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riassunto del libro riassunto del libro riassunto del libro, Appunti di Psicologia Clinica

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Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 17/10/2023

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sabrina-d-elia-2 🇮🇹

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Scarica riassunto del libro riassunto del libro riassunto del libro e più Appunti in PDF di Psicologia Clinica solo su Docsity! Prefazione Nel libro verrà affrontato il “paradigma della complessità” che è centrale per la psicologia e per l’intervento psicologico. Si passa da una visione unitaria, integrata e indipendente dall’osservatore a una rappresentazione del mondo che privilegia il mutamento, la riorganizzazione, la probabilità e la perturbazione. La realtà non è data una volta per tutte ma è in continua evoluzione in cui gli eventi sono interconnessi secondo la logica di causa-effetto. L’osservazione e l’intervento non sono qualcosa di tipo individuale ma fa parte del modo in cui la collettività guarda, interpreta e interviene sulla realtà. Si procede secondo la logica dell’avvicinamento degli elementi, della loro connessione ed individuazione dei possibili messi nel contesto che condividono. Gli psicologi fanno spesso a meno di una visione complessa e articolata per utilizzare un approccio semplificato e riduzionistico. Oggi esistono diverse distinzioni tra l’operato del coach o del counseling rispetto all’intervento psicologico perché nel counseling non è contemplato l’uso di tecniche e metodologie in quanto si ha a che fare con soggetti “sani” con cui si usano colloqui di aiuto e sostegno volti ad affrontare problematiche relazionali e decisionali di tali individui. Il coach è un’azione di cura volta a risolvere problemi psicologici e utile per sviluppare talenti e potenzialità. In questa prospettiva, nel mondo sono distinguibili i concetti di causa ed effetto e si assume che nella realtà ci siano i concetti di ordine, stabilità e regolarità dei fenomeni e la realtà è descritta come qualcosa di organico e regolare; mentre in ambito psicologico, l’intervento di fonda su osservazioni dirette della realtà libere da ogni pregiudizio in modo da formulare dei principi generali partendo dalla spiegazione di fatti osservati. Le tecniche senza teoria sono tipiche del coaching in cui troviamo il life coaching, il business coaching, lo sport coaching. La teoria dell’intervento psicologico è una teoria che ha il suo fondamento in una visione specifica della mente e delle relazioni interumane che è il risultato di teorie psicoanalitiche, dell’embodied cognition e della psicologia socioculturale. CAPITOLO 1- LA TEORIA GENERALE DELL’INTERVENTO PSICOLOGICO La teoria generale dell’intervento psicologico è la concettualizzazione della funzione dello psicologo professionale in base alle condizioni in cui opera come azione competente orientata al generare valore per l’utilizzatore. L’intervento psicologico è un’attività umana caratterizzata dal fatto che qualcuno esercita il proprio sapere fondato scientificamente per mettere in atto un’azione volta ad ottenere un risultato che generi valore per qualcun altro ovvero il cliente. Esistono diverse questioni riguardanti la teoria generale che sono domini di competenza dell’intervento e rispondono alla domanda: che cosa definisce come psicologico l’intervento? L’intervento psicologico è fondato sulla conoscenza scientifica e psicologica e la risposta a degli interrogativi richiede una concettualizzazione dell’oggetto della scienza psicologica. Per questo si parla di teoria dell’oggetto ovvero la modellizzazione della classe di fenomeni cui il sapere scientifico psicologico si riferisce. La seconda questione riguarda il processo attraverso il quale l’intervento produce il risultato voluto. La teoria del cambiamento si propone di comprendere questo processo in chiave psicologica. La terza questione riguarda l’azione dello psicologo ovvero come attiva e regola il processo di cambiamento che corrisponde alla teoria dell’azione. La quarta ed ultima questione riguarda il fatto che l’intervento implica un utilizzatore ovvero il cliente. Si parla infatti di teoria del cliente che concettualizza il processo socioculturale e psicosociale sotteso alla costruzione sociale e soggettiva del cliente. Queste quattro teorie sono le componenti della teoria generale dell’intervento psicologico. 1. Centomila, nessuno o uno? L’agire professionale individua gli eventi e le situazioni in cui operare in base alla comprensione che la conoscenza scientifica ci offre; ad esempio, lo psicologo si occupa di disturbi di personalità, di problemi dell’apprendimento, di selezione del personale ecc. la psicologia offre le basi per comprendere scientificamente ed intervenire su tali fenomeni. È importante capire come definire la sfera di competenza della psicologia ovvero capire come certi fenomeni sono considerati oggetto della scienza psicologica, cioè dell’agire professionale che a tale sistema di conoscenze si richiama. 1.1 Centomila La psicologia contemporanea si interessa di molti fenomeni che spaziano su ogni sfera dell’attività umana, i costrutti sono quindi eterogenei, ad esempio personalità, trattamento, stili cognitivi, motivazioni, atteggiamenti, leadership ecc. Ciò che è in comune a questa eterogeneità sono i costrutti psicologici che si riferiscono a forme particolari di attività mentale, al suo funzionamento, ai suoi prodotti e correlati neurobiologici. La psicologia contemporanea è un insieme di saperi disciplinari ed è per questo che si parla al plurale di scienze psicologiche invece che di scienza psicologica. La psicologia contemporanea è oggi popolata da modelli di raggio limitato cioè costrutti elaborati per concettualizzare domini circoscritti. Gli stili di attaccamento, i valori di base, il supporto per la democrazia sono alcuni esempi di medio raggio dove l’uso rimane circoscritto all’interno di un ambito fenomenico. Altri costrutti come l’alleanza terapeutica, il burnout hanno come riferimento degli ambiti ancora più specifici ovvero la psicoterapia, forme di attività lavorative ecc. L’esistenza di queste teorie a raggio medio e corto non è un fatto negativo; ma indica l’articolazione e lo sviluppo di questa disciplina scientifica, della sua capacità di ampliare e approfondire degli ambiti di interesse. I costrutti psicologici di medio e corto raggio hanno una debole connessione con i concetti fondamentali della disciplina e quindi questi costrutti si autonomizzano come se fossero dei concetti primitivi dotati di significato in sé, piuttosto che in rapporto a un contesto generale. Gli ambiti di analisi si sono moltiplicati e a volte anche allontanati finendo per diventare degli spazi separati privi di legami. La maggior parte dei ricercatori si specializza in un settore acquisendo conoscenze e competenze nei linguaggi, nei metodi, negli strumenti, nelle teorie che sono specifiche di quell’ambito. Le conoscenze sviluppate in altri ambiti sono differenti e irrilevanti. Questa separazione è alimentata da una separazione netta tra le comunità scientifiche che sono dotate di proprie strutture organizzative, luoghi e strumenti di comunicazione. In Italia, esiste la separatezza degli ambiti del sapere ovvero ogni psicologo accademico e la loro variazione nel tempo. Le relazioni dinamiche che caratterizzano il processo si prestano ad essere mappate in maniera empirica, ma il numero di relazioni possibili degli aspetti rilevanti sono infinite e quindi solo se si ha un modello teorico del processo psicologico è possibile selezionare le relazioni pertinenti. Per studiare scientificamente un processo quindi, non ci si può affidare unicamente all’evidenza empirica ma serve un modello teorico che permetta di costruire dati empirici individuando le relazioni pertinenti da rilevare empiricamente. Il processo spiega in chiave psicologica il fenomeno. Il fenomeno si definisce nei termini del senso comune, il modello del processo è un’interpretazione scientificamente fondata del fenomeno. Si parla anche di campo ovvero i processi psicologici vanno concettualizzati come versioni locali di una dinamica fondamentale, la cui modellizzazione costituisce lo scopo della scienza psicologica ovvero il suo oggetto teorico. All’interno di una classe di elementi, la dinamica è lo spazio potenziale delle possibili traiettorie evolutive delle relazioni tra gli elementi presenti in questa classe. La dinamica non è uno stato di cose ma una potenzialità e quindi non è qualcosa che accade. Ogni campo impone dei vincoli alla dinamica fondamentale ed una riduzione delle sue potenzialità, in cui emerge il processo locale. La dinamica è un’entità astratta, teorica, priva di un contenuto empirico e, grazie ad essa, i singoli processi psicologici possono essere generalizzati in termini unitari. L’astrazione generalizzante rappresenta un approccio diverso da quegli sforzi di costruire una teoria generale che cercano di attribuire fenomeni psicologici a dei meccanismi causali delle scienze più elementari. L’astrazione generalizzante implica un approccio antiriduzionista perché la dinamica fondamentale non è considerata come un livello esplicativo logico inferiore ma come un quadro teorico sovraordinato che offre la possibilità di interpretare i fenomeni in chiave psicologica. 2.2 Perché complicare le cose? Il modello di campo dell’oggetto psicologico è uno strumento utile per allontanare la pressione del senso comune che influenza la ricerca e la professione psicologica. Concepire in maniera astratta l’oggetto psicologico permette di evidenziare la separazione e l’autonomia del linguaggio psicologico rispetto al senso comune. La definizione di un oggetto unico favorisce l’interpretazione dei fenomeni emergenti e la possibilità di estendere gli ambiti di intervento in base alle crisi che le persone, i gruppi e le istituzioni si trovano a dover affrontare. Un fenomeno emergente si presenta con dei tratti di novità e potrebbe essere studiato in molteplici modi. Utilizzare esclusivamente alcuni approcci piuttosto che altri potrebbero portare ad una scarsa soluzione del problema. Il fondamento unitario dell’intervento favorisce il consolidamento dell’immagine sociale della psicologia; un’immagine unitaria significa minor rischio che, all’interno di contesti multidisciplinari, gli psicologi vengano rappresentati in maniera aspecifica. Dare un’immagine unitaria alla professione psicologica permette di valorizzare la professione, le proposte interpretative e di intervento anche in settori emergenti. 3. Conoscenza scientifica e agire professionale in psicologia Inizialmente, la relazione tra scienza e professione psicologica è stata delineata in chiave applicativa perché la conoscenza scientifica si produce nei luoghi della ricerca in modo da essere implementata nei contesti dell’agire professionale; ad esempio, la psicoterapia. La valutazione delle diverse forme di intervento richiede il ricorso al metodo sperimentale. In uno degli ambiti più rappresentativi della ricerca clinica, è prevalente l’idea che la conoscenza scientifica prima si produce in condizioni controllate di laboratorio e successivamente si applichi ai contesti reali di intervento. La logica applicativa è prevalente in ambito psicologico ma, negli ultimi anni si è diffusa una visione circolare della relazione tra conoscenza e prassi. La conoscenza è al servizio dell’intervento e si sviluppa come risposta alle sfide epistemiche e alle problematiche proposte dagli utilizzatori della funzione psicologica. L’agire professionale non è il luogo di esercizio del sapere psicologico ma è anche un fattore di produzione di tale sapere. In questi contesti e in ragione dell’agire professionale molti fenomeni di interesse psicologico emergono e si definiscono e possono divenire oggetto di ricerca scientifica. L’agire personale sfida la ricerca scientifica in molti modi. La professione intercetta temi e problematiche emergenti all’interno di contesti sociali e istituzionali che devono essere interpretati e affrontati; il sistema professionale veicola la domanda sociale di conoscenza che influenza la ricerca scientifica. I contesti professionali d’uso della conoscenza scientifica sfidano quest’ultima attraverso il criterio dell’appropriatezza che si esprime in due modi distinti. Da una parte in chiave euristica, l’appropriatezza della conoscenza consiste nel fatto di trovare valore come risorsa che potenzia l’agire professionale degli utilizzatori finali. La capacità delle teorie di mappare i fenomeni è una condizione di validità necessaria ma non sufficiente e quindi dal punto di vista dell’agire professionale, la conoscenza scientifica deve organizzare la rappresentazione del fenomeno affinché tale rappresentazione favorisca l’intervento dello stesso, evidenziandone i fattori su cui intervenire, evidenziando i processi che si prestano a regolarlo e le condizioni che ne favoriscono l’evoluzione. Questo modello è appropriato in rapporto a un intervento rivolto ad attori che agiscono su fattori macrosociali e strutturali ma non è appropriato se fosse sviluppato in un contesto rivolto, ad esempio, all’istituzione scolastica perché non offrirebbe alcun indicazione su ciò che gli attori di questa istituzione possono fare con le risorse a loro disposizione per contrastare un fenomeno. L’appropriatezza riguarda la natura riflessiva dell’agire sociale e va osservato che l’intervento psicologico si rivolge a dei soggetti che sono gli utilizzatori che non sono oggetti vuoti che lo psicologo può riempire mediante la conoscenza scientifica ma hanno dei desideri, delle aspettative, delle credenze e delle teorie cioè sono portatori di soggettività. Le persone, infatti, non smettono di pensare e agire nei modi in cui hanno sempre fatto semplicemente perché l’evidenza scientifica ha sancito un diverso modo di agire. Dal punto di vista dell’agire professionale, la conoscenza scientifica è appropriata quando sollecita l’agire riflessivo degli utilizzatori cioè la capacità di rivedere e sviluppare all’interno dell’azione il modo di operare. Un’altra sfida che la professione pone alla ricerca scientifica è la sollecitazione a potenziare la capacità esplicativa e lo spessore computazionale dei modelli interpretativi perché le teorie psicologiche offrono una spiegazione dei fenomeni in termini di covariazione tra variabili. La spiegazione funzionale risponde al perché un certo fenomeno si verifica individuando gli antecedenti che ne determinano la presenza. La spiegazione funzionale può essere approfondita, identificando i fattori che mediano la relazione tra la causa e l’effetto ed essa resta un modello focalizzato sulle interazioni tra variabili discrete. La spiegazione funzionale esprime un potenziale di intervento ampio ma limitato perché non possono che fondare interventi centrati sulla manipolazione delle cause del fenomeno di interesse. Questa spiegazione funzionale non è sempre sufficiente ma deve essere ulteriormente sviluppata perché gli interventi focalizzati sulle cause non sono praticabili e non sono in grado di produrre solo impatti limitati. Gli antecedenti sono difficili da isolare e modificare oppure sono in numero molto elevato ed intrecciati tra loro. Un esempio è la psicoterapia di cui conosciamo molti fattori causali che non sono facilmente isolabili, sono difficilmente modificabili e operano in maniera intrecciata piuttosto che in maniera lineare. È fondamentale unire la spiegazione funzionale con un modello che viene indicato con il termine computazionale. A questo livello il perché non riguarda la ricerca dell’antecedente, ma la ricostruzione del meccanismo affinché una certa causa determini un certo effetto. La spiegazione funzionale collega input e output, la spiegazione computazionale apre il fenomeno entro cui si realizza il processo che connette input e output. Nel contesto dell’agire professionale, il limite della spiegazione funzionale diventa evidente perché l’agire professionale non si limita a rivolgere alla ricerca una domanda di conoscenza ma cerca di qualificare uno standard per la spiegazione computazionale che allarga gli orizzonti dell’impresa scientifica, cioè in quell’area della psicologia che è la teoria del cambiamento. 3.1 L’intervento come sapere pratico Il nesso tra conoscenza scientifica e prassi professionale è basato sul riconoscimento della natura sistemica dell’agire professionale. Nell’intervento psicologico, chi opera elabora in modo implicito un modo di interpretare, impiegare, modulare e ridefinire i saperi, in relazione ai contesti di intervento. Può bastare anche solo un’osservazione superficiale del comportamento e dei discorsi dei professionisti impegnati nella loro attività per capire quanto sia ampia la regolazione informale e implicata della prassi. Questa forma di sapere pratico governa la variabilità e dinamicità del contesto in cui avviene l’azione di tali professionisti. Si può considerare uno strumento psicometrico in quanto la conoscenza tecnica dello strumento è una condizione necessaria per poterlo utilizzare ma non è sufficiente. Il professionista dovrà prendere delle decisioni in base al contesto che nella maggior parte dei casi non sono situate nella forma semplificata a cui si riferisce il sapere tecnico intorno allo strumento. La conoscenza tecnica dello strumento non basta ma deve essere integrata da un sapere pratico concettuale che il professionista costruisce durante l’azione in modo da adattare il proprio agire alle variabili prodotte delle condizioni istituzionali, organizzative e materiali in cui si realizza. Il sapere pratico e contestuale all’interno dell’intervento non riguarda solo le condizioni d’uso degli strumenti ma anche la modalità di esercitare il sapere scientifico e le tecniche cioè la loro finalizzazione. La conoscenza scientifica del fenomeno non contiene le indicazioni su come poterla utilizzare e l’impiego di tale conoscenza si organizza in base al contesto in cui si presta ad essere utilizzata, in base alle strategie, alle preferenze e agli attori coinvolti, dal tipo di problematica e L’idea che un significato possa causare un comportamento va incontro a due rilevanti problemi concettuali. Da un lato, esso solleva il paradosso dell’homunculus: se la regola semantica ha potere esplicativo, ciò è possibile in quanto essa viene interpretata nel proprio contenuto; ma ciò implica un’ulteriore regola semantica che guidi l’interpretazione della prima, a sua volta richiedente un’ulteriore regola esplicativa. Dall’altro lato, l’idea che il contenuto semantico sia dotato di potere causale sposta ma non risolve il problema dell’individuazione dei meccanismi psicologici che permetterebbero alla regola semantica di produrre effetto sulla realtà. 1.3 Un’alternativa. La teoria triadica di Peirce Secondo la prospettiva pragmatista, il significato è l’effetto del segno, il modo in cui il segno contribuisce alla regolazione dell’azione. Peirce offre un modello della dinamica semiotica sottesa a tele effetto. Il segno, detto anche rappresentamen, è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa. Esso crea nella mente di quella persona un segno equivalente; il segno sta per qualcosa, il proprio oggetto. Esso sta per quell’oggetto non in tutti i suoi aspetti, ma in riferimento a una sorta di idea, definita fondamento o ground del rappresentamen. Secondo il filosofo americano, il significato di un segno (rappresentamen o segno A) non è dentro il segno, ma il segno A acquista il proprio significato per mezzo e nei termini del segno successivo (segno B), che il segno A attiva nella mente della persona, come modo per interpretarlo. L’interpretazione che il segno B offre del segno A consiste nella definizione dell’aspetto o capacità dell’oggetto che il segno A rappresenta, ciò che Peirce definisce ground. Il segno A potrebbe stare per infiniti aspetti/capacità dell’oggetto; è solo grazie al segno successivo - segno B - che il segno A diventa significativo, in quanto rappresentativo di un determinato aspetto dell’oggetto. La teoria perciana del segno è triadica, perché il segno assume significato in ragione del segno che segue – significante e significato non sono una coppia, ma entrano in relazione tra loro grazie ad un altro segno (B). Si può osservare che il segno che segue implica l’interprete che lo produce. A differenza di quanto propone la teoria diadica saussuriana, il significato non sta nel segno, ma è il prodotto dell’attività del soggetto che interpreta il segno: l’interprete è costitutivo del significato. La natura triadica del segno ha diverse implicazioni nella psicologia. La teoria triadica implica un’inversione del rapporto tra significato e significazione. Mentre nella concezione diadica la significazione è mobilitazione di significati preesistenti, nella teoria triadica il significato emerge dall’attività interpretativa. Peirce concettualizza il processo di emergenza e il suo riprodursi nel tempo nei termini del mantenimento di una relazione di corrispondenza. Il segno non rappresenta l’oggetto in tutte le sue qualità, ma definisce una relazione specifica con l’oggetto (detta ground) ed è questa relazione a essere indicata e riprodotta dal segno successivo. Il segno non entra mai in rapporto diretto con la realtà che rappresenta: i segni si relazionano solo tra loro, non con il mondo cui si riferiscono. Sono in grado di rappresentare il mondo in quanto definiscono tra loro relazioni che sono assunte dall’interprete come equivalenti alla relazione con il mondo. La creazione di significato non riflette e non è motivata dalle caratteristiche della realtà; è il significato a far emergere l’oggetto nella mente dell’interprete come qualcosa di fondante ed equivalente alla catena di segni che lo corrispondono. L’esperienza della realtà emerge dalla combinazione sequenziale dei segni. La teoria triadica veicola una concezione funzionale del segno – un segno è qualsiasi elemento della realtà che assume la funzione di stare per qualcosa d’altro. un segno non è tale in virtù delle sue caratteristiche intrinseche: tutto può rappresentare qualcos’altro e può innescare un ulteriore segno (idee, sentimenti, stati corporei, atti e affetti possono operare come segni, nella misura in cui entrano nel circuito interpretativo). Una conclusione coerente con i recenti sviluppi della concezione incarnata della mente. La teoria peirciana attribuisce all’interprete un ruolo costitutivo. Il segno è per definizione indirizzato a qualcuno. Il segno B è il modo con cui l’interprete definisce in che termini (nei termini di quale ground) il segno A è significativo per lei o per lui. La teoria triadica va oltre la separazione tra langue e parole – il significato emerge da come i segni vengono usati. 2. Caratteristiche fondamentali della significazione La teoria triadica del segno evidenzia alcune caratteristiche basilari della dinamica semiotica, rilevanti per l’intervento psicologico. ➔ La significazione è contingente. Il significato non è un’entità preesistente, veicolata dal significante, ma un evento: la produzione del segno B da parte dell’interprete, che si realizza in un dato momento, innescato dalla catena dei segni precedenti. Da questo punto di vista, il significato è un’astrazione: ciò che esiste è la significazione – il continuo flusso di segni; il significato è quanto accade di tale flusso in uno dei suoi infiniti istanti (il significato è la velocità istantanea della significazione). ➔ La significazione è indessicale. Secondo Peirce, il segno interpreta la precedente catena di segni. Ciò implica che il significato è costantemente riscritto dal segno che segue – esso emerge da come i segni si combinano tra loro nella contingenza del momento presente. Il significato di un segno è definito dalla relazione che il segno intrattiene con i segni precedenti e successivi. Il contesto (cioè la rete di relazione tra segni) è costitutivo del significato di ciascuno di essi. ➔ La significazione è intersoggettiva. Il significato emerge da come l’interprete interpreta il segno precedente. Ciò significa che l’altro è costitutivo del significato, è parte del meccanismo della sua produzione. L’altro può essere anche la stessa persona che ha prodotto il segno precedente. ➔ La significazione è situata. Secondo Peirce, qualsiasi risposta dell’interprete può fungere da segno, nella misura in cui viene a sua volta interpretata dal segno successivo. Ogni stato del soggetto può assumere la funzione di segno e ciò non come esito della volontà del soggetto, ma come conseguenza del fatto di essere interpretato dal segno successivo e in tal modo inscritto nella catena semiotica. La situatività del significato consiste nel fatto che il soggetto è immerso nel flusso semiotico, non sceglie di partecipare ad esso. I suoi pensieri e i suoi atti, anche quelli che concernono le intenzioni di regolare la partecipazione alla comunicazione, sono una funzione di partecipazione al campo intersoggettivo. Da questo punto di vista vale la pena operare una distinzione tra interpersonale e intersoggettivo: uno viene usato per denotare il livello fenomenico dello scambio comunicativo tra persone e l’altro si riferisce al costrutto teorico che modellizza la dinamica di significazione sottesa a qualsiasi attività mentale. Un individuo può, come non può, trovarsi in una situazione interpersonale e può scegliere se entrarvi, rimanervi o uscirne; ma è sempre immerso nell’intersoggettività in quanto questa è costitutiva della sua attività mentale, anche di quella volta a elaborare la decisione di partecipare o meno ai contesti interpersonali. ➔ La semiosi è incarnata (embodied). Questa caratteristica è complementare alla natura situata del significato e ne estende le implicazioni. Negli ultimi anni si è affermata la visione incarnata della mente proposta dalla embodied cognition, secondo la quale, la mente non lavora su concetti codificati in unità simboliche, separate dall’input percettivo e sensoriale. Al contrario, concetti e rappresentazioni sono schemi di attivazione corporea fatti della stessa sostanza sensomotoria della percezione e del movimento. Il soggetto non ha, è conoscenza: sapere qualcosa non consiste nel possedere una rappresentazione simbolica, astratta dell’oggetto; è un habitus dinamico, una propensione a entrare in relazione con quell’oggetto, che recluta l’insieme del corpo. L’embodied cognition non nega che i simboli possano giocare un ruolo nella cognizione; afferma che la dimensione simbolica dei processi mentali è radicata entro e sostanziata dal corpo, dalla dinamica sensomotoria che costituisce il modo con cui il soggetto entra in relazione con il mondo. Questa visione permette di andare oltre l’idea dei significati e delle dinamiche culturali, come di entità simboliche astratte. Significati e dinamiche culturali sono propensioni procedurali ad agire la relazione con l’ambiente fisico e sociale in un certo modo. Tali rappresentazioni acquistano senso in ragione del loro radicarsi entro la modalità incarnata di esperire il mondo. ➔ La semiosi è bivalente. L’interpretazione fornita dal segno seguente riguarda il ground e da ciò ne deriva che il segno ha una valenza duplice. Se il segno afferma qualcosa relativo a una qualità dell’oggetto, ciò significa che attribuisce all’oggetto un certo stato di tale qualità. Allo stesso tempo, nel fare ciò il segno ha definito la qualità dell’oggetto che esso rappresenta come l’aspetto significativo da rappresentare; ha reso pertinente un determinato ground rispetto agli infiniti altri ground. Tali due valenze del segno sono: significato in presentia (SIP) e significato in absentia (SIA). La SIA è in assenza nel senso che non è qualcosa che si dice dell’oggetto, ma è il modo di costituirlo, il lavoro semiotico dal quale l’oggetto scaturisce e che ci permette di parlare di esso. 2.1 La rappresentazione della significazione Delineata la concezione della significazione, assume rilievo definire i livelli su cui essa si rende rappresentabile. A tal proposito è necessario distinguere tre foci di analisi: • La dinamica della significazione riguarda il modo con cui i segni si combinano tra loro nel tempo e producono significato. Questo focus si concentra sull’uso dei segni, sui processi individuali e sociali – il pensare, il sentire, il parlare, l’agire – che veicolano l’attività interpretativa umana: le interazioni. Le analisi entometodologiche e l’analisi del discorso sono cambiamento dei valori condivisi, con l’emergere di valori post-materialisti, che hanno operato come fattori di consolidamento delle democrazie liberali. Questo quadro interpretativo è stato sviluppato per interpretare la crisi politica delle istituzioni democratiche e il successo dei partiti populisti-autoritari. Tali fenomeni sono il precipitato di motivazioni culturali innescate dalla crescente disuguaglianza e insicurezza generate dalla globalizzazione. Diversi autori hanno sottolineato come nei paesi democratici consolidati, il conflitto politico ha perso come principale riferimento le tradizionali differenze di classe e le connesse questioni relative alla distribuzione sociale delle risorse sociali, per esercitarsi oggi in ragione delle differenze culturali e valoriali. Vale la pena ricordare l’interesse che le analisi politiche esprimono nei confronti del ruolo svolto dalle emozioni e dalle identità, due ulteriori concetti legati alla dinamica della significazione. La centralità del significato è stata riconosciuta anche in economia, l’ambito delle scienze sociali dove il postulato alternativo alla decisione razionale è maggiormente radicato. Gli studi hanno evidenziato come il sistema di valori e atteggiamenti che caratterizzava una data società è una componente essenziale i diversi paesi sono stati in grado di perseguire sviluppo economico e sociale. occupano dei fenomeni sociali e istituzionali. Alcuni modelli offrono modi di concettualizzare il nesso circolare che lega l’interpretazione condivisa dei contesti sociali e istituzionali, i comportamenti sociali e le condizioni materiali entro cui gli attori mettono in atto interpretazioni e azioni. All’interno di tale contesto, una serie di recenti ricerche portate avanti sulla base del modello psicoanalitico-culturalista ha evidenziato come le visioni del mondo generalizzate con le quali gli attori sociali si indentificano, influenzano una pluralità di processi socio-cognitivi. Hanno mostrato che l’introduzione di variabili culturali in un modello matematico che descrive l’evoluzione della cooperazione entro la popolazione, incrementa la capacità del modello di predire l’andamento di tale aspetto entro i contesti sociali naturali. 4. Significato e soggettività 4.1 La costituzione dei contenuti dell’esperienza Il senso comune ci porta ad assumere che il sentire e il pensare abbiano una funzione attributiva: siano modi attraverso i quali attribuiamo proprietà (emotive, funzionali e semantiche) alla rappresentazione mentale degli oggetti dell’ambiente fisico e sociale. In realtà, per poter attribuire una proprietà a una determinata rappresentazione, tale rappresentazione deve prima costituirsi nella mente del soggetto. È a questo processo che ci riferiamo con l’espressione di costituzione dei contenuti dell’esperienza. Il riconoscimento della natura costitutiva della significazione si fonda su una lunga tradizione filosofica e psicologica (Kant, Husserl, teoria della Gestalt) che ha portato a riconoscere che i contenuti dell’esperienza non sono elementi primitivi ma emergono da processi mentali di base che organizzano l’input sensoriale in forme significative per il soggetto. La realtà non è fatta di oggetti e qualità discrete; essa è un flusso dinamico di energia-materia che opera come un campo globale e continuo di stimolazione per l’individuo immerso al suo interno. L’interpretazione dell’esperienza non è solo il processo di attribuire proprietà a oggetti già esistenti e di mappare le relazioni tra essi. Significare è il processo attraverso il quale i contenuti dell’esperienza sono costituiti, ossia: sono estratti dal flusso di variazioni come forme sufficientemente stabili. Qualità e relazioni possono essere attribuite solo una volta che tali forme siano state estratte e costituite come contenuti dell’esperienza. La soggettività è il modo con cui diamo forma al mondo, prima di essere il modo con cui attribuiamo proprietà a tale forma. Affermare che la significazione sia costitutiva non vuol dire aderire a una visione idealistica, secondo la quale la mente crea la propria esperienza, tale per cui la realtà esiste in quanto pensata. La realtà esiste indipendentemente dal soggetto, come flusso di energia-materia e non si può assumere che tale flusso abbia una propria organizzazione intrinseca, che pone vincoli alla creazione di senso. La realtà offre infinite possibilità di estrazione, ma vincolate, non tutte le estrazioni sono possibili. La significazione costituisce l’esperienza in quanto da forma alla realtà, ma lo fa in uno dei modi che la realtà permette. Il costituirsi di una rappresentazione mentale implica sempre e comunque la selezione di un insieme di aspetti (il ground) e la messa sullo sfondo di una quota di altri aspetti. Interpretare è simile al lavoro dello scultore, che estrae una forma eliminando il resto della materia. La teoria della Gestalt e Kant ci hanno insegnato che la selezione/estrazione segue regole invarianti trascendentali. Su altri piani, la selezione riflette la variabilità umana. Dal punto di vista dell’intervento, il riconoscimento del ruolo costitutivo della significazione potenzia la lettura psicologica dei fenomeni e prospetta una linea di espansione dell’agire professionale. Concepire in chiave costitutiva la dinamica di significazione offre la possibilità di interpretare i fenomeni psicologici alla radice. 4.2 Il valore di vita dei segni La significazione è la fonte della soggettività in quanto da essa dipende il senso vitale di essere in relazione con il mondo. L’esperienza è vissuta come riflesso autoevidente della realtà: i contenuti della nostra mente ci risultano rappresentativi degli oggetti della realtà cui si riferiscono. Le rappresentazioni interne hanno un valore di vita che sostanziano la soggettività: movimentano passioni, alimentano motivazioni, spingono all’azione, danno colore esistenziale all’esperienza. La teoria triadica del segno porta a riconoscere l’intrinseco e irrisolvibile stacco tra semiosi e mondo. La mente si rapporta al mondo solo per mezzo e nei termini del ground, cioè della proprietà per cui il segno sta. Inoltre, il significato non è contenuto nel segno: dipende dalla relazione tra il segno corrente, i segni precedenti e quelli successivi. Il segno non contiene la cosa cui si riferisce: la capacità del segno di stare per la cosa deve essere costantemente attivata, momento per momento della catena semiotica, tramite il continuo processo di interpretazione a ritroso che il segno successivo esercita sul rappresentamen. Questo punto è cruciale per comprendere la soggettività: il soggetto non è mai in grado di cogliere la realtà in sé – il soggetto è chiuso nel flusso semiotico e dal suo interno non può che utilizzare il segno successivo per mantenere vivo il senso di essere in relazione con il mondo. Non sempre nella vita quotidiana sperimentiamo le rappresentazioni mentali come cariche di valore di vita. In molti casi è la stessa rappresentazione ad assumere o non assumere, a seconda delle circostanze, valore di vita. Tutto ciò porta a una conclusione: se il valore di vita delle rappresentazioni è variabile – tra gli individui e all’interno dell’individuo – allora vuol dire che esso è il prodotto di un meccanismo psicologico che merita di essere compreso, in quanto alla base del senso soggettivo di essere in rapporto con la realtà. 4.3 La natura semiotica degli affetti La teoria triadica dei segni implica l’interpretazione degli affetti chiave semiotica. Gli affetti possono essere concepiti come un tipo di segni: segni consistenti in pattern di attivazione corporea. Nella misura in cui il segno è una risposta dell’interprete al segno precedente, l’affetto è un segno, in quanto esso è una risposta neurofisiologica che interpreta nei termini del proprio valore edonico di base lo stato di cose che lo ha innescato. Questa visione è coerente con la tesi dell’embodied cognition secondo la quale qualsiasi forma di significato è incarnata: consiste in schemi senso-motori che reclutano gli stessi sistemi neurali coinvolti nella percezione e nel movimento. Il pattern di attivazione corporea che sostanzia il segno affettivo fornisce un’interpretazione dell’intero dominio dell’esperienza come un’unica totalità. Gli affetti sono segni globali, ipergeneralizzati e omogeneizzanti. Il pattern di attivazione recluta l’intero sistema corpo-mente (in ciò consiste la sua natura globale) e si riferisce all’insieme del campo di esperienza (ipergeneralizzazione), quest’ultimo connotato come un’unica entità, alla quale le singole parti sono assimilate (omogeneizzazione). La natura globale degli affetti dà ragione della loro struttura bipolare. Gli affetti non sono categorie discrete individuali ma dimensioni costituite della giustapposizione di due opposti pattern di attivazione neurofisiologica (ad esempio, piacevolezza e spiacevolezza sono due polarità della stessa dimensione affettiva). A ciascuna dimensione affettiva corrisponde una variazione bimodale di una componente di base della relazione con il mondo. Ogni dimensione affettiva è la mappa corporea di una fetta dell’intera variabilità della relazione con il mondo. Questa visione delle dimensioni affettive come mappe incarnate delle componenti del paesaggio intersoggettivo può essere meglio compresa se si fa riferimento alla fase precoce della relazione tra bambino e caregiver. In quella fase, il corpo dell’infante produce stati globali di attivazione affettiva ciascuno dei quali in risposta all’ambiente relazionale. L’ambiente relazionale di cui l’infante fa esperienza è inscritto in copioni biologici e culturali; conseguentemente, le qualità dinamiche di tale ambiente tendono a covariare in modo ridondante. Ciò fa sì che alcune covariazioni di tali qualità si coagulino in specifici pattern, da costituirsi in componenti stabili dell’ambiente relazionale. Il bambino si formerà e consoliderà progressivamente in memoria una serie di configurazioni di attivazione affettiva, ciascuna costituita da una combinazione di polarità di dimensioni affettive e operante come mappa di uno scenario relazionale (schemi affettivi sé-altro o schema sé-altro). Progressivamente gli schemi affettivi sé-altro si consolidano come pattern di memoria sensoriale del mondo relazionale originario, diventando il fondamento dell’interpretazione dell’esperienza: quando l’individuo adulto si trova esposto a indizi contestuali assimilabili a un numero sufficientemente ampio di caratteristiche di un determinato scenario relazionale originario, lo schema affettivo corrispondente viene attivato. In questo modo la persona risperimenta nel presente lo stato corporeo associato allo scenario relazionale originario. Ecco la natura semiotica degli affetti: ogni affetto è un segno incarnato che sta per uno scenario gli altri; funziona come una premessa di senso che si riproduce attraverso la ricerca degli elementi che la confermano. Ogni universo simbolico definisce il proprio senso in ragione delle relazioni di giustapposizione che intrattiene con gli altri universi simbolici attivi entro il milieu culturale. Salvatore e colleghi hanno individuato 5 universi simbolici attivi entro il milieu culturale di un cluster di società europee: • Mondo ordinato → il mondo è un posto accogliente da abitare • Legami interpersonali → contano le relazioni con le persone vicine • Società che cura → società e istituzioni sostengono le persone offrendo le risorse che servono al loro sviluppo • Nicchia di appartenenza → il mondo è un posto inospitale e minaccioso • Il mondo degli altri → il mondo appartiene a chi ha potere, agli altri Una successiva ricerca ha mostrato la struttura di relazioni semiotiche sottesa ai 5 universi simbolici (il campo semiotico). Questa struttura è stata descritta nei termini di tre dimensioni generalizzate di senso, definite linee di forza semiotica (ad esempio, il mondo degli altri entra in contrapposizione alla società che cura e ai legami interpersonali lungo la linea di forza semiotica connotazione affettiva del mondo: il primo universo con polarità negativa e gli altri due con polarità positiva). Questo significa che le differenze che si registrano a livello del contenuto degli universi simbolici sono riconoscibili come tali in ragione del fatto che sono posizionamenti giustapposti su dimensioni di senso (linee di forza semiotica) condivise da tutti gli afferenti al milieu culturale – da un lato l’impatto che la realtà sociale ha sul soggetto e dall’altro la posizione presa nei confronti della realtà. La SCPT vede il ruolo degli affetti come collante di mente e cultura e non risponde all’interrogativo su come i significati culturali sono interiorizzati e operano normativamente nella mente individuale. Tale teoria offre un modo di concepire la relazione tra mente e cultura che porta a superare tali questioni. Si potrebbe dire che i significati attivi nel milieu culturale non hanno necessità di essere interiorizzati, perché, essendo forme universali, sono allo stesso tempo alla base della significazione individuale. Tali significati organizzano l’attività interpretativa di tutti gli esseri umani e definiscono il campo semiotico all’interno del milieu culturale. 5.3 L’organizzazione gerarchica delle risorse semiotiche Il milieu culturale non è composto solo da universi simbolici, ma ogni cultura offre al gruppo sociale un insieme di risorse semiotiche: credenze, riti, copioni relazionali, simboli, ecc. Tali risorse semiotiche sono il prodotto di come gli attori sociali organizzano la loro reciproca contingenza entro i contesti di azione sociale. Ciò significa che gli elementi di una cultura si producono sulla base e dunque entro i vincoli degli universi simbolici posti a fondamento dell’azione sociale. Da questa prospettiva è possibile prefigurare una mappatura delle risorse semiotiche nei termini di una tipologia a più livelli, differenziati in ragione del loro grado di astrazione, ovvero rendere pertinenti alcuni aspetti di quanto si rappresenta e relegare gli altri sullo sfondo. Si possono distinguere 5 livelli del significato, in ragione del grado di astrazione in gioco. Al livello di massima astrazione ci sono gli schemi affettivi sé-altro. Ogni universo simbolico può essere considerato il prodotto locale di uno schema affettivo. Poi seguono i segni ipergeneralizzati, i quali permettono la regolazione dell’azione sociale e la produzione di significati che danno forma all’interpretazione dell’esperienza entro specifici ambiti di vita. Si definiscono, quindi, segni generalizzati i significati collocati a questo livello inferiore di astrazione. Le credenze di dominio sono una sottoclasse di segni generalizzati: interpretazioni globali di un intero campo della vita sociale, che orientano il modo di dare senso all’esperienza entro quel dominio. A loro volta, i segni generalizzati organizzano l'interpretazione degli oggetti/eventi che popolano i domini di vita in cui sono attivi. In tal modo fondano la produzione di significati riferibili alle caratteristiche di tali oggetti/eventi. È questo il livello dei significati riferiti a collezioni di oggetti discreti. Al livello più basso di astrazione troviamo i significati riferiti a oggetti discreti, a singolarità e riguardano eventi, persone, entità fisiche, sociali, immaginarie. Il ruolo del significato incarnato riferito a una singolarità è evidenziabile da come la nostra modalità di relazionarci cambia, a seconda della persona con cui entriamo in rapporto. La gerarchia dei livelli di astrazione non va intesa come una classificazione rigida, ma come un criterio di ordinamento flessibile. La gerarchia permette di evidenziare è che, quale che sia il modo di considerare il singolo significato, sarà possibile inscriverlo in una gerarchia dei livelli di astrazione. La relazione tra questi livelli è circolare: i livelli si influenzano sia dall’alto verso il basso e viceversa. 6. Significato e contesto sociale In questo paragrafo si completa il ragionamento, evidenziando il processo circolare tra significazione e azione sociale. 6.1 Le premesse di senso. La natura semiotica della regolazione dell’azione sociale Il significato è il fondamento dell’azione sociale. Ogni pratica sociale, per esercitarsi, necessita di un sistema di significati che operi da premessa di senso istituita, data per scontata. La premessa di senso riduce la variabilità dell’agire dei singoli attori e rende possibile la coordinazione dell’azione. La premessa di senso non definisce ciò che è canonico, ma lascia nel campo del possibile anche ciò che costituisce la violazione pensabile del canonico. Vi sono due aspetti del rapporto tra premesse di senso e azione sociale che meritano di essere evidenziati. È rilevante notare che i vincoli alla variabilità dell’agire individuale non sono contenuti rappresentabili (aree di cecità che agiscono in background). Gli attori non hanno premesse di senso, piuttosto sono in esse immersi e le esercitano come abitudini che plasmano i loro sentimenti, pensieri e comportamenti imponendo confini alle loro possibili traiettorie. Nel momento in cui una premessa di senso viene a essere rappresentata ed entra nel discorso, essa acquista lo status di norma dichiarativa. La norma dichiarativa incrementa la variabilità dell’agire, rendendo meno prevedibile l’azione sociale. Il concetto di coordinazione non rimanda a una visione funzionalista dell’ordine sociale: coordinazione non è sinonimo di cooperazione e di accordo. Con coordinamento si intende lo stato dell’azione sociale caratterizzato dal fatto che ciascun attore possiede una rappresentazione delle possibili evoluzioni degli altri attori, grazie alla quale può produrre inferenze sullo stato attuale e futuro dell’azione. 6.2 La performatività del significato. L’effetto Matteo Le premesse di senso sono fuori dal campo rappresentazionale degli attori. Esse si apprendono e riproducono nel modo con cui si formano e riproducono le abitudini: tramite ripetizione – quanto più un pattern senso-motorio occorre, tanto più si consolida e aumenta la probabilità che si ripeta in futuro. Le premesse di senso dell’azione sociale non si riproducono nel tempo tramite la negoziazione, ma sono riprodotte attraverso il farsi dell’azione. In ciò consiste la performatività del significato: l’azione sociale nel suo dispiegarsi riproduce la premessa di senso a essa immanente. La performatività si presa a essere descritta con quanto viene definito effetto Matteo. Nel vangelo di san Matteo si narra che Gesù, dopo la risurrezione, incontra i discepoli e dice loro “dove 2 o 3 si riuniranno nel mio nome, io sarò tra loro”. Troviamo in tale passaggio un’immagine della dinamica intersoggettiva di costituzione performativa dell’oggetto: un’azione sociale (2 o 3 si riuniscono), trova regolazione attraverso uno scambio intersoggettivo di segni (il mio nome) e così rende l’oggetto cui si riferisce un fatto (io sono tra loro). L’azione non si limita a riprodurre le premesse, alimenta il valore semiotico dei segni: la loro capacità di rappresentare in modo stabile gli oggetti della realtà cui si riferiscono. Sul piano teorico, il valore semiotico di un segno consiste nella distribuzione di altri segni con cui entra in relazione. Sul piano dell’esperienza, un segno con alto valore semiotico è un segno il cui significato è sentito come autoevidente dall’interprete, come se fosse il riflesso immediato della realtà. Sul piano funzionale, il valore semiotico di un segno consiste nella sua capacità di ridurre la variabilità interpretativa e di rappresentare gli oggetti dell’azione sociale in modi coerenti con le esigenze della sua regolazione. Il valore semiotico dei segni dipende dalla stabilità delle premesse di senso. Queste determinano il contesto interpretativo dei segni; quanto maggiore è la stabilità del contesto interpretativo, tanto più stabile è il modo con cui i segni sono interpretati. L’azione sociale alimenta il valore semiotico dei segni in quanto con il proprio esercitarsi consolida le premesse di senso a fondamento della stabilità interpretativa dei segni. Quanto più l’azione si mantiene entro i confini delle premesse di senso istituite, tanto più queste si consolidano e stabilizzano il valore semiotico dei segni. 6.3 Significazione e azione Le premesse di senso fondano la regolazione dell’azione sociale che a sua volta, nel suo farsi, riproduce le premesse di senso. Le premesse di senso rimangono sullo sfondo e l’azione sociale assume la forma di un paesaggio prevedibile, in cui gli attori sociali si muove in ragione di una mappa preriflessiva delle sue possibili evoluzioni. Il denaro è un esempio illustrativo del nesso ricorsivo tra premesse di senso. Solitamente alla banconota viene dato un valore economico e non solo pensabili altri usi, come ad esempio tappezzare le pareti di una casa. Tale premessa di senso non è oggetto di rappresentazione, ma è un habitus consistente in un insieme limitato di modalità di utilizzo della banconota. La stabilità del significato banconota rende il pezzo di carta un dispositivo di regolazione dell’azione: ogni direttamente, vanno ricostruiti in chiave abduttiva sulla base di una solida cornice teorica. 2.1 Girarci intorno… Presentiamo tre esempi di ciò che vuol dire girare attorno alla scatola nera. Il primo esempio è fornito dalla psicoterapia in quanto, in un numero crescente di lavori, si cerca di individuare i fattori associati all’esito della psicoterapia. Non si propone di affrontare una spiegazione computazione del processo psicoterapeutico cioè di modellizzare la dinamica del cambiamento ad esso sotteso ma sono finalizzati a rilevare le caratteristiche dello scambio clinico è dei partecipanti ad esso che sono identificabili come fonte di successo del trattamento. Un altro esempio sono le teorie sociocognitive dell’incertezza dove la maggior parte degli studiosi che operano in questo ambito ritengono che, esposizioni all’incertezza inducono l’individuo a adottare credenze e comportamenti che servono a fronteggiare l’impatto di tale esposizione. La spiegazione del perché ciò accada è legato al fatto che queste strategie permettono alla persona di intensificare legami di appartenenza in modo da proiettare il proprio sé oltre la morte. Questo tipo di situazioni si focalizza sul nesso evidente tra antecedente che è l’incertezza e il suo effetto ovvero la risposta dei soggetti. Il meccanismo causale alla base resta rinchiuso nella scatola nera ed è spiegato da un ragionamento a posteriori di tipo funzionalista. Questo tipo di ragionamento si basa su tre presupposti del senso comune: -l’individuo è motivato a evitare la valenza avversativa caratterizzante l’esperienza dell’incertezza; -l’individuo è in grado implicitamente e inconsapevolmente di gestire esperienze di incertezza individuando risposte che permettono di contrastare la valenza avversiva dell’incertezza; -l’individuo sceglie la risposta in ragione della capacità funzionale di contrastare l’effetto d’incertezza. Girare attorno alla scatola piuttosto che aprirla è ancora più evidente dal punto di vista meso e macro-sociale. Affinché si possa produrre un cambiamento è sufficiente individuare un’associazione empirica tra il fenomeno di interesse e un fattore su cui si possa agire e, variando quest’ultimo si otterrà sicuramente un cambiamento del primo. 2.2 … o aprirla Lo studio del processo terapeutico offre anche degli esempi opposti ovvero il tentativo di aprire la scatola nera. La teoria dell’attività referenziale modellizza il processo terapeutico sulla base di una teoria generale del funzionamento cognitivo ovvero la teoria del codice multiplo che concettualizza l’attività mentale come operante secondo tre modalità: Subsimbolica, iconica e simbolica verbale. Queste modalità sono tra loro connesse attraverso un processo referenziale grazie al quale i pattern subsimbolici si traducono in immagini e parole e viceversa. L’esperienza sensoriale è mentalizzata e resa comunicabile ed è per questo che il processo referenziale è alla base della capacità di regolare le emozioni di comunicarle e alla base della comprensione degli stati mentali delle altre persone. La psicopatologia è concettualizzata come la disarticolazione dei processi di traduzione da una modalità all’altra e la psicoterapia è modellizzata come un processo referenziale ciclico in cui le fasi di attivazione subsimbolica sono seguite da fasi di produzione iconica e simbolica che attivano nuovi pattern simbolici. L’attività referenziale del terapeuta supplisce e alimenta l’attività referente del paziente per permettere di integrare il suo funzionamento mentale. Il modello dell’attività referenziale non si focalizza su causa-effetto ma descrive il modo complessivo di funzionare del processo, la dinamica che è alla base del suo dispiegarsi nel tempo. L’attività referenziale non è una caratteristica osservabile ma è un costrutto che si trova nella scatola nera. La Maintenance Meaning Model si distingue dalle teorie dell’incertezza per il suo tentativo di aprire questa scatola. Si focalizza sul processo psicologico sotteso al modo con cui le persone reagiscono alle condizioni di incertezza che induce una destabilizzazione del sistema di significato con il quale l’individuo è identificato. La destabilizzazione innesca l’attivazione fisiologica avversiva di allarme che l’individuo affronta con una strategia palliativa cioè volta ad eliminare il suo effetto avversivo. Avviene l’investimento alternativo su un significato percepito come stabile. Il significato alternativo è indipendente dal significato destabilizzato perché quello che conta è che il nuovo significato ripristini il senso di stabilità del complessivo sistema di significati dell’individuo. Questa teoria non si limita a rilevare le relazioni empiriche tra incertezze e risposta ma avanza una tesi circa il meccanismo interveniente che porta l’individuo a rispondere in un certo modo all’incertezza. Tre aspetti importanti sono: -la concettualizzazione che la teoria fa del meccanismo interveniente è guidata dalla teoria del significato. -la modellizzazione del meccanismo interveniente permette di dare ragione di una caratteristica peculiare della risposta e la sua aspecificità si può riconoscere in un’inversione di direzione e ragionamento. -il riferimento al modello del meccanismo interveniente offre agli autori la possibilità di interpretare in modo unitario una pluralità di dati empirici divergenti integrandoli in una strategia astratta e generalizzata. 2.3 Considerazione a margine Si possono fare due considerazioni; la prima è che la modellizzazione del meccanismo interveniente, ovvero l’apertura della scatola nera, richiede un cambiamento nella logica di spiegazione adottata come base della conoscenza scientifica e psicologica. La spiegazione dei fenomeni psicologici è intesa come individuazione dei nessi tra cause ed effetti e quindi l’esperimento scientifico è la metodologia utilizzata. Le ricerche adottano delle forme più articolate di questa logica che prevedono l’utilizzo di variabili moderatrici e di mediazione. Un’obiezione è che nel caso di fenomeni psicologici che riguardano la soggettività e la relazione tra soggettività e contesto, le variabili non descrivono degli stati autonomi. La relazione tra le variabili psicologiche è di tipo semantico secondo una logica parte- tutto. Le variabili sono in relazione semantica nel senso che sono riferite a processi di interpretazione e quindi il fatto che la variabile psicologica B segua la variabile A, deve essere inteso nel senso che B è l’interpretazione e non l’effetto di A. Il fondamento della relazione tra le variabili si trova all’interno della semantica di tale relazione e si configura in base ai canoni culturali del gruppo sociale. La ricerca in psicologia è spesso pseudoempirica perché descrive relazioni tra variabili già iscritte implicitamente nella norma culturale alla base del senso comune. La natura semantica delle relazioni tra le variabili psicologiche sono espressioni di relazione parti-tutto cioè non sono considerate come espressione di relazioni in interazione tra di loro, ma come elementi che partecipano alla stessa dinamica di significazione. L’alternativa alla ricerca di causa-effetto è quella della modellizzazione cioè la rappresentazione della modalità di funzionamento della dinamica che alimenta l’evoluzione nel tempo delle forme fenomeniche nei termini delle quali essa si manifesta. Si passa dalla logica della causalità efficiente e quella della causalità formale. Il modello dell’attività referenziale offre un esempio di tale logica. Il processo psicoterapeutico descrive una modalità globale di funzionamento del processo inteso come totalità organica che si dispiega nel tempo con l’alternarsi ciclico di fasi di traduzione di un codice in un altro. La seconda considerazione è che il modello dell’attività referenziale evidenzia come un approccio modellistico al cambiamento implichi la possibilità di inscrivere la comprensione dei fenomeni di interesse all’interno di quadri interpretativi generali e astratti. Questo modello serve a concettualizzare il processo terapeutico ed è un modello più generale che restituisce una rappresentazione complessiva del funzionamento della mente e dell’interazione tra pensiero conscio ed inconscio. Il modello della risposta palliativa all’attivazione avversiva è utilizzato per comprendere la risposta sociocognitiva all’incertezza ed ha un’estensione più generale che abbraccia una pluralità di ambiti e circostanze sociali in cui si fronteggiano forme avversive di attivazione neurofisiologica. È necessario far riferimento a un modello di cambiamento astratto della teoria dell’oggetto, trasversale in più ambiti di intervento e sarà un fondamento di teorie locali che lo declinano entro e in ragione delle specifiche condizioni di campo che caratterizzano gli ambiti dell’intervento. 3. Vale la pena aprire la scatola nera? Ci sono dei motivi validi per ritenere che non sempre sia efficace aprire la scatola nera. Una prima ragione sta nel fatto che non sempre il campo dell’intervento presenta nessi causali chiari e definiti. I fenomeni su cui si agisce hanno la natura di campo cioè sono funzione di elementi che interagiscono tra loro e che presi singolarmente esercitano un impatto limitato sul fenomeno. In secondo luogo, la natura di campo di molti processi psicologici e psico-sociali hanno per conseguenza il fatto che i modi con cui i fattori in gioco agiscono sul fenomeno d’interesse possono variare in modo rilevante in base alle situazioni. Gli interventi focalizzati sui fattori hanno difficoltà ad essere generalizzati da una situazione di intervento all’altra. In terzo luogo, l’intervento utilizza i modi con cui gli attori in esso coinvolto, regolano l’azione che li riguarda cioè lo psicologo opera nel contesto dato. L’intervento utilizza il sistema di risorse già disponibili all’interno di quel campo di intervento. Se le risorse sono sufficienti ad alimentare l’intervento non rappresenta un problema che invece lo diventa nei contesti di intervento in cui le risorse disponibili non sono sufficienti a sostenere il fine dello psicologo. 4.4 Un modello strutturale del cambiamento semiotico Ora si propone un modello del cambiamento semiotico che descrive in termini dinamico-strutturali la distinzione qualitativa tra il cambiamento di tipo uno, due e tre proposte precedentemente. Il modello si basa sulla nozione di campo semiotico. Un campo semiotico è uno spazio la cui struttura è data da un numero N di dimensioni, relativa ad una componente del significato. Un campo semiotico è composto da due dimensioni latenti di senso. La relazione tra tre dimensioni latenti di senso e i significati sono descritte geometricamente, in termini di posizione di quest’ultimo nel campo semiotico. È possibile concettualizzare tre tipi di cambiamento nei termini della posizione dell’interprete nel campo semiotico. Vi è la distinzione tra variazione locale, modifica infrastrutturale e trasformazione strutturale corrispondenti al cambiamento di tipo uno, di tipo due e di tipo tre. L’interprete produce un cambiamento locale della propria attività interpretativa quando questa non modifica la tua posizione all’interno del campo semiotico cioè vi è continuità nelle premesse di senso che danno forma all’interpretazione dell’esperienza. Le informazioni e le conoscenze che vengono prodotte dalle interpretazioni, si mantengono coerenti rispetto al modo in cui il soggetto assimila le nuove conoscenze ambientali. Se una persona viene identificata con l’universo simbolico universo ordinato, assume come premessa di senso ciò che è giusto e anche efficace e cercherà di gestire i conflitti sulla base di questo presupposto cioè che sarà sempre possibile trovare una soluzione che rispetti le ragioni di entrambe le parti e che tale soluzione sarà efficace. La modifica infrastrutturale implica un cambiamento della posizione dell’interprete all’interno del campo semiotico e viene discusso l’universo simbolico mondo degli altri come una visione del mondo in cui i soggetti sono spinti a identificarsi a seguito del fallimento degli ancoraggi di senso offerti dagli altri universi simbolici cioè quando la realtà mette in crisi l’identificazione con i legami interpersonali, con le istruzioni, con il gruppo di appartenenza che gli altri universi simbolici alimentano. Le persone possono cambiare universo simbolico nel tempo. La trasformazione strutturale implica un cambiamento del campo semiotico cioè il movimento interpretativo del soggetto non si mantiene più all’interno delle premesse date dalle dimensioni costitutive del campo semiotico ma va oltre l’orizzonte di senso che offrono e impongono. Questo può essere rappresentato dal cambiamento delle dimensioni del campo semantico. Si parla quindi di trasformazione strutturale perché è un cambiamento che va al di là della struttura data. A differenza degli altri tre universi simbolici, l’universo ordinato e società che cura sono associati a questa terza dimensione di senso ovvero se si cambia la propria identificazione da uno dei tre universi simbolici bidimensionali a uno dei due universi simbolici tridimensionali, si realizza la trasformazione strutturale. 5. La meccanica del cambiamento 5.1 Premessa Un aspetto teorico importante da delineare è che il cambiamento semiotico non è un processo separato dalla dinamica di significazione. Il cambiamento semiotico è il modo con cui la dinamica di significazione si dispiega e quindi il cambiamento va compreso sulla base del modello generale della dinamica della significazione. Un esempio è la teoria di Piaget e dello sviluppo cognitivo che spiega il processo di produzione mentali nel corso dell’ontogenesi come il prodotto di un’unica dinamica fondamentale cioè l’equilibrio tra assimilazione e accomodamento. Un altro esempio è la teoria dell’attività referenziale che spiega il processo terapeutico per la creazione di un modello generale della mente. Questi esempi illustrano come il cambiamento è una variazione alimentata dal modo invariante di funzionare della dinamica fondamentale. Il cambiamento semiotico è la forma che assume la dinamica di significazione in determinate condizioni cioè l’induttori. La dinamica di significazione non cambia ma opera sempre lo stesso modo secondo la stessa regola di funzionamento e assume delle forme differenti. Questo principio può essere definito della bifocalità cioè ogni variazione è la forma con cui un’invarianza di ordine logico superiore si riproduce. Per comprendere il cambiamento è importante conoscere sia ciò che varia sia il processo più generale che si realizza. 5.2 Al cuore della dinamica È importante capire cosa spinge persone, gruppi sociali, istituzioni a cambiare la propria attività interpretativa conservando il sistema di significato sotteso. Per rispondere a questa domanda, si crede che i processi cognitivi siano al servizio dell’azione e da ciò consegue che per modellizzare i processi cognitivi sia necessario comprendere quali siano le esigenze che la regolazione dell’azione pone alla cognizione. La cognizione è il processo di costante modulazione dello stato istantaneo del corpo per mezzo del quale l’organismo si rappresenta le variazioni dell’interazione con l’ambiente. Il principio fondamentale di funzionamento della cognizione è mantenere tale interazione in equilibrio per poter agire nell’ambiente. La cognizione consiste nella produzione di mappe senso- motorie delle variazioni degli stati dell’ambiente in modo da mantenere l’azione vicino a quest’ultimo. Un aspetto centrale è la mappatura delle variazioni ambientali che devono necessariamente essere anticipatorie: un’azione regolata sulla base di ciò che è già avvenuto implica tempi troppo dilatati e incompatibili con l’esigenza di adattamento, e della sopravvivenza. La cognizione è una previsione dello stato ambientale prossimo e si tratta di una previsione guidata dalla conoscenza a priori del campo delle possibili evoluzioni dell’ambiente. Il sistema cognitivo è alla costante ricerca del successo della previsione cioè del fit. La ricerca del fit è uno sforzo asintotico perché la continua variazione dell’ambiente fa sì che ogni previsione senta di essere costantemente aggiornata per preservare il fit. Il sistema cognitivo affronta la previsione prodotta nel momento precedente e l’input attuale cui essa si riferisce; nel caso di un misfit, il pattern senso-motorio viene rimodulato per recuperare il fit. Maggiore sarà il misfit tra previsione e input attuale, maggiore sarà l’entità dell’acquisizione senso-motoria necessaria per recuperare il fit. Nella ricerca del fit, il sistema cognitivo si muove sulla base di un principio di economia cioè la ricerca è realizzata attraverso una risposta senso-motoria che richiede il minor dispendio energetico. Questo determina una gerarchia di risposte senso-motorie utilizzate per mantenere la vicinanza all’ambiente. 1. Nel caso in cui gli stati ambientali si mantengono all’interno di un margine di variabilità ristretto, cioè nello spazio di variazione mappato dalla conoscenza a priori, il fit è mantenuto attraverso modulazioni fini delle risposte senso-motorie. La stabilità creata permette il costituirsi di nessi associativi tra le singole risposte cioè il consolidarsi di apprendimenti. 2. In altri casi la variabilità ambientale può superare il margine definito della conoscenza a priori. In queste circostanze la previsione basata sulla conoscenza a priori delle possibili evoluzioni dell’ambiente fallisce. A modificarsi è l’ambiente nel suo insieme e il recupero del misfit si realizza come modifica della conoscenza a priori. Questo richiede un maggiore dispendio energetico perché l’interazione con la variazione globale piuttosto che locale dell’ambiente comporta il reclutamento di risposte senso-motorie globali. 3. Si può concordare con la proposta di Bateson di introdurre un ulteriore livello di variazione che si determina quando la modifica dei valori della conoscenza a priori non è sufficiente per produrre delle previsioni efficaci. La conoscenza a priori dovrà essere definita strutturalmente attraverso il cambiamento dei parametri che la definiscono, piuttosto che dei valori dei parametri. Questo definisce il cambiamento strutturale cioè rendere pertinenti altre dimensioni della variabilità dell’ambiente rispetto a quelle utilizzate in precedenza. La variazione consiste nella modifica dei valori dei parametri della conoscenza a priori che si mantiene entro la variabilità ambientale data. La variazione dei parametri determina un cambiamento di ordine logico superiore perché l’ambiente emergente si configura con ulteriori dimensioni di variabilità introdotte dai nuovi parametri della conoscenza a priori. La variazione dei parametri può procedere sia in senso di incremento che di riduzione. 5.3 I cambiamento semiotico è il modo di stabilizzare le premesse di senso L’idea della cognizione come ricerca del fit è connessa alla teoria triadica della significazione. La semiosi è incarnata cioè i segni sono concettualizzabili come risposte senso-motorie. I segni di natura astratta sono concepibili come elementi materiali associati in maniera consolidata a una classe di risposta senso-motoria. Quando scriviamo una parola, ciò che percepiamo è una distribuzione di colore sul foglio, tale percezione è un’attivazione senso-motoria associata ad una classe di risposte. L’embodied Cognition evidenzia che tale classe di risposte condivide molti processi somatici con quella esercitata dalla percezione diretta di quell’oggetto. In questo modo si sostituisce il percetto con un elemento materiale che elicita una risposta senso-motorio equivalente. Il soggetto è libero di generare il mondo dell’esperienza ed in questo consiste il fondamentale vantaggio evolutivo che l’uomo ha raggiunto con l’emergenza del registro del linguaggio cioè acquisire autonomia rispetto all’ambiente attraverso la mediazione di un sistema di segni che possono essere manipolati e che si possono muovere a piacimento così da ordinarli in infiniti modi. Il soggetto non risponde all’input ambientale ma alla sua interpretazione. La rimodulazione della risposta finalizzata alla conservazione dei fit della previsione corrisponde alla stabilizzazione del Ground operata attraverso l’attivazione di segni equivalenti che producono nel tempo la corrispondenza tra il rapresentamen e l’oggetto dinamico. La conservazione del fit è il correlato senso- motorio del valore semiotico del segno e la riproduzione nel tempo del Ground. Il cambiamento semiotico è una funzione della regolazione dell’azione sociale e la dinamica di significazione alimenta traiettorie di segni la cui forma si riflette nella necessità del soggetto di mantenere stabili le premesse di senso che rendono interpretabili una determinata sequenza. Il fit consiste nell’interpretabilità dei segni 6.1 La tendenza a semplificare tramite astrazione È necessario considerare una caratteristica strutturale della dinamica di significazione ovvero la sua natura autoreferenziale. La dinamica di significazione opera come un sistema chiuso cioè il suo scopo è riprodurre se stessa, non generare conoscenza sull’ambiente. Il potere informativo della dinamica di significazione è qualcosa di secondario, una sorta di effetto generato dall’incessante attività di stabilizzazione di sé stessa in cui la dinamica è impegnata. Si definisce l’efficacia di tale stabilizzazione sulla quantità di energia mobilitata dal soggetto per produrla: la dinamica di significazione risponde alla perturbazione con il minimo di cambiamento semiotico che si rende necessario ai fini del mantenimento della stabilità. Esistono molte manifestazioni che dimostrano la tendenza a rispondere alla destabilizzazione del significato in modo conservativo, in chiave di semplificazione dell’ambiente, piuttosto che nella sua complessificazione. Molte forme di semplificazione presentano una caratteristica fondamentale: assolutizzano una componente dell’oggetto cui la credenza si riferisce, devitalizzando gli altri aspetti. Quest’operazione di astrazione si realizza attraverso l’asservimento della credenza alla classe di significato che alimenta la pregnanza della componente assolutizzata. La tendenza a semplificare non sempre è l’alternativa alla complicazione. Al contrario, molte delle teorie semplificanti sono in realtà complicate. Il contrario della semplificazione non è la complicazione, ma la complessità cioè la multidimensionalità degli spazi che la mappa dell’oggetto tiene conto. 6.2 Semplificazione e legame sociale. L’effetto pentecoste I processi di cambiamento semiotico sono una qualità intrinseca dell’organizzazione della vita e come tale non devono essere considerati in maniera negativa solo perché a volte producono esiti socialmente indesiderabili. Nonostante le manifestazioni socialmente problematiche, la tendenza della dinamica di significazione a semplificare è a fondamento della possibilità stessa del legame sociale. La condivisione di tali significati rende possibile agli attori di ridurre i margini di variabilità reciproca e coordinare l’azione. Carli ha definito collusione questa condivisione, in particolare la sua componente affettiva, evidenziando la funzione sociale. I segni generalizzati che sostanziano le premesse di senso, sono significati in absentia cioè operano come fondamento del legame sociale perché sono condizioni dell’interpretazione. La condivisione di premesse di senso tra gli attori non può realizzarsi tramite negoziazione. Non può neanche essere l’esito di un’abitudine perché deriva dalla ripetizione di un determinato corso di azione, che deve fondarsi su premesse di senso condivise in un regressus in infinutum: per condividere premesse serve l’azione, perché vi sia azione servono premesse condivise. L’autoreferenzialità della dinamica di significazione risolve il paradosso logico. Gli attori non condividono la promessa di senso, cioè non aderiscono al medesimo significato ma ciascun attore aderisce alla propria premessa di senso che risulta compatibile con quella degli altri. Gli attori non condividono ma compatibilizzano reciprocamente ciascuno la propria promessa di senso. Ogni attore assimila qualsiasi input ambientale al sistema dei significati generalizzati con cui identificato. Questo è dovuto alla struttura opposizionale dei segni generalizzati. Con questa struttura il soggetto può usare i segni per interpretare l’esperienza, perché qualsiasi input ambientale verrà associato a una polarità o a quella opposta. Se ognuno ha la propria autoreferenzialità, com’è possibile la coordinazione dell’azione? In modo paradossale, la coordinazione emerge proprio dall’autoreferenzialità. Gli schemi affettivi se-altro sono le prime dimensioni di senso, e fungono da ponte tra biologia e cultura, perché sono condivise da tutti gli esseri umani dato che tutti hanno un corpo assoggettato alle stesse leggi biologiche. Tali dimensioni di senso, sono esercitate autoreferenzialmente da ciascun soggetto ma operano come un aspetto semiotico comune che garantisce il comun denominatore per la coordinazione dell’azione. È importante cogliere il ruolo della semplificazione nel fondare il legame sociale perché in principio non vi è logos ma la semiosi affettiva a cui ogni soggetto torna tutte le volte che serve sintonizzarsi con il mondo, alimentato dalla fiducia di trovare nella semplicità di tale livello, la forma della presenza dell’altro. Questo è stato definito effetto pentecoste cioè ogni uditore è chiuso nel proprio processo interpretativo autoreferenziale, da cui assimila la contingenza dell’altro e partecipa alla costruzione collettiva dell’azione. In questo risiede il paradosso della semiosi perché il motore dell’intersoggettività è un meccanismo interamente soggettivo. La semiosi non può fallire ma sposta la compatibilizzazione delle premesse di senso a un livello di maggiore astrazione cioè a livello semiotico degli affetti, affinché i soggetti mantengano un dialogo intorno alle poche cose di cui parla l’inconscio. Il concetto di fallimento della collusione non è inteso come l’interruzione del processo collusivo, ma maggiore è l’indebolimento dei dispositivi più complessi di regolazione sociale, maggiore sarà la semplificazione del senso che si attiverà per ancorare la coordinazione dell’azione alla base per il significato affettivo. In presenza di un evento destabilizzante, la collusione non fallisce ma si vincola maggiormente dalla realtà cioè alimenta forme semplificate di informazione. Fallisce la capacità di rendere la coordinazione dell’azione coerente con l’esigenza della sua finalizzazione cioè la possibilità di mantenere l’equilibrio dialettico tra la stabilità della dinamica di significazione la domanda di adattamento che l’ambiente propone al soggetto. 6.3 L’altra faccia della medaglia: l’innovazione semiotica I soggetti tendono ad affrontare la variabilità degli stati ambientali attraverso semplificazioni interpretative che permettono di mantenere stabile la dinamica di significazione. La storia dell’umanità e la biografia di ognuno mostrano che in alcune circostanze si possono sviluppare nuovi linguaggi e nuovi significati, rinunciando alla rigida semiotica offerta dall’effetto pentecoste. La dinamica di significazione e la soggettività che si sostanzia, è capace di innovazione. Non siamo fatti solo per semplificare ma possiamo seguire anche la conoscenza. Capire quali sono le forme dell’azione sociale che rendono possibile la stabilizzazione della dinamica di significazione affinché si possa tradurre in lasciti interpretativi, è il punto nodale che unisce la teoria del cambiamento alla teoria dell’azione. L’intervento psicologico trova nell’attivazione di queste forme di azione la preparazione di esistere. 6.4 Scenario primario A ciascuno dei tre tipi di cambiamento semiotico, possiamo far corrispondere una forma di azione che, viene definita: scenario primario, scenario secondario, scenario intermedio. L’estensione dei significati si realizza quando le premesse di senso sono stabili e quindi si chiamerà scenario primario l’azione operante sulla base di premesse di senso stabili che permette e alimenta il cambiamento di tipo 1. I mondi vitali sono il paradigma dello scenario primario. Si tratta di relazioni fondate su premesse di senso profondamente radicate e condivise. La stabilità di queste premesse di senso, che sono alla base dei mondi vitali, è legata ad un fattore genetico e ad uno strutturale. Dal punto di vista genetico, le premesse di senso attive nei mondi vitali emergono dalla partecipazione comune alle pratiche sociali che sono alla base degli ambiti di relazione; i soggetti apprendono ad utilizzare lo stesso linguaggio emozionale. Vi è una caratteristica strutturale che rende i mondi vitali cioè un contesto dinamiche di significazione stabile che, non hanno prodotto. I mondi vitali sono sistemi della soggettività, che hanno solo un vincolo ovvero la propria produzione. Un mondo vitale è l’esperienza del comune legame, alla base del senso dell’esperienza di sé e non ha altra ragione di esistere se non la propria esistenza. Questo non significa che le relazioni alimentate dai mondi vitali siano prive di vincoli; che invece risultano imposte esogenamente ai mondi vitali dalla loro inscrizione all’interno dei sistemi di convivenza. La stabilità delle premesse di senso che caratterizza i mondi vitali non porta a consensualità ma, i mondi vitali sono i luoghi del contrasto violento dove i problemi si risolvono a volte con il ricorso alla violenza. Questo perché si litiga di più con chi ti vuole bene piuttosto che con chi è indifferente. 6.5 Scenario secondario Il cambiamento di tipo 2 è di natura negoziale. Il soggetto si espone a delle informazioni che lo inducono a cambiare lo stato della qualità. La qualità del ground rimane invariata, quello che cambia è lo stato della qualità. Si parla di negoziabilità perché è necessario che la dinamica di significazione si alimenti dell’interpolazione con una sequenza di segni posizionati in un’altra regione dello spazio semiotico. Questo si verifica quando si cambia opinione su qualcuno in seguito agli argomenti offerti dall’interlocutore. Esempio: inizialmente si ha un’idea rispetto a qualcosa (i no vax), ma solo in seguito di un’esperienza negativa (il ricovero in terapia intensiva), si sceglie di cambiare la propria visione spostandosi verso la decisione opposta (vaccinarsi). I segni interpolanti hanno la capacità di far migrare la traiettoria dei segni tra regioni del campo semiotico. Quanto più la pratica sociale è vincolante, tanto più i segni incorporanti si mantengono stabili, tanto più questi segni operano da attrattore semiotico nei confronti del soggetto portandolo a modificare la sua posizione nel campo semiotico. Lo spostamento di posizione nel campo semiotico, tipico del cambiamento di tipo 2, avviene in modo simile a come le persone apprendono una seconda lingua. Si frequenta il contesto dove essa si parla e, i segni linguistici prodotti nel contesto di tale lingua sono esperiti dal soggetto ed assumono un elevato valore semiotico perché permettono di prevedere l’azione in modo efficace all’interno di quel contesto linguistico. È importante considerare un altro CAPITOLO 4- TEORIA DELL’AZIONE Tale capitolo è dedicato alla teoria dell’azione professionale che si focalizza sui dispositivi dell’intervento: le funzioni, i criteri e gli strumenti tramite i quali attivare, alimentare e orientare gli induttori del cambiamento. La teoria dell’azione si propone di definire un quadro metodologico generale che offra una base concettuale comune alle tecniche e agli strumenti usati nei diversi ambiti dell’intervento. 1. I vettori dell’intervento L’intervento, come già detto prima, promuove il cambiamento. Tali modi vengono definiti vettori, per evidenziare l’idea dell’agire professionale come veicolo di modalità di scambio sociale capaci di generare cambiamento semiotico attraverso l’attivazione dei suoi induttori. La tipologia, una rielaborazione dello schema proposto da Salvatore, non riguarda procedure operative, ma funzioni, la cui realizzazione richiede modalità operative che variano da contesto a contesto. Vettori diversi possono realizzarsi tramite modalità operative simili, ma ciò che li distingue è lo scopo con cui tali modalità sono usate. Il significato dipende dal segno che segue; il risultato del vettore non è inscritto in esso, ma dipende da come viene interpretato nel contesto. Ciò significa che lo psicologo non assume che il significato della propria azione corrisponda a ciò che lei/lui attribuisce ad essa. Tale significato si produce in ragione dell’interazione con l’attività interpretativa del cliente. 1.1 Vettori di uno scenario primario. Il potenziamento del significato Questo cluster racchiude le funzioni dello psicologo che favoriscono la variazione locale del significato già in possesso del sistema cliente, così da permettere il suo consolidamento. Quest’ultimo può assumere forme diverse e ciascuna di tali forme si presta a essere associata a uno o più vettori, alcuni dei quali sono di seguito richiamati. ➢ VALIDAZIONE Questo vettore è finalizzato a consolidare il significato del cliente attraverso la legittimazione che può derivare dal consenso che su di esso esprime lo psicologo (ad es., cliente espone allo psicologo le ragioni che lo hanno spinto a prendere una data decisione e lo psicologo gli comunica che trova tali ragioni sensate e condivisibili). ➢ PRECISAZIONE Questo vettore richiama ciò che nella teoria della tecnica psicoanalitica si definisce chiarificazione – una riformulazione di quanto proposto dal paziente, con il fine di rendere più comprensibile e coerente la sua comunicazione. È un’operazione attuabile in ogni situazione di intervento. Lo psicologo ha il compito di organizzare il significato comunicato dal cliente in una forma più efficiente, in una forma maggiormente sintetica e astratta. ➢ SCHEMATIZZAZIONE Schematizzare un significato consiste nel rappresentare questo nei termini delle relazioni rilevanti che lo sostanziano (es. la mappa concettuale è un esempio di schematizzazione). La schematizzazione è una forma di potenziamento del significato, perché permette di rappresentare quest’ultimo nei termini della sua struttura essenziale, favorendo la stabilizzazione. ➢ ESPLICITAZIONE Sono le operazioni tramite le quali il cliente è messo nelle condizioni di rappresentare in forma dichiarativa un significato altrimenti operante a livello implicito (non inteso come latente, ma l’insieme delle conoscenze accessibili ai partecipanti alla comunicazione, che non vengono elicitate in quanto condivise già dai partecipanti alla comunicazione). Il significato implicito è in presentia, il latente in absentia. ➢ ARRICCHIMENTO Con questo termine si vuole denotare il vettore volto a permettere l’accesso del cliente a risorse semiotiche, che arricchiscono il sistema di significato di quest’ultimo. Le nuove informazioni possono essere usate dal cliente per validare una propria credenza o espanderne/arricchirne gli ambiti di applicazione. In altri casi, l’informazione aggiuntiva permette al cliente di operare una scelta tra le alternative decisionali in gioco. ➢ ASSIMILAZIONE Si fa riferimento alle azioni dello psicologo volte a sollecitare e sostenere l’uso del sistema di significato del cliente ai fini dell’interpretazione dell’esperienza. Con questa operazione, lo psicologo alimenta la capacità del cliente di usare le risorse semiotiche di cui dispone per dar senso agli aspetti della realtà con cui entra in rapporto. In questo caso il cliente produce nuovo significato, assimilando a esso l’aspetto della realtà. Il sistema di significato dato viene potenziato tramite la possibilità di esercitarsi su un nuovo elemento dell’esperienza. 1.2 Vettori di scambio secondario. La dialettizzazione del significato In questo cluster raccogliamo i vettori tramite i quali lo psicologo introduce un elemento di conflitto rispetto all’attività interpretativa del cliente, così da sollecitarlo ad accomodare: operare una modificazione infrastrutturale del proprio sistema di significato. Il conflitto che alimenta la negoziazione è locale, non investe il sistema di significato nel suo complesso, ma suoi aspetti specifici. ➢ ATTIVAZIONE Il vettore tramite il quale lo psicologo sollecita la salienza di una risorsa semiotica (una credenza, un pacchetto di conoscenze) del cliente. La risorsa è già presente nel sistema di significato del cliente; è un vettore negoziale piuttosto che di potenziamento, perché il suo scopo è sollecitare una modifica del sistema di significato – una modifica che non riguarda il contenuto, ma la sottesa gerarchia di preferenze. Un modo di perseguire un’attivazione consiste nel rinforzare il significato proposto dal cliente, in modo che esso assuma centralità del successivo sviluppo della discussione. ➢ DISATTIVAZIONE È il vettore di direzione opposta al precedente. Lo psicologo opera per ridurre la salienza di una risorsa semiotica del cliente, così che essa perda centralità come organizzatore della sua attività interpretativa. ➢ DIFFERENZIAZIONE Questo vettore è finalizzato a restringere l’uso di una risorsa semiotica, ponendo un limite ai contesti entro cui essa si presta a fondare l’interpretazione dell’esperienza. È simile alla disattivazione, perché ambedue operano nel senso di porre vincoli all’attività interpretativa del cliente. Mentre nel caso della disattivazione il vincolo riguarda la risorsa semiotica, nella differenziazione la limitazione concerne l’oggetto (l’ambito della realtà) su cui la risorsa semiotica si esercita. ➢ RELATIVIZZAZIONE Questo vettore è volto a evidenziare il carattere relativo e contingente del significato prodotto – il fatto che esso sia contestuale, legato ai modi dell’azione che contribuisce a regolare (si configura la partecipazione del soggetto all’azione). Questa funzione non entra nel merito del contenuto; permette di operare un’appropriazione soggettiva del significato da parte del cliente (la possibilità di riconoscerlo come qualcosa che parla del soggetto che l’ha prodotto). Si creano le condizioni di considerare altri punti di vista, con il fine di valorizzare la pluralità di posizioni come fonte dell’arricchimento dell’interpretazione dell’esperienza (es. la tecnica dell’inversione dei ruoli). ➢ CONFUTAZIONE L’azione dello psicologo volta a evidenziare le incoerenze presenti all’interno del discorso del cliente. Ciò ha lo scopo di indebolire la tendenza di tale discorso a riprodursi autoreferenzialmente (ritrovare al proprio interno le ragioni della propria validità). Le incoerenze possono riguardare la relazione logica tra le parti del discorso (es. affermare qualcosa e al contempo dire il contrario), quella funzionale (es. parlare di un’iniziativa e al contempo non implicare in essa le figure essenziali), quella pragmatica (es. dilungarsi su aspetti secondari). ➢ FALSIFICAZIONE Come la confutazione, questo vettore si propone di sottoporre a critica il significato prodotto dal cliente. La critica non punta a evidenziare le incoerenze interne al discorso, ma il conflitto tra questo e i dati di realtà. ➢ PROIEZIONE ANALOGICA Questo vettore dialettizza il significato del cliente attraverso la definizione di un’analogia con un contesto sociale simile, entro il quale i limiti di validità del significato del cliente appaiono autoevidenti. ➢ NEGOZIAZIONE In questo caso lo psicologo antagonizza il sistema di significato del cliente attraverso la messa in campo di un significato alternativo (non fa da sponda dialettica all’attività interpretativa del cliente, propone un significato alternativo con cui il cliente è chiamato a venire a patti, a negoziare). Lo psicologo può introdurre il significato alternativo sia in termini dichiarativi (attraverso una rappresentazione simbolica e con dei termini performativi, iscrivendo il significato entro la forma dell’azione esercitata). 1.3 Vettori di scenario intermedio. La decostruzione del significato Riportiamo alcuni vettori che sono volti a favorire la decostruzione del significato: la riflessione sulle premesse di senso a fondamento della significazione del cliente. La decostruzione del significato non si focalizza sul significato in presentia, ma su quello in absentia; non opera in chiave normativa: non esprime valutazioni di merito, ma 2.1 Il setting dell’intervento Il setting è la premessa di senso nei termini della quale l’intervento si costituisce come contenuto di esperienza nella mente dello psicologo. Il setting non è l’insieme di caratteristiche materiali, normative e funzionali attivate dall’intervento e regolative del rapporto tra psicologo e sistema cliente (ad es., onorario, tempi, logistica, ecc). È il significato in absentia che porta a selezionare gli oggetti dell’intervento e i criteri con cui tali oggetti vengono trattati. Il setting è il processo interpretativo dello psicologo, che determina le condizioni del suo agire professionale: la lente attraverso la quale lo psicologo filtra l’esperienza di partecipazione al campo intersoggettivo della relazione con il sistema cliente (fa emergere l’intervento come oggetto pensabile). Il setting è la regola metainterpretativa che genera intervento come peculiare micro-universo simbolico. Si pensi ad una qualsiasi relazione tra psicologo e cliente: ciò che esiste è il campo intersoggettivo attivato dai due soggetti. Tale campo può essere filtrato in vari modi: come una conversazione tra amici, come uno scontro di potere, come una relazione di aiuto, ecc. Tale campo diventa intervento nella misura in cui il setting estrae da esso tale forma: nella misura in cui il ground reso pertinente è quello dei processi di significazione tra cliente e psicologo, finalizzati a potenziare la capacità di dare senso del cliente. La concezione semiotica del setting non nega il valore degli aspetti materiali e concreti che mediano e veicolano l’intervento; questi elementi sono considerati degli artefatti (segni cristallizzati in forme reificate che generano senso in ragione delle premesse che ne fonda l’interpretazione). Dalla concezione semiotica del setting discende che l’intervento si costituisce in termini autonomi rispetto al senso comune. L’intervento è, quindi, un gioco che segue regole proprie, diverse da quelle che presiedono la definizione dei setting sociali della vita quotidiana. I dati che lo psicologo elabora entro il contesto di intervento non sono quelli che vede il cliente con gli occhi del senso comune, ma sono quelli che lo psicologo costituisce a seguito del filtraggio del campo intersoggettivo operato dal proprio setting. Ogni intervento si muove su due livelli: da un lato lo psicologo elabora il campo intersoggettivo dell’azione sociale con il proprio setting, dall’altro tale campo viene a determinarsi grazie al fatto che psicologo e cliente condividono un comune sistema di premesse istituite che sono poste a fondamento della classe di azioni sociali cui appartiene la prestazione dello psicologo. L’intervento è alimentato da una costante dialettica tra due attrattori semiotici: il sapere pratico della vita sociale quotidiana, che determina le condizioni stesse dell’incontro tra psicologo-cliente e il setting psicologico, chiamato a riconfigurare il senso di ciò che accade in ragione delle categorie scientifiche poste a fondamento dell’intervento. Si parla di dialettica perché i due attrattori sono intrinsecamente in conflitto tra loro e al contempo ciascuno si costituisce come condizione di esistenza dell’altro. 2.2 L’intervento come organizzazione L’intervento è un’azione collettiva che mobilita dispositivi sociali e materiali con il fine di realizzare le condizioni utili ad attivare, alimentare e orientare gli induttori del cambiamento. Ciò significa che l’intervento è un’organizzazione, e come tale va progettato, esercitato e analizzato: un sistema che su dota di vincoli per rimanere orientato allo scopo perseguito. L’intervento si caratterizza per ruoli, funzioni, ambiti di competenza, di scambio delle info, di integrazione orizzontale dei processi, di gestione degli eventi critici. Forme e contenuti specifici dell’organizzazione dell’intervento si diversificano in ragione degli ambiti dell’agire professionale. Un intervento clinico rivolto al singolo implica, ad esempio, un’organizzazione diversa da quella richiesta da un intervento di formazione aziendale o di sviluppo comunitario. Ogni intervento implica una distribuzione delle funzioni tra gli attori coinvolti: psicologo, cliente e parti interessate. Distribuire le funzioni significa stabilire chi assume responsabilità su che cosa. La distribuzione è tanto più differenziata quanto maggiore è l’articolazione dell’intervento e il numero di attori coinvolti. Le funzioni che richiedono di essere definite nella loro distribuzione sono sia quelle di natura operativa (di line→ l’insieme delle operazioni tramite le quali si persegue il cambiamento che l’intervento si prefigge come scopo) sia quelle di servizio (di staff→ l’insieme delle operazioni che assolvono al compito di assicurare le risorse necessarie affinché l’azione dell’intervento si possa realizzare, in modo coerente con lo scopo perseguito). Ogni intervento prevede un’articolazione logica e temporale. L’intervento implica la necessità di organizzare le diverse operazioni in cluster, connessi tra loro funzionalmente: definendo cioè quali risultati vanno prodotti prima, così da operare da condizioni/input per le fasi successive. Alla definizione dell’architettura funzionale dell’intervento corrisponde un piano temporale da definire in modo coerente con la scansione e l’interconnessione tra le diverse operazioni previste dall’intervento. Un aspetto rilevante legato alla dimensione del tempo è la gestione della sua componente cronologica, ossia della calendarizzazione degli eventi (chi stabilisce la collocazione temporale delle operazioni, la decisione circa il loro eventuale spostamento o annullamento). L’intervento richiede un dispositivo di governo, vale a dire: un meccanismo atto a prendere le decisioni necessarie a gestire gli aspetti contingenti dell’intervento. Ogni intervento si realizza entro situazioni mutevoli e diversi dei propri aspetti possono richiedere di essere adattati al variare delle circostanze. L’organizzazione in cui l’intervento consiste si caratterizza per un modello, più o meno esplicito, di integrazione orizzontale (procedure e dispositivi atti a promuovere, conservare e consolidare il coordinamento tra le operazioni parallele che concorrono al perseguimento degli scopi. 2.3 Il resoconto La resocontazione è tema dibattuto in letteratura, considerata il necessario complemento dell’azione professionale dello psicologo; dove per necessario complemento si considera l’intervento come un prodotto dello scambio sociale, come la conseguenza di un processo di significazione. Possiamo definire il resoconto come la rappresentazione dell’intervento in cui siano resi espliciti i criteri che lo guidano/hanno guidato. Gli oggetti del resoconto sono riconducibili alla richiesta ricevuta e alla riformulazione di questa in un problema psicologico che si ritiene di poter affrontare, al servizio che si è scelto di erogare, ai risultati raggiunti. Il tutto rendendo esplicita l’interrelazione con il sistema cliente che ha portato alla definizione o meno di un accordo e allo sviluppo del processo di intervento. Il resoconto potrà assumere molteplici forme, in funzione del destinatario e dell’obiettivo che si persegue. La rappresentazione che si ha del destinatario e del suo progetto funge da modello per lo scrivente, poiché anticipa la possibile costruzione del significato che l’interlocutore darà al testo. Il modello di lettore, connesso all’obiettivo che si intende perseguire, orienta la scelta dell’oggetto da focalizzare e la scelta della scala spazio-temporale più opportuna. Per comprendere meglio, si pensi a un continuum che, da un parte, guarda all’oggetto attraverso una lente di ingrandimento e dall’altra, guarda all’oggetto attraverso un drone che, a causa della sua altezza, perde i dettagli delle singole situazioni ma coglie l’evoluzione dell’intero processo. Il resoconto può assumere diversi stili narrativi da scegliere in base alle condizioni precedentemente descritte (ad es., resoconto storico incentrato sugli eventi significativi o resoconto volto a evidenziare le singole fasi e concepito a griglia). 2.4 La validazione dell’intervento Un intervento è l’espressione di un progetto (concettuale e organizzativo) che si inserisce in una rete di relazioni (quelle relative all’organizzazione del professionista e quelle del sistema cliente) con l’auspicio di raggiungere un obiettivo. Si parla di auspicio perché difficilmente, la realizzazione dell’intervento corrisponderà puntualmente a quanto previsto nel progetto. Questo perché tale realizzazione si sviluppa nell’ambito di un campo intersoggettivo, che dà forma ai significati (ovvero ai modi di sentire, pensare e agire) degli attori implicati nell’intervento. La validazione acquisisce valore sia come riscontro del proprio operato sia come apporto alla conferma/rivisitazione del modello operativo adottato. I diversi elementi che costituiscono la validazione dell’intervento sono: chi, quando, come, perché e cosa. Designiamo come verifica l’analisi degli esiti raggiunti, considerandoli in connessione con la dimensione tecnica dell’azione professionale. La verifica può essere compiuta a conclusione dell’intervento e nel corso del monitoraggio (analisi di processo) che accompagna lo stesso. Nel primo caso la verifica varrà come conferma/scarto dal previsto cui dar senso; nel secondo caso essa consentirà una ridefinizione delle tecniche impiegate e/o dell’organizzazione del servizio offerto. Definiamo valutazione il giudizio relativo all’impatto di utilità/appropriatezza/senso attribuito all’intervento dal sistema cliente e/o dal sistema cui afferisce il professionista. Il sistema cliente/professionista può comporsi di numerose figure (committente, finanziatore, cliente, ecc), ognuna delle quali è portatrice di uno specifico punto di vista che conferma il giudizio espresso. Si pensi ad esempio al rapporto costi/benefici e al valore che può assumere per i diversi attori coinvolti; la valutazione non va intesa come un dato descrittivo dell’accaduto o dell’accadente, ma come un atto relazionale, che esprime la posizione dell’attore nei confronti del servizio erogato. Verifica e valutazione e la loro interconnessione possono essere utili per guardare al proprio lavoro con sguardo critico, perché le nostre osservazioni sono interpretazioni alla luce della teoria che adottiamo ed è per questo molto facile ragionare in circolo e validare il proprio modus operandi. Gli eventi critici diventano indizi utili allo sviluppo del nostro modo di concepire l’intervento. Peirce chiama unificazione dei predicati) e acquisiscono senso, di conseguenza la circostanza assume il valore di una possibile spiegazione di quanto accaduto. Prendendo in esame quest’esempio, si può notare che l’identificazione degli indizi (pertinentizzazione) e la loro interconnessione in quanto componenti dello stesso evento passato (ricostruzione) sono le facce dello stesso dado. Ciò evidenzi ala specificità della generalizzazione per abduzione: l’interpretazione degli indizi in termini di ricostruzione del fenomeno inferito è una forma di astrazione, ovvero l’operazione di rendere pertinenti solo alcuni aspetti o alcune proprietà degli indizi, quelli che servono alla modellazione e alla ricostruzione. L’abduzione può essere concepita come una forma di astrazione generalizzante: i casi sono astratti in modo da acquisire la forma o lo status di esemplificazione locale e contingente della legge generale. In questo caso la classe generale che raccoglie i casi non è definita in termini di somiglianza empirica (come per l’induzione), ma di un principio concettuale (la regola generale). 3.4 L’intervento come abduzione La teoria della significazione offre la legge generale che descrive la modalità di funzionamento, universale e invariante, della dinamica proposta come oggetto della scienza psicologica. Lo psicologo alle prese con il cliente, fa riferimento alla regola generale, per avere un quadro interpretativo in base al quale comprendere abduttivamente la contingenza del mondo locale di quest’ultimo. Tale comprensione si offre come uno sguardo innovativo sul mondo del cliente, che veicola innovazione semiotica, capace di alimentare prospettive di sviluppo. L’intervento psicologico, laddove si configura come pratica sociale di costruzione di conoscenza, si presta a essere considerato un atto di abduzione. Ciò in tre sensi complementari. L’abduzione è il modo in cui funziona l’azione professionale. La progettazione e le modalità dell’agire professionale si basano sull’interpretazione del mondo del cliente. Tale interpretazione può realizzarsi in due modi: in termini induttivi o abduttivi. Nel primo modo, il mondo del cliente viene trattato come un esemplare di una categoria psicologica generale e le caratteristiche associate alla categoria sono proiettate sul caso (il caso diventa il riflesso della conoscenza universale). Quando è in gioco l’interpretazione abduttiva, il caso viene compreso in quanto evento contingente: le conoscenze psicologiche sono usate per ricostruire il processo idiosincratico e locale in ragione del quale gli elementi dell’esperienza del cliente acquistano senso. L’abduzione è l’esito dell’intervento. La funzione psicologica professionale si propone di promuovere nel cliente uno sguardo innovativo con il quale questi può guardare il proprio mondo in modi ulteriori. L’innovazione semiotica è un processo: Carli ha definito metodologico l’obiettivo dell’intervento psicologico (lo sviluppo di un modo di pensare l’esperienza). Il punto cruciale dell’intervento non è il contenuto dell’interpretazione cui il cliente giunge, ma lo sviluppo della sua competenza a interpretare l’esperienza nella sua contingenza (lo sviluppo della sua competenza ad abdurre). L’abduzione è il modo in cui la pratica professionale funziona come leva dello sviluppo della teoria psicologica generale. Essa si evolve, secondo vari percorsi di sviluppo, ciascuno dei quali concepibile come una forma di generalizzazione. L’abduzione non mira direttamente alla costruzione dei modelli generali, ma con questo non rinuncia alla generalizzazione. Lo sviluppo della teoria generale rappresenta il prodotto collaterale dell’attività sistematica di costruzione dei modelli locali. Ogni evento contingente da modellizzare è una sfida posta alla teoria generale, alla sua capacità di fondarne l’interpretazione. Lo sviluppo della teoria generale è alimentato dal fatto che essa è sistematicamente chiamata a lavorare al servizio della costruzione della conoscenza particolare. Potremmo dire che, l’evoluzione della teoria generale è motivata, canalizzata e valutata in ragione della richiesta epistemica che le si rivolge di fornire una semantica e una sintassi utili a generare il modello locale dei fenomeni contingenti. La scienza psicologica ha funzionato così a lungo: si pensi a Piaget, Vygotskij e Freud. Ad oggi, l’agire professionale viene inteso come una fonte di infinite opportunità di sviluppo della teoria generale, sfidata nella sua capacità di fondare lo sforzo di ampliare le risorse di senso del cliente. CAPITOLO 5- TEORIA DEL CLIENTE La teoria del cliente modellizza la relazione tra psicologo e persone presenti nell’intervento. Al centro della teoria del cliente vi è il riconoscimento della distanza tra le teorie di senso comune che danno forma alla richiesta del cliente, dando alla psicologia dei modelli interpretativi e metodi di intervento con cui si può rispondere alle richieste. Questa distanza è variabile perché in alcune circostanze si presenta come un conflitto epistemico tra punti di vista tra loro incommensurabili ovvero senso comune contro conoscenza scientifica. Da questo deriva la necessità di concettualizzare la relazione tra cliente e consulente, la specificità che questa relazione assume nell’intervento psicologico. È possibile analizzare il modo con cui i progetti del cliente e del consulente possono interagire per acquisire valore e, possono entrare in ragione delle esigenze di efficacia e utilità dell’intervento. 1. La committenza La committenza è un aspetto che riguarda le professioni e, qualsiasi attività di erogazione di beni e di servizi. Queste attività esistono perché qualcuno le richiede o esprime disponibilità o interesse a utilizzarle. 1.1 La debolezza normativa della professione psicologica Secondo Carr-Saunders, I professionisti si distinguono da altri lavoratori e dagli intellettuali per un’abilità specializzata fondata sul sapere scientifico. Greenwood evidenzia cinque attributi tipici delle professioni: l’azione di un professionista si basa su un insieme di conoscenze teorico-pratiche scientifiche, acquisite durante una formazione superiore che gli consente un’autorità sul cliente e il riconoscimento da parte della comunità; l’autorità e il riconoscimento sono regolati da un codice etico e dalla costituzione di associazioni che costruiscono l’infrastruttura istituzionale e culturale della singola professione. Si è cercato negli anni di definire il concetto di professione, ciò che rimane nelle diverse definizioni è la presenza di una conoscenza specialistica, acquisita attraverso degli studi, che permettono al professionista di produrre affermazioni in determinati settori. La conoscenza specialistica che distingue il professionista dal profano comporta che qualsiasi azione professionale implichi un conflitto epistemico tra cliente e professionista cioè una divergenza circa il modo di interpretare il problema che motiva la richiesta e le modalità d’azione della professione. Se così non fosse il cliente non avrebbe bisogno del professionista ma potrebbe risolvere da solo. Il conflitto epistemologia viene regolato da dispositivi simbolici istituiti in cui avviene lo scambio tra clienti ed esperto. Due sono i dispositivi di questo tipo ovvero lo status sociosimbolico e istituzionale di cui godono i sistemi professionali, e l’incorporazione semplificata entro il senso comune di elementi della conoscenza scientifica. L’unione di questi due dispositivi fa sì che il cliente riconosca potere epistemico e socioistituzionale al professionista cioè di riconoscere il ruolo di chi ha l’ultima parola sul problema, i tempi e il modo per affrontarlo e la regolazione della relazione. Questo perché si riconosce al professionista l’autorità derivante dal possedere la conoscenza scientifica necessaria per valutare un problema. L’azione di molti professionisti può non considerare la committenza perché questa funzione è associata in automatico. I problemi che oggi i professionisti si trovano ad affrontare vanno interpretati come conseguenza del progressivo indebolimento dello status istituito che la società riconosce. Anche l’intervento psicologico in alcune circostanze, deve ancorarsi ai dispositivi di regolazione simbolica propri delle professioni più forti. Un esempio è dato dalla psicoterapia, che viene assimilata al ruolo medico ed offre un ancoraggio normativo che regola il rapporto con la committenza e quindi lo psicologo non ha la necessità di governare la committenza perché viene disciplinato dal senso comune. La professione psicologica non dispone delle stesse possibilità di accesso ai dispositivi di regolazione della relazione con il cliente di cui però possono sentirsi avvantaggiati gli altri professionisti. La professione psicologica ha uno statuto sociosimbolico istituzionale debole. La professione psicologica è stata riconosciuta da un punto di vista giuridico da un tempo breve mentre le professioni con cui intrattiene delle relazioni godono di uno status istituzionale e simbolico più consolidato. Alcuni indizi della debolezza istituzionale della professione psicologica sono evidenti nel fatto che la funzione psicologica ha subito una progressiva cancellazione della sua presenza nel sistema sanitario nazionale, dove rimane un potere maggiore dato alla categoria medica; il ruolo della psicologia risulta essere marginale. A causa di questa debolezza, la committenza non trova un’adeguata canalizzazione né da un punto di vista rappresentazionale, neanche da un punto di vista normativo e nemmeno da quello pragmatico. 1.2 La (sostenibile) leggerezza della psicologia In molti casi l’intervento dello psicologo si mantiene all’interno del senso comune. Le soluzioni che vengono date a un determinato problema sono coerenti con il senso comune ma sono state formulate sulla base di un’analisi empirica. Mantenere il conflitto sottosoglia rispondendo alla committenza con modelli interpretativi e metodi coerenti con le aspettative del cliente, è un modo utilizzato dai professionisti psicologi per ridurre la distanza sociale tra cliente e psicologo. Se psicologo e cliente condividono le stesse premesse di senso, questo porterà a percepire la relazione come scontatamente data. Questa relazione deve essere regolata e la regolazione riguarderà solo aspetti marginali, la cui variabilità si manterrà all’interno dei margini delle premesse di senso condivise. Un conflitto sottosoglia permette al cliente di da altri professionisti. La teoria psicologica della domanda ha permesso di riconoscere come la decisione di assumere la posizione del cliente è un fenomeno la cui comprensione non si esaurisce sul piano funzionale perché la decisione non è il riflesso di una condizione oggettiva di necessità che il cliente riconosce ma, ogni richiesta è sempre un esercizio performativo di soggettività, un atto di significazione cioè un evento prodotto dall’attività interpretativa del cliente. La committenza è fondata dalla domanda vale a dire che la decisione del cliente di entrare in relazione con lo psicologo non è lo specchio della realtà oggettiva ma il prodotto di come il singolo soggetto dà senso alla sua condizione. La domanda non è un sinonimo di bisogno perché il bisogno è lo stato di assenza di ogni cosa necessaria per l’aiuto dell’organismo e quando si afferma di aver bisogno di risorse che servono a raggiungere gli scopi contingenti, in realtà si sta producendo un segno che veicola l’assolutizzazione normativa del desiderio. Renzo Carli afferma che non c’è lo psicologo perché ci sono i clienti, ma ci sono i clienti perché c’è lo psicologo. La psicologia non è una realtà data ma è un elemento attraverso cui si entra in rapporto e il soggetto dà forma al sistema di significato e al proprio mondo interno. 2.2 Una mappa della domanda Carli ha sviluppato la teoria della domanda all’interno del contesto di intervento psicologico clinico rivolto agli individui. L’interesse si focalizza sulla modalità complessiva del soggetto di entrare in relazione con il mondo ovvero come utilizza gli schemi affettivi se-altro. Il significato della domanda può essere rappresentato anche sui livelli di minor astrazione che facilita la comprensione del ruolo che la domanda e la sua analisi giocano negli interventi che si collocano a livelli diversi da quello individuale e macro-sociale. La domanda è una teoria ingenua sostanziata da credenze che definiscono l’ordine delle cose, il modo di interpretare gli eventi e alimentare le aspettative circa la loro evoluzione. La rete di credenze che sostanzia la domanda a fondamento della richiesta del cliente concerne: -la spiegazione delle cause della situazione che è oggetto della richiesta; -la prefigurazione della condizione che l’intervento permette di raggiungere; -il valore che la meta ha per il committente; -la prefigurazione di ciò che deve accadere affinché la condizione si avveri; - l’aspettativa circa ciò che il professionista deve fare per realizzare quanto desiderato; -l’idea sul livello e sulla forma di implicazione richiesto al cliente; -l’idea sul tipo di rapporto che bisogna mantenere con il professionista. La domanda ha un riferimento sovrapponibile a quello della teoria generale dell’intervento psicologico perché rappresenta il parallelo a livello del sistema di significati del cliente perché, come lo psicologo organizza la propria interpretazione del cliente, del valore del proprio intervento; allo stesso modo fa il cliente. Quello che distingue i sistemi di significato del cliente e dello psicologo è il diverso ancoraggio perché il cliente si rifà al senso comune declinandolo nel linguaggio della soggettività; lo psicologo invece si rifà alla conoscenza scientifica facendo riferimento ai vincoli che questa soggettività impone al linguaggio del metodo. Le credenze sono strettamente interconnesse, non sono pezzi autonomi, ma sono elementi di un’unica Gestalt di significato più astratto cioè la concezione del problema, della meta, del valore, sono la proiezione su un piano vicino all’esperienza dell’immagine che il cliente ha della relazione con il proprio mondo e della visione di come funzionano le cose. 3. Il governo della committenza Verranno utilizzati dei concetti per delineare un impianto metodologico utile al governo della committenza. 3.1 Lo spazio di sviluppo della committenza Lo psicologo, nei confronti della committenza, può muoversi lungo una linea che va dal trattare la committenza come data oppure considerarla da sviluppare. Gli interventi che si collocano dal primo punto di vista sono quelli che perseguono obiettivi e introducono delle azioni il cui esercizio si mantiene compatibile con la committenza. Gli interventi che si collocano sull’altro versante, si muovono secondo modalità e scopi che non sono compatibili con i canoni della committenza, che richiedono di essere modificati. Le due estremità devono essere intese come astrazioni idealtipiche perché nessuno degli interventi può operare ad una committenza totalmente data, neanche le istituzioni totali riescono ad esprimere delle committenze assolute nei confronti dei soggetti su cui esercitano il proprio potere. Ogni forma di sviluppo del significato si basa sulla premessa di senso condivisa tra professionista e cliente e quindi lo sviluppo della committenza è inscritto e si alimenta di una componente di committenza data che opera come base per la relazione tra cliente e psicologo. Il governo della committenza può venire su più livelli divisi in due parametri: -il livello di cambiamento della domanda sul quale il governo della committenza si esercita e richiamano ai tre livelli dei vettori dell’intervento: il potenziamento, la dialettizzazione e la decostruzione del significato. Dal primo al terzo livello, la committenza assume maggiore portata di cambiamento. Un governo della committenza operata da un punto di vista della decostruzione del significato è stato studiato da Carli e Peniccia che hanno dimostrato che una decostruzione può permettere una grande crescita della committenza. Il secondo aspetto riguarda la componente dell’intervento che si basa sul governo della committenza e si distinguono tre componenti: il processo, la funzione, l’uso. Il processo riguarda l’organizzazione dell’intervento e il governo della committenza riferita al processo concerne il concordare con il cliente sugli aspetti che qualificano le operazioni che lo psicologo introduce. Questo livello di governo della conoscenza essenziale è il primo passo necessario a creare le condizioni per operare e per promuovere lo sviluppo della committenza. Quando il governo della committenza non si limita a promuovere consenso sull’organizzazione dell’intervento ma investe anche il suo obiettivo, si inizia parlare di funzione del consulente. Con uso, si intende il processo attraverso il quale il cliente genera utilità dall’esito dell’intervento e, ciò che si propone di modificare la committenza è la capacità a valorizzare l’esito dell’intervento. L’unione di questi due parametri, permettono di tracciare lo spazio di sviluppo della committenza. Le due dimensioni dello spazio non sono indipendenti ed è per questo che si identificano tre livelli di sviluppo della committenza: -Il primo livello è la gestione che concerne la manutenzione della committenza e la sua modulazione e riguarda il processo. -Il secondo livello è la promozione ed ha come baricentro la funzione del consulente, la revisione e la sospensione dei risultati attesi dell’intervento ed ha a che fare con la funzione. -Il terzo livello è quello della capacitazione perché a cambiare non è solo ciò che ci si attende dal consulente ma la competenza del cliente, la sua capacità a valorizzare il risultato, quello che cambia è il significato stesso dell’intervento, come riflesso della decostruzione della domanda della committenza. I tre livelli, gestione, promozione e capacitazioni, sono tra loro uniti. Da un punto di vista della metodologia, questo implica una circolarità nel governo della committenza perché, da un lato lo sviluppo della committenza si muove dai livelli meno complessi a quelli più complessi, dall’altro lo sviluppo della committenza a livello di funzione di uso si traduce in un’evoluzione delle condizioni di processo dell’intervento. 4. Il governo della committenza. Alcuni criteri metodologici Esistono alcuni criteri che lo psicologo può utilizzare nella propria azione di sviluppo della committenza. Questi criteri veicolano un cambiamento di significato e vengono distinti dai vettori dell’intervento per due motivi: il primo motivo è che i vettori sono funzioni descritte in base ai risultati che perseguono, i criteri di sviluppo della committenza hanno delle regole logiche e modalità operative che organizzano l’uso dei vettori nel contesto di relazione della committenza. Il secondo motivo è che mentre i vettori possono essere utilizzati sia nella componente operativa che organizzativa dell’intervento, i criteri sono utilizzati unicamente per la funzione organizzativa sulla relazione di committenza. 4.1 Il sistema-cliente L’azione professionale dello psicologo implica il coinvolgimento di una pluralità di attori. Si utilizza il termine sistema-cliente per indicare la rete di attori coinvolta nell’intervento. All’interno di questo sistema si distinguono diversi sottosistemi di soggetti ciascuno con una posizione funzionale all’interno dell’organizzazione dell’intervento: -il richiedente è il soggetto che esercita il potere decisionale sull’intervento, sulla sua attivazione, sulle forme della regolazione e sulla conclusione. -I destinatari sono i soggetti a cui si rivolge l’azione dello psicologo in base ai quali si determina il risultato dell’intervento; -I beneficiari sono i soggetti a cui è finalizzato l’impatto che l’intervento si propone di generare. Indipendentemente dalla loro partecipazione all’intervento, ne determinano il valore; -Le parti terze sono gli attori che giocano un ruolo importante nel processo organizzativo che veicola e regola le azioni professionali dell’intervento; -Le parti interessate sono soggetti attivi nello spazio intermedio tra il sistema-cliente e il suo ambiente. Il loro impatto è una fonte di utilità. 4.7 La regola del tagliando di Murphy Il campo della committenza tende a decadere perché se viene lasciato a se stesso tende a perdere quella carica motivazionale a causa della valenza innovativa che l’intervento porta con sé. È opportuno prevedere un programma di revisione periodica della committenza insieme ad un monitoraggio dei possibili segnali deboli del suo decadimento nel corso dell’intervento. È importante che lo psicologo assume come Murphy che se le cose possono andare male, sicuramente andranno così. Questo viene pensato per programmare i dispositivi e le procedure utili per gestire le criticità della committenza. Per governare una crisi sono necessarie delle risorse che spesso non sono disponibili al momento della crisi e che vanno individuate quando le condizioni per farlo sono disponibili. 4.8 La regola dell’elastico La relazione tra psicologo e committenza è conflittuale perché nel sistema-cliente vi sono più punti di vista e interessi differenti. Conflitto non è sinonimo di competizione, non vi sono due soggetti che si contendono la vittoria; il conflitto in cui l’intervento consiste è la condizione e la forma del suo esercizio. Il conflitto per essere produttivo deve mantenersi all’interno di livelli adeguati che non sono definibili in assoluto ma dipendono dalla stabilità dell’alleanza di lavoro tra psicologo e sistema-cliente. Questa è la regola dell’elastico cioè lo psicologo imprime alla propria azione il massimo grado di alterità che la relazione con il cliente tollera cioè di tira l’elastico quanto più possibile senza portarlo al punto di rottura. La regola dell’elastico è implicita nel rilievo dato all’alleanza terapeutica perché quanto più è salda, tanto più il terapeuta si può muovere negli interventi dalle aree periferiche a quelle nucleari del sistema del sé del paziente. L’interazione tra sistemi di significato del cliente e dello psicologo permette lo sviluppo solo quando quest’ultimo è sufficientemente innovativo e sufficientemente prossimale rispetto al mondo del cliente. 4.9 La regola della batteria La componente operativa dell’intervento aumenta il conflitto tra psicologo e cliente perché espone quest’ultimo all’alterità tipica dell’azione professionale. La relazione tra professionista e cliente procede in una continua alternanza di momenti di rottura e riparazione dell’alleanza di lavoro che porta a mantenere il conflitto all’interno dei margini di compatibilità della relazione con la committenza e richiede il tenere in conto che l’azione professionale necessita di essere alimentata dall’alleanza di lavoro. L’intervento mantiene in carica la batteria-alleanza di lavoro che serve ad alimentare l’intero apparato. Quando i protagonisti sono soggetti collettivi, l’investimento di committenza sull’intervento richiede vettori di natura istituzionale e strategica che utilizzino due principi proposti da Jason ovvero l’individuazione di chi ha il potere di influenzare i processi relativi al problema oggetto dell’intervento e creare delle coalizioni con i soggetti di comunità che condividono quello che si inserisce nell’intervento. 4.10 La regola di Fabrizio Lo psicologo deve muoversi in ragione dei propri criteri fondati sui saperi scientifici di riferimento e avere contezza del fatto che il committente entra in rapporto con l’intervento nei termini e in ragione della propria soggettività. Rendere compatibili i punti di vista in gioco richiede di riconoscerli nella loro autonomia, nel fatto che non sono riducibili in ragione delle evidenze scientifiche. Lo psicologo deve operare come De André che in una sua celebre canzone rilegge i dieci comandamenti dal punto di vista di Tito, crocifisso insieme a Gesù. 4.11 La regola dello scultore Lo sviluppo della committenza viene pensata come una dinamica di focalizzazione progressiva ovvero un processo di accumulo di vincoli che rende stringente il campo di compatibilità tra psicologo e sistema-cliente. Lo psicologo procede come uno scultore cioè opera per ridurre la variabilità della relazione con il cliente come fa lo scultore che sottrae parti di blocco di materia per raggiungere la forma desiderata. Questa modalità ha una validità generale, infatti un politologo ha teorizzato qualcosa di simile alla regola dello scultore come principio generale della pianificazione politica. 4.12 La regola delle grida manzoniane È controproducente sollecitare delle missioni impossibili per la committenza, non basta che i soggetti coinvolti nell’intervento esprimano il loro consenso circa i tempi, i contenuti e le modalità della loro partecipazione all’intervento, ma serve che ciò su cui si interviene sia perseguibile e che le disattese eventuali degli accordi siano governabili cioè che lascino traccia nell’organizzazione dell’intervento e possono essere gestite. In caso contrario l’impianto normativo dell’intervento assume un’area di falsità perché quanto stabilito non è in grado di regolare la relazione tra psicologo e sistema-cliente. 4.13 La regola del gatto (di cui non dire) Un rischio che l’intervento può correre è quello di confondere il risultato perseguito con i modi per perseguirlo. In alcune circostanze il confine tra questi due aspetti è sfumato ed è da definire in modo contingente, in base alle circostanze. Si pensi a una situazione di conflitto: il fatto di proporre alle parti di incontrarsi è considerato come un mezzo oppure come un risultato da perseguire? Se ci sono le condizioni affinché ciò si verifichi, allora è un mezzo, ma se le condizioni non ci sono allora diventa un obiettivo. È importante che lo psicologo non assuma come acquisite le condizioni di committenza, ritenendole date solo per il fatto che siano necessarie per portare avanti l’intervento. 5. L’analisi della domanda Il livello della capacitazione implica un cambiamento di maggiore generalizzazione perché è la costruzione da parte del cliente di un’interpretazione del suo progetto entro il quale contestualizzare l’intervento e il suo valore. Il cambiamento di significato assume una valenza riflessiva a modificarsi e non è solo una credenza relativa all’oggetto ma il modo del cliente di rappresentare se stesso come progetto d’uso dei risultati dell’intervento. L’analisi della domanda è la funzione dell’intervento che dispiega i vettori decostruttivi nel contesto per sviluppare la committenza. 5.1 L’incompetenza strutturale della committenza Il significato a fondamento della committenza tende a sovrapporsi con il significato che alimenta la criticità cui la richiesta si riferisce. Secondo l’ottica psicosemiotica, l’intervento psicologico assolve la funzione di promuovere la capacità del cliente di produrre e interpretare la realtà appropriata al suo progetto. Questo significa che il cliente che si rivolge allo psicologo è portatore di un sistema di significato che chiede di essere sviluppato. Il cliente possiede un solo sistema di significato e quindi la committenza si fonda sullo stesso sistema di significato che sta alla base della criticità cui la committenza si riferisce. Nel caso della psicologia, si può stabilire una continuità tra la criticità dell’interpretazione e l’incertezza della criticità. Il committente è in rapporto con la realtà attraverso la mediazione di un progetto che può essere globale e può tener conto dell’insieme del campo di esistenza dell’uomo; oppure il progetto può riguardare un dominio specifico relativo alla funzione che il soggetto esercita. Il progetto si fonda sull’interpretazione della realtà e viene perseguito su tale base interpretativa. Alcune modalità di considerare i progetti possono essere problematiche e quindi l’interpretazione che li fonda deve essere intesa come un vincolo alle possibilità dei soggetti di entrare in rapporto con il mondo ed è per questo che si parla di criticità dell’interpretazione. La committenza proposta allo psicologo riflette le criticità perché è l’interpretazione che alimenta la situazione problematica e si riflette nella committenza definendone la forma: l’uomo entra in relazione con lo psicologo come se questo fosse una manifestazione del mondo. L’interpretazione della criticità, ovvero la domanda, che fonde e configura la committenza, riflette la criticità dell’interpretazione. La committenza dell’intervento psicologico viene riconosciuta come strutturalmente incompetente perché il cliente riproduce nella relazione con lo psicologo, il sistema di significato che alimenta la criticità che la relazione si trova ad affrontare. La natura incompetente della committenza è una caratteristica dell’intervento psicologico. Ci si rivolge al professionista perché si è incompetenti dal punto di vista per il quale chiediamo aiuto ad un professionista e quindi la committenza che i clienti rivolgono, risente dell’incompetenza con cui interpretano la condizione che la motiva. Nel caso delle altre professioni, l’incompetenza della committenza riguarda l’interpretazione del problema e condiziona la relazione con il professionista. L’incompetenza della committenza, nelle altre professioni, non è associata alla criticità che la motiva. La criticità che motiva la committenza nel caso delle altre professioni si configura come relative a fattori diversi dalla dinamica di significazione e quindi il significato alla base della committenza non è in relazione con la criticità. Nel caso della psicologia, la committenza mostra una forma che riproduce in sé il significato del cliente e la sua valenza di criticità, quella in cui l’intervento fissa la propria funzione. La committenza dell’intervento si presta ad essere concettualizzata come strutturalmente incompetente in quanto vi è in maniera rilevante. Bisogna approfondire questa differenza per individuare la forma della loro possibile relazione. Bisogna fare riferimento alla distinzione proposta da Carli tra finalità e obiettivi dell’intervento. La finalità è una prospettiva di idealità sociale definita in termini valoriali e i concetti di pace, di libertà, di fratellanza ne sono degli esempi. Sono le credenze rispetto a ciò che è buono e meritevole e indica la direzione verso cui tendere. Le finalità non denotano specifiche qualità empiriche della realtà perché sono concetti astratti generalizzati cui nessuno nel mondo è in grado di corrispondere. Proprio per la loro natura astratta, le finalità sono polisemiche ed il significato di questi termini dipende dalla rete di significati entro cui tali segni vengono inscritti perché, ciò che può essere considerata una finalità per qualcuno, può essere considerata negazione per qualcun altro. Le finalità danno senso e motivano l’azione perché la qualificano come modo per perseguire una meta socialmente desiderabile. L’obiettivo è la rappresentazione dell’esito atteso dell’azione cioè lo stato della realtà che, in base alle condizioni del contesto, l’azione si attende che determini. Per definizione implica cinque aspetti: -L’obiettivo è un concetto che corrisponde a uno stato della realtà qualificabile empiricamente. -L’obiettivo è necessariamente contingente cioè dipende dalle condizioni del contesto perché l’esito possibile di un’azione dipende dalle risorse disponibili. -L’obiettivo è necessariamente vincolato e circoscritto perché perseguire un obiettivo implica scegliere di non perseguirne un altro. -L’obiettivo implica un’inferenza di natura bayesiana perché rappresenta l’esito atteso dell’azione, fissato in base a una conoscenza a priori della relazione tra l’azione stessa e il tuo possibile impatto. -L’obiettivo definisce un legame normativo tra azione e il suo esito perché l’azione deve realizzare l’obiettivo che si prefigge e se questo non accade, è perché è intervenuto un errore e quindi l’azione va incontro all’insuccesso. La normativa dell’obiettivo è essenziale per regolare l’azione ed anche per l’apprendimento perché si apprende quando si può correggere un errore, ma senza la normativa non ci sarebbe l’errore perché ogni esito andrebbe bene. La relazione tra unità e obiettivo è di natura ermeneutica non funzionale perché la finalità offre la cornice di senso entro la quale si può realizzare l’obiettivo. Questa definizione è la formulazione di una sola realtà coerente con la finalità e quindi rappresentabile come modo locale e contingente di muoversi nella direzione della finalità. L’interpretazione dell’obiettivo implica la convergenza di due riferimenti ovvero la comprensione del valore socioistituzionale di cui è espressione la finalità e i vincoli funzionali che definiscono le possibilità dell’azione professionale di raggiungere un esito. In psicologia si trattano le finalità come se fossero obiettivi perché, sono diffuse delle rappresentazioni della professione come azione rivolte verso il benessere e verso la salute; concetti che non denotano stadi di realtà empiricamente definibili ma di valore socialmente desiderabili verso cui tendere. Questa tendenza riflette un meccanismo socioistituazionale cioè data la carica valoriale, le finalità alimentano il consenso e la legittimazione sociale delle prassi a cui si associano. L’azione professionale assume legittimità per il fatto stesso di essere compiuta indipendentemente dal risultato che si ottiene. Confondere finalità e obiettivo favorisce la legittimazione della funzione professionale nella prospettiva di un breve- medio periodo. L’azione professionale ha bisogno di tenerle distinte e di mettere relazione i due ancoraggi perché la finalità media il rapporto con la società ed opera come legame canalizzatore tra committenza e professionista. La richiesta di intervento tende a essere definita in termini di finalità perché la definizione dell’esito perseguibile richiede delle conoscenze tecnico-scientifiche in possesso del professionista ma non del cliente. Per chi detiene l’azione professionale, assumere la finalità come esito da perseguire, equivale a proporsi di fare qualcosa di impossibile perché la finalità è una meta asintotica priva di riferimento empirico e quindi ciò che si realizza, viene prodotto come valore ma è destinato a fallire. Trattare le finalità come obiettivo è come cercare di raggiungere l’impossibile. L’azione professionale che non riesce a tradurre le finalità in obiettivi perseguibili otterrà un indebolimento strutturale della capacità di rappresentare il proprio impatto reale. Per la psicologia è complicato distinguere e mettere in relazione finalità e obiettivo: da un lato perché le teorie psicologiche del cambiamento hanno un limitato potere esplicativo, dall’altro perché la debolezza simbolica e istituzione della psicologia fa sì che la committenza rivolta rinunci con meno facilità alle finalità che la alimentano perché la committenza che si rivolge allo psicologo è alimentata da finalità vicine alla propria visione di sé da cui è difficile distanziarsi. 6.2 Obiettivo e impatto L’obiettivo è l’esito immediato dell’azione ma non nel senso temporale ma di non- mediato dalle condizioni di contesto perché l’esito non è influenzato dalle circostanze esterne all’intervento. Le condizioni di contesto sono incorporate nella definizione locale e contingente dell’obiettivo. La struttura logica dell’obiettivo assume il seguente schema: date le condizioni di contesto C, l’azione A, determinerà con la probabilità P e l’esito E. Il carattere di immediatezza dell’obiettivo è una condizione essenziale perché solo a tale condizione, l’intervento psicologico può sostenere il legame normativo tra azione e risultato perseguito, ed usarlo per regolare l’azione e per definire la responsabilità di risultato da assumere nei confronti del sistema-cliente. Deriva la necessità di distinguere l’obiettivo dell’intervento dal suo impatto. Con l’impatto ci si riferisce agli effetti che il risultato produce entro il contesto in cui si opera. La distinzione è di tipo epistemico e non ontologico perché un determinato cambiamento è considerabile un obiettivo se è solo se lo psicologo, sulla base di un radicale cambiamento, può considerare l’esito derivabile direttamente dalla propria azione. Al contrario, se tale cambiamento implica l’utilizzo di ulteriori elementi rispetto all’intervento, allora merita di essere considerato un impatto. La distinzione è contingente ma non assoluta perché dipende dalla teoria del cambiamento e dai confini dell’intervento. Ciò che in un determinato intervento è da considerarsi impatto, viene concepito come obiettivo in un’altra situazione di intervento. La distinzione tra obiettivo e impatto non riguarda solo la psicologia. In psicologia la distinzione è più complicata per la mancanza di chiarezza circa ciò che va considerato interno e ciò che va considerato esterno alla scatola nera. Gli obiettivi sono spesso definiti in termini di comportamenti, ma questo modo di considerare gli scopi dell’intervento, è adeguata nella misura in cui viene intesa come relativa all’impatto cioè diventa critica nel momento in cui la si tratta come riferita agli obiettivi. Qualsiasi significato può alimentare una pluralità di comportamenti e lo stesso comportamento può essere espressione di una pluralità di significati. Questo non significa che non vi è un nesso tra significato e comportamento ma anche questo nesso si definisce localmente in base alla rete di significati utilizzati. È possibile definire l’obiettivo dell’intervento grazie alla teoria del cambiamento. L’intervento è un dispositivo di attivazione di un processo di cambiamento semiotico e si configura come un esercizio metodologico perché non si definisce come il passaggio da uno stato ad un altro ma come modo per attivare l’evoluzione della dinamica di significazione del sistema-cliente; questa traiettoria evolutiva si prefigura come cambiamento semiotico di primo, secondo e terzo tipo. La natura metodologica dell’obiettivo non è contraddittoria con il fatto che l’intervento possiede una valenza normativa perché l’azione professionale persegue un cambiamento che deve corrispondere al raggiungimento di un maggiore stato di desiderabilità. La natura metodologica e la valenza normativa dell’intervento non sono in contraddizione perché quest’ultima concerne l’impatto e non l’obiettivo. L’impatto è definibile da un punto di vista normativo perché il suo valore è definito in ragione della finalità perseguita dal cliente cioè l’intervento attiva un processo il cui significato per il cliente (l’impatto), si presta a essere rappresentato da quest’ultima in chiave normativa; vale a dire quanto l’azione professionale ha favorito il determinarsi di uno stato di cose desiderabile. 6.3 Le dimensioni della responsabilità dello psicologo La responsabilità che lo psicologo assume sull’obiettivo prende il nome di responsabilità tecnica. L’esito dell’intervento non ha contenuto ma lo assume in base al contesto in cui si inscrive cioè in base al proprio impatto. L’intervento va visto in base a due livelli di impatto a cui corrispondono due livelli di responsabilità ovvero quella funzionale e quella politica. Per responsabilità funzionale si intende il riconoscimento del fatto che quando si raccoglie la richiesta del cliente, lo psicologo riconosce che l’obiettivo che andrà a perseguire non è lo scopo dell’intervento, ma il mezzo attraverso il quale il cliente si propone di perseguire un’utilità. La responsabilità funzionale consiste nel riconoscere da parte dello psicologo che l’esito deve essere funzionale ad avere utilità e trova senso proprio nella sua funzionalità. La relazione tra obiettivo e utilità non è lineare perché l’utilità non aumenta costantemente all’aumentare della qualità tecnica dell’esito. È vero che un basso livello della qualità dell’esito comporta anche una bassa utilità, ma è anche vero che un esito può risultare di utilità non appropriata nel caso inverso ovvero per eccesso cioè quando si raccolgono dati su aspetti che non sono necessari e quindi si ha un quadro valutativo troppo ricco che va a danneggiare piuttosto che beneficiare il cliente. L’obiettivo è l’esito atteso come conseguenza immediata dell’azione dello psicologo che deve assumere la responsabilità tecnica sull’esito: si avrà successo dell’intervento se verrà raggiunto o un insuccesso se avviene il contrario. L’utilità dell’esito dipende dall’interazione tra esito, progetto d’uso del cliente e le condizioni contestuali che mediano l’uso e le sue conseguenze e quindi lo psicologo può assumere una responsabilità diretta sull’utilità la cui costruzione riflette l’autonomia del cliente e il suo contesto. Lo psicologo può adottare la responsabilità funzionale attraverso una regolazione endogena ed esogena della 1.1 Psicopatologia e dimensionalità della significazione affettiva Secondo la teoria psicosemiotica della mente, l’esperienza soggettiva è costituita dalle componenti del campo intersoggettivo rese pertinenti dai significati affettivi generalizzati (ground). Ciò significa che ciò che la persona sente, pensa e agisce è inscritto all’interno e vincolato da tali componenti, dalla variabilità che le contraddistingue. Ad esempio, si immagini un individuo che fa esperienza del mondo nei termini del ground affettivo di gradevolezza/sgradevolezza; per tale individuo l’esperienza del mondo è sostanziata dallo scenario intersoggettivo costituito dall’oscillazione tra uno stato di soddisfazione e uno di insoddisfazione. Successivamente, i sentimenti, le credenze, le decisioni, le aspettative, le previsioni, le azioni – ovvero la vita intersoggettiva, interpersonale e socioistituzionale della persona – si muoveranno all’interno dell’orizzonte di senso definito da tale variazione del ground affettivo. Ne deriva che la psicopatologia può essere concepita come il riflesso della limitata dimensionalità del ground affettivo, ovvero della tendenza del soggetto a costituire i contenuti di esperienza nei termini della pertinentizzazione di un numero limitato di componenti del campo intersoggettivo. Il soggetto rimane cieco a molte dimensioni ambientali che sono rilevanti per governare le traiettorie di adattamento e per rendere la vita significativa. La psicopatologia è come il daltonismo: rende la persona incapace di riconoscere la varietà di colori, impendendole di riconoscere informazioni rilevanti dall’ambiente quanto di godere dei colori del tramonto. Considerare la psicopatologia in termini di bassa dimensionalità del ground affettivo è coerente con l’idea che i fenomeni psicologico-clinici siano da interpretare in termini di rigidità dell’apparato psichico. La nozione psicosemiotica di dimensionalità offre una spiegazione del meccanismo sotteso alla rigidità, modellizzandola sul piano computazionale come funzione della bassa dimensionalità del ground affettivo. Un soggetto caratterizzato da una semiosi affettiva a bassa dimensionalità non può che dare senso al mondo in termini, e nei vincoli, di un sistema di significati non in grado di cogliere le sfumature di senso che sostanziano la qualità della vita. La dimensionalità del ground affettivo emerge dal modo in cui sono elaborate le esperienze relazionali precoci. Forme di relazione di sé-mondo troppo semplificate o troppo complesse (caotiche) rendono inutile lo sviluppo della dimensionalità del ground affettivo. Lo sviluppo della dimensionalità del ground affettivo può essere concettualizzato in analogia con l’acquisizione del linguaggio: quanto meno il mondo richiede al soggetto una certa competenza sintattica o semantica per regolare linguisticamente la relazione con esso, tanto meno il soggetto sarà spinto a sviluppare tale competenza, dunque a interiorizzarla come organizzatore della futura attività linguistica. La visione della psicopatologia come funzione della dimensionalità della semiosi affettiva è coerente con, e fornisce un quadro esplicativo a, la linea di pensiero che si sta sviluppando in questi ultimi anni, che sottolinea il carattere unitario della psicopatologia. Secondo questo approccio, le molte forme che assume la malattia mentale sono manifestazioni di un unico processo psicopatologico di base. 1.2 Processo psicoterapeutico come campo intersoggettivo La teoria psicosemiotica porta a concepire il processo psicoterapeutico come campo intersoggettivo. Questo è il contesto di significati affettivi emergenti dall’interazione degli elementi strutturali (es. condizioni di trattamento, durata) e dinamici (es. interventi terapeutici, vissuti, stili elaborativi, meccanismi di difesa, dinamiche trasferali) che caratterizzano l’hic et nunc dello scambio clinico. Il campo intersoggettivo è alimentato e riprodotto nel tempo dagli atti comunicativi (e dalle corrispondenti configurazioni intrapsichiche) che sostanziano lo scambio clinico. Allo stesso tempo, il campo intersoggettivo modella la forma di tali processi comunicativi e della loro interpretazione. In altri termini, il campo intersoggettivo definisce le condizioni e i vincoli in base ai quali gli elementi del processo terapeutico interagiscono tra loro e così facendo generano impatto clinico. Le interpretazioni intrecciate dello scambio che legano il paziente e il terapeuta non si realizzano come prodotti di menti isolate; esse prendono forma in ragione del campo intersoggettivo che viene a costituirsi tra loro. La relazione clinica opera, quindi, da regolatore dei processi mentali dei partecipanti. Una descrizione di questo è offerta dal two stage semiotic model (TSSM). Alla base di esso vi è l’idea dello scambio clinico come di un processo intersoggettivo di co- costruzione di senso, volto a modificare le modalità affettive e cognitive con cui i pazienti interpretano l’esperienza. I pazienti arrivano in psicoterapia con un sistema rigido di significati generalizzati sovraordinati (concezione di sé e degli altri, schemi affettivi, strategie relazionali, capacità metacognitive, ecc) che operano da premesse di senso che regolano il modo di significare l’esperienza. Tali premesse rappresentano sia la fonte della criticità che porta il paziente a richiedere l’intervento sia il fondamento/vincolo del modo di valorizzare la relazione con il terapeuta. Sintomi, conflitti intrapsichici e relazionali possono essere concepiti come il modo con cui tali significati sovraordinati si esprimono e riproducono. Le premesse di senso del paziente sono l’oggetto, il fine, nonché il mediatore dell’intervento. Il TSSM descrive il processo di co-costruzione di senso come una dinamica ciclica alimentata dall’alternanza di due fasi. Il modello sostiene che in un processo psicoterapeutico clinicamente efficace è possibile discriminare tra una fase in cui prevale una forma decostruttiva di significazione e un’altra in cui lo scambio clinico alimenta l’attività del paziente di esplorazione e creazione di nuovi significati. Nella prima parte del trattamento, il dialogo clinico espone il paziente all’incontro con un diverso sistema di premesse di senso, quello veicolato dal setting terapeutico e dai vettori attivati dal professionista. Grazie alla funzione di vincolo del setting, lo scambio clinico può non lasciarsi saturare dalla modalità propria del paziente di interpretare la relazione con il terapeuta, dunque riprodurre gli elementi critici che lo scambio è chiamato ad affrontare. 2. Livello mesosociale 2.1 Una strategia di prevenzione per adolescenti? Questo paragrafo illustra il modello di intervento rivolto a adolescenti elaborato nel contesto di una consulenza a una struttura impegnata in interventi psicologici finalizzati alla promozione del benessere e al contrasto alle forme di disagio in età evolutiva. La struttura aveva costruito un format laboratoriale, usato come un dispositivo di intervento clinico gruppale rivolto a adolescenti in condizione di disagio psicologico e sociale. La committenza era interessata a sviluppare tale format, in modo da ampliarne la funzione. Ciò significava ridisegnare il laboratorio in ragione di due principali caratteristiche degli interventi di prevenzione primaria: - estensione sistemica → il loro rivolgersi alla popolazione in generale, piuttosto che a gruppi di utenti individuali; - funzione di sviluppo → il fatto che gli interventi di prevenzione primaria si qualificano in chiave di potenziamento/sviluppo di condizioni di normalità, piuttosto che di recupero di condizioni di rischio e/o di superamento di criticità. La consulenza, l’equipe di psicologi e altri operatori implicati nella conduzione del laboratorio s’impegnarono in un’analisi sistematica del format laboratoriale finora usato. È stato elaborato un modello esteso di laboratorio (MEL), pensato per perseguire obiettivi di prevenzione primaria. Il MEL si propone di contribuire allo sviluppo delle risorse di significato accessibili alla popolazione giovanile. L’obiettivo di prevenzione primaria del MEL è la promozione di modelli culturali innovativi (capitale semiotico) che sostanziano la capacità dei giovani di mentalizzare il contesto, quindi le competenze socio-cognitive richieste per regolare la transizione con il mondo adulto. Tale definizione si basa sull’assunto secondo cui i processi cognitivi che alimentano e vincolano le forme comportamentali dell’adattamento e della transizione al mondo adulto sono il precipitato intrapsichico delle risorse semiotiche presenti entro il milieu culturale in cui i soggetti sono immersi. Il MEL definisce il proprio target su due livelli, tra utenza prossimale e distale. L’utenza partecipante ai laboratori (utenza prossimale) va considerata come vettore di moltiplicazione dei significati innovativi generati a vantaggio dell’intera popolazione giovanile (utenza distale). Il modello MEL integra due livelli di azione: 1. L’uso dei laboratori come incubatori di modelli culturali innovativi 2. La predisposizione delle condizioni per la diffusione di tali modelli entro il tessuto mesosociale della popolazione giovanile attiva sul territorio. I due livelli di azione sono perseguiti attraverso l’esercizio sistematico e intensificato del principio metodologico della performatività del setting di intervento. Tale principio afferma che lo sviluppo e la diffusione dei significati non passa attraverso l’accordo consensuale o le petizioni di valore, ma le risorse simboliche si modellano e propagano implicitamente attraverso il loro essere incorporate nelle pratiche sociali. Da questo deriva il principio secondo il quale per promuovere significati innovativi serve progettare e implementare pratiche sociali che abbiano a loro fondamento regolativo tali significati. Il MEL deriva dal principio della performatività del significato e del quale fanno parte tre parametri di setting: - Ibridazione dei ruoli (prosumatore= produttore-consumatore) → gli utenti prossimali vengono sollecitati ad assumere un doppio ruolo: utilizzatori delle attività e delle risorse dei laboratori e adottano funzioni di co-gestione del processo produttivo. La posizione di prosumatore implica un sistema di regolazione del gruppo di lavoro fondato sul riconoscimento del contesto organizzativo, dei suoi vincoli. Il partecipante è impegnato a fare manutenzione del gioco e questo favorisce lo sviluppo di competenze di regolazione del proprio comportamento, di riconoscimento delle ragioni e degli interessi dell’altro, di negoziazione. • contenitore strumentale → caratterizzato da forme di gioco di tipo duale, ospitate da ambienti logistici e organizzativi che assolvono una funzione di contenitore, strumentale, di filtro degli accessi • comunità di gioco → caratterizzato da condizioni di accesso basate sulla reputazione del giocatore (il gioco è il mediatore della partecipazione a un sistema di appartenenza). Modello → i risultati delle tre analisi sono stati messi in relazione attraverso un modello di equazioni strutturali. Come variabili di esito sono state usate: indicatori sociodemografici, incidenza degli universi simbolici nel quartiere, incidenza delle tre rappresentazioni del gioco nel quartiere, livello di capitale sociale, incidenza degli scenari di gioco nel quartiere. Il modello empirico fa notare che il gioco d’azzardo è influenzato dai significati sociali associati ad esso, questi a loro volta influenzati dai significati generali che sostanziano gli universi simbolici. Il modello rappresenta una validazione empirica della declinazione psicosemiotica di tale approccio, focalizzata sul ruolo del capitale semiotico nell’autoregolazione individuale delle condotte di gioco. A differenza dei significati, gli scenari di gioco hanno un contenuto materiale e si offrono come terminali di azioni definibili in modo circostanziato. 3. Livello macrosociale Altre due prospettive metodologiche – la politica simbolica e la promozione di capitale semiotico – sono usate per pensare a interventi psicologici di scala sistemica, relativi cioè a fenomeni che si dispiegano a livello macrosociale. Gli interventi di ordine sistemico non sono veicolabili attraverso la mediazione dei setting individuali di cui è partecipe lo psicologo. In questo caso, il corpo del professionista non è il vettore diretto dell’agire professionale, perché non si riconosce un individuo ma la popolazione. L’intervento sistemico è privo della sostanza relazionale. Gli interventi sistemici implicano una radicalizzazione della declinazione in chiave integrativa della funzione professionale. Lo psicologo impegnato in interventi di tipo sistemico non opera direttamente; la sua funzione è quella di elaborare modelli interpretativi e strategie in grado di potenziare la capacità delle politiche di agire sui fenomeni/criticità di interesse. L’intervento psicologico di scala sistemica assume i caratteri tipici del neoprofessionalismo. Lo psicologo non ha la possibilità di rivendicare il proprio spazio operativo richiamandosi alla natura psicologica del fenomeno su cui intervenire. Si ritrova a promuovere il proprio intervento in un contesto competitivo, dove conta la capacità di offrire interpretazioni e soluzioni funzionali. 3.1 L’intervento psicologico come funzione di elaborazione di politiche simboliche Con politica simbolica si intende il riferimento ad azioni sistematiche e finalizzate che un’agenzia istituzionale progetta e realizza al fine di promuovere un cambiamento del modo con cui la popolazione target interpreta un determinato oggetto sociale. Le politiche simboliche sono una forma di intervento pubblico e sono finalizzate a generare risorse e regolarne l’accesso/distribuzione entro la popolazione. Una modalità con cui l’intervento psicologico può esercitarsi a livello sistemico consiste nell’analisi della struttura, dinamica e contenuto del milieu culturale, finalizzata alla definizione di criteri e linee guida per la progettazione, implementazione e verifica delle politiche simboliche. 3.2 Promozione di capitale semiotico e processi intermedi Il modello psicosemiotico alla base di questo libro è stato usato per costruire una chiave interpretativa della crisi socioisituzionale che attraversa la contemporaneità. Le svariate criticità macrosociali cui si fa riferimento sono altrettante manifestazioni di una dinamica socioculturale globale di impoverimento generalizzato del capitale semiotico. Si tratta di una frattura antropologica, un cambiamento radicale nei modi del sentire, del pensare e dell’agire, che pone in obsolescenza le cornici istituzionali, le categorie interpretative, le modalità delle relazioni tra gli individui e i gruppi sociali. Si va dissolvendo ciò che ha alimentato le forme di vita che fino a un recente passato hanno agito da impalcatura della soggettività e della socialità. L’incertezza sistemica che caratterizza il mondo globalizzato può essere considerata il fondamentale induttore dell’impoverimento semiotico, in quando alimenta risposte sociocognitive caratterizzate da forme di sentire, agire e pensare semplificate, affettivizzate. Ridurre tale incertezza significa agire sui fattori sociali ed economici che la alimentano e sul potenziamento delle capacità degli individui e dei soggetti collettivi di costruire frame interpretativi in grado di operare da buffer rispetto all’instabilità, imprevedibilità e limitata ispezionabilità dei contesti. Serve lavorare per creare le condizioni socio-istituzionali utili a favorire una nuova fase di accumulazione di capitale semiotico. Un ruolo centrale è giocato dai processi intermedi: pratiche sociali veicolate da legami interpersonali significativi. I processi intermedi sono orientati al perseguimento di una scopo-meta interpersonale e quindi, sollecita l’espressione della soggettività interpersonale e allo stesso tempo esprime verso di essa una domanda di regolazione, vincolo e finalizzazione. In un processo intermedio, i significati che presiedono la rappresentazione della dimensione sistemica dello scenario socio-istituzionale si incontrano con i mondi vitali, riempiendosi di soggettività. I processi intermedi fungono da incubatori di capitale semiotico: setting di pratica sociale entro cui si possono generare interpretazioni del mondo interpersonale, sociale e istituzionale innovative e in grado di alimentare nei soggetti l’esperienza della dimensione pubblica come oggetto saliente, vitale e sensato (regolatore emozionale, cognitivo e comportamentale). Nelle società occidentali la dinamica transizionale tra soggettività e sfera pubblica si realizzava grazie a dei corpi intermedi (associazioni, partiti e sindacati); ma ultimamente hanno subito un indebolimento. Ciononostante, è necessario fare riferimento maggiormente ai processi piuttosto che ai corpi intermedi. I processi intermedi sono reti contingenti di pratiche sociali, innescate e alimentate da politiche di diversa scala, operanti entro specifici domini di attività o trasversalmente ad essi, dotate di variabile orizzonte temporale e pensate per operare da luoghi partecipativi in cui mondi vitali e istanze sistemiche si incontrano e si dialettizzano.