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RIASSUNTO di "Metodi creativi per la ricerca sociale", Appunti di Metodologia E Tecniche Di Ricerca Sociale

Riassunto dettagliato del libro "Metodi creativi per la ricerca sociale" di Giorgi, Pizzolati, Vacchelli

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 19/10/2023

Uni-student98
Uni-student98 🇮🇹

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Scarica RIASSUNTO di "Metodi creativi per la ricerca sociale" e più Appunti in PDF di Metodologia E Tecniche Di Ricerca Sociale solo su Docsity! METODI CREATIVI PER LA RICERCA SOCIALE Contesto, pratiche, strumenti CAP. 1 CONFINI, COORDINATE, PAROLE CHIAVE Nel corso degli ultimi trent’anni si sono sviluppate varie tecniche di ricerca accomunate dall’integrazione di elementi sensoriali e quotidiani nella pratica di ricerca e in cui i partecipanti sono coinvolti nel fare. Una ricerca che utilizza metodi creativi può essere definita come un dialogo con i partecipanti che può includere un’ampia gamma di realizzazioni come forma di elicitazione e/o di raccolta di informazioni, esperienze, rappresentazioni e/o di comunicazione di risultati che adatta, integra e applica metodi e tecniche delle scienze sociali e di campi esterni alla ricerca, in particolare artistici e terapeutici, anche con il fine di generare risultati inaspettati, rivelare associazioni non altrimenti evidenti e consentire la rappresentazione della complessità-> metodi che mettono al centro il tema del rapporto con i partecipanti e il fare ricerca con, invece che fare ricerca su. Tre parole chiave. • L’ONDA CREATIVA I metodi creativi hanno la tendenza ad attraversare i confini- disciplinari, tra ricerca e azione, tra partecipanti e ricercatore- ad aprire discussioni e a stimolare riflessioni. Non confine netto tra metodi tradizionali e non tradizionali-> la “tradizione” è un concetto mutevole Si può attribuire ai metodi creativi l’attitudine a trascendere le demarcazioni tra ciò che implicitamente viene o non viene considerato affidabile, credibile e valido nella ricerca sociale. I metodi creativi attraversano i confini tra le diverse fasi del processo di ricerca, per esempio un metodo utilizzato per la costruzione del dato può essere adattato come metodo da utilizzare per sviluppare il disegno della ricerca o per realizzare la disseminazione dei risultati. Elementi che hanno contribuito alla definizione di nuove tecniche di costruzione del dato: • L’affermazione di nuovi concetti ispiratori della ricerca sociale • L’allargamento della gamma di tecniche utilizzate nell’ambito dell’approccio della sociologia visuale • L’integrazione, nella pratica di ricerca, di alcune innovazioni tecnologiche • L’adozione, nella ricerca sociale, di tecniche nate per l’intervento terapeutico • L’incorporazione di tecniche artistiche • La sperimentazione del coniugo tra tecniche diverse I metodi creativi hanno un potenziale in termini di transdisciplinarità. Di pari passo a queste spinte si è andato ampliando il ventaglio dei metodi per raccogliere e analizzare materiale empirico. Sheller-> metafora dell’onda creativa che si è abbattuta sulla riva della tradizione metodologica liberando una flottiglia di metodi. Questa gamma di metodi include processi di indagine che si delineano attingendo a concetti e pratiche riconducibili a sperimentazione, creatività, immaginazione, molteplicità, polidimensionalità, capaci di rivelare la diversità, la profondità e il carattere mutevole della vita sociale, senza che l’innovazione metodologica scada in empirismo. • Tradizioni, innovazioni, influenze Negli ultimi trent’anni nelle scienze sociali hanno preso piede una serie di concetti (tempo, spazio, corpo, emozione) che hanno contribuito a ridefinire orientamenti teorici e metodologici-> si è studiato in maniera più sistematica il tema delle emozioni della biografia Riflessione sul tempo-> analisi delle esperienze quotidiane. La ricerca sociale sul quotidiano ha veicolato la sperimentazione di metodi originali per studiare materiali e ricordi, emozioni e sensi, mobilità e movimento. La possibilità di sconfinare rispetto ai metodi tradizionali inizia a manifestarsi negli anni ’80-> Douglas modo di intervistare creativamente usando strategie e tattiche di interazione in cui si favorisce l’intimità tra ricercatore e partecipante al fine di incoraggiare una comprensione reciproca e cooperativa. Nell’ambito dei metodi visuali oltre al dialogo mantenuto con le belle arti sono stati accolti prima video e film e successivamente il disegno. David Gauntlett crescente interesse nei confronti dei metodi in cui è prevista la richiesta ai partecipanti di creare artefatti ->Il pubblico ha familiarità con l’uso di tecniche come la foto- elicitazione (sollecitazione della conversazione attraverso l’immagine), mentre l’uso di altri metodi (disegno, video partecipativo, collage e costruzioni) risulta essere una novità, che suscita interesse ma al tempo stesso perplessità sulle maniere di usare e interpretare i dati prodotti-> metodi riconosciuti come parte integrante dei metodi visuali. La disponibilità di nuove tecnologie ha allargato i confini del modo in cui il ricercatore sociale pratica il suo lavoro, comportando cambiamenti nel disegno della ricerca, nelle domande/ipotesi da esplorare e vagliare, nella collezione dei dati, nella natura e nelle caratteristiche di ciò che è considerato un dato. Si aprono nuovi fronti: esempio la creazione del network interdisciplinare Tik Tok Cultures Research. In Hesse-Biber il digital storytelling è inquadrato come un’opportunità fornita dalle tecnologie audiovisive. Un altro esempio dell’applicazione adattata di pratica terapeutica alla costruzione del dato di ricerca è la messa in scena nella scatola di sabbia con figure miniaturizzate, ispirata alla terapia del gioco della sabbia ideata alla fine degli anni ’20 da Margaret Lowenfeld, pediatra, psicoterapeuta e pioniera della Play Therapy, come modo per coinvolgere i bambini nel processo terapeutico facendoli esprimere non verbalmente attraverso il gioco. Le intersezioni tra pratiche artistiche e ricerca sociale si definiscono in ulteriori spazi. Les Back “sociologia ambulante” dove camminata e registrazione digitale sono usate come metodi-> art sociology (Nina Wakeford) e curiatoral research (Bruno Latour) evidenziamo come si stesse consolidando l’incorporazione nella pratica di ricerca sociologica di metodi più artistici, gettando le basi per lo sviluppo di nuovi modi di raccontare e mostrare i dati empirici e le argomentazioni attraverso l’uso di tecniche consolidate in ambiti quali la scultura, la pratica curatoriale, il teatro, la musica, la serie televisiva. Nell’ambito degli approcci qualitativi si è andata delineando una prospettiva che mette a fuoco i vantaggi della multimodalità, ovvero l’integrazione tra vari metodi qualitativi per la collezione del dato finalizzata a esaminare un problema da più di una prospettiva. • Transdisciplinarità Le evoluzioni della PAR hanno ricalibrato queste asimmetrie-> riconoscimento dei partecipanti in quanto competenti e capaci di contribuire a tutti gli aspetti della ricerca-> la PAR fa parte di quelle pratiche “trasformative” ed “emancipatorie”. Un contributo importante alla ricerca partecipativa viene dagli studi sulla disabilità-> Charlton “non si fa ricerca su di noi senza di noi” Le metodologie creative attingono agli approcci della ricerca partecipativa-> le metodologie creative coinvolgono chi vi prende parte nella produzione del sapere e trattano la diversità di esperienze condivise come un’opportunità per arricchire il processo di ricerca, portando, attraverso processi di facilitazione, alla costruzione di nuovi significati. L’alternanza tra azione (il fare) e riflessione (le discussioni di gruppo e usare l’artefatto o il prodotto finale come punto di partenza per ulteriori riflessioni) viene articolata usando diverse strategie (dialogo e raccontarsi) che rappresentano tratti comuni tra la PAR e gli approcci creativi attingendo anche a tecniche di visualizzazioni. L’uso di simboli, linguaggi e forme artistiche sfidano le forme di ricerca tradizionali in cui il ricercatore esterno guida tutto il processo. Nella ricerca partecipativa esiste un riconoscimento reciproco delle diverse sfere esponenziali e cognitive degli attori coinvolti che porta a creare uno spazio di apprendimento condiviso e approcci all’analisi, flessibili e collaborativi, in cui risultati della ricerca vengono costantemente negoziati. • “Art therapy” Importante influenza sui metodi creativi è quella esercitata dall’art therapy. La sua essenza risiede nel creare qualcosa. Questo processo di creatività, il suo prodotto, e la forma artistica utilizzata sono di importanza centrale per l’incontro terapeutico così come l’incontro finalizzato alla ricerca. Il processo artistico facilita l’emergere di esperienze ed emozioni che vengono espresse in modo sia conscio sia inconscio attraverso i materiali artistici. Il prodotto finale rappresenta il punto d’inizio per riflettere e instaurare un rapporto tra terapista e paziente. L’art therapy richiede l’uso di diversi medium artistici attraverso i quali il paziente può esprimersi e rielaborare i problemi o le preoccupazioni che l’hanno portato alla terapia. La disciplina dell’art therapy nasce nel secondo dopoguerra, si afferma negli anni ’50 e viene riconosciuta e istituzionalizzata tra gli anni ’80 e ’90. Il lavoro dell’art therapist è ispirato dalla pratica psicanalitica di Jung che dipingeva e rappresentava le sue esperienze interiori in momenti difficili. Jung credeva che le immagini avessero un’origine collettiva e che fossero costituite da elementi sia personali che collettivi (archetipi). Hillman discute la personificazione dell’immagine come quel processo che permette all’immaginazione di accedere alle emozioni legate all’oggetto. Le emozioni stesse possono essere “personificate” e rivolte all’esterno nell’ambito dell’immagine per aiutare il paziente a formare un rapporto con un particolare aspetto del Sé. Le influenze teoriche dell’art therapy si possono rintracciare nelle idee di Winnicott sullo sviluppo di uno spazio potenziale tra la madre e il bambino. Influenze degli psicoanalisti Klein e Bion-> l’identificazione proiettiva di Klein e il concetto chiave di “contenimento” di Bion-> l’immagine stessa diventa un contenitore che contribuisce alla creazione di uno spazio sicuro all’interno del quale la relazione terapeutica si può sviluppare. • Post-strutturalismo Contributo epistemologico del post-strutturalismo, in relazione alla messa in questione dell’oggettività della scienza, alla messa in luce della pluralità dei punti di vista e dei meccanismi della costruzione sociale della realtà. Il post-strutturalismo è caratterizzato da un tentativo di afferrare i profondi cambiamenti di una società e cultura in forte evoluzione e da un modo specifico di rappresentare e pensare le scienze sociali. Una chiave di lettura post-strutturalista rende difficile concludere che ci possa essere una versione della realtà che sia definitiva e completamente oggettiva e i risultati della ricerca socioscientifica vengono considerati come delle versioni parziali della realtà. L’enfasi non è tanto sull’accertarsi che le esperienze dei partecipanti corrispondono o meno a verità fattuali: la questione fondamentale diventa invece se il ricercatore sia stato in grado o meno di tradurre all’interno dei risultati di ricerca le voci ed esperienze dei soggetti di ricerca in modo corretto e fedele a quello che volevano comunicare. Ogni realtà può essere decodificata solo attraverso narrazioni parziali e soggettive-> i ricercatori ambiscono a un’analisi critica di queste narrazioni, sottolineando l’influenza di relazioni sociali e gerarchie di potere esistenti nel determinare le coordinate di tali narrazioni. Gli autori che si rifanno a epistemologie post-strutturaliste tendono a enfatizzare la dimensione riflessiva rifacendosi alla riflessività, concetto che valorizza il processo di ricerca nella sua interezza, comprendono un’analisi della relazione tra il ricercatore e i partecipanti e il loro rispettivo posizionamento nel determinare i risultati della ricerca. La ricerca ispirata al post-strutturalismo si è dedicata a scardinare le grandi narrazioni ideologicamente orientate che hanno contraddistinto la costruzione del sapere occidentale per dare voce alle esperienze di gruppi e soggetti minoritari che non avevano un’arena per essere ascoltati. La ricerca femminista si inserisce all’interno di questo filone di pensiero volgendo particolare attenzione alle metodologie di carattere qualitativo proprio per l’enfasi che la ricerca qualitativa pone sulle esperienze personali della vita quotidiana. Studiose femministe all’inizio degli anni ’80 avanzarono l’idea che la ricerca quantitativa fosse legata a valori maschili di controllo con una tendenza a riprodurre disuguaglianze e a essere “estrattiva”. La ricerca femminista mette enfasi sul corpo e l’esperienza sensoriale nel decifrare la realtà. La ricerca femminista sfida l’idea che il metodo scientifico sia l’unico modo per accedere alla realtà e la stessa distinzione tra corpo e mente. I ricercatori si occupano di dimostrare che l’esperienza e la percezione sono alla base sia della soggettività che dell’oggettività, che la mente non è superiore al corpo e che il sapere può essere acquisito attraverso il corpo che a sua volta dà forma all’esperienza. Elementi tipici della ricerca femminista aprono la strada all’uso di metodi creativi nella ricerca sociale. Gli approcci definiti “postcoloniali”, “indigeni” e le “epistemologie del Sud” si sono sviluppati dalla metà degli anni ’90 in poi sferrando un attacco alle epistemologie e metodologie occidentali. L’assunto principale è che l’immaginazione sociologica occidentale sia il portato di un’esperienza situata e risenta della dimensione etnocentrica di quell’esperienza. Oggi studiosi imparano come decostruire e decolonizzare modi tradizionali di fare scienza e prendendo atto che la ricerca difficilmente si discosta da imperativi morali e politici. Nel mondo delle scienze sociali si è consolidata una certa ostilità nei confronti delle metodologie qualitative accusate di mancare di scientificità mentre nuovi standard quali affidabilità e validità della ricerca scientifica vengono imposti allo scopo di legittimare esclusivamente la ricerca che si fonda sull’evidenza numerica. Lincoln e Smith fanno notare che anche il termine stesso di “ricerca” è legato con l’imperialismo europeo e il colonialismo. Il modo in cui la conoscenza di popoli indigeni viene raccolta, classificata e rappresentata a un pubblico occidentale è sinonimo di “sapere coloniale”. Le nazioni coloniali si affidavano a discipline quali la sociologia e l’antropologia per produrre conoscenza su mondi lontani e alieni, dando forma in questo modo al progetto coloniale. Le varie declinazioni della ricerca qualitativa rappresentano sia un retaggio sia uno specchio del potere coloniale. Diverse popolazioni aborigene sostengono che per capire sé stessi e le proprie condizioni nel presente debbano essere consapevoli delle proprie origini e delle influenze generate dagli effetti storici e intergenerazionali dei processi di colonizzazione e assimilazione di intere comunità. Le storie di vita degli “anziani” svolgono questa funzione di integrazione e dimostrano come le popolazioni indigene possano mantenere intatto il proprio sapere ed eredità culturale. I metodi creativi permettono di situarsi in dialogo con gli studiosi indigeni, consapevoli che le storie che vengono presentate debbano inserirsi nel paesaggio che attraversiamo. Pellegrino e Ricotta “epistemologie del Sud”-> forme di pensiero e di pratica non ispirate al modello di sviluppo occidentale egemonico mirato alla “crescita” che puntano invece alla necessità di ridefinire l’immaginario sociologico globale a partire da nuove produzioni di pensiero che siano insieme prassi politica e metodologia comune di ricerca. Le epistemologie del Sud creano nuove reti tra esperienze anticoloniali, antipatriarcali, post-neoliberiste. • Co-produzione “Co-produzione” è un termine maturato all’interno di pratiche sociali in cui i fruitori di servizi di welfare vengono coinvolti nel progettare i servizi di cui sono beneficiari-> tecniche che presuppongono una partecipazione attiva che spesso stimola il ricercatore ad esplorare cose a cui non aveva pensato e vedere il partecipante come partecipazione attiva Si riferisce a uno scambio tra operatori e beneficiari oppure tra accademia e società civile e indica uno slittamento del paradigma di collaborazione tra differenti attori sociali, proponendo una relazione in cui professionisti e cittadini condividono il potere e riconoscono i contributi che ciascuno porta al processo di produzione del sapere. La co-produzione può essere considerata come un tipo di ricerca partecipativa in cui il sapere è co- prodotto, cioè dove ricercatori e partecipanti lavorano insieme su un progetto di ricerca senza privilegiare un tipo di conoscenza alle spese di un altro, producono insieme la ricerca e hanno gli stessi diritti di possederne i risultati. “co-produzione”= mettere a frutto principi di solidarietà e lavorare con le comunità offrendo loro un maggiore controllo sul processo di ricerca e opportunità di imparare e riflettere sulle proprie esperienze. La qualità della ricerca viene arricchita attraverso elementi esperienziali che possono portare in superficie dimensioni prima trascurate dagli esperti. La co-produzione si propone di aprire quello che Homi Bhabha chiama “terzo spazio” tra il sapere esperto dei professionisti e l’esperienza informata degli utenti. Anche il terzo spazio presenta delle ambivalenze e continua a portare le tracce di pratiche gerarchiche che riproducono relazioni di potere. Il potenziale di uno spazio terzo di creare nuovi significati può essere realizzato solo quando i poteri in gioco e le stesse gerarchie che hanno stabilito il sistema di valori necessario per valutare l’esperienza e la qualificazione dei vari esperti possono essere esaminati. includendo la propria posizione sociale e quella dei partecipanti. Longhurst-> “riflessività” come la pratica per esaminare la propria “soggettività incorporata” per acquisire nuove prospettive sulla ricerca ed essere riflessivi sulle implicazioni dei propri metodi, sui valori, i pregiudizi e le decisioni per il tipo di conoscenza che viene generata. La conoscenza generata è sempre uno specchio della posizione sociale del ricercatore, situato all’interno di determinate coordinate spaziali, temporali, sociali e della sua esperienza corporea e biografica. Negli ultimi anni, l’adozione di approcci riflessivi è cresciuta e in numerosi articoli di restituzione dei risultati di ricerca gli autori seguono una modalità simile a quella della scrittura etnografica. Si riscontra una consapevolezza crescente rispetto al ruolo dei partecipanti come parte integrante nei processi di costruzione del sapere. Il ricercatore non viene più visto come colui che estrae sapere e lo trasmette a un pubblico: è invece intrinsecamente imbrigliato nella costruzione del sapere, per la particolare prospettiva che adotta in relazione ai propri temi e con riferimento alle decisioni che vengono prese circa le modalità con le quali questo sapere viene presentato e diffuso. Riflessività metodologica= attenzione alle implicazioni non solo dei risultati della ricerca, ma anche dei metodi e degli approcci che si usano. I valori del ricercatore possono entrare in gioco nella pratica di ricerca, così come le sue emozioni, nel momento in cui si sviluppa un processo di empatia durante il lavoro di campo-> comune nelle metodologie qualitative (osservazione partecipativa o metodi creativi) “il lettore ha il diritto di essere informato sulle finalità della ricerca, le aspettative, ambizioni e comportamenti che lo studioso porta sul campo, poiché senz’altro influenzeranno non solo come vede le cose ma anche cosa vede”. Nei metodi creativi “adottare un approccio riflessivo” significa rivolgere un’attenzione particolare alle implicazioni delle scelte epistemologiche che vengono effettuate nel momento in cui si decide di intraprendere il processo di ricerca usando specifici strumenti creativi. Il sapere generato attraverso la ricerca creativa è sempre il risultato dell’interazione tra il posizionamento del ricercatore e quello dei partecipanti nel contesto sociospaziale, culturale e temporale in cui si trovano. “essere riflessivi” significa ammettere che la ricerca non può essere scevra da valori, e riconoscere che il posizionamento dei ricercatori, cioè il loro genere, età, orientamento sessuale, etnia ecc. avranno un impatto sulla scelta del tema di ricerca, sulla costruzione del dato e sulla sua analisi. • “STANDPOINT THEORIES”, POSIZIONAMENTO E SAPERI SITUATI Il sistema di valori di riferimento dei ricercatori influisce, orienta e dà forma alla ricerca riflettendo posizioni politiche e orientamenti etici. La ricerca femminista ha sviluppato l’idea del posizionamento per rendere più trasparente il processo di ricerca da un punto di vista etico e per riconoscere le relazioni di potere che sono inevitabilmente inscritte nei rapporti di ricerca. Rendere chiaro il proprio punto di vista significa rifiutare posizioni neopositiviste sulla possibilità di accedere a una conoscenza oggettiva della realtà e allo stesso tempo riconoscere un grado di soggettività nella produzione del sapere socioscientifico. Negli anni ’80 la critica femminista iniziò a occuparsi di modalità differenti di produzione del sapere-> “standpoint theories” il posizionamento sociale di una persona determina la sua prospettiva sul mondo. La maggior parte di queste teorie sono radicate nel femminismo socialista e articolano una critica ai sistemi di oppressione quali il patriarcato e il capitalismo. Il posizionamento nasce da una critica alle standpoint theories, alcune autrici sostengono che focalizzandosi solo sul patriarcato e sul capitalismo, le standpoint theories non pongono la necessaria attenzione ad altri sistemi ugualmente oppressivi, per esempio il razzismo e il colonialismo. Donna Haraway, saperi situati= il processo di ricerca implica sempre una presa di posizione e per riconoscere che sia il ricercatore che il partecipante occupano posizioni particolari che devono essere esplicitati. Haraway, “oggetività”-> la ricerca non può essere neutra: il sapere così come la verità sono sempre parziali e non possono essere separati dall’esperienza vissuta del ricercatore. “Posizionamento” significa anche riconoscere che l’esperienza catturata durante il processo di ricerca è soggettiva, intrisa di rapporti di potere e relazionale cosicché i valori personali, i possibili pregiudizi e le ideologie non possano essere ignorati. La ricerca femminista ha contribuito allo svilupparsi di nuovi approcci metodologici come l’uso di metodologie creative e partecipative-> esempio Vacchelli studio donne migranti Per usare metodi creativi è importante che il ricercatore abbia conquistato la fiducia del gruppo con cui lavora nel corso di laboratori o le diverse attività che i metodi creativi prevedono. Posizione insider= il ricercatore presenta una continuità culturale, linguistica, etnica e/o di nazionalità con il gruppo che studia (esempio professionisti che fanno ricerca nel proprio gruppo di lavoro) Posizione outsider= ricercatore senza questi elementi di continuità con i soggetti di ricerca. Una persona può essere considerata insider per certi aspetti della propria identità e outsider per altri. Nella ricerca qualitativa, la posizione di insider è vista come un privilegio, poiché permette al ricercatore di beneficiare di livelli aggiuntivi di fiducia e apertura. Tuttavia, quando i ricercatori sono insiders sia i partecipanti che i ricercatori possono trovarsi d’accordo su istanze relative alla ricerca senza acquisire la giusta distanza. I ricercatori outsider sono spesso visto come coloro che si trovano nella posizione migliore per poter raccogliere dati e in un certo senso beneficiano di una certa distanza, nonostante i possibili ostacoli che possono esperire nell’accedere al campo di ricerca. Ma anche i ricercatori outsiders non possono considerarsi completamente oggettivi e neutrali garantendo così una distanza dall’influenza di prospettive personali. Una componente etica e relazionale complementare al posizionamento è quella dello spazio sicuro IL “MEMORY WORK” Frigga Haug lo sviluppa negli anni ’80 come metodo collettivo femminile consistente nello scrivere, in terza persona, il racconto di un ricordo in relazione a un tema. Vari elementi possono essere usati per innescare il processo di ricordo che permette di scrivere un racconto su un evento/situazioni specifici. Tutte le storie vengono poi lette e analizzate dal gruppo come se l’autrice non fosse presente e discusse pensando alle implicazioni per la situazione se, anziché una donna, il protagonista fosse un uomo. L’obiettivo è quello di costruire una spiegazione sociale del ruolo del genere all’interno delle relazioni e nelle attività quotidiane. Si passa poi a una seconda fase di scrittura, su una rivisitazione del primo tema o su un secondo tema. • SPAZIO SICURO Per “spazio sicuro” si intende la creazione di un ambito in cui le persone si sentono di poter esprimere le proprie idee senza per questo venire giudicate. Le sue origini risalgono alla seconda ondata del femminismo occidentale quando le donne necessitavano di separarsi dallo sguardo maschile e creare artificialmente un ambito e un linguaggio che fosse in grado di rappresentarle. Il concetto di “spazio sicuro” si sviluppa nell’ambito della geografia umana, che rappresenta un punto di riferimento per l’analisi dello spazio sociale e la sua essenza. Lo spazio non è mai concettualizzato come un contenitore neutro, al contrario va collocato in quanto spazio sociale generativo di relazioni sociali. Lo spazio è conteso, soggetto a negoziazioni attraversato da conflitti e rotture. Tali conflitti contribuiscono anche a configurare il suo significato e ad aprire la possibilità di assumere nuovi modi di essere e di relazionarsi. Rachel Pain-> idea che lo spazio in sé possa essere declinato in base al genere proprio attraverso la costruzione sociale della percezione del rischio e dalla paura che ne consegue. È importante considerare in che modo creare un’arena capace di integrare le differenze e le potenziali vulnerabilità dei partecipanti nel momento in cui decidono di condividere le proprie esperienze personali e le proprie narrazioni autobiografiche. Lo “spazio sicuro” è stato definito come la pratica di stabilire regole di comportamento e linee guida per conversazioni. Lo spazio sicuro dovrebbe essere un ambito inclusivo all’interno del quale le persone sono libere di esprimere la propria identità in assenza di vincoli. Il concetto di “sicurezza” si riferisce qui alla dimensione fisica, psicologica, sociale e che implica l’assenza di pericolo e paura. Lo “spazio sicuro” presenta una serie di contraddizioni. I rapporti di potere in atto nello spazio sicuro fanno sì che alcuni corpi possano sentirsi sicuri in uno spazio al quale sentono di appartenere legittimamente, mentre altri ne sono esclusi. Esempio comunità yogiche nelle quali il corpo riveste un’importanza centrale. • Lo spazio sicuro nella pratica didattica e di ricerca I ricercatori che cercano di costruire un ambito che sia abbastanza sicuro per condividere esperienze personali devono quindi considerare accuratamente le relazioni che stanno creando, prendendo in esame la relazione tra partecipanti, le implicazioni della scelta del luogo dove si svolge la ricerca, valutando se la relazione interpersonale che si sviluppa tra il ricercatore e i partecipanti sia fondata o meno sulla fiducia reciproca come fattore fondante per la condivisione di esperienze personali. “spazi sicuri”= spazi in cui gli educatori cercano di dare forma al processo di apprendimento in modo che gli studenti si possano confrontare su problemi di carattere diverso Lo spazio sicuro è potenzialmente controproducente all’interno di strategie pedagogiche che vedono l’uscire dalla propria zona di comfort come un passaggio necessario di approfondimento. Altri studiosi invece sostengono l’importanza centrale dello spazio sicuro, da un punto di vista pedagogico-> responsabilità degli educatori creare uno spazio sicuro per evitare la ritraumatizzazione di popolazioni disagiate. Il “trauma” viene definito come quel momento in cui una persona perde la sensazione di avere uno “spazio sicuro” in cui ritirarsi, inteso come spazio fisico o spazio interiore, per processare emozioni o esperienze difficili e si traduce poi in una ferita interiore che interferisce con la capacità di relazionarsi vedersi valutata positivamente e finanziata una proposta di attività di ricerca basata su metodi non tradizionali. • Pluralità di ruoli, varietà di attori I metodi creativi hanno un forte potenziale per essere utilizzati in indagini dal carattere interdisciplinare. I metodi creativi permettono una composizione interdisciplinare del gruppo di ricerca. Fare ricerca interdisciplinare collaborativa è difficile, è un processo constante di traduzione. Sarà necessario dedicare tempo e attenzione affinché sia garantito lo spazio per apportare il proprio contributo a ciascun componente del gruppo di ricerca. Possono far parte di quest’ultimo anche professionisti esterni al mondo della ricerca più strettamente intesa in particolare artisti. È possibile che sorgano tensioni e complessità nella collaborazione ricercatore-artista, che è possibile gestire tramite: • Chiarimento delle aspettative reciproche ed espressione delle proprie idee • Individuazione della sinergia tra rappresentazioni della realtà attraverso linguaggi differenti • Valorizzazione della complementarietà delle competenze e delle abilità Per creare lo spazio sicuro il ricercatore si attribuisce un ruolo di facilitatore del processo di narrazione. Si può ritenere opportuno adottare un approccio di co-produzione in cui il ricercatore compartecipa al processo di creazione. In questo caso può essere investito del ruolo di facilitatore un componente del gruppo di ricerca oppure un esperto appositamente reclutato. Spesso le ricerche che adottano metodi creativi hanno una tensione trasformativa, per cui è importante gestire la relazione con decisori delle politiche per un dialogo sui temi e sui contesti dell’indagine, il ricercatore assume il ruolo di intermediario tra i decisori e il contesto/gli attori sociali della ricerca. • Costruzione del dato Prendere parte a una ricerca con metodi creativi costituisce un’esperienza per vari aspetti diversa dal coinvolgimento in una ricerca con metodi tradizionali. Una peculiarità del processo di costruzione del dato con metodi creativi riguarda la dimensione del tempo, da cui conseguono necessità di gestione e organizzazione. Il processo di esplorazione e di espressione in cui i partecipanti utilizzano mani e corpo richiede un coinvolgimento dei partecipanti relativamente lungo e la suddivisione in più fasi. Il coinvolgimento del partecipante spesso si estende rispetto al solo momento della costruzione materiale del dato. Alla fase della costruzione del dato segue solitamente una discussione riflessiva. Questa modalità di procedere consente al partecipante: • Di esprimere la logica/le motivazioni/ le ragioni delle scelte e delle azioni compiute durante la realizzazione • Di essere investito anche dell’interpretazione del dato. • Analisi Il processo di ricerca con metodi creativi si caratterizza per tre aspetti: • L’approccio collaborativo alla costruzione del significato del dato che permette di corroborare e fornire credibilità alle esperienze dei partecipanti • L’analisi del dato complessivo, che comprende congiuntamente aspetti verbali, non verbali e processuali • Le tecniche di analisi applicate ai dati costruiti con metodi creativi seguono in genere le medesime fasi • Vi è una certa sovrapposizione tra la fase della costruzione del dato e quello dell’analisi. L’impiego di metodi creatici si accompagna alla convinzione che anche le persone che ricoprono il ruolo di partecipanti abbiano una propria capacità di dare origine a interpretazione e osservazioni interessanti e rilevanti. I ricercatori che utilizzano metodi creativi sono dipendenti dalla ricostruzione, fatta dai partecipanti, del contesto attorno al dato prodotto. Nelle ricerche che si inquadrano in un approccio trasformativo il coinvolgimento dei partecipanti/co-ricercatori nell’analisi del dato è un obiettivo a cui tendere che nella pratica può essere ostacolato da vari elementi ma viene facilitato grazie alla scelta di un processo in cui può orientarsi anche qualcuno che non è del mestiere • L’analisi viene compiuta su dati eterogenei che comprendono diversi elementi. Ci sono i dati verbali (esempio trascrizione delle interviste o delle narrazioni) e i dati visuali che sono di due tipi (dati prodotti con i metodi creativi che hanno un aspetto visuale come i collage e racconti digitali o registrazioni audiovisuali con cui i ricercatori documentano la pratica e le interazioni) e i dati “incorporati” che includono una vasta gamma di elementi: elementi fisici, i segnali emotivi e le dinamiche tra i partecipanti. • Sebbene gli specifici dettagli e lo strumentario analitico possano variare a seconda dello specifico impianto e disegno della ricerca ci sono delle linee guida generali. 3.1.4.1 Livelli dell’analis i • è necessario organizzare e codificare tutto il materiale prodotto. La codifica del materiale raccolto avviene in due passaggi. Il primo codifica separatamente i diversi elementi che compongono il dato (visuale, sonoro, verbale ecc) e il secondo codifica trasversalmente i materiali a disposizione a seconda dello specifico interesse di ricerca. La codifica dipende molto dalle scelte analitiche del ricercatore. • si procede con l’analisi vera e propria, l’approccio analitico varia in relazione al disegno della ricerca. Per orientare l’analisi utilizziamo lo schema proposto da Culshaw per identificare i livelli di analisi dei materiali visuali. Il primo livello di analisi si muove su un piano descrittivo e si applica, separatamente, ai diversi elementi che compongono il dato. Il secondo livello di analisi riguarda la dimensione simbolica, culturale e discorsiva: quali significati trasmette o evoca, quali sono i legami e le connessioni che si possono stabilire con i vocabolari di significato condivisi. Il terzo livello di analisi riguarda l’interpretazione complessiva, gli specifici nodi di attenzione sono connessi al tema della ricerca ma ci sono linee guida che possono essere adottate rispetto ai diversi fuochi di attenzione. Un primo fuoco di attenzione riguarda il rapporto tra verbale e materiale (se armonico o contradditorio). Un secondo fuoco concerne la simmetria, cioè se tutto ciò che è presente nell’artefatto o nella performance è commentato e discusso oppure se ci sono elementi che non entrano nella narrazione. O se ci sono elementi della narrazione verbale che non corrispondono a nulla di quanto raccolto. Un terzo fuoco di attenzione prende in esame gli elementi di comparazione, qualora il disegno della ricerca le preveda. Un quarto livello di analisi riguarda la messa a fuoco del ruolo del ricercatore nella ricerca stessa, in relazione al processo di costruzione del dato e ai partecipanti coinvolti. Molte ricerche che utilizzano i metodi creativi adottano la pratica di restituire ai partecipanti i risultati della ricerca chiedendo loro un feedback-> processo back-talk stimola la riflessività del ricercatore e permette di generare nuovi dati, valida l’esperienza e il sapere dei partecipanti e serve come strumento di verifica e validazione dei risultati prodotti. • L’INTEGRAZIONE CON ALTRI METODI DI RICERCA I metodi creativi si prestano in maniera naturale e particolare a essere utilizzati insieme ad altri metodi (tradizionali e creativi). Le prime sperimentazioni di integrazione tra metodi tradizionali e creativi sono state compiuto nell’ambito della PAR. Fusione tra intervista qualitativa e strategie di elicitazione-> uso della fotografia per stimolare il racconto del partecipante veicolando la produzione di informazioni attraverso le corde dei sentimenti e dei ricordi. Esempio di integrazione studio Enduring Love? Condotto in Gran Bretagna da Jacqui Gabb e Janet Fink. I momenti quotidiani sono stati usati come lente attraverso cui esplorare l’esperienza della vita di coppia acquisendo informazioni su processi, significati e temi analitici trasversali e al contempo su sentimenti ed emotività. • METODI CREATIVI IN MOMENTI CHIAVE DELLA RICERCA Una delle ragioni per adottare metodi creativi nella pratica di ricerca deriva dall’intenzione di esplorare dimensioni della vita sociale che potrebbero passare inosservate utilizzando tecniche tradizionali. • IL DISEGNO Butler-Kisber utilizza per definire la costruzione del disegno della ricerca l’analogia della preparazione della tabella di marcia per un viaggio-> per il disegno di ricerca se i piani sono stati fatti con cura, si riduce al minimo il rischio che qualcosa possa andare storto. In questa fase alcune tecniche creative impiegate solitamente nel momento della costruzione del dato possono essere adattate e impiegate dal ricercatore per riflettere su aspetti relativi alla concettualizzazione della domanda di ricerca e per: • Salvaguardare il rapporto tra teoria e metodo favorendo una costante attenzione alla costruzione dell’oggetto di ricerca • Rivelare aspetti del tema di cui tenere conto nella fase della costruzione del dato • Mettere a fuoco la relazione tra il ricercatore e l’oggetto della ricerca, i suoi vincoli e i modi per trascenderli Il disegno della ricerca prende le mosse dalla relazione tra il progetto e gli interessi del ricercatore. Questi si sedimentano nel corso di vari anni. Esercizio “il fiume della vita”-> utilizzato per rompere il ghiaccio in attività di gruppo, anche nell’ambito della ricerca partecipativa. Si collocano, in una linea del tempo disegnata su una lunga striscia di carta, eventi ed episodi legati all’insorgere e al consolidarsi di questo interesse andando il più possibile indietro nel tempo. Mappa concettuale (spider diagram)-> ossia un modo per collegare idee tra loro, sotto forma di diagramma che segue una logica gerarchica per fare una rappresentazione dell’ambito da studiare. Metodo storyboard-> per certi versi assomiglia al fumetto ed è una fase del metodo videopartecipativo, più raramente è usato come metodo a sé stante. È espressivo, in quanto situato all’intersezione tra arte visiva statica (disegno), dinamica (film) e testuale (narrazione) e multimodale in quanto incorpora testo e immagine. • LA TRASMISSIONE La trasmissione dei risultati di una ricerca viene progettata e realizzata in funzione dei molteplici destinatari verso cui il ricercatore intende rivolgersi e con cui intende dialogare. comune. I partecipanti si mostrano combattuti tar il voler raccontare storie altamente personali e il volere che nessuno ne sappia nulla. • Secondo giorno-> l’obiettivo del secondo incontro è aiutare i partecipanti a fissare le loro storie nella sequenza biografica personale e creare un corrispettivo testo scritto. Il ruolo dei facilitatori è fondamentale per la composizione delle storie, anche supportando partecipanti con specifiche difficoltà. I facilitatori riportano il progresso fatto nel riuscire a definire i contorni della storia da raccontare. • Terzo giorno-> Nel terzo giorno i partecipanti, ancora supportati dai facilitatori, concludono la preparazione delle storie. Questo traguardo è vissuto con emozione: durante la proiezione, tenutesi a fine giornata molti hanno “riso e pianto”. Sia ai partecipanti sia ai facilitatori è stato chiesto di riflettere sulla propria esperienza-> emerge la consapevolezza di un’esperienza positiva sul piano più generale del coinvolgimento nel processo di ricerca, del percorso terapeutico personale e dell’impatto sulla pratica professionale. • IMPATTO DEL PROGETTO SUL SISTEMA SANITARIO E CONSIDERAZIONI SUL METODO Nell’arco di tre anni vengono raccolte una sessantina di racconti digitali, individuando luoghi confortevoli per lo svolgimento degli incontri, da giardini in estate a caffetterie nei mesi invernali. Con ogni gruppo il lavoro di co-costruzione delle narrazioni è intenso e presenta peculiarità esempio storie difficili da raccontare e da ascoltare. Eppure, il processo attentamente definito, lo spazio sicuro predisposto e rispettato, la considerazione e l’ascolto garantiti ai partecipanti fanno sì che questi riescano ad attingere, anche in questa occasione, alle risorse necessarie per costruire il proprio racconto. L’integrazione di Patient Voices nelle attività dell’ente di Manchester comporta alcuni cambiamenti nelle pratiche organizzative e determina un aumento della qualità dei servizi. Hardy e Summer mettono a fuoco gli aspetti imprescindibili per l’utilizzo di questo metodo con persone affette da patologie mentali: • Il lavoro di co-costruzione deve svolgersi in un ambiente sicuro e piacevole, facilmente raggiungibile e dove vi sia la possibilità di servire un rinfresco • La facilitazione è essenziale e occorre integrare nel gruppo ulteriori facilitatori se i partecipanti sperimentano difficoltà aggiuntive legate a problemi di apprendimento, demenza o paranoia • Il benessere dei componenti del gruppo di ricerca va preservato, per esempio attraverso supervisioni Se nel processo si attuano questi criteri allora i partecipanti possono trarre un qualche beneficio dall’esperienza estenuante di raccontare la propria storia. • QUESTIONI METODOLOGICHE ED EPISTEMOLOGICHE: IL FILO ROSSO TRA VIDEO PARTECIPATIVO, VIDEO-DIARIO E RACCONTO DIGITALE Gli artefatti digitali sono l’esito di pratiche di autorappresentazione monomediale o multimediale, multimodale e multisensoriale. Permettono ai partecipanti di essere attivi e riflessivi nel rappresentare la propria identità e condividere la propria narrazione anche in continuità con una tradizione culturale del racconto orale di storie comunitarie e individuali. Rappresentano un mezzo efficacie per stimolare empatia. Le autonarrazioni attraverso artefatti digitali hanno un potenziale nel favorire processi di cambiamento. Tale cambiamento, veicolato dalla facilità con cui una storia videonarrata da una prospettiva individuale o di gruppo può essere posta all’attenzione dei decisori politici, è favorito: • Dal disvelamento di esperienze dirette di emarginazione che la loro creazione implica • Dal riconoscimento, emergente durante il processo, dei punti di forza su cui basare nuove e collettive possibilità di trasformazione del contesto. L’autonarrazione attraverso un artefatto digitale come processo e prodotto della ricerca è capace di rispondere alla sollecitazione di considerare la corporeità come un oggetto privilegiato della riflessione sociologica. Gli artefatti digitali sono importanti quanto il processo mediato attraverso cui vengono creati • Il racconto digitale prevede la creazione di un breve video assemblando la narrazione di uno spaccato della biografia della persona, dalla stessa appositamente redatta, corredata da sue fotografie, oggetti, immagini e musiche autoselezionate • Il video partecipativo è un processo dinamico di apprendimento e condivisione che coinvolge un gruppo nella creazione di un filmato sull’esperienza della comunità nel quale si utilizzano un insieme di tecniche e in cui ciascun partecipante ricopre un ruolo • Il metodo dei video-diari implica la registrazione audiovisiva da parte del partecipante, durante un periodo più o meno esteso, di momenti autoselezionati riguardanti e rappresentanti la sua vita e la sua esperienza quotidiana ! nei manuali internazionali i video-diari rientrano nella classificazione di film etnografico e ricerca basata su video e non di metodi visuali partecipativi. • LA RICERCA: PRIMA, DURANTE E DOPO Tre fasi: prima (disegno della ricerca), durante (costruzione del dato, analisi), dopo l’esecuzione (comunicazione della ricerca). • DISEGNO DELLA RICERCA In termini di disegno della ricerca, questi metodi si prestano a essere utilizzati in contesti diversi e per ricerche che toccano una molteplicità di temi e soggetti Il racconto digitale si è sviluppato come uno strumento di intervento e di cambiamento in una comunità. Le ricerche che adottano questo metodo si muovono in svariati ambiti. Ne sono esempi interessanti due ricerche con giovani donne, entrambe svolte in Canada: il lavoro di Martin e colleghi sull’esperienza di violenza subita da studentesse universitarie da partner non conviventi e quello di LaMarre e Rice sul tema della guarigione dai disturbi alimentari. Il video partecipativo, grazie alla sua flessibilità, si è diffuso come metodo di ricerca in numerosi contesti, sia nella ricerca-azione in paesi del Sud globale, sia in studi che analizzano realtà geograficamente più prossime. Il metodo dei video-diari, per la sua inclinazione a favorire un’espressione e una comunicazione di sé in modi significativi e contestualizzati, è stato utilizzato nella ricerca su e con i giovan, con persone anziane, pazienti cronici o persone con disabilità fisica o mentale. Si presta a essere utilizzato in ricerche qualitative longitudinali, che mirano a esplorare come i soggetti si trasformano nel tempo, in studi incentrati sull’esplorazione di vissuti e rappresentazioni della temporalità e in analisi che si occupano dei cambiamenti percepiti all’interno di una comunità o un quartiere. Inoltre, sono stati utilizzati in contesti specifici come lo studio delle organizzazioni o nello studio di tematiche specifiche (sessualità, esperienza migratoria, sport). I diversi metodi basati sulla costruzione di artefatti digitali possono essere usati come tecniche complementari in una più ampia strategia di raccolta dati attraverso metodi tradizionali, e si prestano a essere integrati tra loro in uno stesso processo di ricerca e a essere adattati a seconda delle specifiche necessità. Una volta definito l’ambito di ricerca, è importante pianificare la strategia di reclutamento, a seconda dello scopo di ricerca: in genere si deve decidere tra una ricerca su uno specifico caso studio e una ricerca comparativa. Generalmente il reclutamento segue le strategie che vanno dai contatti diretti o mediati da organizzazioni o conoscenti ad annunci diffusi attraverso media e social media. Ai potenziali partecipanti possono essere mostrati artefatti digitali preparati appositamente come esempi o costruiti in ricerche precedenti per far meglio comprendere il processo che li vedrà coinvolti. Vi sono delle specificità che caratterizzano il reclutamento: • I potenziali partecipanti spesso attribuiscono all’artefatto digitale un forte potenziale di rappresentazione della loro condizione a chi è esterno al gruppo o non vive quella situazione • Le ricerche che utilizzano il racconto digitale e il video partecipativo hanno un impatto sull’intera comunità: il contesto sociale e comunitario dei partecipanti va attentamente valutato nella definizione del processo di ricerca. • Si tratta di metodi in cui i ricercatori condividono il controllo della ricerca con i partecipanti, i quali potrebbero avere altre priorità rispetto a quelle dei ricercatori oppure idee differenti rispetto al processo o agli esiti desiderabili, portando la ricerca in direzioni diverse e inattese- > il disegno della ricerca include spazi e momenti dedicati a esplorare le motivazioni dei partecipanti nella loro congruenza o distanza rispetto a quelle attese dai ricercatori, tenendo conto di quanto rilevato al fine di effettuare eventuali aggiustamenti al processo di ricerca. • Nella pratica del processo di costruzione dell’artefatto digitale potrebbe essere difficoltoso essere direttivi nella guida dei partecipanti. È consigliabile partire da una domanda ampia che permetta a partecipanti e ricercatori di esplorare anche la complessità e i diversi aspetti dei temi oggetti di attenzione. Nelle fasi preliminari è importante capire quali figure e ruoli includere nel lavoro di campo: montatori, tecnici audio-video, facilitatori, personale sociosanitario assistenziale, personale che lavora con i bambini. Le figure di facilitatori/consulenti sono utilizzate in diversi modi: figure con competenze nel sostegno psicologico o persone con competenze tecniche. • COSTRUZIONE DEL DATO I dati prodotti includono elementi verbali, visuali, corporei e spaziali e includono sia gli artefatti prodotti sia il processo complessivo di elaborazione, realizzazione e condivisione. Per dato si intende: • Il rapporto tra ricercatori e partecipanti nel processo di costruzione dell’artefatto digitale • L’impatto del processo sui partecipanti • Il dato complessivo prodotto come amplificazione della voce e espressione dell’identità delle persone coinvolte. Il tipo di dato generato attraverso il racconto digitale, il video partecipativo e il video-diario si Joe Lambert-> sette elementi di base della storia perché sia efficace: • Il punto di vista, che dovrebbe essere in prima persona • La struttura, che dovrebbe essere semplice e lineare • Il contenuto emotivo, che aiuta l’ascoltatore a empatizzare • La voce che racconta • La colonna sonora • L’economica della narrazione • Il ritmo Il gruppo deve essere uno spazio sicuro e non giudicante, all’interno del quale i partecipanti devono sentirsi liberi di esplorare le loro idee con la garanzia di confidenzialità. Nella prima fase del laboratorio si comincia con la condivisione delle storie in un “cerchio delle storie”: i partecipanti sono invitati a raccontare la propria storia davanti al gruppo. A tutti deve essere garantito lo stesso tempo per presentare e condividere (dai 10 ai 30 minuti). Il dialogo con il gruppo è spesso generativo di nuovi punti di vista e riflessioni che possono essere incorporati nel racconto. Per stimolare il cerchio delle storie si possono usare giochi di ruolo, da tavolo o di gruppo, oppure stimoli visuali o raccontati. In molti casi il racconto delle proprie storie è un momento in cui si condividono anche emozioni intense: è importante che il ricercatore “chiuda il cerchio”, cioè tiri le fila di quanto discusso, prima che i partecipanti comincino a lavorare individualmente. L’obiettivo della prima fase è la definizione degli storyboards delle singole storie. Uno storyboard consiste in una visualizzazione grafica della sceneggiatura: i partecipanti devono decidere cosa inquadrare e per quanto tempo e cosa associare a quella specifica sequenza. La fase successiva del laboratorio consiste nella realizzazione del racconto digitale: i partecipanti registrano la propria voce, scelgono la musiva e assemblano gli elementi. L’obiettivo è la realizzazione del prodotto finale di racconto digitale. Il terzo giorno è dedicato alla proiezione collettiva dei video realizzati dai partecipanti, seguita da una discussione relativa all’esperienza di realizzazione e di fruizione del racconto digitale. Nel caso in cui la discussione avvenga in gruppo, i partecipanti hanno modo di confrontarsi con le reazioni altrui alla storia che raccontano. Al termine del processo, ciascuno riceve una copia del suo racconto digitale. Il ricercatore analizza poi l’intero processo di realizzazione in una fase successiva. Il processo descritto si tratta di una guida generale che deve essere adattata ai contesti specifici. Video-diari Il processo ha una dimensione meno collettiva e meno legata a una logica di narrazione sequenziale. Dopo aver selezionato i partecipanti vi è un incontro nel quale il ricercatore fornisce loro le indicazioni e gli elementi di base per la realizzazione dei video-diari. Spesso il primo incontro include un’intervista/questionario per raccogliere alcune informazioni sociodemografiche di base. Tra le indicazioni spesso sono incluse linee guida etiche. In genere con le istruzioni si tratta di specificare in dettaglio i temi da raccontare e il periodo di tempo durante il quale realizzare i video-diari, lasciando autonomia su tempi e luoghi delle riprese, sulla durata e sulle tecnologie da usare. A seconda del disegno di ricerca e delle disponibilità economiche, ai partecipanti vengono prestate videocamere portatili o si chiede loro di utilizzare qualunque dispositivo atto alla registrazione e di consegnare poi il video-diario in un formato concordato. Al termine del periodo concordato, il ricercatore raccoglie i video-diari e intervista i partecipanti in merito alle registrazioni e al processo di realizzazione del prodotto finale. Nelle ricerche che utilizzano un consenso processuale è il momento in cui si chiede conferma della possibilità di usare le registrazioni. I partecipanti hanno capacità diverse di gestire gli strumenti visuali, così come stili e linguaggi differenti e legati ai diversificati riferimenti culturali. Sono i partecipanti a scegliere cosa mostrare, quanto condividere di sé e se rendersi o meno visibili nelle videoregistrazioni. Video partecipativo Comprende una fase preparatoria: nel momento che si tratta di un metodo usato all’interno di una comunità specifica, la fase di contatto, reclutamento e presentazione del progetto è di particolare importanza per costruire la collaborazione, anche quando il ricercatore stesso è parte della comunità. La realizzazione di un video partecipativo richiede un equipaggiamento tecnico di buon livello. Il video partecipativo varia a seconda del tipo di prodotto creato e del tipo di postproduzione effettuata. In senso classico, si tratta di un gioco di ruoli diviso in più gruppi, ciascuno composto da un intervistatore, un cameraman, un addetto all’audio e un intervistato; la modalità ludica riduce le asimmetrie di potere e il fatto di conoscersi permette di superare eventuali imbarazzi. Il processo si tratta di fare un brainstorming iniziale con i partecipanti per selezionare il tema individuale o collettivo, familiarizzare con gli strumenti audiovisivi e portare l’intero gruppo ad acquisire le competenze necessarie per girare, montare ed editare un video, realizzare il video e poi mostrarlo alla comunità. La storia prodotto è collettiva e la comunità a cui viene mostrata è quella dei partecipanti. Il rapporto collaborativo tra i partecipanti e di scambio guidato da una figura di facilitazione sono un elemento centrale. Una volta raggiunto l’impatto desiderato all’interno della comunità in questione, l’obiettivo è raggiungere un’audience più ampia. Nella creazione del video partecipativo si possono utilizzare due approcci: raccogliere video- diari o racconti digitali prodotti individualmente dai partecipanti e montarli successivamente in un racconto collettivo, oppure girare collettivamente un video (participatory filmmaking). Nella pratica tradizionale, il video partecipativo consiste in una o più interviste e implica tre ruoli specifici: un tecnico video, che ha la responsabilità delle riprese, un protagonista/intervistato e un tecnico audio, che spesso funge anche da intervistatore o un intervistatore tout court. Nella fase di brainstorming e ideazione dello storyboard si utilizzano diverse tecniche per identificare le priorità e il contenuto: • Si chiede ai partecipanti di produrre una mappa della comunità per identificare le persone o personaggi o luoghi importanti da inserire nel racconto • Costruzione di una linea del tempo collettiva, in cui i partecipanti definiscono i punti di svolta temporali della storia della comunità. La fase di montaggio e postproduzione è realizzata dal ricercatore, in collaborazione con i partecipanti. Al termine della realizzazione, il video viene mostrato ai partecipanti; alla proiezione segue poi una discussione di gruppo sul processo di realizzazione e sull’effetto del video. Vengono poi organizzate proiezioni collettive nella comunità locale e poi con audience più ampie. Alla conclusione del lavoro è importante che il ricercatore abbia un momento di saluto con i partecipanti. La durata del processo varia a seconda della disponibilità di tempo dei partecipanti e del ricercatore e del disegno di ricerca. • L’ANALISI L’analisi dell’artefatto multimediale non può essere separata dal processo che ha portato alla sua (co)- produzione. L’insieme della documentazione di ricerca ottenuta durante l’utilizzo di questi metodi comprende diversi tipi di dati. L’analisi degli artefatti digitali non si limita al prodotto finale ma a tutto il processo messo in atto per realizzare l’autonarrazione digitale in questione. Dopo avere organizzato i dati, bisogna codificare il diverso materiale. Per quanto riguarda il materiale visuale una codifica basilare riguarda l’identificazione di cosa viene mostrato. Se il dato verbale è primariamente un dato sonoro la codifica riguarda i temi che vengono trattati e gli elementi non verbali del sonoro. La codifica riguarda poi anche il materiale prodotto dal ricercatore in termini di osservazione del processo. Nel caso dei video partecipativi la codifica riguarda le dinamiche di interazione tra i partecipanti. Dopo aver codificato i diversi elementi singolarmente, si tratta di codificarli trasversalmente. In questo caso i codici variano a seconda dell’interesse di ricerca. Il primo livello di analisi riguarda la descrizione dei dati raccolti sulla base delle codifiche effettuate. Il secondo livello di analisi riguarda una lettura dei dati in chiave intertestuale e contestuale, cioè connettendo gli elementi della narrazione alla società complessiva. Il terzo livello di analisi riguarda complessivamente l’autonarrazione prodotta: di che storia si tratta? L’analisi tematica rappresenta una modalità molto diffusa nelle ricerche con gli artefatti digitali, come conferma lo studio di Wexler, Eglinton e Gubrium in cui i racconti digitali vengono analizzati in quanto rappresentazioni della quotidianità e valori di giovani Inupiaq in Alaska. Sempre a questo livello di analisi ci si potrebbe chiedere se i diversi materiali che compongono la narrazione concorrono a raccontare la medesima storia o se emergono delle divergenze. Un approccio molto usato dai ricercatori che usano i racconti digitali e il video partecipativo à l’analisi critica del discorso, che considera il rapporto tra le performance identitarie e il contesto complessivo delle relazioni di potere che rendono alcune esperienze e identità più visibili di altre. Un’altra modalità utilizzata è quella che si ispira all’analisi conversazionale ed esamina come i partecipanti co- producono e attivano identità multiple. Il terzo nodo per l’analisi complessiva dei dati riguarda la comparazione tra le storie proposte e tra dati costruiti con metodi creativi e dati raccolti con metodi tradizionali. Rispetto al primo tipo di comparazione un esempio è la rivcerca di Vacchelli e Peyrefitte nella quale • USARE IL COLLAGE CON DONNE MIGRANTI IN LONDRA La ricerca sulla salute mentale delle donne migranti che accedono ai servizi assistenziali a Londra si proponeva di analizzare le esperienze di popolazioni vulnerabili, nonché di mettere in luce le eventuali discriminazioni subite e le loro interconnessioni. La ricerca consiste in due laboratori svolti con donne richiedenti asilo, rifugiate e/o con background etnico, scelte tra le fruitrici di due servizi locali. Durante i laboratori hanno realizzato dei collage relativi alla propria esperienza e la discussione che ne è seguita è stata registrata digitalmente. La scelta di questo approccio è legata a diversi ordini di considerazioni. In primo luogo, si trattava di prendere atto della condizione di vulnerabilità dei soggetti da intervistare e la delicatezza dei temi da affrontare-> la realizzazione di un artefatto sia un punto di partenza meno invasivo, più rispettoso, la cui realizzazione e discussione permette di cogliere sfumature che rischierebbero di perdersi in uno scambio esclusivamente verbale. Un altro elemento decisivo era legato al fatto che reclutare partecipanti per un’attività concreta e potenzialmente divertente poteva essere più semplice che reclutare partecipanti per discutere temi personali e complessi. In secondo luogo, dal punto di vista epistemologico si tratta di una scelta legata alla considerazione per cui l’esperienza delle fruitrici dei servizi passa anche attraverso il corpo e si serve di strategie comunicative non necessariamente logocentriche, specialmente quando la lingua madre dei partecipanti non è quella nella quale si svolge l’interazione. Il processo utilizzato è quello di un “workshop” = laboratorio in cui il processo usato per generare i dati diventa il sito privilegiato per la produzione del dato qualitativo. I metodi creativi permettono di costruire una relazione nella quale le differenze sono messe in gioco, nel momento in cui sia la pratica del collage sia la discussione in merito chiamano in causa saperi diversi e di diversi tipo e, in ogni caso, sono i partecipanti a decidere cosa condividere. • NEGOZIARE I RAPPORTI SUL CAMPO Il reclutamento delle partecipanti è avvenuto tramite le due associazioni che si sono prestate a collaborare. È stato proposto di partecipare al laboratorio corrispondendo un rimborso delle spese di viaggio e un voucher di riconoscenza per la partecipazione al laboratorio. L’esperienza dei due laboratori è stata molto diversa. Nel primo caso il laboratorio si è svolto con donne che frequentano la sede locale dell’Evelyn Oldfield Unit (EOU), un’associazione di assistenza ai rifugiati. Data la familiarità pregressa con molte delle partecipanti, l’organizzazione del laboratorio non è risultata non è risultata problematica e l’atteggiamento delle donne coinvolte, in larga parte di origine subsahariana, era generalmente positivo e collaborativo, di agio e convivialità. Nel secondo caso le donne coinvolte avevano familiarità con i servizi offerti dall’associazione Room to Heal ma non avevano beneficiato di un contatto precedente al laboratorio. Nessuno dell’organizzazione era presente nel giorno del laboratorio. Nonostante questo, le donne coinvolte decisero invece di partecipare alle attività proposte. L’organizzazione del lavoro in questo laboratorio è stata complicata anche dal fatto che alcune partecipanti sono arrivate in ritardo, interrompendo la presentazione iniziale. Il materiale per fare i collage consisteva in: cartoncini, una serie di riviste, materiali come tessuti e paillettes, forbici, colla. Alle partecipanti è stato chiesto di fare un collage che in qualche modo potesse rappresentare il loro viaggio verso il Regno Unito e la loro esperienza di accedere ai servizi di salute mentale una volta arrivate. Il primo gruppo comincia subito il lavoro mentre il secondo sembra avere più difficoltà. Mostrare al secondo gruppo alcune foto di collage realizzati con il gruppo precedente si dimostra una strategia utile. Durante i laboratori le donne hanno lavorato autonomamente, chiacchierando e scambiandosi riviste e materiali. Nel momento della raccolta dei racconti, molte donne hanno preferito parlare direttamente con la ricercatrice invece che condividere la propria storia con il resto del gruppo (soprattutto nel primo laboratorio). Al termine è stato chiesto alle partecipanti se preferissero portare a casa il collage o lasciarlo in sede: tutte hanno preferito la seconda opzione. • COME INTERPRETARE I DATI RACCOLTI ATTRAVERSO IL COLLAGE Dopo aver trascritto le registrazioni, il processo di codifica e analisi dei dati ha preso in esame in maniera combinata racconto e collage nei termini di una narrazione complessa. Il racconto ha permesso di situare e interpretare le immagini e i ritagli, analizzandone la posizione e la relazione con gli altri elementi del collage e la storia nel suo complesso, nel suo farsi e materializzarsi, nella sua dimensione temporale e nelle sue contraddizioni. Alcuni collage sono composti soprattutto da ritagli di parole, mentre altri sono composti da immagini, evocative o rappresentative. Le storie raccontate nei collage si combinano, talvolta in maniera contradditoria con la narrazione a parole. I collage e le storie restituiscono un vissuto di discriminazione e di resilienza personale che contribuiscono a illustrare le esperienze di accesso ai servizi e prestare ascolto a narrazioni che ne individuano gli ostacoli e il tipo di aiuto ricevuto. • QUESTIONI METODOLOGICHE ED EPISTEMOLOGICHE: ARTEFATTI E DISEGNO DELLA RICERCA Per “artefatti” intendiamo la costruzione, la trasformazione e l’utilizzo di oggetti durante il percorso ricerca. Gli artefatti sono di diverso tipo per esempio “scatole dell’identità” (scatole generalmente di cartone che includono elementi diversi, scelti dai partecipanti, che ne rappresentano l’identità). Gli artefatti confluiscono nella ricerca sociale qualitativa da campi e attività, approcci e contesti disciplinari eterogenei. Quando si vogliono usare in un processo di ricerca bisogna tenere conto di alcuni aspetti: • La materialità degli oggetti ne orienta l’uso • La materialità ha un effetto sul rapporto con l’oggetto • I partecipanti costruiscono oggetti con i materiali a disposizione e al tempo stesso li manipolano. In questo modo, da un lato costruiscono un nuovo oggetto, e dall’altro danno un nuovo significato ai materiali usati per costruirlo. La costruzione di artefatti come metodi creativi si posizione all’intersezione con altri metodi, visuali e art-based: • I metodi visuali fanno ricerca sulle e con le immagini: gli artefatti possono essere intesi anche come una rappresentazione visiva dell’esperienza individuale. A differenza dei metodi visuali, costruire o comporre un artefatto implica la manipolazione fisica di elementi materiali. Nella ricerca con gli artefatti anche il processo stesso di manipolazione è oggetto di analisi. • I metodi art-based impegnano i partecipanti nella pratica artistica come metodo di ricerca. I metodi creativi di costruzione di artefatti sono più circoscritti rispetto a quelli art-based, visto che non includono pratiche come la messa in scena teatrale o la poesia. Gli artefatti possono essere usati in combinazione con altri metodi-> “approccio mosaico”. La costruzione di artefatti può essere intesa invece come strumento centrale di costruzione del dato. Alcuni studiosi invece ne circoscrivono l’utilizzo ai casi in cui i metodi tradizionali non possono essere impiegati a causa della particolare situazione di vulnerabilità dei partecipanti. In relazione alla costruzione di artefatti si suppone che gruppi sociali o individui in situazione di vulnerabilità accettino con maggiore interesse di partecipare a un tipo di ricerca che chieda loro di fare piuttosto che di dire qualcosa. Più recentemente si è sviluppata una seconda prospettiva di utilizzo della costruzione degli artefatti come metodo diretto invece ai gruppi sociali più centrali e meno vulnerabili, al fine di suscitare una “tensione creativa” -> la costruzione di artefatti sia una pratica potenzialmente inusuale e proprio per questo in grado di attivare riflessioni alternative rispetto agli script routinari. • LA RICERCA: PRIMA, DURANTE E DOPO • Prima: disegno della ricerca • Durante: costruzione del dato, analisi • Dopo l’esecuzione: comunicazione della ricerca. • DISEGNO DELLA RICERCA Il ruolo della costruzione di artefatti all’interno delle diverse fasi di ricerca è strettamente connesso alle scelte metodologiche del ricercatore. La costruzione di artefatti come tecnica di produzione del dato può essere intesa come uno strumento adatto a ricerche esplorative al fine di mettere a fuoco diversi aspetti ed elementi di un tema, oppure per afferrare il senso di un fenomeno nel suo farsi, lavorando attraverso concetti emergenti. Oppure, questa tecnica può essere utilizzata nella fase finale della ricerca come follow- up, verifica o approfondimento dei risultati ottenuti con i metodi tradizionali. Nella maggior parte delle ricerche la costruzione di artefatti è posizionata nella fase centrale della ricerca, come metodo principale di costruzione del dato. La costruzione di artefatti può essere svolta singolarmente o in gruppo. La scelta è legata agli obiettivi della ricerca e alla logica applicata nella scelta del metodo. Da un lato la costruzione di artefatti può essere scelta per le possibilità che offre di accedere a dimensioni dell’esperienza altrimenti inaccessibili attraverso i metodi tradizionali. Dall’altro, la costruzione di artefatti con una o più persone costruisce un ponte relazionale tra i diversi individui coinvolti. Impegnare le persone nel costruire qualcosa insieme permette di facilitare la comunicazione in generale, di costruire una narrazione condivisa e anche l’espressione e la gestione del disaccordo sul piano concettuale, linguistico e valoriale. Lavorare in gruppo non implica necessariamente costruire un oggetto insieme: può anche implicare essere all’interno di uno spazio condiviso ma lavorare a un progetto individuale. Talvolta la costruzione di un artefatto è rilevante come un metodo di attivazione di relazioni, e il prodotto realizzato passa in secondo piano. Una forma spesso usata è quella del laboratorio, in cui i partecipanti costruiscono un artefatto al centro dell’incontro. I laboratori che utilizzano i mattoncini durano dalle 3 ore a un giorno intero. Dopo una breve introduzione, il ricercatore-facilitatore esprime un problema, una sfida, un tema e chiede ai partecipanti di costruire una “soluzione” con i mattoncini. Al termine della costruzione i partecipanti spiegano all’intero gruppo il significato dell’oggetto costruito in relazione al tema iniziale. Questo processo viene ripetuto più volte all’interno del laboratorio, al fine di stimolare l’esplorazione di diversi aspetti di una questione. “community music”: consiste in un workshop durante il quale si produce una scrittura collettiva di musica e testo in relazione a una questione specifica. Si tratta di un metodo utilizzato nell’ambito degli studi sui fenomeni migratori e la migrazione forzata come forma di ricerca non invasiva e partecipativa, che riconosce la dimensione emozionale della musica e la considera uno spazio sicuro per esprimere paure e speranze. BOX 5.1 L’INTERVISTA CON GLI OGGETTI-> gli oggetti che ci circondano sono parte della nostra quotidianità. Diversi studiosi hanno riconosciuto la loro importanza e ne hanno incorporato il ruolo nell’analisi sociale. Ragionare intorno agli oggetti permette di attivare un processo di intervista che produce dati ricchi e complessi intorno alla realtà sociale condivisa. BOX 5.2 LA LINEA DEL TEMPO. CREATTIVITA E DIMENSIONE TEMPORALE-> la linea del tempo è uno strumento che consiste nel chiedere ai partecipanti di disegnare una linea su un foglio e di posizionare lungo questa linea eventi significativi o di svolta. La linea del tempo può essere individuale o collettiva e può riguardare la storia individuale oppure riferirsi a un aspetto specifico. La linea non è necessariamente retta. • L’ANALISI La costruzione di artefatti può essere uno strumento utile per stimolare percorsi di riflessione alternativi. Una volta organizzati i dati il primo passaggio consiste nella codifica del materiale a disposizione: la trascrizione delle interviste e l’oggetto prodotto. La codifica delle interviste può essere finalizzata a far emergere le emozioni chiamate in causa in relazione a specifiche domande o a mettere in evidenza i diversi elementi connessi a uno specifico tema. La codifica dell’oggetto può includere per esempio il tipo di materiali usati, la taglia, le forme e i colori, l’organizzazione spaziale della composizione e la relazione tra i diversi elementi in termini bi o tridimensionali. La codifica trasversale serve a mettere in relazione i diversi elementi che compongono il dato. Il primo livello di analisi consiste nella descrizione, fattuale degli elementi che compongono l’artefatto. Il secondo livello di analisi prende invece in esame gli elementi simbolici e culturali. Il terzo livello di analisi consiste nell’interpretazione complessiva del dato prodotto->Di che storia si tratta?. Un secondo nodo dell’analisi complessiva riguarda la coerenza (o divergenza) che emerge considerando come i dati concorrono alla narrazione. L’analisi comparativa include anche, dove previsto dal disegno della ricerca, una dimensione comparativa. Infine, l’analisi può riguardare anche il ruolo del ricercatore nel costruire, stimolare, limitare, alcune narrazioni. • LA COMUNICAZIONE DEI RISULTATI In termini di comunicazione dei processi attuati e dei risultati ottenuti nell’ambito di progetti di ricerca in cui si è fatto ricordo alla costruzione di artefatti, le esperienze sono varie e spaziano dalle pubblicazioni accademiche, su volumi e riviste, a situazioni in cui un pubblico più o meno specialistico può osservare installazioni e materiali di ricerca e/o sperimentare a sua volta la creazione artistico/artigianale. Frequentemente le ricerche che utilizzano metodi creativi pongono attenzione al formato della restituzione pubblica dei risultati della ricerca anche per ragioni epistemologiche. Il corredo delle immagini del materiale occorrente concorre a raccontare il processo di costruzione dell’artefatto, mentre le immagini di alcuni artefatti realizzati dai partecipanti sono parte integrante dell’analisi e della presentazione dei risultati. Nel caso di specifiche modalità di ricerca la restituzione è parte integrante del processo di ricerca. Anche per questo motivo ai prodotti più tradizionali spesso si accompagno altre forme di divulgazione quali installazioni artistiche. Altri mezzi utilizzati sono reportage fotografici e documentari, mostre, blog accademici e generalisti. In alcuni casi l’artefatto entra solo come forma di restituzione dei risultati di ricerche sviluppate con metodi tradizionali. L’artefatto ben si presta a essere utilizzato in momenti di coinvolgimento di pubblici non specialistici, in attività di disseminazione o di sensibilizzazione rispetto a una tematica o una situazione sociale, o di pubblici già sensibilizzati nell’ambito di una pratica attivista. • LIMITI E PUNTI DI FORZA • PUNTI DI FORZA L’uso della costruzione di artefatti ha diversi punti di forza. Sul piano etico-epistemologico, la costruzione di artefatti permette un riequilibrio nell’asimmetria tra ricercatore e ricercato, nella misura in cui sono i partecipanti a decidere cosa mostrare e come impostare il lavoro di costruzione e di discussione e sono i partecipanti a dettare i tempi di costruzione degli artefatti. Si tratta si un metodo accessibile a tutti. È un metodo che lascia ampia libertà e autonomia. I partecipanti potrebbero trarre beneficio dalla pratica di costruzione ricavandone un senso di empowerment sia in relazione alle capacità pratiche sia in relazione alla dimensione riflessiva che tali attività innescano. Si tratta di attività con ampio potenziale di catarsi, soprattutto nel caso di ricerche che coinvolgono traumi o dimensioni di vulnerabilità. Sul piano metodologico, si tratta di un metodo particolarmente adatto nel caso di: • Temi di ricerca delicati e sensibili • Partecipanti in condizione di vulnerabilità • Situazioni in cui ricercatore e partecipanti hanno un profilo sociodemografico molto diverso, che può rendere difficili capirsi. • PUNTI DI DEBOLEZZA Sul piano epistemologico gli elementi di debolezza riguardano alcune dimensioni, in particolare in relazione all’attenzione centrata sull’individuo e sulla storia individuale, che rischia di mettere in ombra la dimensione strutturale, e in relazione all’impegno emotivo che questi metodi richiedono ai partecipanti e al ricercatore. Una debolezza riguarda il tema della proprietà, più in generale alcune critiche riguardano il fatto che il ricercatore si appropria della produzione artistica di voci che rimangano celate nella loro individualità. Sul piano metodologico, a un livello generale le possibili difficoltà riguardano l’integrazione tra arte e ricerca. Le critiche rimandano alla dimensione della “serietà” dei risultati di ricerca prodotti con questa tecnica. Inoltre, gioco, emozione e creatività sono generalmente aspetti associati all’infanzia e non a una seria ricerca scientifica. In secondo luogo, possono sorgere dubbi di ordine culturale: nel senso comune, la creatività e il rigore sono considerati elementi tra loro distanti. In questo senso da un lato, il fatto che le persone comuni siano coinvolte nella costruzione di artefatti creativi rischia di essere percepito come una volgarizzazione del gesto artistico. Dall’altro la creatività e l’arte sono caratterizzate da unicità e ispirazione, mentre la ricerca scientifica pone attenzione alla replicabilità; e la ricerca sociale, nella maggior parte dei casi, si concentra sugli aspetti che caratterizzano la società in generale, con l’obiettivo di evidenziare tendenze, più che anomalie. Un secondo ordine di questioni riguarda la possibilità di diffondere e standardizzare il metodo in termini di criteri di utilizzo, di applicabilità e di valutazione delle ricerche che utilizzano gli artefatti. CAP.6- METODI PERFORMATIVI: FARE RICERCA CON IL CORPO E CON LO SPAZIO L’attenzione al corpo e alla performatività, nelle scienze sociali, ha radici di lungo periodo ed è l’oggetto di una solida e crescente letteratura. Tre metodi: il teatro, il body-mapping storytelling e l’intervista itinerante. La ricerca utilizzata per introdurre tali metodi è di Maggie O’Neill, una delle studiose maggiormente riconosciute nell’ambito degli studi denominati walking methods. La ricerca illustra un uso innovativo dell’intervista itinerante. • CAMMINARE COME METODO BIOGRAFICO Maggie O’Neill ha perfezionato un metodo che ha chiamato Walking Interview as a Biographical Method (WIBM) applicandolo ed esplorandone le implicazioni nell’ambito di studi su migrazione, memoria, paesaggio urbano. Nel biennio 2015-2016 O’Neill beneficia di una Leverhulme Research Fellowship per la ricerca grazie alla quale esplora il camminare come metodo per condurre ricerche attorno ai temi dei confini, del rischio, dell’appartenenza. Il metodo WIBM è stato usato per una serie di quattro camminate incentrate sul tema del lavoro sessuale che la ricercatrice ha svolto in alcune città del Regno Unito e del Canada. Camminata del 2017 in un’area dell’Inghilterra nord-orientale: come fase preparatoria all’intervista in cammino realizza un laboratorio nell’ambito di un progetto sul tema delle tecniche di teatro interattivo promosso dalla compagnia di teatro femminista Open Clasp all’interno di un centro per donne senza fissa dimora. Durante il laboratorio la ricercatrice è affiancata da alcuni operatori sociali del centro e da due componenti dello staff della compagnia teatrale. Dopo aver introdotto il concetto di “intervista in cammino”, la ricercatrice chiede alle partecipanti di immaginare una passeggiata preferita o quotidiana, e di disegnarla su un foglio. Diverse partecipanti creano una mappa dei loro percorsi quotidiani e luoghi favoriti, raccontando il percorso e spiegandone i suoi significati, ma solo una di loro esprime il desiderio di proseguire l’attività guidando la ricercatrice nel tratto di città disegnato. La conversazione lungo la passeggiata viene audioregistrata. Durante il cammino, la partecipante condivide alcuni elementi e luoghi chiave della sua biografia. Nel camminare, O’Neill e McHugh (direttrice creativa del teatro) si sentono in sintonia con la storia, sperimentano dal punto di vista visivo e sensoriale le esperienze e le riflessioni della partecipante sugli essere visto come una forma di problem solving collettivo che apre spazi di dialogo e cambiamento. • Il “teatro partecipativo” è inteso semplicemente come riferimento generale, come stimolo che mette in luce il fatto che la scrittura collettiva intorno a esperienze traumatiche, perché permettono un distacco tra l’azione che si svolge sul palco e quella subita o esperita. Si lavora sulla distinzione tra attore e spettatore, ma cogliendo le opportunità di questa dissociazione, che permette di raccontare la propria storia attribuendola a qualcun altro, con un minor carico emotivo. • IL DISEGNO DI RICERCA CON IL “BODY-MAPPING STORYTELLING” Il body-mapping nasce come strumento terapeutico, utilizzato in particolare in alcuni contesti a partire dagli anni ’90 nell’ambito di progetti di gestione ed educazione riproduttiva o relativi alla malattia. Nel tempo, si è sviluppato il suo uso come strumento di ricerca. Il body-mapping storytelling è un metodo accessibile a tutti, che non richiede conoscenze pregresse. Per questo motivo è utile nel caso di ricerche con soggetti fragili o con limitata alfabetizzazione o, più in generale, nel caso di temi di ricerca particolarmente carichi emotivamente, dei quali può essere difficile discutere o rispetto ai quali manca un vocabolario, verbale ed emotivo. Questo metodo è utilizzato in due prospettive: • La prima riguarda l’esplorazione di una specifica esperienza rispetto alla quale il dato corporeo riveste un’importanza centrale. Inoltre, si tratta di uno strumento adatto per esplorare il rapporto con le esperienze spazializzate, per esempio le molestie nello spazio pubblico. La struttura dell’intervista ha un andamento simile e prende in considerazione elementi del passato, l’identità e le condizioni attuali, le risorse di supporto all’identità e a un progetto futuro. L’obiettivo generale è quello di usare la rappresentazione del corpo per facilitare la raccolta dati. • Una seconda prospettiva pone attenzione alla relazione che il corpo instaura con oggetti ed elementi situazionali esterni, che a loro volta lo definiscono e lo modificano. Le domande che guidano l’intervista e il dialogo con i partecipanti spesso si discostano dalla traccia. Il processo di costruzione della propria mappa corporea e la discussione possono svolgersi individualmente oppure insieme a un gruppo. In questo caso i partecipanti condividono uno spazio e lavorano individualmente alla propria mappa. Molti ricercatori suggeriscono di offrire ai partecipanti la scelta se partecipare in gruppo o individualmente. Nel caso di workshop in gruppo i ricercatori preferiscono gruppi numericamente ridotti per favorire l’intimità e la discussione. La composizione dei gruppi dipende dalle domande di ricerca e dalla strategia di selezione dei partecipanti. In alcuni casi è preferibile avere gruppi omogenei, in altri è rilevante mantenere un’eterogeneità per ascoltare voci diverse. 6.3.1.3 IL DISEGNO DI RICERCA E L’INTERVISTA ITINERANTE Le radici dei metodi che esplorano i fenomeni sociospaziali attraverso la pratica del camminare affondano nelle prime riflessioni sulla vita urbana. L’interesse nella ricerca sociale si è riacceso in parallelo all’affermarsi dell’approccio delle mobilities e alla conseguente attenzione all’esperienza socioindividuale nello e dello spazio. Kowalewski e Bartlomiejski identificano quattro diversi utilizzi del camminare nella ricerca sociale contemporanea: • Il camminare come strumento di supporto ad altri metodi di ricerca • La camminata solitaria • Il camminare come pratica sperimentale o artistica • L’intervista itinerante Variabili dell’intervista itinerante: • Percorso • Partecipanti • Durata • Chi decide la strada L’intervista itinerante permette di esplorare: • Le percezioni e le rappresentazioni di un luogo • Le pratiche spaziali e l’infrastruttura sociale di tali pratiche • Le connessioni tra la biografia individuale o la storia collettiva e lo spazio • Le comunità e i gruppi sociali, nonché le loro interazioni • La dimensione sociopolitica di un luogo identificando temi e luoghi rilevanti o controversi per una comunità oppure studiando la dimensione politica degli spazi. L’intervista itinerante è utilizzata in quattro prospettive diverse, che si differenziano a seconda del livello di strutturazione dell’itinerario: • Walk-along o go-along-> tecnica che combina l’intervista e l’osservazione partecipante e che assomiglia allo shadowing si tratta infatti, di accompagnare una persona durante attività relativamente quotidiane e ordinarie, mantenendo al contempo una conversazione. Il ricercatore non interviene nell’itinerario. La conversazione può essere simile a un’intervista in profondità ma anche a un’intervista semistrutturata. • Guided tour o walinking interview-> il ricercatore sollecita il partecipante a creare uno specifico itinerario in relazione a una domanda di ricerca. Il percorso risponde all’interesse sollevato dal ricercatore, rispetto al quale i partecipanti sono “esperti”. Altre ricerche che utilizzano questo metodo, per esempio, chiedono a persone recentemente immigrate di raccontare come vivono la nuova città, oppure interrogano gli abitanti di un quartiere in merito all’organizzazione della vita locale • L’itinerario è deciso dal ricercatore, scegliendo un percorso che utilizza i luoghi come stimoli generali di elicitazione. Il ricercatore decide in anticipo il percorso, con un chiaro vantaggio in termini di comparabilità, dato che gli intervistati sono sottoposti ai medesimi stimoli. In altri casi il ricercatore può scegliere di portare i partecipanti in luoghi a loro sconosciuti, allo scopo di indagare i processi di interpretazione e adattamento in uno specifico luogo. • Si usa il camminare insieme senza meta per facilitare la conversazione, anche grazie agli stimoli visuali; in alcuni casi può essere un modo per sottrarre i partecipanti allo sguardo della comunità in cui vivono. Il reclutamento dipende dall’obiettivo primario della ricerca: a volte è importante raccogliere le voci omogenee per esplorare l’esperienza di una specifica popolazione all’interno di uno spazio. In altri casi l’eterogeneità è invece un vantaggio, permettendo di cogliere le sfaccettature. Alcuni disegni di ricerca prevedono una conversazione che si svolge esclusivamente tra ricercatore e partecipante, altri invece valorizzano una dinamica di gruppo per sollecitare una conversazione. Spesso l’intervista itinerante è il principale metodo di ricerca è combinata con altri strumenti. • LA COSTRUZIONE DEL DATO • LA COSTRUZIONE DEL DATO NEL TEATRO PARTECIPATIVO La pratica teatrale permette una distanza riflessiva dall’esperienza. Attraverso la messa in scena, i partecipanti trascendono la propria esperienza individuale e la ricollocano in uno spazio generale, collettivo, che riguarda la vita sociale. Per il suo carattere attivista e non gerarchico e per la messa a tema dei rapporti di potere, la pratica del teatro partecipativo risulta in particolare consonanza con le epistemologie femministe. A partire da una scena specifica, i partecipanti risalgono in generalità e spesso chiamano in causa temi correlati, articolando una discussione approfondita sui diversi aspetti di un tema specifico. Essendo un metodo collettivo i partecipanti hanno modo di confrontarsi con le storie altrui: il teatro partecipativo apre uno spazio di riflessione e di confronto intorno a un tema. La performance attoriale diventa multivocale, l’interpretazione è collettiva. In questo senso, i dati prodotti sono tanto individuali quanto collettivi. I partecipanti interpretano diversi ruoli e per poterlo fare e per capire se e come modificare quei ruoli devono esplorarne il punto di vista. La discussione intorno ai personaggi restituisce in maniera ricca e dettagliata la trama sociale e le sue dinamiche. Il materiale di ricerca prodotto consiste in materiali visuali e verbali dei laboratori e della performance, oltre al diario di campo del ricercatore. Si tratta di dati in cui l’elemento non verbale è molto importante e i partecipanti sono coinvolti anche dal punto di vista fisico, sensoriale ed emotivo, oltre che verbale. • LA COSTRUZIONE DEL DATO NEL “BODY-MAPPING STORYTELLING” Il body-mapping storytelling offre la possibilità di leggere le relazioni sociali inscritte nell’esperienza corporea individuale: permette di esplorare le dinamiche sociali e spaziali a partire dalle storie dei singoli. Spinge i partecipanti a concentrarsi sul proprio corpo, incoraggiandoli a riflettere sulla loro esperienza incorporata. Il processo di costruzione di una mappa corporea in genere è più lungo di un’intervista: i partecipanti sono incoraggiati a riflettere attentamente e in profondità rispetto a come vogliono rappresentare l’esperienza vissuta. I dati che emergono sono spesso più ricchi e complessi anche perché si tratta di un’intervista focalizzata. La mappa del corpo permette ai partecipanti sia di “uscire da sé” sia di entrare in contatto profondo con la propria esperienza corporea: la mappa del corpo è una visualizzazione e oggettificazione del sé, che stimola un processo autoriflessivo. Al termine del processo il ricercatore avrà una mappa corporea visuale, disegnata e decorata dal partecipante in risposta agli stimoli; un racconto verbale dell’esperienza specifica intorno a cui ruota la ricerca; una legenda per decodificare gli elementi simbolici della mappa. • LA COSTRUZIONE DEL DATO NELLE INTERVISTE ITINERANTI: IL SÉ-NEL-MONDO Le interviste itineranti concettualizzano il camminare non come uno spostarsi da un posto all’altro ma in una prospettiva relazionale, che considera lo spazio come co-prodotto. La relazione con lo Dal momento che i laboratori possono attivare emozioni intense, è importante prevedere anche una fase di chiusura della sessione e una cerimonia di conclusione del lavoro di gruppo, nel caso di laboratori ripetuti. In alcuni casi il ricercatore sceglie di raccogliere interviste o questionari a complemento dell’attività di messa in scena, nel caso in cui, per esempio, sia interessato a capire quali stimoli sono stati raccolti durante l’attività. • IL “BODY MAPPING-STORYTELLING” NELLA PRATICA I ricercatori sottolineano che spesso i potenziali partecipanti sono molto titubanti alla prospettiva di impegnarsi nella produzione di materiale percepito come artistico. È importante chiarire che l’abilità artistica non è rilevante e che l’estetica del prodotto finale non è oggetto di interesse né di giudizio. Il numero di incontri è variabile. La necessità di lasciare ai partecipanti il tempo necessario per sviluppare la mappa deve essere bilanciata ponendo attenzione a non rendere troppo oneroso l’impegno temporale, per evitare l’abbandono della ricerca. Spesso le ricerche si svolgono durante il fine settimana, talvolta concentrando diverse sessioni in un solo giorno o alla sera. La prima parte del primo incontro è dedicata al racconto della ricerca e a stabilire le norme di comportamento condivise. Il ricercatore illustra il tema generale, suggerendo ai singoli partecipanti di porre attenzione alla postura per la propria mappa corporea. La mappa può essere di diverso tipo: standard o personale, a grandezza naturale oppure disegnata su un foglio A4. L’unicità della mappa personale riveste una grande importanza. Il materiale a disposizione dei partecipanti è vario. Lo spazio deve essere sufficiente per potersi muovere e disegnare le mappe corporee e assicurarle al contempo interazione e privacy. Il ricercatore dovrà avere a disposizione un taccuino dove annotare le osservazioni e un registratore digitale. Le mappe sono delicate: è importante pensare in anticipo a come conservarle ed eventualmente trasportarle senza rovinarle. Se necessario il processo di costruzione delle mappe corporee può includere la presenza di un facilitatore o di un assistente. Molti ricercatori sottolineano l’importanza di porre attenzione alle emozioni dei partecipanti e di prevedere momenti di chiusura e di passaggio al termine di ogni seduta. Il processo di costruzione della mappa procede in genere per fasi successive, stimolate dal ricercatore il quale è importante che ricordi sempre che sono i partecipanti a decidere cosa mostrare. La guida per la costruzione della mappa offerta dal ricercatore può essere in forma verbale o consistere in un breve stampato e distribuito ai partecipanti con qualche stimolo ulteriore. Il percorso di body-mapping storytelling dipende dalla domanda di ricerca e in genere si tratta di un adattamento dello schema proposto da Solomon. A ogni fase è dedicato un incontro e, al termine di ogni fase, ai partecipanti viene chiesto di disegnare sulla mappa, nella posizione che preferiscono, un simbolo che li rappresenta. Alla fine del processo, ai partecipanti viene chiesto di scrivere o rappresentare sulla mappa un “messaggio” per gli altri, rispetto al tema oggetto della ricerca. Nel caso in cui la mappa corporea viene prodotta durante un solo incontro, in genere le domande del ricercatore sono meno dettagliate. Nella versione tradizionale del body-mapping storytelling i ricercatori chiedono ai partecipanti, prima di iniziare, anche un breve testo di autopresentazione, oppure dieci parole chiave per descrivere l’esperienza che li riguarda e che sarà oggetto della ricerca. Inoltre, al termine del progetto si chiede di produrre una legenda scritta che chiarisca il significato simbolico degli elementi usati. Durante la pratica di costruzione della mappa, il ricercatore annota le interazioni tra i partecipanti e registra le reazioni affettive rispetto alle mappe. Le mappe corporee sono uno stimolo per una discussione intorno all’esperienza e/o al tema indagato, discussione che si svolge durante la creazione della mappa e/o al termine, individualmente tra partecipante e ricercatore o in gruppo. In molti casi la ricerca prevede entrambe le fasi: un primo momento di discussione comune e un secondo momento di intervista individuale. Le mappe vengono fotografate e le conversazioni interviste registrate. Linee guida pratiche: teatro partecipativo • Preparazione: assicurarsi di avere accesso a uno spazio adeguato; decidere insieme ai partecipanti quando incontrarsi • Laboratorio: assicurarsi che tutti abbiano l’opportunità di prendere la parola; considerare eventuali tensioni; ricordarsi di mettere in atto un’attività di chiusura • Messa in scena pubblica: assicurarsi di avere l’accesso a uno spazio adeguato; decidere insieme ai partecipanti al laboratorio chi metterà in scena lo spettacolo; registrarlo • LE INTERVISTE ITINERANTI NELLA PRATICA Le interviste itineranti possono essere svolte con una sola persona o con un gruppo, a seconda del disegno della ricerca. In molti casi prima di procedere con il reclutamento, il ricercatore familiarizza con lo spazio che vuole studiare prendendo nota di quanto ha modo di osservare e di eventuali domande e curiosità specifiche. In alcuni casi il disegno della ricerca prevede una fase preliminare all’intervista itinerante, durante la quale viene chiesto al partecipante di tracciare l’itinerario. Questo momento iniziale di confronto è particolarmente importante nel caso di ricerche che coinvolgono una popolazione marginalizzata. Dopo il reclutamento è importante stabilire una relazione con la persona intervistata, ma in un momento diverso rispetto all’intervista oppure appena prima di muoversi. Prepararsi per l’intervista itinerante: • Attrezzatura: registratore digitale; microfono portatile; quaderno. Attivare la localizzazione GPS. Smartphone: farsi mandare le foto sul cellulare • Tipo di dati: verbali; osservazione; note/diario; relazione con oggetti; dati visuali; mappe; dati di localizzazione • Come: a piedi; in bicicletta; in auto • Quando: periodo dell’anno; giorno della settimana; momento della giornata • Interazioni sul campo: interazioni con passanti; interazioni con elementi non umani; alcuna interazione In primo luogo, è importante scegliere l’attrezzatura da utilizzare. Spesso i ricercatori si attrezzano con un registratore digitale e spesso un microfono portatile, di quelli che si applicano ai vestiti. Per tenere traccia del percorso si utilizzano strumenti di tracciamento (GPS). Spesso i ricercatori chiedono ai partecipanti di fotografare i luoghi significativi o di cui parlano durante l’intervista. A seconda dell’ampiezza dell’area e delle condizioni atmosferiche, i ricercatori possono scegliere di utilizzare alternative al camminare. È importante essere consapevoli che il come muoversi modifica l’esperienza e richiede specifici accorgimenti. In secondo luogo, è importante decidere il periodo in cui svolgere l’intervista. A seconda del periodo dell’anno l’interazione con i luoghi muta. Il giorno della settimana è altrettanto rilevante. Anche il tempo atmosferico è rilevante. Allo stesso modo, è importante decidere in anticipo l’orario dell’intervista, coordinando le esigenze dei partecipanti con il disegno della ricerca. In terzo luogo, è importante decidere il numero di ricercatori e di partecipanti coinvolti, nonché il tempo dedicato all’attività. Decidere quali ricercatori intervisteranno quali partecipanti è un elemento rilevante per il disegno della ricerca. Nel caso di interviste itineranti di gruppo, è utile che i ricercatori siano almeno in due e che i gruppi non siano eccessivamente numerosi. Nel caso di interviste individuali è possibile suggerire ai partecipanti di coinvolgere una terza persona. La presenza di un accompagnatore, oltre all’intervistato, è spesso utile al fluire della conversazione. In alcuni casi i ricercatori definiscono un tempo da dedicare all’intervista mentre in altri si tratta di una scelta lasciata ai partecipanti. Durante l’intervista è difficile prendere nota e chi usa questo metodo suggerisce di annotare gli elementi rilevanti subito dopo l’intervista e di trascrivere la registrazione il prima possibile. La traccia di intervista è diversa a seconda della specifica domanda di ricerca. Esempi di domande durante la camminata: • Vita quotidiana • Relazioni • Percezione • Generale • Memoria collettiva In alcuni contesti le interazioni con i partecipanti da parte di abitanti o frequentatori del quartiere possono essere numerose: può essere un modo per reclutare nuovi partecipanti. Può essere, anche, una fonte di osservazione di un eventuale disagio o di interazioni negative. Alcuni ricercatori, al termine dell’intervista, chiedono un feedback sul metodo e si assicurano di poter usare tutto il materiale registrato. In alcuni casi i temi sollevati nelle interviste individuali oppure le foto scattate durante i percorsi vengono utilizzate come stimolo per un successivo momento di confronto di gruppo che permette di verificare i dati raccolti, da un lato, e di suscitare una discussione consentendo la raccolta di nuovi dati, dall’altro. • ANALISI In primis è necessario organizzare e codificare i dati: le trascrizioni delle interviste, delle interazioni tra i partecipanti ed eventualmente del testo teatrale; le mappe, i disegni e le fotografie raccolti durante le interviste itineranti, le fotografie o le videoregistrazioni dei laboratori teatrali, le mappe corporee. La codifica delle mappe corporee si concentra specialmente sull’ordine della composizione, la scelta di colori e materiali, le forme, il tipo di immagini incollate, la postura del corpo, gli elementi spaziali. Nel caso delle fotografie raccolte durante le interviste si può considerare l’oggetto della foto. Nella codifica del materiale verbale è importante codificare la forma assunta dalle interazioni durante i laboratori teatrali. La codifica trasversale prende in esame come diversi temi siano raccontati verbalmente, attraverso un’immagine o una performance, ed espressi da un tono di voce. Nel caso del body-mapping storytelling la legenda che i partecipanti hanno fornito al ricercatore è alcuni contesti culturali. Dal punto di vista metodologico questi metodi presentano anche diversi limiti: • Non sono adatti a qualunque tipo di domanda di ricerca • Non funzionano per tutti i possibili attori sociali • Riguarda la dimensione della tutela die partecipanti: potrebbe succedere che i partecipanti non vogliano mostrare le proprie mappe corporee al pubblico. Un ultimo elemento problematico riguarda i possibili limiti tecnici: nel caso delle interviste itinerante, per esempio, le condizioni atmosferiche possono rendere impossibile lo svolgimento dell’intervista itinerante ed è quindi importante avere piani alternativi. Alcuni limiti riguardano il fatto che si tratta di metodi molto onerosi in termini di tempo e complessi dal punto di vista logistico. Talvolta si rischia di promuovere una ricerca partecipativa e di limitarne il potenziale di partecipazione per mancanza di tempo e di risorse. CAP. 7 QUESTIONI ETICHE E PRATICHE NELLA RICERCA CON I METODI CREATIVI • ETICA E METODI CREATIVI Sia nella fase di progettazione di una ricerca sia nella fase di campo i ricercatori si trovano di fronte a moltissime decisioni da prendere. Queste decisioni si definiscono “dilemmi etici” quando la loro soluzione è connessa a una qualche forma di valutazione di cosa sia “giusto” e cosa “sbagliato”. L’etica della ricerca sul campo si sviluppa in linee guida e forme standard in parallelo all’istituzionalizzazione delle diverse discipline. Punto di svolta-> la non completa consapevolezza dei partecipanti, nel caso di Milgram (ricerca sull’omosessualità) così come le negative conseguenze psicologiche e fisiche, nel caso di Zimbardo (sempre ricerca sull’omosessualità) hanno provocato forti critiche e stimolato la comunità accademica a sviluppare linee guida e standard etici da rispettare. In linea generale, si tratta di rispettare le leggi del paese nel quale si svolge la ricerca e, se si tratta di più paesi, anche di quello in cui ha sede l’istituzione responsabile. Dilemmi etici potrebbero verificarsi per diversi ordini di motivo: • Potrebbe accadere che le leggi di due o più paesi siano in contrasto tra loro • Potrebbero sorgere complicazioni nel caso di ricerche che si svolgono in territori sui quali insistono ordinamenti concorrenti, come nei casi di paesi in guerra, o in territori non controllati dal governo centrale. • Durante la sua attività il ricercatore potrebbe essere coinvolto in pratiche illegali o al limite della legalità In alcuni contesti i ricercatori sono tenuti ad aderire a esplicite linee guida e procedure sviluppate al fine di standardizzare alcune norme di base. In linea generale, gli enti finanziatori, sia pubblici sia privati chiedono di inserire nei progetti di ricerca un’esplicita riflessione intorno alla dimensione etica e spesso sono dotati di codici etici con i quali confrontarsi. La riflessione etica è un elemento particolarmente importante, per almeno quattro ragioni: • Si tratta di metodi sviluppati principalmente per tutelare l’autonomia e la dignità di popolazioni vulnerabili attraverso l’uso di metodi rispettosi e non invasivi • Si tratta di metodi costitutivamente aperti all’inatteso, all’imprevedibile, al nuovo. È difficile immaginare in anticipo i potenziali dilemmi etici a cui il processo di ricerca può dare luogo • Spesso gli standard etici sviluppati in relazione ai metodi tradizionali non possono essere applicati direttamente ai metodi creativi • I metodi creativi sono relativamente nuovi e ancora poco utilizzati nella ricerca sociale e mancano linee guida o principi etici condivisi. L’attenzione alla dimensione etica si sviluppa generalmente intorno ad alcune questioni che hanno a che fare con la consapevolezza dei partecipanti, con l’impatto della ricerca sui partecipanti e con la proprietà dei dati. Si tratta di identificare buone pratiche nella gestione del rapporto tra ricercatore, situazione e soggetti studiati, committenza, comunità scientifica e grande pubblico. Il contenuto specifico di queste buone pratiche varia al variare di alcuni elementi. • APPROCCI ALL’ETICA Rose Wiles descrive i quattro approcci etici maggiormente utilizzati nella ricerca sociale qualitativa. Si tratta di approcci che implicano modi differenti di pensare alla ricerca e di affrontare i dilemmi che possono presentarsi. • CONSEQUENZIALISTA utilizza come principio guida le conseguenze delle azioni: un’azione è giusta se produce effetti giusti. Dilemmi etici potrebbero sorgere in relazione alle conseguenze differenziali che una determinata scelta può avere per attori diversi: la “bontà” delle conseguenze potrebbe essere diversa per il ricercatore, i soggetti studiati, la comunità locale, la comunità scientifica o la società nel suo insieme. • Il secondo approccio si basa su PRINCIPI GUIDA DEFINITI E STABILITI PRIMA DELLA RICERCA SUL CAMPO e che non possono essere violati in alcun caso. Tra i principi guida si annoverano il rispetto dell’autonomia e della libertà individuale, la garanzia di correttezza e l’attenzione a non provocare danni o conseguenze negative di alcun tipo ai soggetti studiati. Il ricercatore non potrebbe violare l’anonimato dei partecipanti nemmeno in caso di immediato pericolo per la comunità • CURA proposto da Carol Gilligan e sviluppato poi all’interno degli studi femministi, quello dell’etica della cura è un approccio situazionale che mette al centro il prendersi cura dei partecipanti e della situazione di ricerca. L’etica della cura chiama in causa specialmente i ricercatori che adottano metodi creativi, che spesso si occupano di popolazioni considerate vulnerabili. Tutte le fasi della ricerca sono orientate da una costante attenzione verso il benessere dei partecipanti, del ricercatore, e anche della relazione tra loro. • L’APPROCCIO DEL RICERCATORE VIRTUOSO che concentra l’attenzione sulle “virtù morali” che il ricercatore dovrebbe avere: non tanto un codice deontologico, quanto un’essenza, un certo tipo di personalità, carattere e rigore. Il ricercatore deve essere onesto e non deve appropriarsi dei dati e delle ricerche altrui. I metodi creativi utilizzano generalmente un approccio processuale, spesso vicino all’etica della cura, definito dai momenti “eticamente importanti” che costellano la pratica quotidiana e ordinaria della ricerca, rispetto ai quali il ricercatore deve decidere il migliore corso d’azione. A questi approcci possiamo aggiungerne un quinto specificamente connesso ai metodi creativi: quello del riconoscimento. L’etica del riconoscimento si sviluppa in relazione ai temi dell’anonimato, della visibilità e al ruolo dei partecipanti nella ricerca. L’anonimato, invece che una tutela, potrebbe avere l’effetto di silenziare la voce dei partecipanti, rimettendo in primo piano la voce del ricercatore, che diventa il principale intermediario. In ricerche che coinvolgono i partecipanti nel fare e produrre cose, l’anonimato rischia di negarne il ruolo. In termini di comunicazione dei risultati della ricerca con l’obiettivo di innescare una trasformazione sociale rendere i partecipanti riconoscibili è una strategia per aumentare l’autorevolezza dei risultati. Così come l’invisibilità non implica necessariamente tutela, la visibilità non è però sinonimo di “riconoscimento”, né è emancipatoria. • DILEMMI DI CAMPO: RICERCA, PARTECIPAZIONE, DECISIONI DA PRENDERE Coinvolta in una pratica di autoinchiesta e conricerca, una delle autrici di questo volume scrive con un collega un articolo che racconta i risultati di ricerca. Il lavoro di ricerca si svolge con altri ricercatori attivi in una mobilitazione intorno a una riforma dell’università, e con altri soggetti coinvolti nella stessa mobilitazione. La ricerca non è creativa ma è intesa in una prospettiva partecipativa. I due autori decidono di far circolare il testo tra le persone coinvolte e in una mailing list che include molte persone in mobilitazione. Dalla circolazione emergono due problemi: • Riguarda la competenza di ricerca di chi legge: i due autori hanno trattato le interviste con un’analisi di frames. I lettori che avevano meno familiarità con un approccio sociologico hanno obiettato nel merito, dicendo che le interviste citate presentavano interpretazioni frammentate dello stesso problema che, quindi, il testo era confuso e non inquadrava bene il problema. L’obiettivo del testo era proprio quello di restituire le diverse interpretazioni. Il primo problema è posto dalla diversità dei linguaggi, che ha reso difficile comprendersi. • I due autori hanno messo in luce sia i punti di forza sia i punti di debolezza e le contraddizioni delle mobilitazioni: molti lettori hanno sottolineato gli effetti potenzialmente controproducenti di esporre le debolezze e hanno chiesto quindi di non pubblicare il testo. Il secondo problema riguarda il ruolo ambivalente dei ricercatori come insiders e allo stesso tempo come outsiders. Dal punto di vista etico i ricercatori si sono trovati a dover decidere tra a) pubblicare una ricerca potenzialmente svantaggiosa per i partecipanti, però metodologicamente corretta e dai risultati significativi per il dibattito b) pubblicare una versione emendata dello studio c) non pubblicare • QUESTIONI ETICHE E DILEMMI NELLA RICERCA DI CAMPO I metodi creativi comportano una forte attenzione verso il benessere dei partecipanti. Uno dei dilemmi etici da cui questi metodi si sviluppano è proprio la complessa tensione tra la volontà di dare voce a soggetti marginalizzati e il rischio di parlare al posto di qualcuno, mediandone o silenziandone la voce. Il differenziale di potere tra ricercatore e partecipanti è al centro di molte riflessioni e ha una forte influenza sullo sviluppo dei metodi creativi. Al centro della ricerca sono spesso comunità o popolazioni marginali, in condizioni di difficoltà sociale ed economica. Il ricercatore di solito ha uno status sociale più elevato, non appartiene alla comunità studiata è possessore di un’expertise specifica. Il concetto di “popolazione vulnerabile” o “popolazione in condizione di vulnerabilità” è quindi centrale nella riflessione etica sulla ricerca. In alcuni casi il coinvolgimento di gruppi vulnerabili può essere una fonte di tensione tra ricercatori e comitati etici. La definizione di “vulnerabile” è complessa e contestata. Definire “vulnerabile” un soggetto o una La fase di disseminazione dei risultati di ricerca è sempre delicata in termini di etica della ricerca. Uno dei temi principali riguarda l’anonimato dei partecipanti. Nella pratica può essere difficile, soprattutto nei casi in cui sono coinvolti rappresentanti di gruppi specifici, oppure figure apicali. Può anche accadere che le persone, pur anonimizzate, siano scontente di come sono rappresentate nei report di ricerca. Nelle ricerche che utilizzano metodi creativi, l’anonimato può essere ancora più complicato, per diversi motivi, è difficile rendere anonime tutte le persone coinvolte; spesso i ricercatori che utilizzano questi strumenti scelgono di non rendere anonimi i partecipanti consenzienti e di presentare i dati visuali nella loro interezza. In secondo luogo, i metodi creativi, come quelli partecipativi, spesso sono utilizzati per dare voce a chi voce non ha e per rendere visibili attori sociali, o temi, altrimenti invisibili nello spazio pubblico. In questo senso, le persone coinvolte nella ricerca potrebbero esprimere la volontà di essere riconoscibili e identificabili. Se il ricercatore rende le persone identificabili emerge un ulteriore dilemma etico che riguarda la percezione dei dati a lungo termine: una ricerca che fotografa un momento nel tempo rischia di ancorare una persona al ruolo e alle dichiarazioni espresse in quel momento specifico della sua vita, dalla quale potrebbe volersi allontanare. Brady e Brown chiamano in causa il concetto di time immemorial “tempo immemore” per sottolineare come il prodotto, una volta creato, può vivere per sempre, al di fuori del controllo dei partecipanti e del ricercatore, ed essere accessibile a un’audience ampia e invisibile, che può esprimere giudizi negativi nei confronti dei partecipanti. Un secondo elemento rilevante riguarda l’utilizzo dei metodi creativi nella fase di disseminazione. Anche in questo caso il tema portante riguarda l’identificabilità o meno dei partecipanti: alcuni dei ricercatori che utilizzano questi metodi sottolineano come lavorare a stretto contatto con i partecipanti implichi lasciar loro il diritto di scegliere se essere o meno identificati. In entrambi i casi i ricercatori hanno condiviso le scelte con i partecipanti, riconoscendo loro l’autorialità e quindi il diritto di scegliere cosa mostrare e come farlo. In tema di disseminazione, una questione etica rilevante riguarda anche la proprietà dei dati costruiti attraverso i metodi creativi. È importante sin dall’inizio sia chiarire l’obiettivo di ricerca sia definire la proprietà dei dati, soprattutto nel caso di ricerca che coinvolge pratiche artistiche. Un quarto tema riguarda il delicato rapporto tra l’impatto della ricerca sulla comunità, i soggetti studiati o l’audience più ampia: in alcuni casi è possibile che emergano interessi difficilmente conciliabili. Wiles sottolinea che i practitioner researchers hanno una responsabilità professionale in termini di cura che potrebbe implicare l’obbligo morale e professionale di pubblicizzare i dati raccolti in forma confidenziale. Oppure, i risultati di ricerca prodotti con metodi creativi, che potrebbero prestarsi a essere esposti o diffusi potrebbero non avere un particolare rilievo per l’audience più ampia. Se anche i partecipanti esprimono una volontà di esporre il loro lavoro, accettare di farlo potrebbe avere effetti negativi, rafforzandone la marginalizzazione nel dibattito pubblico. Un luogo, una situazione, una comunità che una ricerca ha contribuito a rendere visibile diventi poi un luogo di attenzione per i media o per altri ricercatori. L’attenzione mediatica potrebbe rafforzare gli stereotipi rispetto ad alcune popolazioni e il ricercatore non ha la possibilità di controllare come i mass media intendono presentare i dati di ricerca che ha prodotto. La pressione per rendere disponibili i dati e i prodotti della ricerca in open access apre anche alla possibilità che i dati vengono riutilizzati in un quadro diversi da quello originario e con obiettivi potenzialmente differenti. CAP 8. METODI CREATIVI E LA RICERCA SOCIALE IN ITALIA I metodi trattati in questo volume si sviluppano a partire da prospettive diverse e hanno però, alcuni elementi in comune. • RICERCA E PARTECIPAZIONE Coinvolgere i partecipanti nel processo di ricerca e fare, quindi, ricerca partecipativa ha diversi significati. Si tratta di un ventaglio di possibilità che possiamo immaginare come un continuum. A un polo si situano quelle esperienze in cui il ricercatore di professione è uno dei componenti di un più ampio nucleo di persone che fanno ricerca, tutte allo stesso titolo. Al polo opposto si situano le ricerche per cui “partecipare” implica semplicemente che la voce dei partecipanti è presa in dovuta considerazione e può influenzare la pratica di intervista. • INCHIESTA, CONRICERCA, FEMMINISMO E IL NODO DELLA PARTECIPAZIONE Nell’Italia del secondo dopoguerra, il percorso di legittimazione accademica della sociologia come disciplina è stato lungo: la prima cattedra di sociologia in un’università italiana risale al 1960 e il primo corso di laurea nasce a Trento pochi anni dopo. Oltre agli studi di comunità per molti un ruolo importante è rivestito dall’inchiesta sociale di tradizione marxista. Nel volume “L’inchiesta sociale in Italia”, i diversi contributi ricostruiscono il complesso mosaico delle esperienze di inchiesta sociale negli anni ’50 e ’60 e del dialogo scientifico che ne scaturì. Si tratta di esperienze di ricerca e dialogo scientifico che hanno quattro caratteristiche fondamentali: • Si occupano di soggetti trascurati dall’analisi scientifica e dalla politica. • Il secondo elemento caratterizzante è il modo in cui si manifesta questa attenzione, cioè dando voce ai soggetti, ascoltando quello che hanno da dire, entrando in contatto con loro. • Si tratta di un interesse profondamente politico, di derivazione marxista. L’obiettivo è quello di cambiare la società, e la società si può cambiare solo se la si conosce; per questo l’inchiesta era uno strumento fondamentale • I ricercatori sono prima di tutto militanti e la ricerca è anche uno strumento per creare reti di attivismo e fungere da stimolo alla partecipazione e all’attivazione o riattivazione di una soggettività politica. Nelle esperienze di inchiesta l’attenzione alla partecipazione dei soggetti di studio è connessa a una dimensione metodologica ma anche, e soprattutto, a un posizionamento politico. Il dare voce era, in quegli anni, un elemento caratterizzante e peculiare. In “pratiche di inchiesta e conricerca oggi”, Emiliana Armano, mette in evidenza i caratteri che differenziano questa pratica da quella dell’inchiesta. Il principale elemento di differenza riguarda proprio la dimensione partecipativa: mentre per l’inchiesta “partecipazione” significa riconoscere l’importanza della voce e quindi del sapere di cui sono portatori i soggetti studiati, nella conricerca il nodo è il rapporto sapere/potere. I ricercatori sono coinvolti in un rapporto orizzontale ed egualitario, sullo stesso piano degli altri soggetti e tutti i soggetti coinvolti elaborano la ricerca, raccolgono i dati, li analizzano. La conricerca è una prassi e non un metodo: le persone coinvolte nella ricerca mettono in gioco le diverse competenze in un rapporto dialogico e paritario, apprendendo gli uni dagli altri e misurandosi tutti e tutte con gli elementi che compongono la ricerca. La conricerca è una pratica trasformativa che coinvolge tutti coloro che prendono parte al processo e si configura anche come un processo di soggettivazione. Mentre per l’inchiesta l’obiettivo è prima di tutto conoscitivo, in modo da poter, successivamente agire, la conricerca è già azione politica. Il 1969 segna un punto di rottura e di pluralizzazione: • Dei soggetti e oggetti di interesse • Delle prospettive di analisi • Delle influenze intellettuali • Delle esperienze, frammentarie e molteplici Il nodo soggetto-oggetto di ricerca continua a rivestire un ruolo centrale. Tra i partecipanti il rifiuto di prendere parte a una logica di produzione di valore in favore di soggetti esterni si accompagna spesso a un rifiuto degli strumenti di ricerca come riduttivi e schematizzanti, rispetto alla ricchezza composita delle esperienze. Oltre al marxismo, un filone particolarmente rilevante è quello del femminismo. Le pratiche di autoinchiesta sono uno strumento centrale dei movimenti femministi e hanno una lunga storia. Lo sguardo femminista e di genere ha caratterizzato la postura teorico-analitica di molte ricercatrici nel corso del tempo, stimolando l’uso di approcci non tradizionali e creativi, non solo nella ricerca sociologica. La pratica femminista interroga le relazioni sociali, denaturalizzandole e mettendo in luce l’ordine di genere che caratterizza le nostre società. Il femminismo promuove l’attenzione verso un sapere che sia situato e che tenga conto del posizionamento del ricercatore all’interno del tessuto sociale, in quanto tale posizionamento è parte integrante dal sapere che produce e di cui è portatore. La partecipazione dei soggetti è un elemento imprescindibile e prioritario. • LE DIVERSE FORME DELLA PARTECIPAZIONE Dagli anni ’50 e ’60 a oggi la ricerca sociale si è professionalizzata e varie sono le forme di vicinanza e distanza rispetto ai soggetti studiati. Il tema del rapporto tra ricercatore e soggetto studiato è oggetto di una vasta riflessione interna alla disciplina e l’opportunità di sviluppare percorsi di ricerca che tematizzino il differenziale e cerchino di ridurlo è parte di un linguaggio condiviso negli approcci metodologici mainstream. La partecipazione è parte della pratica della ricerca sociale e dello strumentario metodologico. Porre attenzione alla voce dei soggetti è una pratica comune nella ricerca qualitativa. L’attenzione alla tutela di chi partecipa e l’impatto che questa ricerca può avere nei suoi confronti
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