Scarica Riassunto del libro "Leggere la pubblicità" e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Professionale solo su Docsity! LEGGERE LA PUBBLICITÀ: Gli individui, nelle società occidentali contemporanee, sono bombardati ogni giorno da un'enorme quantità di messaggi pubblicitari. Saper svolgere un'analisi di tali messaggi è importante per gli individui che vogliono essere protagonisti attivi della realtà in cui vivono e non soltanto fruitori passivi di ciò che ricevono. La pubblicità svolge un ruolo fondamentale nel processo di costruzione della realtà sociale. Non si presenta, cioè, semplicemente come un insieme di messaggi che incitano a consumare, ma è una “forma culturale”, ovvero Un insieme di discorsi che circolano in continuazione nella società e consentono agli individui di trovare dei modelli di comportamento da seguire nella vita quotidiana, così come dei significati per la loro esistenza, per la loro identità sociale e per il mondo in cui vivono. IL FUNZIONAMENTO DELLA PUBBLICITÀ: L’efficacia: La pubblicità è un potente strumento di comunicazione in grado di influenzare le scelte personali. Per ottenere questo risultato, i pubblicitari cercano di fare leva sulle insoddisfazioni degli individui. Perché, come ha affermato l'intellettuale inglese John Berger “il fine della pubblicità è di rendere lo spettatore leggermente insoddisfatto del suo presente stile di vita. Non dello stile di vita della società, ma del suo personale stile di vita all'interno della società. Essa suggerisce che, se lo spettatore comprerà ciò che gli sta offrendo, la sua vita diventerà migliore”. Si spiega, così, perché la pubblicità associ ai prodotti significati legati alla soddisfazione di bisogni di tipo funzionale e che contengono delle valenze di tipo sociale, come: - il successo - il prestigio - il potere - la bellezza I pubblicitari, però, non si inventano nulla -> per massimizzare l'efficacia dei loro messaggi devono “catturare” dei significati che sono già conosciuti socialmente e immetterli nei prodotti venduti sul mercato. Per ottenere i loro scopi possono: - far parlare il prodotto da sé, nel caso che questo abbia sviluppato nel tempo un'identità sufficientemente forte - presentare il prodotto insieme a un oggetto, a una o più persone o a una situazione sociale o affettiva i cui significati sociali siano già noti È importante sottolineare che i consumatori non sono soggetti che assorbono passivamente i significati e i valori che sono stati attribuiti dalla pubblicità ai prodotti, ma svolgono una funzione più interpretativa -> ne consegue che la pubblicità è meno potente di quello che abitualmente si ritiene. Va, inoltre, tenuto conto del fatto che sono numerosi gli ostacoli che i messaggi pubblicitari possono incontrare nell'ambiente sociale ed il mercato, ad esempio: - i fattori psicologici individuali, quali: esposizione selettiva percezione selettiva memorizzazione selettiva - la situazione “ipercomunicativa” della cultura sociale e del mondo dei media, che si caratterizza per un'elevatissima quantità di messaggi in circolazione. Spesso coesistono messaggi indirizzati allo stesso tipo di consumatore e, in generale, c'è una tendenza a produrre simboli e materiali espressivi sempre più simili tra loro -> Di conseguenza, l'insieme della pubblicità televisiva si può dire che si stia trasformando in una specie di “rumore” indifferenziato dal quale per la singola marca è molto difficoltoso riuscire ad emergere. Si può stimare che circa il 90% dei messaggi pubblicitari inviati ad un determinato target non lo raggiungano. Quanto detto finora, non deve indurre a pensare che la pubblicità non produca degli effetti concreti. Può, infatti, influenzare i comportamenti d'acquisto dei consumatori ed esercitare un potere di suggestione su questi -> per riuscire a fare ciò, i messaggi pubblicitari devono essere in grado di perseguire obiettivi aziendali concreti attraverso la valorizzazione dei prodotti e delle marche. Infatti, è noto da tempo che le vendite sono influenzate dalla pubblicità, ma anche da altri strumenti ad essa strettamente collegati, quali: - caratteristiche del prodotto - packaging - prezzo - canali di distribuzione - … NB: la pubblicità e le altre attività di marketing delle imprese hanno capacità estremamente limitate di fare aumentare i consumi totali del mercato, mentre possono spostare le preferenze dei consumatori tra le singole marche e i loro prodotti, modificandone le relative quote di presenza. Va considerato, dunque, come ha affermato Fabris che “l'efficacia della pubblicità può essere soltanto valutata in termini di propensione all'acquisto che questa riesce a generare: tra la propensione all'acquisto e l'acquisto vero e proprio intervengono, infatti, tutta una serie di fattori che sfuggono dal controllo e dalla portata della pubblicità”. Certo è che se un messaggio pubblicitario può arrivare ad avere una qualche efficacia, questa va in gran parte imputata alla sua qualità comunicativa -> in particolare, i consumatori riservano una maggiore attenzione ai messaggi originali e creativi, i quali sono anche in grado di produrre una migliore memorizzazione delle informazioni sulla marca e i suoi prodotti. Dunque, un messaggio pubblicitario, per essere efficace, deve essere in grado di tenere insieme la capacità di stimolare il consumatore all'acquisto con un'invenzione linguistica. Anche secondo Umberto Eco, un pubblicitario responsabile “tenterà sempre di realizzare il proprio appello attraverso soluzioni originali che si impongano per la loro originalità, di modo che la risposta dell'utente non consista solo in una reazione di tipo inconscio alla stimolazione erotica, gustativa o tattile che l'annuncio mette in opera, ma anche in un riconoscimento di genialità”. Tale “riconoscimento di genialità” è ciò che è in grado di suscitare nell'individuo sensazioni piacevoli, che possono determinare un atteggiamento favorevole verso la marca e i suoi prodotti. La ricezione del messaggio pubblicitario: La pubblicità è potente soprattutto quando può operare in una situazione di coinvolgimento minimale dell'individuo, come quella indotta dalla televisione, perché in tale caso essa non attiva un processo valutativo razionale e pertanto non suscita reazioni né atteggiamenti negativi. La pubblicità riesce comunque a entrare nel cervello attraverso un “percorso periferico” e a essere registrata negli strati più promessa presente in un prodotto o in un servizio che spinge il consumatore all'acquisto) - la pubblicità suggestiva. Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta è arrivata la fase della “pubblicità suggestiva”, che ha utilizzato i risultati delle cosiddette ricerche motivazionali3 e ha indicato ai pubblicitari la possibilità di sfruttare la capacità di produrre sogni e simboli d'evasione rispondendo, in tal modo, ai desideri più profondi e irrazionali dell'individuo. È in questa fase che si è cominciato, per la prima volta, a sostenere che le motivazioni di consumo di tipo cosciente e razionale possono essere soltanto giustificazioni successive all'acquisto, che hanno lo scopo di salvaguardare l'equilibrio psicologico dell'individuo. Da questa concezione è nata, negli anni Sessanta, la cosiddetta “rivoluzione creativa”. L'approccio adottato in questa fase funzionava, però, soprattutto per merci particolarmente coinvolgenti, tendeva ad eliminare le differenze specifiche tra i prodotti in favore di motivazioni d'acquisto comuni a tutta la categoria merceologica d'appartenenza e aveva la propensione a percepire il consumatore soltanto come individuo singolo e non in quanto soggetto inserito all'interno di un ambiente culturale e sociale - la pubblicità proiettiva. La teoria proiettiva (anche chiamata “sociologica”) considera la pubblicità come un valore aggiunto di tipo sociale al prodotto. tale considerazione della pubblicità ha, spesso, promosso una visione della società che attribuisce un potente ruolo alle norme di comportamento e alle regole di integrazione, di partecipazione e d’acculturazione PUBBLICITÀ E CULTURA SOCIALE: Come opera la pubblicità: Si sono sviluppati numerosi pregiudizi intorno alla forma comunicativa della pubblicità. Da molti è stata vista come una “piovra” tentacolare che costringe le persone a compiere azioni che non vorrebbero fare. Durante gli anni Sessanta e Settanta del Novecento è stata accusata di essere il frutto del lavoro di abili professionisti, in grado di manipolare le coscienze di consumatori e di creare in questi ultimi falsi bisogni di consumo. Ai nostri giorni, in realtà, è ancora viva la concezione secondo la quale i pubblicitari, grazie all’impiego di sofisticate tecniche comunicative, possono agire sull’inconscio degli individui per condizionarne il comportamento. È vero che la pubblicità esercita un’influenza sui comportamenti delle persone, ma la esercitano anche gli altri importanti strumenti di comunicazione e tutti gli altri attori sociali -> alla fine, però, l’individuo effettua le sue scelte di consumo elaborando una personale sintesi che tiene conto di tutte le influenze che ha subìto. La pubblicità, dunque, deve essere considerata un discorso sociale come altri. In quanto tale, produce dei linguaggi e dei modelli culturali che sono capaci d’influenzare i comportamenti delle persone. NB: la violenza sembra essere fortemente presente in pubblicità, così come in altre forme espressive che caratterizzano il sistema dei media. Sarebbero utili strumenti di misurazione in grado di consentirci di comprendere se la necessità sempre più impellente per le aziende di farsi notare stia determinando un incremento del livello di violenza contenuto nei messaggi pubblicitari. Soprattutto, sarebbe corretto richiamare gli operatori della pubblicità ad una maggiore sensibilità nei confronti dei valori e dei modelli di comportamento che quotidianamente propongono ai consumatori -> questo perché i messaggi pubblicitari partecipano, comunque, a un processo sociale di produzione di linguaggi, valori e condotte di comportamento che è necessario orientare su un binario eticamente corretto. 3 = Indagini psicologiche che miravano a esplorare le motivazioni profonde dei comportamenti individuali La pubblicità dev’essere considerata soprattutto uno strumento di costruzione della realtà sociale. In quanto tale, viene fortemente influenzata da come la realtà è percepita dai soggetti, ma produce, a sua volta, un’influenza su tale percezione. Può, dunque, anche essere vista come una delle istituzioni culturali più significative delle società contemporanee. Solitamente, i pubblicitari cercano di associare ai prodotti dei significati piacevoli, che “catturano” all'interno dell'immaginario collettivo per immetterli nei prodotti proposti sul mercato ai consumatori. Ne consegue che il mondo ideale messo in scena dalla pubblicità rappresenta non soltanto uno strumento per orientare l'acquisto dei prodotti, ma anche un modello che influenza i comportamenti adottati dalle persone nella vita quotidiana. La pubblicità contribuisce a creare nelle nostre menti immagini e rappresentazioni di cosa e il mondo intorno a noi e di come dovrebbe essere. Non è un caso, perciò, che la pubblicità riesca a inglobare al suo interno persino degli orientamenti di tipo anticonsumistico. Ciò è avvenuto negli Stati Uniti nel corso degli anni Sessanta, quando numerosi giovani hanno incominciato a contestare il sistema industriale e capitalistico e le imprese, anziché combatterli, hanno cercato di “incorporarli” -> le imprese hanno, dunque, sfruttato le immagini di ribellione dei giovani per produrre i prodotti, offrendo le loro marche come soluzione dei problemi personali. L'operazione ha potuto funzionare perché progressivamente il fatto di essere giovani è diventato l'obiettivo ideale delle persone comuni: il giovane è vitale e pieno di energie, può vivere in salute e perciò più a lungo. Inoltre, l'operazione ha funzionato anche perché “entro gli anni Sessanta, il desiderio di essere giovane non significava solo rimanere e apparire maggiormente in salute per un periodo di vita più lungo, ma anche agire e pensare in maniera diversa rispetto alla gente più adulta. Essere adulti significava fare parte del sistema - come veniva chiamato lo stile di vita consumistico dai dissidenti della controcultura - corrotto e moralmente”. Qualcosa di analogo è avvenuto anche a proposito dell'ideologia femminista, che i pubblicitari hanno cercato di sfruttare a proprio vantaggio sin dagli anni Settanta, inserendola nei loro messaggi pubblicitari -> le donne sono state presentate come delle figure emancipate e in grado di controllare la loro vita, esattamente come chiedevano le femministe, ma comunque i pubblicitari hanno fatto in modo di far sì che i messaggi pubblicitari continuassero a svolgere il loro ruolo di promozione della cultura del consumo: infatti, attraverso la pubblicità, è stata suggerita e sottintesa l'idea che le donne emancipate possono essere tali soltanto se acquistano i prodotti pubblicizzati. Gli effetti sulla società secondo Pollay e Goffman: secondo lo studioso statunitense Richard Pollay, la pubblicità esercita un'azione di selezione sulla cultura, in quanto promuove e valorizza i termini appartenenti al linguaggio che utilizza rendendo ridicoli quelli che non le sono funzionali e mette l'accento soltanto su alcuni temi, concetti o categorie mentali facendo dimenticare gli altri. Inoltre, modifica la gerarchia relativa dei valori già operanti, rafforzando quelli che promuove e svuotando di significato quelli che ignora. Si tratta, dunque, secondo lo studioso, di uno “specchio deformante”, che riflette e modifica allo stesso tempo la cultura sociale. Il risultato finale della sua azione sarebbe, sempre secondo Pollay, il rafforzamento di valori da considerare negativi sul piano sociale: - il materialismo - il cinismo - l'ansietà - la competitività sociale - la mancanza di rispetto per sé stessi - … Oggi si tende a pensare che il tipo di influenza esercitato dalla pubblicità sia del tutto simile a quello che viene quotidianamente svolto dalle altre istituzioni sociali che diffondono messaggi potenti (televisione, stampa, web …). Bisogna, inoltre, calcolare anche la possibilità che la pubblicità possa produrre degli effetti sociali positivi, come, ad esempio, promuovere valori ritenuti importanti nella società, quali: - la socialità - l'affetto - la generosità - la salute - il patriottismo - l'ecumenismo - l'arricchimento personale - la sicurezza - la temperanza - … In ogni caso, anche se la visione odierna si discosta per diversi elementi da quella di Pollay, c'è un concetto rimasto in comune: quello che vede la pubblicità come uno “specchio deformante” rispetto ai valori sociali. Oltretutto, allo stesso tempo, la pubblicità produce anche una raffigurazione ridotta e semplificata della realtà sociale in quanto, avendo la necessità di comunicare velocemente e attraverso modalità semplici e prive di ambiguità, fa in modo che le espressioni facciali, le pose, i comportamenti e le situazioni reali dei soggetti raffigurati tendano verso un elevato livello di standardizzazione. Essa crea, cioè, quel fenomeno che è stato denominato da Goffman “iper- ritualizzazione”, in quanto i pubblicitari rappresentano in modo semplificato qualcosa che è già ritualizzato e stereotipato all'interno della cultura sociale, rafforzando, così, gli stereotipi relativi all'immagine sociale delle persone. L'influenza che la pubblicità esercita sulle persone è solitamente mediata da una molteplicità di fattori individuali e sociali. Gli individui sono, cioè, in grado di filtrare i messaggi che ricevono grazie a quegli strumenti culturali di cui sono solitamente in possesso. Ci sono, però, alcune categorie sociali, come i bambini e gli anziani, considerate “deboli” perché gli strumenti culturali che hanno a disposizione non permettono loro di difendersi adeguatamente dall'influenza della pubblicità (anche perché, non va dimenticato che la pubblicità e tutti i mezzi di comunicazione, agendo in una situazione di libero mercato, tendono principalmente a perseguire obiettivi di profitto e a essere, quindi, liberi nei loro comportamenti, spesso raggiungendo livelli eccessivi di volgarità e violenza, agendo in maniera disonesta o dimenticando quali sono i tabù sociali che è necessario non toccare per non urtare la sensibilità di alcune persone). La pubblicità, comunque, è uno strumento e come tale è legata all'uso che ne viene fatto, il quale può produrre degli effetti positivi oppure negativi nella cultura sociale. Ne risulta, quindi, che la pubblicità diventa negativa soltanto se viene impiegata in modo volgare, scorretto o con il consapevole proposito di ingannare le persone. Gli effetti sui modelli sessuali: vengo presentati, a volte, all’interno dei messaggi pubblicitari anche in ruoli “femminilizzati6”. LA STRUTTURA DEL MESSAGGIO: Gli elementi della struttura: Per analizzare un messaggio pubblicitario, è necessario smontarlo nei principali elementi che lo costituiscono. Prima di smontare un messaggio visivo, sia esso basato su un’immagine fotografica statica o su delle immagini in movimento, è opportuno farne una lettura complessiva, vale a dire lasciarsi guidare da ciò che attira spontaneamente lo sguardo e dalle emozioni immediatamente suscitate. La lettura dovrà prevedere, poi, una seconda fase durante la quale il messaggio pubblicitario libera progressivamente quello che contiene al suo interno. Si tratta di una fase di osservazione metodica, grazie alla quale le principali componenti del messaggio devono essere analizzate singolarmente, per essere, infine, nuovamente esaminate insieme, allo scopo di mettere a fuoco le specifiche interazioni che ciascuna di esse stabilisce con le altre. Per quanto riguarda l’annuncio statico, le componenti sono: - la headline (= il titolo) - il visual (= l’immagine principale) 6 Cioè, nei quali cercano di riaffermare il proprio ruolo di genere, utilizzando quelle tecniche seduttive che sono state tradizionalmente impiegate da parte delle donne -> attraverso il controllo narcisistico del loro corpo manifestano, infatti, una nuova forma d’espressione della virilità - la bodycopy (= il testo verbale di accompagnamento) - il trademark (= il simbolo grafico della marca) - il logotipo (= il nome della marca) - il payoff (= la frase conclusiva e riassuntiva del posizionamento pubblicitario della marca) NB: a volte, insieme al “trademark” e al “logotipo” può essere presente un “packshot”, ovvero un’immagine di ridotte dimensioni del prodotto. ELEMENTI: RISPETTIVE FUNZIONI: - headline - visual richiamare l’attenzione del destinatario, sintetizzare il contenuto dell’annuncio e facilitare il processo di memorizzazione - bodycopy spiegare e sviluppare quello che viene enunciato in sintesi dalla “headline” e dal “visual” cercando di fornire delle argomentazioni di supporto che siano credibili e convincenti - trademark - logotipo - payoff “firmare l’annuncio” = comunicare al destinatario chi è il soggetto che si rivolge a lui con questo messaggio pubblicitario Tutti gli elementi sopraindicati devono riuscire ad operare sinergicamente per ottenere la massima efficacia comunicativa, per riuscire, cioè, a lasciare una traccia significativa nella memoria del destinatario. La “headline” e il “visual”, in particolare, sono i due elementi di maggiore importanza e vengono percepiti dal destinatario quasi simultaneamente, devono essere in grado di stabilire una relazione tra loro, che può essere: - una relazione di ripetizione (e ciò prevede che ciascuno dei due elementi cerchi di spiegare fedelmente l’altro) - una relazione di completamento (dove un elemento sviluppa e integra ciò che viene detto dall’altro) - una relazione di opposizione (ossia i due elementi si contraddicono) La “bodycopy” e il “playoff” sono due elementi che vengono letti da una parte ridotta delle persone raggiunte dal messaggio pubblicitario. Per essere efficace, la “headline” deve possedere le seguenti caratteristiche: - deve essere breve e facile da comprendere - deve essere originale e diversa rispetto ad altri slogan già conosciuti - non deve essere legata a temi o concetti che possano cambiare velocemente - deve essere mantenuta costante nel tempo (perché per riuscire ad imporsi sono necessari tempi lunghi) Il linguaggio verbale della pubblicità si presenta come estremamente innovativo, infatti: - utilizza in continuazione dei neologismi (eccone di seguito alcuni: “bioispirato”, “piedibus”, “greenwashing”, “decluttering”, “catcalling”, “fat shaming” …) - fa spesso ricorso a parole ed espressioni in lingua straniera - ricorre a rime e ritmi - fa largo impiego delle figure tecnologiche In passato è stato spesso sostenuto che la chiave di lettura del linguaggio visivo viene solitamente fornita dal linguaggio verbale, poiché il linguaggio visivo dà l’impressione di un'eccessiva libertà interpretativa, in quanto presenta contemporaneamente una notevole quantità di elementi espressivi. Va, però, considerato che anche il linguaggio verbale possiede un elevato livello di polisemia, paragonabile a quello del linguaggio visivo, e, per interpretarlo, pertanto, è sempre necessario contestualizzarlo adeguatamente. Le difficoltà incontrate nell'interpretazione del messaggio visivo derivano dal fatto che esso presenta una natura complessa, dalla sua scarsa assertività rispetto al linguaggio verbale e dal fatto che, a causa delle caratteristiche fisiologiche del processo di visione, il quale comprende simultaneamente una visione centrale e una periferica, è impossibile percepire in modo adeguato un'elevata estensione dello spazio dell'immagine con un solo sguardo. In passato, gli studiosi hanno incontrato numerosi problemi con il linguaggio visivo, anche perché si ostinavano a voler ritrovare all'interno di tale tipo di linguaggio un'organizzazione delle unità significanti che fosse di tipo lineare e corrispondesse, sostanzialmente, a quella del verbale. Da tempo si è, però, pienamente compreso che l'immagine va considerata come un messaggio che comunica attraverso delle proprie specifiche modalità. Anzi, a volte è il linguaggio visivo che fornisce la chiave di interpretazione del linguaggio verbale. Il linguaggio visivo, dunque, è dotato di una sua autonomia che comporta che non si possa parlare di una somiglianza tra il mondo fisico e l'immagine che lo rappresenta. Se tale somiglianza esiste, essa non opera a livello delle modalità espressive, ma interviene soltanto a livello del significato, ovvero riguardo a quelle griglie culturali di lettura che vengono applicate dagli esseri umani sia al mondo naturale che alle sue raffigurazioni visive. Adottando questa posizione, Greimas ha preso le distanze dalla visione di Barthes, che sosteneva che l'immagine si presenta come naturale perché è una perfetta rappresentazione analogica della realtà che designa. Proprio per questo motivo, non ha bisogno di passare attraverso la mediazione di un codice. Si tratta, cioè, di un linguaggio privo di un codice. Pertanto, il suo significato potrà essere ricostruito solamente dopo averlo tradotto in linguaggio verbale. Egli ha rivisto questa posizione, originata dalla constatazione che i codici visivi non possiedono quella “doppia articolazione” che, invece, è una caratteristica fondamentale del linguaggio verbale. Il linguaggio verbale, infatti, è un linguaggio discontinuo, costituito di unità discrete che possono essere distinte le une dalle altre. al contrario, l'immagine sembra non poter essere scomposta in alcuni elementi di base corrispondenti alle lettere alfabetiche che costituiscono le parole e dunque in un piano d'espressione e un piano del contenuto. si tratterebbe, insomma, di un linguaggio continuo e privo di organizzazione nel quale non è possibile individuare la presenza di uno specifico codice. Umberto Eco, pur ammettendo la strutturale “debolezza” del codice visivo, ha sostenuto che ha poco senso parlare di strutture fisse nel campo dell'immagine. I messaggi visivi, infatti, sono estremamente variabili e vanno considerati degli insiemi di “idioletti”, ciascuno dei quali comporta un diverso livello di comprensione, a causa della sua tendenza a tenere insieme i materiali espressivi eterogenei: segni iconici, segni plastici e segni linguistici. Ciò non impedisce comunque al linguaggio visivo di avere una sua indipendenza di funzionamento rispetto al linguaggio verbale e di permetterci di rintracciare al suo interno veri e propri “iconemi” o “grafemi”, cioè delle forme d'espressione la cui - intensità (chiaro/scuro) - grana (brillante/opaco) Per analizzare un messaggio visivo è necessario tener conto anche di altri aspetti, ad esempio: - la rappresentazione su un piano delle figure tridimensionali - l'illuminazione - il grado di messa a fuoco - le scelte effettuate dal punto di vista del tipo di inquadratura, che possono essere diverse. Ci può essere, infatti: un campo lunghissimo (dove il soggetto principale corrisponde a un vasto panorama) un campo lungo (che mostra gran parte di un ambiente dove si comincia a distinguere qualche soggetto primario) un campo medio (che inquadra uno o più personaggi in piedi, i quali prendono il sopravvento sull'ambiente, che rimane, comunque, ancora leggibile) una figura intera (inquadratura che si concentra su uno o più personaggi ripresi dai piedi alla testa) un piano americano (che inquadra uno o più personaggi dalle ginocchia in su) un piano ravvicinato (che taglia uno o più personaggi all'altezza del petto) un primo piano (che inquadra solo un volto o una piccola parte dell'ambiente) un primissimo piano (che isola un particolare minimo di un volto o dell'insieme) SCELTA DELL’INQUADRATURA: FUNZIONE: - campo lunghissimo - campo lungo funzione descrittiva - campo medio - figura intera - piano ravvicinato esprimere l’esistenza di relazioni di tipo sociale - piano americano - primo piano - primissimo piano stabilire una maggiore intimità tra il protagonista e il destinatario del messaggio -> quindi, dare vita a emozioni NB: la scelta dell’inquadratura va a combinarsi con la scelta dell’angolo di ripresa, che può essere: - un angolo di ripresa normale (l'obiettivo è collocato di fronte al personaggio principale o alla scena è più o meno alla stessa altezza -> con questo tipo di inquadratura si va a rafforzare il valore descrittivo dell'immagine ma, se il personaggio guarda in macchina, può anche aumentare il livello di interpellazione diretta nei confronti dello spettatore) - l’asse ottico inclinato verso il basso (che produce l'effetto di schiacciare i personaggi e dunque di ridurne l'importanza) - l’asse ottico inclinato verso l’alto (che ingrandisce i personaggi gli attribuisce significati di superiorità e potenza) Inoltre, per messaggi come quelli di tipo pubblicitario, è importante analizzare le principali variabili che caratterizzano i soggetti umani in essi presenti: - l'abbigliamento - l'aspetto generale del corpo - i comportamenti cinesici (postura, gesti, azioni, espressioni del volto …) - le relazioni spaziali stabilite con le altre persone, con gli oggetti e con l'ambiente È necessario anche tenere presente che, attualmente, il messaggio pubblicitario è, in molti casi, costituito da un testo di tipo audiovisivo; si tratta, cioè, di uno spot o di un video caratterizzati da uno sviluppo temporale, che richiede, pertanto, di porre attenzione ad altri aspetti, come la durata delle inquadrature e i movimenti di macchina, che possono essere: - panoramica (la macchina da presa è ferma ma muove l'obiettivo in senso verticale, orizzontale e obliquo) - carrello (la macchina è montata su un carrello dotato di binari che consentono di eseguire diversi movimenti, come spingersi in profondità o muoversi trasversalmente nell'ambiente) - fisso (la macchina e l'obiettivo sono fermi) Per quanto riguarda il piano sonoro, spiccano: - la voce fuori campo dello speaker, che sovrasta le immagini e attribuisce loro dei significati - la musica, che svolge un ruolo centrale, in quanto “capace di ampliare l'effetto del messaggio, trasferire significati, aumentare l'attrattività e persino la credibilità” Jean-Rémy Julien, oltre ad aver individuato cinque possibili funzioni che la musica è in grado di svolgere, ossia demarcativa, indicativa, decorativa, affettiva e poetica, ha individuato tre modalità di manifestazione della musica in pubblicità: - la musica del prodotto (gli stereotipi musicali che conferiscono al prodotto dei precisi significati) - la musica del consumatore (musica scelta in sintonia con i presunti gusti del target a cui il messaggio pubblicitario è rivolto) - la musica del messaggio (l'ispirazione musicale deriva dalla natura del messaggio pubblicitario) In generale, risulta evidente che la musica non è un semplice elemento aggiuntivo del messaggio audiovisivo, bensì un elemento che va quasi a fondersi con quella materia espressiva che compone le immagini, influenzandone pesantemente i risultati ottenuti sul piano comunicativo. Infine, per compiere l'analisi di un messaggio visivo può essere utile ricorrere anche ad una tecnica nota in semiotica come “prova di commutazione”, che consiste nell'introdurre artificialmente un mutamento in uno dei due piani del linguaggio per vedere se provoca delle trasformazioni nell'altro piano. Se ciò avviene, vuol dire che si è trovato un elemento invariante e, dunque, autonomo. Nel caso contrario si avrà, invece, un elemento variante. La retorica visiva: La retorica rappresenta una dimensione significativa per qualsiasi messaggio e viene considerata da molti secoli uno strumento particolarmente efficace per esercitare un'opera di persuasione. Probabilmente perché costituisce un livello figurato del discorso grazie al quale è possibile colpire l'attenzione e l'emotività del destinatario, coinvolgendolo attivamente attraverso la creazione di scarti rispetto alla norma linguistica e manifestando, allo stesso tempo, una grande capacità di sintesi. Quindi, la pubblicità, che è uno dei linguaggi più persuasivi in assoluto, deve forzatamente basarsi su un impiego massiccio della retorica. Non è un caso che la pubblicità faccia solitamente ricorso a quegli elementi strutturali che, già secondo gli antichi greci, caratterizzano il discorso retorico: - l’inventio (= la ricerca degli argomenti del discorso) - la dispositio (= l'organizzazione di tali argomenti) - l’elocutio (= la traduzione degli stessi argomenti in efficaci figure retoriche) - la memoria (= le tecniche per memorizzare ciò che si deve dire e non perdere il filo del discorso) - l’actio (= l'arte di pronunciare il discorso con la voce e gli atteggiamenti del corpo) La retorica nella tradizione classica veniva applicata soltanto al linguaggio verbale; oggi, invece, viene generalmente accettato che la retorica possa funzionare sia sul registro verbale che su quello visivo. Di fondamentale importanza è, dunque, analizzare l'utilizzo delle figure retoriche all'interno del registro visivo del linguaggio pubblicitario. Il primo a farlo è stato Roland Barthes, il quale ha affermato che la retorica rappresenta il vero piano di connotazione del messaggio visivo e che in tale messaggio essa “è specifica nella misura in cui è sottoposta alle costrizioni fisiche della visione, ma generale nella misura in cui le figure non sono altro che rapporti formali tra elementi”. Esisterebbe, dunque, per tale autore, una retorica generale nella quale è possibile ritrovare strutture formali comuni. Secondo Umberto Eco, all'interno della comunicazione pubblicitaria esiste una dimensione visiva di tipo retorico che è articolata su quattro specifici livelli, i quali vanno ad aggiungersi a un primo livello (iconico) comprendente il piano referenziale e denotativo dell'immagine. I quattro livelli individuati da Eco sono: - il livello iconografico, dove l'immagine contiene forme d'espressione facilmente riconoscibili per i manda, pertanto, a stereotipi culturali, significati simbolici già codificati. Questo livello comprende due principali categorie di codificazioni: la codificazione di tipo storico la codificazione di tipo propriamente pubblicitario prodotta, cioè, dal progressivo stratificarsi temporale dei messaggi - il livello topologico, che comprende gli equivalenti visivi delle figure retoriche di tipo verbale, che si possono classificare in base alla loro derivazione più o meno accentuata della stessa retorica del linguaggio verbale. Eco, infatti, ha suddiviso tutte le figure presenti nelle immagini pubblicitarie in “figure di diretta derivazione verbale” e “figure nate dopo l'arrivo della comunicazione visiva di tipo pubblicitario” Secondo Eco, l'antonomasia è la figura retorica più diffusa in pubblicità. In essa “ogni entità singola che appare nell'immagine è perlopiù il rappresentante, per antonomasia sottintesa, del proprio genere o della propria specie”. si rende, così, possibile un processo di identificazione da parte dei consumatori che appartengono alla stessa specie del modello di riferimento presentato nel messaggio pubblicitario ma anche, contemporaneamente, un'operazione di individuazione da parte dell'emittente pubblicitaria di quello specifico pubblico al quale intende rivolgersi. - il livello topico, che comprende le enunciazioni sia delle “premesse” del discorso, sia dei “topoi” D'altronde, è ben noto come le marche siano in grado di sfruttare la capacità dei media di operare “duplicando la realtà”, cioè affiancando alla realtà fisica un'altra realtà altrettanto vera per gli individui, sebbene si tratti di un luogo che presenta una natura puramente virtuale. Questo perché i mondi comunicativi delle marche tendono a stabilire un rapporto continuativo con il consumatore, facendo ricorso a diversi strumenti di comunicazione. inoltre, generano, nello stesso tempo, delle traduzioni concrete di sé attraverso quegli spettacolari spazi di consumo che vengono realizzati in misura crescente dalle marche aziendali. NB: Le funzioni tradizionalmente svolte dalla marca non sono scomparse, però sono sempre più sopravanzate da una nuova funzione di tipo relazionale che tende a creare un collegamento comunicativo tra la marca e numerosi altri soggetti. La marca, infatti, si è trasformata, negli ultimi anni, in un soggetto sempre più “relazionale” -> non è un caso, di conseguenza, che il marketing abbia progressivamente sviluppato nel corso del tempo un approccio definito anch'esso “relazionale” L'immaginario di marca: Alcuni anni fa, è stato proposto di applicare ai mondi comunicativi sviluppati dalle marche la nozione di “mondo possibile”, messa a punto in precedenza da Umberto Eco. Quando ci si riferisce a questa nozione, si fa riferimento ad un universo culturale ipotizzato dal lettore di un testo sulla base di indizi presenti all'interno del testo stesso. Tale universo culturale possiede una natura narrativa, contiene valori, attori e situazioni e configura un possibile corso di eventi. Diversi studiosi hanno messo in evidenza come il concetto di “mondo possibile”, soprattutto in ragione della sua natura eminentemente narrativa, debba essere considerato limitato rispetto alla ricchezza e alla potenza comunicativa che vengono solitamente manifestate dai mondi comunicativi delle marche odierne. Come può essere interpretata, allora, l'intensa attività comunicativa che viene sviluppata dalle marche? Alcuni hanno proposto un allargamento del concetto di “mondo possibile” di marca, sostenendo che all'interno di tale concetto “si trovano narrazioni, figure, verbalizzazioni, testi visivi, aspetti estetici ed emozioni”. Per analizzare come agiscono oggi le marche aziendali, può essere efficacemente impiegato soprattutto il concetto di “immaginario di marca”. Le narche odierne sono in grado di definire, infatti, un vero e proprio immaginario di tipo culturale, che non costruiscono totalmente ex novo, ma che sviluppano appropriandosi di una porzione del più ampio immaginario esistente nella società. L'immaginario da esse sviluppato non è marginale e parassitario rispetto al mondo esperienziale delle persone, ma contribuisce fortemente ad attribuire un senso ad esso. È, inoltre, differente da un universo puramente narrativo e di finzione come il “mondo possibile”: infatti, alla base contiene, sì, una narrazione, ma questa viene costantemente integrata da numerosi elementi espressivi. “come i miti, le marche si parlano fra loro: costruiscono mi trasformano la loro identità, prima ancora che dotandosi di una forte coerenza interna, entrando in relazione con le marche complementari e concorrenti”. Costruiscono il loro posizionamento sul mercato in maniera differenziale, cercando di affermarsi come un soggetto distinto e diverso da tutti gli altri. Il che è esattamente quello che prevede il concetto di immaginario di marca. Il concetto di “immaginario di marca” tiene conto, inoltre, del fatto che le marche solitamente propongono agli individui anche taluni modelli di comportamento, stili di vita e valori sociali e morali. È proprio appoggiandosi su tali valori che un brand riesce ad operare in maniera particolarmente efficace e appare, perciò, sempre più come una marca in grado di proporre dei valori e di porsi come un interlocutore influente sul piano sociale, in quanto ha la possibilità di indicare agli individui dei principi ai quali ispirarsi per le loro azioni. Non è un caso, perciò, che negli ultimi anni molti brand abbiano progressivamente ampliato le loro connessioni con il contesto culturale e sociale in cui operano. NB: è fondamentale da considerare anche il ruolo svolto sul piano dell'estetica, che rappresenta una delle dimensioni più rilevanti dal punto di vista del funzionamento della marca, ma presenta anche particolari difficoltà sul piano dell’analisi, anche se “fino ad ora sia a coloro che gestiscono le marche sia coloro che li studiano in ambito accademico hanno prestato poca attenzione alla dimensione estetica7”. Per analizzare in maniera sistematica come un brand operi nei confronti della dimensione estetica della marca, è stato proposto un particolare strumento teorico definito “cerniera dell'identità di marca” -> tale strumento tiene conto della distinzione tra le modalità attraverso cui la marca si mostra pubblicamente e i significati che costruisce e ai quali fa riferimento, e individua per ciascuno di tali piani un'ulteriore suddivisione tra la dimensione della variabilità e quella dell’invariabilità. Ne deriva che per Floch, colui che ha proposto tale strumento, l'estetica sia la dimensione invariabile del piano di espressione di una marca, ovvero ciò che corrisponde agli elementi che vengono percepiti dal corpo umano attraverso i cinque sensi e che consentono un brand di essere riconosciuto. /anche il piano del contenuto possiede una dimensione invariabile, denominata “etica della marca”, attraverso la quale una marca è in grado di esprimere la sua visione del mondo/ Per analizzare la dimensione estetica, può essere considerata anche una proposta basata sul concetto di “contagio”. Si tratta, cioè, di un modello che mette in luce come i significati dei testi possano svilupparsi anche grazie alla semplice copresenza di un soggetto che si manifesta attraverso un’“esistenza estetica” e uno dotato, invece, di una “competenza estesica” Come cambiano le marche: A partire dagli anni Settanta del Novecento, il sistema capitalistico è progressivamente entrato nella fase del “biocapitalismo” e ciò sta radicalmente cambiando anche l'identità delle marche. Vale a dire che nelle società contemporanee la parte immateriale del corpo umano, con i suoi processi mentali, le sue immagini e le sue visioni del mondo, consumi in misura crescente la natura di strumento di produzione. I consumatori, infatti, svolgono un ruolo fondamentale, soprattutto grazie all'utilizzo dei mezzi digitali, all'interno di processi aziendali che sono estremamente importanti. Quello che accade con sempre maggior frequenza è che, nel suo tempo libero, il consumatore agisce all'interno del web come se fosse un vero e proprio lavoratore. 7 “dimensione estetica relativa alla marca” = si tratta di tutte le manifestazioni che vengono percepite dagli esseri umani attraverso i sensi: aspetti relativi alla visione, al suono, agli odori, al gusto e al tatto. Le fabbriche tradizionali operavano sfruttando la forza lavoro presente al loro interno, mentre oggi, al posto di tali fabbriche, ci sono in misura crescente le marche, le quali producono valore economico sfruttando il lavoro che viene quotidianamente svolto dai consumatori e dalla società, cioè quel surplus di innovazioni, idee e creatività che gli individui producono in continuazione con i loro comportamenti, le loro relazioni e le loro esperienze quotidiane. Il web si è letteralmente trasformato in una vera e propria “fabbrica sociale”. Tutto ciò è stato reso possibile dall'instaurarsi di quel processo di intensa “mediatizzazione” della vita sociale, cioè da quello elevato impiego dei media che caratterizza le attuali società ipermoderne. Le marche aziendali non devono fare altro che tentare di operare in qualità di mezzi di comunicazione, cioè come strumenti relazionali, come ambienti autonomi dove i produttori e i consumatori sono in grado di stabilire una connessione reciproca. Questo perché la marca si caratterizza per la sua capacità di creare e gestire delle relazioni sociali e, pertanto, genera il suo valore economico proprio a partire da questa sua capacità. Gli stretti rapporti costruiti con i loro consumatori, fanno sì che oggi le imprese siano in grado di sapere molto su tali soggetti; e in futuro le possibilità di conoscerli cresceranno ulteriormente (perché nelle apparecchiature elettroniche si vanno sempre più diffondendo sensori in grado di rilevare non solamente quello che le persone scrivono o fanno, ma anche le emozioni che provano). Ne deriva, dunque, la possibilità di stabilire un rapporto maggiormente intenso con i consumatori, che porta, a sua volta, alla concretizzazione di quel particolare modello economico e sociale chiamato “capitalismo emozionale”, ovvero un modello economico e sociale “in cui il sentire viene posto a componente essenziale dei comportamenti economici e in cui la vita emotiva - quella dei ceti medi in particolare - segue la logica dei rapporti economici e dello scambio”. Dunque, il mondo della marca si sviluppa fondamentalmente da un processo di collaborazione nel quale assumono un ruolo centrale i contenuti che vengano elaborati da parte dei consumatori. Perché oggi, sempre più frequentemente, “la marca assume un discorso altrui, non costruisce la pubblicità, ma si avvale di discorsi che circolano nella semiosfera, decide di sponsorizzarli, di alimentarli, di organizzarli, di distribuirli”. Agendo in tal modo, il mondo della marca non può che essere dotato di un'elevata efficacia comunicativa, poiché i consumatori hanno la possibilità di adattarlo alle loro specifiche esigenze. UN MODELLO PER L’ANALISI DELLA PUBBLICITÀ: Il modello attanziale: La marca impiega principalmente uno strumento come la comunicazione pubblicitaria per dare vita al suo immaginario, che è possibile analizzare attraverso uno specifico modello interpretativo. … foto modello … - referenziale = il linguaggio pubblicitario svolge una funzione rappresentativa, ovvero di semplice rappresentazione di una realtà che è già dotata di un significato - mitica = il linguaggio svolge una funzione costruttiva in quanto il significato non è già presente nella realtà del prodotto ma viene costruito esclusivamente attraverso il discorso pubblicitario. Ricorre spesso alle leggende, eroi, simboli, ovvero a referenti mitici che sono già conosciuti e strutturati e li associa con il prodotto - sostanziale = è la negazione della pubblicità mitica, considerata, in questo caso, una forma di pubblicità che usa il prodotto in maniera pretestuosa. Essa si batte, invece, per farlo vivere in pubblicità, attribuendogli, con le sue virtù, una chiara centralità /l'atto creativo è concepito come una specie di “depurazione”, che consente di esplorare emettere in luce la natura profonda del prodotto/ - obliqua = è la negazione della pubblicità referenziale, in quanto sostiene che nel messaggio il significato non è già dato e utilizza la forza dell'ironia e del paradosso per attivare la capacità cognitiva del fruitore e stimolare quest'ultimo a co-produrre il significato attraverso una strategia di spostamento, di messa in distanza rispetto al discorso che riguarda le finalità del prodotto NB: nell'attività di comunicazione possono essere impiegate tutte e quattro le ideologie pubblicitarie individuate, anche se di queste solitamente una soltanto e la prevalente e definisce, pertanto, ciascuna marca come referenziale, mitica, sostanziale oppure obliqua. Va considerato, inoltre, che, secondo Floch, tra il quadrato delle “valorizzazioni dei beni di consumo” e quello delle “ideologie pubblicitarie” non esiste una precisa corrispondenza, perché, mentre il primo si occupa di valori il secondo è relativo alla dimensione della discorsività e dell'azione di tipo enunciativo. I semiotici tendono ad attribuire un carattere di universalità al quadrato semiotico, mentre esso non è che uno dei tanti strumenti di questo tipo possibili. È stato sviluppato, ad esempio, un'ulteriore modello semiotico, ancora più complesso di questo, che non si basa sulla figura del quadrato ma su quella dell'esagono, le cui opposizioni ternarie, e non più binarie, comprendono anche un terzo termine, medio o neutro. Il quadrato semiotico “come tutti i modelli scientifici, è una rappresentazione visiva convenzionale - arbitraria, dunque, ma con la consapevolezza di esserlo - volta ad aumentare l'intelligibilità di ciò che è chiamato a spiegare”. Il modello comunicativo della marca: Per comprendere come operano sul piano comunicativo i fenomeni di consumo, uno dei modelli più efficaci da utilizzare è il “modello comunicativo della marca”. I primi due soggetti che compongono questo modello sono: - l’emittente empirico (= l’impresa) - il destinatario empirico (= il consumatore) Entrambi questi soggetti fanno riferimento ad un determinato contesto socioculturale e sono collegati tra di loro da un medium che consente la circolazione dei messaggi. MESSAGGI: i messaggi comprendono, al loro interno, due ruoli astratti che simboleggiano l’emittente e il destinatario empirici: - l’enunciatore (= la marca) -> e corrisponde all’immagine di sé che viene prodotta dall’emittente empirico - l’enunciatario (= il consumatore rappresentato) -> che è l’immagine del recettore che il testo si costruisce è proprio all’interno del messaggio che è possibile osservare, attraverso una serie di tracce di riconoscimento in esso contenute, la relazione che unisce enunciatore ed enunciatario. Attraverso l’individuazione di tali tracce è possibile, quindi, riconoscere la natura specifica sia dell’enunciatore che dell’enunciatario, ma anche la relazione tra essi, che è comportata dal particolare punto di vista adottato dal messaggio e il tipo di rapporto con il messaggio che è previsto per quel destinatario empirico chiamato ad indentificarsi con l’enunciatario. Le tracce contenute nel messaggio sono: - per quanto riguarda il linguaggio verbale: deittici (tempi verbali, avverbi di luogo e tempo, pronomi dimostrativi …) elementi “sovrasegmentali” (cioè non riducibili ai frammenti nei quali il testo può essere frazionato) - per quanto riguarda il linguaggio visivo: configurazione figurativa gioco di sguardi tra i protagonisti angolazioni delle inquadrature movimenti di camera … All’interno del messaggio è stata individuata anche la presenza di un cosiddetto “enunciatore modello”, ossia quell’immagine ideali dell’emittente che il destinatario si costruisce nel corso del suo rapporto con tale messaggio e che potrebbe essere affiancata da un “enunciatario modello”, cioè da quell’immagine ideale di sé che il destinatario vuole offrire agli altri IMMAGINARIO DI MARCA: quando si parla di “immaginario di marca”, si fa riferimento ad un universo comunicativo che riproduce e sviluppa una frazione dell’“immaginario sociale”. L’immaginario di marca, all’interno del messaggio, stabilisce una relazione con enunciatore ed enunciatario Quello che succede è: l’emittente opera cercando di inviare dei messaggi al destinatario. Il destinatario non decodifica passivamente i significati apparentemente contenuti nel messaggio inviatogli dall’emittente; al contrario, riveste un ruolo estremamente importante nel processo di comunicazione, perché contribuisce in prima persona alla produzione di significati. Tali significati non sono, però, da ritenere come totalmente soggettivi, perché tra destinatario e messaggi si stabilisce sempre un rapporto di “cooperazione interpretativa”. Il destinatario si trova, perciò, in una situazione che è, allo stesso tempo: - di debolezza, in quanto il suo percorso interpretativo è già previsto all’interno del messaggio - di forza, perché, senza la sua presenza attiva, il percorso interpretativo rimarrebbe allo stato virtuale e non potrebbe concretizzarsi CONTESTO SOCIOCULTURALE: il contesto socioculturale è quella situazione empirica nella quale l’emittente e il destinatario si trovano ad operare e che influenza il loro processo comunicativo. Si tratta, comunque, di un qualcosa di esterno al verso sistema comunicativo, una sorta di prerequisito indispensabile alla sua attività. Nel sistema comunicativo della marca, il contesto è rappresentato dal mercato e dalla società MEDIUM: in tale sistema comunicativo, il ruolo di “medium” viene ricoperto dai diversi mezzi di comunicazione impiegati, ad oggi per lo più i media. I media, oltre a svolgere il ruolo di “media”, hanno anche il compito di contribuire alla produzione di un altro elemento fondamentale del contesto socioculturale del sistema comunicativo della marca: l’enciclopedia sematica. ENCICLOPEDIA SEMANTICA: L’enciclopedia semantica è quel complesso sistema di conoscenze che rende possibile l’attivarsi di un processo comunicativo tra l’emittente e il destinatario, perché comprende e organizza al suo interno numerosi elementi: significati culturali, interpretazioni, definizioni, istruzioni ecc. Il concetto di enciclopedia prevede, inoltre, anche la presenza di sceneggiature o frames, cioè modelli prefissati di comportamento legati a situazioni stereotipate e pronti ad attualizzarsi quando la situazione lo richiede. NB: le funzioni dell’enciclopedia sono spesso ostacolate da quella strutturale mancanza di simmetria che esiste tra l’enciclopedia propria dell’emittente e quella propria del destinatario, ma, soprattutto, tra l’enciclopedia realmente posseduta dal destinatario e l’enciclopedia immaginata per quest’ultimo dall’emittente quando costruisce il suo enunciatario all’interno del messaggio. Le cause di tale fenomeno sono molteplici: - difetti relativi al medium di trasmissione - ambiguità e contraddizioni semantiche dovute alla cattiva costruzione del messaggio - imperfetta comprensione dell’enciclopedia del destinatario da parte dell’emittente - delegittimazione totale o parziale dell’emittente da parte del destinatario - interferenze prodotte dall’eccessiva quantità e dalla natura entropica dei messaggi circolanti nell’odierno sistema dei media La mancanza di simmetria enciclopedica deve essere ridotta al minimo nella comunicazione di un messaggio, perché comporta una notevole perdita di risorse. Si cerca, generalmente, di rimediarvi usando la “ridondanza”, cioè la ripetizione dei messaggi. Uno strumento al quale la pubblicità fa spesso ricorso, anche se presenta dei rischi, come la produzione di effetti di forte banalizzazione sull’immagine di marca Il cibo di McDonald's, infatti, è un “sostituto materno” in quanto soddisfa l'ancestrale bisogno di regressione e protezione. Vi si ritrova quel bisogno di calmare la propria angoscia che tutte le persone hanno cercato di soddisfare, dapprima succhiando il seno materno e poi succhiando il pollice nel caso del bambino o portandosi caramelle o sigarette alla bocca nel caso dell'adulto. L'atto di addentare un hamburger “costituisce, in sé, un sostituto del seno, sia per la forma, il colore, la consistenza, sia perché viene mangiato direttamente con le mani e lo si porta alla bocca”. Si spiega, così, come mai da McDonald's siano state simbolicamente eliminate “le leggi imposte dal padre”, cioè quel sistema di regole divieti sul quale si basa da sempre l'alimentazione occidentale. Infatti, vi si può mangiare liberamente, con le mani, in piedi, seguendo un qualsiasi ordine dei cibi, facendo rumore e riempiendosi a volontà. La “madre-McDonald's”, dunque, è poco attenta e poco esigente sul modo di stare in tavola, ma vuole soprattutto piacere ai suoi figli. Ferrero, Rocher (con Richard Gere): Rocher è una pralina al cioccolato particolarmente complessa, con una struttura interna che comprende diversi strati di prodotto. Ferrero ha rivestito questa sua originale creazione non packaging in grado di comunicare ricchezza attraverso l'impiego di una carta dorata che ricopre, ma allo stesso tempo evidenzia e valorizza, le asperità create dalle scaglie di nocciola presenti sulla superficie di cioccolato. Per tale carta non è stato utilizzato un colore giallo-oro brillante e immediatamente identificabile con l’oro in quanto metallo, bensì un più caldo oro opaco. Il risultato è comunque che il packaging di Rocher può far pensare a un prezioso gioiello. Nei primi anni, il prodotto è stato comunicato in Italia con messaggi pubblicitari televisivi che mettevano in scena dei ricevimenti offerti da un ipotetico ambasciatore. È, poi, cominciata una lunga saga a episodi che ha avuto come protagonisti una contessa e il suo autista Ambrogio. Tale saga ha attribuito notorietà e prestigio al prodotto, ma anche collocato quest'ultimo in un mondo comunicativo arretrato sul piano culturale, sino al punto di essere oggetto di battute ironiche nei media e nella società. È risultato, cioè, evidente che il mondo costruito dalla pubblicità era poco adatto a un prodotto come Rocher, che ha un carattere spiccatamente edonistico e si rivolge, pertanto, a un consumatore moderno e socio culturalmente avanzato. L'azienda, pertanto, ha preso coscienza che era necessario modernizzare il mondo pubblicitario di Rocher e ha commissionato all'azienda Ogilvy & Mather uno spot uscito sugli schermi televisivi italiani nel 1999. Tale spot è ambientato in un teatro dove viene messa in scena un'opera lirica e nella prima inquadratura si mostra, ripreso da dietro, un soprano che interpreta sul palcoscenico una delle più celebri arie dell'opera “La Traviata”. Si tratta di un brano musicale dal carattere decisamente romantico che prosegue per tutta la durata dello spot; l'inquadratura iniziale mostra anche l'interno del teatro. Poi la camera si avvicina con inquadrature sempre più ristrette a un palco dove una ragazza osserva rapita allo spettacolo: è bella, vestita elegantemente, con un abito nero scollato e una semplice collana di perle; avvicina agli occhi un piccolo binocolo che le consente di vedere come il soprano abbia nella scollatura dell'abito un fiore giallo che richiama l'aspetto del cioccolatino Rocher. è la prima comparsa in scena del prodotto, anche se per il momento soltanto “virtuale”. La ragazza stringe le labbra e sembra voler indicare allo spettatore che prova il desiderio di mangiare il Rocher intravisto nella scollatura. Nel palco a fianco c'è l'attore Richard Gere, che al momento è visibile allo spettatore ma non alla ragazza. Anch'egli elegante grazie allo smoking nero che indossa, si toglie il binocolo dagli occhi e si volta sorridente verso la ragazza. Poi prende un Rocher che fa parte di una piccola piramide collocata su un vassoio d'argento per posizionarlo sulla balaustra del palco della ragazza e si concede un'espressione di soddisfazione. La ragazza, accortasi della presenza del Rocher mentre sta per sollevare nuovamente il binocolo, prende in mano il cioccolatino e guarda la sua etichetta (e con essa la guarda anche lo spettatore). Gere ha una seconda espressione di soddisfazione mentre la ragazza scarta il Rocher lo porta alla bocca e testimonia visibilmente il piacere che sta provando nell'assaporare chiudendo gli occhi sorridendo. Poi si volta verso il palco che si trova alla sua sinistra per vedere chi è stato a farle quel regalo e con grande sorpresa scopre che è stato il celebre attore statunitense. Così, non riesce che a balbettare le parole “ma... ma lei è…” a cui Gere risponde ironicamente “Ambrogio”, cioè il nome dell'autista della contessa che era presente nei precedenti spot del prodotto. Poi sorride ed esibisce un Rocher con la mano destra alzata. Su questa immagine compare, in sovrimpressione in alto a sinistra, la scritta “Ferrero Rocher. Momenti d'oro.”, Con la quale si vuole probabilmente esprimere l'eccezionalità della situazione vissuta dalla protagonista, ma anche richiamare la carta di colore oro che ricopre il prodotto e comunicare, così, la preziosità di quest'ultimo. Preziosità che si vuole estendere evidentemente anche alle gratificazioni orali offerte da Rocher. Sul piano narrativo, si tratta di una storia dalla struttura molto classica, nella quale il soggetto (l’eroe Gere), per potersi congiungere con l'oggetto di valore a cui aspira (la ragazza), affronta e supera una prova che consiste nell'utilizzare la sua intelligenza per dimostrare la sua abilità sul piano seduttivo. L'opponente, in questo caso, si concretizza nella situazione che ostacola l'approccio (la rappresentazione teatrale impone agli spettatori di restare in silenzio e tra i palchi esistono delle barriere come le pareti laterali), ma il prodotto interviene nel ruolo di aiutante, di “strumento magico” che attribuisce al soggetto la forza adeguata al superamento della prova e alla conquista della ragazza. Dunque, la comparsa in scena del prodotto modifica la relazione tra i due protagonisti e il prodotto stesso, grazie a questo suo ruolo, beneficio di un processo di valorizzazione. In questo caso il soggetto si aiuta da solo: il suo statuto di divo, infatti, diventa determinante per poter conquistare l'oggetto di valore. Va considerato, poi, che questo spot non avrebbe potuto vedere la luce senza la precedente esistenza di due film diretti entrambi dal registra Garry Marshall e interpretati dalla stessa coppia di attori (Giulia Roberts e Richard Gere): “Pretty Woman” e “Se scappi, ti sposo”. i creatori dello spot si sono senz'altro ispirati a questi due film e ciò consentito loro di stabilire una complicità con il consumatore, stimolando attivamente le conoscenze derivanti dalle sue esperienze come spettatore di cinema. Lo spot Rocher, pertanto, ha potuto instaurare con i due film hollywoodiani delle relazioni che si configurano come esempi di quel tipo di dialogismo intertestuale che Umberto Eco ha denominato “citazione stilistica”, cioè il caso di un testo che “cita, in modo più o meno esplicito, una cadenza, un episodio, un modo di narrare cui rifà il verso”. Vale a dire che siamo di fronte a una citazione esplicita, di cui sono coscienti sia gli autori dello spot che i destinatari di quest'ultimo, anche se ciò è sicuramente più vero per quanto riguarda il film “Pretty Woman”, del quale è riconoscibile nello spot una vera e propria scena (-> che è stata, però modificata, motivo per il quale si può identificare una certa vicinanza al concetto di “ricalco libero”, sempre coniato da Umberto Eco, basato su tentativi di rielaborazione di un testo che hanno, rispetto ad esso, esplicite finalità interpretative). Nello spot Rocher mancano, però, tentativi di parodia, omaggio o gioco ironico nei confronti del testo originale, fenomeni che Eco ritiene abbastanza usuali nei casi di dialogismo intertestuale. Ciò non significa che l'ironia non sia comunque presente nello spot, il quale, anzi, riesce a modernizzare l'immagine del prodotto proprio attraverso una trovata ironica: Richard Gere che si qualifica come l'autista Ambrogio. Evidentemente non lo è, ma tale trovata serve a stimolare il ricordo da parte dello spettatore di ciò che era stato precedentemente comunicato dall'azienda e, allo stesso tempo, ad affermare che per Rocher comincia una nuova fase, più moderna e attuale. Nello spot di Rocher si trovano altri due esempi delle forme di dialogismo intertestuale individuate da Eco: - la citazione del topos. Questa citazione è presente perché la situazione, al di là del fatto che venga riconosciuta come direttamente ripresa da Pretty woman, viene, comunque, ricondotta dallo spettatore a una situazione “di genere”, cioè a una realtà tipica di certe commedie cinematografiche statunitensi che hanno avuto il loro massimo splendore a Hollywood tra gli anni Trenta egli anni Cinquanta - la citazione enciclopedica. Questa si trova, invece, nel meccanismo consistente nel rimando dello spettatore a una realtà esterna allo spot pubblicitario e presente nei media: le notizie sui due attori relative alla loro carriera cinematografica, alla loro vita affettiva personale, alle vicissitudini che hanno ritardato per diversi anni la possibilità di riunirsi in un film ecc. Insomma, la comprensione dello spot Rocher presuppone che lo spettatore conosca non soltanto dei film, ma anche dei contenuti enciclopedici che sono presenti al di fuori di tali film Cadbury, Gorilla: Cadbury è un'azienda alimentare dolciaria operante a Birmingham sin dal 1824. Nel 1865, George Cadbury ha acquistato una innovativa macchina olandese che era in grado di estrarre meccanicamente e senza bisogno di additivi i grassi contenuti nei semi di cacao. Poteva, così, offrire per la prima volta agli inglesi un cioccolato puro e dal 1867 ha cominciato a comunicare tale possibilità con lo slogan “absolutely pure”. Ha cercato di promuovere, cioè, non soltanto un prodotto, ma un vero e proprio concetto di marca come l'ideale di purezza: dunque, ha adottato una strategia di marca e la sua azienda ha continuato a farlo per tutto il Novecento. Nel corso di tale secolo, ha anche cercato di comunicare attraverso uno specifico stile visivo sia nei packaging che nei messaggi pubblicitari. Lo spot Gorilla del 2007 ne è un chiaro esempio. INSERIRE FOTO Quindi, lo spettatore è portato dallo spot a vivere il prodotto impiegato dall'eroe come lo strumento per congiungersi con una donna affascinante. Ciò avviene anche perché, nel momento del consumo di tale prodotto, l'eroe e la ragazza, seppure ancora prati, hanno in comune lo stesso modo di tenere la testa: leggermente obliquo. Sono inoltre Uniti dal fatto di essere gli unici protagonisti della narrazione a consumare il prodotto. La contrapposizione tra il ruolo dell'eroe e quello del suo antagonista è molto evidente, anche perché per realizzarla non è stato impiegato il linguaggio verbale, ma soltanto quella ricca capacità di suggestione che è propria delle immagini. A differenza dell'opponente, il soggetto-eroe è continuamente in movimento. Si muove in senso orizzontale nello spazio, esprimendo dinamismo e velocità. Quando si siede al tavolino, è soltanto per un breve momento. E anche quando si limita a guardare la ragazza non può esimersi dal fare qualcosa come compiere il gesto sexy e allusivo d passarsi un dito sulle labbra, citazione esplicito dell'analogo e celebre gesto compiuto da Belmondo nel film “Fino all'ultimo respiro” di Jean-Luc Godard. Si configura, cioè, quale eroe in azione, che sta compiendo un'impresa e può farlo proprio perché è un soggetto dinamico pieno di energie. Al contrario, il suo antagonista è mostrato allo spettatore soltanto immobile è seduto dietro il tavolino, perciò in una situazione di staticità che lo connota immediatamente come debole e perdente. Il confronto tra i due protagonisti avviene, quindi, sul piano della forza. Non è un caso che il momento di massimo scontro tra di loro si è rappresentato da un contatto tra le rispettive mani, ossia una sorta di “braccio di ferro”, la più classica delle prove di forza maschili. Il filmato Martini è, dunque, giocato sulla contrapposizione tra un soggetto dinamico e forte e uno statico e debole. Ciò comporta che a livello più profondo del messaggio, cioè al livello del quadrato semiotico, sia presente una chiara opposizione tra i valori “giovane” e “vecchio”. L'eroe è sostanzialmente estraneo rispetto a una dimensione di tipo passionale e tende a caratterizzarsi soprattutto come un personaggio basato sull'azione. Anche la ragazza sembra aver poco a che vedere con dinamiche di tipo passionale, sebbene abbandoni il suo stato di tranquillità per congiungersi con una condizione che può costituire l'ignoto di una possibile avventura. Ciò non impedisce, però, a questo spot di suscitare probabilmente uno stato passionale presso lo spettatore. È noto, infatti, che non è necessario che le emozioni siano rappresentate all'interno di un messaggio, in quanto “il percorso emozionale indotto nel lettore non ha alcun bisogno di rispecchiare un percorso emozionale raccontato”. Rispetto alla precedente strategia pubblicitaria di Martini Bianco, in questo caso la comunicazione opera su binari molto più diretti, espliciti e, probabilmente, anche più efficaci. Non soltanto perché si è adottata una struttura di tipo narrativo, ma anche perché tutti i diversi piani del messaggio operano sinergicamente per raggiungere un unico risultato: la valorizzazione del prodotto. Un discorso a parte merita la comparsa finale del marchio Martini sul sedere della ragazza. Dal punto di vista retorico, infatti, viene attivata la figura della “reticenza” o “aposiopesi”, che finge di mascherare mentre virgola in realtà, valorizza e amplifica. Si tratta di una figura che viene solitamente impiegata nell'ambito del linguaggio erotico e seduttivo, in quanto consente, come in questo caso virgola di attirare l'attenzione e stimolare l’immaginazione erotica del destinatario. Budweiser, Vero: La birra si caratterizza per il possesso di una ricca estetica barocca e ciò la contrappone al vino, la cui estetica e, invece, essenziale e classica. Questa caratterizzazione può probabilmente spiegare come mai essa abbia dato vita, in pubblicità, ha un vivace mondo comunicativo, che contiene numerose situazioni narrative. Basti pensare soltanto a quelle create per la birra Budweiser, il cui nome viene spesso contratto in Bud. Prima di analizzare specificatamente uno spot Budweiser, uscito nel 1999 realizzato dall'agenzia di DB di Chicago, va detto che nel paese da cui la stessa Budweiser proviene, gli Stati Uniti, il mercato della birra è particolarmente ampio, essendo, tradizionalmente, gli americani forti consumatori di questa bevanda. Si tratta, inoltre, di un mercato nel quale il consumo del prodotto è prevalentemente effettuato da giovani di sesso maschile. Va considerato, infine virgola che il messaggio di Budweiser è rivolto a un contesto sociale, quello statunitense, nel quale, nonostante i contrasti senti da tempo, bianchi e neri si sono discretamente integrati. FOTO Lo spot Budweiser presenta quattro giovani che comunicano tra loro principalmente attraverso il telefono, sia bianchi che di colore, ai quali se ne aggiunge alla fine anche un quinto, che si trova in strada ed è collegato mediante il citofono. I quattro ragazzi sono a casa loro e visibilmente in una situazione di relax, come testimonia anche il fatto che tre di loro hanno in mano una Budweiser. Probabilmente, siamo di fronte a un gruppo di amici, in quanto i personaggi sembrano avere una grande familiarità tra loro. Usando il telefono e facendo ricorso anche all'avviso di chiamata e alla possibilità di mettere in attesa colui col quale si sta comunicando, parlano creando un flusso circolare di comunicazione, nel quale ricorre quasi sempre l'espressione gergale “wassup” (riassunzione risultato di una contrazione in uso nella subcultura giovanile hip hop dell’espressione informale di saluto “what’s up?”). Evidentemente si tratta di un'espressione che i membri del gruppo utilizzano di solito per comunicare tra loro. Per essi rappresenta, cioè, una sorta di codice di riconoscimento, al punto che può progressivamente diventare, nel corso dello spot, un semplice urlo sguaiato privo di senso, ma ugualmente riconoscibile ed efficace per comunicare. Alla fine, compare in alto al centro dell'immagine il marchio rosso di Budweiser con sotto la parola “true”, che viene pronunciata due volte da uno speaker e la seconda pulsa in corrispondenza del suono. La marca Budweiser utilizza da sempre nella sua comunicazione pubblicitaria l'ironia e anche in questo spot vi fa ricorso: alla fine dichiara che è tutto vero ciò che è stato mostrato. In realtà, si tratta di una storia costruita con abilità e di ciò, evidentemente, lo spettatore consapevole. Si presenta, però, come un insieme di situazioni spontanee, che sembrano essere estratte di peso dalla vita quotidiana e che, anche grazie ad uno stile di ripresa immediato fatto di inquadrature ravvicinate molti primi piani dei protagonisti, invitano lo spettatore a entrarvi. Probabilmente, dunque, lo spot riesce a ottenere un elevato livello di identificazione presso la fascia giovane della popolazione, che sperimenta abitualmente situazioni di questo tipo, cioè caratterizzate dalla presenza di un atteggiamento di tipo ludico: come nello spot, dove tutti i personaggi comunicano che stanno giocando e si stanno divertendo. Ne risultano, quindi, delle connotazioni di simpatia per l'immagine della marca Budweiser. Tale marca si rivolge, generalmente, ad un pubblico giovane che è in grado di apprezzare l'ironia che contiene i suoi messaggi pubblicitari. Ciò è ancora più vero in questo caso, dove i cinque giovani amici sono i protagonisti assoluti della storia raccontata e possono, dunque, suscitare un processo di identificazione presso i loro coetanei. La capacità dello spot di coinvolgere un pubblico giovanile è accentuata, inoltre, dall'impiego nei dialoghi di un linguaggio immediato e ridotto all'essenziale. Lo spot Budweiser qui analizzato, in realtà, non rappresentava che la prima fase di una strategia pubblicitaria basata sulla serializzazione, cioè il primo episodio di una saga che è stata sviluppata nel corso degli anni successivi, che includeva episodi simili con gli stessi protagonisti e anche alcune parodie create dalla stessa azienda produttrice. Soprattutto, però, è diventato un vero e proprio fenomeno di costume, con numerose parodie nel mondo dei media. Questo testimonia il successo che è stata in grado di ottenere e che è stato, probabilmente, facilitato anche dal tipo di umorismo impiegato solitamente dalla marca, facilmente accessibile e vicino a quello impiegato nelle sitcom televisive e nei film di maggior successo. Sebbene, nello stesso tempo, si tratti anche di un “tipo di umorismo che consente alla marca di apparire attuale e adatta alla situazione”. Heineken, Biliardo: Lo spot pubblicitario “biliardo” è stato realizzato dall'agenzia J. Walther Thompson per Heineken è trasmesso in Italia nella primavera del 2002. FOTO All'interno di un locale affollato, un giocatore di biliardo sfrega con un gessetto la punta della sua stecca allo scopo di creare attrito tra questa e la palla, ma anche per cercare la giusta centrazione. Le persone intorno al tavolo non guardano perché stanno conversando tra loro. il giocatore, mentre sta per far partire la stecca, urta involontariamente una bottiglia di birra Heineken posta su un ripiano alle sue spalle. La camera mostra in primo piano il viso molto concentrato del giocatore e poi la coda della stecca virgola che, con un movimento da sinistra verso destra, tocca la bottiglia di birra punto a quel punto, il giocatore alza per un istante lo sguardo è nota, con stupore virgola che le altre persone lo stanno guardando. Dopo aver visto davanti a sé due ragazze, una bionda e una mora, volta allo sguardo verso la sua sinistra e qui scopre due ragazzi che hanno in mano una bottiglia di birra Heineken, anch'essi interessati alla partita di biliardo in corso. Il giocatore cerca di non pensarci e si appresta nuovamente a colpire la palla bianca, ma per la seconda volta la camera indugia sulla coda della stecca, che questa volta colpisce decisamente la bottiglia che barcolla. Nuovamente l'inquadratura va sulle due ragazze che adesso sono riprese a mezzo busto e isolate dal gruppo e i loro volti assumono un'espressione preoccupata. La ragazza bionda ha la bottiglia con l'etichetta rivolta verso la camera e comunica virgola in tal modo, chiaramente allo spettatore che sta bevendo una birra Heineken, presentandosi come una specie di portavoce di tutte le ragazze del locale. Lo spot giunge al termine e, come in un film ad alta tensione, il ritmo dei fotogrammi subisce un'accelerazione. Quindi vediamo in pochi istanti: la coda della stecca che urta la bottiglia, un ragazzo che la prende al volo e che, presumibilmente, è anche il suo legittimo proprietario, il giocatore che sbaglia il colpo. A questo punto il ritmo dello spot rallenta. Si vedono i due ragazzi collocati alla sinistra del giocatore che tirano un sospiro di sollievo, mentre le due ragazze riprendono con tranquillità e il loro dialogo. Il ragazzo che ha preso la bottiglia viene inquadrato in primo piano di tre quarti mentre beve soddisfatto la sua Heineken, poi il “salvatore” e il giocatore sono ripresi insieme e i loro visi evidenziano espressioni totalmente opposte: uno beve con tutta calma, mentre l'altro è imbarazzato per aver sbagliato il colpo e per la brutta figura che pensa di aver fatto punto La storia può essere letta anche al contrario, partendo dal programma narrativo dell'opponente, cioè la ragazza, la quale, avendo, forse, lo stesso programma narrativo di Clooney, a sua volta fallisce, in quanto non viene riconosciuta come un'attrice già famosa nonostante la giovane età. Lo spot è basato sulla dialettica fra la notorietà e l'animato e su come la notorietà non sia una proprietà intrinseca dei personaggi in scena (mentre lo è del prodotto), ma il personaggio la “guadagni” o vi “rinunci” mediante i suoi rapporti con coloro che lo circondano. È, quindi, la relazione fra i personaggi che porta lo spettatore a comprendere il significato complessivo dello spot. Il quadrato semiotico si basa sulla contrapposizione tra i valori “notorietà” e “anonimato”. Dal punto di vista dinamico, ci si può muovere sul quadrato semiotico partendo da uno stato iniziale di “non-notorietà”, in quanto la situazione è comune: chiunque può entrare in una Boutique Nespresso per prendere un caffè. Si passa, poi, a uno stato di “non-anonimato”, dove lo spettatore riconosce l'identità di George Clooney, e allo stato di “anonimato”, dove Camilla Belle non riconosce l'attore, fino ad arrivare allo stato di “notorietà” che da entrambi i personaggi è affidato al caffè Nespresso (unico elemento riconosciuto dai due attanti). Lo spot costituisce un esempio di quel tipo di ideologia pubblicitaria che Floch ha definito “mitica” e nel quale il senso non è già nel prodotto, ma viene costruito attraverso il discorso pubblicitario, il quale, infatti, parte dal presupposto che all'epoca la cialda Nespresso era ancora poco nota e non era, perciò, così desiderabile come è diventata in seguito. È, dunque, l'inserimento di un elemento che vive di una propria identità anche fuori dal messaggio pubblicitario (ovvero George Clooney, divo dello spettacolo considerato estremamente ricco di fascino e sex appeal) a renderla un prodotto desiderabile associando i suoi valori alla marca. Si può dire, quindi, che è per l'impiego di un testimonial quale George Clooney, così forte e carico di valori propri che in gran parte coincidono con quelli della marca, che questo spot funziona, creando un'immagine desiderabile. Nonostante ciò, il suo protagonista non riesce a raggiungere l'obiettivo che si è dato sul piano della notorietà, ma, come si è detto, probabilmente la sua elevata importanza al di fuori dello spot pubblicitario minimizza l'impatto negativo dell'insuccesso interno alla narrazione. La marca ha espresso si rivolge con questo filmato a destinatari empirici che sono sia uomini che donne, giovani ma non giovanissimi, inseriti in un contesto sociale dinamico, cosmopolita e contemporaneo, con un forte desiderio di mostrare la propria identità sociale e disposti a cambiare le proprie abitudini, impiegando nuove tecnologie come la nuova macchina per il caffè qui pubblicizzata. PUBBLICITÀ AUDIOVISIVA DELL’ABBIGLIAMENTO: Levi’s, Pick up: Questo spot fa parte, insieme ad altri, di quella strategia pubblicitaria che l’azienda americana di jeans Levi’s ha attivato a partire dagli anni Ottanta del Novecento sul mercato europeo allo scopo di rilanciare il suo modello di pantaloni più famoso: il 501. Si è avvalsa, a tale proposito, della collaborazione di un’agenzia pubblicitaria di Londra particolarmente creativa: la BBH (Bartle Bogle Hegarty). Per superare il forte calo nelle vendite che il prodotto incontrava all’epoca, principalmente a causa della crisi dei movimenti giovanili dei decenni precedenti che facevano largo uso di jeans, la Levi’s e la BBH hanno pensato di creare vari racconti ambientati in una delle situazioni sociali più affascinanti della storia del prodotto: il mondo dei giovani americani degli anni Cinquanta, reso celebre da film come “Grease” e “American graffiti” e da programmi televisivi come “Happy Days”. Così, hanno dato vita a una serie di filmati di grande successo, ambientati proprio in questa fase storica e che hanno preso avvio con il celebre spot “Laundrette”, e nel 1985 ha probabilmente presentato per la prima volta in pubblicità un “uomo oggetto”, una persona, cioè, che, come era già successo numerose volte per il sesso femminile, si caratterizza per essere, fondamentalmente, un corpo da guardare e desiderare. Merita una particolare attenzione lo spot Levi’s Pick Up, uscito nel 1989. FOTO Tale spot contiene molte inquadrature, non separate da bruschi stacchi, ma da veloci dissolvenze incrociate che hanno la capacità di rendere fluida la narrazione. Essa presenta un uomo, vestito in maniera formale con giacca e cravatta, che gli occhiali neri e classici fanno vagamente somigliare a Clark Kent (l'alterego “imbranato” di Superman), insieme alla sua fidanzata. I due sono rimasti a piedi con il loro coupé di lusso lungo una strada sperduta nel deserto americano. Passo un furgoncino con un altro uomo, più giovane, il classico “bel selvaggio” dalla personalità forte e vincente, che indossa jeans e stivali e si ferma per aiutare la coppia. Il primo uomo si brucia maldestramente la mano cercando di svitare il tappo del radiatore della sua automobile. Allora, l'altro ragazzo si toglie il fazzoletto che porta al collo per proteggere la mano e svitare il tappo. Poi, scuotendo la testa per indicare che con il motore non c'è nulla da fare, si toglie i jeans allo scopo di utilizzarli per trainare l'auto con il suo furgone. Rimasto in mutande, fa salire con sé sul furgone la ragazza, mentre il fidanzato si siede al volante della sua auto. Il giovane, però, accelera bruscamente e provoca uno scossone che fa cedere il paraurti del furgoncino a cui sono legati i jeans. I due ragazzi proseguono felici, mentre il fidanzato rimane sull'alto a gesticolare, solo e disperato. In questo spot, come in molti altri filmati pubblicitari Levi’s dello stesso periodo, domina il tema dell'allontanamento dei jeans dal loro proprietario. A differenza delle convenzioni che sono abitualmente presenti in pubblicità, il prodotto non viene indossato per far vedere come sta bene addosso, ma per essere tolto. Ciò consente, però, di comunicare con forza che questi jeans rendono sessualmente attraenti coloro che li indossano, perché quello che si desidera e che vengano tolti. Sino al sacrificio estremo di perderli per strada, come avviene in questo filmato. Lo spot fa, inoltre, una promessa chiara al consumatore sulla qualità che caratterizza il prodotto: la robustezza. Nella scena chiave dimostra che i Levi’s 501 sono talmente robusti da essere addirittura in grado di trainare un'automobile. Cede il paraurti, ma non i jeans. Il prodotto agisce anche come un aiutante, cioè uno “strumento magico” il cui intervento modifica la storia, permettendo al soggetto-eroe di superare il suo opponente e congiungersi con la ragazza che desidera. Si traduce, così, sul piano narrativo il payoff finale “Levi’s or nothing” (“o Levi’s o niente”), ma, su un piano più profondo, viene anche fatto riferimento a quel passaggio dall'adolescenza all'età adulta che riguarda da vicino il teenager che consuma il prodotto, perché per esso la conferma della mascolinità avviene soprattutto attraverso lo sviluppo fisico e sessuale. La scena chiave del traino è anche particolarmente efficace dal punto di vista del rafforzamento dell'identità di marca. Mette in scena, infatti, quella potente figura simbolica che si trova sull'etichetta posteriore di tutti i prodotti Levi’s e che mostra due cavalli del West che si muovono in direzioni opposte tirando entrambi lo stesso paio di jeans, però modernizzandola, in quanto viene resa più attuale e contemporanea. Il giovane eroe è presentato come un personaggio autonomo, libero, anticonformista, sicuro di sé e psicologicamente realizzato, ed è, dunque, un modello di identificazione particolarmente affascinante. Al contrario del suo antagonista, il fidanzato, che mostra, invece, di essere goffo, inesperto e probabilmente anche un po’ noioso. Soltanto il giovane eroe Levi’s è un “vero uomo”, una sorta di reincarnazione del mito tutto americano del cowboy, perché ciò che considera più importante di tutto è la ragazza e non è feticisticamente attaccato ai suoi beni: sporca il suo fazzoletto, maltratta i suoi jeans ed è disposto persino a privarsene per raggiungere i suoi obiettivi, vive su furgoncino come un puro strumento di lavoro. Inoltre, non ha pudori ed è pronto a mettersi in mutande per raggiungere i suoi scopi. Il suo antagonista, invece, sembra mettere al primo posto nei suoi interessi la sua automobile e, nel momento in cui il giovane si sfila i jeans, dimostra di essere un conformista, Verso la fine dello spot compare in sovrimpressione sulle immagini la scritta “Impossible is nothing”. E poi, nell'ultima scena, appare il trademark, con le tre celebri bande verticali inclinate che caratterizzano il marchio, e il logotipo di Adidas, tutto in bianco su fondo nero. Lo spot riesce a essere sorprendente per lo spettatore in quanto sovverte le abituali regole del passaggio del tempo, rendendo giovane pieno di energie un uomo che, in realtà, è vecchio e malandato. Dimostra, quindi, efficacemente ciò che viene affermato dalla voce fuori campo di Laila e dal potente payoff pubblicitario di Adidas: “Impossible is nothing” ovvero “Niente è impossibile”. Dunque, la promessa di Adidas al consumatore è quella di essere in grado di realizzare anche l'impossibile con i suoi prodotti. Lo spot è principalmente rivolto ai giovanissimi, che sono i più forti consumatori di articoli sportivi ma, contemporaneamente, parla anche un pubblico più adulto, che era giovane quando Cassius Claire si trovava all'apice della carriera sportiva e vive ciò che viene mostrato nello spot con un senso di nostalgia. D'altronde, anche la natura non narrativa ma chiaramente documentaristica del filmato tende a rafforzare nello spettatore la sensazione di rivivere un evento del passato. PUBBLICITÀ AUDIOVISIVA DI PROFUMI E COSMETICI: Dior, J’adore: Negli spot pubblicitari dei profumi sono, di solito, presenti alcuni stimoli particolarmente intensi rivolti a tutti i sensi del corpo umano. Ciò è il risultato del fatto che il senso cui è principalmente rivolto il profumo, l’olfatto, non può essere stimolato tramite una fotografia o un filmato; si attua, allora, una strategia “sinestetica”, la quale tenta di aggirare il problema stimolando gli altri sensi e cercando di far sì che questi stimolino indirettamente anche l’olfatto. Tutto ciò risulta particolarmente evidente nel caso della strategia pubblicitaria del profumo “J’adore” creato dalla maison di moda Dior. Infatti, tale profumo ha comunicato nel corso degli anni tramite una strategia fortemente incentrata sulla polisensorialità, sin dalla campagna di lancio, partita nel 2002 con uno spot che inquadrava in primo piano il viso di Carmen Kass: la modella estone guardava direttamente negli occhi lo spettatore e poi s’immergeva lentamente in una piscina piena d’acqua dorata, sussurrando “J’adore”. Con tale espressione, probabilmente la società Dior voleva trasmettere al prodotto un’immagine di sensualità e femminilità, ma sfruttando anche una notevole somiglianza dal punto di vista fonetico con il nome della marca. Entrambi i nomi, di marca e di prodotto, contengono “or”, cioè “oro” in francese. Non è un caso, perciò, se questo filmato ha dato il via anche a una strategia di comunicazione che è orientata a stabilire un’associazione tra il prodotto e il colore oro, colore generalmente collegato, nella storia dell’Occidente, all’idea di sacro, mentre oggi costituisce soprattutto il simbolo per eccellenza del lusso. Sul piano visivo dei messaggi pubblicitari di J’adore è da registrare, infatti, un’intensa presenza di tale colore, che appare riscontrabile in molti elementi, quali: - il packaging del prodotto - la luce che domina l’ambiente - i capelli delle protagoniste - diversi oggetti Nel 2004 è uscito un altro spot di J’adore, nel quale la bionda attrice Charlize Theron era sdraiata su un letto avvolta in un lenzuolo dorato e il vento agitava sia il lenzuolo che i suoi capelli. Si trattava, cioè, sostanzialmente, di uno spot basato su una storia guidata dalle sensazioni suscitate nello spettatore. In questo spot si evince, inoltre, un processo di vera e propria unione tra il flacone del profumo e il corpo dell’attrice. In tale processo, sul piano narrativo, la marca è il destinante, mentre il prodotto svolge la funzione di soggetto, cioè conduce la narrazione e non si limita semplicemente a presentarsi come un oggetto del desiderio della protagonista. Infatti, il profumo è sempre presente nella narrazione (collega tra loro tutte le inquadrature): anche quando non è inquadrato, lo spettatore avverte comunque la sua presenza, evocata da alcuni elementi sul piano dell’espressione (colore e forme arrotondare che ne ricordano la confezione, l’oro presente anche nella fisicità di Charlize Theron). Inoltre, la Theron non guarda mai in camera, rivolgendosi direttamente allo spettatore, e non compie nemmeno azioni significative, ma si limita semplicemente a vivere di riflesso rispetto al profumo. Sembra essere lei, dunque, a rivestire il ruolo dell’oggetto all’interno della narrazione. Ciò a cui lo spettatore assiste è, però, una narrazione di tipo particolare, nella quale non avviene la classica operazione di congiunzione tra il soggetto e l’oggetto prevista dal modello di Greimas. Ciò che succede in questo spot di Dior corrisponde a quel modello narrativo basato sull’unione proposto da Eric Landowski, un modello nel quale i significati si sviluppano grazie alla semplice co-presenza degli attanti (al contatto diretto tra un’istanza “che prova” e una che “è provata”, cioè tra un soggetto che si manifesta attraverso una esistenza estetica e uno dotato, invece, di una competenza estesica”). Questo sarebbe dimostrato anche dal fatto che, sul piano visivo, soggetto e oggetto mostrano di possedere le stesse caratteristiche: - oro - forme arrotondate - contrasto chiaro/scuro Insomma, la donna impiegando il profumo viene a essere “contagiata”, dal punto di vista estetico, dal profumo stesso e tende ad assumerne le caratteristiche. Il profumo, invece, attraverso l’impiego che ne viene fatto da parte della donna, è in grado di dare maggior forza alla sua identità visiva. Ciò che accade, dunque, è “una sorta di aggiustamento reciproco tra forme in movimento, che sono compresenti e ricettive l’una verso l’altra”. Nello spot Dior J’adore, uscito nel 2006 e diretto da Jean-Baptiste Mondino, la modella Charlize Theron si comporta molto diversamente. Qui, infatti, l’attrice ha un ruolo attivo e si rivolge per quasi tutto il tempo direttamente allo spettatore: cammina verso quest’ultimo con un atteggiamento deciso e quasi aggressivo, muovendosi all’interno di un’abitazione lussuosa, le cui pareti sono riempite da cornici e decorazioni; passa diverse stanze e porte e, contemporaneamente, esprime un’immagine di libertà e indipendenza. Si spoglia, infatti, con fastidio dei numerosi gioielli d’oro e del lungo abito da sera che indossa, sino a restare completamente nuda. Infine, con un’espressione ammiccante e vagamente sensuale verso lo spettatore, pronuncia l’espressione “J’adore” e sparisce alla vista, sostituita dall’immagine del prodotto; poi riappare, nuda e ridotta a silhouette nera, mentre si allontana passando attraverso le porte. FOTO È evidente che tra la forma del corpo della Theron che si avvicina, quella del packaging del prodotto e quella del corpo che si allontana si manifesta, nel processo di percezione dello spettatore, una forte somiglianza. Sono tutte collocate al centro dell’inquadratura e si tratta di forme verticali allungate molto simili sul piano eidetico. Il packaging del prodotto è costituito, infatti, da una specie di goccia di vetro con un collo sottile molto alto, interamente ricoperto di oro: una forma elegante e sofisticata, ma che è anche in grado di colpire con forza l’attenzione dell’osservatore. Alla fine del filmato, poi, il packaging e il corpo della Theron scuriscono entrambi e, perciò, sembrano fondersi anche dal punto di vista cromatico. Dove, Evolution: La marca Dove si è sviluppata attorno a una saponetta che, quando è comparsa sul mercato, ha rappresentato una vera innovazione di prodotto. Un'innovazione basata sulla scoperta, durante la Seconda guerra mondiale, di una molecola simile a quella del sapone, ma in grado di non seccare la pelle. Perciò, sin dal lancio, avvenuto nel 1957, la saponetta Dove è stata comunicata ai consumatori come un vero e proprio prodotto di bellezza, contenente un quarto di crema detergente virgola che idrata la pelle oltre a pulirla. Infatti, la pubblicità mostrava la crema idratante che veniva versata sulla saponetta. Il messaggio era questo: “Mentre la comune saponetta ti secca la pelle, Dove la idrata e l'ammorbidente”. Questo posizionamento di Dove sul mercato ha avuto un notevole successo e ha consentito alla Unilever, l'azienda proprietaria, di praticare un prezzo più elevato rispetto ai concorrenti, che è rimasto, sostanzialmente, invariato nel tempo e ha permesso anche la nascita di prodotti affini. Negli ultimi anni, il consumatore è diventato, però, meno sensibile alle prestazioni e alle caratteristiche funzionali dei prodotti. È, inoltre, meno disposto a pagare