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Riassunto del libro "Manuale del diritto amministrativo" di Marcello Clarich, Sintesi del corso di Diritto Amministrativo

Riassunto del libro "Manuale del diritto amministrativo" di Marcello Clarich, edizione 2022, limitatamente ai capitoli 3, 4, 5, 7 e 10

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 24/05/2024

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Scarica Riassunto del libro "Manuale del diritto amministrativo" di Marcello Clarich e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Amministrativo solo su Docsity! DIRITTO AMMINISTRATIVO DELL’ECONOMIA MARCELLO CLARICH, Manuale di Diritto Amministrativo, Bologna 2022, limitatamente ai capitoli 3, 4, 5, 7 e 10. CAPITOLO 3 – IL RAPPORTO GIURIDICO AMMINISTRATIVO I – Le funzioni e l’attività amministrativa Le funzioni I fini pubblici concorrono a definire la missione affidata a un soggetto pubblico, che consiste appunto nella cura di un determinato interesse pubblico individuato dalla legge. L’esigenza di tutelare un interesse pubblico si traduce in normative che prevedono l’istituzione di un apparato pubblico per lo svolgimento delle attività necessarie per curare tale interesse. Le funzioni amministrative corrispondono ai compiti che la legge attribuisce a un determinato apparato amministrativo per la cura dell’interesse pubblico a cui è preposto, conferendogli le risorse e i poteri necessari. Di regola le funzioni amministrative vengono elencate dalla legge al momento dell’istituzione di un apparato amministrativo o durante la modifica della legislazione di settore e di riassetto degli apparati amministrativi. L’attività amministrativa L’esercizio delle funzioni amministrative comporta lo svolgimento da parte dell’apparato pubblico di una varietà di attività. L’attività amministrativa consiste nell’insieme delle operazioni, decisioni e comportamenti assunti da una pubblica amministrazione nell’esercizio delle funzioni affidate ad essa dalla legge. L’attività amministrativa è rivolta alla cura di un interesse pubblico e per questo è dotata del carattere della doverosità. L’art. 1 l. n. 241/1990 afferma che l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta dai criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza. Sotto il profilo giuridico la nozione di attività amministrativa va tenuta distinta da quella di atto o provvedimento amministrativo. Essa consente di valutare l’operato delle amministrazioni in termini di legalità, efficienza, efficacia ed economicità. L’atto amministrativo si presta invece a essere valutato soprattutto sotto i profili della conformità all’ordinamento, ossia la legittimità, e dell’attitudine a soddisfare nel caso concreto l’interesse pubblico. II – Il potere, il provvedimento, il procedimento L’attività amministrativa si esprime nell’adozione di atti o provvedimenti amministrativi che sono la manifestazione concreta dei poteri amministrativi attribuiti dalla legge a un apparato pubblico. In relazione a ciascuna funzione la legge individua i poteri conferiti al singolo apparato. Il potere I poteri amministrativi conferiscono agli apparati che ne assumono la titolarità una capacità giuridica speciale che si esprime in provvedimenti produttivi di effetti giuridici nella sfera dei destinatari. Il potere amministrativo pone il suo titolare in una posizione di sovra ordinazione rispetto al soggetto nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti giuridici. Occorre distinguere tra potere in astratto e potere in concreto. La legge definisce gli elementi costitutivi di ciascun potere, ossia il potere in astratto. Ove l’amministrazione agisca in mancanza di una norma attributiva del potere, si configura un difetto di attribuzione che determina la nullità del provvedimento. Il potere in astratto ha il carattere dell’inesauribilità: fin tanto che resta in vigore la norma attributiva, esso può essere esercitato in una serie indeterminata di situazioni concrete. 1 Ogni qual volta si verifica una situazione conforme alla fattispecie tipizzata nella norma di conferimento del potere, l’amministrazione è legittimata a esercitare il potere, ossia il potere in concreto, provvedendo alla cura dell’interesse pubblico. In virtù del principio di doverosità, che connota l’intera attività amministrativa, l’amministrazione è tenuta ad avviare un procedimento che si conclude con l’emanazione di un provvedimento autoritativo idoneo a incidere unilateralmente nella sfera giuridica del soggetto destinatario. L’atto e il provvedimento Nell’ordinamento italiano manca una definizione legislativa di provvedimento amministrativo. Affinché l’atto amministrativo possa essere impugnato, accedendo alla tutela giurisdizionale amministrativa, si deve trattare di un atto emanato da un’autorità amministrativa, ritenuto illegittimo per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge, che sia lesivo di una situazione giuridica del privato, ossia il cosiddetto interesse legittimo. La l. n. 241/1990 pone una disciplina generale dell’atto amministrativo. L’art. 1 l. n. 241/1990 stabilisce che la pubblica amministrazione agisce di regola secondo le norme del diritto privato nell’adozione di atti di natura non autoritativa, mentre per gli atti aventi natura autoritativa vale il regime pubblicistico. La l. n. 241/1990 stabilisce inoltre che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, che l’avvio del procedimento deve essere comunicato ai soggetti interessati, pone inoltre in capo all’amministrazione il dovere di concludere il procedimento avviato con l’adozione di un provvedimento espresso. In sede dottrinale si è tentato di porre una distinzione tra atto e provvedimento amministrativo: l’atto amministrativo include ogni dichiarazione di desiderio o di volontà nell’esercizio di una potestà amministrativa; mentre il provvedimento, il quale costituisce la subcategoria più importante degli atti amministrativi, può essere definito come una manifestazione di volontà, espressa dall’amministrazione titolare del potere, volta alla cura in concreto di un interesse pubblico e tesa a produrre in modo unilaterale effetti giuridici nei confronti dei soggetti destinatari del provvedimento stesso. Il procedimento Le leggi amministrative attribuiscono alle pubbliche amministrazioni poteri finalizzati alla cura degli interessi pubblici. L’esercizio del potere avviene secondo il modulo del procedimento amministrativo, cioè attraverso una sequenza di operazioni per l’emanazione di un provvedimento amministrativo produttivo di effetti giuridici. Il procedimento assolve a una pluralità di funzioni: garantire la partecipazione dei privati per tutelare i propri interessi suscettibili di essere pregiudicati dal provvedimento amministrativo, consentire all’amministrazione di acquisire informazioni utili ai fini dell’adozione del provvedimento, assicurare il coordinamento tra le pubbliche amministrazioni. III – Il rapporto giuridico amministrativo Il rapporto giuridico amministrativo corrisponde al rapporto che intercorre tra la pubblica amministrazione che esercita un potere e il soggetto privato titolare di un interesse legittimo. Nella visione tradizionale lo Stato era concepito come un’entità collocata in una posizione di sovra ordinazione rispetto ai soggetti privati, tale da escludere vincoli giuridici bilaterali. In una concezione moderna, maggiormente conforme all’ideale dello Stato di diritto, potere amministrativo e interesse legittimo possono essere ricostruiti come i termini dialettici di una relazione giuridica bilaterale che si sviluppa anzitutto nel procedimento amministrativo. I rapporti giuridici interprivati vengono ricostruiti partendo dalla coppia diritto soggettivo-obbligo, dei quali sono titolari rispettivamente il soggetto attivo e passivo del rapporto. Il diritto soggettivo 2 b) Al secondo estremo si pongono i poteri sostanzialmente in bianco, i quali rimettono al soggetto titolare del potere ampi spazi di valutazione delle fattispecie concrete e delle misure necessarie per tutelare un determinato interesse pubblico. La discrezionalità emerge allorché la norma autorizza ma non obbliga l’amministrazione a emanare un certo provvedimento. Gli spazi di valutazione sono tanto più ampi quanto più la norma fa ricorso ai cosiddetti concetti giuridici indeterminati. La norma definisce cioè i requisiti con formule linguistiche tali da non consentire di accertare in modo univoco il loro verificarsi in concreto, rendendo problematico il sindacato del giudice; 1. La norma attributiva del potere prescrive anche requisiti formali degli atti e le modalità di esercizio del potere, individuando la sequenza degli atti e degli adempimenti necessari per l’emanazione del provvedimento finale che danno origine al provvedimento amministrativo; 2. La norma di conferimento del potere può disciplinare anche l’elemento temporale dell’esercizio del potere: come il termine per l’avvio dei procedimenti d’ufficio, o il termine massimo entro il quale l’amministrazione deve emanare il provvedimento conclusivo; 3. Infine, la norma attributiva del potere individua in termini astratti gli effetti giuridici che l’atto amministrativo può produrre una volta emanato all’esito del procedimento. V – Il potere discrezionale La discrezionalità Nel diritto amministrativo la discrezionalità connota l’essenza stessa dell’amministrare, cioè della cura degli interessi pubblici. Tale attività presuppone che l’apparato titolare del potere abbia la possibilità di scegliere la soluzione migliore nel caso concreto. Emerge di conseguenza una forte tensione con il principio di legalità, che nella sua accezione più estrema porterebbe ad attribuire all’amministrazione soltanto poteri vincolati. Tuttavia, le situazioni concrete nelle quali l’amministrazione deve intervenire richiedono un margine di adattabilità della misura da disporre. Se dunque i veri poteri sono quelli discrezionali, sorge il problema di come conciliare due esigenze: attribuire all’amministrazione la discrezionalità che consenta la flessibilità necessaria per gestire i problemi della collettività, evitare che la discrezionalità si traduca in arbitrio. L’amministrazione titolare di un potere ha un ambito di libertà più ristretto rispetto al soggetto privato, in quanto la scelta tra una pluralità di soluzioni deve avvenire, non solo nel rispetto dei limiti esterni posti dalla norma di conferimento del potere e dei principi generali dell’azione amministrativa, ma anche nel rispetto di un vincolo interno consistente nel dovere di perseguire il fine pubblico. La discrezionalità amministrativa consiste dunque nel margine di scelta che la norma rimette all’amministrazione affinché essa possa individuare la soluzione migliore per curare concretamente l’interesse pubblico. La scelta avviene attraverso una valutazione comparativa degli interessi pubblici e privati rilevanti nella fattispecie, acquisiti nel corso dell’istruttoria procedimentale. Tra di essi vi è anzitutto il cosiddetto interesse pubblico primario individuato dalla norma di conferimento del potere e affidato alla cura dell’amministrazione. Il suo compito è quello di massimizzare la realizzazione dell’interesse primario, tuttavia quest’ultimo deve essere messo a confronto e valutato alla luce degli interessi secondari rilevanti. Tra gli interessi secondari non vi sono soltanto gli altri interessi pubblici, ma anche gli interessi dei privati, i quali possono partecipare al procedimento allo scopo di rappresentare il proprio punto di vista. La scelta dell’amministrazione deve quindi contemperare l’esigenza di massimizzare l’interesse pubblico primario con quella di causare il minor sacrificio possibile degli interessi secondari incisi 5 dal provvedimento. L’amministrazione deve dar conto dell’attività di ponderazione degli interessi nella motivazione del provvedimento, al fine di garantire la trasparenza nel processo decisionale. Occorre porre la distinzione tra discrezionalità in astratto e vincolatezza in concreto. All’esito dell’istruttoria operata dall’amministrazione per acquisire gli interessi può darsi che residui un’unica scelta legittima tra quelle consentite dalla legge. Nel corso del procedimento la discrezionalità può cioè ridursi progressivamente sino ad annullarsi del tutto. In tal caso si parla di vincolatezza in concreto, da contrapporre alla vincolatezza in astratto che si verifica allorché la norma predefinisce tutti gli elementi che caratterizzano il potere. La riduzione della discrezionalità può avvenire anche attraverso il cosiddetto autovincolo alla discrezionalità: di frequente, infatti, tra la norma di conferimento del potere che concede discrezionalità all’amministrazione e il provvedimento si interpone la predeterminazione di criteri che vincolano l’esercizio della discrezionalità. Ciò accresce l’oggettività e la trasparenza delle decisioni, perché i criteri stabiliti vincolano l’attività dell’amministrazione e la loro violazione è sindacabile da parte del giudice amministrativo. Il merito amministrativo Il merito amministrativo ha una dimensione residuale, esso si riferisce all’eventuale ambito di libera scelta spettante all’amministrazione. Se il potere è integralmente vincolato lo spazio del merito risulta nullo. La scelta tra una pluralità di soluzioni legittime è insindacabile da parte del giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità. La distinzione tra legittimità e merito rileva in più contesti. 1. Il primo è quello dei controlli amministrativi, i quali si articolano in controlli di legittimità, finalizzati ad annullare gli atti amministrativi, e di merito, finalizzati invece a modificarlo; 2. In secondo luogo, il Codice del processo amministrativo contrappone la giurisdizione di legittimità, di cui è investito in via ordinaria il giudice amministrativo, alla giurisdizione con cognizione estesa al merito, in cui il giudice amministrativo può rivalutare le scelte discrezionali dell’amministrazione e sostituire la propria valutazione; 3. In terzo luogo, i confini tra legittimità e merito rilevano anche in relazione alla responsabilità amministrativa nel danno erariale: la legge sancisce la responsabilità del funzionario pubblico per fatti che con colpa grave arrecano un danno all’amministrazione, ma al contempo pone il limite dell’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. Le valutazioni tecniche La discrezionalità amministrativa va tenuta distinta dalle valutazioni tecniche, le quali si riferiscono ai casi in cui la norma attributiva del potere rinvia a nozioni tecniche che presentano margini di opinabilità. Spesso le valutazioni tecniche sono espresse da organi appositi chiamati a rendere il loro giudizio durante il procedimento. Mentre la discrezionalità amministrativa attiene al piano della valutazione e comparazione degli interessi, le valutazioni tecniche attengono all’accertamento di fatti con criteri tecnico-scientifici. Nel sindacare le valutazioni tecniche il giudice amministrativo può ricorrere alla consulenza tecnica d’ufficio, nominando un esperto che, in contraddittorio con i consulenti delle parti, fornisce una risposta su questioni tecniche poste dal giudice. Le valutazioni tecniche vanno distinte, oltre che dalla discrezionalità amministrativa, anche dai meri accertamenti tecnici, i quali riguardano fatti la cui esistenza è verificabile in modo univoco. A differenza delle valutazioni tecniche, i meri accertamenti tecnici possono essere sindacati in modo pieno dal giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di legittimità. VI – L’interesse legittimo 6 Dell’interesse legittimo sono state fornite nel tempo una pluralità di ricostruzioni, ormai in gran parte superate. Le definizioni tradizionali sono state infatti criticate dalla dottrina, a causa della loro connotazione ideologica, collegata ad una visione autoritaria dei rapporti tra Stato e cittadino e fondata sulla sovra ordinazione della pubblica amministrazione. L’impianto precedente è entrato in crisi in seguito all’emergere di una nuova sensibilità, più in linea con i valori espressi dalla Costituzione, dall’ordinamento europeo e dalla l. n. 241/1990. Essa muove, più che dalla prospettiva dei poteri attribuiti allo Stato e agli apparati pubblici, dall’angolo di visuale dei diritti del cittadino e dall’esigenza di offrire una protezione più completa delle situazioni giuridiche soggettive. Nella ricostruzione dell’interesse legittimo, il baricentro si sposta dall’interesse pubblico al “bene” che il soggetto titolare dell’interesse legittimo mira ad acquisire. L’interesse legittimo acquista pertanto una connotazione sostanziale. La norma di conferimento del potere ha la doppia funzione di tutelare l’interesse legittimo pubblico e di tutelare l’interesse del privato. L’interesse pubblico, pertanto, non assorbe quello privato, né quest’ultimo il primo. I vincoli posti dalla norma attributiva del potere hanno una doppia funzione: per un verso, fungono da vincolo per l’amministrazione nella realizzazione dell’interesse pubblico, per altro verso, hanno una funzione di garanzia della situazione giuridica soggettiva del privato. Nella dinamica del rapporto giuridico amministrativo, da un lato, l’amministrazione titolare del potere cura in via primaria l’interesse pubblico, dall’altro, il titolare dell’interesse legittimo mira esclusivamente al proprio interesse individuale. In definitiva, l’interesse legittimo è una situazione giuridica soggettiva, correlata al potere della pubblica amministrazione e tutelata dalla norma di conferimento del potere, che attribuisce al suo titolare una serie di poteri e facoltà volti a influire sull’esercizio del potere allo scopo di acquisire un bene. Tali poteri e le facoltà si esplicano all’interno del procedimento amministrativo attraverso l’istituto della partecipazione, che consente al privato di rappresentare il proprio punto di vista mediante l’accesso agli atti. Tali poteri tendono a riequilibrare la posizione di soggezione nei confronti del titolare del potere. L’interesse legittimo, che costituisce il termine passivo del rapporto giuridico che intercorre con l’amministrazione, acquista così una dimensione attiva. Ad essa corrispondono in capo all’amministrazione una serie di doveri, ossia buona fede, imparzialità, ragionevolezza, proporzionalità, acquisizione completa degli interessi rilevanti, che sono finalizzati anche alla tutela dell’interesse del soggetto privato. In conclusione, l’interesse legittimo presenta sia una dimensione passiva, di soggezione rispetto alla produzione degli effetti, sia una dimensione attiva, ossia la pretesa ad un esercizio corretto del potere alla quale corrispondono una serie di poteri e facoltà nei confronti dell’amministrazione da far valere in sede del procedimento o in sede giurisdizionale. A questa duplice dimensione corrisponde un’analoga duplice dimensione del potere: attiva, se riferita alla produzione unilaterale dell’effetto giuridico, passiva, se correlata ai doveri di comportamento che gravano sull’amministrazione. VII – Gli interessi legittimi oppositivi e pretensivi Sotto il profilo funzionale gli interessi legittimi possono essere suddivisi in due categorie: gli interessi legittimi oppositivi e gli interessi legittimi pretensivi. I primi sono correlati a poteri amministrativi il cui esercizio determina la produzione di un effetto giuridico che incide negativamente e che restringe la sfera giuridica del destinatario. I secondi, al contrario, sono 7 Gli interessi di mero fatto possono avere una dimensione individuale o superindividuale. È così emersa in dottrina la nozione di interessi diffusi, i quali sono senza struttura e riferibili alla collettività o a categorie di soggetti. Il carattere diffuso dell’interesse deriva dalla caratteristica del bene ad esso correlato che non è suscettibile di appropriazione esclusiva. Si tratta di beni pubblici non rivali, perché il loro consumo da parte di uno non ne impedisce la fruizione da parte di un altro, e non escludibili, perché una volta fornito il bene, nessuno può esserne escluso dalla fruizione. Sotto il profilo procedimentale l’art. 9 l. n. 241/1990 attribuisce la facoltà di intervenire nel procedimento a qualsiasi soggetto portatore di interessi pubblici o privati, nonché ai portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni. Il diritto di partecipazione consente dunque di immettere nel procedimento interessi riferibili alla collettività che non coincidono necessariamente con quello curato dall’amministrazione. I principali criteri elaborati per consentire la tutela giurisdizionale degli interessi diffusi sono tre: il collegamento con la partecipazione procedimentale; l’elaborazione della nozione di interesse collettivo; la legittimazione ex lege: 1. La prima strada proposta è stata quella di individuare nella partecipazione al procedimento amministrativo, ai sensi della l. n. 241/1990, un elemento di differenziazione tale da consentire l’impugnazione innanzi al giudice amministrativo del provvedimento conclusivo del procedimento.; 2. Un'altra via è stata quella di ampliare l’interesse legittimo fino ad includervi alcune situazioni nelle quali il ricorrente agisce in giudizio per tutelare in realtà un interesse superindividuale. È stata posta in proposito la distinzione tra interessi diffusi e interessi collettivi, cioè interessi riferibili a specifiche categorie. Agli organismi rappresentativi di categoria è stata riconosciuta una legittimazione processuale autonoma, collegata a una situazione di interesse legittimo, allo scopo di tutelare gli interessi della; 3. In settori particolari il legislatore ha attribuito a determinati soggetti istituiti per la cura di interessi diffusi una legittimazione speciale a ricorrere (legittimazione ex lege). Vi sono infine i cosiddetti interessi individuali omogenei, i quali vanno distinti dagli interessi diffusi e hanno una dimensione superindividuale: essi, infatti, acquistano una dimensione collettiva solo per il fatto di essere comuni a più di soggetti. La tutela di questi interessi individuali non è diversa da quella prevista per ciascun diritto soggettivo o interesse legittimo di cui sono titolari i soggetti coinvolti, i quali possono agire in giudizio autonomamente per il ristoro del loro specifico danno. Di recente il legislatore ha introdotto per essi rimedi processuali denominati “azioni di classe.” XI – I principi generali I principi sulle funzioni Il principio fondamentale che presiede all’allocazione delle funzioni è il principio di sussidiarietà, menzionato nei Trattati europei e, con la legge costituzionale n. 3/2001, nella Costituzione. L’art. 5 TUE enuncia il principio di sussidiarietà in relazione ai rapporti tra Stati membri e istituzioni dell’Unione al fine di contenere le spinte all’accentramento delle funzioni: dal principio di sussidiarietà deriva che l’Unione Europea agisce esclusivamente nei limiti delle competenze assegnate e che gli Stati membri sono titolari delle generalità delle competenze residue. Nel diritto interno, l’art. 118 Cost. richiama i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza che vanno a integrare e a rafforzare il principio autonomistico posto dall’art. 5 TUE. L’art. 118 prevede che la generalità delle funzioni sia attribuita al livello di governo più vicino al cittadino, ossia al comune, stabilendo la cosiddetta sussidiarietà verticale. Solo le funzioni amministrative di cui è necessario assicurare un esercizio unitario che supera la dimensione 10 territoriale dei comuni possono essere attribuire ai livelli di governo più elevati, ossia alle province, alle regioni e allo Stato. La Costituzione richiama anche la cosiddetta sussidiarietà orizzontale, la quale definisce i rapporti tra poteri pubblici e società civile. L’art. 118 stabilisce infatti che lo Stato e gli enti territoriali favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale. Questa disposizione esclude che i poteri pubblici detengano il monopolio nella cura degli interessi della collettività e valorizza le forme organizzative della società civile. L’art. 5 del TUE menziona anche il principio di proporzionalità, in base al quale l’azione dell’Unione non deve eccedere quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati. I principi sull’attività Secondo l’art. 1 l. n. 241/1990 l’attività amministrativa è retta dai principi di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, nonché dai principi dell’ordinamento comunitario. Il principio di efficienza, richiamato dall’art. 1 l. n. 241/1990, mette in rapporto la quantità di risorse impiegate con il risultato dell’azione amministrativa e pone l’accento sull’uso ottimale dei fattori produttivi: è efficiente l’amministrazione che raggiunge un certo livello di performance utilizzando in modo oculato le risorse disponibili e scegliendo tra le alternative possibili quella che produce il massimo dei risultati coni il minor impiego di mezzi. Il principio di efficacia mette invece in rapporto i risultati effettivamente ottenuti con gli obiettivi prefissati in un programma. Il criterio di economicità condensa i due principi, riferendosi alla capacità di lungo periodo di un’amministrazione di utilizzare in modo efficiente le proprie risorse raggiungendo in modo efficace i propri obiettivi. I principi sull’esercizio del potere discrezionale I principi che presiedono all’esercizio del potere discrezionale sono soprattutto il principio di imparzialità, di proporzionalità, di ragionevolezza, di tutela del legittimo affidamento e di precauzione. Il principio di imparzialità è richiamato dall’art. 97 Cost. e, riferito alla discrezionalità, consiste nel divieto di favoritismi: l’amministrazione, nel momento in cui opera la ponderazione degli interessi, non può essere influenzata nelle sue decisioni da interessi politici, da gruppi di pressione privati o da legami di amicizia. Il principio di imparzialità così inteso è posto a garanzia della parità di trattamento (par condicio) e dell’eguaglianza dei cittadini di fronte all’amministrazione. Un secondo principio che presiede all’esercizio della discrezionalità è quello di proporzionalità, il quale richiede all’amministrazione che opera la valutazione discrezionale un giudizio guidato da tre criteri da applicare in sequenza: idoneità, necessarietà e adeguatezza della misura prescelta. L’idoneità mette in relazione il mezzo con l’obiettivo da perseguire, vanno pertanto scartate tutte le misure che non sono in grado di raggiungere il fine. La necessarietà, detta anche “regola del mezzo piò mite”, mette a confronto le misure ritenute idonee sceglie quella che comporta il minor sacrificio possibile degli interessi incisi dal provvedimento. L’adeguatezza consiste nella valutazione della scelta finale in termini di tollerabilità della restrizione o incisione nella sfera giuridica del destinatario del provvedimento: gli inconvenienti non devono essere eccessivi rispetto agli scopi perseguiti. Il principio di proporzionalità costituisce una specificazione di un principio ancora più generale, ossia il principio di ragionevolezza: la pubblica amministrazione è un agente in grado di perseguire determinati obiettivi attuando azioni logiche, coerenti e funzionali. Un altro principio che presiede all’esercizio della discrezionalità è il principio del legittimo affidamento, il quale mira a tutelare le aspettative ingenerate dalla pubblica amministrazione con un proprio atto. Il principio della tutela del legittimo affidamento si ricollega al principio di diritto 11 europeo della certezza del diritto, il quale mira a garantire un quadro giuridico stabile e chiaro. Tale principio ha come destinatario anzitutto il legislatore, ma implica che l’agire dell’amministrazione deve essere prevedibile e coerente nel suo svolgimento. Vi è infine il principio di precauzione, il quale prevede che, quando sussistono incertezze riguardo l’esistenza di pericoli per la salute delle persone, le autorità competenti possono adottare misure protettive senza dover attendere che sia dimostrata la realtà di tali rischi. I principi sul provvedimento I principi che si riferiscono al provvedimento amministrativo, in aggiunta al principio di legalità, sono il principio della motivazione e il principio di sindacabilità degli atti. Il primo è desumibile dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea laddove sancisce l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni. Il principio di sindacabilità degli atti amministrativi è sancito dagli artt. 24 e 113 Cost.: gli atti amministrativi che ledono i diritti soggettivi e gli interessi legittimi sono sempre sottoposti al controllo giurisdizionale del giudice ordinario o del giudice amministrativo. I principi sul procedimento I principi relativi al procedimento amministrativo sono il principio del contraddittorio, il principio di pubblicità e di trasparenza, il principio di certezza dei tempi, il principio di efficienza. Il principio del contraddittorio è richiamato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo la quale ogni individuo ha diritto di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento che gli rechi pregiudizio. Esso è stato poi sviluppato dalla l. n. 241/1990, che disciplina la partecipazione al procedimento amministrativo. Anche il diritto di pubblicità e di trasparenza è enunciato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo la quale ogni individuo ha diritto di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto degli interessi legittimi e del segreto professionale. La l. n. 241/1990 sancisce il diritto di accesso ai documenti amministrativi, inteso come principio generale dell’attività amministrativa, al fine di favorire la partecipazione e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza, regolandolo sotto i due profili dell’acceso procedimentale e dell’accesso come diritto autonomo. Un altro diritto è costituito dal principio di certezza del tempo dell’agire amministrativo. La l. n.241/1990 lo rende concreto nella disciplina volta a individuare per ciascun tipo di procedimento un termine massimo entro il quale l’amministrazione deve emanare il provvedimento finale che conclude il procedimento amministrativo. Infine, la l. n. 241/1990 richiama il principio di efficienza, prevedendo in particolare che l’amministrazione non possa aggravare il procedimento se non per straordinarie esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria. CAPITOLO 4 – IL PROVVEDIMENTO I – Il regime del provvedimento La tipicità La pubblica amministrazione è tenuta a perseguire esclusivamente il fine stabilito dalla norma di conferimento del potere e può utilizzare soltanto lo strumento giuridico definito dalla stessa norma. In questo senso si può affermare che la tipicità dei poteri e dei provvedimenti amministrativi è un corollario del principio di legalità inteso in senso sostanziale. Il principio di tipicità esclude che si possano riconoscere in capo all’amministrazione poteri impliciti, cioè poteri non espressamente previsti dalla legge ma ricavabili indirettamente da norme che 12 elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria procedimentale, che hanno indotto l’amministrazione a operare una determinata scelta; 6. L’atto amministrativo richiede di regola la forma scritta, tuttavia in taluni casi l’atto può essere esternato oralmente. L’atto amministrativo può assumere, a determinate condizioni, la veste formale di un accordo tra l’amministrazione titolare del potere e il privato. La l. n. 241/1990 contiene un richiamo agli elementi essenziali del provvedimento, la mancanza dei quali costituisce una delle cause di nullità. L’atto amministrativo deve indicare l’autorità emanante, contenere i riferimenti alle norme che fondano il potere esercitato, richiamare gli atti ritenuti rilevanti, enunciare la motivazione, recare la data, menzionare i destinatari e l’organo giurisdizionale cui è possibile ricorrere contro l’atto e il termine entro il quale il ricorso va proposto. III – I provvedimenti ablatori reali, i provvedimenti ordinatori e le sanzioni amministrative Le principali subcategorie dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei destinatari sono i provvedimenti ablatori, gli ordini e le diffide, i provvedimenti sanzionatori. I provvedimenti ablatori Tra i provvedimenti ablatori (reali, personali, obbligatori) rientra un’ampia gamma di atti autoritativi che restringono la sfera patrimoniale e personale del destinatario, estinguendo o modificando una situazione giuridica soggettiva attraverso l’imposizione di prestazioni o obblighi. Tra i provvedimenti ablatori reali va ricordata soprattutto l’espropriazione per pubblica utilità, nella quale si manifesta al massimo grado il conflitto tra l’interesse pubblico e gli interessi privati. Esso trova un punto di composizione, da un lato, nel consentire alla pubblica amministrazione di trasferire coattivamente il diritto di proprietà dal privato all’amministrazione o al soggetto beneficiario dell’espropriazione, prescindendo dal consenso di quest’ultimo, dall’altro, attribuendo al privato il diritto a un indennizzo. L’indennizzo non coincide necessariamente con il valore di mercato, ma non deve essere neppure irrisorio. I provvedimenti ordinatori Tra i provvedimenti ablatori personali rientrano gli ordini amministrativi e i provvedimenti che impongono ai destinatari obblighi puntuali. L’ordine è un provvedimento che prescrive un comportamento specifico da adottare in una determinata situazione. Una sottospecie di provvedimenti ordinatori è costituita dalla diffida, la quale consiste nell’ordine di cessare un determinato comportamento attuato in violazione di norme amministrative. La diffida può comportare, in caso di inottemperanza, l’applicazione di sanzioni amministrative. Le sanzioni amministrative Le sanzioni amministrative sono volte a reprimere illeciti amministrativi e hanno dunque una funzione afflittiva e una valenza dissuasiva. Le sanzioni amministrative sono previste dalle leggi amministrative sia in caso di violazione dei precetti in esse contenuti, sia nel caso di violazione dei provvedimenti emanati sulla base di tali leggi. In molti casi la deterrenza delle sanzioni amministrative è accresciuta dalla previsione, per gli stessi comportamenti, di sanzioni penali. Le sanzioni amministrative sono riconducibili a più tipi: le sanzioni pecuniarie, che fanno sorgere l’obbligo di pagare una somma di denaro; le sanzioni interdittive, che incidono sull’attività attuata dal soggetto destinatario del provvedimento; le sanzioni disciplinari. L’obbligazione pecuniaria può essere estinta tramite il pagamento di una somma in misura ridotta entro 60 giorni dalla contestazione della violazione, cioè prima che abbia corso il per l’accertamento dell’illecito. 15 Le sanzioni disciplinari sono volte a colpire i comportamenti posti in violazione di obblighi speciali, collegati al ruolo ricoperto dai funzionari delle amministrazioni pubbliche. Esse consistono, a seconda della gravità dell’illecito, nell’ammonizione, nella sospensione dal servizio, nella radiazione o nella destituzione. Sul piano funzionale è necessario distinguere tra sanzioni in senso proprio, che hanno una valenza essenzialmente repressiva e punitiva del colpevole, e le cosiddette sanzioni ripristinatorie, le quali hanno come lo scopo di reintegrare l’interesse pubblico leso da un comportamento illecito. Di recente è stata introdotta una particolare forma di responsabilità amministrativa per fatto proprio delle imprese e degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Questa responsabilità sorge direttamente in capo all’ente per reati commessi a suo vantaggio dagli amministratori e dipendenti. Tra questi reati figurano, per esempio, la truffa in danno dello Stato, la concussione o il riciclaggio di denaro sporco. La responsabilità amministrativa degli enti comporta l’applicazione di sanzioni pecuniarie e interdittive. IV – Le attività libere sottoposte a regime di comunicazione preventiva. La segnalazione certificata d’inizio di attività I provvedimenti amministrativi con effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario sono essenzialmente quelli di tipo autorizzativo. Negli ordinamenti giuridici fondati sullo Stato di diritto di matrice liberale l’attività dei privati, in linea di principio, è libera, nel senso che essa è sottoposta esclusivamente al diritto comune. Tuttavia, nei casi in cui l’attività dei privati può mettere a rischio un interesse collettivo, si giustifica l’introduzione di certi vincoli. Gli strumenti più intrusivi e limitativi delle attività dei privati sono ammessi solo in mancanza di mezzi più miti. Il rispetto delle leggi amministrative può essere assicurato, in un primo gruppo di casi, attraverso un semplice regime di vigilanza, che può portare all’esercizio di poteri sanzionatori nei casi in cui siano accertate violazioni. In questi casi l’attività non richiede alcun contatto preventivo con la pubblica amministrazione e può essere considerata libera, anche se entro i margini più ristretti. Per agevolare i controlli effettuati dall’amministrazione, in un secondo gruppo di casi, la legge grava i privati dell’obbligo di comunicare preventivamente alla pubblica amministrazione l’intenzione di intraprendere un’attività. La fattispecie delle attività libere regolate da leggi amministrative e sottoposte a un regime di comunicazione preventiva è disciplinata dall’art. 19 l. n. 241/1990, il quale prevede l’istituto della segnalazione certificata d’inizio di attività (SCIA). La SCIA riconduce una serie di attività, per le quali in precedenza era previsto un regime di controllo preventivo, a un regime meno intrusivo di controllo successivo (controllo ex post). Il privato deve autocertificare il possesso dei requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento dell’attività. In caso di dichiarazioni mendaci scattano sanzioni amministrative e penali. La SCIA ha la funzione di consentire all’amministrazione di verificare se l’attività in questione è conforme alle norme amministrative e di richiedere informazioni e chiarimenti. In caso di accertata carenza dei requisiti previsti dalla legge per lo svolgimento dell’attività, l’amministrazione, nel termine di 60 giorni, può richiedere al privato di conformare l’attività alla normativa vigente. Ove ciò non avvenga, emana un provvedimento di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti. L’amministrazione esercita cioè un potere d’ufficio che può sfociare in un provvedimento di tipo ordinatorio. Il rapporto giuridico amministrativo si struttura così secondo lo schema del potere e dell’interesse legittimo oppositivo. Le attività sottoposte al regime della SCIA restano dunque libere anche se conformate da un regime amministrativo. Dopo la scadenza del termine di 60 giorni per l’attività di controllo, l’amministrazione può esercitare i poteri di vigilanza, prevenzione e controllo previsti dalle leggi vigenti. 16 Il campo di applicazione della SCIA è definito dall’art. 19 l. n. 241/1990, in base al quale la SCIA sostituisce ogni atto autorizzativo il cui rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei requisiti richiesti dalla legge, cioè ogni atto di tipo vincolato. V – Le autorizzazioni e le concessioni I regimi di vigilanza e i regimi di comunicazione preventiva dell’avvio di determinate attività restano ancora all’interno del modello dell’amministrazione titolare di poteri il cui esercizio determina effetti limitativi della sfera giuridica del destinatario. Infatti, l’instaurazione di un rapporto giuridico amministrativo con la pubblica amministrazione titolare del potere di controllo ex post si ha solo con l’avvio del procedimento amministrativo d’ufficio volto a contestare la violazione delle norme amministrative che conformano l’attività ed eventualmente a inibire o sanzionare l’avvio o la prosecuzione dell’attività. Con i regimi che introducono un controllo ex ante, subordinando l’avvio dell’attività a un provvedimento di assenso, si passa invece al modello dell’amministrazione titolare di poteri il cui esercizio determina effetti ampliativi della sfera giuridica del privato. Esso è considerato come maggiormente intrusivo nella libertà dei privati. La scelta da parte del legislatore tra i due modelli di controllo ex post o ex ante richiede una valutazione caso per caso. I regimi autorizzativi possono essere istituiti solo se giustificati da motivi imperativi di interesse generale indicati in un elenco tassativo. L’autorizzazione preventiva è ammessa quando l’obiettivo della tutela dell’interesse pubblico non può essere conseguito tramite una misura meno restrittiva, in particolare quando un controllo a posteriori interverrebbe troppo tardi per avere reale efficacia. Nell’ambito del modello del controllo ex ante sulle attività dei privati vanno considerate principalmente le autorizzazioni e le concessioni: 1. Secondo una definizione tradizionale l’autorizzazione è l’atto con il quale l’amministrazione rimuove un limite all’esercizio di un diritto soggettivo del quale il soggetto che presenta la domanda è già titolare. Il suo rilascio presuppone una verifica della conformità dell’attività ai parametri normativi posti a tutela dell’interesse pubblico. Le autorizzazioni danno dunque origine al fenomeno dei diritti soggetti in attesa di espansione, il cui esercizio è appunto subordinato a una verifica preventiva da parte di una pubblica amministrazione. Rispetto a tale potere conformativo dell’amministrazione, il soggetto privato vanta una posizione di interesse legittimo (pretensivo) che fa coppia con il diritto soggettivo preesistente. La concessione è invece l’atto con il quale l’amministrazione attribuisce ex novo la titolarità di un diritto soggettivo in capo a un soggetto privato. Nel rapporto giuridico amministrativo il privato è titolare di un interesse legittimo (pretensivo) allo stato puro. Solo in seguito all’emanazione del provvedimento concessorio sorge in capo al privato un diritto soggettivo pieno. Sul piano funzionale l’autorizzazione è uno strumento di controllo da parte dell’amministrazione sullo svolgimento dell’attività allo scopo di verificare preventivamente che essa non si ponga in contrasto con le norme che definiscono i requisiti. L’autorizzazione spesso si esaurisce senza che si instauri una relazione stabile con l’amministrazione che vada al di là di una generica attività di vigilanza da parte di quest’ultima sulla permanenza delle condizioni previste dalla legge. La concessione instaura invece in molti casi un rapporto di lunga durata con il concessionario caratterizzato da diritti e obblighi reciproci e da poteri di vigilanza più continuativa; 2. È possibile, tuttavia, svolgere alcune osservazioni critiche da due punti di vista. In primo luogo, la bipartizione delle autorizzazioni e delle concessioni apparve fin dall’inizio troppo rigida e inadatta a inquadrare una realtà molto più complessa. Vennero così individuate, all’interno 17 Gli atti di alta amministrazione operano un raccordo tra la funzione di indirizzo politico e la funzione amministrativa. Essi devono essere motivati e sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo, il quale però esercita su di essi un sindacato meno intenso, limitandosi a rilevare le violazioni più macroscopiche dei principi che presiedono all’esercizio del potere discrezionale. VIII – L’invalidità dell’atto amministrativo Non tutti i casi di difformità tra il provvedimento e le norme che lo disciplinano danno origine a invalidità, nei casi di imperfezioni minori l’atto è semplicemente irregolare ed è suscettibile di rettifica. Si ha invalidità quando la difformità tra atto e norme determina una lesione degli interessi da esse tutelati e incide sull’efficacia del primo in modo radicale, sotto forma di nullità o di annullabilità. Si distingue tra norme che regolano una condotta, le quali stabiliscono obblighi o diritti, e norme che conferiscono poteri, regolano le procedure e i limiti all’esercizio di poteri volti alla produzione di effetti giuridici. Esse sono state etichettate come norme primarie e norme secondarie. I comportamenti che violano il primo tipo di norme sono qualificabili come illeciti. Gli atti posti in essere in violazione delle norme secondarie sono qualificabili come invalidi e contro di essi l’ordinamento reagisce disconoscendone gli effetti. L’invalidità può essere sanzionata secondo due modalità: l’inidoneità dell’atto a produrre effetti giuridici (nullità); l’idoneità a produrli in via precaria, cioè fin tanto che non intervenga un giudice che rimuova con efficacia retroattiva gli effetti prodotti (annullamento). La nullità del provvedimento amministrativo è prevista solo in relazione a poche ipotesi tassative, mentre la violazione delle norme attributive del potere viene attratta nel regime dell’annullabilità. Nel diritto amministrativo, infatti, le norme attributive del potere hanno di regola carattere imperativo, esse non possono pertanto essere derogate o disapplicate dall’amministrazione. Inoltre, nel diritto amministrativo le figure sintomatiche dell’eccesso di potere sono una sorta di catalogo aperto. In definitiva, il regime dell’annullabilità costituisce il regime ordinario del provvedimento amministrativo invalido, mentre la nullità è categoria residuale del diritto amministrativo. L’invalidità dell’atto amministrativo può essere totale o parziale, se investe solamente una sua parte, lasciando inalterata la validità e l’efficacia della parte non affetta dal vizio. L’invalidità di un provvedimento può essere propria o derivata, originaria o sopravvenuta: 1. Nel caso di invalidità propria assumono rilievo diretto i vizi dei quali è affetto l’atto. Nel caso di invalidità derivata, l’invalidità dell’atto discende per propagazione dall’invalidità di un atto presupposto; 2. Si parla di invalidità sopravvenuta dei provvedimenti amministrativi nei casi di legge retroattiva, di legge di interpretazione e di dichiarazione di illegittimità costituzionale. Nelle prime due ipotesi, la retroattività della nuova legge rende viziato il provvedimento emanato in base alla norma abrogata. Nella terza ipotesi, poiché le sentenze di accoglimento della Corte costituzionale hanno efficacia retroattiva, esse rendono invalidi i provvedimenti assunti sulla base delle norme dichiarate illegittime e ai rapporti giuridici sorti anteriormente. La l. n. 241/1990 ha inoltre interpretato l’eccesso di potere non come straripamento di potere, bensì come sviamento di potere. Il primo riguarda i casi di sconfinamento dall’ambito di competenza da parte di un’autorità amministrativa; il secondo i casi nei quali il potere viene esercitato per un fine diverso da quello posto dalla norma attributiva del potere. È stata inoltre elaborata la distinzione tra due tipi di comportamenti patologici dell’amministrazione. Da un lato vi sono comportamenti senza potere assunti in violazione di una 20 norma di relazione, cioè lesivi di un diritto soggettivo, e ascrivibili alla categoria della illiceità. Dall’altro vi sono i comportamenti nei quali il collegamento funzionale tra provvedimento invalido e l’attività esecutiva posta in essere dall’amministrazione integra una violazione della norma attributiva del potere e lede un interesse legittimo, facendo confluire l’intera fattispecie nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo. L’annullabilità è disciplinata dall’art. 21-octies l. n. 241/1990 e dall’art. 29 del Codice del processo amministrativo. Entrambe le disposizioni riprendono la tripartizione tradizionale dei vizi di legittimità, ossia l’incompetenza, l’eccesso di potere e la violazione di legge. La nullità è invece disciplinata dall’art. 21-septies l. n. 241/1990 e dall’art. 31 del Codice del processo amministrativo. IX – L’annullabilità L’atto amministrativo affetto da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge viene qualificato come illegittimo e pertanto suscettibile di annullamento. Annullabilità e illegittimità sono vocaboli usati in modo intercambiabile, tuttavia non si può ritenere che tutti gli atti illegittimi siano annullabili. L’atto non annullabile resta pur sempre illegittimo, cioè connotato da un disvalore maggiore rispetto alla semplice irregolarità. Inoltre, le conseguenze dell’annullamento, cioè il venir meno degli effetti del provvedimento con efficacia retroattiva, non cambiano in relazione al tipo di vizio accertato. L’annullamento elimina comunque l’atto e i suoi effetti in modo retroattivo e l’amministrazione ha l’obbligo di attuare tutte le attività necessarie per ripristinare, per quanto possibile, la situazione di fatto e di diritto in cui si sarebbe trovato il destinatario dell’atto ove quest’ultimo non fosse stato emanato. Ciò che varia in funzione del tipo di vizio è invece il cosiddetto effetto conformativo dell’annullamento, cioè il vincolo che sorge in capo all’amministrazione nel momento in cui essa emana un nuovo provvedimento sostitutivo di quello annullato. Da questo punto di vista la distinzione più rilevante è tra vizi formali e vizi sostanziali: se il vizio ha natura formale non è da escludere che l’amministrazione possa emanare un nuovo atto dal contenuto identico rispetto a quello dell’atto annullato; se, al contrario, il vizio ha natura sostanziale l’amministrazione non potrà reiterare l’atto annullato. L’atto viziato continua a produrre i propri effetti fintanto che l’amministrazione non provveda a modificarlo o a sostituirlo. Sul versante processuale, il Codice amministrativo stabilisce che contro il provvedimento affetto da violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere può essere proposto l’annullamento innanzi al giudice amministrativo nel termine di decadenza di 60 giorni. L’incompetenza L’incompetenza è un vizio del provvedimento adottato da un soggetto diverso da quello indicato dalla norma attributiva del potere. L’incompetenza è una sottospecie della violazione di legge, poiché la distribuzione delle competenze tra i soggetti pubblici è operata da leggi e regolamenti. Si distingue generalmente tra incompetenza relativa e incompetenza assoluta: la prima si ha quando l’atto viene emanato da un organo che appartiene alla stessa branca dell’organo titolare del potere; la seconda, che determina nullità o carenza di potere per difetto di attribuzione, si ha invece quando sussiste un’assoluta estraneità tra l’organo che ha emanato l’atto e quello competente. Il vizio di incompetenza può essere per materia, se attiene alla titolarità della funzione, per grado, se attiene all’articolazione interna degli organi, per territorio se attiene agli ambiti nei quali gli enti territoriali possono operare. La violazione di legge La violazione di legge è considerata una categoria generale residuale, perché in essa confluiscono i vizi che non sono qualificabili come incompetenza o eccesso di potere. Essa raggruppa tutte le 21 ipotesi di contrasto tra il provvedimento e le disposizioni normative contenute in fonti di rango primario o secondario che definiscono i profili vincolati, formali e sostanziali, del potere. La principale distinzione interna alla violazione di legge è quella tra i vizi formali e vizi sostanziali. L’art. 21-octies l. n. 241/1990 enuclea, tra le ipotesi di violazione di legge, la violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, cioè una subcategoria di vizi formali che, a certe condizioni, sono dequotati a vizi che non determinano l’annullabilità del provvedimento. La disposizione pone due condizioni: che il provvedimento abbia natura vincolata e che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. In questo caso il provvedimento non può essere annullato dal giudice amministrativo. L’art. 21-octies l. n. 241/1990 individua inoltre un’ipotesi particolare costituita dall’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, per cui è previsto un regime in parte uguale e in parte diverso da quello dei vizi formali. Eguale è il fatto che se il contenuto del provvedimento non ha potuto essere diverso da quello in concreto adottato, l’atto non può essere annullato. La disposizione presenta tuttavia due specificità: manca il riferimento alla natura vincolata del potere e si richiede all’amministrazione che ha emanato l’atto di dimostrare in giudizio che il vizio procedurale o formale non ha avuto alcuna influenza sul contenuto del provvedimento. In relazione al primo aspetto, la disposizione include nel suo campo di applicazione anche i poteri discrezionali in astratto: solo qualora risulti ex post, che l’amministrazione non aveva altra scelta legittima se non quella di emanare un atto con quel contenuto, può operare il principio della non annullabilità per violazione delle norme formali e procedurali. L’irregolarità del provvedimento può essere definita come un’imperfezione minore del provvedimento che non determina la lesione di interessi tutelati dalla norma d’azione. L’irregolarità non rende invalido il provvedimento che è suscettibile di regolarizzazione, attraverso la sua rettifica. L’eccesso di potere L’eccesso di potere può essere definito come vizio della funzione, intesa come la dimensione dinamica del potere che concretizza la norma astratta attributiva del potere in un provvedimento produttivo di effetti. In tale passaggio, ossia all’interno del procedimento, possono emergere anomalie e disfunzioni che danno origine appunto all’eccesso di potere. L’eccesso di potere è lo sviamento di potere che consiste nella violazione del vincolo del fine pubblico posto dalla norma attributiva del potere: tale violazione si ha allorché il provvedimento emanato persegue un fine diverso da quello per cui il potere è conferito all’amministrazione dalla legge. Nella pratica lo sviamento di potere è difficile da provare, poiché il provvedimento, all’apparenza, si presenta conforme alle disposizioni che regolano quel particolare potere. Ciò ha indotto la giurisprudenza a rilevare il vizio in via indiretta, attraverso elementi indiziari del cattivo esercizio del potere discrezionale, costituiti dalle cosiddette figure sintomatiche dell’eccesso di potere. Le figure sintomatiche costituiscono una categoria aperta, non tipizzata dal legislatore. Le principali fattispecie sono: 1. Errore o travisamento dei fatti: se il provvedimento viene emanato presupponendo l’esistenza di un fatto che risulta invece inesistente o, viceversa, l’inesistenza di un fatto che invece risulta esistente emerge la figura dell’eccesso di potere per errore di fatto; 2. Difetto di istruttoria: nella fase istruttoria del procedimento l’amministrazione è tenuta ad accertare in modo completo i fatti e ad acquisire gli interessi rilevanti per operare una scelta consapevole e ponderata. Ove quest’attività manchi o sia effettuata in modo incompleto, il provvedimento è viziato sotto il profilo dell’eccesso di potere per difetto di istruttoria. 22 Il potere di annullamento d’ufficio deve essere esercitato nel rispetto delle regole generali della l. n. 241/1990 in tema di comunicazione di avvio del procedimento e di partecipazione dei soggetti interessati. La convalida In alternativa all’annullamento d’ufficio, è previsto che l’amministrazione possa procedere alla convalida del provvedimento illegittimo, sempre in presenza di ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. La convalida del provvedimento amministrativo è operata dalla stessa amministrazione cui è imputabile il vizio rilevato. Si tratta comunque di un istituto di applicazione poco frequente dall’ambito limitato, anche in conseguenza del principio della dequotazione dei vizi formali stabilito dall’art. 21-octies, l. n. 241/1990. La sanatoria Si parla di sanatoria nei casi in cui l’atto è emanato in carenza di un presupposto e quest’ultimo si materializza in un momento successivo, oppure nei casi in cui un atto della sequenza procedimentale viene attuato dopo il provvedimento conclusivo. La conferma e l’atto confermativo All’esito di un procedimento di riesame aperto su sollecitazione di un privato o d’ufficio, l’amministrazione può pervenire alla conclusione che il provvedimento non è affetto da alcun vizio. In questi casi l’amministrazione emana un provvedimento di conferma. Si distingue tra conferma, che costituisce un provvedimento amministrativo dal contenuto identico rispetto a quello riesaminato, e atto meramente confermativo, con il quale l’amministrazione si limita a comunicare al privato che non vi sono motivi per riaprire il procedimento, pertanto non può essere considerato come un nuovo provvedimento suscettibile di impugnazione. La conversione Ai provvedimenti affetti da nullità e da annullabilità si ritiene generalmente applicabile la conversione. La revoca Anche i provvedimenti validi sono passibili di un riesame che ha per oggetto il merito, cioè la conformità all’interesse pubblico dell’assetto degli interessi risultante dall’atto emanato. Interviene qui la revoca del provvedimento. Il potere di revoca, che ha carattere discrezionale, è considerato come una manifestazione del potere di autotutela della pubblica amministrazione. L’art. 21 distingue due fattispecie, ossia la revoca per sopravvenienza e la revoca espressione dello jus poenitendi. Alla prima fattispecie è riconducibile la revoca per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, che interviene allorché l’amministrazione opera una rivalutazione dell’assetto degli interessi alla luce di esigenze che non erano presenti al momento dell’emanazione dell’atto. La revoca jus poenitendi riguarda l’ipotesi di nuova valutazione dell’interesse pubblico originario, che si ha nei casi in cui l’amministrazione si rende conto di aver compiuto una ponderazione errata degli interessi nel momento in cui ha emanato il provvedimento. La revoca può essere disposta dallo stesso organo che ha emanato l’atto o da un altro organo previsto dalla legge. A differenza dell’annullamento d’ufficio, che ha efficacia retroattiva (ex tunc), la revoca determina l’inidoneità del provvedimento revocato a produrre ulteriori effetti (ex nunc). L’art. 21 prevede un obbligo generalizzato di indennizzo nei casi in cui la revoca comporta pregiudizi in danno dei soggetti direttamente interessati. 25 La revoca disciplinata dall’art. 21 va distinta dalla cosiddetta revoca sanzionatoria e dal mero ritiro. La prima può essere disposta dall’amministrazione nel caso in cui il privato, destinatario di un provvedimento amministrativo favorevole, non rispetti le condizioni e i limiti in esso previsti. Il mero ritiro ha per oggetto atti amministrativi che non sono ancora efficaci e proprio per questo non necessita di una valutazione specifica degli interessi. Il recesso dai contratti L’art. 21 l. n. 241/1990 disciplina anche il recesso unilaterale dai contratti della pubblica amministrazione prevedendo che esso sia ammesso solo nei casi previsti dalla legge o dal contratto. Si tratta di una disposizione che riguarda l’attività negoziale di diritto privato della pubblica amministrazione e che ribadisce che in questo ambito essa non gode di alcun privilegio. CAPITOLO 5 – IL PROCEDIMENTO I – Nozioni e funzioni del procedimento Il procedimento amministrativo può essere definito come la sequenza di atti ed operazioni tra loro collegati funzionalmente al servizio dell’atto principale, cioè del provvedimento produttivo di effetti nella sfera giuridica di un soggetto privato. Il procedimento amministrativo è anzitutto una nozione di teoria generale collegata alle modalità di produzione di un effetto giuridico. Nello schema norma-fatto-effetto, l’effetto giuridico si produce alcune volte al verificarsi di un singolo accadimento, ossia un fatto giuridico semplice; altre volte al verificarsi di una pluralità di accadimenti (fatti complessi). Nel caso di fatti complessi l’effetto giuridico deriva dunque da una combinazione di comportamenti che devono verificarsi contemporaneamente o in sequenza, ossia la fattispecie a formazione successiva. Nella fattispecie a formazione successiva l’effetto giuridico si produce solo quando la sequenza si è integralmente realizzata secondo l’ordine normativamente dato. Prima di tale momento possono sorgere tutt’al più effetti preliminari. Il procedimento amministrativo assolve a una pluralità di funzioni: 1. Una prima funzione corrisponde a consentire un controllo sull’esercizio del potere, attraverso una verifica del rispetto puntuale della sequenza degli atti predefinita. La legalità assume così una dimensione procedurale, oltre che sostanziale; 2. Una seconda funzione è quella di far emergere tutti gli interessi incisi direttamente o indirettamente dal provvedimento. Ciò sia nell’interesse dell’amministrazione, sia nell’interesse dei soggetti privati, che hanno la possibilità di difendere il proprio punto di vista. La partecipazione acquista così una dimensione collaborativa. Questa dimensione è presente soprattutto nei procedimenti di tipo individuale nei quali il provvedimento determina effetti ampliativi nella sfera giuridica del destinatario. Peraltro, l’amministrazione deve appurare che tutti gli interessi coinvolti siano adeguatamente rappresentati e deve vagliare gli apporti partecipativi dei privati; 3. Una terza funzione del procedimento è quella del contraddittorio a favore dei soggetti incisi negativamente dal provvedimento. Essa connota soprattutto i procedimenti di tipo individuale nei quali la pubblica amministrazione esercita un potere che determina effetti restrittivi della sfera giuridica del destinatario. Il rapporto giuridico si connota in termini di contrapposizione, più che di collaborazione. Il contraddittorio procedimentale può assumere una dimensione verticale o orizzontale. La prima si riferisce ai casi in cui il rapporto giuridico ha carattere bilaterale e coinvolge l’amministrazione titolare del potere e il destinatario dell’effetto giuridico restrittivo. Nel contraddittorio verticale l’amministrazione deve essere parte imparziale. La dimensione orizzontale del contraddittorio 26 emerge nei procedimenti in cui i privati sono portatori di interessi contrapposti e pertanto l’organo decidente è chiamato a garantire la sua terzietà; 4. Una quarta funzione del procedimento è quella di operare da fattore di legittimazione del potere dell’amministrazione, promuovendo pertanto la democraticità dell’ordinamento amministrativo. L’impossibilità del legislatore di prefigurare tutte le situazioni che richiedono l’esercizio del potere fa sì che il procedimento, con la partecipazione di tutti i soggetti interessati, diviene la sede nella quale si individua la regola per il caso concreto da porre come contenuto del provvedimento; 5. Una quinta funzione del procedimento è quella di coordinamento tra più amministrazioni, nei casi in cui un provvedimento amministrativo vada a incidere su una pluralità di interessi pubblici. Allorché il coordinamento tra interessi non sia possibile all’interno del singolo procedimento e l’avvio di un’attività da parte di un privato richieda il rilascio di più autorizzazioni all’esito di una pluralità di procedimenti autonomi paralleli, il coordinamento può avvenire con altre modalità, come la conferenza dei servizi. Il procedimento ha dunque una pluralità di funzioni che sono spesso compresenti nella singola fattispecie e che a seconda dei casi possono prevalere sulle altre. Così, nei procedimenti di tipo regolatorio ha un ruolo primario la funzione di rappresentanza degli interessi e quella conoscitiva. Nei procedimenti di tipo individuale rileva soprattutto la funzione di garanzia del soggetto nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti dei provvedimenti. Nei procedimenti di tipo contenzioso prevale la funzione di garanzia del contraddittorio paritario. Nei procedimenti di tipo programmatico è presente soprattutto la funzione di coordinamento. II – Le leggi generali sul procedimento e la l. n. 241/1990 La l. n. 241/1990 è una legge soprattutto di principi, essa non contiene né una definizione generale di procedimento, né una disciplina organica delle singole fasi in cui esso si articola. Disciplina solo alcuni istituti fondamentali come il termine del procedimento, il responsabile del procedimento, la partecipazione, alcuni istituti di semplificazione, il diritto di accesso. La l. n. 241/1990 fornisce però una cornice generale che integra tutte le leggi amministrative che disciplinano i singoli procedimenti. Il campo di applicazione della l. n. 241/1990 è individuato sulla base di un criterio soggettivo e oggettivo. Sotto il profilo soggettivo le disposizioni in essa contenute si applicano alle amministrazioni statali, agli enti pubblici nazionali e alle società con prevalente capitale pubblico. Sotto il profilo oggettivo, la l. n. 241/1990 si applica nella sua interezza ai procedimenti di tipo individuale. Invece, le disposizioni sull’obbligo di motivazione e sulla partecipazione al procedimento non si applicano agli atti normativi e agli atti amministrativi generali. Il modello di rapporto tra pubblica amministrazione e cittadini: 1. In primo luogo, la l. n. 241/1990 colma la distanza tra amministrazione e soggetti privati, che avevano come unico punto di contatto il provvedimento autoritativo emanato in modo unilaterale. Il dialogo più stretto tra pubblica amministrazione e cittadino, nonché la ricerca di soluzioni consensuali, danno sostanza alla concezione del diritto amministrativo paritario; 2. In secondo luogo, la l. n. 241/1990 cerca di superare anche la tradizionale separatezza tra le stesse pubbliche amministrazioni, ciascuna titolare di poteri autonomi, con scarsi canali di comunicazione. Sono invece privilegiati strumenti consensuali di collaborazione per lo svolgimento di attività di interesse comune e di coordinamento tra procedimenti paralleli; 3. In terzo luogo, viene attenuata la concezione individualistica dei rapporti tra Stato e cittadino. Infatti, al dialogo procedimentale possono partecipare non solo i singoli individui 27 La partecipazione e l’intervento si sostanziano in due diritti. Il primo è quello di prendere visione degli atti del procedimento, ossia il cosiddetto accesso procedimentale. Il secondo consiste nella possibilità di presentare memorie scritte e documenti. L’istruttoria è affidata alla figura del responsabile del procedimento. I compiti del responsabile del procedimento sono indicati nell’art. 6 l. n. 241/1990, i quali includono tutte le attività per lo svolgimento dell’istruttoria e propedeutiche all’emanazione del provvedimento finale. Nei procedimenti a istanza di parte il responsabile del procedimento è tenuto ad attivare una fase supplementare di contraddittorio nei casi in cui l’istruttoria dia esito negativo e porti ad un provvedimento di rigetto dell’istanza. Al soggetto che l’ha proposta deve essere data comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda. L’interessato può presentare osservazioni nel tentativo di superare le obiezioni formulate dall’amministrazione. Questo meccanismo si iscrive nella tendenza recente del legislatore ad agevolare l’avvio di attività da parte dei privati e a superare gli ostacoli di tipo amministrativo. Di norma il responsabile del procedimento non adotta il provvedimento finale, ma trasmette tutti gli atti, corredati da una relazione istruttoria, all’organo competente a emanare il provvedimento finale. Quest’ultimo si deve attenere alle risultanze dell’istruttoria. La conclusione: il termine, il silenzio, gli accordi Conclusa la fase istruttoria, l’organo competente a emanare il provvedimento finale assume la decisione all’esito di una valutazione del materiale acquisito. L’art. 2 l. n. 241/1990 pone in capo all’amministrazione l’obbligo di concludere il procedimento mediante l’adozione di un provvedimento espresso produttivo degli effetti nella sfera giuridica dei destinatari. Il provvedimento finale può essere emanato da un organo individuale oppure da un organo collegiale. Con riferimento alla fase decisionale, gli aspetti principali da approfondire sono: il termine entro il quale il procedimento deve essere concluso e i rimedi in caso di mancato rispetto del termine; il regime del silenzio della pubblica amministrazione; l’accordo come modalità consensuale alternativa al provvedimento unilaterale: 1. Il provvedimento deve essere emanato entro il termine stabilito per lo specifico procedimento, di regola la durata massima non deve superare i 90 giorni. L’art. 2 l. n. 241/1990 dà corpo al principio della certezza del tempo dell’agire amministrativo. Questo principio risponde sia all’esigenza dell’amministrazione alla cura sollecita dell’interesse pubblico di cui è portatrice, sia a quella dei soggetti privati che dovrebbero poter programmare le proprie attività. Il termine può essere sospeso per un periodo non superiore a 30 giorni in caso di necessità di acquisire informazioni. Il mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento può provocare conseguenze di vario tipo: può far sorgere una responsabilità di tipo disciplinare nei confronti del funzionario o del vertice della struttura; nei casi più gravi il ritardo può essere fonte di responsabilità penale; il mancato rispetto del termine può costituire anche motivo per l’esercizio del potere sostitutivo da parte del dirigente sovraordinato; l’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento può anche far sorgere l’obbligo di risarcire il danno. Questo tipo di responsabilità prescinde del tutto dalla legittimità o l’illegittimità del provvedimento emanato in ritardo. È previsto il riconoscimento di un indennizzo automatico per il ritardo; 2. La conclusione del procedimento con l’emanazione di un provvedimento espresso, o con la conclusione di un accordo, è l’evenienza prevista come fisiologica dalla l. n. 241/1990. Tuttavia, può accadere che l’amministrazione non concluda il procedimento entro il termine 30 fissato e la situazione di inerzia si protragga nel tempo. Si pone così la questione del silenzio della pubblica amministrazione. Fino ad anni recenti il regime ordinario del silenzio della pubblica amministrazione di fronte a istanze presentate da soggetti privati è stato quello del cosiddetto silenzio-inadempimento. In questi casi l’inerzia mantenuta oltre il termine assume il significato giuridico di inadempimento dell’obbligo formale di provvedere posto dall’art. 2 l n. 241/1990, cioè di concludere il procedimento con un provvedimento di accoglimento dell’istanza oppure con un provvedimento di rigetto. Successivamente sono stati introdotti per singole tipologie di procedimenti due regimi di silenzio significativo, ossia il silenzio-diniego (o rigetto) e il silenzio-assenso (o accoglimento). In entrambi i casi il procedimento si conclude con un provvedimento tacito. Le fattispecie di silenzio avente valore di diniego sono tassativamente stabilite dalla legge. Le ipotesi legislative di silenzio-assenso sono molto più numerose, in linea con la tendenza a rimuovere gli ostacoli alle attività dei privati, in particolare il regime non vale nei casi di provvedimenti autorizzativi vincolati, sostituiti dalla segnalazione certificata d’inizio di attività, soggetti a un regime di liberalizzazione. I casi di esclusione del regime di silenzio-assenso riguardano procedimenti che continuano pertanto a ricadere nel regime del silenzio-inadempimento. L’amministrazione può evitare che si formi il silenzio-assenso non soltanto provvedendo nel termine previsto, ma anche indicendo una conferenza dei servizi. Il silenzio-assenso ha valore procedimentale, ciò determina due conseguenze: il silenzio può essere oggetto di provvedimento di autotutela sotto forma di revoca e di annullamento d’ufficio; può essere impugnato innanzi al giudice amministrativo. In definitiva il regime del silenzio-assenso non fa venir meno l’obbligo di provvedere in capo all’amministrazione, ma incide solo sulla fase decisionale, introducendo un incentivo al rispetto del termine; 3. Il provvedimento espresso costituisce l’esito normale del procedimento amministrativo. Esiste tuttavia una modalità alternativa di conclusione del procedimento che la l. n. 241/1990 tende a favorire, ossia l’accordo integrativo o sostitutivo del provvedimento. Si tratta di un istituto che privilegia per quanto possibile soluzioni concordate che riducono il rischio di possibili contenziosi e che pongono l’amministrazione su un piano più paritario nei confronti del soggetto privato. In base alla l. n. 241/1990, l’accordo ha per oggetto il contenuto discrezionale del provvedimento ed è finalizzato a ricercare un miglior contemperamento tra l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione procedente e l’interesse del privato. L’accordo fa salvi i diritti dei terzi che potrebbero contestarne i contenuti proponendo un’azione di annullamento innanzi al giudice amministrativo. L’amministrazione non è tuttavia obbligata a concludere accordi integrativi o sostitutivi con i privati e può sempre prediligere la via del provvedimento unilaterale non negoziato. La possibilità di stipulare accordi, dunque, attenua ma non elimina il carattere asimmetrico del rapporto tra pubblica amministrazione e soggetti privati. Gli accordi integrativi del provvedimento servono a concordare il contenuto del provvedimento finale che viene emanato successivamente alla stipula dell’accordo e in attuazione di quest’ultimo. Sul piano formale il provvedimento mantiene la sua configurazione di atto unilaterale produttivo di effetti, secondo lo schema accordo-provvedimento-effetti. Negli accordi sostitutivi gli effetti giuridici si producono in via diretta con la conclusione dell’accordo, senza alcuna necessità di un atto formale di recepimento, secondo lo schema accordo-effetti. L’amministrazione, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, può recedere dall’accordo, anche se il recesso non sia previsto in quest’ultimo. La necessità di consentire all’amministrazione di curare l’interesse pubblico rende infatti necessario uno strumento per consentire a quest’ultima di sciogliersi dai vincoli dell’accordo. Ad esso si accompagna l’obbligo di liquidare un indennizzo per gli eventuali danni subiti dal privato. 31 IV – Procedimenti semplici, complessi, collegati. Il subprocedimento I procedimenti possono avere una struttura semplice o complessa a seconda del loro oggetto, del numero e della natura degli interessi pubblici e privati incisi, dunque della necessità di coinvolgere una pluralità di amministrazioni. Si spazia tra due estremi: procedimenti autorizzatori semplici, nei quali la sequenza procedimentale consiste soltanto in un’istanza presentata dall’interessato, in un’istruttoria limitata a poche verifiche e in una decisione affidata a un’unica autorità; i procedimenti complessi che richiedono accertamenti fattuali, momenti partecipativi, acquisizione di pareri o di valutazioni tecniche con il coinvolgimento anche nella fase decisionale di una molteplicità di amministrazioni. I procedimenti a struttura complessa sono spesso articolati all’interno in subprocedimenti sequenziali. Talvolta i subprocedimenti si concludono con atti suscettibili di incidere su situazioni giuridiche soggettive, in quanto produttivi di effetti esterni diversi e indipendenti rispetto all’effetto giuridico primario riferibile al provvedimento assunto a conclusione dell’intero procedimento, in tal caso si parla di procedimenti collegati. In termini più generali si parla di procedimenti collegati in tutti i casi in cui una pluralità di procedimenti, da avviare in sequenza o in parallelo, sono funzionali a un risultato unitario. Da un punto di vista meramente descrittivo è possibile effettuare diverse classificazioni dei procedimenti amministrativi: a) Si possono distinguere i procedimenti di primo grado e i procedimenti di secondo grado. I primi sono finalizzati all’emanazione di provvedimenti amministrativi con effetti esterni e alla cura di un interesse pubblico. I secondi hanno invece per oggetto provvedimenti amministrativi già emanati e per scopo la verifica della loro legittimità e compatibilità con l’interesse pubblico; b) Un’altra distinzione è tra procedimenti finali e procedimenti strumentali. Mentre i primi sono funzionali alla cura di interessi pubblici nei rapporti esterni con i soggetti privati, i secondi hanno una funzione prevalentemente; c) Un’ulteriore distinzione è tra procedimento in senso proprio e procedura interna all’amministrazione. Il primo si riferisce agli atti della sequenza procedimentale che trovano disciplina nella legge. La procedura interna riguarda invece gli atti interni all’amministrazione. V – La conferenza di servizi e altre forme di coordinamento I procedimenti complessi e i procedimenti collegati pongono il problema del coordinamento degli adempimenti e delle tempistiche relative all’adozione dei vari atti riferibili a una pluralità di amministrazioni titolari di propria competenza. La l. n. 241/1990 individua come strumento principale di coordinamento la conferenza di servizi. La conferenza di servizi consiste in una riunione dei rappresentanti delle amministrazioni interessate. Nella conferenza di servizi i rappresentanti delle amministrazioni devono confrontarsi e operare una valutazione dell’interesse pubblico affidato alla cura con gli altri interessi pubblici curati dalle altre amministrazioni. Si tratta di una modalità volta sia a realizzare il coordinamento tra le amministrazioni, sia a semplificare lo svolgimento del procedimento e a ridurre i tempi dell’emanazione dei provvedimenti. La l. n. 241/1990 distingue tre tipi di conferenza di servizi: istruttoria, decisoria, preliminare: 32 Si ha quindi un’ulteriore fase di contraddittorio con il privato. Il procedente prevede, in ultima battuta, l’intervento di una commissione che procede alla determinazione definitiva dell’importo, sindacabile attraverso il ricorso alla Corte d’Appello. Il procedimento di esproprio è espressione di un potere unilaterale, tuttavia l’ordinamento tende a favorire soluzioni consensuali attraverso l’istituto della cessione volontaria del bene. L’accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio. Una volta avviato il procedimento di espropriazione, l’amministrazione può avviare il procedimento di occupazione d’urgenza al fine di acquisire immediatamente la disponibilità materiale del bene e di intraprendere i lavori per realizzazione dell’opera pubblica. Anche il procedimento di espropriazione d’urgenza si svolge in contraddittorio con i proprietari interessati. La retrocessione dei beni espropriati consiste nel diritto del soggetto espropriato di riacquistare la proprietà del bene nei casi in cui l’opera pubblica non viene realizzata o non tutto il bene espropriato viene utilizzato. Il fondamento dell’istituto è infatti che il diritto di proprietà può essere sacrificato solo nella misura strettamente necessaria per conseguire le finalità di pubblico interesse. Vi è poi l’istituto dell’acquisizione sanante, il quale consente all’amministrazione che ha occupato senza titolo un bene per scopi di pubblica utilità, che ha visto annullati dal giudice amministrativo i provvedimenti emanati, di disporne l’acquisizione. Il provvedimento deve prevedere un indennizzo corrispondente al valore del bene e un risarcimento del danno per il periodo di occupazione senza titolo. Il provvedimento di acquisizione richiede una motivazione puntuale in particolare in riferimento alle eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l’emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l’assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione. Le sanzioni pecuniarie e disciplinari Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni è strutturato in modo da garantire il rispetto del principio del contraddittorio. Le principali tipologie di sanzioni sono quelle pecuniarie e quelle disciplinari. Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni di tipo pecuniario è disciplinato dalla l. n.689/1981, la quale distingue più fasi: l’accertamento, la contestazione degli addebiti, l’ordinanza-ingiunzione. Quest’ultima può essere oggetto di un’opposizione, cioè di una fase di verifica giurisdizionale. 1. A monte dell’apertura del procedimento vi è la fase dell’accertamento, che consiste in un’attività di raccolta e di prima valutazione di elementi suscettibili di illecito amministrativo; 2. Se l’accertamento fa emergere la violazione di norme amministrative, l’amministrazione procede alla contestazione dell’illecito al trasgressore. Ove possibile la contestazione deve essere immediata e in ogni caso essa deve essere notificata nel termine di 90 giorni dall’accertamento. Questo termine ha natura perentoria in quanto il suo decorso determina l’estinzione dell’obbligazione del pagamento della somma dovuta. Entro 60 giorni dalla notificazione della contestazione l’interessato può procedere al pagamento di una somma ridotta, che estingue l’obbligazione pecuniaria senza che si proceda a un accertamento definitivo dell’illecito; 3. L’autorità procedente, ove ritenga provata la violazione all’esito della valutazione di tutti gli elementi istruttori, emana l’ordinanza-ingiunzione che determina l’ammontare della sanzione pecuniaria e ingiunge al trasgressore il suo pagamento entro un termine di 30 giorni. In caso contrario l’autorità dispone l’archiviazione; 4. Contro l’ordinanza-ingiunzione può essere proposta opposizione innanzi al giudice ordinario entro un termine di 30 giorni dalla notificazione del provvedimento. 35 Una specie di sanzioni amministrative è costituita dalle sanzioni disciplinari, previste per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Anche i procedimenti per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari, ora in gran parte sottoposti a una disciplina privatistica, prevedono ampie garanzie del contraddittorio. L’ufficio competente per i procedimenti disciplinari deve contestare i comportamenti illeciti di un dipendente pubblico non oltre i 20 giorni. Il dipendente viene quindi convocato per esercitare il proprio diritto di difesa. L’amministrazione procede, ove necessario, a un’ulteriore istruttoria. Il procedimento si conclude con l’archiviazione o con l’irrogazione della sanzione entro 60 giorni dalla contestazione dell’addebito. Tali termini hanno carattere perentorio. Le autorizzazioni Tra i procedimenti che si concludono con provvedimenti che producono effetti ampliativi della sfera giuridica del destinatario, vi sono le autorizzazioni. La disciplina europea, stabilita dalla direttiva 2006/123/CE, pone il principio per cui le procedure per l’accesso a un servizio devono essere sufficientemente semplici. Gli Stati membri devono istituire sportelli unici presso i quali gli interessati possono espletare tutte le procedure e acquisire le informazioni. Le procedure devono essere chiare, rese pubbliche preventivamente e tali da garantire ai richiedenti che la loro domanda sarà trattata con imparzialità. Non devono essere dissuasive e tali da complicare o ritardare la prestazione del servizio. Gli oneri che possono derivare per i richiedenti devono essere ragionevoli. La domanda di autorizzazione deve essere trattata con la massima sollecitudine e comunque entro un termine di risposta ragionevole prestabilito. La mancata risposta entro il termine stabilito fa scattare il silenzio-assenso. Solo in presenza di un motivo imperativo di interesse generale le leggi possono escluderlo introducendo un regime del silenzio-inadempimento. I procedimenti concorsuali Si pone per l’amministrazione il problema di come scegliere tra più aspiranti. Alcune indicazioni provengono già dalla Costituzione e dal diritto europeo. Per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e più in generale agli uffici pubblici sono posti i principi di eguaglianza e di concorso pubblico. I procedimenti di tipo concorsuale hanno la funzione specifica di selezionare gli aspiranti a una risorsa scarsa in base ad alcuni principi generali: il principio di pubblicità, che consente a tutti i potenziali interessati di aver notizia della procedura; il principio di parità di trattamento, che mira a porre sullo stesso piano tutti gli aspiranti; il principio di trasparenza della procedura; il principio di oggettività dei criteri, al fine di limitare la discrezionalità. I principali esempi di questa tipologia di procedimenti sono il concorso per l’acceso agli impieghi pubblici, che costituisce la modalità ordinaria per il reclutamento del personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, e l’affidamento dei contratti pubblici, disciplinato dal Codice dei contratti pubblici. L’accesso ai documenti amministrativi Il procedimento di accesso ai documenti amministrativi, disciplinato dalla l. n. 241/1990, è a iniziativa di parte e si apre con la richiesta presentata dal soggetto interessato all’amministrazione. Essa può riferirsi soltanto a documenti ben individuati e già formati. È possibile distinguere due modalità di accesso, formale e informale. L’accesso informale si può avere quando non vi siano soggetti controinteressati per i quali si ponga un problema di riservatezza. Essa è esaminata immediatamente, senza formalità ed è accolta senza l’adozione di un particolare atto. L’accesso formale è necessario nei casi in cui l’amministrazione riscontri l’esistenza di potenziali controinteressati. La richiesta deve essere presentata per iscritto e deve essere motivata sotto il profilo dell’interesse diretto, concreto e attuale connesso all’oggetto della richiesta che fa sorgere in 36 capo al richiedente una situazione giuridica soggettiva individualizzata. Il procedimento prevede anche una fase di contraddittorio con i soggetti controinteressati. Il procedimento di accesso deve concludersi entro 30 giorni dalla richiesta. Decorso il termine la richiesta si intende respinta, si forma cioè il silenzio-diniego. Il procedimento può concludersi, oltre che con un provvedimento che concede o nega l’accesso, anche con un provvedimento che dispone il differimento dell’accesso. L’accesso civico si caratterizza per il fatto di non richiedere la titolarità di una situazione giuridica soggettiva in capo al richiedente. La richiesta di accesso civico non riguardante documenti la cui pubblicazione è obbligatoria deve essere comunicata dall’amministrazione a eventuali controinteressati che possono presentare un’opposizione motivata. Il procedimento deve concludersi con provvedimento espresso e motivato nel termine di 30 giorni. CAPITOLO 7 – LA RESPONSABILITÀ I – L’art. 28 Cost. e gli sviluppi successivi La responsabilità della pubblica amministrazione in Italia trova fondamento nell’art. 28 Cost., il quale stabilisce che i funzionari dello Stato sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative degli atti compiuti in violazione di diritti. A prima vista, l’art. 28 Cost. sembra porre in primo piano la responsabilità personale del dipendente e solo in via subordinata la responsabilità dell’apparato. In realtà, l’interpretazione che ne è stata fornita ritiene che la responsabilità del dipendente e dell’amministrazione abbia natura solidale e non sia necessariamente parallela. All’amministrazione di appartenenza si imputa direttamente l’attività dell’agente, ciò perché da un punto di vista formale non è il dipendente pubblico che opera, bensì l’ente. Pertanto, anche in caso di attività illecita posta in essere dal dipendente nell’ambito delle mansioni alle quali è adibito, la responsabilità sorge esclusivamente in capo alla pubblica amministrazione. Solo per alcune categorie particolari di dipendenti pubblici, leggi speciali antecedenti alla Costituzione avevano previsto una responsabilità personale del dipendente con esclusione della responsabilità dell’apparato. La giurisprudenza ha progressivamente ridotto le aree di immunità, pertanto l’evoluzione normativa del nostro ordinamento è stata nella direzione di far confluire sempre più la responsabilità della pubblica amministrazione nel diritto comune. II – La responsabilità civile da comportamento illecito La responsabilità della pubblica amministrazione e dei suoi agenti riferita a meri comportamenti va analizzata tenendo distinti tre rapporti: il rapporto tra il terzo danneggiato e il dipendente pubblico che ha attuato il comportamento illecito; il rapporto tra il terzo danneggiato e la pubblica amministrazione nella quale è incardinato il dipendente pubblico; il rapporto interno tra dipendente e amministrazione di appartenenza. In primo luogo, la responsabilità del funzionario e dell’amministrazione per danni provocati a terzi è una responsabilità diretta di tipo solidale. Il danneggiato può scegliere liberamente se agire contro il dipendente, contro l’amministrazione o contro entrambi. In secondo luogo, il perimetro della responsabilità della pubblica amministrazione è più ampio di quello della responsabilità del dipendente. Infatti, la responsabilità personale per danni provocati nell’esercizio delle sue funzioni è limitata ai casi di dolo e colpa grave. In terzo luogo, l’amministrazione che abbia risarcito il terzo del danno cagionato dal dipendente può esercitare un’azione di regresso contro quest’ultimo secondo i principi della responsabilità amministrativa, la quale è accertata dalla Corte dei conti. 37 sulla base della direttiva stessa; che esista un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi. Secondo molti la sentenza Francovich segna una tappa fondamentale nella costruzione del sistema europeo come ordinamento autonomo, capace di imporre i propri principi agli Stati membri. Nel caso di specie, la responsabilità degli Stati membri non è più retta solo dai principi del diritto nazionale, ma anche dai principi del diritto europeo. V – La responsabilità amministrativa Un’ipotesi particolare di responsabilità amministrativa si ha quando la pubblica amministrazione, condannata a risarcire un terzo del danno provocato dal comportamento illecito del proprio dipendente, agisce in via di regresso nei confronti di quest’ultimo (danno erariale indiretto). Ma al di là di questa fattispecie, la responsabilità amministrativa riguarda ogni genere di danno causato all’amministrazione dal proprio dipendente (danno erariale diretto). Il regime della responsabilità amministrativa si distacca dal diritto comune e si caratterizza per avere un carattere ibrido, a metà strada tra la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Essa ha una finalità essenzialmente risarcitoria, ma in alcune fattispecie particolari emerge anche una finalità sanzionatoria. Le fonti normative della responsabilità amministrativa sono costituite dal Testo unico delle leggi sulla Corte dei conti. Quanto al campo di applicazione, questo tipo di responsabilità vale per funzionari e amministratori delle amministrazioni pubbliche e di enti pubblici. Possono essere chiamati a rispondere anche soggetti esterni all’amministrazione, ma comunque legati ad essa da un rapporto di servizio. La Corte dei conti ha esteso l’ambito della responsabilità amministrativa anche agli amministratori e dirigenti delle società per azioni in mano pubblica, sottoponendo così quest’ultimi un doppio regime di responsabilità, in base al diritto societario e per danno erariale. La preoccupazione della Corte dei conti era che attraverso il ricorso allo strumento della società per azioni in mano pubblica si volessero eludere i vincoli pubblicistici. La responsabilità ha natura personale, quando il danno è causato da più persone, ciascuna risponde solo per la parte di sua competenza. La responsabilità sorge in relazione ai fatti e alle omissioni commessi con dolo e colpa grave. L’esclusione della responsabilità nel caso di colpa lieve evita di sovraccaricare i dipendenti pubblici del rischio di essere chiamati a rispondere di attività che perseguono l’interesse pubblico. Se il danno deriva da un provvedimento legittimo, data l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, la Corte dei conti non può sostituire le valutazioni di una determinata scelta dell’amministrazione. È risarcibile non soltanto il danno provocato all’amministrazione in cui è incardinato il dipendente, ma più in generale il danno cagionato ad amministrazioni o enti diversi da quelli di appartenenza, in questo caso si ha il cosiddetto danno obliquo. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni dalla data in cui il fatto si è verificato, oppure, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta. Sotto il profilo processuale la responsabilità amministrativa viene accertato in un giudizio innanzi alla Corte dei conti. VI – La responsabilità erariale Il danno erariale diretto La responsabilità erariale (detta anche amministrativa), il cui accertamento avviene da parte della Corte dei conti, trova fondamento nel Testo unico degli impiegati civili dello Stato secondo il quale 40 l’impiegato è tenuto a risarcire l’amministrazione e i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio. Esempi di danno erariale sono la distruzione di attrezzature e macchinari dell’amministrazione, le consulenze superflue affidate per l’amministrazione, le spese voluttuarie degli amministratori di enti o non legate all’attività di servizio, eccetera. La responsabilità erariale inerisce al rapporto interno tra dipendente pubblico e amministrazione di appartenenza. In questo senso costituisce, concettualmente, una sottospecie della responsabilità del lavoratore subordinato nei confronti del proprio datore di lavoro che nasce in conseguenza della violazione dei doveri di diligenza. L’agente pubblico e il rapporto di servizio Quanto al campo di applicazione, sotto il profilo soggettivo, questo tipo di responsabilità vale per funzionari, impiegati, agenti pubblici e amministratori delle amministrazioni pubbliche statali e non statali e di enti pubblici. Nel corso del tempo la giurisprudenza ha ampliato il novero delle figure rientranti nella nozione di agente pubblico fino ad abbracciare anche gli amministratori di enti pubblici economici. Possono essere chiamati a rispondere anche soggetti esterni all’amministrazione legati ad essa da un “rapporti di servizio” di tipo funzionale. Queste figure sono in qualche modo compartecipi nei processi decisionali e nella gestione delle risorse pubbliche e dunque nella produzione del danno. Esse sono inserite, sia pure solo temporaneamente e funzionalmente, nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione. Le società pubbliche In anni recenti la giurisprudenza della Corte dei conti aveva esteso l’ambito della responsabilità erariale anche agli amministratori e dirigenti delle società per azioni in mano pubblica, sottoponendo così questi ultimi a un doppio regime di responsabilità, cioè alla responsabilità in base al diritto societario e a quella per danno erariale. La Corte di cassazione ha posto un limite a questo tipo di estensione, affermando che in linea di principio le società pubbliche non rientrano nel perimetro della responsabilità erariale. Questi principi sono stati recepiti dal Testo unico sulle società partecipate, anche se la formulazione delle disposizioni presenta alcune ambiguità. La responsabilità ha natura personale. Quando il fatto dannoso è causato da più persone, ciascuna risponde solo per la parte di sua competenza. Tuttavia in caso di dolo o quando le persone coinvolte hanno conseguito un illecito arricchimento la responsabilità è solidale. Inoltre, nelle deliberazioni degli organi collegiali la responsabilità si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso il voro favorevole. La responsabilità per dolo o colpa grave Sotto il profilo oggettivo, la responsabilità sorge in relazione ai fatti ed alle omissioni commessi con dopo e colpa grave. In via sperimentale il legislatore ha alleggerito il regime della responsabilità dei funzionari pubblici nel momento in cui adottano i provvedimenti di loro competenza nella fase di ripresa post Covid-19 e di attuare del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il legislatore ha previsto cioè che per le condotte attive sia necessario il requisito del dolo, mentre per quelle omissive (inerzia) sia sufficiente il requisito della colpa grave. Se il danno deriva da un provvedimento, resta ferma comunque l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali. Ciò significa che se il provvedimento è legittimo, la Corte dei conti non può sostituire le proprie valutazioni in ordine alla opportunità e convenienza di una determinata scelta amministrativa. Altrimenti ne verrebbe penalizzata, con effetti paralizzanti, la managerialità degli 41 amministratori pubblici che devono assumere decisioni spesso in condizioni di incertezza in ordine agli esiti delle medesime. Il sindacato della Corte dei conti, al pari di quello del giudice amministrativo, può riguardare tutti i profili di legittimità, incluso l’eccesso di potere nella molteplicità delle sue figure sintomatiche. Il danno obliquo È risarcibile non soltanto il danno provocato all’amministrazione in cui è incardinato il dipendente, ma più in generale il danno cagionato ad amministrazioni o enti diversi da quelli di appartenenza. In quest’ultimo caso si ha il cosiddetto danno obliquo che può emergere nel caso di un dipendente pubblico distaccato o comandato presso un’altra amministrazione, oppure nel caso del componente di un consiglio di amministrazione di un ente pubblico nominato da un ministero o altro ente. Il danno obliquo non si presta a essere inquadrato nello schema della responsabilità contrattuale tra dipendente e proprio datore di lavoro, ma è coerente con una visione che tende a tutelare l’interesse erariale considerando il settore pubblico come un unico comparto. La quantificazione del danno Ai fini della quantificazione del danno, vanno valutati anzitutto il decremento patrimoniale o la mancata entrata da parte dell’amministrazione. Al danno patrimoniale si aggiunge in alcuni casi il danno all’immagine dell’amministrazione, per esempio nel caso di percezione di tangenti da parte di amministratori per il compimento di atti in violazione dei doveri d’ufficio. Il danno va liquidato scomputando i vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di provenienza o da altra amministrazione, dalla comunità amministrata. Nel caso di realizzazione di lavori non previsti dal capitolato, ma comunque utili per l’amministrazione, occorre tener conto di questo beneficio. Questa sorta di compensatio lucri cum damno, operata con criteri sostanzialmente equitativi, non può tuttavia portare a un azzeramento del risarcimento. Una particolarità del regime della responsabilità erariale consiste nel cosiddetto potere riduttivo in base al quale la Corte può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduro. Questo potere consente di modulare la somma a carico delle finanze personali del dipendente rispetto all’enormità dei danni potenziali all’amministrazione. Sotto il profilo processuale, la responsabilità erariale viene accertata in un giudizio innanzi alla Corte dei conti. Complessivamente la responsabilità erariale è retta da un regime non omologabile ai modelli del codice civile. Essa costituisce un fattore di deterrenza che spesso ha effetti paralizzanti sull’azione amministrativa. CAPITOLO 10 – IL PERSONALE I – Premessa Come tutte le organizzazioni, anche le pubbliche amministrazioni per svolgere le proprie attività hanno necessità di dotarsi di personale. Il rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è disciplinato da un complesso di regole speciali, diverse almeno in parte da quelle del diritto del lavoro privato, oggi riordinate nel d.lgs 30 marzo 2001, n 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro nelle pubbliche amministrazioni). 42 Il processo in questione si è articolato in due fasi. 1. La prima si aprì con il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 che operò una privatizzazione del rapporto di impiego dei dipendenti pubblici, escludendo però alcune categorie di essi tra le quali i dirigenti generali. 2. La fase successiva, definita “seconda privatizzazione” incluse nel regime privatistico anche questi ultimi. Le disposizioni legislative vennero poi riordinate nel d.lgs. n. 165\2001. Successivamente, il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 introdusse numerose modifiche al d.lgs. n. 165\2001 nel tentativo di stimolare, attraverso un sistema di incentivi e di sanzioni, una maggiore produttività ed efficienza nel pubblico impiego. II – Le fonti di disciplina del rapporto di lavoro Il campo di applicazione delle norme generali sull’impiego pubblico privatizzato, che valgono oggi per la maggior parte dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, è definito nell’art. 1 del d.lgs. n. 165\2001 che individua un elenco di amministrazioni pubbliche u cui dipendenti riardono nel regime privatistico. Le categorie di dipendenti non privatizzati Alcune categorie di personale restano sottoposte al regime di diritto pubblico. Esse sono il personale militare e delle forze di polizia, i magistrati, gli avvocati dello Stato, il personale della carriera prefettizia, il personale diplomatico, il personale delle autorità indipendenti, i professori universitari, i vigili del fuoco, le guardie penitenziarie. Per alcune di queste il regime è integralmente pubblicistico; per altre alcuni aspetti del traportò sono disciplinati da accordi collettivi o sono previste procedure di concertazione con rappresentanze del personale. In coerenza con la natura pubblicistica del rapporto, tutte le controversie, incluse quelle meramente patrimoniali, sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 63, comma 4). La specialità del regime privatistico Per il personale ricadente nel regime privatistico il sistema delle fonti dà origine, in realtà, a un “diritto privato differenziato”. Infatti, il rapporto di lavoro è disciplinato dalle disposizioni del codice civile e dalla legge sui rapporti di lavoro subordinato dell’impresa. Poiché il d.lgs. n. 165\2001 contiene molte disposizioni derogatorie rispetto a quelle del diritto comune, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici si connota per molteplici profili di specialità che si è andata accentuando nel corso degli anni. Uno degli esempi più significativi di specialità è costituito dalla regola secondo la quale l’esercizio di fatto di mansioni superiori alla qualifica di appartenenza non dà diritto, com accade invece in ambito privatistico, all’inquadramento del lavoratore nella qualifica superiore. Si tratta di una disposizione giustificata dall’esigenza di salvaguardare il principio del concorso pubblico che vale anche per la progressione nelle qualifiche. Il medesimo principio giustifica l’inapplicabilità del principio della conversione automatica dei rapporti di lavoro a termine costituiti in modo illegittimo in rapporti a tempo indeterminato (art. 36, comma 5). 45 In aggiunta alle disposizioni legislative generali e speciali di rango primario, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici è regolato dai contratti collettivi e dai contratti individuali (art. 2, comma 3). I contratti collettivi e individuali La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali (art. 40, comma 1). I contratti individuali, che instaurano il rapporto di lavoro tra dipendente e amministrazione di regola all’esito di un concorso pubblico, devono garantire la parità di trattamento, in particolare per quanto riguarda gli aspetti retributivi previsti nei contratti collettivi. in virtù di questa revisione i contratti collettivi assumono un’efficacia sostanzialmente erga omnes, cioè anche nei confronti dei dipendenti non iscritti ai sindacati che hanno sottoscritto il contratto collettivo. L’ambito della contrattazione collettiva In tema di contrattazione collettiva occorre approfondire due temi: l’ambito in cui essa opera; le modalità organizzative e procedurali. 1. Quando al primo tema, la contrattazione collettiva è ammessa entro uno spazio delimitato in modo rigoroso dal d.lgs. n. 165\2001 il quale ha optato una significativa rilegificazione della materia (per esempio in materia sanzioni disciplinari). In particolare, sono escluse da essa le materie attinenti all’organizzazione degli uffici che sono disciplinate da ciascuna amministrazione. Sono inoltre escluse le materie afferenti alle prerogative dei dirigenti degli uffici i quali sono preposti all’organizzazione dei medesimi e alla gestione dei rapporti di lavoro con la capacità e i doveri del privato datore di lavoro. Sono escluse anche le materie relative al conferimento e alla revoca degli incarichi dirigenziali, alla determinazione dei ruoli e dotazioni organiche, ai procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro, alle incompatibilità, eccetera. 2. Passando a considerare le modalità organizzative e procedurali, rilevano soprattutto due aspetti: i livelli della contrattazione collettiva; i soggetti della contrattazione. a. Quando al primo aspetto la legislazione vigente delinea un sistema a cascata flessibile, in quanto spetta alla contrattazione colletta disciplinare la struttura contrattuale, i rapporti tra i diversi livelli e la durata dei contratti collettivi nazionali e integrativi. Più in particolare, il d. lgs. n. 165\2001 prevede tre livelli di contrattazione. Il primo livello serve a individuare i comparti che includono categorie di personale dipendente da amministrazioni tendenzialmente omogenee. All0interno di ciascun comparto possono essere costituite seziono contrattuali per specifiche professionalità. A valle degli accordi sui comparti opera il secondo livello costituito, per ciascun comprato dai contratti collettivi nazionali. A valle de contratti collettivi nazionali si collocano i contratti collettivi integrativi che riguardano impersonale di una singola amministrazione. Essi hanno lo scopo di assicurare livelli adeguati di efficienza e produttività e di valorizzazione, sotto il profilo del trattamento economico accessorio della performance individuale. b. Quando ai soggetti della contrattazione collettiva, per al parte pubblica, è stato istituito un organismo tecnico, cioè l’Agenzia per la rappresentanza negoziare delle pubbliche amministrazioni (ARAN). L’Agenzia ha personalità giuridica di diritto pubblico. Ha come organi un presidente e un collegio di indirizzo e controllo costituito da quattro esperti in materia di relazioni sindacali designati in modo tale che in esso siano rappresentate le amministrazioni statali, le regioni e gli enti locali. 46 L’ARAN In sede di contrattazione, l’ARAN deve rispettare il vincolo delle risorse finanziarie stanziate per il rinnovo dei contratti nell’ambito dei procedimenti di programmazione della spesa pubblica. I contratti stipulati sono corredati da prospetti contenenti la quantificazione degli oneri e l’indicazione della copertura complessiva per l’intero periodo di validità contrattuale. L’ARAN sottopone l’ipotesi di accordo al parere dei comitati di settore e al governo. Una volta acquisto il parere, l’ARAN trasmette al quantificazione dei costi contrattuali alla Corte dei conti ai fini della certificazione di compatibilità con gli strumenti di programmazione di bilancio e procede alla sottoscrizione definitiva del contratto collettivo solo se la certificazione è positiva. Le controparti sindacali La controparte dell’ARAN in sede di contrattazione collettiva è costituita dalle organizzazioni sindacali dei dipendenti pubblici. Quelle ammesse alla negoziazione sono individuate in base a un criterio di rappresentatività che per ciascuna organizzazione non deve essere inferiore al 5%. Ai fini di certezza e obiettività, è previsto un sistema di rilevazione e di certificazione dei dati relativi alle deleghe e ai voti che fa capo all’ARAN e che de coinvolto un comitato paritetico al quale partecipano le stesse organizzazioni sindacali. L’ARAN può sottoscrivere i contratti collettivi solo se le organizzazioni sindacali che aderiscono all’ipotesi di accordo rappresentano nel loro complesso almeno il 51%. Queste soglie si giustificano anche per il fatto che, come si è accennato, i contratti collettivi nel pubblico impiego hanno efficacia erga omnes indiretta poiché le amministrazioni sono tenute a garantire ai propri dipendenti la parità di trattamento contrattuale. III – La costituzione e lo svolgimento del rapporto di lavoro Il concorso pubblico I procedimenti di selezione e di avviamento al lavoro nelle pubbliche amministrazioni propedeutici alla costituzione del rapporto sono regolati esclusivamente dalla legge o con altri atti normativi o amministrativi. In particolare, il concorso pubblico costituisce la regola generale volta a favorire il merito e a contrastare il political patronage, cioè il reclutamento secondo criteri di affiliazione politica e partitica. Il reclutamento del personale tramite procedure selettive che rispettino i principi di pubblicità, trasparenza, oggettività, pari opportunità è obbligatorio per tutte le amministrazioni pubbliche e per tutto il personale. Le sole eccezioni riguardano il personale con le qualifiche più basse e le assunzioni obbligatorie degli invalidi. Il corso-concorso per l’accesso alla dirigenza Il concordo pubblico costituisce la regola generale anche per l’accesso alla qualifica di dirigente di prima e di seconda fascia. Per la selezione dei dirigenti di seconda fascia in alternativa al concorso è previsto il corso-concorso selettivo di formazione bandito dalla Scuola superiore della pubblica amministrazione. Gli incarichi di dirigente di prima fascia che richiedano una specifica esperienza e una peculiare professionalità possono essere attribuiti per una quota non superiore alla metà dei posti messi a 47 Sempre al fine di valorizzare il criterio del merito, il d.lgs. n. 150\2009 ha introdotto un sistema di misurazione, valutazione e trasparenza delle performance che fa capo a un organismo indipendente di valutazione istituito presso ciascuna pubblica amministrazione e nominato dall’organo di indirizzo politico-amministrativo. Nel tentativo di superare la prassi della distribuzione “a pioggia” delle risorse economiche, il d.lgs. n. 150\2009 pone il divieto di distribuire incentivi e premi in maniera indifferenziata o sulla base di automatismi. Prevede inoltre un sistema premiale composto da vari strumenti: bonus annuali delle eccellenze, il premio annuale per l’innovazione, progressioni economiche e di carriera in base ai risultati individuali e collettivi rilevati dal sistema di valutazione, attribuzione di incarichi e di responsabilità che favoriscono la crescita professionale, l’accesso privilegiato a precordi di alta formazione, premi di efficienza. La mobilità Un istituto sottoposto a regole particolari è la mobilità individuale e collettiva, che il d.lgs. n. 150\2009 ha promosso superando le rigidità che tradizionalmente hanno reso poco equilibrata la distribuzione del personale all’interno delle amministrazioni. In primo luogo, per rendere più fluida la mobilità tra i diversi comprati della contrattazione collettiva, è prevista l’elaborazione di una tabella di equiparazione tra i libelli di inquadramento previsti dai diversi contratti collettivi. In secondo luogo, le amministrazioni prima di procedere all’espletamento di procedute concorsuali finalizzate alla copertura di prosai vacanti in organico devono attivare la procedura di mobilità. Essa prevede che le amministrazioni rendano pubbliche le disponibilità di posti in organico da ricoprire fissando i criteri di scelta. I dipendenti interessati possono presentare domanda di trasferimento di appartenenza che in passato evviva concesso di rado. La mobilità collettiva in caso di eccedenze di personale avvide attraverso un procedimento che prevede un’informazione preventiva alle rappresentanze unitarie del personale e alle organizzazioni sindacali e favorisce il reimpiego presso altre amministrazioni, il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro e ai contratti di solidarietà. Il personale in eccedenza per il quale non sia possibile un diverso impiego viene collocato in disponibilità, cioè in uno stato in cui resta sospeso il rapporto di lavoro con riconoscimento al lavoratore di un’indennità pari all’80% della retribuzione per la durata massima di due anni. Le sanzioni disciplinari Un aspetto del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici nel quale emergono forti profili di specialità è quello delle sanzioni disciplinari.L’individuazione della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è ancora rimessa in via di principio alla contrattazione collettiva. Tuttavia la legge individua direttamente molte fattispecie che fanno sorgere la responsabilità disciplinare. Altre sanzioni disciplinari specifiche sono state introdotte nella legge anticorruzione (l. n. 190\2012). Essa prevede, in particolare, che la violazione dei doveri contenuti nel Codice di comportamento etico dei dipendenti pubblici, incluso il dovere di attuare il piano di prevenzione della corruzione approvato dall’amministrazione di appartenenza, è fonte di responsabilità disciplinare. La medesima legge pone anche un divino espresso di irrogazione di sanzioni disciplinari a carico del dipendente che segnali al proprio superiore condotte illecite di altri dipendenti delle quali sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro. Un’altra fattispecie è prevista dall’art. 55-sexies, secondo il quale è irrogata la sanzione disciplinare della sospensione del servizio da tre giorni a tre si nei confronti del dipendente il cui comportamento in violazione di obblighi di servizio abbia cagionato danni a terzi e sia stato fonte di 50 responsabilità civile a carico dell’amministrazione di appartenenza. Il lavoratore che per inefficienza o incompetenza professionale abbia causato un danno al normale funzionamento dell’ufficio è sanzionato disciplinarmente con il collocamento in disponibilità. Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni Anche il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni è regolato per legge. Per le sanzioni di minore gravità che il rimprovero verbale, il procedimento è avviato dal dirigente attraverso la contestazione degli addebiti formulata entro non oltre 20 giorni. Il procedimento prevede una fase di contraddittorio orale o scritto e si conclude con l’archiviazione o l’irrogazione della sanzione entro 60 giorni dalla contestazione. Per le sanzioni più gravi, il procedimento è promosso da un ufficio competente per i procedimenti disciplinari istituito da ciascuna amministrazione e il procedimento prevede termini più lunghi. I caso di avvio di un procedimento penale in relazione alla stessa condotta è prevista per le sanzioni più gravi bei casi di particolare complessità degli accertamenti, la sospensione facoltativa del procedimento disciplinare fino al termine di quello penale. La responsabilità amministrativa e la responsabilità penale In aggiunta alla responsabilità disciplinare e a quella civile, i dipendenti pubblici sono sottoposti anche all responsabilità per danno erariale accertata dalla Corte dei conti. Leggi recenti hanno individuato numerose condotte specifiche dei dipendenti pubblici suscettibili di dar origine a questo tipo di responsabilità. Anche la responsabilità penale dei dipendenti pubblici presenta profili di specialità rispetto a quella dei dipendenti privati. Il codice penale, infatti, individua una serie di reati cosiddetti propri, riferiti cioè a coloro che abbiano la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato al pubblico servizio. La tutela giurisdizionale Le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici che ricadono nel regime di privatizzazione sono devolute al giudice ordinario. Restano tuttavia devolute al giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti pubblici perché esse involgono esclusivamente situazioni giuridiche qualificabili come interessi legittimi. Emerge qui un profilo di specialità del regime poiché, in caso di licenziamento illegittimo, il giudice può reintegrare il dipendente nel posto di lavoro: è la cosiddetta tutela reale. Quest’ultima è ora limitata a pochi casi nel settore del lavoro privato nel quale in seguito alla cosiddetta riforma Fornero e al cosiddetto Jobs Act prevale ormai il modello della tutela meramente risarcitoria. IV – La dirigenza pubblica Secondo il modello casoriano di organizzazione piramidale dei ministeri, tutti i poteri decisionali erano attribuiti all’organo di vertice, cioè al ministro in carica, politicamente responsabile di fronte al parlamento. Il personale, a prescindere dal grado, afferiva a uffici aventi rilevanza meramente interna, anche se il ministro poteva delegare alcune proprie funzioni a taluni collaboratori più direi. In ogni caso vigeva un rapporto di rigida gerarchia. Con l’estendersi e il differenziarsi delle pubbliche amministrazioni e dei loro compiti il modello gerarchico mostrò i suoi limiti, attesa la difficoltà pratica di accentrare in un unico organo ogni potere decisionale formale. All’inizia degli anni Settanta l’istituzione di una nuova categoria di personale costituita dalla dirigenza articolata in tre qualifiche (d.lgs. 30 giugno 1972, n. 748). 51 Alcune funzioni, inclusa l’adozione di taluni procedimenti amministrativi, vennero devolute ad essi come competenza propria. Si trattava di un modello ancora ibrido che attenuava, ma non superava del tutto, il modello gerarchico. Nei fatti, per una pluralità di ragioni, inclusa la scarsa propensione della dirigenza ad assumersi maggiori responsabilità, esso stentò a prendere piede. La riforma volta a privatizzare il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici avviata all’inizio degli anni Novanta dei secolo scorso aveva tra i suoi capisaldi la valorizzazione della dirigenza. Ciò nella duplice prospettiva, da un lato, di accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione, inseguendo figure assimilabili ai manager privati, dall’altro, di garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa, limitando le ingerenze dei politici sulle decisioni dei dirigenti. Il dirigente pubblico come manager Nella prima prospettiva, la dirigenza deve essere infatti dotata di poteri autonomi e di risorse adeguate, gestite senza vincoli e rigidità eccessive per poter raggiungere gli obiettivi prefissati. A questo fine, il d.lgs. n. 165\2001 procede alla privatizzazione parziale dell’organizzazione amministrativa. Il dirigente pubblico assume dunque una fisionomia tendenzialmente analoga a quella del manager privato anche se gli spazi di manovra effettivi sono molto più ridotti date le regole minute previste per l’attività delle amministrazioni. Le distinzione tra politica e amministrazione Nella seconda prospettiva, il nuovo modello si fonda sul principio della separazione tra politica e amministrazione. Esso cerca di conciliare due principi in tensione tra loro: il principio democratico, in base al quale nessun potere pubblico può essere sottratto al circuito politico rappresentativo. Il principio democratico esclude che la burocrazia possa essere autoreferenziale, che si possa cioè autolegittimare, in nome del principio tecnocratico, e le attribuisce un ruolo di esecuzione fedele degli indirizzi politici del governo di volta in volta in carica e di garanzia di continuità, a prescindere dai periodici avvicendamenti dovuti agli esiti della competizione elettorale. Il rapporto tra vertice politico e dirigenza assume un carattere fiduciario. Il principio di imparzialità spinge invece nella direzione di istituire presiti e limiti all’ingerenza della politica nell’amministrazione, isolando e rendendo per quanto possibile oggettivo e naturale il momento della decisione amministrativa riservata a una burocrazia professionale. Nel d.lgs. n. 165\2001 il punto di equilibrio tra i due principi involge due questioni principali: la ripartizione delle competenze; il conferimento degli incarichi dirigenziali. Quanto alla prima questione, il d.lgs. n. 165\2001 attribuisce ai vertici politici delle amministrazioni soltanto funzioni di indirizzo politico-amministrativo e di controllo ex post e riserva ai dirigenti la responsabilità della gestione, inclusa l’emanazione di provvedimenti amministrativi di tipo discrezionale. Le funzioni dei vertici politici Più in particolare, spettano agli organi di governo le deliberazioni di materia di atti normativi e di indirizzo interpretativo e applicativo (circolari), la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali, l’individuazione delle risorse umane, materiali ed economico- finanziarie da destinare ai diversi uffici, la fissazione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e alla determinazione di tariffe e canoni a carico di terzi, le nomine e designazioni, le richieste di pareri al Consiglio di Stato. Ogni anno i vertici politici definiscono gli obiettivi e le priorità in direttive generali assegnato ai dirigenti preposti ai centri di responsabilità le risorse necessarie. La funzione di indirizzo è esitata dai vertici politici con l’ausilio di uffici particolari, cioè gli uffici cosiddetti di diretta collaborazione, 52