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Riassunto Diritto del lavoro, Sintesi del corso di Diritto del Lavoro

Riassunto del manuale di diritto del lavoro "Diritto dei lavori e dell'occupazione"

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 26/05/2022

giadadigioia
giadadigioia 🇮🇹

4.1

(10)

4 documenti

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Scarica Riassunto Diritto del lavoro e più Sintesi del corso in PDF di Diritto del Lavoro solo su Docsity! 1 DIRITTO DEI LAVORI E DELL’OCCUPAZIONE Riassunto del manuale di Giuseppe Santoro-Passarelli (settima edizione - 2020) 2 PARTE PRIMA Definizione, funzione e fonti del diritto del lavoro 5 2) Le fonti del diritto del lavoro. L’approccio allo studio delle fonti del diritto del lavoro prende le mosse dall’art.1 delle Preleggi, ai sensi del quale sono fonti del diritto la legge, i regolamenti, le norme corporative e gli usi. Dopo la caduta dell’ordinamento fascista, i contratti collettivi corporativi sono stati sostituiti da quelli di diritto comune che, a differenza dei primi, non hanno valore di atti normativi, ma hanno natura negoziale, e pertanto non possono essere considerati fonti in senso tecnico. I contratti collettivi di diritto comune costituiscono però una importantissima fonte di regolazione del rapporto di lavoro, ed hanno infatti una naturale vocazione ad estendere i propri effetti anche al di là del loro ambito di applicazione soggettivo. Carnelutti, non a caso, scrisse che il diritto del lavoro ha l’anima della legge ed il contenuto del contratto. Anche la giurisprudenza ha spesso svolto una funzione suppletiva rispetto al legislatore; la funzione nomofilattica della Cassazione ha favorito l’emersione di orientamenti giurisprudenziali integrativi della legge ordinaria ed anche di precetti costituzionali. Per questi motivi la conoscenza della giurisprudenza in tema di diritto del lavoro è assolutamente indispensabile. Il rapporto di lavoro è regolato da un triplice ordine di fonti, costituito dalle norme di leggi, dalle clausole del contratto collettivo e dalle clausole del contratto individuale. Lo spazio maggiore è certamente occupato dalle disposizioni inderogabili di legge e dalle clausole inderogabili del contratto collettivo, che assolvono ad una funzione di integrazione, specificazione e miglioramento delle tutele previste dalla legge, anche attraverso la previsione ed il riconoscimento di diritti di origine esclusivamente collettiva. E tuttavia non si può fare a meno di rilevare la tendenza più recente del legislatore (a partire dal d.lgs. 138/2011) di riconoscere al contratto collettivo una funzione derogatoria in pejus delle stesse disposizioni imperative della legge, senza l’intermediazione del contratto collettivo nazionale. Tra le fonti extra ordinem meritano una menzione particolare gli accordi triangolari di concertazione tra le confederazioni maggiormente rappresentative dei lavoratori (e dei datori di lavoro) ed il Governo. Si tratta di fonti ormai desuete dopo che gli ultimi governi hanno abbandonato il metodo decisionale della concertazione. Oggi il diritto del lavoro si caratterizza per il ridimensionamento della tecnica della norma inderogabile, e conseguentemente non ha più come oggetto soltanto la tutela dei diritti di chi ha il lavoro, ma si preoccupa di garantire la tutela del reddito ai lavoratori nei periodi di non lavoro e, infine, la promozione dell’occupazione per gli inoccupati, cioè per coloro che sono in cerca di prima occupazione, e per i disoccupati, anche attraverso l’emanazione di norme che incentivano i datori di lavoro ad assumere nuovo personale. 6 2.1) Fonti sovranazionali La tutela dell’uomo che lavora e la volontà di evitarne lo sfruttamento costituiscono l’obiettivo principale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), della quale fanno parte gli Stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’OIL svolge un’attività normativa in materia di lavoro, attraverso l’emanazione di raccomandazione e la predisposizione di progetti di convenzioni, che comunque devono essere recepite o ratificate da provvedimenti legislativi interni degli Stati membri. Gli atti normativi dell’OIL, pur essendo espressione di importanti principi di civiltà giuridica, hanno avuto un’influenza relativa sull’evoluzione del diritto del lavoro italiano, giacché il nostro ordinamento ha già previsto livelli di tutela qualitativamente più elevati di quelli predisposti dalla Comunità internazionale. Viceversa un’influenza sempre più penetrante rispetto all’ordinamento del lavoro in Italia ha assunto la normativa comunitaria. Gli atti dell’Unione Europea (regolamenti, direttive e decisioni) dispiegano efficacia nell’ordinamento degli stati membri in modo differente: 1) I regolamenti, contenenti precetti generali ed astratti, tendono ad uniformare le legislazioni nazionali, mentre le decisioni sono riferite a situazioni specifiche. Entrambi gli atti sono direttamente applicabili nei confronti degli Stati e degli individui, e prevalgono sulle norme di diritto interno eventualmente difformi. 2) Le direttive, invece, tendono ad armonizzare le legislazioni nazionali dei Paesi membri attraverso la previsione di determinati obiettivi. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, le direttive, anche in mancanza di norme di attuazione, possono avere efficacia verticale nei confronti dello Stato e degli Enti Pubblici, purché contengano disposizioni chiare, precise ed incondizionate; non hanno tuttavia efficacia orizzontale, ossia nei rapporti tra privati, perché altrimenti avrebbero la stessa efficacia dei regolamenti. 7 2.3) Costituzione, legge ordinaria ed usi. La Costituzione repubblicana, che già nel suo primo articolo riconosce al lavoro un valore fondante della Repubblica, garantisce ed assicura un ampio sistema di tutele (artt.35, 36, 38, 39, 40). La legge costituzionale del 2001 ha modificato il titolo V della parte seconda della Costituzione, innovando particolarmente l’art.117 in materia di competenza di Stato e Regioni. Rientra oggi espressamente nella competenza esclusiva della legislazione statale (art.117 comma 2 lettera l) l’ordinamento civile. Perciò si possono ragionevolmente ritenere inclusi tra i rapporti privati sia la disciplina del rapporto individuale del lavoro, sia il diritto sindacale nella sua dimensione privatistica. Alla legislazione residuale o concorrente delle regioni competono invece la disciplina della formazione professionale, la tutela e la sicurezza del lavoro, la promozione dell’occupazione, nonché la previdenza complementare ed integrativa e la disciplina delle professioni. La legge statale e le fonti ad essa equiparate (decreti legge e decreti legislativi) costituiscono il vero telaio della disciplina del rapporto di lavoro. Si pensi alla disciplina dell’impiego privato (regio decreto 1825/1924), al codice civile ed allo Statuto dei Lavoratori. Quanto agli usi, bisogna distinguere: 1) usi normativi (art.2078 c.c.): possono prevalere su norme dispositive di legge se più favorevoli per il lavoratore, ma non possono modificare la disciplina inderogabile del rapporto individuale di lavoro. 2) usi aziendali (1340 c.c.) : sono usi negoziali che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, fanno sorgere in capo al datore di lavoro un obbligo unilaterale di carattere collettivo produttivo di effetti giuridici sui singoli rapporti individuali di lavoro, con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, sicché per la sua modifica o soppressione potrebbe risultare insufficiente un accordo con il sindacato. 10 3.1)Il diritto sindacale durante il ventennio fascista Con l’avvento del Fascismo, tutte le libertà e perciò anche quella sindacale, vennero progressivamente limitate. Per esempio, con il patto di Palazzo Vidoni del 1925, la Confindustria riconosce il monopolio della rappresentanza sindacale alle organizzazioni sindacali fasciste e in cambio otteneva l’eliminazione della Commissione interna. Nel 1926 viene istituito l’ordinamento corporativo. Pur riconoscendo la libertà sindacale, si legittimava il governo ad attribuire personalità giuridica di diritto pubblico ad un solo sindacato, a condizione che raggruppasse il 10 % della categoria di riferimento, categoria determinata autoritativamente dallo stesso governo. Così, il sindacato era sottoposto a penetranti controlli pubblici, e doveva essere diretto da persone di “sicura fede nazionale”. Nel 1934 vengono create le corporazioni, enti di diritto pubblico che riunivano al proprio interno le associazioni sindacali contrapposte e provvedevano, sotto la guida ed il controllo del governo, ad una regolamentazione dell’attività economica. Da ricordare, in particolare, è che le corporazioni emettevano le ordinanze corporative. Il contratto collettivo corporativo, stipulato dalle contrapposte associazioni sindacali di categoria riconosciute, aveva efficacia erga omnes. Le clausole del contratto corporativo potevano essere modificate in melius da clausole del contratto individuale a condizione che contenessero speciali condizioni più favorevoli. In sostanza, il contratto corporativo non si limitava a stabile il minimo trattamento economico (come invece faceva il contratto collettivo di diritto comune) ma determinava un trattamento uniforme, che poteva poi eventualmente essere migliorato solo in presenza di determinate qualità e caratteristiche. I conflitti non potevano essere risolti attraverso forme di autotutela: lo sciopero e la serrata erano considerati delitti contro l’economia pubblica. Essi venivano composti direttamente dal Ministero delle Corporazioni e, successivamente, dalla Magistratura del lavoro, organo composto da magistrati ed esperti che giudicava secondo equità. 11 3.2) Il diritto sindacale dopo la Costituzione repubblicana Con la costituzione repubblicana nasce lo Stato sociale che riconosce spazio alle società intermedie, come i partiti ed i sindacati. L’art.39 stabilisce il principio della libertà sindacale come libertà tipica rispetto a quella associativa prevista dall’art.18. L’art.40 ha poi elevato lo sciopero a diritto di rango costituzionale. Esso non è più considerato un inadempimento, ma una legittima sospensione di entrambe le obbligazioni principali dedotte nel contratto di lavoro: lo svolgimento della prestazione lavorativa da parte del lavoratore e la corresponsione della retribuzione da parte del datore di lavoro. Dopo la caduta dell’ordinamento corporativo, il diritto sindacale italiano perse le connotazioni pubblicistiche del diritto corporativo, e la dottrina ebbe un ruolo importantissimo nella ricostruzione del diritto sindacale repubblicano. Nei primi anni 50 si svolse un dibattito serrato in dottrina sull’opportunità o meno di continuare ad utilizzare le categorie pubblicistiche o quelle privatistiche per interpretare il nuovo diritto sindacale. Prevalse la ricostruzione privatistica di Francesco Santoro-Passarelli, perché in quel momento storico costituì un’efficace barriera contro le tendenze neocorporative, ma soprattutto perché rispose alle aspettative di autoregolazione dei sindacati, preoccupati di difendere la loro autonomia. Dall’art.39 della Costituzione si desume che i gruppi sono legittimati a regolare e soddisfare i loro interessi alla stregua dei singoli. Pertanto, accanto all’autonomia privata individuale, il nostro ordinamento riconosce spazio all’autonomia privata collettiva. In sostanza l’autonomia collettiva è una species del genus autonomia privata. L’autonomia collettiva ricava la sua legittimazione direttamente dall’art.39 comma 1 Cost, che sancisce la libertà dell’organizzazione sindacale. La norma costituzionale può considerarsi la fonte normativa dell’autonomia privata collettiva. Negli anni 60 un ruolo importantissimo ebbe la “teoria dell’ordinamento intersindacale” proposta da Gino Giugni. Ad essa si deve la valorizzazione del principio dell’effettività dell’attività sindacale, e della bivalenza normativa del contratto collettivo, che si pone come fonte all’interno dell’ordinamento intersindacale e come contratto all’interno dell’ordinamento statale. Tale teoria può considerarsi la base storica del sistema sindacale di fatto fondato sul riconoscimento reciproco delle contrapposte organizzazioni sindacali. Nel 1970 fu emanato lo Statuto dei lavoratori, che rafforzò in modo rilevante la posizione dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro, perché introdusse il sindacato in azienda, riconoscendo al medesimo una serie di diritti che rendevano effettivo l’esercizio dell’attività sindacale, ed al singolo lavoratore una serie di diritti nel rapporto di lavoro come il diritto alla tutela della professionalità, il divieto di controllo a distanza, il divieto di indagine sulle opinioni politiche del lavoratore, ed infine il diritto alla stabilità del posto di lavoro, prevedendo come sanzione la reintegrazione rispetto al licenziamento illegittimo. Con l’art.18 dello Statuto, prima della riforma del 2015 (Jobs Act), si stabiliva che tra il diritto del datore di lavoro alla temporaneità del vincolo contrattuale, e quello del lavoratore alla stabilità del posto, si doveva privilegiare nettamente quest’ultimo. 12 4) La libertà sindacale Il diritto sindacale si fonda sul principio della libertà sindacale, riconosciuta e regolata, oltre che da fonti normative interne, da diverse fonti internazionali ed europee. Tra le fonti internazionali assumono anzitutto rilievo le Convenzioni 87 e 98 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL): a) La convenzione n.87 riconosce ai lavoratori ed ai datori di lavoro il diritto di costituire organizzazioni sindacali senza alcuna autorizzazione preventiva da parte dello Stato. b) La convenzione n.98 garantisce i lavoratori da ogni tentativo del datore di lavoro di compromettere la loro libertà sindacale e tutela le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro contro qualsiasi atto di ingerenza. In ambito europeo la normativa in materia di rapporti collettivi di lavoro non risulta particolarmente sviluppata, in quanto è affidata alle competenze degli Stati membri: 1) Il TFUE esclude l’intervento dell’UE in materia di diritto di associazione, sciopero e serrata. 2) La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea riconosce tuttavia la libertà di associazione sindacale ed il diritto di negoziazione collettiva e di sciopero; è da rammentare che il TUE attribuisce alla citata Carta lo stesso valore giuridico dei trattati. In Italia è la stessa Costituzione a sancire il principio fondamentale della libertà di organizzazione sindacale (art.39 comma 1). Rispetto al più generale diritto di associazione garantito dall’art.18 Cost, la libertà di organizzazione sindacale è più specifica e più ampia, perché tutela la dimensione individuale che la dimensione collettiva, nonché ogni forma di organizzazione associativa e non associativa. Tra le fonti interne, inoltre, occorre ricordare lo Statuto dei lavoratori (legge 300/1970), che riconosce e garantisce la libertà sindacale nei luoghi di lavoro. 15 4.2.1) Conflitti di giurisdizione e libertà negoziale Quando più associazioni sindacali si dichiarano rappresentative di una stessa categoria, o quando sussiste un dissenso tra le associazioni sindacali sull’ambito di applicazione del contratto collettivo, si parla di conflitti di giurisdizione. Un altro profilo della libertà sindacale riguarda la libertà negoziale riconosciuta ai sindacati dall’art.39 Cost. In sostanza le organizzazioni sindacali possono regolare da sé i propri interessi, attraverso la stipula di contratti collettivi con il singolo datore di lavoro (contratto collettivo aziendale) o con la contrapposta associazione dei datori di lavoro (contratto collettivo nazionale di categoria). La libertà negoziale implica la libertà di scegliere la propria controparte contrattuale. Infatti, in applicazione del principio della libertà sindacale sancito dall’art.39, nel lavoro privato vale il principio del reciproco accreditamento e pertanto non sussiste un obbligo a negoziare per il datore di lavoro. Per completezza, è opportuno segnalare che in alcune ipotesi espressamente previste dala legge, il datore di lavoro è obbligato a convocare per le trattative i sindacati comparativamente più rappresentativi. Infine è bene chiarire che non costituisce condotta antisindacale il rifiuto dell’imprenditore di avviare le trattative con un determinato sindacato, se la legge non individua quel sindacato come soggetto legittimato a trattare. Ad esempio, è considerata condotta antisindacale il rifiuto del datore di lavoro di consultare il sindacato in caso di trasferimento in azienda e nella procedura di licenziamento collettivo, in quanto espressamente previsto dalla legge. 16 4.4) I titolari della libertà sindacale Sono sicuramente titolari della libertà sindacale i lavoratori subordinati, sia privati che pubblici, e i loro sindacati. Alcune limitazioni alla libertà sindacale sono espressamente previste nei confronti dei militari e degli appartenenti alla polizia, in ragione della particolarità della loro attività. Per esempio, per i poliziotti si riconosce il diritto di svolgere attività sindacale e di associarsi in sindacati formati, diretti e rappresentati esclusivamente da appartenenti alla polizia di Stato, ma è vietato il diritto allo sciopero. Non è pacifico, invece, il riconoscimento della titolarità della libertà sindacale in capo ai lavoratori autonomi, a causa sia della non omogeneità degli interessi perseguiti, sia dalla scarsa propensione ad organizzarsi sindacalmente (ad eccezione degli agenti e dei rappresentanti di commercio). Il lavoro autonomo abbraccia situazioni lavorative molto diversificate, perché a fronte di soggetti che hanno una sostanziale parità contrattuale con i loro committenti, esiste una vasta gamma di rapporti di lavoro autonomo contrassegnati dalla debolezza economica del collaboratore. Alla luce di ciò, il combinato disposto degli articoli 35 e 39 della Costituzione consentirebbe di riconoscere ai lavoratori autonomi ed economicamente deboli, il diritto di organizzarsi sindacalmente a tutela dei loro interessi collettivi. Ad ogni modo oggi non esistono sindacati di lavoratori autonomi deboli. Occorre distinguere il sindacato dagli ordini professionali. Gli ordini professionali sono organismi pubblici che assolvono ad una funzione essenzialmente garantistica di tutela dell’interesse al decoro, anche economico, della professione e di controllo della correttezza del professionista, nei confronti del quale l’ordine può irrogare sanzioni disciplinari. Si può dire, pertanto, che l’ordine tutela lo status del professionista in quanto tale. Il principio della libertà sindacale è riferibile, secondo la dottrina maggioritaria, anche all’imprenditore e alle associazioni degli imprenditori. Poiché le relazioni sindacali sono negoziali, non si può negare natura sindacale alle associazioni degli imprenditori in quanto parti del contratto collettivo come i sindacati dei lavorator. Si aggiunge, a sostengo di questa tesi, la denominazione di associazione sindacale riservata anche all’associazione degli imprenditori contenuta nella normativa internazionale. Storicamente nasce prima il sindacato dei lavoratori, mentre le associazioni degli imprenditori si formano successivamente: il sindacato degli imprenditori è un sindacalismo di risposta ed eventualmente non necessario. La libertà di associazione e la libertà negoziale degli imprenditori non hanno una dimensione autenticamente collettiva, in quanto proiezioni dell’iniziativa economica privata; pertanto la garanzia di tali libertà va ricercata non tanto nell’art. 39 comma 1, quanto nel combinato disposto degli articoli 18 e 41 Cost. Occorre infine precisare che la dottrina della libertà sindacale unilaterale, cioè quella che nega l’esistenza di una titolarità sindacale degli imprenditori, non nega bilateralità delle relazioni sindacali, ma prende atto che l’associazione degli imprenditori, non presentando le stesse caratteristiche del sindacato dei lavoratori, non ha natura sindacale. 17 5) L’organizzazione sindacale I lavoratori sono liberi di costituire strutture sindacali associative e non associative. Tra quelle associative campeggia il sindacato, ma il riferimento all’organizzazione sindacale contenuto nell’art.39 comma 1 Cost non è limitato al modello associativo: l’organizzazione, infatti, è più ampia dell’associazione, e il costituente ha lasciato ampia libertà di costituire organismi di tutela degli interessi dei lavoratori. La nostra esperienza sindacale ha conosciuto e conosce anche strutture sindacali non associative, o perché carenti del requisito della stabilità, o perché assunte da soggetti che vogliono mantenere la loro libertà di azione rispetto alle associazioni sindacali. In difetto dell’attuazione dei commi 2,3 e 4 dell’art.39 Cost, le associazioni sindacali sono regolate dal diritto comune quali associazioni non riconosciute. Il sindacato, tuttavia, ha una sua tipicità in virtù della natura collettiva dell’interesse perseguito, distinta dall’interesse comune che contraddistingue di norma il genus dell’associazione non riconosciuta. L’interesse dell’associazione non riconosciuta rileva sul piano patrimoniale (artt. 36, 37 c.c.), e sussiste la responsabilità prevista per gli amministratori (art.38 c.c.). Dall’interesse del sindacato come associazione non riconosciuta si distingue l’interesse del sindacato come istituzione, che riguarda le scelte di politica sindacale assunte dai dirigenti del sindacato su temi di politica economica o in materia di rivendicazioni nei confronti della controparte o la proclamazione di uno sciopero. Accanto all’interesse del sindacato come istituzione, rileva l’interesse collettivo, che riguarda l’insieme dei lavoratori iscritti o che comunque si riconoscono in un determinato sindacato con il voto. L’interesse collettivo si distingue dall’interesse pubblico perché non riguarda la generalità dei cittadini: l’interesse pubblico è, ad esempio, soddisfatto nella conclusione del contratto collettivo. Ogni interesse, anche individuale, può diventare collettivo se il gruppo lo considera tale: la manifestazione di volontà non è individuale, ma del gruppo, e pertanto deve avvenire osservando il procedimento di formazione della volontà che può definirsi collettiva perché riferibile al gruppo. Del resto, i lavoratori che aderiscono al gruppo autolimitano la loro autonomia individuale ed i loro interessi individuali alla volontà collettiva del gruppo. In sostanza, la soddisfazione dell’interesse collettivo non determina sempre ed in ogni caso la soddisfazione degli interessi individuali dei singoli appartenenti al gruppo, ma può comportare anche il sacrificio di taluni interessi individuali degli stessi appartenenti al gruppo. Infine, è da ricordare che l’interesse collettivo di cui è portatore il sindacato deve essere distinto dall’interesse individuale a rilevanza collettiva di cui è portatore il lavoratore che, ad esempio, subisca un trattamento discriminatorio per ragioni sindacali, o venga licenziato per aver partecipato ad uno sciopero. 20 5.2.1) L’organizzazione sindacale in azienda ed i contratti collettivi aziendali. Le rappresentanze sindacali aziendali. In Italia, il sindacato esterno all’azienda ha avuto una struttura essenzialmente a base associativa, mentre in azienda ha sempre avuto una struttura non associativa. La struttura sindacale aziendale, pur conservando stretti collegamenti con i sindacati esterni, si forma tendenzialmente su base elettorale, rappresentando quindi tutti i lavoratori dell’azienda, iscritti e non iscritti, a differenza del sindacato associazione. La commissione interna rappresenta sicuramente l’espressione più antica di questo tipo di rappresentanza non associativa. La sua istituzione risale ai primi del Novecento, essendo stata regolata per la prima volta da un accordo tra la Fiom e la fabbrica ITALIA. La Commissione interna era un organismo sindacale di matrice aziendale, costituito da un determinato numero di seggi commisurato al numero dei dipendenti dell’azienda. I saggi erano ripartiti tra le liste in misura proporzionale ai voti conseguiti. Nel periodo dell’autunno caldo sindacale (anni 1968-69), la commissione interna non fu più in grado di accogliere e convogliare la forte domanda di partecipazione della base dei lavoratori. Proprio nell’ottica di una maggiore apertura del sindacato nei confronti dei lavoratori non iscritti, furono introdotte nuove strutture sindacali di tipo elettorale: i delegati, ed il consiglio dei delegati. Il delegato non doveva necessariamente essere iscritto al sindacato e rappresentava gli interessi soltanto dei lavoratori di un determinato gruppo omogeneo dell’azienda (ad esempio un reparto). I delegati dei vari reparti di una determinata azienda costituivano il consiglio dei delegati o di fabbrica, organismo non associativo che non ebbe mai una regolazione legislativa. L’art.19 St. Lav. dispone che possono essere costituite rappresentanze sindacali aziendali ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva: a) Possono avere forma associativa e non associativa; inoltre, un’unica r.s.a. può far capo ad una pluralità di sindacati. Gli elementi caratterizzanti della r.s.a. sono l’iniziativa dei lavoratori (iniziativa effettiva) e l’ambito sindacale: occorre cioè che vi sia un collegamento, un riconoscimento da parte del sindacato, riconoscimento che generalmente si traduce nella nomina. b) La r.s.a. deve essere istituita in ogni unità produttiva. L’unità è individuata ai sensi dell’art.35 St. Lav in ogni sede, stabilimento, ufficio o reparto che occupi più di quindici dipendenti (cinque se si tratta di impresa agricola). c) La r.s.a. rappresenta e tutela solamente i lavoratori iscritti ad una determinata organizzazione sindacale. I componenti infatti sono eletti dagli iscritti ad un determinato sindacato. d) Fino all’accordo interconfederale del 1993, le r.s.a. sono state titolari delle libertà sindacali di cui al titolo III St.Lav., nonché della contrattazione collettiva. Oggi queste attività sono affidate alle rappresentanze sindacali unitarie, di cui si parla nel prossimo paragrafo. 21 5.2.2.) Le rappresentanze sindacali unitarie (r.s.u.) Con l’accordo interconfederale del 1993 sono state istituite le rappresentanze sindacali unitarie. L’accordo stabilisce che le organizzazioni sindacali firmatarie o che vi aderiscano successivamente acquistano il diritto di promuovere la costituzione delle r.s.u. nonché il diritto a partecipare alle elezioni, rinunziando formalmente ed espressamente alla costituzione di r.s.a. I componenti delle seconde sono eletti da lavoratori occupati presso l’unità produttiva, a prescindere dal fatto che siano iscritti o meno al sindacato: in sostanza, il mandato elettorale delle r.s.u. evoca la rappresentanza politica ed istituisce un collegamento tra componente eletto e lavoratori elettori. In base all’Accordo del 1993, soltanto i due terzi dei seggi venivano ripartiti fra le varie liste sindacali in proporzione del numero di voti conseguiti: il residuo dei seggi, il cosiddetto terzo riservato, era assegnato obbligatoriamente alle liste presentate dai sindacati firmatari dell’accordo (CGL; CISL; UIL; Confindustria). Nel 2014 vede la luce il Testo Unico sulla Rappresentanza. Questo supera la previsione del terzo dei seggi riservato alle associazioni sindacali firmatarie: alla costituzione della r.s.u. si procede, quindi, mediante un’elezione a suffragio universale. Il numero dei seggi viene ripartito secondo il criterio proporzionale in relazione ai voti conseguiti dalle singole liste concorrenti: in tal modo alle “nuove” r.s.u. viene garantita una più genuina base elettorale, essendo interamente elette sulla base delle preferenze indicate dai lavoratori all’interno delle liste presentate dai sindacati legittimati. Le elezioni sono valide se ad esse partecipa il 50% più uno dei lavoratori dell’azienda aventi diritto. Tuttavia si consente alla commissione elettorale di considerare valide le elezioni anche se il quorum non è raggiunto in relazione alla situazione venutasi a determinare. Le r.s.u. succedono alle r.s.a. nella titolarità dei diritti, permessi e libertà sindacali del titolo III dello Statuto dei Lavoratori, nonché nella titolarità dei poteri e delle funzioni, anche contrattuali. La durata del mandato è triennale e non sono consentite proroghe. Pertanto le r.s.u. decadono automaticamente allo scadere del termine. Per l’ipotesi di cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente, il cosiddetto cambio di casacca, si prevede la decadenza della carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di originaria appartenenza del sostituito. La rilevanza del principio della maggioranza come criterio di funzionamento dell’organo implica il riconoscimento della natura collegiale della r.s.u., confermata dalla regola secondo la quale le decisioni si prendono a maggioranza. La natura collegiale dell’organismo rende necessaria la distinzione tra diritti sindacali a gestione individuale (come i permessi) da quelli a gestione collettiva (come l’assemblea): i primi sono attribuiti ai singoli componenti delle r.s.u., mentre i secondi sono assegnati alla r.s.u. in quanto organo collegiale. 22 6) L’attività sindacale L’attività sindacale può essere esercitata dai singoli lavoratori per perseguire e tutelare un interesse collettivo, o un interesse individuale a rilevanza collettiva (come per esempio la tutela contro atti discriminatori) ma mai un interesse esclusivamente individuale. Ovviamente l’attività sindacale può essere esercitata dal sindacato attraverso i propri iscritti ed in particolare attraverso i dirigenti sindacali che agiscono in nome e per conto del sindacato. Si pensi, ad esempio, alle stesse trattative per il rinnovo del contratto collettivo: in questo caso si tratta di vera e propria attività negoziale, ma non si può negare che l’attività negoziale posta in essere dal sindacato rientri nell’oggetto dell’attività sindacale. Parimenti, rientra nell’attività sindacale anche la designazione da parte del sindacato di propri iscritti nei consigli di amministrazione degli enti pubblici e previdenziali, nonché negli organi a rilevanza costituzionale come il CNEL. Inoltre, il sindacato è consultato in audizioni parlamentari quando si discute l’approvazione di una legge in materia di lavoro. L’art.39 Cost. non assegna al sindacato alcuna competenza, né determina l’oggetto dell’attività sindacale. E allora si ritiene che l’attività sindacale sia delimitata da una frontiera mobile, che estende o restringe il proprio territorio in ragione della rappresentatività del sindacato in un determinato momento e contesto storico. Certamente non si può affermare che l’attività sindacale si esaurisca nella stipulazione dei contratti, nella proclamazione dello sciopero o, ancora, nello svolgimento dell’attività sindacale in azienda. Ogni attività può essere considerata sindacale se il sindacato ha la forza di farla valere come tale, nel rispetto delle competenze degli organi costituzionali e delle amministrazioni pubbliche. Inoltre, l’assenza di limiti e competenze legislativamente delineati ha attribuito al sindacato un potere di fatto, cui è connessa una responsabilità politica e non giuridica rispetto al proprio intervento. Il sindacato, oltre ad essere negoziatore di contratti, in passato ha preteso ed ottenuto di partecipare al negoziato sulle riforme politiche, assumendo quindi il ruolo di soggetto politico. E tuttavia tale partecipazione non modifica la natura del sindacato, che vuole rimanere privato. In queste forme di partecipazione alla funzione pubblica, il sindacato supera la funzione tradizionale di autotutela e rappresenta interessi che lambiscono o intersecano l’interesse generale. Ma in qualità si soggetto privato, il sindacato resta comunque libero. 25 6.3) L’assemblea. L’art.20 St. Lav. disciplina l’assemblea, cioè il diritto dei lavoratori a riunirsi nell’unità produttiva in cui sono occupati: a) L’assemblea può svolgersi anche durante l’orario di lavoro, ed in tal caso il lavoratore ha diritto ad un minimo di dieci ore annue retribuite. b) L’assemblea può essere generale, cioè rivolta a tutti i lavoratori di quell’unità produttiva, oppure settoriale, qualora si rivolga soltanto ad un gruppo. c) Al datore di lavoro deve essere comunicato l’ordine del giorno, che deve riguardare materie di interesse sindacale e del lavoro (espressione molto ampia che comprende tutte le materie che il sindacato riconosce come proprie). d) Molti contratti collettivi stabiliscono un termine minimo di preavviso al datore di lavoro, finalizzato sia all’individuazione del locale idoneo da concedere per lo svolgimento dell’assemblea, sia all’organizzazione delle esigenze aziendali, che potrebbero essere compromesse dalla sospensione dell’attività lavorativa causata dall’assemblea stessa. e) Il datore di lavoro è tenuto a consentire l’accesso anche di dirigenti del sindacato esterno ed ai lavoratori sospesi. In capo al datore, invece, non sussiste un diritto di partecipazione, salvo ovviamente che sia espressamente invitato. In seguito all’accordo Interconfederale del 1993 la r.s.u. subentra alle r.s.a. nella titolarità dei diritti e nell’esercizio delle funzioni ad esse spettanti. E’ allora importante chiedersi se la titolarità del diritto di convocare l’assemblea spetti alla r.s.u. in quanto organo collegiale che decide a maggioranza, oppure a ciascun componente, similmente a quanto avviene per le r.s.a. Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite, ed hanno chiarito che il diritto di indire assemblee non spetta solamente alla r.s.u. collegialmente intesa, ma anche a ciascun componente della r.s.u., purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia rappresentativo ai sensi dell’art.19 St. Lav. La Cassazione ha poi aggiunto un ulteriore requisito: non è sufficiente essere stati eletti nel collegio, ma è necessario appartenere ad un sindacato che abbia quantomeno partecipato alle trattative per la sottoscrizione di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva. Questo orientamento non è condivisibile. In effetti, Testo Unico del 2014 sembra invece confermare la titolarità collegiale, nella misura in cui introducono espressamente il principio maggioritario come criterio di funzionamento dell’organismo. La decisione individuale del singolo componente risulta incompatibile con l’introduzione del principio di maggioranza posto alla base del funzionamento della r.s.u. quale collegio unitario. Diversamente, nell’area del pubblico impiego, la giurisprudenza ha chiarito che il diritto spetta collegialmente alla r.s.u. 26 6.4) Il referendum. I permessi. Il referendum è uno strumento di consultazione dei lavoratori privo di valore vincolante nei confronti dei singoli lavoratori: a) L’art.21 St.Lav. stabilisce che lo svolgimento delle consultazioni referendarie avviene all’interno dell’azienda, ma al di fuori dell’orario di lavoro. Anche in questo caso è necessaria la collaborazione del datore di lavoro che dovrà mettere a disposizione i locali aziendali. b) Il referendum deve vertere su materie di interesse sindacale e può essere indetto dalle r.s.a. solo congiuntamente. La legittimazione necessariamente congiunta delle r.s.a. serve ad evitare forme di concorrenza tra le r.s.a. e forme di strumentalizzazione della base dei lavoratori. Una forma di garanzia particolarmente efficace per lo svolgimento dell’attività sindacale è costituita dai permessi retribuiti (cioè per l’espletamento del mandato, art.23 St. Lav) e non retribuiti (cioè per la partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale, art. 24 St. Lav). a) Tali permessi spettano, in ragione del numero dei dipendenti dell’azienda, ai dirigenti delle r.s.a., che sono considerati tali in quanto nominati secondo le procedure previste dallo statuto della struttura sindacale. b) I lavoratori che intendono avvalersi del permesso devono darne comunicazione al datore di lavoro almeno 24 ore prima tramite la r.s.a. di appartenenza. La giurisprudenza, inoltre, ha negato al datore di lavoro il potere di sindacare tali permessi. c) Beneficiari dei permessi sono i dirigenti appositamente indicati nelle r.s.a., i quali mantengono il diritto ad usufruirne per la durata dell’incarico, salvo che intervenga la destituzione da parte dell’organizzazione sindacale nel cui ambito si è costituita la r.s.a. Gli articoli 30 e 31 dello Statuto prevedono il riconoscimento di permessi retribuiti ai dirigenti nazionali e provinciali dei sindacati maggiormente rappresentativi, per la partecipazione alle riunioni degli organi suddetti, o l’aspettativa non retribuita per la durata del mandato. Secondo la giurisprudenza i permessi concessi ai sensi dell’art.30 si differenziano da quelli previsti dagli articoli 23 e 24 perché i primi spettano ai sindacalisti extra-aziendali, i secondi spettano invece ai sindacalisti endo-aziendali, cioè a coloro deputati a svolgere la propria attività all’interno dell’impresa. 27 6.5) Il diritto di affissione. Locali destinati all’attività delle r.s.a. L’esercizio dei diritti di informazione e consultazione. L’art.25 St. Lav. riconosce alle r.s.a. il diritto di affiggere comunicati, testi e pubblicazioni di interesse sindacale e del lavoro: a) Il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre per ciascuna r.s.a., in luoghi accessibili a tutti, all’interno dell’unità produttiva, appositi spazi e bacheche destinati a questo scopo. Tra gli spazi di affissione sono oggi inclusi gli spazi telematici. b) Il datore di lavoro non ha il potere di sindacare il contenuto di questi comunicati, e tanto meno di rimuoverli, anche nell’ipotesi in cui tali comunicati integrino gli estremi di un reato. In tal caso, il datore di lavoro dovrà richiedere la rimozione ai responsabili della r.s.a. o rivolgersi all’autorità giudiziaria. L’art.27 St. Lav. stabilisce che il datore di lavoro nelle unità produttive con più di duecento dipendenti debba mettere a disposizione delle r.s.a. un locale destinato all’esercizio della loro attività. Il datore di lavoro non è obbligato a mettere a disposizione un locale per ciascuna r.s.a., bensì è sufficiente un locale comune. Quando invece l’unità produttiva ha meno di 200 dipendenti, il datore di lavoro ha l’obbligo di mettere a disposizione delle r.s.a. un locale ogni volta che queste ne facciano richiesta per le riunioni. Dagli anni Ottanta si è diffuso l’esercizio dei diritti di informazione e consultazione del sindacato. Sia chiaro che l’esercizio di tali diritti non attribuisce al sindacato un potere di controllo, né tantomeno un potere di veto nei confronti del datore di lavoro. Non deve essere neanche considerato una forma di partecipazione alla gestione dell’azienda, e soprattutto non elimina il ruolo antagonista del sindacato nei confronti del datore di lavoro. 30 7) Rappresentanza e rappresentatività sindacale La rappresentanza è un istituto giuridico (artt.1387 ss) che assume precisi significati e produce determinati effetti. In Italia, storicamente, sorge prima la rappresentanza sindacale, intesa come potere del sindacato di compiere atti in nome e per conto degli associati. La rappresentanza sindacale, a seconda degli ordinamenti e dei tempi, è stata ricondotta nello schema della rappresentanza volontaria (coerentemente con il principio di libertà sindacale enunciato dall’art.39 Cost) o nello schema della rappresentanza istituzionale (nel periodo corporativo). Inoltre, la rappresentanza sindacale si distingue da quella civilistica perché il sindacato non agisce a tutela degli interessi dei propri iscritti, ma nell’interesse collettivo di cui è portatore direttamente, sulla base del riconoscimento costituzionale della libertà sindacale, interesse che supera e trascende gli interessi dei singoli associati. La rappresentatività è una nozione socio-politica che esprime un giudizio di valore volto ad indicare l’idoneità del sindacato ad aggregare consenso o a rappresentare (in senso atecnico) gli interessi di collettività di lavoratori. L’espressione “organizzazioni sindacali più rappresentative” compare per la prima volta nel Trattato di Versailles. E la Corte di giustizia chiarì, in un parere del 1922, che dovevano considerarsi organizzazioni più rappresentative quelle che rappresentano al meglio gli imprenditori ed i lavoratori. Tale valutazione doveva tener presente diversi fattori, e non soltanto il numero degli aderenti, che tuttavia era determinante. Ai fini della stipulazione dei contratti collettivi con efficacia erga omnes, delineati dall’art.39 comma 4 Cost, la rappresentatività del sindacato è misurata dal numero degli iscritti, e ciascun sindacato ha un potere contrattuale proporzionato alla propria consistenza associativa. Si tratta in questo caso di una rappresentatività effettiva e misurabile, e serve ad indentificare l’agente negoziale legittimato a stipulare contratti con efficacia generale. Ad ogni modo, come abbiamo già detto più volte, il comma 4 dell’art.39 Cost. non ha ancora trovato attuazione. Una nozione ancora diversa è presa in considerazione dall’art.19 dello Statuto dei Lavoratori, ai fini della costituzione delle r.s.a. 31 7.1) Rappresentatività nell’art.19 dello Statuto dei lavoratori L’art. 19 dello Statuto, nella versione originaria, per individuare i soggetti ai quali è consentito svolgere attività sindacale all’interno dell’unità produttiva utilizzava come criterio selettivo non la rappresentatività effettiva e misurabile, ma una maggiore rappresentatività presunta. Il testo originario prevedeva che le r.s.a. fossero costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito: a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale b) delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, che fossero firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva Si nota facilmente che la norma non prevedeva criteri di misurazione della maggiore rappresentatività, e conseguentemente riconosceva in via presuntiva la maggiore rappresentatività alle associazioni sindacali solo per il fatto di appartenere a sindacati confederali (in particolare Cgil, Cisl e Uil) anche qualora non avessero in azienda un elevato numero di iscritti. In base al vecchio testo dell’art.19, la giurisprudenza aveva allora elaborato alcuni indici da cui dedurre la maggiore rappresentatività: -intercategorialità (presenza in diverse categorie merceologiche) - pluricategorialità (rappresentanza di più categorie professionali) -nazionalità (cioè estensione geografica sul territorio nazionale) -numero dei lavoratori iscritti -capacità di mobilitazione dei lavoratori agli scioperi Un referendum del 1995, in riferimento all’art.19, ha abrogato: -l’intera lettera a) -l’inciso “non affiliate alle predette confederazioni” -l’inciso “nazionali e provinciali” All’esito del referendum del 1995 l’unico indice di riconoscimento della rappresentatività è la stipulazione del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva. L’attuale formulazione allora ricomprende sicuramente il contratto nazionale, ogni forma di contratto territoriale, il contratto aziendale, nonché gli accordi interconfederali che regolano un istituto. Il richiamo all’unità produttiva consente di ricomprendere anche quei contratti collettivi stipulati per il singolo reparto, linea, filiale od ufficio, e non quindi per l’azienda nel suo complesso. La costituzione di una r.s.a. non può essere l’oggetto di un accordo sindacale ad hoc ma è l’effetto della stipula di un contratto collettivo di lavoro applicato all’unità produttiva. Quindi, le parti, neppure di comune accordo possono indicare ai fini della costituzione delle r.s.a. un soggetto diverso da quello che ha sottoscritto il contratto collettivo. 32 7.1.1) Interventi della Corte Costituzionali sull’art.19 dello Statuto dei Lavoratori La nuova formulazione, in definitiva, stabilisce che le r.s.a. “possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni sindacali che sono firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”. Il nuovo testo della norma è stato più volte sottoposto al vaglio di costituzionalità. Alcuni infatti ritenevano che la rappresentatività non sarebbe individuata da criteri stabiliti dalla legge, ma dalla stipula del contratto collettivo e quindi, in ultima analisi, dal potere dell’imprenditore. In altre parole, il datore di lavoro, stipulando il contratto collettivo con un sindacato anziché con un altro, finirebbe per impedire a quello escluso di costituire la rappresentanza sindacale. La Corte costituzionale ritenne nel 1996 perfettamente ragionevole il criterio individuato dal legislatore nella sottoscrizione del contratto collettivo applicato, purché l’organizzazione sindacale avesse effettivamente partecipato alle trattative e non si fosse limitata a sottoscrivere per adesione. L’elemento della sottoscrizione, infatti, era considerato indicativo della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale. La Corte Costituzionale ha affrontato nuovamente la questione con la sentenza 231/2013. Si tratta di una sentenza manipolativa additiva, in quanto si offre una interpretazione estensiva del termine “associazioni sindacali firmatarie”: è infatti legittimato a costituire r.s.a. non soltanto il sindacato che sottoscriva il contratto collettivo, ma anche quello che abbia partecipato attivamente alle trattative senza firmarlo. La Corte, con questa sentenza, tiene conto del contesto esterno, mutato rispetto al 1996, quando invece vi erano relazioni sindacali contrassegnate da un contesto di unità nazionale sindacale, che oggi invece non si riscontra. Va osservato, tuttavia, che la Corte non indica in modo chiaro ed incontrovertibile cosa debba intendersi per “partecipazione alla negoziazione”. L’art.1337 c.c. si limita a stabilire che le parti, nello svolgimento delle trattative, devono comportarsi secondo buona fede, e quindi nulla ci dice circa il significato della suddetta espressione. 35 8) La tipologia dei contratti collettivi Storicamente si sono susseguite diverse tipologie di contratti collettivi: 1) Concordati di tariffa. Avevano una funzione tipicamente obbligatoria ed una efficacia soggettiva limitata ai datori di lavoro stipulanti perché tali contratti erano considerati atti negoziali. 2) Contratto corporativo. Era considerato un atto normativo, efficace nei confronti di tutti gli appartenenti alle corporazioni, e collocato in posizione gerarchicamente sovraordinata ed uniformante rispetto al contratto individuale. 3) Art. 39 comma 4 della Costituzione. Detta una particolare disciplina che riconosce ai sindacati la legittimazione a stipulare contratti con efficacia per tutti gli appartenenti alla categoria attraverso la costituzione di una rappresentanza unitaria proporzionale al numero degli iscritti. Tuttavia, come già detto, tale norma costituzionale non è mai stata attuata: sul piano politico i sindacati minoritari erano contrari a dare attuazione ad una norma che, riconoscendo un potere contrattuale proporzionato al numero di iscritti, avrebbe confermato l’egemonia della Cgil. E’ da tenere presente, infine, che tale norma, se attuata, bloccherebbe soluzioni di misurazione della rappresentatività effettiva diverse da quelle previste dalla norma stessa. 4) Legge 741/1959. Con tale legge il Governo era delegato a recepire in decreti legislativi il contenuto dei contratti collettivi, in modo da attribuire agli stessi efficacia generale. Questo fino al 1971, quando la Corte Costituzionale dichiarò illegittimo l’art.7, che prevedeva appunto che i decreti di recepimento restassero in vigore anche dopo l’eventuale rinnovo del contratto collettivo. All’esito di questi interventi della Corte, anche il contratto collettivo previsto dalla legge 741 resta ormai una memoria storica del limitato arco temporale in cui il sistema delineato da quella legge è rimasto in vigore. In conclusione, le diverse tipologie di contratti collettivi finora menzionate sono importanti da un punto di vista storico, ma non operano più, oppure non hanno mai operato (come il contratto collettivo previsto dall’art.39 comma 4 Cost). Ad ogni modo, già prima della Costituzione repubblicana, si è sviluppata una copiosa fioritura di contratti a livello nazionale e cioè nei diversi settori merceologici. E dopo il 1962 si sviluppa anche un doppio livello di contrattazione costituito dal contratto nazionale e dal contratto aziendale. Tali contratti, tuttavia, non hanno le caratteristiche proprie del contratto corporativo, e perciò sono denominati contratti collettivi di diritto comune, perché soggetti alla regolamentazione propria del diritto dei contratti. 36 9) Il contratto collettivo di diritto comune Il contratto collettivo di diritto comune si colloca nell’area dell’autonomia privata. La sua funzione caratteristica è quella normativa, ossia quella di predeterminare il contenuto dei contratti individuali e di stabilire i minimi del trattamento economico. Il contratto collettivo possiede, rispetto agli altri contratti, alcune peculiarità: a) una delle parti, quella che rappresenta i lavoratori, è necessariamente un soggetto collettivo b) esso predetermina non solo il contenuto dei futuri contratti individuali, ma anche il contenuto di quelli in corso c) diversamente dal contratto normativo, il contratto collettivo spiega un efficacia diretta nei confronti dei singoli lavoratori e dei datori di lavoro d) a differenza del contratto tipo, schema contrattuale non vincolante e modificabile dalle parti, il contratto collettivo vincola direttamente i singoli lavoratori ed il datore di lavoro ad osservare le clausole in esso contenuto Mancando una normativa di attuazione dell’art.39 Cost, la disciplina del contratto collettivo è stata necessariamente rinvenuta nelle disposizioni del codice civile in materia di contratti in generale. E tuttavia l’asserita natura privatistica dei contratti collettivi lascia insoluti sul piano giuridico formale tre problemi di grande rilevanza: quello dell’efficacia erga omnes, quello della sua inderogabilità e quello dell’interpretazione. Certo è che i sindacati, da un lato vogliono preservare la natura negoziale del contratto collettivo perché desiderano regolare da è i loro interessi, e dall’altro hanno una vocazione egemonica a garantire a tutti i lavoratori appartenenti alla categoria un trattamento minimo comune. 37 9.1) Il processo di formazione del contratto collettivo Le procedure di stipulazione del contratto collettivo non sono regolate da norme di legge: la formazione del contratto resta regolata dalla disciplina generale del codice civile. Corollario della ricostruzione privatistica del contratto collettivo e del principio di libertà sindacale è la libertà di scelta del contraente. Tale libertà risulta temperata dal principio di effettività dell’attività sindacale, per effetto del quale il contratto collettivo finisce generalmente per essere stipulato con le associazioni sindacali più rappresentative, che si impongono come controparti contrattuali. Il Protocollo 23 luglio 1993 contiene alcune indicazioni in merito al rinnovo del contratto collettivo: 1) Le parti si incontrano per avviare le trattative tre mesi prima della scadenza del contratto 2) Si prevedono meccanismi di raffreddamento volti a prevenire azioni dirette durante le trattative, garantendo ai lavoratori una speciale indennità di vacanza, al prolungarsi delle trattative oltre i limiti stabiliti. 3) Le trattative si chiudono con la sottoscrizione dell’ipotesi di accordo, il cui testo sintetizza le reciproche concessioni che le parti inevitabilmente si fanno durante la negoziazione. Se le trattative si prolungano ben oltre la scadenza del contratto collettivo possono essere proclamati scioperi ed il conflitto può inasprirsi. 4) Prima della stipulazione del contratto collettivo, le ipotesi di accordo sono sottoposte all’approvazione dei lavoratori tramite assemblee oppure al referendum. Siamo in una fase in cui il contratto collettivo vero e proprio non è stato ancora sottoscritto, e pertanto l’eventuale approvazione dei lavoratori non può essere configurata come una ratifica in senso tecnico: essa assume quindi un valore più politico che giuridico. 5) Il contratto collettivo si conclude con la sottoscrizione delle parti: le associazioni datoriali ed i sindacati, in caso di contratto nazionale, o il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali in azienda (r.s.a. o r.s.u.) in caso di contrattazione aziendale. Laddove non esistano le r.s.a. il contratto collettivo può essere stipulato con i sindacati territoriali. 6) Quando i tavoli delle trattive si allargano ad un numero crescente di sigle sindacali può accadere che determinate organizzazioni, pur non avendo partecipato effettivamente alle trattative per il rinnovo del contratto collettivo, lo sottoscrivano ugualmente al fine di estenderne gli effetti ai propri iscritti. Questo fenomeno si chiama sottoscrizione per adesione. 40 9.4) Parte normativa e parte obbligatoria del contratto collettivo. Contratto collettivo nazionale e contratto aziendale. Il contratto si divide di regola in: 1) Parte normativa. Vi sono clausole che vincolano direttamente i datori di lavoro ed i lavoratori che rientrano nell’ambito di efficacia del contratto collettivo. Tali clausole regolano le diverse fasi del rapporto individuale di lavoro. 2) Parte obbligatoria. Comprende le clausole che regolano i rapporti tra i soggetti collettivi che hanno sottoscritto il contratto collettivo e conseguentemente spiegano efficacia nei confronti dei singoli. Possiamo poi distinguere: A) Contratto collettivo nazionale. Ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale. Esso disciplina per esempio la costituzione o la cessazione del rapporto di lavoro, le diverse forme di assunzione, i livelli retributivi e le diverse indennità, l’orario di lavoro, le ferie ed i riposi, il codice disciplinare ed i trattamenti di fine lavoro. B) Contratto aziendale. Tende a far emergere esigenze proprie degli specifici contesti produttivi. Possiede la tradizionale funzione di determinazione delle componenti retributive legate alla produttività delle singole imprese. Il Testo Unico del 2014 privilegia le r.s.a. e le r.s.u. quali soggetti legittimati alla stipulazione del contratto aziendale, senza menzionare ulteriormente i sindacati territoriali. B1) Secondo alcune sentenze il contratto aziendale sarebbe efficace erga omnes per la sua oggettiva funzione di regolamentazione uniforme e per l’indivisibilità degli interessi collettivi della comunità aziendale. B2) Secondo altre pronunce, invece, in linea con i principi generali, anche il contratto aziendale sarebbe efficace esclusivamente nei confronti dei soggetti iscritti alle associazioni stipulanti. B3) Infine, in base ad una più recente giurisprudenza, il contratto aziendale avrebbe in linea di principio un’efficacia generale, capace di imporsi sul dissenso individuale, fatto salvo, però, il dissenso sindacale. In altri termini, l’efficacia del contratto aziendale non potrebbe essere estesa a quei lavoratori che ne condividano l’esplicito dissenso. Oggi l’efficacia soggettiva del contratto aziendale anche nei confronti dei lavoratori dissenzienti è espressamente sancita dal Testo Unico del 2014, mentre determinati contratti aziendali hanno una vera e propria efficacia erga omnes (art. 8 decreto 138/2011). 41 9.5) Usi aziendali. Durata del contratto collettivo. Successione nel tempo di contratti collettivi del medesimo livello. Secondo un orientamento diffuso in dottrina e giurisprudenza gli usi aziendali si concretano nella concessione generalizzata, durevole e costante, da parte del datore di lavoro, di trattamenti non previsti da altre fonti. Tali usi, rilevando come usi negoziali (art.1340 c.c.) integrano il contenuto del contratto individuale e non sono modificabili dalla disciplina collettiva successiva ma possono essere modificati solo con il consenso del lavoratore che è il destinatario dell’uso. La durata del contratto collettivo è stabilita dalle parti. Esso può essere a tempo determinato oppure a tempo indeterminato: A) Se il contratto collettivo è a tempo indeterminato, il contratto è destinato a produrre effetti fino a quando una delle parti non decida di recedere dal contratto stesso. B) Invece se il contratto è a tempo determinato, alla scadenza del termine cessa di produrre effetti, a meno che non sia presente una clausola di ultrattività o una clausola di rinnovo automatico. B1) La clausola di ultrattività opera alla scadenza del termine originariamente stabilito con l’effetto di trasformare, a partire da quel momento, il contratto collettivo scaduto in un contratto a tempo indeterminato, destinato a produrre effetti fino alla rinegoziazione del contratto stesso. B2) Laddove sia prevista una clausola di rinnovo automatico, alla scienza del termine il contratto collettivo si rinnova tacitamente per una durata pari a quella originariamente stabilita. B2.1) Il rinnovo tacito può essere evitato dalla disdetta. Questa può essere intimata da ciascuna delle parti prima della scadenza, al fine di evitare che il contratto si rinnovi automaticamente una volta scaduto. La disdetta, a differenza del recesso, impedisce il rinnovo automatico di un contratto a tempo determinato, e deve essere esercitata prima della scadenza. B2.2) La disdetta non va confusa con il recesso (art.1337 c.c.), cioè l’atto con il quale, in vigenza di un contratto, una delle parti fa venire meno il rapporto giuridico di cui quel contratto è fonte. Il recesso può essere esercitato solo laddove il contratto collettivo è a tempo indeterminato, essendo altrimenti illecito prima della scadenza del termine. La successione nel tempo dei contratti collettivi del medesimo livello comporta inevitabilmente la variazione nel tempo dei trattamenti economici e normativi in melius e in pejus corrisposti ai lavoratori. In caso di successione tra contratti collettivi dello stesso livello e le clausole del nuovo contratto si costituiscono completamente a quelle del vecchio sia se sono più favorevoli, sia se sono meno favorevoli. Non è stata accolta infatti la teoria dell’incorporazione, secondo cui il contratto collettivo successivo non potrebbe modificare la disciplina collettiva precedente, proprio perché il contratto collettivo scaduto risulta ormai incorporato nel contratto individuale. 42 9.6) Pari-ordinazione tra contratto aziendale e contratto nazionale. Interpretazione del contratto collettivo. Tra contratto nazionale e contratto aziendale non esiste un rapporto gerarchico, come contratto collettivo e contratto individuale, ma un rapporto di pari-ordinazione perché non esiste una norma di legge che regola i rapporti tra i due livelli contrattuali. Il contratto collettivo deve essere interpretato applicando i criteri in materia di interpretazione del contratto nella sequenza indicata dal codice e non quelli stabiliti dall’art.12 delle Preleggi. Si deve tener conto però della struttura e della funzione normativa del contratto collettivo, nonché della diversa fase di formazione rispetto agli altri contratti: A) Le clausole normative, al pari delle norme di legge, contengono precetti generali ed astratti, diretti a destinatari diversi dai suoi autori. B) Le peculiarità della fase di formazione rendono problematica la ricostruzione della comune volontà delle parti. Ad esempio, alla formula di una clausola contrattuale che pure rimanga inalterata può essere attribuito dalle parti un significato diverso da quello originario a seguito delle modifiche dell’ambiente sociale e del contesto sindacale in cui si inserisce il rinnovo contrattuale. B2) Gli unici parametri di riferimento per accertare la comune intenzione delle parti sono il testo contrattuale e le note a verbale. E quindi non si può negare che la formazione del contratto collettivo attenui sensibilmente il ricorso al criterio soggettivo della ricerca della volontà delle parti e valorizzi, per contro, il ricorso all’interpretazione letterale delle clausole del contratto collettivo. Proprio tale criterio, secondo la Cassazione, costituisce il mezzo prioritario e fondamentale per la corretta ricostruzione della comune intenzione delle parti, laddove il significato letterale delle parole, secondo la loro connessione, si presenti esaustivo nel disvelare l’effettiva volontà dei contraenti. In caso contrario, l’interprete dovrà tenere in considerazione il comportamento successivo delle parti nell’applicazione della clausola stessa, e fare ricorso ai criteri ermeneutici di cui agli articoli 1362 e seguenti del codice civile. C) Il contratto collettivo non può essere interpretato analogicamente: l’art.13 delle preleggi, infatti, vieta l’applicazione analogica dei contratti corporativi, e quindi dei contratti collettivi di diritto comune. 45 10.1) Rinvii in funzione integrativa e in funzione autorizzatoria I rinvii al contratto collettivo in funzione integrativa della disciplina legale sono frequenti: la legge detta una regolamentazione ed affida al contratto collettivo il compito di integrarla. Per esempio, ai contratti collettivi è rimessa la disciplina al dettaglio dell’apprendistato, rispetto alla quale la legge detta soltanto una regolamentazione di principio. Nell’ambito dei rinvii in funzione integrativa della disciplina legale assumono una particolare importanza quelli che attribuiscono al contratto collettivo una più specifica funzione: A) Rinvii in funzione gestionale. Attribuiscono al contratto collettivo il compito di stabilire limiti e condizioni per l’esercizio di poteri datoriali previsti dalla legge ed altrimenti liberi. Si pensi ad esempio alla determinazione dei criteri di scelta che il datore di lavoro deve osservare in caso di licenziamenti collettivi. Una particolare ipotesi di funzione gestionale è quella assolta dai contratti di solidarietà, difensivi o espansivi. a1) Contratto di solidarietà difensivo. E’ stipulato dall’impresa con le associazioni sindacali nazionali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale e prevede una riduzione dell’orario di lavoro e della retribuzione al fine di evitare riduzioni di personale. A fronte della riduzione dell’orario di lavoro è previsto l’intervento di un particolare ammortizzatore sociale, la Cassa integrazione guadagni straordinaria, che copre una percentuale della retribuzione persa per le ore lavorative. a2) Contratto di solidarietà espansivo. Anch’esso prevede una riduzione dell’orario di lavoro dei dipendenti, ma tale riduzione è finalizzata non ad evitare i licenziamenti ma ad incrementare gli organici con l’assunzione a tempo indeterminato di un nuovo personale. B) Rinvii in funziona regolamentare delegata. La legge rinvia al contratto collettivo l’integrazione di norme destinate a tutelare interessi pubblici. Si pensi, per esempio, all’individuazione delle prestazioni indispensabili in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali. In questa ipotesi la disciplina pattizia non basta di per sé ad assolvere questa particolare funzione, ma deve essere valutata idonea dalla Commissione di Garanzia, apposito organismo pubblico. Occorre precisare che secondo la giurisprudenza costituzionale, i contratti gestionali o con funzione regolamentare delegata non appartengono alla specie dei contratti normativi. Di conseguenza non spiegano efficacia direttamente sul rapporto di lavoro: gli effetti sui singoli lavoratori sono determinati dall’atto di esercizio del potere datoriale che gli stessi accordi si limitato a procedimentalizzare. Si parla invece di rinvii in funzione autorizzatoria quando la legge rimette al contratto collettivo la valutazione circa la percorribilità di determinate soluzioni. Si pensi ad esempio all’installazione di impianti audiovisivi che possono comportare il controllo a distanza dell’attività lavorativa; dette apparecchiature possono essere installate previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali. 46 10.2) Rinvii in funzione derogatoria Il contratto collettivo può essere chiamato dalla stessa legge ad intervenire in funzione derogatoria. In questa ipotesi, la legge detta una normativa e allo stesso tempo abilita il contratto collettivo a stabilire una disciplina diversa, laddove per diversa si intende peggiorativa. Mentre i tradizionali rinvii legali al contratto collettivo in funzione derogatoria erano puntuali e previsti in specifiche norme ai soli fini dalle stesse contemplate, l’art. 8 del d. legge 138/2011 ha stabilito una regolamentazione generale delle ipotesi in cui il contratto collettivo piò derogare a norme inderogabili di leggi. La norma, rubricata “sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”, consente la stipulazione dei contratti aziendali o territoriali con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, e con possibilità di derogare a norme inderogabili di legge (oltre che ai contratti nazionali). Il tutto a condizione che: 1) i contratti siano stipulati da soggetti collettivi particolarmente qualificati e sulla base di un criterio maggioritario 2) la stipulazione risponda alle finalità indicate dalla legge 3) la disciplina pattizia riguardi le specifiche materie indicate dello stesso art.8 4) restino fermi i limiti derivanti dal rispetto della Costituzione, delle normative comunitarie, e delle convenzioni internazionali sul lavoro Una recente sentenza ha chiarito che è nullo il contratto di prossimità che non individui la disciplina derogata in correlazione con le specifiche finalità previste dalla legge. Le materie sulle quali è possibile intervenire restano però molto ampie, tanto da mettere in discussione l’impianto generale del diritto del lavoro fondato sulla inderogabilità della norma a tutela del contraente debole. 47 10.2.1) Considerazioni sull’art.8 del d.l. 138 del 2011. Differenze con l’art.51 del d.lgs. 81/2015 Occorre chiedersi se il citato articolo 8 possa considerarsi un episodio normativo isolato o abbia segnato l’inizio di un’inversione di tendenza nella misura in cui il contratto aziendale sia abilitato a derogare in pejus norme inderogabili di legge prescindendo dai limiti e dalle procedure previste dal contratto nazionale. A questa domanda si deve rispondere che la normativa successiva non solo ricorre alla stessa tecnica, nel senso che autorizza il contratto aziendale a derogare in pejus norme di legge bypassando la funzione ordinante del contratto collettivo nazionale, ma interviene anche direttamente a modificare talune normative inderogabili che regolavano il rapporto di lavoro. Si pensi per esempio al Jobs Act del 2015 che ha modificato l’art.2103 c.c. in materia di mansioni: la nuova formulazione, oltre ad estendere notevolmente le fattispecie legali di legittima adibizione a mansioni inferiori, abilita i contratti collettivi, anche aziendali, ad individuare ulteriori ipotesi di demansionamento. L’art.2103 quini attribuisce ai contratti collettivi una competenza derogatoria più estesa rispetto a quando previsto dall’art.8, che si limita infatti a subordinare la possibilità di derogare alle norme di legge all’intervento di un contratto collettivo. L’art.51 del d.lgs. 81/205, rubricato “Norme di rinvio ai contratti collettivi” prospetta una sorta di generale equiparazione tra contratto nazionale e contratto aziendale nella disciplina dei rapporti di lavoro. A fronte dell’indeterminatezza dei rinvii ai “contratti collettivi”, l’art.51 chiarisce che, salvo diversa disposizione, i riferimenti ai contratti collettivi indicano indifferentemente i contratti collettivi nazionali territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative, dalle loro r.s.a. ovvero dalla r.s.u. Occorre infine tracciare una differenza: a) L’art. 8 è una norma generale che individua materie nell’ambito delle quali il contratto aziendale può derogare, con efficacia generale, a norme inderogabili di legge b) L’art.51, invece, circoscrive la legittimazione anche del contratto aziendale a regolare determinati aspetti o a derogare a norme espressamente derogabili, stante il rinvio ai contratti collettivi. 50 11.2) Il rapporto tra contrattazione e rappresentatività La disciplina della contrattazione collettiva delineata dal Testo Unico del 2014 e fagli accordi successivi offre l’occasione per interrogarsi sugli attuali rapporti tra rappresentatività e contrattazione ai due diversi fini della stipulazione del contratto nazionale e dell’esercizio dei diritti sindacali in azienda. La rappresentatività, nel sistema precedente, in qualche modo dipendeva dalla contrattazione: l’aver partecipato alle trattative era uno degli indici della maggiore rappresentatività. C’è da chiedersi però se oggi la rappresentatività costituisca un prius rispetto alla contrattazione o se invece il rapporto debba considerarsi invertito. La sentenza della Corte Costituzionale n.231/2013, almeno nella motivazione, sembra delineare un concetto di rappresentatività che prescinde dalla contrattazione e che, al contrario, diventa presupposto per accedere alle trattative. La Corte accoglie una nozione di rappresentatività che, esistendo nei fatto e nel consenso dei lavoratori, si fonda sul rapporto tra lavoratori e sindacato. Ad ogni modo, diversamente dalla motivazione, nel dispositivo si fa riferimento ad una nozione di rappresentatività fondata sul rapporto tra sindacato e controparte, perché desunta dalla partecipazione alle trattative e perciò dalla capacità di imporsi del sindacato. Dunque, in conclusione: a) Se si segue l’impostazione del dispositivo della sentenza ai fini dell’esercizio dei diritti sindacali, la contrattazione, anche solo intesa come partecipazione alle trattative, continua formalmente a porsi come anteposto logico della rappresentatività. b) Se invece si accoglie la tesi esposta nella motivazione, è la rappresentatività (misurata dal consenso dei lavoratori) a porti come presupposto logico della contrattazione. c) Quindi, i rapporti tra rappresentatività e contrattazione sembrano atteggiarsi diversamente a seconda della nozione di rappresentatività presa in considerazione e delle relative finalità: contrattazione nazionale da una parte ed esercizio dei diritti sindacali in azienda dall’altra. 51 11.3) Il procedimento di contrattazione Il procedimento di contrattazione è delineato dal Testo Unico del 2014, che ricalca quello previsto dal Protocollo del 2013. Nel procedimento sono coinvolti soggetti diversi: a) Federazioni nazionali. Esse definiscono le piattaforme contrattuali e stipulano il contratto collettivo al termine delle trattative. b) Delegazione trattante. Conduce le trattative sulla base delle piattaforme presentate, fino al raggiungimento di un accordo con la controparte. Vediamo quindi le varie fasi: 1) Preliminarmente, le Federazioni di categoria devono individuare, con proprio regolamento, le modalità di definizione della piattaforma e della delegazione trattante e le relative attribuzioni. 2) Il procedimento di contrattazione si apre con la presentazione delle piattaforme: l’accordo interconfederale prevede impegno in capo alle organizzazioni sindacali ed in capo alla parte datoriale. 3) Le organizzazioni sindacali favoriranno, in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie. Laddove ciò non avvenga, tuttavia, la parte datoriale favorirà le organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore parti almeno al 50% +1 4) Potrebbe non esservi un consenso unitario sulle piattaforme, ma in linea di massima vi sarà una piattaforma destinata a porsi al centro del negoziato. Una volta individuata la piattaforma rivendicativa, le trattative vengono portate avanti dalla delegazione trattante. 5) Concluse le trattative e raggiunta un’ipotesi di accordi la delegazione trattante ha esaurito il proprio compito e rientrano in gioco le Federazioni Nazionali, chiamate a sottoscrivere formalmente il contratto collettivo. 52 11.4) Efficacia del contratto collettivo. Nozione pattizia di “partecipazione alle trattative”. Il contratto collettivo stipulato all’esito del procedimento di contrattazione descritto può avere una particolare efficacia, non limitata alle federazioni stipulanti ed ai lavoratori dalle stesse rappresentati, se si verificano due condizioni ulteriori: 1) il contratto nazionale sia formalmente sottoscritto dalle organizzazioni sindacali che rappresentino almeno il 50% +1 della rappresentanza; 2) il contratto sia approvato mediante una consultazione certificata dei lavoratori, a maggioranza semplice, secondo modalità da stabilire ad opera delle categorie per ogni singolo contratto. Il rispetto delle procedure comporta l’efficacia e l’esigibilità degli accordi per l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici, nonché per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie della presente intesa. E’ evidente che l’intesa non spiegherà l’efficacia soggettiva prevista se è respinta dalla maggioranza semplice dei votanti. L’aver concordato sulle regole di contrattazione diventa condizione dell’efficacia del contratto, anche nei confronti dell’organizzazione sindacale che non lo ha sottoscritto. Questo, ovviamente, se la disciplina concordata al livello interconfederale si dimostrerà effettiva e riuscirà a tenere anche di fronte all’eventuale dissenso di una grande federazione nazionale. La sentenza della Corte Costituzionale 231/2012 ha individuato nella partecipazione alla negoziazione un nuovo criterio selettivo ai fini dell’esercizio dei diritti sindacali in azienda. Diventa allora fondamentale chiarire la nozione di “partecipazione alla negoziazione”. Il Testo Unico del 2014 provvede direttamente ad individuare la nozione di partecipazione alle trattative utile ai fini dell’esercizio dei diritti sindacali. In particolare si intendono partecipanti alla negoziazione i partecipanti che: 1) abbiano raggiunto il 5% della rappresentanza 2) abbiano contribuito alla definizione della piattaforma 3) abbiano fatto parte della delegazione trattante 55 11.7) I contenuti della contrattazione collettiva Il contratto nazionale deve garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati sul territorio nazionale. La contrattazione aziendale si esercita per le materie delegate dal contratto nazionale o dalla legge. La delega presuppone che la materia non sia regolata dal contratto nazionale o dalla legge, e debba essere regolata dal contratto aziendale. Si deve ritenere, pertanto, che la contrattazione aziendale non possa riproporre questioni che siano già state negoziate in altri livelli di contrattazione. Inoltre, in assenza di una delega espressa a disciplinare una determinata materia o porzione di materia, il contratto aziendale non potrà dettare alcuna regolamentazione. Ovviamente la delega può essere più o meno dettagliata, fermo restando che essa dovrà avere comunque quel minimo di specificità che consenta di determinarne l’oggetto. Tra le materie frequentemente delegate dal contratto nazionale a quello aziendale spiccano la retribuzione di risultato, il regime dei turni, la flessibilità dell’orario ed il recupero delle ore di lavoro. La disciplina interconfederale sembra evidenziare una sorta di gerarchia tra i due livelli di contrattazione, nazionale ed aziendale. Il problema è allora bilanciare il rapporto tra questi due livelli, in un contesto in cui è evidente la spinta, anche da parte del legislatore, sulla contrattazione decentrata. Un siffatto bilanciamento potrebbe essere effettivo se le parti avessero stabilito una chiara ripartizione delle funzioni non soltanto salariarli tra i due livelli di contrattazione. E’ noto invece che questo risultato non è stato raggiunto perché non è stata riservata al contratto nazionale la competenza a mantenere aumenti fissi della retribuzione lasciano gli aumenti variabili alla contrattazione aziendale. 56 11.7.1) Le clausole di esigibilità Il Testo Unico del 2014 disciplina le cosiddette clausole di esigibilità. Si tratta delle clausole finalizzate a prevenire e sanzionare eventuali azioni di contrasto, di ogni natura, che compromettano il regolare svolgimento dei processi negoziali, l’efficacia e l’esigibilità dei contratti collettivi. Le clausole di esigibilità si caratterizzano per un oggetto più esteso rispetto alle clausole di tregua: a) Le clausole di tregua regolano le modalità di esercizio dello sciopero ed in particolare la proclamazione dello sciopero b) Le clausole di esigibilità, invece, possono riguardare non solo lo sciopero ma anche azioni di contrasto di ogni natura. E quindi possono avere ad oggetto anche l’esercizio di altri diritti sindacali come l’assemblea, oltre che ovviamente a comportamenti che costituiscono veri e propri inadempimenti. Ad ogni modo, in concreto, le clausole di esigibilità nascono principalmente per arginare gli scioperi, soprattutto se proclamati in momenti particolari: non a caso lo stesso Testo Unico collega espressamente tregua ed esigibilità quando fa riferimento alle clausole di tregua finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti. Un ulteriore valore aggiunto delle clausole di esigibilità rispetto alle clausole di tregua sta poi nella predeterminazione di sanzioni più funzionali dei rimedi offerti in linea generale dal diritto civile, poco utili sul piano dei rapporti collettivi. Il Testo Unico, infatti, prefigura tre tipi di sanzioni (a carico delle parti collettive e non dei singoli): 1) sanzioni pecuniarie 2) sospensione dei diritti sindacali di fonte contrattuale 3) sospensione di ogni altra agibilità derivante dal Testo Unico. La disciplina dettata dal Testo Unico in materia di esigibilità non è immediatamente operativa, perché la definizione delle relative clausole è demandata ai contratti nazionali e nessun contratto nazionale vi ha dato ancora attuazione. 57 12) Lo sciopero Lo sciopero è un diritto di rango costituzionale e l’art.40 Cost. rinvia al legislatore ordinario il compito di regolarne le modalità e l’esercizio. In realtà la norma costituzionale è stata considerata sin dalle origini, pur in assenza della normativa di attuazione, immediatamente precettiva e cioè applicabile direttamente dal giudice. Ad ogni modo l’assenza di una normativa di legge ordinaria ci spiega perché la giurisprudenza abbia dovuto assolvere ad una funzione di supplenza, risolvendo tre ordini di problemi: 1) La qualificazione dello sciopero e la conseguente determinazione delle finalità lecite 2) La questione della titolarità del diritto di sciopero, risolta privilegiando la tesi della titolarità individuale rispetto a quella della titolarità collettiva 3) Le modalità di esecuzione del diritto di sciopero; modalità individuate e regolate dall’intervento della Cassazione e soprattutto della Corte Costituzionale. E’ opportuno comunque illustrare brevemente la disciplina previgente: 1) Le norme del codice penale sardo consideravano reati sia lo sciopero sia la serrata 2) Il codice Zanardelli depenalizzò lo sciopero che, insieme alla serrata, restava reato solo se posto in essere con violenza o minaccio. Lo sciopero fu in sostanza considerato una liberalità di fatto, cioè un’attività penalmente lecita che restava tuttavia illecita sotto il profilo civile, costituendo un inadempimento tale da giustificare il licenziamento 3) Il codice Penale del 1930 ha sanzionato penalmente ogni forma di sciopero e di serrata, sia nel settore privato (artt.502 e ss.), sia nel settore pubblico (artt. 330-333). Il codice Rocco prevedeva (ed in alcuni casi prevede ancora) in particolare. 3a) Sciopero per fini contrattuali (art.502). Diretto contro il datore di lavoro al fine di ottenere la modifica delle condizioni di lavoro stabilite nel contratto collettivo. 3b) Sciopero per fini non contrattuali, ossia per fine politico (art.503), oppure per costringere la pubblica utilità ad emettere o omettere un provvedimento (art.504). 3c) Sciopero di protesta o di solidarietà (art.505). L’art.502 è stato dichiarato illegittimo. Gli articoli 503 e 504 sono stati dichiarati parzialmente incostituzionali. Ovviamente vedremo la questione nel dettaglio nei prossimi paragrafi. 60 12.2) La titolarità del diritto di sciopero Lo sciopero è un diritto individuale ad esercizio collettivo: -individuale perché titolare del diritto è il singolo lavoratore -ad esercizio collettivo perché è finalizzato a tutelare un interesse collettivo 1) Titolari del diritto di sciopero sono in primo luogo tutti i lavoratori subordinati in senso tecnico, con le eccezioni dei militari, del personale della pubblica sicurezza, dei marittimi nel periodo di navigazione, mentre la legge pone limiti (che vanno coordinati con quelli previsti per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali) nei confronti degli addetti agli impianti nucleari e degli assistenti di volo. 2) La titolarità del diritto è stata riconosciuta anche ai lavoratori parasubordinati in quanto soggetti contrattualmente deboli nei confronti del committente. 3) Per quanto riguarda i piccoli imprenditori (deboli) che non abbiano alle proprie dipendenze lavoratori subordinati, secondo la Corte Costituzionale la loro astensione dall’attività non è qualificabile come serrata, ma è una forma di protesta assimilabile allo sciopero. 4) L’estensione dell’art.40 è esclusa nei confronti dei piccoli imprenditori forti, ossia di coloro che abbiano lavoratori alle proprie dipendenze. 5) Quanto ai liberi professionisti, la Corte Costituzionale ha escluso che l’astensione dal lavoro sia qualificabile come sciopero in senso tecnico ed ha considerato tutte le azioni collettive svolte ai fini di protesta, rivendicazione o pressione, come manifestazione della libertà di associazione di cui all’art.18 Cost. 6) Secondo un’autorevole dottrina, la titolarità del diritto di sciopero dovrebbe essere negata ai magistrati, in quanto investiti di una funzione sovrana. In realtà, numerosi sono stati gli scioperi dei magistrati e nessun organo giudiziario ha mai eccepito l’illegittimità di tali astensioni. 61 12.3) Forme anomale di sciopero 1) Sciopero a sorpresa. Ormai la giurisprudenza non considera illegittima questa forma di sciopero, fermo restando l’obbligo di preavviso nell’ambito dei servizi pubblici essenziali. 2) Sciopero a singhiozzo. Lo sciopero, invece di essere effettuato per un periodo di tempo continuativo, è intermittente, cioè è esercitato alternando periodi di lavoro. 3) Sciopero a scacchiera. Non è attuato contemporaneamente da tutto il personale di un’azienda, ma solo da alcuni reparti ed in momenti diversi. Lo sciopero attuato con queste modalità arreca all’azienda un danno maggiore di quello inferto con lo sciopero tradizionale, perché scompagina l’organizzazione del lavoro con un minore sacrificio per i lavoratori. Fino al 1980 queste forme di sciopero furono considerare illegittime dalla giurisprudenza. Poi intervenne la Cassazione che, con una storica sentenza, abbandonò il criterio del danno ingiusto e della corrispettività dei sacrifici (criterio utilizzato per distinguere lo sciopero legittimo da quello illegittimo). Secondo la sentenza in esame, per stabilire se lo sciopero è legittimo non si deve avere riguardo alla maggiore o minore entità del danno provocato alla produzione, ma si deve avere riguardo al danno arrecato alle persone e agli impianti, cioè alla produttività: in sostanza si distingue il danno alla produzione (legittimo) dal danno alla produttività (illegittimo). Ad ogni modo si consente al datore di lavoro di rifiutare o non retribuire le prestazioni lavorative che non gli arrecano alcune utilità tra una sospensione e l’altra della prestazione lavorativa nello sciopero a singhiozzo, oppure dal lavoratori non scioperanti in caso di sciopero a scacchiera. In quest’ultimo caso la prestazione dei lavoratori di un reparto potrebbe non arrecare alcuna utilità al datore di lavoro, perché, ad esempio, dal reparto in sciopero non arrivano i prodotti necessari. In sintesi, se la prestazione offerta dal prestatore di lavoro non arreca alcuna utilità al datore di lavoro, questi è legittimato a rifiutarla. Da menzionare è poi la cosiddetta comandata, prevista da un accordo, formale o informale, tra imprenditore e sindacati per garantire una presenza continua di un certo numero di lavoratori, durante gli scioperi negli impianti siderurgici o chimici a ciclo continuo, che non possono essere fermati o spenti. 62 12.4) Le clausole di tregua sindacale Si dicono clausole di tregua sindacale le clausole colte a limitare l’esercizio del diritto di sciopero nel periodo di vigenza del contratto collettivo: a) Secondo un’autorevole dottrina, il dovere di pace sindacale sarebbe un effetto naturale del contratto collettivo, e le clausole di tregua potrebbero vincolare non solo i soggetti collettivi ma anche i lavoratori. b) Secondo altra opinione, divenuta maggioritaria, le clausole di tregua potrebbero impegnare i soli soggetti sindacali a non proclamare lo sciopero nell’arco della vigenza del contratto collettivo, senza vincolare i singoli lavoratori, che resterebbero liberi di esercitar il diritto di sciopero anche in assenza della proclamazione. In linea teorica l’inadempimento della clausola di tregua, secondo i principi della responsabilità contrattuale, obbligherebbe il sindacato al risarcimento del danno nei confronti della controparte, ma di fatto la difficoltà di determinare i danni risarcibili e quantificarli non consente una concreta possibilità di tutela risarcitoria. 65 13.1) I servizi strumentali dei servizi essenziali. Estensione dell’ambito di applicazione delle norme sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ad opera della legge 83/2000. Un discorso a parte meritano i servizi strumentali dei servizi essenziali. Si tratta di servizi funzionalmente collegati a quelli essenziali, la cui sospensione può pregiudicare l’erogazione del servizio pubblico finale e di conseguenza gli utenti che ne sono fruitori. Così, ad esempio, la commissione di garanzia nel settore del trasporto aereo ha considerato strumentali al servizio di trasporto passeggeri, l’assistenza tecnica ai radar, i servizi di rifornimento carburante, catering e pulizia degli aerei. Il legislatore è intervenuto nuovamente in materia di servizi pubblici essenziali con la legge 83/2000, che ha risolto alcuni punti critici tenendo conto anche degli sviluppi giurisprudenziali. Nella legge si afferma che le norme sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali non si applicano soltanto ai lavoratori subordinati, ma anche ai lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori. Tale estensione dell’ambito di applicazione è sostanzialmente uno sviluppo normativo della giurisprudenza costituzionale che aveva qualificato come sciopero e non come serrata l’astensione dal lavoro dei piccoli imprenditori senza dipendenti. 66 13.2) Limiti all’esercizio dello sciopero La legge indica diversi limiti all’esercizio dello sciopero. Si tratta di limiti che, come precisato dalla giurisprudenza, sono da considerarsi tassattivi: 1) Preventivo esperimento delle procedure di raffreddamento e conciliazione del conflitto. 2) Obbligo di preavviso 3) Obbligo di comunicare per iscritto la data, la durata, le modalità, nonché la motivazione dello sciopero sia al datore di lavoro, sia al Presidente del Consiglio (se lo sciopero ha rilevanza nazionale) sia al Prefetto (se lo sciopero ha rilevanza locale), che a loro volta sono tenute a trasmettere immediatamente tale comunicazione alla Commissione di Garanzia. 4) Divieto dell’effetto annuncio, tipizzando la fattispecie dell’azione sindacale sleale. 5) Rispetto delle regole di rarefazione, ossia il rispetto di intervalli da osservare tra l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo, che operano in senso soggettivo ed in senso oggettivo. Generalmente tale intervallo non è inferiore a 10 giorni, ed in alcuni casi è ampliato fino a 30 giorni (come per i servizi del trasporto pubblico). 6) Divieto di concomitanza. Si demanda alla Commissione di Garanzia il compito di rilevare l’eventuale concomitanza tra interruzioni e riduzioni di servizi pubblici alternativi, che interessano il medesimo bacino d’utenza, al fine di evitare che servizi pubblici alternativi siano contemporaneamente interessati da astensioni. 7) Il rispetto di misure diretta a consentire l’esecuzione delle prestazioni indispensabili. 67 13.2.1) Le procedure di raffreddamento e conciliazione . Il divieto dell’effetto annuncio. Le procedure di raffreddamento e conciliazione, così come specificato dalla legge 83/2000 devono essere obbligatoriamente effettuate da qualsiasi soggetto collettivo che intenda effettuare uno sciopero nel settore dei servizi pubblici essenziali, prima della proclamazione di questo e, al pari delle prestazioni indispensabili, devono essere inserite. Occorre evidenziare che: a) Queste procedure intervengono, di solito, quando è già in essere uno stato di agitazione e configurano un ulteriore tentativo di evitare l’astensione dal lavoro. Si dice, pertanto, che anch’esse svolgono una funzione regolativa dello sciopero. b) Laddove le parti non intendano avvalersi delle procedure previste dagli accordi, possono esperire una diversa procedura di conciliazione in via amministrativa, presso la prefettura, il comune o il Ministero del lavoro, a seconda della rilevanza del conflitto. c) Tali procedure soddisfano esigenze diverse da quelle delle procedure di prevenzione, le quali infatti non sono dirette a comporre un conflitto in atto o che comunque stia per essere attuato, ma è rivolta ad intervenire in via astratta sulle possibili clausole di conflitto. Infine, secondo il divieto dell’effetto annuncio: a) La revoca spontanea dello sciopero già proclamato, dopo che ne è stata data informazione all’utenza, costituisce forma sleale di azione sindacale b) La revoca ingiustificata può essere censurata non soltanto dalla Commissione di garanzia, ma anche in sede giudiziaria su iniziativa delle associazioni degli utenti. Si è riconosciuto infatti a tali associazioni la legittimazione ad agire in giudizio nei confronti delle organizzazioni sindacali responsabili, quando lo sciopero sia stato revocato dopo la comunicazione all’utenza. 70 13.2.3.1) I soggetti su cui incombe l’obbligo di garantire l’esecuzione delle prestazioni indispensabili L’obbligo di garantire l’esecuzione delle prestazioni indispensabili incombe: a) sui soggetti che promuovono lo sciopero b) sui lavoratori che esercitano il diritto di sciopero c) sulle amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi d) sulle associazioni dei lavoratori autonomi e professionisti e) sulle associazioni dei piccoli imprenditori A) Quanto ai soggetti che promuovono lo sciopero, va osservato che: 1) questa formula così ampia legittima alla proclamazione dello sciopero non solo le organizzazioni sindacali, ma ogni struttura sindacale, anche non associativa. 2) la proclamazione dello sciopero è obbligatoria e va effettuata in forma scritta, con l’indicazione del preavviso, della durata, delle modalità di attuazione de delle motivazioni dell’astensione. 3) le limitazioni procedurali alla proclamazione gravano non soltanto sulle organizzazioni dei lavoratori che proclamano lo sciopero o vi aderiscono, ma anche sui singoli lavoratori che non possono legittimamente scioperare se non sono stati effettuati tali adempimenti B) Quanto ai lavoratori che esercitano il diritto di sciopero, si evidenzia che: 1) essi sono obbligati a garantire, durante lo sciopero, le prestazioni indispensabili individuate preventivamente dalla contrattazione collettiva. 2) in assenza di accordi collettivi, o qualora essi non siano ritenuti idonei, i lavoratori devono attenersi alle modalità stabilite dalla provvisoria regolamentazione adottata dalla Commissione di Garanzia. C) Anche i lavoratori autonomi, in solido con le loro associazioni, sono tenuti a garantire l’esecuzione delle prestazioni indispensabili stabilite dai loro codici di autoregolamentazione o in mancanza dalla Commissione di Garanzia. 71 13.2.3.1.1) Obbligo delle imprese e delle amministrazioni erogatrici di garantire prestazioni indispensabili D) A che le imprese e le amministrazioni erogatrici dei servizi sono obbligate a garantire le prestazioni indispensabili il cui oggetto non è costituito esclusivamente dalle prestazioni dei lavoratori, ma anche dall’attività di organizzazione dell’imprenditore e dalla sua attività di cooperazione all’adempimento dell’obbligazione lavorativa. La legge 146/1990 prevede, a carico degli enti erogatori dei servizi pubblici essenziali, importanti obblighi di informazione a favore dell’utenza, al fine di garantire la concreta attuazione degli scopi indicati nella legge: 1) E’ espressamente stabilito l’obbligo, per le amministrazioni o le imprese erogatrici dei servizi, di informare gli utenti, nelle forme adeguate e almeno cinque giorni prima dell’inizio dello sciopero, dei modi e dei tempi di erogazione dei servizi nel corso dello sciopero e delle misure per la riattivazione degli stessi. 1a) Devono inoltre garantire e rendere nota la pronta riattivazione del servizio, quando l’astensione dal lavoro sia terminata, al fine di evitare i disagi che possono investire gli utenti una volta che lo sciopero sia compito. 2) Analogo obbligo di informazione grava sul servizio pubblico radiotelevisivo, il quale è tenuto a dare tempestiva e completa comunicazione sull’inizio, la durata, le misure alternative e le modalità dello sciopero nel corso dei telegiornali e giornali radio. 3) L’obbligo di comunicazione assume un contenuto più rigoroso per le amministrazioni e le imprese erogatrici dei servizi di trasporto, le quali sono tenute a comunicare agli utenti, contestualmente alla pubblicazione degli orari dei servizi ordinari, l’elenco dei servizi che saranno garantiti comunque in caso di sciopero ed i relativi orati. 72 13.3) Il ruolo del contratto collettivo nella risoluzione del conflitto. I codici di autoregolamentazione dello sciopero. La legge assegna al contratto collettivo un ruolo centrale nella gestione del conflitto. In tale prospettiva, il contratto collettivo diventa fonte, sia pure extra ordinem, di disciplina dello sciopero. La legge 146/1990 assegna al contratto collettivo, oltre alla sua funzione tipica, anche quella di dare soddisfazione agli interessi degli utenti, quando siano costituzionalmente garantiti. In sostanza, la legge affida ad un atto di autonomia privata la cura di un interesse pubblico. Va evidenziato che: 1) Nello sciopero dei servizi pubblici, l’obbligo per i singoli lavoratori di svolgere le prestazioni indispensabili non è un effetto direttamente collegabile al contratto collettivo, ma deriva direttamente dalla valutazione di idoneità che su di esso esprime la Commissione di Garanzia. 2) La valutazione positiva della Commissione non produce l’effetto di estendere l’efficacia delle regole procedurali in tema di raffreddamento e conciliazione nei confronti delle organizzazioni che non hanno partecipato alla loro negoziazione. In effetti, l’imposizione di un’obbligazione contrattuale siffatta al sindacato che non abbia stipulato il contratto costituirebbe una lesione del principio dell’organizzazione sindacale sancito dall’articolo 39 comma 1 della Costituzione. Nella legge 146/1990 è riconosciuto ampio spazio ai codici di autoregolamentazione dello sciopero dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori, in solido con le loro associazioni: a) Tali associazioni, diversamente dai sindacati dei lavoratori autonomi, devono provvedere unilateralmente a limitare l’astensione del lavoro dei loro iscritti attraverso l’adozione di codici di autoregolamentazione per contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con l’esercizio dei diritti della persona costituzionalmente garantiti. b) Anche rispetto ai lavoratori autonomi la generalità del vincolo del codice di autoregolamentazione dipende dalla valutazione positiva della Commissione di Garanzia, mentre la valutazione negativa della stessa Commissione priva il codice di efficacia nei confronti di tutti i lavoratori. 75 13.5) La precettazione La precettazione è un istituto regolato dalla legge 146/1990 ma era già conosciuto dalla legge di pubblica sicurezza del 1931 e dalla legge comunale provinciale del 1934, anche se non aveva la funzione di regolare il diritto allo sciopero, considerato infatti reato. La precettazione è sostanzialmente il provvedimento amministrativo straordinario col quale si impongono alcune limitazioni allo sciopero. Il potere di precettazione è attribuito al Presidente del Consiglio dei Ministri, o ad un Ministro da lui delegato, oppure al Prefetto per i conflitti di ambito più ristretto. L’ordinanza di precettazione viene adottata ogni volta in cui ci sia il fondato pericolo di pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente garantiti, pericolo derivante dall’interruzione o dall’alterazione del funzionamento del servizio. L’ordinanza di precettazione può prevedere: 1) il differimento o la riduzione della durata dell’astensione collettiva 2) l’integrazione delle regole attraverso la prescrizione di misure idonee ad assicurare livelli di funzionamento dei servizi compatibili con la salvaguardia dei diritti costituzionalmente garantiti L’ordinanza deve essere portata a conoscenza dei destinatari mediante affissione nei luoghi di lavoro e di essa va data notizia dai giornali o dal servizio pubblico radiotelevisivo. Presupposti per l’emanazione dell’ordinanza di precettazione sono: a) il fondato pericolo di un pregiudizio grave ed imminente ai diritti della persona costituzionalmente garantiti che potrebbe essere cagionato dall’interruzione o dalla alterazione del funzionamento dei servizi pubblici, conseguenti all’esercizio dello sciopero o di forme di astensione collettiva dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori b) l’attivazione del procedimento da parte della Commissione di Garanzia che segnala all’autorità competente le situazioni nella quali dallo sciopero o dall’astensione collettiva possa derivare un imminente e fondato pericolo di pregiudizio ai diritti della persona costituzionalmente tutelati; e in tali casi formula proposte in ordine alle misure da adottare con ordinanza al fine di prevenire il predetto pregiudizio. 76 13.5.1) Ricorso al TAR contro l’ordinanza di precettazione. Sanzioni per inottemperanza all’ordinanza di precettazione. Contro l’ordinanza di precettazione può essere presentato ricorso dinanzi al TAR, entro sette giorni dalla sua comunicazione o affissione nei luoghi di lavoro, da parte dei destinatari del provvedimento che ne abbiano interesse. La proposizione del ricorso non sospende l’immediata esecutività dell’ordinanza, tuttavia il Tar, nella prima udienza utile, se ricorrono fondati motivi, può sospendere il provvedimento impugnato. Le sanzioni per i soggetti che non osservano le disposizioni contenute nell’ordinanza di precettazione sono irrogate con decreto della stessa autorità che ha emanato l’ordinanza: 1) I singoli prestatori di lavoro, professionisti, o piccoli imprenditori sono soggetti alla sanzione amministrativa pecuniaria per ogni giorno di mancata ottemperanza, determinabile da euro 500 a euro 1000 2) Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e gli organismi di rappresentanza dei lavoratori autonomi sono passibili di sanzione amministrative pecuniaria da euro 2.500 a euro 50.000 3) I preposti al settore nell’ambito degli enti o delle imprese erogatrici dei servizi sono sospesi dall’incarico per un periodo non inferiore a trenta giorni e non superiore ad un anno. 77 14) Le forme di lotta sindacale diverse dallo sciopero Oltre allo sciopero, altri comportamenti dei lavoratori, pur non risolvendosi in un’astensione dal lavoro tout court, vengono comunque considerati nella prassi sindacali strumenti di lotta finalizzati a danneggiare il datore di lavoro. Tra le forme alternative allo sciopero possiamo distinguere: 1) attività di propaganda ed organizzazione di cortei interni 2) sciopero bianco 3) sciopero dello straordinario Tra le forme alternative allo sciopero troviamo poi alcune condotte dei lavoratori che, non comportando la sospensione totale dell’attività lavorativa, costituiscono forme di inesatto adempimento o di esecuzione negligente dell’obbligazione lavorativa: 4) sciopero delle mansioni 5) sciopero del cottimo 6) sciopero pignolo 7) Picchettaggio Sono invece considerate penalmente illecite: 1) occupazione dell’azienda 2) sabotaggio 3) blocco delle merci 4) blocco stradale 5) disturbo della quiete pubblica 6) boicottaggio L’imprenditore può reagire a queste condotte penalmente illecite, sia adottando provvedimenti disciplinari, incluso il licenziamento, sia esperendo azioni a tutela del possesso o domandando l’adozione di provvedimenti cautelari d’urgenza. 80 15) La serrata La serrata è una forma di lotta sindacale dell’imprenditore che consiste nella chiusura, totale o parziale, dei luoghi di lavoro e nella conseguente sospensione dell’attività lavorativa: a) Il lavoratore durante la serrata mantiene il diritto alla retribuzione pur non eseguendo la prestazione lavorativa, poiché l’impossibilità di rendere la prestazione è imputabile esclusivamente al datore di lavoro. b) La costituzione non tutela in termini espliciti l’interesse alla serrata, né qualifica la serrata come diritto. Solo lo sciopero è espressamente riconosciuto come diritto (art.40 Cost). Dato che la serrata non è un diritto, occorre accertare se sia una liberalità di fatto o se, con l’avvento della Costituzione, possa e benna qualificarsi come libertà costituzionalmente garantita. c) La Corte Costituzionale ha affermato che la serrata per fini contrattuali, pur non essendo stata riconosciuta come diritto dalla Costituzione, rappresenta pur sempre una manifestazione del principio di libertà sindacale garantito dall’art. 39 Cost e pertanto non poteva essere considerata una condotta penalmente perseguibile. Da tale impostazione, ancora attuale, consegue che al legislatore ordinario non è più consentito di incriminare come reato la serrata per fini contrattuali. d) La serrata dei piccoli esercenti senza dipendenti viene qualificata come sciopero. Esistono tre forme di serrata: 1) Serrata offensiva. Tende a conseguire una modificazione, in danno dei lavoratori, di condizioni preesistenti. 2) Serrata difensiva. Diretta scoraggiare iniziative dei lavoratori intese a conseguire condizioni più favorevoli 3) Serrata di ritorsione. E’ una reazione ai modi di conduzione della lotta sindacale da parte dei lavoratori. Continuano ad essere considerate reati, ai sensi dell’art.505 c.p., la serrata per protesta e la serrata di solidarietà, perché la libertà costituzionale di serrata opera nel quadro dei rapporti fra datori di lavoro e lavoratori, ma, diversamente dallo sciopero, non comprende i comportamenti estranei all’ambito di quei rapporti. Tale orientamento della Corte Costituzionale è stato esteso da una parte della dottrina alla serrata per fini politici. 81 15.1) La serrata come ipotesi di mora del creditore. La serrata come ipotesi di comportamento antisindacale. Se la serrata per fini contrattuali è un comportamento penalmente lecito, sul piano civile integra un inadempimento: precisamente un’ipotesi di mora del creditore. Gli effetti sono quelli stabiliti dagli articoli 1206 ss. c.c. e si concretano nel risarcimento del danno derivante dalla mora dello stesso imprenditore che serra l’azienda. Tuttavia è doveroso sottolineare come sia consentito all’imprenditore rifiutare legittimamente la prestazione di lavoratori non scioperanti quando questa non sia proficuamente utilizzabile in concreto, a causa dello sciopero di altri dipendenti nella stessa azienda. Non ricorre la mora del creditore qualora l’imprenditore rifiuti la prestazione di lavoro per un motivo legittimo. Ciò avviene in due casi: 1) Sciopero a singhiozzo, se la prestazione lavorativa offerta risulti parziale e comunque diversa da quella pattuita, e perciò non utile per il datore di lavoro 2) Sciopero a scacchiera, qualora l’astensione dal lavoro di un gruppo di lavoratori renda impossibile ai lavoratori di un altro reparto di effettuare l’esecuzione della prestazione. In questo caso il datore di lavoro mette in libertà i lavoratori del reparto a valle disponibili a lavorare, ma di fatto impossibilitati a causa dello sciopero del lavoratore del reparto a monte. E’ ovvio che l’esclusione della mora non si verifica se lo sciopero a singhiozzo o a scacchiera non determina una situazione di oggettiva impossibilità o effettiva inutilità della prestazione di lavoro. L’onere della prova dell’impossibilità oggettiva delle prestazioni offerte grava sul datore di lavoro. La serrata può rilevare come comportamento antisindacale, qualora l’azione del datore impedisca l’esercizio dei diritti sindacali e, in genere, l’esercizio dell’attività sindacale. Si pensi, ad esempio, alla chiusura dell’azienda da parte del datore di lavoro proprio nel giorno in cui si sarebbe dovuta tenere l’assemblea sindacale. Il giudice, qualora accerti la sussistenza di una condotta antisindacale, ordina la sospensione del comportamento contestato, cioè la sospensione della serrata e la rimozione degli effetti, che, nel caso di specie, consiste nell’immediata riapertura dei locali dell’azienda per consentire lo svolgimento dell’attività sindacale e l’esercizio dei diritti sindacali, l’una e gli altri impediti dalla chiusura dell’azienda. 82 16) La repressione della condotta antisindacale L’art.28 dello Statuto dei Lavoratori (“repressione della condotta antisindacale”) legittima il giudice a reprimere ogni comportamento del datore di lavoro diretto ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché del diritto di sciopero. Occorre innanzitutto evidenziare che: 1) L’introduzione della tutela giurisdizionale in un’area tradizionalmente riservata ai rapporti tra le parti è estremamente innovativa ed opera un importante bilanciamento di poteri tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali. 2) Si tratta di una tutela molto ampia, perché è sia inibitoria (comporta la cessazione della condotta illegittima), sia ripristinatoria (mediante la rimozione degli effetti del comportamento antisindacale ed il ristabilimento della situazione precedente). 3) E’ una garanzia effettiva dell’interesse sindacale, assai più efficace dei rimedi tradizionali come il risarcimento del danno e le forme di invalidità e di inefficacia dell’atto. 4) Si tratta di una norma in bianco perché non definisce una fattispecie specifica: la condotta del datore di lavoro si configura come antisindacale ogni volta che impedisce o limita l’esercizio effettivo della libertà sindacale, dell’attività sindacale o del diritto di sciopero. 5) L’indeterminatezza della previsione normativa deriva dal fatto che i beni oggetto della tutela possono essere lesi da una varietà di comportamenti e da una serie di modalità che non è possibile determinare a priori. Per tale ragione, il legislatore ha sanzionato la condotta lesiva del datore di lavoro, ma deliberatamente non ha precisato la descrizione dei comportamenti non consentiti, preferendo ricorrere ad una definizione aperta, che vieta tutte quelle condotte oggettivamente idonee a recare offesa ai beni protetti. 6) Non è richiesta la prova dell’intenzionalità del comportamento del datore di lavoro: la condotta deve essere oggettivamente idonea ed attuale a produrre il risultato vietato dalla legge. E’ quindi sufficiente che la condotta sia potenzialmente idonea a ledere l’interesse del sindacato, senza che si verifichi necessariamente la lesione. 7) La condotta deve essere attuale, nel senso che gli effetti devono essere attuali. Dunque, il comportamento denunciato come antisindacale può considerarsi attuale qualora persistano gli effetti della condotta al momento della presentazione della domanda. 8) La condotta del datore di lavoro può essere definita come antisindacale quando si oppone al conflitto, e non quando si oppone semplicemente alle pretese del sindacato. Quindi non può considerarsi condotta antisindacale il rifiuto del datore di lavoro di concludere un contratto collettivo a certe condizioni richieste dal sindacato. 85 16.3) Le fasi del procedimento di repressione della condotta antisindacale. Le sanzioni penali previste dall’art.28 St. Lav. 1) Il procedimento si apre con una fase sommaria dinanzi al giudice di primo grado del luogo in cui è posto in essere il comportamento denunziato. 2) Il giudice deve consentire un contraddittorio, convocando le parti entro due giorni. In questa fase l’istruttoria è svolta semplicemente con l’assunzione di sommarie informazioni. Il sindacato ricorrente non è obbligato a provare la sussistenza in concreto del periculum in mora, perché l’interesse sindacale è per definizione meritevole di siffatta tutela. 3) La decisione della fase sommaria avviene con decreto motivato immediatamente esecutivo. Pertanto, se la domanda del sindacato è accolta, il datore di lavoro deve conformarsi subito all’ordine del giudice e protrarre tale ottemperanza anche durante le more dell’eventuale opposizione. 4) Nel decreto il giudice ordina al datore di lavoro la cessazione del comportamento antisindacale e la rimozione degli effetti. Per l’emanazione dell’ordine del giudice non è necessario che la lesione dell’interesse sindacale si sia verificata, ma è necessario che il datore di lavoro abbia maturato la condotta e gli effetti della medesima permangano. 5) La parte soccombente (sia essa il datore di lavoro o il sindacato) può proporre opposizione contro il decreto entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione di cancelleria davanti allo stesso giudice della fase sommaria. L’art.28 ha previsto poi l’irrogazione di una sanzione penale (art.650 c.p.) consistente nell’arresto del datore di lavoro fino a tre mesi o con l’ammenda, come tecnica per indurre il datore di lavoro ad eseguire l’ordine del giudice: a) Per esempio, in caso di licenziamento antisindacale, il datore di lavoro che non proceda ad eseguire in forma specifica l’ordine del giudice di reintegrazione è soggetto all’applicazione della sanzione penale. b) Pertanto, il datore di lavoro, il più delle volte, provvederà a riammettere in servizio il lavoratore al fine di evitare l’ammenda o l’arresto. 86 17) Il diritto sindacale nel lavoro pubblico Il termine “privatizzazione del pubblico impiego” indica il processo normativo che ha sottratto il rapporto di lavoro pubblico dall’area del diritto amministrativo e lo ha ricondotto in quella del diritto privato. Si è realizzato così anche un mutamento delle fonti di disciplina del rapporto di lavoro: quest’ultimo, prima regolato dalla legge e da atti amministrativi, viene ad essere disciplinato direttamente anche dal contratto collettivo individuale. Sebbene la privatizzazione (o contrattualizzazione) del pubblico impiego sia ormai un fatto compiuto, è necessario precisare che: a) Il rapporto di lavoro e la conseguente contrattazione collettiva nel settore pubblico conserva un tasso di specialità perché il datore di lavoro, pur esercitando nel rapporto di lavoro con il dipendente i poteri del privato datore di lavoro, tuttavia conserva la natura di soggetto pubblico tenuto ad agire secondo i criteri dell’imparzialità e del buon andamento dell’amministrazione. b) La privatizzazione non è riuscita a ridurre il divario tra alto costo e scarsa produttività delle pubbliche amministrazioni: non a caso tutte le riforme più recenti hanno cercato di incrementare la produttività del lavoro pubblico, sia con strumenti premiali, sia mediante rigide sanzioni. Attualmente le norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche sono contenute nel d.lgs. 165/2001. Esso stabilisce che le norme del codice civile e delle altre leggi in materia di lavoro subordinato si applicano ai rapporti alle dipendenze della pubblica amministrazione, fatte salve le disposizioni contenute nel presente decreto. Le disposizioni vengono qualificate espressamente “a carattere imperativo”: 1) In caso di nullità delle disposizioni contrattuali per violazione di norme interpretative o dei limiti fissati dalla contrattazione collettiva si applicano gli articoli 1339 e 1419 comma 2 c.c. 2) Il legislatore vuole quindi collegare alla nullità delle clausole dei contratti collettivi un meccanismo di sostituzione automatica della disciplina contrattuale dichiarata nulla con quella legale. 3) In effetti la contrattazione collettiva nel settore pubblico ha un elevato grado di formalizzazione perché regolata sotto molteplici aspetti da norme imperative. 87 17.1) L’attività e l’organizzazione sindacale nel lavoro pubblico Prima della privatizzazione, il contratto collettivo non era contemplato quale fonte del rapporto di lavoro che era regolato esclusivamente da leggi, regolamenti ed atti amministrativi. L’attività sindacale, dunque, non aveva come obiettivo finale la stipulazione del contratto collettivo, come avveniva invece, nel settore privato. Anche dopo la privatizzazione, però, l’alto tasso di formalizzazione della rappresentatività sindacale e della contrattazione collettiva da parte delle norme di legge che, nel lavoro pubblico, regolano queste tematiche, fa sì che venga a mancare, nel settore pubblico, il sindacalismo di fatto che caratterizza quello privato. In effetti, nel settore pubblico, principi come l’unità di azione e l’effettività non hanno assunto un valore pregnante a fronte di norme di legge che regolano nel dettaglio la contrattazione e l’esercizio dei diritti sindacali. Occorre preliminarmente evidenziare che: a1) In ciascuna amministrazione, ente o struttura amministrativa, sono costituite le rappresentanze sindacali aziendali (r.s.a.) su iniziativa delle organizzazioni sindacali ammesse alle trattative per la sottoscrizione dei contratti collettivi. a2) I diritti e le prerogative sindacali riconosciuti dallo Statuto dei lavoratori alle r.s.a. ed ai loro dirigenti nel settore privato sono garantiti, in linea generale, anche nel settore pubblico privatizzato. b1) In ciascuna amministrazione che occupi più di 15 dipendenti, il d.lgs. 165/2001 stabilisce che debba essere costituito un organismo di rappresentanza unitaria del personale su iniziativa delle organizzazioni sindacali: si parla in sostanza delle r.s.u.. L’istituzione delle r.s.u. è indispensabile per il funzionamento dell’intero sistema contrattuale, in quanto dalle votazioni effettuate in questa struttura si ricava il dato elettorale. b2) Le rappresentanze sindacali unitarie sono interamente elettive e vengono elette a suffragio universale, con voto segreto. La ripartizione dei seggi è rigorosamente proporzionale ai voti conseguiti dai sindacati ammessi alle trattative a livello nazionale e anche da altri sindacati, a condizione che siano costituiti in associazione, abbiano un proprio statuto e abbiano aderito agli accordi o contratti collettivi che disciplinano l’elezione e il funzionamento dell’organismo. b3) Con specifico riferimento alla titolarità del diritto di assemblea si è posta la questione se la legittimazione spetti alla r.s.u. quale soggetto unitario o anche ai singoli componenti. Con riferimento al lavoro pubblico, la Cassazione ha precisato che il diritto di indire assemblee dei dipendenti spetta alla r.s.u. quale organismo elettivo a struttura collegiale. 90 17.2.1) L’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle p.a. (ARAN) La contrattazione nazionale si svolge tra i sindacati nazionali del lavoro pubblico ed un’apposita agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni: ARAN: A) L’ARAN rappresenta legalmente le pubbliche amministrazioni agli effetti della contrattazione collettiva nazionale. Essa inoltre esercita ogni attività relativa alle relazioni sindacali, alla negoziazione dei contratti collettivi e all’assistenza delle pubbliche amministrazioni, al fine dell’uniforme applicazione dei contratti stessi. B) In quanto rappresentante, l’ARAN non decide autonomamente, ma è sottoposta al potere di indirizzo dei comitati di settore, organismi espressi dalle forme associative o rappresentative delle diverse amministrazioni. L’attività di indirizzo dei comitati di settore ha carattere pubblicistico in quanto atto di indirizzo politico-amministrativo e indica all’ARAN gli obiettivi che deve perseguire nel rispetto della sua competenza. C) Il d.lgs. 165/2001 stabilisce le soglie per ammettere i sindacati alle trattative per la stipulazione del contratto nazionale di comparto. Quando i sindacati abbiano raggiunto queste soglie sono considerati rappresentativi e l’ARAN ha l’obbligo di ammetterli alle trattative. D) Il contratto collettivo può essere legittimamente stipulato quando sia sottoscritto dai sindacati che nel loro complesso realizzano un indice di rappresentatività pari al 51% come media tra dato associativo e dato elettorale, ovvero al 60% se si assume il solo dato elettorale. Queste percentuali devono essere verificate con riferimento alle sole sigle sindacali individuate come rappresentative ed in quanto tali ammesse alle trattative. E) Il consenso non è espresso direttamente dai lavoratori come nel referendum, ma dalle organizzazioni sindacali che complessivamente rappresentano la maggioranza dei lavoratori interessati. Conseguentemente, il consenso dei lavoratori non entra in quanto tale nella formazione della volontà negoziale ma il numero di lavoratori nella media tra dato associativo e dato elettorale, ovvero nella significativa percentuale del solo dato elettorale, costituisce un parametro di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali. 91 17.2.2) La procedura di contrattazione. Efficacia generalizzata del contratto collettivo nel settore pubblico. La legge ha previsto una procedura molto formalizzata e comunque distinta per la stipulazione del contratto di comparto e del contratto decentrato. E questa formalizzazione costituisce sicuramente un elemento di diversità rispetto alla contrattazione di diritto comune. La legge in sostanza rimette ai contratti nazionali la determinazione delle materie e delle procedure di contrattazione integrativa. L’ordinamento interno dell’amministrazione determina il soggetto competente a trattare. 1) Innanzitutto il legislatore si preoccupa della copertura finanziaria della contrattazione. E infatti la legge abilita il Ministro dell’Economia a quantificare l’onere derivante dalla contrattazione a carico del bilancio dello Stato con apposita norma da inserire nella legge finanziaria. 2) I comitati di settore formulano gli atti di indirizzo nei confronti dell’ARAN; quest’ultima trasmette a sua volta a detti comitati le ipotesi di accordo, al fine di ottenere una pronuncia favorevole 3) A questo punto interviene la Corte dei Conti, chiamata a certificare la compatibilità dei costi contrattuali con gli strumenti di programmazione e di bilancio. La Corte dei Conti delibera entro 15 giorni, decorsi i quali la certificazione si intende effettuata positivamente. 4) Se la certificazione è positiva, il presidente dell’ARAN sottoscrive definitivamente il contratto collettivo, altrimenti è necessario riaprire le trattative 5) Nel caso in cui la certificazione non positiva si sia limitata a singole clausole contrattuali, l’ipotesi può essere sottoscritta, ferma restando l’inefficacia delle clausole contrattuali non positivamente certificate. Il contratto collettivo nel settore pubblico ha un’efficacia generalizzata. A sostegno di ciò, vi è il fatto che il trattamento economico è determinato esclusivamente dal contratto collettivo, e le amministrazioni sono tenute a garantire ai loro dipendenti parità di trattamento contrattuale. La legge impone alle p.a. di adempiere agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali o integrativi e di assicurarne l’osservanza nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti. 92 17.2.3) Contratto collettivo: differenze tra settore pubblico e settore privato La regolazione in via legislativa di una procedura per la stipulazione del contratto collettivo, la particolare efficacia soggettiva, e la necessità di rispettare la soglia di rappresentatività ai fini della valida stipulazione differenziano fortemente il contratto collettivo del settore pubblico e del settore privato. Accanto a questi dati se ne affiancano altri: 1) Inserimento obbligatorio di clausole che prorogano l’efficacia temporale del contratto ovvero ne sospendono l’esecuzione totale o parziale in caso di accertata esorbitanza dai limiti di spesa 2) Previsione della nullità dei contratti integrativi in contrasto con i vincoli e con i limiti previsti dai contratti nazionali o che disciplinano materie non delegate o che non rispettino i vincoli di bilancio 3) Stipulazione di accordi di interpretazione autentica con effetto retroattivo 4) Facoltà del giudice di sospendere il giudizio quando deve definire una controversia sulla validità, efficacia o interpretazione delle clausole di un contratto. La sospensione del processo ha lo scopo di consentire alle parti di addivenire ad un accordo sostanzialmente transattivo, anche se viene definito di interpretazione autentica. 5) La forma scritta e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del testo dei contratti collettivi sono elementi che ci consentono di qualificare questo contratto collettivo come un contratto nominato e quindi differente dal contratto collettivo di diritto comune che invece è innominato. La contrattazione nel settore pubblico è tenuta a darsi carico anche di interessi diversi da quelli delle parti contrapposte e perciò sarebbe, secondo una certa dottrina, una contrattazione funzionalizzata, cioè con limiti funzionali. Tale dottrina è certamente meritevole di aver segnalato i molteplici limiti che incontra l’autonomia contrattuale delle parti individuali e collettive in ragione della natura pubblica del datore di lavoro. Tuttavia tale dottrina non è sostenibile fino in fondo. In realtà non si tratta di limiti funzionali, ma di limiti esterni che non funzionalizzano l’attività contrattuale, ma certamente la limitano dall’esterno e ne circoscrivono l’ambito di liceità. In effetti, la natura pubblica del soggetto datore di lavoro si pone come limite esterno, e non funzionale, dell’autonomia contrattuale del soggetto pubblico, allo stesso modo cui rileva l’utilità sociale nell’art.41 comma 2 Cost rispetto all’iniziativa economica privata. In sostanza, come l’iniziativa economica privata non è tenuta a realizzare l’utilità sociale ma non può svolgersi in contrasto con essa, allo stesso modo il contratto collettivo non è chiamato a realizzare l’interesse pubblico ma certamente non può svolgersi in contrasto con esso. In conclusione, il contratto collettivo nel settore pubblico presenta una duplice natura: quella di atto negoziale e quella di fonte extra ordinem. 95 18.1.1) L’art.28 della Carta di Nizza. Accordi liberi e accordi istituzionali. Il problema della rappresentatività delle parti sociali europee. L’art.28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea riconosce espressamente ai lavoratori, ai datori di lavoro e alle rispettive organizzazioni, il diritto a negoziare e concludere contratti collettivi, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni o prassi nazionali. L’art.155 TFUE distingue tra: a) Accordi liberi. Non hanno un oggetto predeterminato, senza preclusioni in ordine alle materie da trattare, senza vincoli quanto ad obblighi procedimentali o criteri di selezione dei soggetti coinvolti. b) Accordi istituzionali. Possono intervenire solo nell’ambito dei settori contemplati dall’art.153 TFUE e, a richiesta congiunta delle parti firmatarie, possono essere trasposti all’interno di una decisione o di una direttiva del Consiglio, su proposta della Commissione. La disciplina contenuta negli accordi europei sarebbe poi destinata a frammentarsi in diversi contratti collettivi nazionali. Viene a mancare, inoltre, a livello europeo, la relazione fondamentale e costitutiva dell’organizzazione sindacale: il rapporto tra lavoratori rappresentati e sindacato rappresentante. Lo statuto del CES (Confederazione Europea dei Sindacati) non ammette l’iscrizione di singoli lavoratori, ma conta tra i propri affiliati unicamente associazioni sindacali. E’ evidente quindi che spetta all’iniziativa delle parti sociali europee stipulare l’accordo se ne hanno la forza contrattuale e se sono effettivamente rappresentative. E alle parti nazionali provvedere spontaneamente, secondo le proprie procedure e prassi, ad attuare tale accordo. In conclusione, la libera contrattazione collettiva a livello europeo è attualmente poco pratica. Inoltre, bisogna riconoscere che la disomogeneità dei diversi sistemi nazionali costituisce un ulteriore ostacolo all’effettiva realizzazione del contratto collettivo comunitario libero. 96 18.2) Lo sciopero nell’Unione Europea L’UE non ha competenza in materia di sciopero e serrata: entrambi questi diritti sono espressamente esclusi dalle misure di politica sociale che l’Unione pone in essere a sostengo e completamento dell’azione degli Stati membri. Il diritto di negoziazione e di azioni collettive è però espressamente riconosciuto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che, a seguito del Trattato di Lisbona, ha assunto lo stesso valore giuridico dei trattati. Conseguentemente il diritto di sciopero si pone oggi sullo stesso piano delle libertà economiche sancite dai trattati. La Corte di Giustizia, in due importanti sentenze (Viking e Laval) ha considerato la libertà di impresa prevalente rispetto al diritto allo sciopero: lo sciopero poteva essere esercitato solo nei limiti posti dallo stesso diritto comunitario. Per esempio, per la Corte, una ragione imperativa di interesse generale è considerata la tutela dei lavoratori: il diritto di azione collettiva, suscettibile di limitare le libertà economiche, non viene quindi riconosciuto di per sé, ma solo in quanto strumento di realizzazione di questa particolare finalità. 97 PARTE TERZA I rapporti di lavoro subordinato