentenza nel 1995 ne dichiara l’illegittimità costituzionale, riprendendo il principio di uguaglianza formale e affermando che le azioni positive possono stabilire condizioni di uguaglianza nei punti di partenza e non nei risultati. la legge n.227 stabilì che le liste elettorali dovevano essere formate da donne e uomini in ordine alternato Qualche anno più tardi, la modifica degli art. 51 e 117 Cost. cambia completamente il quadro di riferimento. Infatti, in una successiva sentenza (relativa al ricorso promosso dal governo contro la legge regionale della valle d’aosta che prevedeva che nelle liste elettorali dovessero essere presenti candidati di entrambi i sessi, senza per altro indicarne una percentuale minima) la Corte Cost. dichiara la misura legittima perché i vincoli operano solo nella fase anteriore alla vera e propria competizione elettorale, vincolando i partiti e non la scelta degli elettori.