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Riassunto "Disturbi e traiettorie atipiche del neurosviluppo: diagnosi e intervento", Sintesi del corso di Psicologia Clinica

Riassunto completo del testo "Disturbi e traiettorie atipiche del neurosviluppo: diagnosi e intervento".

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 14/06/2021

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martina-guerrini 🇮🇹

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Scarica Riassunto "Disturbi e traiettorie atipiche del neurosviluppo: diagnosi e intervento" e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Clinica solo su Docsity! 1 PSICOLOGIA DELL’HANDICAP E DELLA RIABILITAZIONE DISTURBI E TRAIETTORIE ATIPICHE DEL NEUROSVILUPPO: DIAGNOSI E INTERVENTO PRIMA PARTE: Neuroplasticità e ambiente CAPITOLO 1: Plasticità e interazioni geni-ambiente L’epigenetica rileva non solo un nuovo modo di concettualizzare il comportamento dei nostri geni ma fornisce anche una nuova prospettiva sulla comprensione diagnostica e prognostica dei disturbi del neurosviluppo e delle disabilità in età evolutiva. Il comportamento umano, infatti, deriva dall’intreccio di tre diversi fattori che rappresentano le fonti della variabilità interindividuale: i geni, l’organizzazione personale e l’ambiente. Di conseguenza, oltre a una sempre più accurata conoscenza dell’organizzazione morfologica e funzionale delle strutture cerebrali e della loro plasticità nel corso dello sviluppo (tipico e atipico), è stata sempre più studiata la variabilità individuale nella fitta rete di connessioni tra le diverse aree del sistema nervoso; in particolare, nel contesto dello sviluppo atipico, il contributo dei fattori genetici e ambientali nelle differenze individuali dei circuiti cerebrali e del comportamento assume un ruolo determinante. Parallelamente, la conoscenza di tali meccanismi sottolinea l’importanza di pianificare strategie terapeutiche precoci e multidisciplinari, fondate anche su un attento empowerment familiare e scolastico, al fine di promuovere lo sviluppo e/o il ripristino delle funzioni compromesse. La plasticità del SNC suggerisce che l’ambiente possa avere un ruolo fondamentale nel definire i confini e i passaggi fra sviluppo tipico e atipico, in quanto un ambiente “giustamente arricchito” può avere un forte valore preventivo dei disturbi del neurosviluppo o delle eventuali comorbidità correlate. 1.1. Neuroplasticità Per garantire una corretta e regolare performance del SN nei diversi ambiti è necessario che le cellule nervose che compongono ogni circuito siano connesse fra loro in maniera altamente specifica, fino a costituire sofisticate mappe neuronali che riproducono esattamente le superfici sensoriali o le sequenze dei comandi motori. È chiaro, tuttavia, che circuiti nervosi costruiti solo sulla base di istruzioni interne potrebbero funzionare in modo adeguato solo dinanzi a condizioni ambientali immutabili e univoche, quindi lontane dalla comune realtà in cui viviamo. Una delle scoperte più importanti nel campo della neurobiologia è quella relativa agli studi sull’encefalo “plastico”, termine usato per distinguerlo da quello “deterministico” o fisso, espressione dell’azione del genoma, cioè del corredo genetico contenuto nei 46 cromosomi. L’encefalo plastico è in grado di modificarsi e strutturarsi sull’esperienza in base all’interazione con l’ambiente; il cervello plastico è in grado di costruire strutture che non sono geneticamente determinate. L’ambiente assume dunque un ruolo cruciale nella maturazione finale dei network cerebrali. Il comportamento umano, infatti, deriva dall’intreccio di tre diversi fattori causali che rappresentano le fonti della variabilità individuale: i geni, il vissuto personale e l’ambiente. Dai numerosi studi effettuati è emerso tuttavia che, nella determinazione di un dato carattere biologico, concorre anche un’ulteriore quota di variabilità dipendente dal caso (oltre ai geni e all’ambiente), la cui azione può estrinsecarsi sia a livello molecolare sia a livello macroscopico. Questa azione di controllo produce un cambiamento dell’espressione dei geni e dei loro schemi di attività, assicurando il corretto svolgimento dei processi biologici, ma allo stesso tempo causa una significativa serie di differenze casuali tra gli individui, sia fisiche che psichiche o mentali. 2 La plasticità cerebrale può essere definita come l’insieme dei cambiamenti che si verificano nell’organizzazione anatomica e fisiologica del cervello come risultato dell’esperienza. Il termine “plasticità” esprime, infatti, il significato di flessibilità e malleabilità; tale proprietà è di fondamentale importanza per l’adattamento del nostro comportamento, per i processi di apprendimento e di memoria, per lo sviluppo cerebrale e la riparazione del danno cerebrale. I circuiti corticali mostrano la loro massima sensibilità agli stimoli sensoriali indotti dall’esperienza in epoca postnatale; col passare degli anni, fino all’età adulta, le strutture cerebrali mostrano via via un grado di plasticità nettamente inferiore. Nel primo anno di vita, infatti, il SNC va incontro a un imponente sviluppo e riorganizzazione: le sue dimensioni incrementano, l’organizzazione elettrofisiologica e la citoarchitettura corticale si modificano, si verificano la neurogenesi, la migrazione neuronale e la potatura assonale (le connessioni che sono usate sopravvivono e vengono rinforzate, mentre quelle non utilizzate vengono sostituite, “potate” o eliminate). Di conseguenza, i bambini che non ricevono adeguati e precoci input ambientali nei primi mesi di vita sono più predisposti ad avere un anomalo sviluppo delle funzioni connesse a tali input; anche durante la seconda infanzia e oltre, dai 3 ai 15 anni, i cambiamenti anatomici del cervello sono significativi. Di conseguenza, continua il processo di modellamento: in alcune aree aumentano la densità e la connettività neurale, mentre in altre diminuiscono; un cambiamento che continua quando i bambini attraversano la tarda infanzia, infatti, consiste nel passaggio dall’attivazione in aree diffuse e più ampie ad aree più piccole e focalizzate e alla progressiva lateralizzazione emisferica, cioè l’attribuzione di compiti specifici rispettivamente all’emisfero sinistro e a quello destro. Vi sono anche dei momenti dello sviluppo in cui si crea un alterato equilibrio fra i sistemi, soprattutto durante il periodo dell’adolescenza, i quali sfociano nell’emergenza di un disturbo psichiatrico. 1.2. Periodo critico Il concetto di “periodo critico” o periodo di vulnerabilità o periodo sensibile, rappresenta una specifica finestra temporale in cui la plasticità neuronale risulta massima e i circuiti neuronali, in risposta agli stimoli provenienti dall’ambiente esterno, sono maggiormente sensibili, sia in termini di sviluppo che di recupero funzionale. Tali periodi rappresentano un complesso sistema che può coinvolgere diverse funzioni e sistemi e, in relazione al tipo di stimolo indotto dall’esterno, possono essere sia positivi (arricchimento ambientale) che negativi (deprivazione sensoriale e/o socio- emotiva); di conseguenza tali periodi possono influenzare lo sviluppo neuronale. Uno dei più importanti fattori predittivi sull’efficacia della riorganizzazione funzionale sembra essere la distribuzione spaziale del danno (focale vs. diffusa); un ulteriore fattore predittivo importante è il timing di insorgenza lesionale: durante il periodo di sviluppo i cambiamenti determinati dalla plasticità neuronale sono graduali e i periodi “critici” di vulnerabilità sono diversi per i vari sistemi funzionali; pertanto, i tipi di danno cerebrale possono avere un’influenza estremamente variabile sul sistema nervoso in funzione dello stadio di maturazione cerebrale in cui avvengono. Per esempio, un aspetto cruciale della fisiopatologia del danno cerebrale congenito è l’insorgenza dell’insulto in epoca pre- o perinatale, che determina quadri clinici e neuropatologici sensibilmente diversi. La riduzione della plasticità, che caratterizza la chiusura dei periodi critici, è funzionale alla stabilizzazione dei circuiti e delle funzioni neurali; tuttavia, quando i periodi critici si sono chiusi, esiste lo svantaggio rappresentato dalla difficoltà di recupero dagli effetti di una difettiva o carente esperienza. Un sito cerebrale ad alta vulnerabilità agli eventi ambientali, e in particolare allo stress, è l’ippocampo; l’esposizione a fattori stressanti (es. mancanza di cure materne o malnutrizione) può interferire con la sua maturazione strutturale e funzionale, anche in modo permanente. È stato dimostrato che soggetti precocemente esposti a esperienze sfavorevoli precoci mostrano una maggiore vulnerabilità all’insorgenza di psicopatologie, quali disturbi del neurosviluppo e disturbi 5 presentazione dei trattamenti possibili, indicando il Centro specialistico di riferimento più accessibile per un’assistenza multidisciplinare e integrata con i servizi territoriali; emerge anche l’utilità di valutare le conoscenze già in possesso dei genitori e l’eventuale capacità di comprendere le informazioni, sollecitando domande ed esternazioni di dubbi. In fase diagnostica, i genitori sono le persone più idonee a fornire indicazioni circa il profilo funzionale del bambino; a questo scopo, sono stati adottati nella pratica clinica questionari e interviste semi-strutturate che servono a integrare, ma non a sostituire, il colloquio con i genitori, al fine di comprendere al meglio le dinamiche psico-sociali del bambino. 1.5. Iter terapeutico I genitori assumono un ruolo ancora più importante nella fase successiva di formulazione dell’iter terapeutico; è necessario che il personale medico di riferimento fornisca tutte le opzioni terapeutiche percorribili, le informazioni sui progressi della ricerca a livello internazionale e sulle eventuali nuove sperimentazioni cliniche qualora disponibili. I genitori, a loro volta, hanno il ruolo di informare il personale scolastico delle problematiche legate alla condizione clinica del proprio figlio, al fine di instaurare un positivo e costruttivo rapporto scuola-famiglia. Risulta anche importante che l’equipe clinica si renda disponibile fin dall’inizio a comunicare con la scuola sui bisogni e le specifiche necessità del bambino, così da potergli permettere di intraprendere percorsi formativi che consentano lo sviluppo di tutte le sue potenzialità; la collaborazione tra docenti, genitori e clinici permette di operare efficacemente per ridurre le problematiche e riuscire a valorizzare le risorse del bambino. Sarà inoltre utile suggerire alle famiglie e alla scuola indicazioni e consigli su possibili atteggiamenti educativi “alternativi” a quelli abituali, incoraggiarli a creare stimoli ricreativi e di condivisione nelle attività del tempo libero e sostenerli nelle scelte che risultano funzionalmente valide. La scuola, quindi, dovrà accogliere i bambini con patologia neuropsichiatrica, riconoscerne valori e limiti, operare per il loro sviluppo e la crescita delle loro funzionalità, facendo in modo che essi siano parte integrante del contesto scolastico, insieme e alla pari degli altri alunni, senza alcuna discriminazione. Nella dinamica terapeutica e di presa in carico, inoltre, il medico di riferimento deve sempre suggerire indicazioni sull’eventuale presenza di associazioni di genitori o di persone con la stessa condizione clinica, soprattutto se rara; si rivela importante, infatti, avere contatti con chi ha già vissuto esperienze simili e poter ricevere e condividere proposte di soluzioni ai problemi che si possono incontrare nel tempo. Qualora non fossero presenti sul territorio o in ambito nazionale tali associazioni, si potrà invitare i genitori a cercare di mettersi in contatto con altre famiglie con la stessa patologia, proprio per tentare di creare nuove associazioni e diventando esse stesse, ad esempio, promotrici della ricerca scientifica per la propria patologia di interesse attraverso raccolte fondi, convegni, family meeting, ecc. Nel percorso di “care” e di assistenza nel tempo, ogni genitore costruisce una nuova immagine del figlio e del suo progetto di vita o di se stessi, e si attivano risorse quali autoefficacia e senso di responsabilità per il figlio. Sarà quindi rilevante anche un altro momento, altrettanto delicato e da condividere con il medico di riferimento, ovvero quello della comunicazione delle proprie difficoltà al bambino affetto e ad eventuali fratelli o sorelle, spesso riposti in secondo piano e confinati a ruoli marginali nell’ambito della famiglia; è necessario, quindi, fornire le giuste spiegazioni anche agli altri figli, così da fare comprendere loro il motivo per il quale la sorellina o il fratellino abbia bisogno di particolari attenzioni e cure. È pertanto importante essere il più possibile chiari e “trasparenti”, comunicando e condividendo informazioni e ponendosi in una prospettiva di ascolto. La serenità, la chiarezza e la pazienza degli adulti nel dare le informazioni consentiranno sia al bambino affetto dalla patologia che al sibling (i fratelli e le sorelle) di gestire più facilmente la 6 disabilità, di integrarla più armoniosamente con il mondo esterno e di sviluppare una consapevole sensibilità nei confronti di ciò che lo circonda. CAPITOLO 2: La presa in carico della famiglia 2.1. Genitorialità e stili genitoriali La genitorialità rappresenta una funzione assai complessa che incorpora in sé sia aspetti individuali relativi all’idea di come un genitore dovrebbe essere, sia aspetti legati alla coppia genitoriale, ossia le modalità relazionali che i partner condividono nell’assolvere a questo specifico compito. Questa complessità spiega come non sia possibile confinare la genitorialità solo all’evento biologico della nascita, ma come invece essa produca significativi e permanenti cambiamenti, individuali e relazionali, che saranno presenti e in continua evoluzione lungo tutto il resto del ciclo vitale degli individui coinvolti. Non si può essere genitori sempre allo stesso modo perché sarà necessario assolvere ad impegni diversi e adottare modalità comunicative e interattive differenti a seconda dell’età dei figli; tutto ciò implica la capacità di “rivisitare” continuamente il proprio sé genitoriale e il proprio stile educativo in modo flessibile. La funzione genitoriale si esprime attraverso diversi comportamenti tra loro collegati, che creano un contesto all’interno del quale i bambini crescono sviluppando competenze e abilità specifiche per la fase di sviluppo. I comportamenti educativi, ovvero il grado di vicinanza affettiva, di autonomia e di tolleranza concesse ai figli, variano in base a come le persone percepiscono la crescita e il ruolo del genitore nella formazione dei propri figli. L’insieme di questi comportamenti, ovvero il modo di essere di una persona come genitore, definisce lo stile genitoriale. Verso la metà degli anni Settanta, la psicologa infantile Diane Baumrind ha individuato quattro dimensioni fondamentali alla base della genitorialità, ovvero controllo, richieste di maturità, chiarezza di comunicazione e sollecitudine, la cui combinazione individua tre diversi tipi di stile genitoriale. Lo stile autoritario combina alti livelli di controllo e richieste, con bassi livelli di affettività e chiarezza nella comunicazione; lo stile permissivo è invece basato su alti livelli di accettazione e chiarezza nella comunicazione, ma adopera bassi livelli di controllo e richieste di maturità; infine, lo stile autorevole è caratterizzato da livelli elevati in tutte le dimensioni ed è stato associato a maggiore efficacia nella genitorialità e allo sviluppo di maggiori competenze strumentali in bambini e adolescenti. Lo stile genitoriale non costituisce un tratto invariante della personalità del genitore, ma dispone di una natura interattiva e contestuale che può essere influenzata da numerosi fattori che riguardano il genitore stesso (ad esempio, la propria storia di vita e i life events) o le caratteristiche intrinseche del bambino (ad esempio, il temperamento e/o la presenza di disturbi del neurosviluppo). Dalle considerazioni precedentemente fatte circa la complessità e la molteplicità dei fattori coinvolti nella genitorialità, risulta quindi evidente come la presa in carico richieda un approccio multiprofessionale e integrato di un’equipe, che coinvolga il bambino e i genitori. La letteratura internazionale ormai condivide l’evidenza che la qualità della relazione tra la famiglia e l’equipe, definita “alleanza terapeutica”, sia alla base della buona riuscita del percorso terapeutico; l’alleanza terapeutica è in primo luogo influenzata dalla percezione di accettazione, di confidenza e di sensazioni positive nel corso di ciascun incontro. L’altra caratteristica fondamentale è costituita dal grado di accordo sugli obiettivi del percorso che, quindi, devono essere condivisi e riformulati nel corso degli incontri; infine, risulta fondamentale la condivisione dei ruoli reciproci e delle strategie che verranno usate per raggiungere gli obiettivi di volta in volta condivisi. La qualità dell’alleanza terapeutica, sia con il bambino che con i genitori, risulta in relazione con significativi cambiamenti nel bambino ma anche con un evidente incremento delle competenze genitoriali e nella percezione dei miglioramenti nella situazione problematica da parte del genitore. 7 In conclusione, nella presa in carico della famiglia, si ritiene quindi necessario, in primo luogo, facilitare la costruzione di un clima di condivisione emotiva e di un rapporto collaborativo con i genitori; perché questo avvenga andranno evitate comunicazioni giudicanti, riferimenti svalutativi o affermazioni di disconferma nei loro confronti; appare inoltre importante verificare con la famiglia che non ci siano ostacoli o limitazioni alla partecipazione agli incontri. Il clinico dovrà quindi pianificare attentamente, in un clima collaborativo e paritetico, ciascun appuntamento. Il percorso diagnostico, quindi, rappresenta una sintesi ragionata delle conoscenze acquisite, che consentirà di pianificare un adeguato intervento terapeutico; in quest’ottica la distinzione tra diagnosi e terapia appare sottile, rappresentando un unico percorso, e inizia nel momento del primo contatto e si conclude al termine del trattamento. 2.2. Dalla valutazione alla comunicazione della diagnosi Obiettivo principale della valutazione è quello di giungere a una sintesi diagnostico-funzionale complessa che consenta di conoscere le caratteristiche funzionali del bambino. Il percorso di valutazione dovrebbe consentire ai genitori, e successivamente agli operatori che ruotano attorno al bambino, di leggere i sintomi o, più in generale, i comportamenti disfunzionali del soggetto come una manifestazione dei bisogni emotivi del bambino stesso e come un mezzo di mantenimento dello stato di relazione con gli adulti di riferimento del momento specifico. Molto spesso la definizione di un sintomo/problema è riportata dai familiari come qualcosa di poco coerente e integrabile nel funzionamento del bambino, la cui manifestazione appare spesso poco comprensibile, attribuibile a condizioni esterne. Uno strumento che può aiutare nella definizione, differenziazione e nella riflessione del valore in termini relazionali del comportamento del bambino può essere rappresentato dalle schede ABC. Tale strumento guida il genitore, attraverso una descrizione della situazione antecedente al comportamento problema, del comportamento problema e delle conseguenze dello stesso, in una ridefinizione interna e funzionale del sintomo. La casella A “situazione” invita il genitore a riflettere sul contesto ambientale; questa riflessione può essere utile a limitare le generalizzazioni che spesso i genitori riportano dinanzi a un sintomo o a una situazione problematica, aiutandoli ad ancorare il sintomo al contesto/situazione. La casella B “comportamenti” aiuterà il genitore nella descrizione precisa, non generica, del comportamento del bambino; infine, la casella C “conseguenze” consentirà di soffermarsi sulle reazioni degli altri e dell’ambiente al comportamento (B). Questo strumento non è rivolto solo ai genitori, ma può essere usato anche da altre figure professionali, grazie ai quali è possibile accedere ad altre informazioni preziose per una corretta diagnosi e per una buona impostazione di un percorso di trattamento. La comunicazione della diagnosi rappresenta un momento molto delicato; dovrà pertanto essere effettuata con la massima attenzione e considerazione dello specifico assetto difensivo dei familiari, in quanto potrebbe costituire in sé una potenziale barriera al coinvolgimento dei genitori nel successivo processo terapeutico. Un’interessante ricerca sui fattori che favoriscono la partecipazione dei genitori ai gruppi di Parent Training ha messo in evidenza come le famiglie che avevano ricevuto una diagnosi prettamente psichiatrica hanno completato il Parent Training con una probabilità sette volte minore di quelle che non avevano ricevuto nessuna diagnosi. Inoltre, le famiglie che avevano ricevuto una lettura della diagnosi in chiave maggiormente psicologica, avevano completato la terapia in misura significativamente maggiore rispetto a quelle che l’avevano ricevuta in chiave espressamente psichiatrica. Ciò suggerisce che, al di là delle caratteristiche e del sistema di credenze del genitore, è il modo in cui il clinico negozia le varie possibilità di trattamento con i genitori all’inizio della terapia a influenzare in modo significativo la partecipazione. La ricerca suggerisce che non è tanto il contenuto delle informazioni che il clinico comunica alla famiglia a favorire una maggiore soddisfazione nella relazione terapeutica, ma il grado di accordo che viene raggiunto rispetto alle cause del problema. Quest’ultimo fattore appare associato anche a un 10 determinano una fonte di deprivazione anziché una facilitazione qualora si basino sul suggerimento di parlare al bambino sempre in italiano, anche quando i genitori mostrano una scarsa competenza in questa lingua. Si creano quindi delle situazioni inappropriate per la presa in carico riabilitativa, dove è possibile rilevare come molti soggetti apprendenti l’italiano come seconda lingua affrontino un trattamento logopedico anziché un percorso di potenziamento della seconda lingua, con conseguente dispendio delle risorse umane e psicologiche dei bambini e delle loro famiglie e di quelle economiche del Sistema Sanitario Nazionale. I soggetti stranieri che frequentano la scuola e che possono trovarsi all’interno dei percorsi diagnostico-valutativi sanitari rappresentano un gruppo molto variegato, anche se ogni gruppo è descrivibile secondo caratteristiche comuni importanti. Il primo gruppo di bambini stranieri è quello dei soggetti che sono nati in Italia da genitori emigrati nel nostro Paese in modo regolare, ovvero con il permesso di soggiorno; a seconda del tipo di esposizione che hanno ricevuto possono essere distinti in bilingui simultanei precoci, bilingui sequenziali e bilingui tardivi. La definizione di soggetto bilingue o multilingue (o plurilingue) è variata nel tempo. In generale, si intende per soggetto bilingue o multilingue la persona che comprende e produce più di una lingua; i parametri di inclusione possono cambiare a seconda che si parli del numero di lingue conosciute piuttosto che dell’età e dello sviluppo di acquisizione di ciascuna lingua, del livello di abilità posseduto nelle varie lingue, della dominanza delle lingue in rapporto tra di loro, del loro uso a livello di comprensione e di espressione, delle modalità espressive (orale, scritta e segnica) o, infine, in relazione al rapporto tra la lingua parlata all’interno di una determinata comunità e quella dell’ambiente sociale e dell’istruzione in termini di potere culturale ed economico. A seconda di come variano questi parametri, possiamo distinguere un bilinguismo effettivo e uno potenziale (due diverse situazioni in base alle quali esistono le possibilità ambientali perché l’individuo sviluppi più lingue, che non vengono in realtà maturate a causa di fattori che intervengono nel corso dello sviluppo) oppure un bilinguismo additivo (si realizza quando lo sviluppo della seconda lingua non avviene a discapito della prima lingua) e uno sottrattivo (tutte le volte che l’acquisizione della seconda lingua si verifica a spese della prima lingua) e, ancora, un bilinguismo equilibrato oppure dominante oppure minoritario. Per i bambini nati in Italia da genitori stranieri occorre definire volta per volta quale tipo di bilinguismo sia presente, in quanto la situazione potrebbe essere molto variabile. La descrizione della biografia linguistica del bambino è indispensabile per definirne la tipologia di bilinguismo e sottolineare come questa richieda strumenti per la raccolta dei dati piuttosto esaustivi, che non si limitano a raccogliere le sole informazioni relative al luogo di nascita e alla lingua parlata dai genitori. Un fenomeno importante è rappresentato dalla cosiddetta “fobia della prima lingua” ed è riferibile alla credenza dei genitori stranieri che lo sviluppo della lingua madre sia nocivo per un buon apprendimento dell’italiano; questo pensiero favorisce una situazione di bilinguismo sbilanciato a danno della L1 nativa, che diventa di fatto L2 minoritaria. A volte questo meccanismo produce un mancato bilinguismo, noto come monolinguismo sottrattivo. Il secondo gruppo di soggetti esposti all’italiano è rappresentato dai bambini nati in un altro Paese ed emigrati successivamente in Italia; in questi casi potremmo trovare situazioni di bilinguismo sequenziale o anche di bilinguismo tardivo, a seconda dell’età di arrivo nel nostro Paese. Tuttavia, potrebbero intercorrere rapporti diversi tra L1 e L2 a seconda dei fattori di esposizione, delineando situazioni molto diverse. A seconda della storia migratoria della famiglia, legata, per esempio, a migrazioni multiple in Paesi diversi, possiamo trovarci dinanzi a un plurilinguismo piuttosto composito, in cui sono presenti in modo variabile una L1, una L2, una L3 ecc., con livelli diversi di abilità e fenomeni di erosione linguistica delle diverse lingue legata ai fattori di esposizione che aumentano o diminuiscono, con un accurato lavoro di ricostruzione, i vari periodi linguistici della 11 vita del bambino. L’esposizione all’italiano può essere avvenuta in modo saltuario, in quanto si sono verificati ritorni in patria, con rallentamento delle acquisizioni nella L2, alternati a periodi di permanenza in Italia, con diminuzione dell’esposizione alla lingua nativa e re-inizio di un processo di sviluppo dell’italiano, che nel frattempo si è erosa. Un terzo gruppo di soggetti potenzialmente bilingui è rappresentato dai minori che sono rimasti nel Paese di origine senza i genitori, immigrati in Italia, quasi sempre per motivi di lavoro; a volte questi bambini si ricongiungono alla famiglia dopo alcuni anni e sono esposti all’italiano in momenti diversi della loro evoluzione, a volte anche rispetto ai fratelli. Un altro gruppo che richiede attenzione nel valutare lo sviluppo del linguaggio è quello dei bambini nati in un altro Paese, presenti in Italia, con i genitori che sono immigrati non regolari; il gruppo dei bambini stranieri, figli di rifugiati per motivi umanitari, presenta alcune necessità particolari legate alla storia migratoria. Il loro sviluppo della lingua italiana può essere influenzato in modo importante, rispetto agli altri gruppi, da fattori di attrattività piuttosto che da quelli di repulsione. Per alcuni, infatti, il nuovo paese e la nuova lingua vengono investiti di connotati estremamente positivi, legati al senso di sopravvivenza rispetto alla guerra, al pericolo di vita in generale e alla tortura; in altri casi, invece, il processo di acquisizione potrebbe essere rallentato qualora il nuovo Paese e la nuova lingua assumano un valore di tipo repulsivo, in quanto legati all’obbligo e non alla scelta di aver dovuto abbandonare il Paese di appartenenza, la propria lingua e la propria cultura. Il gruppo dei bambini nomadi pone problematiche ancora diverse, in quanto il fattore che interferisce con l’acquisizione culturale e linguistica è legato alle differenze di stanzialità. Il gruppo dei bambini che arrivano in Italia mediante l’adozione internazionale presenta linee di sviluppo della lingua diverse tra di loro; la maggior parte dei bambini, a seconda dell’epoca in cui arrivano in Italia, perde di fatto le abilità maturate nella lingua madre e diventa monolingue italiano; in una piccola percentuale di casi, i genitori adottivi italiani creano le condizioni affinché la L1 eventualmente presente non venga persa, favorendo il contatto, laddove possibile, con i parlanti della lingua madre del bambino adottato, almeno come possibilità di mantenerla in termini di lingua non dominante. Da quanto esposto, emerge come sia indispensabile per gli operatori scolastici e sanitari possedere conoscenze utili a evitare l’attribuzione di alcune linee di sviluppo normali in presenza di disturbi dello sviluppo; tuttavia, occorre non trascurare gli eventuali indicatori che permettono l’identificazione corretta del disturbo, laddove sia veramente presente. 3.2.1. La comunicazione con i bambini stranieri e le loro famiglie La comunicazione gioca un ruolo importante all’interno dei fattori che condizionano il rapporto con i bambini stranieri e le loro famiglie. Alcuni problemi comunicativi sono legati alla lingua, in quanto non tutti gli elementi appartenenti ad una determinata lingua sono traducibili in un’altra; l’intraducibilità da una lingua all’altra è riferibile alle differenze di concetti, di esperienze e di vissuti esistenti fra le varie lingue. Un’altra fonte di conflitto può essere rappresentata dalla pragmatica del linguaggio; anche le differenze relative alla comunicazione non verbale non devono essere sottovalutate, visto che spesso le persone sono convinte che, almeno a questo livello, non esistano poi così tante differenze e che ogni ostacolo legato alla comunicazione verbale sia risolvibile mediante l’uso di quella non verbale, connotata da mimica e gesti. Questa convinzione non trova riscontro nella realtà della comunicazione umana correlata ai fattori culturali, sociali e educativi; anche il valore del contatto oculare non può essere dato per scontato nelle varie culture. La stessa prossemica, intesa come distanza tra gli interlocutori, varia a seconda delle culture. È necessario, quindi, non dare per scontata la condivisione immediata degli elementi pragmatici, prossemici, gestuali, mimici e linguistico-verbali nel caso dell’incontro tra le culture e di non credere 12 che una buona comunicazione dipenda essenzialmente da una buona traduzione da una lingua all’altra. In generale possiamo dire che molti problemi culturali che si manifestano all’interno del rapporto con le famiglie straniere e i loro figli sono collegati ai valori culturali di fondo. La soluzione ottimale sarebbe quella di affrontare un percorso di formazione interculturale completo ed esaustivo; spesso, tuttavia, questa opportunità non si presenta o è ridotta. È comunque possibile adottare una serie di strategie e usare in modo veloce alcune fonti informative utili. Per quanto concerne le strategie, appaiono indicate quelle che prevedono l’iniziale sospensione del giudizio, il quale verrà ripreso dopo l’acquisizione delle informazioni riguardanti gli elementi legati alla cultura dell’interlocutore, l’ascolto attivo e l’uso sistematico del feedback, il quale inserisce nella conversazione confronti che facilitano il dialogo, ma anche lo sviluppo delle abilità personali legate all’atteggiamento (empatia, decentramento ecc.) e, infine, l’assunzione di informazioni circa l’altra cultura. 3.3. Lo sviluppo multilingue Lo sviluppo delle lingue nella persona che ne sta acquisendo due o più di due nello stesso momento, quindi nella fascia di età 0-3 anni, non avviene mediante la semplice somma della prima lingua con la seconda o utilizzando forme di traduzione in senso stretto da una lingua all’altra. Nel corso dell’esposizione alle lingue, vengono attivate aree diverse del cervello connesse tra di loro; in definitiva, lo sviluppo bilingue o multilingue crea una rappresentazione mentale delle varie lingue in aree contigue, ma in gran parte diverse. Sul versante psicologico, invece, la struttura della persona bilingue o multilingue prevede uno sviluppo di tipo integrativo, all’interno del quale siano presenti in modo armonico tutti gli elementi culturali ai quali afferiscono quelli relativi alle lingue che ne esprimono la sostanza e la forma. Se tale sviluppo armonico non avviene, si possono presentare disarmonie di natura psicologica, che possono esprimersi in rifiuto di una delle due culture, con il massimo investimento e l’accettazione di una sola delle due. In tal caso, si possono osservare rallentamenti o eliminazioni di una delle lingue, conseguentemente alla mancata accettazione della cultura correlata. Per quanto riguarda il versante cognitivo, è importante ribadire come anche questo possa essere influenzato da fattori culturali; gli studi, infatti, dimostrano come esistano differenze tra le diverse culture in relazione alla classificazione degli oggetti, alla fluidità, al problem solving e alla flessibilità acquisizionale. Gli stessi studi documentano la presenza di differenze anche a livello motorio per quanto riguarda la concettualizzazione del movimento e persino per i colori. Per quanto concerne le acquisizioni linguistico-verbali risulta che, fin dall’epoca gestazionale, l’esposizione ai suoni di lingue diverse crea una flessibilità del tutto particolare a livello discriminativo e che rimane una caratteristica peculiare dei soggetti bilingui. Tale plasticità rimane praticamente tutta la vita, in modo che il soggetto bilingue, dotato della sensibilità necessaria a cogliere con precisione le differenze tra le lingue, è potenzialmente e spesso facilitato nell’acquisizione di ulteriori lingue. Lo sviluppo del lessico e della morfosintassi non avviene per traduzione da una lingua all’altra, ma come sviluppo separato, determinato dagli scopi della comunicazione, ovvero seguendo traiettorie diverse correlate alle singole lingue per quanto riguarda la pragmatica, il lessico e la morfosintassi. Le aree cerebrali contigue, anche se diverse, facilitano quindi la possibilità di passare velocemente da una lingua all’altra, come accade in modo naturale ai soggetti bilingui precoci simultanei (soggetto che viene esposto contemporaneamente a due o più lingue nella fascia di età 0-3 anni). Nello sviluppo bilingue sequenziale, i meccanismi si modificano: occorrono almeno due anni di esposizione alla seconda lingua per poterne sviluppare le competenze di base, almeno tre anni di esposizione per acquisirne quelle morfosintattiche e tra cinque e sette anni per sviluppare le competenze accademiche relative alla seconda lingua. L’acquisizione della cosiddetta pronuncia avviene molto velocemente al punto che, se avviene entro gli otto anni di vita, è del tutto 15 simultanei, i bilingui tardivi compiono un maggior numero di errori nella decodifica delle parole italiane meno frequenti a causa delle scarse conoscenze lessicali in italiano. Quindi, complessivamente, possiamo dire che alcuni predittori sembrerebbero simili tra i monolingui, mentre altri sembrerebbero differenti anche in relazione alla tipologia di bilinguismo. La comprensione del testo appare fortemente correlata alle abilità linguistiche generali, in modo particolare per l’italiano, e rappresenta spesso, ancor più della decodifica, un’area di fragilità dei bambini bilingui in relazione alla comprensione orale della L2. Questa può variare molto da alunno ad alunno, in relazione alle abilità lessicali, morfosintattiche e inferenziali raggiunte al momento della presentazione delle attività di comprensione del testo scritto. Visto il ruolo cruciale svolto dalle abilità linguistiche maturate nella L1 e nella L2, anche in rapporto tra di loro, appare naturale l’utilità di alcune valutazioni al momento dell’ingresso alla scuola primaria; per questo lo strumento BaBIL- Bambini Bilingui – appare idoneo per fornire alcuni dati interessanti in tal senso. Complessivamente, le prove BaBIL collegano alcune coppie di lingue, una delle quali è quella italiana relativamente al vocabolario, alla morfosintassi, alle inferenze e ad alcuni elementi che afferiscono alla sfera cognitiva. Queste prove presentano un questionario – il QUBil – molto accurato relativamente alle informazioni rilevabili sulla biografia linguistica del bambino e sulle abilità in L2 dei suoi genitori; la somministrazione avviene in corrispondenza dell’inizio della prima classe della Scuola Primaria. Se un bambino ha seguito un percorso scolastico nel Paese di provenienza occorre esaminare anche la storia scolastica in L1, in quanto può essere molto diversa, in termini strutturali e non, da quella italiana, comprendendo elementi quali l’organizzazione delle classi, il modello pedagogico e le modalità di valutazione. In relazione alle somiglianze e alle differenze orali e scritte tra L1 e L2, che possono generare maggiori o minori problematiche, è possibile ricavare elementi interessanti circa alcuni problemi più frequenti nell’apprendimento della L2 italiana scritta. È quindi importante comprendere come sia fondamentale, nel caso di bambini bilingui tardivi che hanno frequentato un ciclo di scolarizzazione nel Paese di nascita, acquisire tutte le informazioni descritte relative al contesto scolastico come sistema organizzato, alle caratteristiche generali della lingua e a quelle specifiche della lingua scritta, in modo da creare una chiave di lettura prevedibile degli errori che verranno commessi. 3.4.1. La valutazione del bambino bilingue e plurilingue La valutazione linguistica di un bambino bilingue o plurilingue appare caratterizzata dalla necessità di usare prassi e strumenti sostanzialmente diversi rispetto a quelli comunemente indicati per il bambino monolingue. In generale, la raccomandazione è quella di effettuare valutazioni in tutte le lingue alle quali il bambino è stato esposto e per le quali esistono i presupposti minimi per identificare lo status di bilingue o di multilingue. In un’altra prospettiva, alcuni autori identificano nella valutazione in due o più lingue l’indicatore del mantenimento dei contatti sociali rispetto ai membri del proprio gruppo di appartenenza, quali i genitori, i fratelli, i parenti lontani, i membri della comunità ecc. per le abilità in L1 e la possibilità di accedere all’istruzione del Paese di residenza per le abilità in L2. È evidente che entrambe le prospettive sono fondate sulla conoscenza del fenomeno del bilinguismo nelle sue varie sfaccettature. La raccolta anamnestica, quindi, deve raccogliere, oltre agli elementi standard riguardanti lo stato di salute pregresso, anche tutti quelli necessari a identificare le caratteristiche particolari dello status di bilinguismo. Vengono prese in esame le biografie linguistiche, non solo del bambino, ma anche dei genitori e, in alcuni casi, si chiede ai genitori un’autovalutazione rispetto alla conoscenza della lingua italiana; la biografia linguistica dei genitori, ed eventualmente dei fratelli, consente di definire quale contributo possa portare la famiglia nel percorso di sviluppo linguistico del bambino sia in L1 che in L2. Dati come il livello di istruzione maturato nel luogo di origine, insieme allo status 16 economico, sia al momento della migrazione, sia al momento della consultazione clinica che al momento della scolarizzazione, possono far comprendere il rapporto tra lo sviluppo linguistico e lo status socioeconomico e anche quale sia il tipo di fattore propulsivo, rispetto all’acquisizione linguistica del figlio, maturato dai suoi genitori. Occorre segnalare, visto il rapporto tra le acquisizioni linguistiche e lo status socioeconomico, che spesso la popolazione immigrata si caratterizza per la divergenza tra due aspetti: a dispetto di un livello socioeconomico basso, il numero di anni di istruzione dei genitori è spesso molto alto e nel Paese di origine sono stati maturati titoli di studio legati all’istruzione superiore. Un secondo elemento importante è rappresentato dalla storia migratoria della famiglia, la quale fornisce sia dati di natura culturale e linguistica riguardanti i fattori di attrazione e repulsione rispetto al Paese di accoglienza, sia quelli legati al livello di stress da transculturazione. Quest’ultimo viene descritto come la sensazione di sradicamento, con tutti gli effetti ad esso collegato, che la migrazione inevitabilmente comporta. Lo stress di transculturazione è costituito da fattori diversi variamente combinati tra loro, quali le variabili che hanno operato prima della migrazione (il sesso, l’età, il bagaglio culturale, le esperienze e i fattori sociali), le variabili che hanno operato durante la migrazione (l’ansia legata al cambiamento) e, infine, le variabili che hanno operato dopo la migrazione (l’atteggiamento dell’ambiente nei confronti dell’immigrato). I fattori di rischio psicopatologici riguardano la perdita dei legami parentali e amicali, della lingua, della cultura di origine, dello stato sociale e del paesaggio, come simbolo della propria terra; anche tutto quello che interviene nelle varie fasi successive alla migrazione determina maggiori o minori rischi psicopatologici, quali quelli legati al fallimento o alla minaccia di fallimento del progetto migratorio, insieme a tutti i co-fattori che sono in grado di influenzare il progetto migratorio stesso. Tutti questi elementi sono in grado di influenzare lo sviluppo emotivo, cognitivo, sociale e linguistico dei bambini bilingui, laddove il bilinguismo sia legato a effetti migratori piuttosto che all’incontro casuale tra i suoi genitori che parlavano lingue diverse. Un terzo elemento collegato alla storia migratoria è il progetto migratorio; dato che molti genitori stranieri hanno affrontato lo stress da transculturazione spinti dal desiderio di assicurare un futuro migliore ai propri figli, questi progetti potrà riflettersi sulle scelte linguistiche e sullo strutturarsi della fobia della prima lingua, ritenuta un ostacolo al progetto stesso. Altri genitori lo hanno affrontato per questioni di salute legate ai figli, maturando quindi delle aspettative, a volte irrealistiche, nei confronti della sanità italiana; diversa è la situazione nel caso di un progetto migratorio che prevede la permanenza in Italia per un periodo di tempo limitato, con lo scopo di acquisire risorse economiche alla luce di un ritorno nel Paese di origine. È quindi necessaria un’attenta analisi, caso per caso, di quello che è l’insieme delle realtà migratorie, così numeroso e complesso, ma così influente sullo stato di salute del bambino e in grado di condizionarne lo sviluppo cognitivo, affettivo-relazionale e linguistico. Il secondo passo necessario è rappresentato dalla ricognizione accurata avente l’obiettivo di definire il tipo di bilinguismo del bambino, inserito in classe o oggetto della valutazione logopedica; a questo livello è già possibile intravedere quale possa essere la situazione. La collaborazione della famiglia per la valutazione è importante, anche se per l’aiuto al logopedista nella valutazione della L1 è previsto che i genitori, entrambi o uno solo, abbiano un buon livello in entrambe le lingue. Una regola di fondamentale importanza per la valutazione di bambini bilingui è legata alla somministrazione di test e prove; si concorda come sia ottimale l’utilizzo di test tarati sulla popolazione bilingue, usando le versioni disponibili per le varie coppie di lingue; solo questa scelta garantisce che il valore normativo ricavato sia utilizzabile con tranquillità. In tutti gli altri casi, l’uso diretto di prove tradotte, ma non adattate, dall’italiano nella L1, crea un’area molto forte di rischio di ricavare dati scorretti e non utilizzabili; tradurre test da una lingua all’altra produce in genere risultati inattendibili. 17 Le Raccomandazioni indicano, per i casi in cui non siano disponibili una batteria di test e prove tarate o standardizzate per una determinata popolazione bilingue, l’adozione di un’osservazione longitudinale dinamica, la quale prevede la stesura del profilo inziale, la valutazione delle modificazioni che intervengono nel tempo, man mano che aumentano le stimolazioni e i fattori di esposizione, usando un approccio che prevede varie sedute di valutazione distribuite nel tempo. La valutazione dinamica si basa sui passi dell’osservare, stimolare e osservare nuovamente. Un dato importante da rilevare attraverso questa strategia, la quale è ritenuta la più appropriata nel caso di bambini bilingui e plurilingui, è la presenza del code-mixing e del code-switching; il primo è caratterizzato dalla mescolanza delle due lingue durante la produzione. Essa appare molto utile in quanto permette al bambino di proseguire con la comunicazione, usando momento per momento i punti di forza di una lingua o dell’altra per colmare lacune lessicali o morfosintattiche nella L2. Il secondo rappresenta quel fenomeno per cui una lingua viene usata in modo esclusivo per comprendere e l’altra per produrre, oppure una lingua viene scelta per esprimere determinati concetti e l’altra per esprimerne altri, in quanto ritenuta maggiormente efficace. La rilevazione della presenza di queste due strategie nei bambini che stanno seguendo un percorso valutativo per sospetto di disturbo del linguaggio risulta utile in quanto i bambini con tale disturbo non presentano di norma buone strategie acquisizionali e un così maturo uso delle lingue. La valutazione linguistica dei bambini bilingui che afferiscono ai servizi per un sospetto disturbo del linguaggio prevede una prassi piuttosto articolata, all’interno della quale occorre un’integrazione tra i dati, visto che nessuno di loro, isolatamente, è in grado di fornire risposte adeguate. Tali fati risultano necessari per verificare i fattori di esclusione e di inclusione per Disturbo di Linguaggio nei bambini bilingui. CAPITOLO 4: Prematurità Con il termine prematurità si fa riferimento a una condizione di nascita che anticipa l’età attesa del parto, tipicamente corrispondente a un’età gestionale tra le 38 e le 41 settimane; essa si associa a un rischio neuroevolutivo correlato al grado di prematurità e alla presenza di altre condizioni cliniche pre-, peri- e post-natali. 4.1. Dati epidemiologici, classificazioni e diagnosi differenziale L’OMS stabilisce un’età gestionale (EG) di 37 settimane come soglia di definizione di nascita pretermine; l’EG è un indicatore del livello di maturazione fisica e neurologica, il quale consente di differenziare i nati lievemente pretermine o quasi a termine (EG 36-34 settimane), i moderatamente pretermine (EG 33-32 settimane), i nati molto pretermine (EG 31-28 settimane) e il gruppo dei bambini estremamente pretermine (EG <28 settimane). Il peso neonatale è anch’esso un importante criterio di gravità utilizzato per distinguere i neonati di peso basso (<2000 g), di peso molto basso (<1500 g) e di peso estremamente basso (<1000 g). Sebbene la maggior parte dei bambini pretermine abbia un peso alla nascita appropriato per l’età gestionale, alcuni possono risultare piccoli per l’età gestionale, rappresentando un sottogruppo di pretermine con ricadute neuroevolutive per aggiuntivi fattori di rischio rispetto ai processi precoci di maturazione e organizzazione neurobiologica. Tra i principali fattori di rischio per una nascita pretermine vanno inclusi l’età materna avanzata, precedenti parti pretermine e uno svantaggio socioeconomico o socioculturale, condizione che talvolta incide sulla quantità e sulla qualità del percorso prenascita e dei monitoraggi clinici in gravidanza, oltre che sulle abitudini di vita e sul livello di stress materno. Vengono inoltre inclusi tra i fattori di rischio la presenza di problemi di salute della madre o di problematiche placentari, la condizione di gemellarità, talvolta legata anche a impiego di tecniche di fecondazione assistita, così 20 ricadute anche sulla gestione e sul benessere di eventuali altri figli e della famiglia in senso allargato. Diventa dunque importante prevedere uno spazio di supporto psicologico, coinvolgimento e aiuto, volto anche a ridurre la tendenza all’isolamento e a contenere dinamiche disfunzionali della coppia, promuovendo fattori protettivi di resilienza, benessere familiare e qualità del parenting. La nascita pretermine, inoltre, rappresenta per madri una condizione di alto rischio per la comparsa di sintomi depressivi o forme più gravi di depressione post-partum, che ricade sui processi di interazione, sintonizzazione emotiva, reciprocità e stimolazione, con un rallentamento della capacità genitoriale di leggere e rispondere in modo contingente ai segnali del proprio bambino e di regolare mutualmente gli stati affettivi, con effetti sui legami di attaccamento e sull’organizzazione socio- emozionale e comportamentale del bambino. Sebbene in misura minore rispetto alla madre, anche nei padri sono stati descritti maggiori livelli di ansia e di depressione rispetto ai controlli durante la degenza in reparto e più evidenti in funzione della fragilità del bambino, della presenza di procedure di ventilazione, dell’età paterna e della percezione dello staff, con ricadute sulla qualità della relazione di coppia, sulla resilienza familiare e sull’outcome a breve e lungo termine del bambino. Nel padre, le ricadute emotive appaiono più tardive nel corso del primo semestre di vita, anche per gli inziali tentativi di sostenere e contenere la madre e per l’immediata necessità di far fronte a problematiche pratiche e a richieste operative. Grazie agli approcci di family centred-care, che coinvolgono i caregiver per ripristinare il senso di continuità dell’esperienza psicofisica tra genitori e bambino e riappropriarsi della funzione genitoriale come protagonista competente ed esperto del proprio bambino, il reparto di neonatologia rappresenta il primo “contenitore” che accoglie il dolore, la paura e lo stress dei genitori e promuove risorse, strategie, competenze, emozioni positive e nuove rappresentazioni di sé, del bambino e della famiglia, riprendendo il disegno familiare preesistente. Interventi successivi di supporto alla genitorialità e parent-training o percorsi più specifici di psicoterapia individuale o di coppia possono rendersi utili dinanzi a problematiche più specifiche (meccanismi di negazione o non accettazione o reazioni più depressive) o a nuovi momenti di “crisi” che insorgono o si intensificano durante lo sviluppo. 4.2.3. L’interazione precoce nella prematurità (focus sulla relazione) I momenti immediatamente successivi alla nascita rappresentano un periodo critico per lo sviluppo del legame di attaccamento; più che la prematurità in sé, condizionerebbe i legami di attaccamento e la qualità delle prime interazioni la presenza di fattori di rischio multipli legati al bambino e al genitore. Studi osservativi mettono in luce come il bambino pretermine appaia più irritabile, più difficile da consolare, con espressività emozionale meno variata e polarizzata in senso negativo, meno sorridente e meno sonoro, meno responsivo e fluido nel dialogo motorio e fisico, ipereccitabile sul piano sensoriale, più esauribile sul piano attentivo, più lento nella maturazione e coordinazione del sistema visivo e motorio e più tardivamente polarizzato verso il volto della madre. Ciò determina nell’insieme risposte comportamentali più ambigue e disorganizzate, segnali più deboli e difficili da cogliere o interpretare, maggiori fluttuazioni e instabilità di risposta, minore agganciabilità e mantenimento dello sguardo e responsività verso stimoli esterni. Studi recenti includono l’analisi dell’interazione diadica padre-figlio, caratterizzata anch’essa da interazioni con scambi più poveri, ridotta reciprocità e difficoltà di sincronizzazione visiva e attenzione condivisa. Studi incentrati sulla famiglia nel corso del primo anno di vita descrivono tratti di maggiore rigidità e minore coesione e qualità dell’interazione triadica e riportano, tra i fattori protettivi, la presenza di cooperazione e alleanza tra i genitori. Sottolineano l’importanza della partecipazione attiva di entrambi alla routine del bambino, del supporto reciproco e inclusione del partner, così come della percezione di supporto sociale da parte della famiglia di origine, in 21 particolare nel padre, confermando l’importanza della figura paterna rispetto a una maggiore circolarità affettiva, contenimento e sostegno materno e benessere familiare. 4.3. Esiti a medio e lungo termine della nascita pretermine I progressi della medicina perinatale e l’aumentata qualità di cure e diffusione dei reparti di TIN hanno portato a un notevole incremento della sopravvivenza di neonati pretermine, anche molto immaturi e piccoli in termini di età gestionale e peso alla nascita. La letteratura recente, inoltre, riporta un calo della morbilità neurologica più grave di tipo motorio, quali le paralisi cerebrali infantili o neurosensoriale, sebbene rimanga alto il rischio di complicanze precoci di natura medica internistica così come di problematiche neurologiche e neuroevolutive più lievi e di specifiche aree di rischio e fenotipi neuropsicologici. In particolare, viene descritta una maggiore incidenza di problematiche neuromotorie minori, difficoltà cognitive e di linguaggio, disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento, disturbi del comportamento e della socializzazione. Una sempre maggiore conoscenza dei profili neuropsicologici e delle aree di rischio nello sviluppo del bambino pretermine supporta l’importanza di programmi di sorveglianza dello sviluppo e intervento precoce, talvolta preventivo rispetto a condizioni sub-cliniche che incidono sulla qualità di vita e sul percorso di crescita del bambino e della sua famiglia. 4.3.1. Esiti neurologici maggiori nella nascita pretermine La paralisi cerebrale (PC) rappresenta senza subbio l’esito neurologico più severo nel neonato pretermine, di natura motoria ma spesso associato a deficit sensoriali visivi e/o uditivi e/o disabilità intellettiva, ormai precocemente diagnosticata già entro il primo anno di vita. La PC rappresenta l’esito fisico, motorio e spesso sensoriale di un danno a carico del sistema nervoso centrale avvenuto nelle fasi precoci di sviluppo del feto o del neonato, nel caso della nascita prematura reso altamente vulnerabile dalla condizione di forte immaturità del cervello in via di sviluppo. La forma altamente prevalente di PC nei pretermine è quella spastica, che interessa 9 bambini pretermine su 10; la diagnosi di PC (o, più spesso, di rischio elevato di PC) può avvenire già nelle prime settimane di vita, grazie alle metodiche di neuroimaging avanzato e a strumenti clinici standardizzati. L’obiettivo primario di una diagnosi precoce è quello di sfruttare al massimo le potenzialità dei meccanismi di plasticità cerebrale neuroadditiva, che risultano più potenti durante le fasi precoci di sviluppo de cervello immaturo e che sono alla base dei programmi neuroprotettivi e dei modelli di intervento di care neonatale da avviare fin dal ricovero in TIN. Tra gli outcome severi rientrano la disabilità neurosensoriale, così come la disabilità cognitiva di grado moderato o grave; in particolare, tra le problematiche neurosensoriali visive appare frequente la retinopatia del prematuro che, nelle forme più gravi, può portare a quadri di importante ipovisione; è inoltre presente un maggior rischio di ipoacusia o quadri di sordità. 4.3.2. Esiti neurologici minori nella nascita pretermine Studi di neuroimaging che confrontano il nato a termine con il pretermine che raggiunge il termine mettono in evidenza in questi ultimi la presenza di diffuse anomalie microstrutturali della sostanza bianca e della connettività, potenzialmente responsabili di esiti neuroevolutivi non-motori a distanza, come quelli cognitivi e comportamentali. Sequele motorie minori includono condizioni di ritardo psicomotorio, impaccio fine- e grosso- motorio, difficoltà di coordinazione, anomalie neuromotorie minori anche persistenti ma meno invalidanti mentre, sul piano neurocognitivo e neurocomportamentale, si delineano sempre più profili neuropsicologici e aree di rischio psicopatologico da monitorare e precocemente prendere in carico. 22 4.4. Profili neuropsicologici e psicopatologici del nato pretermine 4.4.1. Area cognitiva e neuropsicologica Rispetto alle competenze cognitive generali, come misurate dai test psicometrici in termini di Quozienti di Sviluppo (QS) e Quozienti Intellettivi (QI), la letteratura riporta nella popolazione dei pretermine un frequente svantaggio rispetto ai nati a termine, con in media 10 punti di differenza nel quoziente intellettivo, con ampie variazioni interindividuali in funzione del grado di prematurità e della presenza o meno di lesioni cerebrali. Anche quando nei limiti della norma, il QI tende a rimanere più basso nei bambini pretermine rispetto ai nati a termine, con studi che riportano un abbassamento di circa 2 punti per ogni settimana di prematurità a partire dalle 33 settimane di EG. L’analisi della letteratura mostra effetti sullo sviluppo cognitivo soprattutto nella popolazione dei nati estremamente e molto pretermine, indagando traiettorie evolutive e caratteristiche soprattutto in questi due gruppi. La traiettoria evolutiva appare tuttavia differente in studi su nati pretermine senza danni neurologici severi, dove l’età gestazionale contribuisce in misura importante alla comparsa di deficit cognitivi soprattutto nel primo anno di vita, mentre tale effetto appare meno diretto a partire dall’età prescolare, quando diventa più influente il livello di istruzione e di status socioeconomico dei genitori. Lo studio di specifici domini neuropsicologici evidenzia sequele meno severe ma più frequenti in bambini pretermine esenti da gravi danni cerebrali, motori e cognitivi; lo studio dei profili neuropsicologici e di funzioni e competenze specifiche evidenzia specifiche vulnerabilità nei bambini pretermine a carico dell’attenzione, della memoria, dell’integrazione visuo-motoria e nelle funzioni esecutive, con interessamento tra queste anche della memoria di lavoro, con effetti a cascata sulle abilità di linguaggio orale, di letto-scrittura e di cognizione numerica. L’ambito motorio, visuo- motorio e cognitivo non-verbale appaiono maggiormente compromessi nei primi anni di vita e maggiormente nei nati estremamente pretermine, con effetti sul funzionamento cognitivo misurato con scale di sviluppo e una certa persistenza nello sviluppo, soprattutto rispetto all’acquisizione di abilità più complesse sia nell’infanzia che in età scolare, dove la divergenza tende ad aumentare al decrescere dell’età gestazionale. L’emergenza in letteratura degli effetti della condizione della prematurità rispetto all’outcome cognitivo e neuropsicologico spiega la sempre maggiore attenzione verso programmi di intervento precoce. 4.4.2. Attenzione e funzioni esecutive Molti studi riportano l’area dell’attenzione e del funzionamento esecutivo come area di vulnerabilità specifica nei bambini pretermine, con effetti a cascata sullo sviluppo di funzioni quali il linguaggio e la memoria, sull’apprendimento scolastico e sull’organizzazione psicologica, con maggior rischio psicopatologico per diagnosi di disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD). L’attenzione viene solitamente descritta in termini di differenti network attentivi, legati all’attivazione di diverse aree cerebrali e neurotrasmettitori. Con funzioni esecutive si intende un insieme di processi cognitivi di ordine superiore legati a comportamenti finalizzati a uno scopo. Grazie a numerose ricerche si evidenzia come alcune delle funzioni attentive ed esecutive seguano traiettorie evolutive diverse nei bambini pretermine, con fluttuazioni legate all’età gestionale, principale fattore di outcome. Più nello specifico, l’attenzione selettiva e la concentrazione risentono del genere (con svantaggio per i maschi), del livello socioeconomico e dell’età gestazionale, con differenze moderate che si mantengono con l’età nei nati prima delle 26 settimane, a fronte di effetti più evidenti in epoca prescolare e progressivo riallineamento con la crescita, che nei pretermine di grado moderato avverrebbero intorno agli 11 anni, con associata fluttuazione a carico dell’attenzione sostenuta. Nell’ambito delle funzioni esecutive, due studi evidenziano effetti della prematurità sui processi di inibizione nei nati estremamente pretermine, 25 Rispetto ai bambini con ASD nati a termine, si osserva nei pretermine una direzione inversa nella misura della circonferenza cranica, che appare ridotta rispetto alla macrosomia solitamente descritta, così come appaiono più infrequenti forme di autismo ad alto funzionamento. Infine, problematiche e vulnerabilità socio-emozionali di natura ansioso-depressive vengono descritte nella popolazione di pretermine intesa come gruppo, con maggiore incidenza nell’alta prematurità. I pochi studi sull’outcome nei giovani adulti suggeriscono una certa persistenza degli esiti psichiatrici maggiori nella popolazione con alta prematurità, maggiori in condizioni di svantaggio ambientale. 4.6. Misure di tutela, cornice legislativa e indicazioni di presa in carico Nel dicembre 2010 è stata messa a punto in Italia la “Carta dei diritti del bambino nato prematuro”, con l’obiettivo principale di affermare e rinforzare il diritto prioritario dei neonati prematuri e delle loro famiglie di usufruire fin dalla nascita del massimo di cure e di attenzione a tutela dello sviluppo, del benessere e della qualità della vita, supportato dall’evidenza della ricerca scientifica e della pratica clinica. La condizione di prematurità permette alle famiglie di usufruire di una copertura globale dei costi per la salute e l’assistenza da parte del sistema sanitario, grazie a un codice di esenzione valido già per i primi tre anni di vita. Importanti risposte ai bisogni della famiglia provengono dalle associazioni dei genitori, le quali rappresentano importanti riferimenti di supporto psicologico e rispecchiamento emotivo, guida pratica e orientamento, mediazione di conoscenze e consigli pratici. Oltre al reparto di neonatologia, si creano strette alleanze e rapporti di fiducia con le equipe di neuropsichiatria infantile e con il pediatra di base, che dal ritorno a casa del bambino condividerà con la famiglia di bilanci di salute e scelte importanti legate all’alimentazione, agli inserimenti scolastici e all’evoluzione funzionale. Quando indicato, la presa in carico neuropsichiatrica può prevedere percorsi di fisioterapia, psicomotricità e logopedia e supporto alla genitorialità. In contesto scolastico, la tutela del bambino pretermine segue la normativa e le misure di aiuto previste dal MIUR e dal sistema scolastico laddove non tanto la condizione di prematurità ma, piuttosto, i suoi diversi esiti lo richiedano. Fin dalla scuola dell’infanzia è auspicabile l’attivazione di percorsi e strategie pedagogico-didattiche proiettate allo sviluppo delle competenze più vulnerabili e alla stimolazione dei prerequisiti scolastici, con personalizzazione dell’attività in presenza di accurate valutazioni e dal confronto con la famiglia e con l’equipe clinica; con l’ingresso alla scuola primaria e l’esposizione ai processi formali di apprendimento, la tutela segue gli stessi principi e criteri descritti per i disturbi di apprendimento scolastico. SECOMDA PARTE: Profili funzionali e progetti riabilitativi CAPITOLO 5: Disturbi neurovisivi La disabilità visiva rappresenta un gruppo molto eterogeneo di disturbi che riguardano il malfunzionamento del sistema visivo (dall’occhio ai suoi annessi fino alle aree cerebrali che si occupano della elaborazione dell’immagine visiva), che possono limitare in modo più o meno grave il funzionamento generale dell’individuo e le sue autonomie quotidiane. 5.1. Cecità e ipovisione: definizione, epidemiologia e caratteristiche funzionali L’OMS definisce come disturbo del sistema visivo qualsiasi disordine che riguardi gli occhi o i loro annessi, i network o le aree cerebrali che permettono la percezione e il comportamento visivo dell’individuo. Secondo tale definizione, la disabilità visiva rappresenta quindi un gruppo molto eterogeneo di disturbi che, in modo più o meno grave, ostacolano e limitano alcune attività della vita quotidiana della persona, tipicamente collegate alla processazione dell’immagine visiva (ad esempio, l’orientamento nell’ambiente e la mobilità, la lettura e gli apprendimenti). 26 L’OMS indica inoltre che, per caratterizzare l’effettivo handicap visivo e quindi la reale condizione di svantaggio provocata dal disturbo, è necessario tenere conto dell’acuità visiva, ovvero la capacità di discriminare differenze minime nella configurazione spaziale degli oggetti, e del campo visivo, cioè quella parte di spazio in cui gli oggetti sono visibili nello stesso momento durante il mantenimento dello sguardo in una direzione. In Italia, la Legge n. 138 del 3 Aprile 2001 definisce le varie forme di minorazione visiva meritevoli di riconoscimento giuridico e ne determina la quantificazione secondo i seguenti criteri: • ciechi totali: a) coloro che non sono colpiti da totale mancanza della vista in entrambi gli occhi; b) coloro che hanno la mera percezione dell’ombra e della luce, o del moto della mano, in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore; c) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 3%. • ciechi parziali: a) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/20 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione; b) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 10%. • ipovedenti gravi: a) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione; b) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 30%. • ipovedenti medio-gravi: a) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 2/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione; b) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 50%. • Ipovedenti lievi: a) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 3/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione; b) coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 60%. Tutti gli studi epidemiologici hanno evidenziato che il fattore di rischio più importante per i disturbi visivi è l’età; tale dato, però, non esclude la possibilità che alcune tipologie di disturbi visivi, anche di grave entità, colpiscano la popolazione infantile, anche se risultano ancora scarsi e fortemente contrastanti i dati riguardanti la fascia d’età 0-18 anni, presumibilmente in relazione ai criteri normativi assunti dai vari Stati oltre alle caratteristiche della popolazione presa in esame e alle maggiori difficoltà derivate dalle tecniche di valutazione. 5.1.1. Eziologia e quadri clinici La visione può essere vista come la capacità dell’individuo di organizzare e dare significato ai dati sensoriali raccolti dal sistema visivo; tale funzione risulta estremamente varia ed eterogenea e comprende diversi aspetti funzionali che corrispondono all’estrema complessità delle strutture che interagiscono nel sistema per permettere non solo la percezione e l’elaborazione dell’immagine visiva, ma anche il controllo sensoriale del movimento nell’ambiente. È possibile classificare quattro categorie principali di disturbi: 1. deficit visivi periferici, dovuti ad una compromissione della via visiva primaria prechiasmatica (mezzi diottrici, retina, nervo ottico fino al chiasma); tale tipologia di disturbo si manifesta con sintomi quali riduzione dell’acuità visiva o della sensibilità al contrasto, anomalie delle risposte pupillari, nistagmo e/o strabismo, comportamento visivo generale povero. 27 2. deficit visivi centrali, secondari a lesioni della via visiva primaria retrochiasmatica; solitamente la sintomatologia riguarda l’utilizzo del canale visivo, che appare spesso fluttuante e discontinuo, ma possono esserci anche riduzione dell’acuità visiva, della sensibilità al contrasto o anomalie nella percezione del colore, alterazioni del campo visivo o disturbi della coordinazione sguardo-gesto-postura. 3. disturbi legati al malfunzionamento dei sistemi visivi associativi, che provocano tipicamente difficoltà visuo-cognitive e visuo-prassiche; un deficit della via ventrale, detta via del What, può coinvolgere il riconoscimento delle caratteristiche degli oggetti, delle forme, dei volti, mentre un deficit della via dorsale, detta via del Where, può influenzare negativamente la percezione del movimento, la localizzazione spaziale e l’integrazione visuo-motoria. 4. patologie del sistema oculomotorio, che possono portare a disturbi dell’esplorazione visiva e dell’oculomozione (ad esempio, disturbi dei movimenti coniugati degli occhi o dei movimenti volontari di sguardo, strabismo, nistagmo (oscillazione volontaria e ritmica degli occhi) o quadri di disprassia oculare. Infine, nell’identificazione delle cause della patologia visiva deve essere preso in considerazione il timing, ovvero l’epoca di insorgenza del disturbo; i deficit congeniti (quando la mancanza o la riduzione della visione sono presenti fin dalla nascita) sono di natura prevalentemente genetica o malformativa, infettiva o secondari a danni cerebrali da sofferenza pre-perinatale e possono influire in modo sostanziale sullo sviluppo neuropsichico del bambino, in quanto la vista risulta un prerequisito essenziale per l’evolvere dello sviluppo psicomotorio e neuropsicologico, nonché per la crescita emotiva e affettiva del bambino. Se, al contrario, l’esordio del disturbo avviene in fase post-natale, spesso a causa di patologie genetiche a esordio tardivo o come esito di patologie vascolari o tumorali, le conseguenze sul resto dello sviluppo saranno sicuramente inferiori, in quanto le competenze già apprese hanno maggiori possibilità di rimanere indenni. 5.1.2. I disturbi visuo-cognitivi e visuo-prassici Le disfunzioni legate al malfunzionamento delle vie visive associative riguardano l’elaborazione e la processazione delle informazioni visive, tipicamente necessarie per lo svolgimento di compiti cognitivamente complessi; interessano uno spetto molto ampio ed eterogeneo di sintomi, che diventano più evidenti con l’inserimento del bambino nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria, in cui le richieste visuo-cognitive e visuo-motorie da parte dell’ambiente risultano più alte, perché fungono da prerequisiti per l’evoluzione degli apprendimenti (in particolare della letto- scrittura e del calcolo). Le funzioni visive danneggiate, in questi casi, sono comunemente denominate “di alto livello” e vengono distinte in base al ruolo svolto dalle due vie visive associative: la visione per la percezione, svolta dalla via del What, e la visione per l’azione, svolta dalla via del Where. Nel primo gruppo di disturbi, i sintomi comprendono difficoltà legate alla capacità di riconoscere le unità percepite, quindi il riconoscimento delle forme, degli oggetti, dei volti umani o del colore possono risultare estremamente complicate; questa via, infatti, è coinvolta nella costruzione della rappresentazione percettiva del mondo visivo e degli elementi che la compongono. In questi casi, il bambino percepisce la realtà circostante attraverso una modalità alterata e questo potrà influenzare successivamente le sue capacità di categorizzazione percettiva e semantica. In questa popolazione di bambini, anche in presenza di adeguate capacità di intelligenza verbale o pur effettuando una correzione sulla base dell’età mentale, la possibilità di rilevare deficit specifici del riconoscimento rimane molto alta. Nel secondo gruppo di disturbi, invece, le difficoltà riguardano il riconoscimento dei rapporti spaziali tra le unità percepite, quindi le competenze visuo-spaziali, in quanto la via del Where è coinvolta nella percezione del movimento, nella localizzazione spaziale e nell’integrazione visuo-motoria. In presenza di un malfunzionamento di questa via, il bambino, per 30 rappresentazione mentale e simbolica della realtà circostante; tale competenza lo porta quindi ad usare il linguaggio per rappresentare e indicare gli eventi e gli oggetti. L’evoluzione di un pensiero simbolico di questo tipo risulta a rischio nel bambino con disturbo visivo, in quanto l’esperienza ridotta nella fase sensomotoria può influenzare negativamente lo sviluppo successivo della rappresentazione mentale e delle capacità immaginative, per cui spesso in questi pazienti l’ideazione può risultare povera, perché povere sono le esperienze visive da cui prendere spunto. Il rischio di disordini sociocomunicativi sembra molto alta in questa popolazione; infatti, la comorbilità della patologia psichiatrica nei bambini ciechi o con disturbo visivo severo è molto alta e correlata sia al grado del disturbo visivo sia alla presenza o meno di un danno cerebrale e una di disabilità intellettiva. 5.4. Presa in carico riabilitativa L’identificazione precoce del disturbo visivo nel neonato e nel bambino risulta importante perché collegata all’implementazione di programmi di riabilitazione precoce, finalizzati a promuovere l’intero sviluppo neuropsichico del paziente in età evolutiva. La diagnosi e l’intervento precoce, infatti, hanno un grande valore, in quanto consentono di sfruttare pienamente l’alto potenziale terapeutico della plasticità cerebrale presente nei primi anni di vita, provando a modificare positivamente l’outcome visivo ma anche posturomotorio, cognitivo e sociocomunicativo. Per fare ciò, la presa in carico dovrà essere multidisciplinare e prevedere la presenza di più figure professionali, che interagiscono attivamente tra loro, al fine di facilitare la crescita del bambino e l’interazione dinamica tra le singole funzioni emergenti. Il medico oftalmologo e il medico neuropsichiatra infantile, quindi, dovranno guidare il processo diagnostico e comunicare alla famiglia tutte le informazioni necessarie per metterla in condizioni di scegliere il giusto percorso riabilitativo per il proprio bambino, personalizzando la presa in carico riabilitativa in base alle specifiche caratteristiche funzionali. Considerando l’eterogeneità e la complessità dei quadri clinici che vengono a configurarsi all’interno dei disturbi visivi, risulta evidente che non esiste una terapia elettiva per questi bambini, ma una serie di criteri che andranno presi in considerazione di volta in volta per rispondere ai bisogni specifici del paziente e della sua famiglia in quel preciso periodo della vita. L’intervento dovrà quindi basarsi sui comportamenti e sugli interessi del bambino, cercando di coinvolgere i membri della famiglia nel comprendere i meccanismi di apprendimento del proprio bambino e nel trovare le strategie più adatte per costruire le sue competenze. Nella formulazione del progetto terapeutico andranno tenuti in considerazione alcuni obiettivi chiave, che permetteranno al bambino di accedere gradualmente al processo di organizzazione della realtà: • promuovere la consapevolezza del residuo visivo e l’autoregolazione sensoriale-emotiva; • sostenere una relazione positiva del bambino con i caregiver attraverso il dialogo tonico- fusionale, il quale rappresenta la primissima forma di comunicazione madre-bambino attraverso la quale il neonato sente il proprio corpo e inizia a strutturare la sua vita mentale; • favorire l’integrazione multisensoriale; • ottimizzare l’utilizzo del canale visivo o, in alternativa, di altri canali sensoriali nella comunicazione; • migliorare l’oculomotricità e l’esplorazione visiva dell’ambiente prossimale; • guidare l’acquisizione di strategie e compensi efficaci durante la manipolazione e l’esplorazione degli oggetti; • educare all’autonomia nell’orientamento e nella mobilità. Tali principi andranno messi in atto fin dai primi mesi di vita, così da promuovere un’adeguata flessibilità nell’uso delle competenze; essa sarà in grado di minimizzare l’impatto della disabilità 31 visiva sulla qualità di vita e permetterà l’inserimento e l’integrazione sociale del soggetto e della sua famiglia nella comunità. 5.5. Indicazioni educative e legislative A causa dell’incremento dei disturbi visivi avvenuto negli ultimi anni, l’OMS ha approvato il Piano d’Azione Globale di Prevenzione della Disabilità Visiva 2014-2019 con l’obiettivo di ridurre del 25%, entro il 2019, i deficit visivi evitabili, ponendo alla base cinque principi fondamentali nell’approccio diagnostico-terapeutico a questa specifica tipologia di disordini: accesso universale ed equità dei servizi sanitari, diritti umani, pratiche basate sulle evidenze scientifiche relative all’entità, alle cause e ai trattamenti dei vari disturbi visivi, approccio mirato all’intero corso dell’esistenza ed empowerment delle persone affette dal deficit visivo. La Legge n. 104/92 detta i principi dell’ordinamento in materia di diritti, integrazione sociale e assistenza della persona con handicap e stabilisce che l’eventuale gravità non è legata al grado di minorazione, e quindi alla percentuale di invalidità, ma al fatto che la minorazione abbia ridotto, in modo più o meno grave, l’autonomia personale rispetto all’età del soggetto. Si riconosce inoltre la scuola come luogo di integrazione principale durante l’infanzia e l’adolescenza e, per questo motivo, il MIUR mette in atto, per sostenere la famiglia dell’alunno con disabilità, varie misure di accompagnamento come: la presenza di docenti di sostegno, il finanziamento di progetti e attività per l’integrazione, l’istituzione di iniziative di formazione del personale docente di sostegno e curriculare, nonché del personale amministrativo, tecnico e ausiliare. A livello territoriale, i GLH hanno il compito di mettere a punto il PEI, che determina il percorso formativo dell’alunno con disabilità e garantisce un intervento adeguato allo sviluppo delle sue potenzialità. Infine, in Italia, le persone con disabilità visiva possono ottenere alcuni ausili per facilitare lo svolgimento delle varie attività della vita quotidiana, i quali vengono di solito suddivisi in: 1. dispositivi e ausili per la funzione visiva; 2. ausili per l’orientamento e la mobilità; 3. ausili tiflodidattici per la lettura, la scrittura e il calcolo. CAPITOLO 6: Disturbi della regolazione della processazione sensoriale 6.1. Autoregolazione Nell’arco dei primi tre anni di vita, il bambino impara a organizzare le sue sensazioni, a dare loro un significato e a pianificare le risposte verso l’ambiente. Ogni bambino ha un pattern unico, il profilo sensoriale individuale, di recepire e rispondere alle informazioni che, tramite i sensi, gli derivano dalle sollecitazioni dell’ambiente; la ricerca negli ultimi trent’anni ha messo in evidenza l’importanza dei meccanismi di processazione e integrazione che sottendono al profilo sensoriale individuale e che sono alla base dell’autoregolazione. Lo sviluppo dell’autoregolazione implica l’uso di piani d’azione e di strategie comportamentali e cognitive e si sviluppa per la maggior parte nella prima e seconda infanzia. La motricità finalizzata, l’esplorazione attiva degli oggetti e degli spazi, i livelli di arousal, la capacità di orientare l’attenzione, di calmarsi e di rispristinare una condizione di omeostasi sono espressione della maturazione dei sistemi di autoregolazione. Nel modello di Barry Lester et al., l’autoregolazione si sviluppa attraverso l’intersecarsi di quattro dimensioni: l’arousal, l’attenzione, l’affetto e l’azione; “Le quattro A della prima infanzia” rappresentano la risultante della capacità del bambino di integrare e modulare le sensazioni e di rispondere alle sollecitazioni dell’ambiente in modo finalizzato ed adattivo. L’Arousal indica lo stato di attivazione del SNC, compreso il sistema neurovegetativo, attraverso il coinvolgimento di diversi apparati e livelli di partecipazione del bambino all’ambiente ed è il frutto 32 di un’oscillazione tra livelli di eccitazione e stati di quiete; lo sviluppo della capacità di regolazione di questa dimensione consente al bambino di passare dai livelli di veglia al sonno. L’arousal è il livello di attivazione generalizzato di un individuo ed è correlato all’intensità potenziale dell’attenzione. L’Attenzione è la capacità del bambino di focalizzarsi su un determinato stimolo o compito; implica la capacità di concentrazione, di ascolto e comprensione del messaggio verbale e non, ed è correlata all’interesse e al desiderio di apprendere. L’attenzione è quindi la disponibilità a recepire per rielaborare e produrre. L’Affetto è caratterizzato dalla capacità del soggetto di esprimere le proprie emozioni, di riconoscerle, di sperimentarle, di associarle progressivamente in modo congruo e sintonico a contenuti psichici che riguardano se stesso e le relazioni con gli altri. L’Azione è la capacità del soggetto di finalizzare le proprie intenzioni, ovvero organizzare e coordinare le proprie abilità per pianificare il proprio intervento sulla realtà esterna, per incidere su essa, modificarla secondo propri scopi. Queste quattro dimensioni sono interdipendenti e mutualmente influenzabili; nei primi anni, la maturazione dei sistemi di autoregolazione assume un ruolo centrale nel processo di sviluppo del bambino e nelle sue capacità di regolare gli stati fisiologici e comportamentali nella relazione con l’ambiente circostante e in risposta alle diverse sollecitazioni che riceve. I sistemi di auto-regolazione costituiscono l’insieme di meccanismi che consentono di processare le sensazioni, filtrare gli stimoli del mondo esterno, discriminare le sollecitazioni sensoriali entero- ed esterocettive ed escludere le sensazioni disturbanti, adattando le proprie risposte per il ripristino dell’omeostasi. L’autoregolazione consiste quindi nella capacità del bambino di controllare un proprio sentimento e comportamento in funzione della sempre maggiore capacità di differenziare la propria risposta comportamentale dall’impulso emozionale; il concetto di autoregolazione è imprescindibile dalla presenza di un ambiente esterno interattivo e lo sviluppo dei meccanismi di autoregolazione è considerato come il legame cruciale fra le componenti genetiche, le prime esperienze relazionali e il successivo funzionamento sociale. Le strutture sottostanti ai meccanismi di autoregolazione sono immature alla nascita e maturano in stretta dipendenza con l’esperienza all’interno della relazione con l’altro che agisce in qualità di regolatore psico-biologico esterno. L’autoregolazione dipende dalla capacità del bambino di leggere i segnali esterni, di interiorizzare le routine quotidiane e di adattarsi alle aspettative degli altri; l’abilità di agire in accordo alle richieste dell’ambiente sociale primario e di regolare il proprio comportamento in funzione delle sollecitazioni che da questo provengono costituisce il presupposto per lo sviluppo delle abilità di relazione e di sollecitazione durante i primi anni di vita. Il profilo di autoregolazione del singolo bambino, le sue reazioni e i suoi comportamenti possono essere valutati solo in relazione all’ambiente. Una vulnerabilità specifica o un’immaturità delle basi neurobiologiche preposte alla maturazione dei meccanismi dell’autoregolazione possono creare una discrepanza rispetto alle aspettative dell’ambiente; fallimenti ripetuti dei primi tentativi del bambino di auto-regolare il comportamento e le risposte all’ambiente di cura, creano una maggiore fragilità del sistema di co-regolazione (quello tra bambino e caregiver), su cui fattori di stress diversi possono agire più facilmente in modo negativo. L’abilità di agire in accordo alle richieste dell’ambiente sociale primario e di regolare il proprio comportamento in funzione delle sollecitazioni che da questo provengono costituisce il presupposto per lo sviluppo delle abilità di relazione e di socializzazione durante i primi anni di vita. Infine, possiamo dire che l’autoregolazione ha uno sviluppo precoce nei primi cinque anni di vita ed è implicata nello sviluppo successivo, in particolare per quanto riguarda il rendimento scolastico che 35 sviluppare un Disturbo da iper-responsività sensoriale. Infine, può esserci familiarità per tali disturbi: è frequente, infatti, riscontrare simili reazioni sensoriali nei bambini e in un genitore. Bambini con questo disturbo possono presentare importanti problemi nell’alimentazione, nel sonno e nella capacità di auto-consolarsi; in età prescolare, vi è un alto rischio di problemi comportamentali ed emotivi mentre, in età scolare, sono probabili problemi nel rendimento scolastico. I bambini ipersensibili potrebbero essere infastiditi dalle sensazioni tattili, da luci forti, rumori o odori; è comune riscontrare difficoltà nel farsi lavare e tagliare i capelli, difficoltà nel controllo posturale in associazione ad uno scarso tono corporeo e alla tendenza a camminare sulla punta dei piedi. Nelle attività di motricità fine si evidenziano frequenti difficoltà nella coordinazione oculomanuale (come, ad esempio, tagliare con le forbici, incollare, colorare, ecc.); in luoghi affollati si osservano disagio ed irritazione per il troppo movimento o rumore intorno a sé. L’ipersensibilità potrebbe portare il bambino a isolarsi per rifuggire dal fastidio provato nel gruppo, evitare giochi in movimento e in spazi aperti, preferendo luoghi tranquilli o restare a casa. Questi bambini vengono sopraffatti con facilità dagli stimoli sensoriali e faticano molto a rispondervi in modo adeguato a causa del forte stress che vivono. 6.3.2. Disturbo da ipo-responsività sensoriale Il bambino mostra risposte emotive o comportamentali ridotte quando esposto a stimoli intensi che dovrebbero evocare una forte, o almeno moderata, risposta sensoriale; l’intensità minima di reazione, la lunga latenza di risposta e la breve durata della risposta non sono proporzionate all’intensità dello stimolo. L’ipo-responsività sensoriale si presenta in più di un contesto e può coinvolgere uno o più domini sensoriali; i bambini iposensibili esplorano in modo limitato l’ambiente e le possibilità di gioco, tendono ad essere apatici, poco attivi, pigri, facilmente stancabili, disattenti, possono presentare impaccio motorio a causa di uno scarso sviluppo dello schema corporeo (per questo motivo sbattono e cadono spesso) e scarsa coordinazione del movimento, che risulta poco fluido e poco armonico. L’iposensibilità si può manifestare anche attraverso una forte ricerca di stimolazione sensoriale come, ad esempio, la ricerca di un contatto fisico intenso, di odori e il movimento continuo con possibili incidenti o situazioni di pericolo. Tali bambini possono avere una soglia del dolore molto alta, non manifestando le reazioni attese dinanzi a una ferita. Gli adulti possono intervenire sostenendo l’iniziativa del bambino, la sua attenzione, l’interazione e l’esplorazione con l’ambiente, accompagnandolo e modulando le sue reazioni, sia quando sono minime sia quando sono eccessivamente impulsive e disorganizzate; può giovare al suo sviluppo fare esperienze di situazioni facilitanti l’autoregolazione. 6.4. Trattamento Ogni intervento o piano di trattamento dovrebbe essere basato su una comprensione più completa possibile del bambino e delle sue reazioni e sul coinvolgimento dei caregiver nel percorso terapeutico, in modo da estendere il lavoro a tutti i contesti di vita. L’obiettivo generale di un intervento per bambini con queste difficoltà è il passaggio da una regolazione emotiva e comportamentale esterna, offerta dall’adulto, a un’autoregolazione, cioè la capacità di gestire e ponderare in autonomia le reazioni agli stimoli, individuando comportamenti funzionali. Il trattamento congiunto genitore-bambino nasce come intervento per la risoluzione dei problemi di salute mentale del bambino, partendo dal presupposto che è necessario il riconoscimento dei contributi sia del genitore sia del bambino alla reazione. Nel trattamento dei problemi relazionali genitori-bambino è necessario un approccio che tenga conto sia degli aspetti interpersonali, cioè i comportamenti, le interazioni tra genitori e bambino, 36 sia quelli intrapsichici soggettivi, ossia le rappresentazioni relative a come madre e padre vedono se stessi come genitori e come vedono il proprio bambino. Ogni bambino è diverso dall’altro ed è necessaria un’accurata osservazione per individuare i punti di forza e di debolezza e, quindi, definire l’intervento adeguato; tuttavia, alcune strategie di supporto al bambino che manifesta difficoltà di regolazione possono essere condivise ed utilizzate in molte situazioni come, per esempio, rispettare i tempi del bambino, soprattutto dinanzi alle novità, e prepararlo ai cambiamenti, spiegandogli e anticipandogli cosa accadrà. L’adulto può affiancare il bambino nelle attività mostrandogli come fare o svolgendo inizialmente insieme l’azione; è utile, inoltre, procedere per piccoli obiettivi suddividendo i compiti, moderare la quantità di stimoli visivi e uditivi a cui il bambino è esposto, sostenere lo sviluppo emotivo, rispecchiando le sue emozioni e aiutandolo a comprendere, ed eventualmente comunicare, ciò che gli accade e come si sente. Quando il bambino presenta un Disturbo di regolazione, la collaborazione tra famiglia, scuola e servizi di diagnosi e cura è fondamentale per comprendere meglio e affrontare adeguatamente le difficoltà che emergono. 6.4.1. “Cerco Asilo”: trattamento della relazione genitori-bambini nella prima e seconda infanzia Il progetto “Cerco Asilo” è stato un progetto sperimentale che è riuscito a realizzare un servizio di “asilo terapeutico” dedicato a minori della fascia di età 0-5 anni; il progetto è nato dal bisogno di creare uno spazio diagnostico, ma soprattutto terapeutico, più adeguato a rispondere ai bisogni dei bambini e delle loro famiglie, poiché spesso lo spazio ambulatoriale era limitato e ostacolava il possibile lavoro con la famiglia. Le famiglie possono così raccontare le difficoltà che incontrano con il proprio figlio, ma anche viverle insieme all’operatore ed essere guidati nella risoluzione del conflitto (sintomo). Il trattamento “Cerco Asilo” si caratterizza per la focalizzazione sulla relazione genitori-bambino e prevede un percorso di sei mesi con cadenza settimanale. Le famiglie trascorrono una giornata con un piccolo gruppo di trattamento composto da bambini e genitori in un ambiente familiare, a misura di bambino; i problemi relazionali della famiglia sono affrontati osservando il comportamento interattivo attuale della diade genitore-bambino e offrendo una guida ai caregiver nel loro tentativo di acquisire una comprensione più completa dei sentimenti, dei pensieri e delle azioni del loro bambino e propri. È parallelamente previsto un intervento per la promozione della genitorialità consapevole, attraverso l’organizzazione di incontri di gruppo e familiari. Questo intervento, infine, si propone di promuovere nel genitore il recupero di risorse di autonomia e autosufficienza e di sostenere il minore nel suo percorso di crescita, individuazione e rafforzamento del sentimento di identità. Il clinico può accompagnare i genitori in molti momenti tipo della giornata, svolgendo un ruolo di facilitatore nelle diverse pratiche dell’accudimento. Il coinvolgimento dei genitori nelle attività ludiche, da un lato, dà risposte ai bisogni di scoperta e di esplorazione dei bambini e, dall’altro, permette agli adulti di sviluppare una maggiore comprensione dei propri bambini e di migliorare le capacità di comunicazione e di elaborazione dei conflitti educativi. Le attività proposte sono finalizzate alla strutturazione nel bambino di un sistema di regolazione che lo sostenga nel processo di interiorizzazione di comportamenti sociali adattivi, implementando allo stesso tempo le competenze educative dei genitori. Lo scopo del lavoro terapeutico è di mettere il genitore nelle condizioni di riflettere sui propri stati mentali, su quelli del figlio e su quelli che si attivano nella relazione, essendo il cosiddetto paziente il sistema dinamico della loro relazione. Il bambino e il genitore, infatti, appartengono a un sistema regolativo e interattivo, le cui parti si influenzano reciprocamente; in particolare, l’influenza di una famiglia può derivare sia dalle rappresentazioni mentali dei genitori sui ruoli genitoriali sia dalle pratiche familiari attuali. 37 L’obiettivo teorico di questo progetto è che, in un ambiente in cui i genitori si possano sentire incoraggiati, confermati, apprezzati e sostenuti psicologicamente, essi possano esplorare liberamente il proprio repertorio di comportamenti genitoriali innati, costruendo un percorso a partire dai nuclei di competenza che essi stessi mostrano. CAPITOLO 7: Disturbi del linguaggio Per Disturbi di sviluppo del linguaggio si intende tutte quelle condizioni cliniche in cui, pur in assenza di patologie conclamate, il bambino non riesce a sviluppare la competenza linguistica secondo le modalità o i ritmi attesi per la sua età. 7.1. Lo sviluppo del linguaggio Il linguaggio verbale è una capacità esclusiva del genere umano che, oltre a modalità di comunicazione non verbali, ha sviluppato una forma di comunicazione finalizzata a trasmettere informazioni e a stabilire interazioni attraverso l’uso di un sistema di simboli sonori. Questa modalità comunicativa è divenuta lo strumento principale per interagire con i propri simili e anche, una volta interiorizzata, uno strumento di autoregolazione, fondamentale per pensare, ragionare, controllare le proprie azioni o compiere numerose altre operazioni mentali e, una volta tradotta in un sistema di simboli scritti, il mezzo più importante per creare e trasmettere contenuti culturali. Il linguaggio verbale è, dunque, una funzione cognitiva complessa che, per esprimersi e manifestarsi nella sua completa e corretta funzionalità, richiede diverse competenze, a loro volta supportate da diverse strutture anatomiche del nostro organismo. Innanzitutto, per parlare occorre la capacità di emettere e percepire suoni; occorre, quindi, la capacità di produrre e comprendere espressioni verbali sulla base dell’applicazione e dell’interpretazione di regole ben precise condivise dalla comunità di appartenenza e che determinano le caratteristiche di una lingua, permettendo quella che viene definita la “generatività infinita” del sistema linguistico; quest’ultima riguarda la possibilità di produrre un numero infinito di messaggi adatti a esprimere qualsiasi concetto o pensiero attraverso l’organizzazione degli elementi costituenti il linguaggio stesso, secondo dei principi prestabiliti. In ogni lingua, il rapporto fra l’espressione (la forma sonora) e il significato (il contenuto) del flusso del parlato è mediato dalle caratteristiche e dal funzionamento delle quattro sotto-componenti di cui ogni linguaggio si compone nel suo complesso: 1. la fonologia, ossia il sistema dei suoni (fonemi) esistenti in una lingua e le loro possibili combinazioni; 2. la grammatica, a sua volta costituita dalla morfologia (l’insieme delle unità di significato implicate nella formazione delle parole (morfemi)) e dalla sintassi (il modo in cui le parole sono combinate fra loro per formare le frasi e i periodi); 3. la semantica, la quale riguarda il significato di parole (lessico o vocabolario) e frasi; 4. la pragmatica, che concerne l’uso appropriato del linguaggio nei diversi contesti, sia a livello di contenuti che di aspetti formali, e la sua integrazione con altre condotte comunicative paralinguistiche (intonazione, cadenza, prosodia) o non verbali (contatto di sguardo, gesti, prossemica e postura). Perché il linguaggio sia uno strumento di comunicazione, occorre la capacità di socializzare e, soprattutto, occorre che l’individuo sperimenti la necessità e l’intenzione di condividere con gli altri i propri contenuti di pensiero, di qualunque natura essi siano. Occorre dunque che il soggetto mostri capacità di attenzione condivisa, il possesso di una “teoria della mente” che permetta di pensare all’altro come ad un essere ugualmente pensante ma diverso da sé, con un proprio stato mentale e una propria visione del mondo, e una capacità di relazionarsi e interagire con gli altri. 40 dell’enunciato è ridotta. Le frasi sono inoltre caratterizzate da errori grammaticali, che riflettono un mancato controllo della morfologia e delle regole sintattiche; le difficoltà lessicali possono riguardare anche la comprensione delle parole delle frasi o del linguaggio narrativo e dialogico. È a partire dai 3-4 anni di età che si configurano con maggiore chiarezza le aree più colpite dal disturbo, il quale interessa frequentemente la componente espressiva fonologico-morfosintattica. L’andamento evolutivo e la prognosi sono diversi in relazione al grado di compromissione delle diverse componenti linguistiche e al fatto che i disturbi siano solo espressivi o anche recettivi. Nei bambini con Disturbo recettivo-espressivo, infatti, il quadro clinico è in genere più grave, sia perché è presente una maggiore compromissione dei processi di decodifica e codifica linguistica sia perché sono presenti in grado maggiore difficoltà a carico di altre abilità cognitive, come la memoria di lavoro fonologica. I Disturbi fonetico-fonologici comprendono un gruppo di disturbi molto eterogenei, fra cui quelli fonologici e quelli dell’articolazione: i primi si ipotizza un deficit a livello della conoscenza- rappresentazione dei suoni linguistici e, nelle forme più gravi, riguardano un quadro caratterizzato da errori multipli e inconsistenti con un’alta proporzione di variazioni imprevedibili a carico di più foni; nei secondi, il deficit interessa i meccanismi di programmazione e controllo dei movimenti articolatori, in assenza di deficit neuromotori specifici, malformazioni strutturali ecc. (un disturbo severo contemplato da questa categoria è la disprassia verbale). Le diagnosi del Disturbo del linguaggio e del Disturbo fonetico-fonologico richiedono una valutazione neurologica e audiologica, la valutazione dello sviluppo cognitivo e affettivo e un’analisi dettagliata e completa del profilo funzionale linguistico. 7.2.3. Endofenotipo cognitivo Da tempo, attraverso lo studio dei profili cognitivi dei bambini con Disturbo del linguaggio, si è cercato di verificare se possono esserci cause cognitive o fattori associati che possono portare alla sua manifestazione comportamentale, ovvero si è cercato di capirne quello che viene definito l’endofenotipo cognitivo. Dopo che varie ricerche hanno dimostrato che la memoria di lavoro fonologica (quella componente del sistema mnestico che permette di immagazzinare a breve termine e di elaborare informazioni verbali per usarle durante l’esecuzione di un compito cognitivo) gioca un ruolo cruciale nello sviluppo tipico del linguaggio, è venuto naturale ipotizzare che un disturbo di questa funzione potesse essere la causa di uno sviluppo atipico delle abilità linguistiche. In effetti, un disturbo di memoria fonologica è uno dei più frequenti deficit cognitivi documentati nei Disturbi del linguaggio; ulteriore supporto all’ipotesi di una relazione tra memoria fonologica e Disturbo del linguaggio è fornito dal riscontro di maggiori difficoltà mnestiche nei soggetti con Disturbo di linguaggio più grave per entità ed estensione dei deficit linguistici e con disturbo persistente nel tempo. Oltre che difficoltà nei compiti di memoria di lavoro fonologica, nei bambini con Disturbo del linguaggio sono stati documentati deficit a carico di altre abilità neuropsicologiche, come le capacità di memoria di lavoro visuo-spaziale e di attenzione, di processamento metafonologico, di accesso rapido al lessico e di funzioni esecutive. La definizione del profilo cognitivo dei bambini con Disturbo del linguaggio appare importante a livello diagnostico e riabilitativo; i diversi sottotipi clinici mostrano, oltre a profili linguistici diversi, anche una risposta diversa al trattamento e un diverso outcome a lungo termine. 7.2.4. Eziologia L’eziologia dei Disturbi primari del linguaggio rimane al momento attuale ancora largamente sconosciuta. Ci sono, tuttavia, prove che tali disturbi originino dalla complessa interazione tra l’espressione dell’assetto genetico e fattori di rischio ambientale; secondo questa ottica, nei soggetti 41 con DL, l’interazione fra l’operato dei geni e gli effetti dell’influenza ambientale si rifletterebbero in un’alterazione dello sviluppo anatomo-funzionale del SNC e dell’organizzazione dei network cerebrali per il linguaggio, con conseguenti alterazioni del funzionamento sul piano cognitivo e linguistico. Nei soggetti con DL, infatti, sono state riscontrate sia anomalie genetiche che anomalie strutturali e funzionali delle aree cerebrali deputate al funzionamento linguistico. 7.2.5. Evoluzione Il Disturbo del linguaggio può essere risolto in tempi più o meno lunghi in relazione alla gravità del quadro e alla tempestività e intensità della presa in carico, attraverso opportuno trattamento; nei casi più gravi, tuttavia, il disturbo si protrae in età scolare, interferendo con l’apprendimento della lingua scritta. In letteratura è ampiamente documentato che i bambini con Disturbo del linguaggio in età prescolare sono ad alto rischio di presentare un disturbo della lettura in età scolare, con una co- concorrenza fra i due disturbi; si parla, dunque, di continuità tra Disturbo del linguaggio e Disturbo di apprendimento (DSA). In particolare, sono la persistenza del Disturbo del linguaggio in età scolare, l’estensione della compromissione a più componenti, ossia la maggiore gravità della compromissione della funzione linguistica, e un ritardo nella diagnosi e nell’inizio del trattamento a costituire fattori di rischio per l’outcome nell’apprendimento. Tuttavia, anche laddove il Disturbo del linguaggio sembri recuperato in età scolare o se ne presentino solo tracce subcliniche, difficoltà di apprendimento possono manifestarsi più tardi in concomitanza di richieste scolastiche di livello più elevato, per cui il recupero potrebbe essere solo apparente. In generale, comunque, i bambini che hanno presentato un Disturbo del linguaggio vanno incontro a un disturbo di apprendimento più complesso rispetto a quello presentato da soggetti che non hanno avuto una problematica linguistica precoce. Nei bambini con DL pregresso o in atto, infatti, oltre a difficoltà di decodifica della lettura e di codifica della scrittura, sono spesso presenti deficit di comprensione della lettura e di produzione del testo, cui si aggiungono anche difficoltà nella memorizzazione e nella riesposizione orale. È dunque fondamentale, in fase diagnostica, effettuare una valutazione quanto più estesa dei bambini con DL per rilevare eventuali aree di debolezza oltre quella linguistica; quindi, oltre alla diagnosi di primo livello, in cui si rileva e si quantifica il problema linguistico, è necessario, attraverso una valutazione di secondo livello, evidenziare la compresenza di difficoltà in altre funzioni cognitive. 7.3. Trattamento Successivamente alla diagnosi, il trattamento riabilitativo consigliato in caso di DL è la logopedia; questa si avvale di tecniche specifiche atte a stimolare in modo diretto lo sviluppo delle varie competenze linguistiche. In genere, se i bambini presentano adeguate competenze di comprensione, si può attendere fino ai 36 mesi per intraprenderla; dopo i 36 mesi si procede all’intervento in tutti i casi di disturbo, anche se limitato alla componente espressiva. In caso di ritardo espressivo, lo specialista interviene sul contesto comunicativo-linguistico del bambino, fornendo strategie psicoeducative ai genitori, agli insegnanti o agli altri adulti di riferimento. L’intervento sugli aspetti linguistici può essere integrato con attività di potenziamento di altre abilità cognitive (memoria fonologica, metafonologia, attenzione, funzioni esecutive), che possono presentarsi carenti in associazione alla problematica linguistica, e dei prerequisiti degli apprendimenti. 7.4. Bambini con disturbo del linguaggio a scuola 42 Come nel caso di altre patologie, nel lavoro riabilitativo con i bambini con DL è centrale la collaborazione con la scuola e la pratica clinica deve tradursi in un metodo didattico adatto alle caratteristiche e alle esigenze comunicative del bambino. Anche a scuola, quindi, occorre che vengano attivati percorsi e strategie pedagogico-didattiche proiettati allo sviluppo delle competenze linguistiche e alla stimolazione dei prerequisiti prima e al supporto negli apprendimenti dopo. Nella scuola dell’infanzia, per promuovere l’acquisizione delle abilità fonologiche, potranno essere utili giochi che contemplano l’uso dei “suoni del linguaggio”, come filastrocche, rime, o strategie comunicative di riformulazione e ampliamento delle produzioni del bambino. Per supportare lo sviluppo del vocabolario, potrà essere utile presentare parole nuove accompagnandole con dei disegni o delle immagini. Lo sviluppo delle abilità morfosintattiche potrà essere sostenuto attraverso riformulazioni o rimodellamento da parte dell’insegnante delle produzioni del bambino o attraverso la presentazione di storie e racconti anche con supporto figurato. Con l’ingresso del bambino alla scuola primaria e con l’introduzione alla letto-scrittura, le difficoltà insite nei DL possono diventare maggiori e possono emergere anche gli aspetti più latenti; per questo, oltre al lavoro sugli aspetti linguistici, occorre supportare l’acquisizione dei processi di conversione segno-suono e suono-segno e le abilità metafonologiche. I bambini con Disturbi del linguaggio sono alunni che hanno “bisogni educativi speciali” e richiedono la predisposizione di un Piano Didattico Personalizzato (PDP), in cui sarà necessario introdurre l’uso di strumenti compensativi per supportare lo studio, l’esposizione orale e la comprensione delle consegne o del testo scritto. L’insegnante dovrà quindi essere in grado di conoscere la natura delle difficoltà del proprio alunno, ma anche di dimostrargli di accoglierle e gestirle insieme a lui in un “gioco do squadra”, cercando di evitare di esporlo a frustrazione e senso di impotenza, ma promuovendo la motivazione e l’autostima. CAPITOLO 8: Disabilità intellettiva La Disabilità intellettiva è una condizione clinica caratterizzata da uno sviluppo alterato delle funzioni cognitive e adattive, cui si possono spesso associare disturbi motori, linguistici, comportamentali, affettivi, disturbi organici (epilessia), deficit uditivi o visivi, anomalie genetiche e cromosomiche, disfunzioni metaboliche, deficit staturo-ponderali; questi, a loro volta, interagiscono ed interferiscono con lo sviluppo mentale dell’individuo. 8.1. Definizione e diagnosi La Disabilità intellettiva è definita come “caratterizzata da deficit delle capacità mentali generali, quali il ragionamento, il problem solving, la pianificazione, il pensiero astratto, la capacità di giudizio, l’apprendimento scolastico e l’apprendimento dall’esperienza”, che comportano una compromissione delle capacità adattive tale da interferire sull’acquisizione degli standard di autonomia e responsabilità sociale. “Disabilità intellettiva” è attualmente l’espressione privilegiata per la disabilità, da molti ritenuta meno offensiva e svalutante; le definizioni di disabilità utilizzate negli ultimi cinquanta anni hanno sostanzialmente mantenuto invariati i tre elementi essenziali della disabilità intellettiva (limitazioni del funzionamento intellettivo, limitazioni comportamentali nell’adattamento alle richieste ambientali ed esordio precoce), descrivendo comunque sempre la stessa popolazione di soggetti. In base al DSM-5, la disabilità intellettiva è quindi un disturbo con esordio nel periodo dello sviluppo che comprende deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo negli ambiti concettuali, sociali e pratici, rispetto a individui della stessa età, sesso e livello socioculturale. Per poter formulare la diagnosi, devono essere soddisfatti tre criteri: 45 dell’elaborazione dell’informazione, la capacità di organizzazione delle conoscenze e di pianificazione; • sono sempre presenti modalità rigide di risoluzione del compito e difficoltà di generalizzazione e di trasferimento delle competenze apprese; • si osservano, quindi, deficit di assimilazione delle esperienze per difficoltà nelle capacità di analisi, comparazione e integrazione delle informazioni e difficoltà nell’accesso al pensiero astratto con difficoltà a stabilire relazioni complesse tra gli oggetti, a compiere legami associativi nel pensiero operativo; • i contenuti del pensiero rimangono ancorati al concreto, all’esperienza, alle impressioni sensoriali e c’è una difficoltà nella proiezione di sé nel tempo e nella prevedibilità dell’atto; • sono presenti difficoltà metacognitive, nella gestione consapevole dei propri strumenti mentali e delle proprie conoscenze, che porta ad un difetto di utilizzazione delle proprie esperienze e dei meccanismi di autoregolazione; • un bambino con DI tende a imparare in modo rigido, seguendo processi più meccanici e perseverativi piuttosto che riflessivi. Un aspetto fondamentale da tenere in considerazione è la presenza, nei soggetti con DI, di un disturbo del linguaggio espressivo e/o recettivo; il bambino con Disabilità intellettiva presenta quasi sempre un ritardo di emergenza e/o di acquisizione del linguaggio, che può investire in modo più o meno grave sia gli aspetti pragmatici sia le componenti formali della comunicazione verbale. A livello espressivo si osservano gradi di gravità diversi: da situazioni in cui il linguaggio si limita all’emissione di suoni gutturali o di singole parole a forme meno compromesse in cui si ha un linguaggio più evoluto, anche se in genere permane semplificato; possono essere presenti disturbi di tipo fonologico e difficoltà di articolazione, il lessico appare ridotto anche se nelle forme meno gravi e le competenze pragmatiche sono in genere preservate. La comprensione è spesso compromessa in misura minore della componente espressiva, anche se è necessario usare con il bambino con DI un linguaggio semplificato e accompagnato da linguaggio extraverbale. Un altro aspetto importante è la presenza in quasi la totalità dei casi di un ritardo dell’acquisizione delle capacità motorie con successiva comparsa di goffaggine motoria in assenza di un quadro neurologico maggiore evidente, impaccio nelle abilità fini e un disturbo di acquisizione dello schema corporeo. È inoltre spesso presente un disturbo dell’organizzazione motoria (disprassia). Un punto di particolare rilievo è la frequente presenza nella DI di quadri di tipo psicopatologico; tra i disturbi psichiatrici più frequenti ricordiamo i Disturbi dell’umore, i Disturbi d’ansia, Disturbi del comportamento, Disturbi psicotici e Disturbi pervasivi dello sviluppo, Disturbo da deficit di attenzione/iperattività, Disturbo da movimento stereotipato e Disturbi da controllo degli impulsi. Per una diagnosi di questo tipo occorre sempre indagare la presenza di familiarità per disturbi psichici, la comparsa di una modificazione significativa comportamentale o emotiva e si deve tenere presente che quanto più è grave il deficit cognitivo tanto maggiore sarà l’espressione comportamentale del disturbo psichiatrico. 8.5. Diagnosi funzionale e differenziale Una valutazione complessiva delle capacità dell’individuo deve comprendere una valutazione delle capacità intellettive e di adattamento personale e sociale, una diagnosi eziologica delle cause genetiche e non genetiche, la valutazione di condizioni mediche associate, la rilevazione della presenza di disturbi mentali, emotivi e comportamentali associati. La diagnosi differenziale sta nel distinguere la disabilità intellettiva da disturbi neurocognitivi in cui si ha una perdita delle funzioni cognitive, dal disturbo della comunicazione e disturbo specifico di apprendimento e dal disturbo dello spettro autistico. 46 Il momento della diagnosi è uno dei momenti più delicati e necessita sempre di un adeguato periodo di elaborazione da parte dei genitori e di un importante lavoro da parte degli operatori sanitari. Una modalità adeguata di comunicazione della diagnosi si caratterizza per il sostegno immediato da parte del curante con disponibilità ad accogliere la sofferenza espressa dai genitori in un clima di considerazione reciproca e di fiducia, evitando una prognosi troppo negativa e approssimativa. Questo clima favorirà dinamiche relazionali in cui potrà svilupparsi una buona alleanza terapeutica. Nella valutazione si deve sempre prevedere il raffronto di quanto osservato dall’operatore sanitario con quanto riferito dal genitore, come informazione e come modo per discutere e contenere ansia, atteggiamenti regressivi e iperstimolanti. La valutazione iniziale, necessaria per una corretta impostazione del trattamento, deve essere il risultato di più valutazioni che esplorino i vari ambiti dello sviluppo (cognitivo, linguistico, motorio, relazionale, dell’autonomia) e anche il risultato di contributi di più persone (genitori, insegnanti, educatori) e ambienti (scuola, famiglia, attività extrascolastiche). L’accuratezza della diagnosi consentirà, da un lato, di tracciare un piano terapeutico individualizzato e specifico per quel bambino e, dall’altro, di verificare l’efficacia del trattamento e, eventualmente, di modificarlo. L’iter diagnostico-valutativo non può che prendere l’avvio da un colloquio con i genitori, nel quale si devono raccogliere informazioni sulla storia anamnestica per delineare la familiarità, gli eventuali aspetti eziopatogenetici, le caratteristiche dello sviluppo neuropsichico pregresso e gli aspetti clinici attuali che caratterizzano il bambino con DI. Inoltre, dal colloquio con i genitori, è importante indagare il tipo di interazioni formatesi tra i genitori, gli eventuali altri membri della famiglia e il bambino stesso; in particolare, è fondamentale indagare i sentimenti di colpa e le difese messe in atto dai familiari. Al termine della raccolta anamnestica, dovranno essere indagate una serie di aree (sviluppo cognitivo, competenze neuropsicologiche, funzioni di controllo, capacità di apprendimento, capacità di adattamento sociale e personale, competenze relazionali e sociali, sviluppo linguistico, sviluppo psicomotorio, sviluppo affettivo, quadro psicopatologico e problemi comportamentali), per ciascuna delle quali si dovrà valutare il livello di sviluppo rispetto alla popolazione normale e alle linee di sviluppo normotipiche, mettendo in evidenza le aree di forza e di debolezza dei singoli profili individuali. Occorre verificare la presenza o l’assenza di una data abilità e se essa sia stabile o incostante; oltre alle capacità possedute, vanno indagate anche le aree di sviluppo potenziale; bisogna mettere in evidenza le qualità pre-requisite necessarie per la costruzione delle competenze non presenti o da incrementare, le condizioni che ostacolano o favoriscono le normali attività e la vita di relazione, le aree di interesse, le modalità di lavoro più efficaci con quello specifico bambino. Gli strumenti di valutazione possono essere raggruppati in: • tecniche di osservazione del comportamento; • colloqui clinici; • strumenti testologici (prove psicometriche, scale di sviluppo, griglie di osservazione, test neuropsicologici, scale per l’adattamento sociale e personale, scale psichiatriche); • questionari e interviste ai genitori. 8.6. Profilo neuropsicologico e psicopatologico Il profilo cognitivo della disabilità intellettiva presenta aspetti di complessità e specificità difficili da generalizzare, in quanto i fattori che entrano in gioco per ciascun individuo sono tanti. In generale, dal punto di vista neuropsicologico, possiamo identificare alcuni aspetti normalmente presenti, quali: • processi percettivi caratterizzati da difficoltà nelle capacità di analisi, comparazione e integrazione delle informazioni; 47 • difficoltà nella velocità e nell’efficacia dell’elaborazione dell’informazione; • deficit nella memoria di lavoro; • deficit, in generale, delle funzioni esecutive (si possono evidenziare difficoltà di attenzione controllata e divisa, di controllo motorio, di inibizione dell’interferenza e della risposta); • difficoltà nella rievocazione di materiale complesso. Per una valutazione accurata delle funzioni cognitive di un bambino, è utile far ricorso a più test psicologici, i cui risultati vanno considerati all’interno dell’osservazione clinica complessiva. La specificità delle diverse disabilità intellettive sul piano psicopatologico può teoricamente essere riferita a tre fattori complementari: 1. un effetto diretto può essere ascritto alla patologia cromosomica, con i suoi correlati a livello del substrato nervoso, che possono condizionare processi più basali, ma anche più elevati e che possono essere alla base di una specifica vulnerabilità psichiatrica; 2. il particolare assetto cognitivo, linguistico e motorio dell’individuo che condiziona le modalità con cui interpreta il mondo esterno e interno; 3. alcuni fattori relazionali, in quanto le relazioni precoci possono essere condizionate dal peso della diagnosi e l’eziologia cromosomica può attivare nei familiari reazioni intense che possono condizionare la qualità delle prime interazioni del bambino con il mondo. 8.7. Presa in carico riabilitativa Il trattamento non deve solo aiutare il soggetto ad acquisire prestazioni, ma deve favorire il ragionamento autonomo per quanto difettuale sia. Sebbene esistano alcune caratteristiche simili fra individui con DI, è necessario considerare i fattori individuali, ambientali e sociali che hanno un indubbio peso sull’evoluzione potenziale. La complessità e l’eterogeneità dei quadri con DI rendono opportuno un approccio terapeutico il più globale e, al tempo stesso, il più individualizzato possibile; un trattamento riabilitativo deve prevedere una presa in carico del bambino nella sua globalità, cioè di tutti o diversi aspetti che lo caratterizzano in relazione a se stesso, alla sua famiglia e all’ambiente in cui vive e con cui si relaziona quotidianamente. Al tempo stesso, è necessaria una programmazione individualizzata che tenga conto delle sue caratteristiche specifiche e anche delle sue necessità in quel momento specifico della sua vita. Il trattamento deve prevedere un approccio multidisciplinare, in cui le diverse figure professionali devono cooperare e rendere le loro competenze disponibili e mobili per soddisfare le diverse esigenze; le competenze degli operatori, quindi, devono integrarsi e completarsi l’una con l’altra. Affinché un trattamento sia realmente corretto è necessario che l’equipe multidisciplinare delinei un percorso terapeutico specifico per quel bambino e di cui l’equipe sia costantemente consapevole, che sappia cioè da dove parte, dove vuole arrivare e attraverso quali attività e modalità farlo. 8.7.1. Caratteristiche generali del trattamento • presa in carico globale; • programmazione individualizzata; • approccio multidisciplinare; • integrazione di diverse figure professionali; • percorso terapeutico consapevole. La verifica del trattamento avrà due scopi principali: da un lato, prevedere protocolli che permettano un confronto tra le capacità presenti prima dell’inizio del trattamento e dopo il termine del trattamento, così da valutare l’efficacia dello stesso e, dall’altro, prevedere uno spazio che 50 ecc.), rappresentativo (avvicinare una sedia per raggiungere oggetti, rispettare semplici sequenze di preparazione di cibi, ecc.), intuitivo (associazione di oggetti per forma, colore, raggruppamenti per un criterio espresso), fino a operazioni concrete (calcoli, seriazioni, ipotesi sul tempo, ecc.). Un secondo aspetto da non dimenticare è quello del lavoro su aree specifiche, diverse a seconda degli individui. Trattamento dei disturbi psichiatrici Sono possibili diversi approcci e interventi nel trattamento dei disturbi psichiatrici nella DI, a seconda che ci si trovi dinanzi a quadri clinici più o meno lievi. Possono essere obiettivi di intervento: • favorire la comprensione e l’accettazione della disabilità; • migliorare il controllo degli impulsi e la tolleranza alla frustrazione; • esprimere sentimenti ed emozioni in modo socialmente accettabile; • incrementare l’autonomia decisionale; • rinforzare l’autostima e l’immagine del sé; • migliorare le competenze relazionali; • imparare ad affrontare situazioni stressanti; • risolvere i conflitti di dipendenza e di colpa. Possono anche essere indicati trattamenti allargati al nucleo familiare in quelle situazioni nelle quali gli atteggiamenti educativi o gli stili interattivi risultano tali da ostacolare in modo evidente il processo di autonomizzazione personale e sociale del paziente oppure nelle situazioni in cui si ha una riduzione delle capacità di tenuta della rete familiare. 8.8. Indicazioni educative e legislative Il Profilo Dinamico Funzionale (PDF) e il Piano Educativo Individualizzato (PEI) sono i momenti concreti in cui si esercita il diritto all’istruzione e all’educazione dell’alunno con disabilità; per la realizzazione di tali documenti sono coinvolti l’amministrazione scolastica, gli organi pubblici, che hanno le finalità della cura della persona e della gestione dei servizi sociali, e le famiglie. È prevista, inoltre, la loro verifica in itinere, affinché risultino sempre adeguati ai bisogni effettivi dell’alunno. L’obiettivo fondamentale della Legge 104/92 è lo sviluppo degli apprendimenti mediante la comunicazione, la socializzazione e la relazione interpersonale e stabilisce che l’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non possa essere impedito da difficoltà di apprendimento né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap. La Scuola rappresenta senz’altro l’agenzia di servizi garantita e meglio organizzata in molte regioni italiane; le esperienze migliori sono quelle in cui l’insegnante di sostegno svolge davvero sostegno alla classe e non solo al soggetto con disabilità. Molto buone risultano quelle situazioni nelle quali il progetto della scuola è adattabile e adattato alle esigenze dei bambini con difficoltà. Il piano dell’offerta formativa è importante e rappresenta una grossa opportunità per ampliare la programmazione con attività utili a tanti bambini, non solo a quelli “certificati”. CAPITOLO 9: Paralisi cerebrale infantile 9.1. Definizione La Paralisi Cerebrale Infantile rappresenta una delle patologie con il maggior impatto sociale in età pediatrica. Per molti anni, la definizione di PCI più utilizzata è stata quella di Bax: “turba persistente ma non immutabile della postura e del movimento dovuta a un’alterazione organica e non progressiva della funzione cerebrale per cause pre-, peri- o post-natali, prima che se ne completi la crescita o lo sviluppo”. 51 Il difetto motorio è considerato il cuore del problema delle PCI; infatti, colpendo sistematicamente l’apparato muscolo-scheletrico, la PCI incide sulla quantità e sulla qualità di movimenti possibili e influenzando l’esecuzione di prassie (movimenti intenzionali effettuati con uno scopo preciso) e azioni volontarie. La PCI, tuttavia, non è da considerarsi danno esclusivo del sistema muscolo-scheletrico, ma un quadro clinico che influenza globalmente molte aree dello sviluppo neuropsicomotorio; non si limita, infatti, alla disabilità motoria, ma si associa a problematiche neurologiche, cognitive, comunicative, percettive, internistiche, emotivo-affettive, neuropsicologiche e psichiatriche. Secondo la definizione aggiornata, la PCI è oggi interpretata come una condizione dovuta ad alterazioni del SNC per cause pre-, peri- o post-natali, prima che se ne completi la crescita e lo sviluppo, estremamente eterogenea in termini di eziologia, tipo e gravità del quadro clinico. Rosenbaum e collaboratori hanno inoltre aggiunto che: “i disturbi motori della Paralisi Cerebrale Infantile sono spesso accompagnati da disturbi della sensazione, cognizione, comunicazione, percezione e/o comportamento e/o da epilessia”. Per quanto la condizione della PCI sia stabile e quindi la lesione non evolva, sono possibili dei cambiamenti clinici e funzionali: migliorativi o peggiorativi, spontanei o indotti; le richieste dell’ambiente divengono con la crescita via via più complesse e possono causare un aggravamento della disabilità (spesso, infatti, la mancata conquista di una funzione impedisce l’acquisizione successiva delle ulteriori funzioni a essa collegate). 9.2. Classificazione Data la grande eterogeneità dei quadri clinici, che dipendono dall’estensione, dall’entità e soprattutto dal timing della lesione, è necessario selezionare il criterio su cui basarsi per distinguere le diverse forme di PCI; esistono infatti diversi tipi di classificazione che sono state unificate al fine di risultare maggiormente esaustive per fornire indicazioni prognostiche e riabilitative. Si distinguono quattro componenti: 1. anomalie motorie → natura e tipo del disordine motorio e abilità funzionali motorie, tramite l’utilizzo di appositi strumenti standardizzati; 2. disturbi associati → complicanze muscolo-scheletriche, ma anche disturbi sensoriali, attentivi, comportamentali, cognitivi e la loro reciproca interazione; 3. quadri anatomici e neuroradiologici → distribuzione anatomica del disturbo motorio e reperti neuroradiologici; 4. aspetti eziopatogenetici e timing → presenza di un evento causale, come un trauma o una malformazione, ed epoca di insorgenza. In Italia è ancora molto utilizzata una classificazione basata sull’identificazione di sottogruppi in base al riconoscimento di segni clinici e che distingue: • forme spastiche come la tetraplegia (compromissione di tutti e quattro gli arti), diplegia (compromissione prevalente degli arti inferiori) ed emiplegia (compromissione prevalente di un emilato); • forme discinetiche come discinesia coreo-atetosica e discinesia distonica; • forme atassiche. 9.2.1. PCI di tipo spastico La PCI spastica è caratterizzata da pattern anormale della postura e del movimento, ipertono e risposta ai riflessi patologica. La classificazione di Ferrari si basa sulle funzioni adattive e motorie (postura, cammino e manipolazione) e in particolare su: • funzione antigravitaria e organizzazione della postura nelle tetraplegie; • schema di cammino nelle diplegie; 52 • modalità di manipolazione nelle emiplegie. Tale classificazione permette di differenziare in modo specifico sotto-forme cliniche all’interno di ogni gruppo. La classificazione non si limita a valutare gli elementi puramente motori, ma si estende anche agli elementi percettivi e intenzionali; è quindi una classificazione che risulta efficace per la costruzione del progetto terapeutico e per la misurazione dei risultati raggiunti con il trattamento rieducativo. 9.2.2. PCI di tipo discinetico La PCI di tipo discinetico è caratterizzata da movimenti involontari, incontrollati, ricorrenti, spesso stereotipati, che interferiscono nelle azioni volontarie e, in generale, nella vita quotidiana; nell’ambito delle PCI discinetiche si distinguono forme distoniche o coreo-atetosiche. La PCI di tipo distonico è dominata da posizioni anormali e ipertono (tono fluttuante, ma aumento del tono facilmente evocabile). Caratteristici del sottotipo di PCI sono i movimenti involontari, volontari distorti e posture anomale dovute a contrazioni muscolari prolungate. La PCI di tipo coreo-atetosico è, invece, dominata da ipercinesia motoria e ipotonia (tono fluttuante, ma principalmente diminuito); la corea si esprime con movimenti rapidi, involontari, a scatti, spesso frammentati. L’atetosi si esprime, contrariamente alla corea, con movimenti più lenti, che cambiano continuamente, si contorcono. 9.2.3. PCI di tipo atassico La PCI di tipo atassico è caratterizzata da una generale perdita di coordinazione muscolare che rende difficoltosa l’esecuzione dei movimenti volontari; questa forma di PCI è solitamente caratterizzata da atassia del tronco ed equilibrio disturbato, con conseguenti alterazioni del cammino, e l’integrazione tra postura e gesto appare difficoltosa. In tale forma è frequente riscontrare tremore, che può interferire con l’azione volontaria del soggetto, influendo così sulla performance stessa; un ulteriore elemento caratteristico della funzione manuale della PCI di tipo atassico è la dismetria del gesto, che si evidenzia maggiormente nei compiti di motricità fine. 9.3. Eziopatogenesi Il criterio cronologico permette di classificare i principali quadri anatomo-patologici della PCI, i quali sono fortemente correlati all’epoca di insorgenza (ovvero al timing della lesione). Si distinguono quattro grandi periodi: 1. i primi due trimestri di gestazione; 2. la parte iniziale del terzo trimestre (24-36 settimane); 3. l’epoca intorno al termine (36-44 settimane); 4. l’epoca post-natale. La prematurità rappresenta il fattore di rischio più frequentemente associato a PCI: più la nascita è prematura, maggiore è la possibilità che il neonato sviluppi una PCI; il rischio incrementa in caso di prematurità di alto grado e se è associato un basso peso e/o un ritardo di crescita intrauterina. 9.4. Diagnosi Si distinguono due aspetti della diagnosi, strettamente correlati tra loro: la diagnosi di lesione, basata sul timing della lesione, che rappresenta l’insieme di procedure che mirano ad accertare la presenza di anomalie morfologiche cerebrali, e la diagnosi di disturbo, che si basa sull’osservazione clinica e che cerca di individuare definite e stabili anomalie del comportamento motorio, tentandone possibilmente anche un’iniziale caratterizzazione descrittiva e prognostica. 55 competenza del personale sanitario e ha per obiettivo lo sviluppo e il miglioramento delle funzioni adattive; l’educazione è competenza della famiglia, del personale sanitario e dei professionisti del settore e ha per obiettivi la preparazione del bambino ad esercitare il proprio ruolo sociale e la formazione della comunità, a cominciare dalla scuola, ad accoglierlo e integrarlo per aumentarne le risorse e accrescere l’efficacia del trattamento riabilitativo. L’assistenza ha per obiettivo il benessere del bambino e della sua famiglia ed è competenza del personale sanitario e degli operatori del sociale. È importante sottolineare che nella riabilitazione neuropsicomotoria del bambino, il gioco confina con la terapia e ne diventa lo strumento essenziale, perché attraverso questo si può indurre il bambino alla crescita e al cambiamento, favorendo l’intenzionalità, la creatività, la conoscenza e il piacere funzionale: il gioco non diventa terapia, ma lo strumento per fare terapia. 9.9. Indicazioni educative e legislative Il ruolo educativo scolastico nella presa in carico del bambino o adolescente con PCI è di cruciale importanza, sia perché sostiene lo sviluppo di competenze accademiche e strumentali fondamentali sia perché prepara il bambino a esercitare il proprio ruolo nella società e, allo stesso tempo, forma la comunità (gruppo classe) ad accoglierlo e integrarlo. I bambini e ragazzi con diagnosi di PCI rientrano tra gli studenti con disabilità, certificata dalla Legge 104/92, e hanno quindi il diritto ad attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti specializzati e all’attuazione del PEI, stilato in modo congiunto tra genitori, operatori delle unità sanitarie locali e il personale docente specializzato. Allo scopo di garantire il diritto all’educazione e all’istruzione, gli enti scolastici e universitari dovranno dotarsi di attrezzature tecniche, sussidi didattici e ausili informatici, oltre a quelli già in possesso dello studente, così da creare le condizioni migliori per favorire l’apprendimento, la comunicazione, le relazioni e la socializzazione. CAPITOLO 10: Il bambino con epilessia L’epilessia è un disturbo neurologico cronico definito da fattori scatenanti occasionali; l’epilessia in età pediatrica può essere diagnosticata da uno specialista in neuropsichiatria infantile sulla base di un’accurata raccolta delle notizie cliniche (l’anamnesi) che, in particolare, prenda in considerazione le caratteristiche dello sviluppo psicomotorio del bambino, l’insorgenza e il decorso delle crisi epilettiche e l’eventuale storia familiare di epilessia o di altre malattie e condizioni neurologiche. 10.1. Dati epidemiologici ed eziologia 10.1.1. Epidemiologia L’epilessia è una condizione molto più comune di quanto si pensi; può interessare persone di tutte le età, sebbene esordisca più frequentemente in età pediatrica o nell’anziano. Oltre la metà dei casi di epilessia, comunque, riguarda l’età evolutiva, in parte a causa della ridotta soglia critica del cervello in fase di maturazione, cioè della sua predisposizione a generare crisi epilettiche, predisposizione che generalmente si riduce con la completa maturazione cerebrale. Ciò spiega, in parte, perché i bambini con epilessia spesso guariscano con l’età. Non tutte le forme di epilessia, in ogni caso, hanno la stessa gravità e lo stesso impatto sul cervello: le forme più lievi, con un trattamento appropriato, non lasceranno alcuna traccia sullo sviluppo cerebrale mentre, in altri casi, l’epilessia può avere ripercussioni significative sul funzionamento e sul successivo sviluppo cognitivo e comportamentale del bambino. 10.1.2. Principali cause di epilessia Le numerose cause note di epilessia possono essere distinte nelle seguenti categorie fondamentali: 56 • cause strutturali → per esempio, cause acquisite quali infarti cerebrali, traumi e infezioni, o cause congenite come molte malformazioni dello sviluppo della corteccia cerebrale; • fattori genetici → laddove si ritenga che una o più varianti genetiche (mutazioni) note o presunte abbiano un effetto significativo nel causare l’epilessia; è importante sottolineare che “genetico” non significa “ereditario”. • cause infettive → rappresentano l’eziologia più comune di epilessia a livello mondiale; il concetto di eziologia infettiva implica che le crisi siano il sintomo principale di un disturbo derivato direttamente da un’infezione nota. • cause metaboliche → nel caso di malattie neurologiche, le crisi sono la conseguenza di un disturbo noto o presunto del metabolismo cellulare, il quale determina una significativa alterazione della fisiologia e dell’eccitabilità del tessuto cerebrale; in molti casi, i disordini metabolici hanno una causa genetica. • cause autoimmuni → situazioni in cui le crisi sono il risultato di un processo infiammatorio del SNC mediato da una reazione anticorpale verso componenti del proprio organismo; • eziologia sconosciuta → significa che la causa dell’epilessia non è ancora nota; in questa categoria non è possibile fare una diagnosi specifica. È bene tuttavia precisare che, spesso, cause appartenenti alle diverse categorie menzionate in precedenza possono coesistere in uno stesso individuo. 10.2. Caratteristiche cliniche e diagnosi differenziale 10.2.1. Principali tipi di crisi epilettiche Il cervello è composto da miliardi di cellule nervose (neuroni) che comunicano tra loro attraverso segnali chimici e elettrici; l’improvvisa ed eccessiva attività di gruppi di neuroni, che sovverta la normale funzione delle cellule nervose, può risultare in un transitorio e breve cambiamento nel comportamento e nello stato fisiologico della persona, che configura quella che viene definita una crisi epilettica. Le crisi possono spesso verificarsi con manifestazioni meno eclatanti rispetto alla classica convulsione; il tipo di crisi dipende dall’area del cervello da cui l’episodio ha esordio e dalle aree che coinvolge in base alla sua diffusione dal punto di insorgenza. Le epilessie sono di solito suddivise in: • crisi convulsive (la contrazione più o meno ritmica di distretti muscolari) e non convulsive; • crisi focali e generalizzate, a seconda dell’ampiezza e della localizzazione dell’area del cervello coinvolta dall’anormale attività bioelettrica; in generale, quando l’improvvisa ed eccessiva scarica neuronale coinvolge una parte settoriale del cervello si parla di crisi focale, mentre quando è coinvolto l’intero cervello si parla di crisi generalizzata. Manifestazioni focali possono diffondere e generalizzare e, in questi casi, si parla di crisi focali secondariamente generalizzate. 10.2.2. Come riconoscere una crisi A volte è difficile distinguere una crisi da un comportamento semplicemente insolito; ciò che è importante osservare è un pattern di comportamento che si verifichi in modo simile da una volta all’altra e troppo spesso per essere casuale. Vengono indicati di seguito alcuni comportamenti che possono suggerire l’imminenza di una crisi in un bambino o in un ragazzo: • un’improvvisa perdita di consapevolezza dell’ambiente circostante, che può simulare uno stato “sognante” a occhi aperti; • una breve assenza di risposta alle sollecitazioni o una brusca interruzione nella continuità dell’interazione con l’altro; • movimenti ritmici del capo; • rapidi movimenti di apertura e chiusura degli occhi; 57 • altri movimenti ripetuti che appaiono comunque innaturali; • movimenti ritmici del viso, del tronco, delle braccia o delle gambe; • cadute improvvise senza ragione apparente; • improvvisa sensazione di dolore o fastidio allo stomaco, seguita da sonnolenza o confusione; • frequente lamentela di percepire in modo strano i gusti, i suoni, gli odori, l’ambiente circostante o il proprio corpo; • Improvvisi attacchi di paura, panico o rabbia senza ragione apparente e di breve durata. Le persone che osservano il comportamento di un bambino o di un ragazzo in molteplici situazioni possono svolgere un ruolo inestimabile nel rilevare crisi che spesso si manifestano con sintomi lievi e che, quindi, possono sfuggire ad un osservatore meno attento o abituale. Ciò vale soprattutto per quelle crisi che si manifestano con minima sintomatologia e che possono essere interpretate come manifestazioni non epilettiche come, ad esempio: • le crisi caratterizzate prevalentemente da breve interruzione dell’attività in corso (crisi di assenza), le quali possono essere sottovalutate dalle persone vicine al bambino o interpretate come un disturbo da deficit di attenzione o mancanza di concentrazione; • le crisi con caduta (crisi atoniche), le quali possono essere attribuite come goffaggine del bambino in caso di cadute ricorrenti; • le crisi con brevi e isolate scossette muscolari (crisi miocloniche), le quali possono indurre a pensare che il bambino sia fisicamente goffo o disattento, distratto o che abbia dei tic. 10.2.3. Fattori potenzialmente scatenanti crisi epilettiche Se l’epilessia è ben controllata, di solito non si verificano crisi ma, in alcuni casi, queste possono ripresentarsi spontaneamente o venire innescate da alcuni stimoli specifici, diversi da individuo a individuo. Di particolare interesse sono alcuni stimoli luminosi (una luce lampeggiante in discoteca, lo sfarfallio della luce sull’acqua o il monitor di TV e computer, ecc.); si tratta in questi casi della cosiddetta epilessia fotosensibile. Un modo per affrontare questo problema nelle persone con fotosensibilità è ridurre l’intensità della luce, indossare occhiali speciali con lenti blu o coprire un solo occhio nei giorni di sole o quando si lavora al computer o quando si guarda la TV; è, inoltre, importante guardare la TV da lontano, in una stanza luminosa e non consentire al bambino di avvicinarsi allo schermo per cambiare canale. Altri possibili fattori scatenanti le crisi sono stress, affaticamento, spavento improvviso, privazione di sonno, improvviso risveglio, infezioni, febbre alta, bagno caldo, forte appetito, mestruazioni, uso di sostanze psicoattive ed assunzione irregolare di farmaci. 10.2.4. Terapie farmacologiche e prognosi La maggior parte dei casi di epilessia può essere efficacemente trattata farmacologicamente; il trattamento ha l’obiettivo di eliminare o ridurre frequenza ed entità delle crisi epilettiche ed è, per sua natura, di lungo termine (generalmente della durata di anni), sebbene alcuni pazienti debbano assumere farmaci per tutta la vita. La terapia deve essere prescritta da uno specialista competente in epilettologia e con esperienza nella indicazione terapeutica dei diversi farmaci antiepilettici e nella gestione dei possibili effetti collaterali (ad esempio, sonnolenza, visione doppia, debolezza, affaticamento, irritabilità, nausea o dolore addominale, ridotta attenzione o memoria, linguaggio confuso, rallentamento dei movimenti, compromissione dell’equilibrio e della coordinazione, irrequietezza, comportamento aggressivo, disturbi dell’appetito, perdita o aumento di peso, perdita di capelli. 60 Benché l’epilessia si possa presentare a qualsiasi età, è nettamente più frequente in età pediatrica; se l’attività epilettica coinvolge aree circoscritte del cervello (epilessie focali), le conseguenze possono essere limitate e avere effetti anche transitori ma, se coinvolge vaste aree del cervello dell’emisfero destro o sinistro (epilessie generalizzate), esse possono perturbare diversi sistemi cognitivi in modo variabile, fino a comportare disabilità intellettive di diversa gravità e alterare la capacità di controllo del comportamento e delle emozioni. Almeno per quanto riguarda alcune forme di epilessia, gli esperti sostengono che i problemi cognitivi, comportamentali e di apprendimento possono essere anche antecedenti l’esordio dell’epilessia ed essere, pertanto, parte della malattia e non conseguenza di essa. Inoltre, anche in assenza di crisi frequenti, l’esito cognitivo e comportamentale può essere sfavorevole e, infine, ci sono casi in cui crisi focali, localizzate in aree cerebrali che hanno subito alterazioni, sono estremamente frequenti e non vengono controllate dalla terapia farmacologica; in tali casi, può essere necessario rimuovere chirurgicamente l’area cerebrale alterata per evitare gli effetti devastanti delle crisi sulle funzioni colpite. 10.3.1. Profili neuropsicologici Non esiste un unico profilo neuropsicologico ma pattern di disturbi cognitivi e comportamentali di variabile entità che si possono associare alle diverse forme di epilessia; la presenza o meno di disturbi cognitivi e le loro caratteristiche possono dipendere dalla fase evolutiva in cui si trova il cervello del bambino al momento dell’insorgenza dell’epilessia. Alcune funzioni cognitive, come il linguaggio o la memoria, se in fase di maturazione, potrebbero essere maggiormente vulnerabili alle perturbazioni determinate dalle crisi e/o dalle alterazioni cerebrali sottostanti. Grazie agli studi di revisione della letteratura, si è giunti alla conclusione che l’epilessia va considerata come una malattia che coinvolge reti di circuiti cerebrali con effetti a distanza anche su funzioni cognitive non direttamente correlate alle regioni corticali cerebrali primariamente interessare dalle crisi. Pur consapevoli dell’estrema complessità di questa malattia, si possono così riassumere brevemente i dati della letteratura: l’epilessia nel bambino non comporta significative disabilità neuropsichiche nella maggior parte dei casi, ma può associarsi a disabilità intellettiva o a deficit/difficoltà più selettive in presenza di intelligenza normale; anche in presenza di deficit cognitivi più diffusi, alcune funzioni possono essere maggiormente compromesse rispetto ad altre. 10.3.2. Profili neuropsichiatrici Si sottolinea l’elevata frequenza di disturbi neuropsichiatrici nei bambini con epilessia; il disturbo più frequentemente associato è il deficit dell’attenzione e iperattività, il quale riguarda in egual misura sia i maschi sia le femmine (in assenza di epilessia, invece, l’ADHD riguarda prevalentemente i maschi). I dati sono ancora controversi rispetto a un maggior rischio di ADHD in presenza di crisi precoci o di specifici tipi di crisi, mentre se le crisi non sono ben controllate dalla terapia farmacologica il rischio di una diagnosi di ADHD aumenta. I disturbi dello spettro dell’autismo sono anche molto frequenti nell’epilessia, così come diagnosi di ansia o depressione; tali disturbi dell’umore tendono ad aumentare di frequenza allorché l’epilessia non sia completamente controllata dai farmaci. La risposta psicologica al ripetersi delle crisi contribuisce all’insorgenza di sintomi sia ansiosi sia depressivi, soprattutto in fase adolescenziale, con le ripercussioni socio- relazionali che essi comportano (ansia di separazione, ansia sociale e isolamento dal gruppo dei pari). In sintesi, possiamo dire che, in questa malattia, difficolta e/o disturbi cognitivi e neuropsichiatrici sono frequentemente presenti e spesso possono precedere l’insorgenza delle crisi stesse. 10.3.3. Epilessie senza danni strutturali cerebrali 61 La forma più frequente di epilessia del bambino che si presenta in età scolare, denominata epilessia a punte centro-temporali) si caratterizza per crisi focali localizzate in aree del cervello che controllano il movimento del volto; si tratta di un’epilessia frequente che esordisce tra i 6 ed i 10 anni di età e le cui cause non sono ancora conosciute, anche se ritenute molto probabilmente di origine genetica. I bambini presentano generalmente crisi poco frequenti, soprattutto nel sonno, associate a sensazioni di formicolio o intorpidimento o a manifestazioni motorie a carico del volto/lingua; nella maggior parte dei casi, vi è una guarigione completa dall’epilessia in adolescenza, senza necessità di terapia farmacologica. Benché in questa forma di epilessia l’intelligenza sia generalmente completamente preservata, studi di revisione della letteratura indicano che lo sviluppo cognitivo e gli apprendimenti scolastici non sono sempre in linea con quelli dei coetanei. Le difficoltà legate alla funzione linguistica, presenti in bambini con questo tipo di epilessia, appaiono in relazione alla localizzazione di questa forma di epilessia in aree e circuiti cerebrali coinvolti nel processamento verbale; vengono infatti riscontrate prestazioni inferiori alla media in prove di linguaggio recettivo (es. comprensione lessicale e grammaticale), di linguaggio espressivo (es. lessico ridotto) e un’inefficace elaborazione fonologica di stimoli verbali. Un’altra forma di epilessia che si riscontra spesso in età scolare, l’epilessia assenza del bambino, è quella in cui il bambino presenta crisi caratterizzate da improvvisa sospensione della coscienza (crisi di assenza), generalmente più volte al giorno, della durata di pochi secondi; il bambino tipicamente riprende l’attività senza perdita del controllo motorio. Questo tipo di epilessia insorge generalmente tra i 4 e gli 8 anni; le tappe dello sviluppo linguistico e motorio sono nella norma, come anche l’intelligenza, sebbene con profilo talora disarmonico per più evolute abilità verbali rispetto a quelle visuo-spaziali. Difficoltà attentive (concentrazione) sono frequenti e si registrano già al momento della diagnosi; sebbene questi bambini abbiano intelligenza e abilità scolastiche (lettura decifrativa, comprensione del testo e ortografia) nella norma, il deficit attentivo può ostacolare le prestazioni scolastiche e il funzionamento mnestico, condizionando l’efficacia delle funzioni esecutive e rendendo gli apprendimenti scolastici più faticosi per il bambino. Anche in questa forma di epilessia frequenti sono le diagnosi di ADHD e di disturbi d’ansia. 10.3.4. Epilessie con danni strutturali cerebrali L’epilessia del lobo temporale, dove il lobo temporale è un’area del cervello che contiene strutture e circuiti critici per i processi di immagazzinamento e recupero dell’informazione della memoria, ha spesso esordio in età prescolare e si presenta con un funzionamento intellettivo inferiore alla media rispetto ai bambini sani; più precoce è l’esordio di tale forma di epilessia, maggiore è il tempo in cui agiscono le crisi epilettiche e maggiore è il rischio di un peggioramento delle funzioni cognitive. Si associano anche disturbi più specifici della memoria; il tipo di memoria maggiormente compromessa è quella che consente di ricordare episodi di apprendimento, soprattutto a distanza di tempo. Si associano a tale forma di epilessia anche difficoltà a livello linguistico orale e scritto; benché l’epilessia sia primariamente localizzata all’interno del lobo temporale (destro o sinistro), gli effetti cognitivi non sono limitati alla funzione mnestica ma anche a funzioni sottese da altri lobi. Se le crisi non vengono controllate dalla terapia farmacologica, il rischio di disturbi di memoria aumenta significativamente; se a seguito degli interventi farmacologici le crisi epilettiche non cessano, vi può essere talora indicazione alla chirurgia dell’epilessia, che implica la rimozione delle strutture da cui originano le crisi; questo comporta un miglioramento, oltre che dell’epilessia, anche del funzionamento intellettivo e, di conseguenza, della qualità della vita. Per quanto riguarda le comorbidità neuropsichiatriche, nelle epilessie temporali sono più frequenti, rispetto alla popolazione generale, i disturbi dello spettro dell’autismo, l’ADHD, i disturbi da comportamento dirompente e i disturbi dell’umore. 62 10.3.5. Encefalopatie epilettiche Le encefalopatie epilettiche sono caratterizzate da quadri di compromissione cognitiva e comportamentale e che sono, almeno in parte, determinati dall’attività epilettica stessa; in queste condizioni, l’attività epilettica e le crisi interferiscono con i processi di sviluppo, determinando rallentamento nell’acquisizione di tappe dello sviluppo neuropsichico e molto spesso anche regressione, ovvero deterioramento delle funzioni stesse. In circa la metà dei casi, queste forme insorgono prima dei 3 anni di età e la terapia a riguardo mira a ridurre l’attività epilettica, anche al fine di migliorare i processi di sviluppo e invertire i processi di deterioramento. Una forma di encefalopatia epilettica, detta con punte-onda continue durante il sonno lento, viene presa come esempio proprio in virtù degli effetti drammatici che può determinare sul funzionamento cognitivo e sul comportamento e può, quindi, essere considerata una forma prototipica di encefalopatia epilettica. L’età di insorgenza è generalmente intorno ai 3-5 anni, le crisi possono essere rare, ma elemento costante appare l’intensa attività parossistica sull’elettroencefalogramma registrato durante il sonno; tale attività parossistica configura una condizione di stato di male epilettico elettrico durante il sonno che, per mesi o talora anni, spiazza le attività fisiologiche del cervello nel sonno, necessarie per il consolidamento di funzioni neuropsicologiche, quali la memoria o l’apprendimento, con conseguente declino cognitivo/comportamentale. Si possono anche sviluppare disturbi attentivi (ADHD), del linguaggio espressivo e recettivo e disturbi dello spettro dell’autismo. L’epilessia ha di solito un decorso favorevole, con remissione in adolescenza, ma con esiti permanenti sul piano cognitivo e comportamentale; la prognosi dal punto di vista cognitivo dipende principalmente dalla durata della malattia e dall’eziologia. Infine, è importante ricordare l’effetto potenzialmente negativo della terapia antiepilettica sul funzionamento cognitivo e sul comportamento del bambino; gli effetti negativi si traducono spesso in eccessiva sonnolenza, difficoltà nel mantenere l’attenzione nel tempo e, a volte, maggiore irritabilità. 10.4. Presa in carico riabilitativa Non vi è una riabilitazione/abilitazione specifica per il bambino con epilessia; sulla base dei disturbi, della loro entità e di quanto influiscono sul funzionamento cognitivo, adattivo e sociale del bambino, verrà data priorità a un tipo o a un altro tipo di trattamento e a specifici obiettivi dell’intervento. Nel caso delle epilessie “non complicate” potranno, per esempio, essere oggetto di intervento le difficoltà attentive generali, l’ottimizzazione dei processi di lettura e anche il linguaggio orale; nei casi in cui siano presenti disturbi più specifici che inficiano l’apprendimento, la riabilitazione neuropsicologica potrebbe essere indirizzata al potenziamento e alla compensazione di tali difficoltà anche attraverso programmi riabilitativi a distanza. Nel caso in cui il funzionamento cognitivo sia molto compromesso e si associ ad assenza del linguaggio e ad altri disturbi neuropsichiatrici e non, l’attenzione alla qualità della vita appare prioritaria; in molti casi, interventi psicosociali o psicoterapici possono essere di aiuto sui problemi di umore e di comportamento derivanti dalla malattia. Oltre all’impatto diretto della malattia sul bambino, anche la famiglia è a rischio di incorrere in difficoltà psicologiche e sociali e, generalmente, in una più bassa qualità della vita; dinanzi alla diagnosi di epilessia, i genitori si trovano davanti a diversi percorsi in funzione della forma di epilessia, molto spesso irti di ostacoli. Tali ostacoli possono essere esacerbati da crisi frequenti, per esempio con cadute, che pregiudicano la sicurezza della vita, da crisi che richiedono interventi farmacologici e, in alcuni casi, da interventi chirurgici per curare le crisi. I disturbi cognitivi e comportamentali innalzano ulteriormente questi ostacoli per la necessità di una presa in carico degli stessi da parte di psicologici, neuropsicologi e terapisti, oltre che da parte del sistema scolastico. Vi 65 Le distrofie muscolari sono un gruppo di gravi patologie che provocano una lenta ma progressiva perdita di tessuto muscolare scheletrico, il quale viene sostituito gradualmente da tessuto adiposo e connettivo/fibroso e che si associa a una conseguente condizione generale di debolezza. Queste forme si caratterizzano per una non acquisizione o perdita di competenze motorie e per un deterioramento della funzione respiratoria e cardiaca; esistono molte forme di distrofia muscolare che possono essere trasmesse con diverse modalità. Anche l’età di insorgenza, la gravità e la rapidità con la quale evolvono possono essere estremamente variabili, nonché la complessità di interessamento multisistemico. La distrofia miotonica di Steinert (DM1) è una patologia multisistemica con variabile età di esordio e interessamento motorio, prognosi funzionale motoria favorevole e prognosi quoad vitam sfavorevole per frequenti complicanze cardiorespiratorie; di generazione in generazione, la patologia si evidenzia più precocemente e con un quadro clinico più severo. Esistono forme a esordio infantile, la forma congenita e le forme più gravi; i bambini affetti da DM1 a esordio infantile e da DM1 congenita hanno un andamento clinico dall’esordio che si differenzia rispetto a quelli dell’adulto. La forma congenita si caratterizza per una grave disabilità intellettiva, difficoltà respiratorie e nutrizionali alla nascita; superata la fase iniziale più critica, si apprezza un iniziale miglioramento clinico fino alla stabilizzazione del quadro e alla successiva comparsa, con l’adolescenza, dei sintomi tipici della forma adulta. La distrofia miotonica infantile sviluppa i sintomi lievemente più avanti nel corso dell’infanzia, arrivando a interessare in modo particolare la sfera cognitiva-comportamentale con tratti autistici rilevanti e interessamento di diversi organi. La distrofia muscolare di Duchenne (DMD) è la più frequente e la meglio conosciuta tra le distrofie muscolari dell’infanzia; ha un decorso relativamente rapido e attivo. Colpisce esclusivamente i maschi e i primi sintomi si manifestano tra i 2 e i 6 anni di età; la malattia colpisce per primi i muscoli prossimali degli arti inferiori e il bambino presenta un’andatura anserina (ossia a “papera”, con ampia base d’appoggio e dondolamento del bacino sul piano frontale), tende a camminare sulle punte, ha difficoltà a rialzarsi da terra, a saltare, a salire le scale, si stanca con facilità quando cammina e non riesce ad andare in bicicletta. Verso gli 11 anni, il ragazzo è generalmente costretto a muoversi con una sedia a rotelle; progressivamente, la degenerazione dei muscoli colpisce anche quelli respiratori fino a rendere necessaria l’assistenza respiratoria. Molto spesso anche il miocardio è interessato dalla malattia, soprattutto negli ultimi anni di vita. La distrofia muscolare di Becker (BMD) è la forma meno grave di distrofinopatia; i sintomi, seppur più lievi, sono simili a quelli della DMD. Le distrofie muscolari congenite (DMC) sono un gruppo molto eterogeneo, che differiscono tra loro per gravità, evoluzione clinica e meccanismi patogenetici; gli elementi che le accomunano e le caratterizzano nosograficamente sono l’esordio della debolezza muscolare alla nascita o nei primi mesi di vita, la presenza di retrazioni muscolo-tendinee precoci e un quadro distrofico alla biopsia muscolare. Le DMC possono presentare alterazioni dello sviluppo cerebrale e del cervelletto, disabilità intellettiva e epilessia; dal punto di vista clinico, possono inoltre associarsi problematiche cardiologiche, respiratorie, ortopediche, nutrizionali, della vista o odontoiatriche. Le forme acquisite (non ereditarie) comprendono un ampio spettro di disordini a esordio prevalentemente in età adulta. 11.3. Diagnosi funzionale e differenziale Data la complessità di tali forme, per effettuare un corretto inquadramento diagnostico e funzionale è necessaria una valutazione globale, ovvero riguardante tutte le aree dello sviluppo interessate dalla patologia; oltre all’esame clinico e all’effettuazione di alcuni esami diagnostici, il paziente viene sottoposto ad un’attenta valutazione funzionale-qualitativa e quantitativa per registrare nel tempo 66 i cambiamenti nelle attività svolte, nelle competenze acquisite e/o perse e, in generale, l’evoluzione del deficit muscolare. La valutazione delle diverse aree funzionali è di competenza delle figure sanitarie della riabilitazione, le quali collaborano insieme all’interno di un’equipe multidisciplinare per gli interventi di terapia e riabilitazione. Dato il complesso coinvolgimento multisistemico che si può riscontrare in alcune forme di malattia neuromuscolare, è d’obbligo, nel seguire l’iter diagnostico, effettuare una diagnosi differenziale con altre malattie complesse e multisistemiche del neurosviluppo. Anche il bambino con sofferenza alla nascita può presentare, in fase precoce, una sintomatologia clinica sovrapponibile a quella delle MNM e, in questo caso, il clinico deve essere accorto nel riconoscere quei segni e sintomi che non correlano specificatamente con la sola sofferenza alla nascita e richiedere degli accertamenti più appropriati per diagnosticare una malattia neuromuscolare; una diagnosi precoce permette infatti di favorire una precoce ed efficace presa in carico. 11.4. Profilo neuropsicologico e psicopatologico Diversi studi hanno suggerito la presenza di un coinvolgimento del SNC e di deficit cognitivi e/o problemi psichiatrici nei pazienti con disturbi neuromuscolari. Più recentemente, anche difficoltà di apprendimento scolastico o disturbi neuropsicologici minori sono entrati a far parte dello spettro clinico di tali disturbi, andando a caratterizzare meglio il funzionamento di questi pazienti. In particolare, sembrano esistere profili diversi nelle differenti patologie, come conseguenza del diverso substrato genetico e del meccanismo patogenetico causa della patologia. L’identificazione precoce di difficoltà cognitive e/o la presenza di debolezze a livello neuropsicologico o di difficoltà emotivo-affettive nei bambini con MNM è importante per impostare interventi psicologici mirati e, di conseguenza, migliorare la loro qualità della vita e la possibilità di inserimento sociale. 11.4.1. I bambini con distrofia muscolare di Duchenne o distrofia muscolare di Becker Numerose ricerche hanno dimostrato come nei bambini affetti da DMD siano presenti difficoltà cognitive a cui si associano difficoltà relative al funzionamento neuropsicologico, allo sviluppo del linguaggio e ai processi di apprendimento; anche nei bambini con BMD sembrano essere presenti delle difficoltà analoghe a quelle dei pazienti con DMD, sebbene di gravità minore. Le difficoltà cognitive sono già presenti in epoca prescolare e non risultano essere correlate al deficit muscolare, che compare di solito più tardi, talvolta anche in epoca scolare. Una significativa compromissione delle capacità narrative nei bambini DMD è emersa dallo studio di Marini et al.: le produzioni dei soggetti con DMD, infatti, sono risultate, rispetto al gruppo di controllo, più brevi, caratterizzate da un numero ridotto di parole e da una maggiore incidenza di parafasie semantiche e fonologiche (per “parafasia” si intende un disturbo del linguaggio che consiste nella sostituzione di termini corretti con altri sbagliati o nel cambiamento dell’ordine di sillabe o parole; nel caso delle parafasie semantiche si ha la sostituzione di un termine con un altro che a livello semantico appartiene alla stessa categoria mentre, in quelle fonologiche, il paziente sostituisce un termine con uno fonologicamente simile). Un altro studio evidenzia come il linguaggio espressivo dei bambini con DMD in età scolare sia nella media, mentre la comprensione sintattica e grammaticale risulti significativamente deficitaria; tuttavia, non sembra ci sia una relazione tra ritardo motorio e linguistico nella DMD (sono riportati deficit linguistici sia nei soggetti che hanno avuto un ritardo nella deambulazione sia in coloro che non lo hanno avuto). Nei bambini con DMD è confermata la presenza di significative difficoltà di apprendimento della lingua scritta, caratterizzate da un profilo meno severo, ma qualitativamente simile, a bambini italiani con Dislessia; i bambini con DMD e i bambini dislessici presentano entrambi difficoltà nella 67 lettura e nella scrittura e una difficoltà nei processi di denominazione rapida di sequenze di figure. Nei soggetti con DMD è stata infine riscontrata una compromissione delle funzioni esecutive, in particolare di capacità cognitive complesse, costituite da tre funzioni nucleari (memoria di lavoro, inibizione e flessibilità cognitiva), su cui si fondano le capacità di ragionamento, di problem solving e di pianificazione. I bambini con DMD hanno difficoltà nella ripetizione diretta o inversa di sequenze, nella comprensione di frasi complesse e nella rievocazione di storie, che suggeriscono una difficoltà nei processi di rielaborazione attiva, oltre che di mantenimento, del materiale presentato sottoforma uditivo-verbale; tali difficoltà si contrappongono ad un’intatta memoria a lungo termine dichiarativa e a una più funzionale memoria di tipo visuo-spaziale. Diversi autori hanno evidenziato come i bambini con DMD presentino quadri di comorbidità con ADHD in epoca scolare; sono inoltre state riportate difficoltà nell’area delle competenze interpersonali, con una significativa vulnerabilità nelle interazioni con i pari e una ridotta capacità di modulare il proprio comportamento rispetto al contesto sociale e relazionale, indipendentemente dal grado di compromissione cognitiva e dalle limitazioni motorie. 11.4.2. Il bambino con distrofia miotonica I pazienti affetti da DM1 possono presentare una variabilità di caratteristiche fisiche, cognitive, comportamentali e di personalità che possono avere un importante impatto sullo sviluppo e sulla qualità di vita sia durante l’infanzia che nella fase di transizione all’età adulta. Nonostante la DM1 sia relativamente frequente, gli studi che analizzano il profilo cognitivo e psicopatologico sono controversi; ciononostante, tutti confermano l’elevata presenza di disturbi emotivo- comportamentali e la presenza di disabilità intellettiva di grado variabile nelle forme congenite e infantili. Altri studi documentano la possibilità che i bambini con DM1 possano mostrare delle difficoltà di apprendimento, che correlano a prestazioni deficitarie nelle funzioni esecutive, nelle abilità visuo-costruttive e visuo-percettive e nella memoria visuo-spaziale, oltre che nella memoria verbale a breve e a lungo termine. A causa della debolezza facciale, i bambini con DM1 possono presentare difficoltà nell’eloquio, che possono essere lievi o molto gravi da alterare l’intelligibilità del linguaggio; questo può arrivare a compromettere l’abilità di comunicare nella vita di tutti i giorni, con ricadute negative sulle relazioni sociali e sul percorso educativo e scolastico. Maggiori evidenze riguardano la descrizione delle caratteristiche emotivo-comportamentali di tali soggetti: si riporta che circa il 60% dei bambini con DM1 presenta difficoltà emotivo- comportamentali come, ad esempio, ADHD sottotipo disattento e disturbo oppositivo provocatorio. L’eccessiva sonnolenza diurna e la facile faticabilità possono inoltre avere un importante impatto sulla qualità di vita dei soggetti con DM1. Un numero considerevole di questi bambini presenta alessitimia, cioè difficoltà a riconoscere il proprio stato emotivo e i sentimenti degli altri; alcuni autori affermano che l’elevata presenza di disturbi di ansia e di depressione potrebbe in parte essere spiegata dalle difficoltà scolastiche e dalle interazioni sociali. I pazienti con DM1 presentano caratteristiche di personalità non del tutto omogenee, ad eccezione dell’apatia (marker distintivo di questi pazienti anche in età adulta); il più frequente disturbo di personalità diagnosticato in questi soggetti è il disturbo evitante di personalità. Si osservano anche inibizione e ritiro sociale, che si associano a difficoltà a comprendere e interpretare le emozioni degli altri. 11.4.3. Il bambino con distrofia muscolare congenita Le distrofie muscolari congenite (DMC) sono un gruppo molto eterogeneo; il grado di coinvolgimento muscolare e/o del SNC è variabile. Alcune DMC si caratterizzano per la presenza di anomalie strutturali del cervello, del cervelletto e dell’occhio e possono associarsi a disabilità 70 comportare calma. All’iperattività si accompagna una sensazione interna e soggettiva di tensione, pressione e instabilità. L’impulsività, che spesso si associa all’iperattività, può essere di natura cognitiva (rispondere la prima cosa che passa per la testa) o motoria (comportamenti non controllati, a volte a rischio per l’individuo) e può essere definita come la difficoltà di procrastinare nel tempo la risposta a uno stimolo, derivata dal bisogno di un’immediata gratificazione, per difficoltà nell’attesa della ricompensa. Si manifesta con impazienza, incapacità a tenere a freno le proprie reazioni, ad attendere il proprio turno nella conversazione, intromettendosi continuamente e rispondendo prima che le domande siano state completate. In casi più gravi, può portare al coinvolgimento in attività potenzialmente pericolose, mancando la capacità di prevedere le possibili conseguenze delle proprie azioni, con comportamenti a rischio e ricerca di sensazioni forti. Un’altra caratteristica dell’ADHD è la sensibilità alla noia, che si traduce nel bisogno di stimoli continui, sia fisici che mentali, di frequenti passaggi da un’attività all’altra e nella necessità di dedicarsi a internet o a giochi al pc/cellulare. Queste attività, infatti, sembrerebbero fornire al ragazzo una gratificazione immediata, senza bisogno di dover affrontare sforzo mentale continuativo. L’incapacità di mantenere livelli attentivi adeguati e la marcata impulsività determinano una riduzione del profitto scolastico; la scarsa sintonizzazione coi pari, la fisicità che prevale sul dialogo e le difficoltà nel rispettare i turni conversazionali e di gioco determinano spesso una significativa interferenza nella qualità delle relazioni interpersonali. Questa “dismetria relazionale”, le difficoltà scolastiche e i continui rimproveri da parte delle figure adulte di riferimento fanno sì che i bambini con ADHD sviluppino spesso una riduzione dell’autostima, con ulteriore accentuazione delle loro difficoltà, sintomi di demoralizzazione o bisogno di rivestire il ruolo di “buffone” o di ribelle. Negli ultimi anni ha acquisito progressivo interesse una forma, un fenotipo clinico di ADHD ancora non incluso nei sistemi categoriali tradizionali, che potrebbe essere interpretato come “inattentivo puro” (SCT), in assenza di iperattività o impulsività, anzi spesso associato a ipoattività-rallentamento e prevalente nel sesso femminile. I soggetti con SCT, infatti, non appaiono iperattivi, estroversi, intrusivi, amanti del rischio ma, al contrario, vengono descritti come timidi, introspettivi, sognatori, con la “testa fra le nuvole”, poco motivati e indolenti, anergici e così lenti e affaticabili da essere percepiti come distaccati o disinteressati nei confronti dei pari che, a loro volta, tendono a ignorarli. In questi casi si riscontra una comorbidità di tipo internalizzante (disturbi d’ansia e depressione) con disturbi dell’apprendimento, marcata “lentezza esecutiva”, mancanza di strategie di organizzazione- pianificazione della vita quotidiana con tendenza a perdere le cose o all’accumulo compulsivo. L’esordio dei sintomi è spesso più tardivo, con una marcata continuità nell’età adulta e un’interferenza maggiore sull’adattamento scolastico e, successivamente, lavorativo. L’evoluzione dell’ADHD nell’età adulta porta a un cambiamento del quadro sintomatologico, con attenuazione della triade sintomatologica di base, mentre sembrano emergere sintomi di “disregolazione emotiva”. La disregolazione emotiva (ED) è caratterizzata dalla mancata abilità nel modificare uno stato emotivo in modo adattivo e finalizzato al contesto, per cui il soggetto appare facilmente eccitato ed eccitabile, iper-reattivo, facile alle crisi di rabbia e con marcata labilità emotiva. L’ED è caratterizzata da tre dimensioni psicopatologiche prevalenti: 1. il temper control (continua irritabilità, ridotta tolleranza alla frustrazione e crisi di rabbia); 2. l’affective lability (frequenti e brevi cambiamenti di umore di opposta polarità, associati a insoddisfazione e noia); 3. l’emotional over-reactivity (frequenti e sproporzionate esplosioni emotive in relazione agli stimoli ambientali quotidiani. 71 12.3. Decorso naturale e complicanze Durante i primissimi mesi e anni di vita del bambino può risultare difficile individuare la soglia tra iperattività fisiologica e ADHD; l’età scolare, al contrario, segna generalmente la soglia tra il comportamento iperattivo adattivo e quello patologico. Nel passaggio dall’età scolare all’adolescenza/età adulta i sintomi cognitivi e l’inattenzione persistono, a differenza dell’iperattività che invece tende a ridursi o, addirittura, a scomparire, rendendo talvolta difficile la diagnosi. Più del 50-60% dei soggetti con ADHD mantengono le loro caratteristiche psicopatologiche, attenuate e modificate, ma pur sempre interferenti sul piano funzionale, anche dopo il compimento dei 20 anni. Nella fascia di età adolescenziale/giovanile si rendono più evidenti sintomi quali la difficoltà di auto-organizzazione, la discronia (difficoltà a stimare il tempo necessario per svolgere una determinata azione) e la cosiddetta drowsiness (incapacità di restare adeguatamente vigili in condizioni di eccessiva calma); la tipica intolleranza alla noia spinge i soggetti con ADHD a ricercare stimoli in attività a immediata gratificazione motoria, sociale o cognitiva. Infine, un ultimo aspetto è la difficoltà di automonitoraggio e di autoregolazione del comportamento, che nelle interazioni sociali si traduce in una “dismetria sociale” (difficoltà nel valutare le attese e le percezioni del contesto, per poter modulare di conseguenza il proprio comportamento). Le difficoltà di controllo comportamentale, se perduranti, possono divenire una stabile modalità di interazione con il contesto, determinando una crescente difficoltà di adattamento alle norme sociali o, più frequentemente, sfociando, soprattutto in adolescenza, nella dipendenza da internet, cellulari e social network; infine, durante l’adolescenza, in casi di elevata impulsività o comorbidità con disturbi del comportamento dirompente, potrebbero subentrare gravi complicanze come l’abuso di sostanze o manifestazioni di discontrollo degli impulsi ai limiti di condotte dissociali, quali piromania, piccoli furti, bugie patologiche, tendenza a effettuare incidenti stradali, problemi con la legge ecc. 12.4. Diagnosi differenziale La triade sintomatologica “iperattività, inattenzione e impulsività” può essere riscontrata in modo più o meno analogo in molti quadri clinici a ponte tra vari disturbi, determinando problemi di diagnosi differenziale. 12.4.1. Fenotipi clinici e traiettorie di comorbidità A complicare il processo diagnostico e la complessità sindromica, si aggiunge l’evidenza che la maggior parte dei disturbi esternalizzanti o internalizzanti spesso si presentano in comorbidità all’ADHD, determinando manifestazioni complesse di spettro sindromico stabili o fenotipi clinici. All’interno della concettualizzazione di fenotipo clinico includiamo, oltre al disturbo di base condizionato nella sua espressione dalle diverse comorbidità, anche le diverse presentazioni di ADHD in base ai sintomi, all’età, al genere e alla diversa eziopatogenesi. Tendenzialmente raro da riscontrare come quadro clinico puro, l’ADHD sembrerebbe facilitare l’insorgenza precoce di più disturbi in comorbidità, quali i Disturbi del comportamento dirompente, i Disturbi d’ansia, il Disturbo ossessivo-compulsivo e i Disturbi dell’umore dello spettro sia unipolare che bipolare; vi sono anche Disturbi del neurosviluppo che spesso si associano all’ADHD, come i Disturbi dello spettro autistico, le Disabilità cognitive, i Disturbi della coordinazione motoria, i Disturbi da tic/Tourette, i Disturbi del linguaggio e i Disturbi specifici di apprendimento. Elevata è anche la concomitanza con quadri epilettici, infezioni, traumi, tumori cerebrali ecc. 72 12.5. Eziopatogenesi 12.5.1. Genetica L’ADHD è un disturbo a elevata ereditarietà; studi di concordanza su gemelli, famiglie, bambini adottivi e fratelli di soggetti con ADHD hanno consentito di stimare un tasso di ereditabilità del disturbo che varia tra il 60 e l’80%. Tuttavia, nonostante l’evidenza sostanziale di un’origine genetica del disturbo, non sono ancora stati individuati geni specifici o set di geni legati in modo chiaramente causale all’ADHD; si ritiene in generale che l’ADHD, un disturbo eterogeneo, abbia un background genetico complesso e poligenico. Inoltre, anche molti fattori ambientali, tra cui basso peso alla nascita, prematurità, esposizione a tabacco o alcol nella madre in gravidanza, e potenziali interazioni geni-ambiente sono stati correlati a un aumentato rischio di ADHD. 12.5.2. Correlati cerebrali dell’ADHD La presenza di anomalie cerebrali strutturali in bambini con ADHD è suggerita da un’ampia mole di evidenze scientifiche; ad esempio, si sono rilevate delle alterazioni morfologiche in alcune aree del cervello e dei lobi temporo-parietali, nei gangli della base e nel corpo calloso, nonché la presenza di una maggiore riduzione volumetrica di alcune aree cerebrali in soggetti con ADHD rispetto ai controlli (sebbene l’aumento dell’età e il trattamento con psicostimolanti possano comportare una rinormalizzazione di queste regioni). Si è poi riscontrato anche un assottigliamento globale della corteccia, una riduzione nella densità della corteccia prefrontale dorsolaterale e semplificazioni della girazione corticale, con un ritardo di maturazione corticale di almeno tre anni rispetto ai controlli; infine, come ulteriore esempio, sono emerse delle anomalie anche a livello dell’amigdala e del talamo. 12.5.3. Neuroimaging e neuropsicologia I risultati dell’inquadramento neuropsicologico non svolgono un ruolo significativo nel determinare la presenza o meno dell’ADHD, ma sono comunque necessari per una più precisa caratterizzazione della sindrome, per l’inquadramento fenotipico clinico e per una migliore impostazione dei piani di trattamento individualizzato. I principali modelli neuropsicologici allo stato dell’arte sono cinque: 1. modello a una via (disfunzione esecutiva) → le funzioni esecutive (FE) comprendono un insieme di funzioni distinte e singolarmente misurabili (processi di inibizione della risposta, memoria di lavoro, flessibilità cognitiva, regolazione dell’arousal (attivazione generale del SNC; è una reazione a condizioni soggettive interne o ambientali e sociali), pianificazione e controllo dell’interferenza); il principale fattore responsabile delle manifestazioni cognitive e comportamentali tipiche dell’ADHD sarebbe un deficit dei processi di inibizione della risposta, capace di innescare a cascata gli altri deficit esecutivi, nonché le difficoltà di autoregolazione motoria ed emotiva. 2. modello a due vie → secondo questo modello, alla neurofisiopatologia dell’ADHD contribuirebbero sia il deficit delle funzioni esecutive sia un’alterata percezione dei rinforzi positivi e delle gratificazioni, con particolare riferimento all’avversione per l’attesa, un atteggiamento emotivo-motivazionale tipico dei bambini con ADHD, che si caratterizza per la tendenza a preferire piccole e immediate gratificazioni rispetto a grandi premi procrastinati nel tempo, e per l’incapacità di modulazione delle risposte impulsive. 3. modello a tre vie → al modello del doppio deficit (cognitivo e motivazionale) è stata aggiunta una “terza via”, denominata del processamento temporale, responsabile spesso di deficit dei processi cognitivi relativi alla capacità di stimare il tempo e di dosare le energie e le risorse per svolgere un’attività. Le difficoltà conseguenti riguardano la sincronizzazione 75 bambino o l’adolescente con ADHD è molto spesso impulsivo e poco consapevole delle conseguenze dei propri comportamenti, una tecnica strutturata che enfatizzi il valore delle conseguenze (positive o negative) è in grado di attivare il recupero di tale consapevolezza e, quindi, favorire l’autoregolazione. Le tecniche cognitivo-comportamentali fanno riferimento a un modello di terapia in cui si associano strategie comportamentali e di psicoterapia cognitiva, mirata alla modificazione dei pensieri alla base dei comportamenti disfunzionali e problematici; l’obiettivo è insegnare ai bambini ad adottare modalità di pensiero più utili e funzionali. Tale approccio viene definito con il termine “metacognitivo” poiché basato sull’incremento della metacognizione, ovvero la facoltà che permetta la consapevolezza e, quindi, la gestione dei propri processi cognitivi. Le sessioni di questa tecnica si concentrano sull’individuazione delle situazioni in cui la pianificazione, la disorganizzazione e la gestione disfunzionale delle attività creano problemi nella vita quotidiana del paziente; esse possono aiutare il bambino ad affrontare situazioni per lui più difficili e incoraggiare iniziative che forniscano soddisfazione personale e benessere, come regolamentare il sonno, l’esercizio fisico o gli hobby. L’intervento sulle abilità sociali si rivela utile poiché i bambini e gli adolescenti con ADHD hanno spesso problemi di socializzazione con i pari o scarsa capacità di interpretare le interazioni sociali (detta anche “dismetria sociale”); spesso vengono descritti dai coetanei come imprevedibili, problematici e aggressivi, incorrendo per questo motivo in rifiuto sociale. L’obiettivo di questo tipo di intervento è quello di far sviluppare i comportamenti utili per favorire l’accettazione, per mantenere relazioni sociali con i pari e operare strategie di problem solving. Ai bambini viene quindi insegnato a regolare il comportamento verbale e non verbale in modo funzionale al mantenimento di interazioni sociali positive, imparare ad aspettare il proprio turno, sapere quando modificare gli argomenti durante una conversazione ed essere in grado di riconoscere le espressioni emotive degli altri. Numerosi studi evidenziano l’efficacia delle tecniche di neurofeedback (strumento che permette di rilevare l’attività elettrica cerebrale e presentarla visivamente e in tempo reale al paziente tramite uno schermo, basandosi sul fatto che ad ogni attività corticale corrisponde una diversa tipologia di onde cerebrali) per il trattamento dell’ADHD; esso rileva infatti, tramite elettrodi posizionati sul capo, l’attività elettroencefalica differente in base all’attività svolta. L’individuo impara in questo modo a condividere il proprio “comportamento cerebrale” e, successivamente, prova a modificare la propria attività elettroencefalica ricercando lo stato cognitivo voluto e acquisendo così una strategia di autoregolazione. 12.7.2. Intervento con i genitori Nel trattamento comportamentale standard (o BPT, Behavioral Parent Training), i genitori sono gli agenti principali che forniscono l’intervento; il BPT comprende il lavoro su alcune competenze specifiche dei genitori, tra cui organizzare routine quotidiane coerenti, esprimere lodi e rinforzi per un comportamento appropriato, ignorare i cattivi comportamenti minori, poco irritanti o non pericolosi, dare comandi chiari e coincisi, fornire ricompense contingenti per comportamenti appropriati, fornire punizioni in modo sistematico e implementare sistemi di token-economy. Per quanto concerne l’intervento familiare nei modelli manualizzati disponibili in Italia, viene sottolineata l’importanza di due diversi aspetti: 1. l’interpretazione che i genitori fanno dei comportamenti negativi dei figli; 2. le modalità educative che possono essere disfunzionali rispetto alle caratteristiche del bambino ADHD. 76 Circa il primo aspetto sono utili interventi sulla gestione delle emozioni e sulle eventuali convinzioni disfunzionali alla base di queste; riguardo al secondo aspetto sono utili delle metodologie cognitivo- comportamentali per affrontare lo stile genitoriale e le opinioni alla base delle scelte educative. 12.7.3. Intervento con gli insegnanti Con il termine Teacher Training vengono definiti gli interventi con gli insegnanti applicati per favorire il miglior adattamento scolastico del bambino; nel caso dell’ADHD è utile a tale scopo programmare percorsi integrati di supporto agli insegnanti nelle routine scolastiche, per tutti gli alunni o focalizzati sui singoli bambini. L’applicazione di tecniche comportamentali in classe migliora infatti il funzionamento globale e, al tempo stesso, la produttività accademica. 12.7.4. Trattamento farmacologico La terapia farmacologica si basa su farmaci psicostimolanti e non stimolanti; numerosi studi, effettuati su bambini e adolescenti, confermano la capacità degli psicostimolanti di ridurre in modo consistente, rapido e duraturo sintomi dell’ADHD, quali impulsività, inattenzione e iperattività, migliorando così la qualità delle relazioni sociali, i sintomi aggressivi e l’aderenza terapeutica. Il metilfenidato, uno degli stimolanti più comunemente usato, sembra essere in grado di migliorare le prestazioni nelle attività che richiedono memoria di lavoro e inibizione della risposta sia in soggetti sani che in bambini e adulti con ADHD. 12.8. Indicazioni educative e legislative Il MIUR ha emanato alcune circolari che promuovono una corretta integrazione scolastica dei bambini con ADHD; l’attenzione da parte del Ministero verso questo disturbo rappresenta un riconoscimento ufficiale della necessità di promuovere strategie atte a tutelare il percorso scolastico di questi bambini. Le circolari ministeriali rappresentano delle importanti tappe nel processo di sensibilizzazione dei docenti sull’ADHD e forniscono indicazioni concrete su come impostare le attività didattiche e su una conoscenza d’insieme del disturbo. CAPITOLO 13: Disturbi specifici dell’apprendimento I Disturbi specifici di apprendimento (DSA) sono un insieme di condizioni, a insorgenza in età evolutiva, caratterizzate da difficoltà significative nell’acquisizione di una o più delle abilità scolastiche di base, nonostante capacità intellettive nei limiti della norma, l’assenza di handicap sensoriali, l’assenza di importanti disturbi psicopatologici e normali opportunità educative. I DSA costituiscono condizioni fortemente tempo- e attenzione-disperdenti per il soggetto; la mancata automatizzazione di competenze strumentali di base, che normalmente dovrebbero essere eseguite con un minimo sforzo cognitivo, finisce per comportare tempi protratti per portare a termine le comuni attività scolastiche e un notevole dispendio di risorse attentive, determinando un rapido affaticamento sul piano cognitivo. Le Linee Guida per la diagnosi dei DSA ne distinguono quattro tipi: 1. dislessia evolutiva, in cui è deficitaria l’acquisizione delle abilità di lettura decifrativa; 2. disortografia evolutiva, dove ad essere deficitaria è l’acquisizione delle competenze ortografiche in scrittura; 3. disgrafia evolutiva, in cui le difficoltà riguardano l’acquisizione degli aspetti grafo-motori della scrittura; 4. discalculia evolutiva, in cui è deficitaria l’acquisizione delle capacità aritmetiche di base. Esiste tuttavia un elevato grado di comorbidità tra le diverse tipologie di DSA; in uno stesso soggetto, infatti, spesso sono compresenti più tipi di Disturbi specifici dell’apprendimento. 77 13.1. Dati epidemiologici, genetici e neurofunzionali 13.1.1. Dati epidemiologici La prevalenza complessiva dei DSA indicata dagli studi epidemiologici internazionali è stimata tra il 2 e il 10% dei soggetti in età scolare, con una maggiore concordanza per valori intorno al 3,5-4,5%; per quel che riguarda più specificatamente il nostro Paese, dati pubblicati dal MIUR relativi all’anno scolastico 2016/2017 mostrano che gli alunni con certificazione di DSA nelle scuole primarie e secondarie sono il 3,6% del totale. La loro prevalenza varia in funzione del livello di scolarità (la percentuale è più bassa nella scuola primaria e aumenta nella secondaria di I grado); la Dislessia è la tipologia più frequente, riguardando oltre la metà degli alunni (55%). Infine, per quanto l’influenza del genere sulla prevalenza dei DSA sia ancora oggi oggetto di discussione, si ritiene che essi siano più frequenti nei maschi. 13.1.2. Aspetti eziologici e neurofunzionali I DSA sono Disturbi del neurosviluppo, vale a dire disturbi con esordio in età evolutiva di origine neurobiologica, riconducibili a una maturazione alterata/atipica di alcune aree e circuiti cerebrali implicati nell’espletamento di processi cognitivi specifici. L’eziologia dei DSA è multifattoriale e implica l’interazione tra fattori sia di rischio che protettivi multipli, i quali possono essere sia di tipo genetico che ambientale; i diversi fattori di rischio sono in grado di alterare in misura più o meno marcata lo sviluppo dei sistemi neurali che mediano i processi cognitivi necessari per il corretto sviluppo delle strumentalità scolastiche di base, determinando i sintomi osservabili nei soggetti con DSA. Una buona parte dei fattori di rischio, sia eziologici che cognitivi, è comune tra le diverse forme di DSA (e, almeno in parte, anche con altri Disturbi del neurosviluppo); per questo la comorbidità è altamente probabile. Ad esempio, tra i fattori di rischio eziologici e ambientali, che comportano la Dislessia, troviamo: nascita prematura, reazione immunologica fetale a specifici anticorpi materni, almeno due anestesie generali nei primi quattro anni di vita, ambiente familiare che non stimola l’esposizione alla lingua scritta, metodo di insegnamento della lettura di tipo globale (non focalizzato sull’insegnamento esplicito della corrispondenza grafema-fonema) e un sistema ortografico di tipo opaco, come quello inglese. Si ritiene che l’evoluzione o meno verso una condizione clinica di Dislessia o di altro DSA non sia rigidamente prestabilita a partire da una determinata causa, genetica o ambientale, quanto in funzione del numero e dell’importanza dei fattori di rischio, sia genetici che ambientali, in interazione con fattori di tipo protettivo; i DSA non sono disturbi di tipo categoriale, bensì l’estremo inferiore di un’abilità che si distribuisce in modo “normale” nella popolazione generale, lungo un continuum. I DSA sono disturbi dimensionali, in cui la difficoltà a carico della specifica capacità scolastica interessata può assumere tutta una serie di gradazioni intermedie, fino a livelli alla soglia della normalità e a situazioni di prestazione in fascia borderline e, quindi, non francamente patologiche. 13.2. Diagnosi funzionale e differenziale Una prestazione significativamente deficitaria in una o più abilità scolastiche di base in prove standardizzate che indaghino tali abilità, associata a una sensibile interferenza della difficoltà sulle attività della vita quotidiana che la richiedono, rappresentano criteri di inclusione per la diagnosi del DSA. 13.2.1. Dislessia evolutiva 80 Nella Discalculia procedurale, l’enumerazione è tipicamente ben automatizzata quando è in avanti, mentre si presenta incerta e costellata di errori quando è all’indietro; piuttosto caratteristiche sono anche le difficoltà nei compiti di transcodifica numerica (passaggio da un tipo di codice o formato di rappresentazione numerica a un altro come, per esempio, il passaggio dal codice arabico a quello verbale orale), in particolare nella lettura ad alta voce e nella scrittura sotto dettatura di numeri, in cui si possono osservare sia errori “lessicali” che “sintattici”: i primi sono quelli che comportano la sostituzione di una o più cifre all’interno di un numero, ma che non ne modificano l’ordine di grandezza (per esempio, “274” letto come duecentosessantaquattro); i secondi, invece, comportano una modifica del valore posizionale delle cifre all’interno di un numero e, di conseguenza, del suo ordine di grandezza. Caratteristiche sono le difficoltà nel recupero dei fatti aritmetici (risultati di semplici operazioni che, di solito, attraverso la pratica vengono automatizzate e sono recuperabili in modo diretto e immediato dalla memoria a lungo termine, senza ricorrere a procedure di calcolo), i cui risultati vengono spesso ricavati attraverso procedure laboriose e tempo-disperdenti; è spesso presente anche una ridotta efficienza nel calcolo a mente, che si appoggi all’uso delle dita, o non si affida ad alcuna chiara strategia o si affida a strategie eccessivamente dispendiose in termini cognitivi, con conseguente lentezza della risposta ed elevate probabilità di errore. Sono frequenti anche le difficoltà nell’esecuzione dei calcoli scritti. Nella Discalculia profonda, invece, le difficoltà aritmetiche riguardano che i compiti che richiedono una manipolazione del significato quantitativo del numero, oltre a molti dei compiti più procedurali tipicamente deficitari nell’alta forma di discalculia. Le difficoltà in tutti quei compiti che richiedono di comprendere il significato quantitativo dei numeri si fanno ben evidenti in età scolare e includono: • difficoltà nel subitizing (capacità di riconoscere in modo immediato la numerosità di piccoli insiemi, fino a 4 o 5 elementi, senza dover ricorrere a procedure di conteggio) e necessità di ricorrere al conteggio anche per insiemi di ridotta numerosità; • difficoltà nello stimare e nel confrontare “ad occhio” la numerosità di insiemi di elementi; • difficoltà più generali nel quantificare vari aspetti della realtà; • difficoltà nell’esprimere giudizi di grandezza su coppie o insiemi di numeri arabi; • difficoltà in compiti di ordinamento, crescente o decrescente, di numeri; • difficoltà nel calcolo approssimativo. Nei soggetti discalculici più grandi, il grado di accuratezza nel calcolo a mente tende a migliorare, ma permane una significativa lentezza e il repertorio di fatti aritmetici rimane molto limitato; si evidenziano spesso eccessiva lentezza ed errori di distrazione nello svolgimento di espressioni algebriche e di equazioni, riconducibili alla scarsa automatizzazione delle competenze numeriche e aritmetiche di base e/o a deficit della memoria di lavoro. Diagnosi differenziale Il problema fondamentale di diagnosi differenziale che si pone nel caso dei DSA è quello di distinguerli da altre difficoltà o disturbi dell’apprendimento di tipo non specifico, secondari a una serie di altre condizioni che tipicamente possono determinare problematiche di apprendimento. In questo senso, i principali problemi di diagnosi differenziale per i DSA si pongono rispetto a disturbi dell’apprendimento riconducibili a: limiti delle capacità cognitive generali, cioè delle capacità intellettive/logiche, le quali riguardano abilità scolastiche più complesse (comprensione e composizione di testi scritti, problem solving matematico e studio); disturbi di tipo sensoriale (visivi o uditivi); deficit neurologici (associati ad alterazioni strutturali del SNC); disturbi psicopatologici e/o della sfera emotiva-emozionale e ridotte opportunità educative (svantaggio socio-culturale o linguistico, ridotta frequenza scolastica, inadeguata qualità dell’insegnamento scolastico, ecc.). 81 Infine, i DSA dovrebbero essere anche distinti da difficoltà soltanto transitorie dell’apprendimento o anche da condizioni caratterizzate da difficoltà di lettura, scrittura o delle abilità aritmetiche, la cui gravità non è tale da soddisfare i criteri per un DSA. 13.3. Profilo neuropsicologico e psicopatologico 13.3.1. Profilo neuropsicologico Di seguito sono riportati i principali modelli dei deficit neuropsicologici che sono stati proposti per spiegare i singoli DSA. Dislessia e Discalculia Secondo un’ipotesi largamente accreditata e dominante, la Dislessia evolutiva sarebbe un disturbo di natura essenzialmente linguistica e, più in particolare, riconducibile a un deficit di tipo fonologico, cioè nella rappresentazione, nel recupero e/o nell’utilizzo della componente sonora del linguaggio; tale deficit sarebbe in grado di interferire con l’acquisizione delle capacità di lettura per diverse ragioni. Innanzitutto, determinerebbe un’alterata e/o ritardata acquisizione delle regole di corrispondenza grafema-fonema; esso comporterebbe anche difficoltà di mantenimento in memoria a breve termine dei suoni ricavati dall’applicazione delle regole di conversione grafema- fonema, tali da ostacolare l’assemblaggio fonemico. Secondo un’altra ipotesi, ad esempio, la Dislessia sarebbe imputabile a un deficit specifico a carico della via dorsale-magnocellulare, uno dei due grandi circuiti anatomo-funzionali del sistema visivo, responsabile della detezione del movimento e delle forme alla periferia del campo visivo; questi risultati non sono stati tuttavia confermati da altri studi e, attualmente, prevale la posizione che un deficit della via visiva magnocellulare-dorsale possa riguardare solo un sottogruppo di soggetti dislessici. A partire dagli anni Novanta, è stata avanzata anche l’ipotesi per cui la Dislessia rappresenterebbe la conseguenza di un deficit generalizzato di apprendimento automatico o implicito, ovvero di quel tipo di memoria (detta anche procedurale) che si manifesta attraverso un graduale miglioramento delle prestazioni con la pratica, in modo essenzialmente inconsapevole. Il deficit di automatizzazione potrebbe agire inizialmente interferendo nell’apprendimento delle regole di conversione grafema-fonema e, in seguito, potrebbe condizionare negativamente lo stabilirsi di associazioni tra la forma globale delle parole e la loro pronuncia, come pure più in generale la coordinazione rapida e precisa tra le numerose sotto-componenti cognitive alla base della lettura. Anche per questa ipotesi i risultati della ricerca non sempre hanno confermato i dati a favore e attualmente prevale l’idea che un deficit generalizzato di automatizzazione/apprendimento procedurale riguardi solo un sottogruppo di soggetti dislessici. Più di recente, hanno cominciato a prevalere ipotesi di tipo multifattoriale, secondo cui la Dislessia sarebbe un disturbo di natura eterogenea, sotteso da una varietà di possibili specifici deficit neurocognitivi, presenti isolatamente oppure in associazione, con una probabilità di manifestarsi che aumenterà quanto più i singoli deficit sono accentuati e/o il numero di deficit compresenti sarà maggiore. Disgrafia Anche la Disgrafia viene attualmente considerata una condizione piuttosto eterogenea, sottesa da una variabilità di possibili fattori neuropsicologici, spesso associati e in interazione con fattori ambientali di carattere educativo e con altre possibili variabili soggettive. I principali deficit di tipo neuropsicologico coinvolti includerebbero: • difficoltà a livello visuo-percettivo e, in particolare, visuo-spaziale, tali da comportare mancato rispetto dei margini del foglio, fluttuazioni rispetto al rigo di scrittura, spaziatura inadeguata tra le parole, ecc.; • deficit di controllo motorio fine e generale; 82 • deficit di recupero e/o di pianificazione degli schemi motori, che possono comportare amnesia procedurale per la realizzazione di alcune lettere, scambi tra lettere simili per forma e/o per schema di movimento, ecc.; • altre difficoltà motorie e/o di tipo posturale. Con questi diversi deficit sottostanti di tipo neuropsicologico, possono andare a interagire anche fattori legati all’apprendimento e all’automatizzazione di strategie di scrittura inefficienti che, in buona parte, possono essere anche di natura educativa. Discalculia Come per gli altri DSA, anche per la Discalculia la posizione attualmente prevalente è quella che la ritiene un disturbo eterogeneo, sotteso da una varietà di possibili differenti deficit neurocognitivi, presenti isolatamente o, più spesso, variamente associati nello stesso soggetto e, per questo, tali da comportare profili clinici a livello comportamentale piuttosto variabili. Nel caso della Discalculia, i vari deficit neuropsicologici in gioco possono essere distinti in due categorie: 1. deficit a carico di funzioni “dominio-specifiche” → si riferiscono ad alcune competenze di base, molto primitive, specificatamente deputate alla manipolazione delle numerosità e/o delle quantità, globalmente identificate come “modulo numerico innato” o number sense. Il number sense comprenderebbe almeno due meccanismi differenti: • l’OTS (Sistema di individuazione di oggetti multipli) che permette di tenere traccia di un numero molto ristretto di elementi (3-4), consentendo di apprezzarne in modo esatto la numerosità (esso sarebbe alla base delle abilità di subitizing); • l’ANS (Sistema della numerosità approssimata) che permette di cogliere con immediatezza differenze di numerosità oltre il limite del subitizing, senza però riconoscere in modo esatto la numerosità dell’insieme, ma solo di rappresentarla in maniera approssimativa, sempre senza bisogno di contare. L’ANS si perfeziona nel corso dello sviluppo e consente sia di stimare “ad occhio” con sempre maggior precisione la numerosità di insiemi formati da molti elementi, sia di riuscire a discriminare sempre meglio piccole differenze di numerosità tra insiemi di elementi (“acuità numerica”). 2. deficit a carico di funzioni “dominio-generali” → l’adeguato funzionamento di queste abilità cognitive permette la possibilità di acquisire e sviluppare gli strumenti culturali necessari ad ampliare le competenze aritmetiche o, anche, di riuscire a connettere i meccanismi preverbali di quantificazione con i sistemi simbolici di rappresentazione della numerosità. Le abilità cognitive “dominio-generali” riguardano: • competenze verbali, in particolare di tipo fonologico, in gioco nell’apprendimento delle parole-numero e della sequenza numerica e, quindi, nella capacità di conteggio e poi di calcolo, nella creazione di un repertorio di fatti aritmetici e nella transcodifica numerica; • capacità di tipo visuo-spaziale, implicate nell’allineamento in colonna dei calcoli scritti, nella comprensione del sistema posizionale di rappresentazione dei numeri in formato arabo, nella comprensione del significato quantitativo dei numeri; • attenzione e “funzioni esecutive”, in particolare nelle loro componenti di memoria di lavoro e di inibizione, per la loro rilevanza in tutti quei compiti che richiedono maggiore controllo. 13.3.2. Profilo psicopatologico Nei soggetti con DSA sono frequenti le ripercussioni sul piano emotivo e motivazionale; ciò non dovrebbe sorprendere, considerando, ad esempio, il continuo senso di frustrazione connesso alle 85 garantire il diritto all’istruzione e uguali opportunità di apprendimento agli alunni con DSA. Si tratta di un documento elaborato dall’equipe pedagogica e/o dal Consiglio di Classe. Ogni istituzione scolastica è libera di redigere il modello di PDP che meglio risponde alle proprie esigenze, anche se esso dovrebbe comunque includere almeno un certo numero di voci essenziali, quali: • un’analisi della situazione di partenza, in termini di natura delle difficoltà strumentali e metacognitive dello studente, ma anche dei suoi punti di forza e del suo più generale assetto emotivo e motivazionale; • la definizione del livello degli obiettivi curricolari per lo studente, che dovrebbero comunque mantenersi molto simili a quelli del resto della classe; • l’individuazione delle metodologie didattiche più idonee, con ricorso a una molteplicità di canali e linguaggi (visivo-iconico, audio-visivo e cinestetico) da integrare a quello verbale orale più tradizionale; • l’individuazione degli strumenti compensativi e delle misure dispensative più adeguati, che dovranno essere calibrati sulle caratteristiche e sulle esigenze specifiche del singolo studente; • la definizione delle modalità di verifica e di valutazione più idonee che, anche in questo caso, dovranno essere personalizzate. CAPITOLO 14: Disturbi dello spettro autistico Secondo il DESM-5, le caratteristiche diagnostiche dei Disturbi dello spettro autistico (ASD), che rientrano nel più ampio capitolo dei Disturbi del neurosviluppo, sono inerenti a due aree: la comunicazione sociale e i comportamenti ristretti e ripetitivi, indipendentemente dalla cultura, dalla razza o dal gruppo socioeconomico. 14.2. Caratteristiche genetiche e neurofunzionali Le cause dell’autismo sono tuttora oggetto di studio: un’origine genetica è comunemente ammessa sulla base di molte caratteristiche (il maggior rischio di ricorrenza nelle famiglie di un membro affetto, la maggiore frequenza nei soggetti di sesso maschile); solo in una percentuale minima di casi, tuttavia, il disturbo è riconducibile a singole mutazioni responsabili di sindromi genetiche note. Oggi, inoltre, si ritiene che accanto a fattori genetici vada riconosciuta l’importanza di fattori ambientali di vario genere. Sono stati individuati alcuni fattori di rischio, quali nascita pretermine, basso peso alla nascita, esposizione a farmaci durante la gravidanza, diabete gestazionale, parto cesareo, malattie autoimmunitarie della madre, età dei genitori (in particolare, l’età del padre > 50 anni) ed esposizione a inquinanti ambientali. Fra i fattori di rischio sono considerati anche quadri di grave e prolungata mancanza di stimoli sociali; quadri “quasi autistici” sono stati descritti in bambini gravemente deprivati (orfanotrofi in Romania), benché in questi soggetti non fossero presenti alcune caratteristiche della sindrome. Le caratteristiche autistiche scomparivano solo in parte una volta che i bambini erano adottati. Esistono diversi modelli esplicativi del disturbo, ma nessuno di essi sembra in grado di spiegare tutti i casi di autismo e tutte le manifestazioni presenti in un determinato caso; alcuni autori ipotizzano che esista un deficit “primario” da cui discenderebbero tutte le altre conseguenze, altri propendono per una pluralità di deficit variamente combinati che possono intervenire in sequenze e in momenti diversi. Dati di ricerca interessanti stanno emergendo dagli studi prospettici condotti da consorzi di ricercatori internazionali sui bambini considerati a rischio, e cioè sui fratellini di bambini che hanno già ricevuto una diagnosi di Spettro autistico; l’autismo tende a manifestarsi in questi soggetti con una frequenza maggiore rispetto a quella osservata nella popolazione generale e che arriva a sfiorare il 20%. I risultati di questi studi permettono di evidenziare i precursori dei sintomi cardine del disturbo e anche segni antecedenti in altre aree, che presumibilmente entrano in causa nello 86 sviluppo delle manifestazioni successive. In ogni caso, le ricerche convergono verso un terreno comune: i sintomi di queste condizioni devono essere considerati come effetti a valle di anomalie molto precoci dello sviluppo cerebrale e della riorganizzazione neuronale che provocano effetti a cascata nell’interazione continua del bambino con l’ambiente; ne deriva l’importanza degli interventi precoci, i quali sembrano in grado di modificare sensibilmente l’evoluzione del disturbo, nonché l’attenzione che occorre dare, a qualunque età, all’evoluzione di quadri clinici apparentemente diversi nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. 14.3. Diagnosi funzionale e differenziale La rappresentazione prototipica del bambino con un Disturbo dello spettro autistico è quella di un bambino che evita qualsiasi tipo di interazione sociale e vive praticamente “nel suo mondo”, privo di linguaggio e con una quota variabile di ritardo mentale. Due aree definiscono l’ASD: la compromissione dell’area sociocomunicativa e quella nell’area degli interessi ripetitivi e ristretti; a livello sociale mancano la reciprocità e la capacità di instaurare contatti interpersonali, di interpretare i segnali sociali e di integrare informazioni con una funzione comunicativa e affettiva. La compromissione a questo livello può essere qualitativamente diversa: l’ASD comprende bambini che possono apparire molto isolati e altri che, alla stessa età, osservano i coetanei in modo interessato, ma non sanno comunque interagire con loro. Rimane ancora valida l’identificazione nello spettro autistico di tre diverse modalità di espressione del deficit dell’interazione sociale comune a tutti: la modalità tipica del bambino “riservato”, quella del bambino “passivo” e quella dei bambini “attivi ma strani”. Un bambino “riservato”, sia a casa che a scuola, sembra ritirato in se stesso, non rispondendo agli approcci sociali ed evitando il contatto oculare; può avvicinare le persone solamente allo scopo di soddisfare i propri bisogni. Il bambino “passivo” accetta in modo indifferente gli approcci sociali da parte degli altri; fa quello che gli viene detto di fare e i suoi genitori e insegnanti devono stare sempre attenti che non si metta nei guai a causa della sua condiscendenza e della sua comprensione letterale delle comunicazioni verbali. Il contatto sociale viene ricercato anche se non costituisce qualcosa che gli piace. Al bambino “strano” piace stare con gli altri e toccarli, anche se non sa giudicare se l’approccio è gradito o inappropriato; non ci meraviglia, quindi, se la gente giudica i suoi atteggiamenti inopportuni e spiacevoli. Per fare diagnosi di autismo è necessaria la presenza di una compromissione delle competenze comunicative non verbali, compromissione che spazia dalla totale assenza di espressioni facciali, aggancio oculare e gesti, fino alla mancanza di integrazione del linguaggio verbale con tutta quella gamma di fini modificazioni posturali, gesti, sguardi, modulazioni prosodiche che lo rendono comunicativamente efficace e adatto ai diversi contesti sociali. Quando si sviluppa, il linguaggio autistico ha alcune peculiarità, fra cui l’ecolalia: il bambino ripete la parola o la frase che ha appena ascoltato (ecolalia immediata) o, più tipicamente, ripete frasi ascoltate in precedenza, perlopiù tratte da cartoni animati, film, pubblicità televisive (ecolalia differita). È come se il linguaggio in questi bambini non rappresentasse una competenza in grado di generare in modo naturale enunciati dotati di significato, ma consistesse in una sorta di raccolta di frasi fatte da usare nelle diverse situazioni sociali. Altra caratteristica patologica è l’inversione pronominale, per cui il bambino parla di se stesso usando la seconda o la terza persona. Nel DSM-5 le peculiarità del linguaggio autistico vengono considerate all’interno dell’area dei cosiddetti “sintomi non sociali” dell’autismo: comportamenti ripetitivi, reazioni sensoriali anomale, interessi ristretti e insistenza sulla sameness, cioè l’insistenza ossessiva verso un limitato repertorio di azioni, interessi insoliti, attaccamento insolito verso alcuni oggetti, attenzione ai dettagli, stereotipie motorie e risposte idiosincratiche a stimoli sensoriali. Gli interessi ristretti e stereotipati nell’ASD possono andare dall’interesse per la manipolazione di oggetti a quella per compiti visuo- spaziali, per la musica e per la ricerca di un’incredibile quantità di informazioni relative 87 all’argomento preferito; quest’ultimo aspetto può cambiare nel tempo, ma domina sempre la vita del bambino in termini sia di tempo che di energie spese in esso, interferendo nella sua vita sociale. Questo sintomo può essere difficilmente individuali nell’infanzia, in quanto alcuni interessi possono essere presenti anche nei bambini con sviluppo tipico (interesse per i dinosauri o per i personaggi dei cartoni animati); quando invece il bambino cresce, la bizzarria diventa sempre più evidente e più circoscritta. I bambini autistici non hanno solitamente difficoltà nel mettere insieme gli oggetti sulla base della loro forma, del loro colore o delle dimensioni; possono essere particolarmente bravi a ricostruire un puzzle anche senza guardare il modello e cogliere con un’occhiata dettagli per noi trascurabili. Il nostro modo di percepire il mondo è solitamente governato dalla sintesi, dalla percezione e da una rappresentazione dei dati salienti in un insieme dotato di significato; le persone autistiche, al contrario, percepiscono e ricordano in modo preferenziale i dettagli. Questo è un elemento che può compromettere il loro funzionamento sociale e comunicativo, ma che rappresenta anche un punto di forza nel loro funzionamento, alla base di quelle capacità straordinarie che alcuni soggetti hanno. Nei bambini più gravemente compromessi, gli oggetti vengono usati solo per ricavarne uno stimolo sensoriale; altri bambini, al contrario, sembrano sopraffatti dagli stimoli sensoriali (si tappano le orecchie in presenza di rumori, rifiutano cibi e vestiti di una certa consistenza e sfuggono alle carezze). Il profilo sensoriale dei soggetti autistici può essere infatti alterato sia nel senso di una ipersensibilità che di una iposensibilità e i vari canali sensoriali possono essere nello stesso soggetto alterati in direzione diversa. Le persone con ASD che non hanno una disabilità intellettiva associata (soggetti “ad alto funzionamento” che, nell’uso comune, vengono tuttora indicati come soggetti con la “Sindrome di Asperger”) hanno perlopiù un fenotipo tipico: sono socialmente isolati, ma consapevoli della presenza degli altri anche se il loro approccio sociale può apparire inappropriato, possono coinvolgere l’interlocutore in una conversazione monodirezionale e relativa alcune volte ad argomenti bizzarri. Si descrivono come solitari, ma interessati agli altri, all’amicizia e anche ai rapporti di coppia; i fallimenti che spesso sperimentano nei rapporti interpersonali li portano però a evitare in seguito gli approcci sociali, a ritirarsi in se stessi e, a volte, a sviluppare disturbi dell’umore o altre problematiche psichiatriche. La loro mancanza di intuizione e di adattamento sociale spontaneo si accompagna ad un uso formale di regole, comportamenti e convenzioni sociali; spesso questi soggetti presentano impaccio motorio, una scarsa coordinazione, un’andatura e una postura bizzarre, scarse capacità manipolative e deficit nelle abilità visuo-motorie. 14.3.1. Segni precoci I sintomi nell’area sociocomunicativa possono non essere presenti nei primi mesi di vita, mentre i primi sintomi possono manifestarsi in aree non sociali, in particolare nello sviluppo motorio che può essere ritardato o atipico, nell’attenzione o in altre aree; nella seconda metà del primo anno di vita possono comparire segni indicativi di una compromissione nell’area sociocomunicativa. Il bambino può non rispondere al richiamo per nome, soprattutto nel momento in cui è impegnato nell’esplorazione di un oggetto, il contatto oculare non è consistentemente mantenuto, non si sviluppano lallazione e i primi gesti comunicativi. Tali manifestazioni diventano più evidenti nel secondo anno di vita, quando in particolare non emerge il gesto dell’indicare per richiedere qualcosa, né, in modo più specifico, per condividere con l’adulto l’attenzione per uno spettacolo interessante; appare difficile catturare l’attenzione del bambino per dirigerla su un oggetto o su una persona, soprattutto se il bambino è impegnato nella manipolazione di un oggetto a lui gradito. Il linguaggio di solito non si sviluppa e le prime parole possono essere altre rispetto a quelle attese (mamma e papà); non si osservano i primi giochi di finzione e di imitazione. È importante tenere 90 l’architettura stessa del cervello. Per questo è importante riconoscere già nel secondo anno di vita le situazioni di rischio e intervenire tempestivamente; in età precoce, l’intervento deve essere specificatamente indirizzato a sostenere lo sviluppo delle competenze comunicative e relazionali del bambino, indipendentemente dalla figura professionale che effettua l’intervento. Il riconoscimento precoce del disturbo può inoltre evitare che attorno ad esso si attivino circuiti interattivi disfunzionali (la madre che si deprime perché il figlio non la guarda o si arrabbia per le mancate risposte alle sollecitazioni) che non fanno altro che peggiorare la situazione. 14.6.3. L’intervento deve essere intensivo L’intervento non può essere circoscritto nell’ambito delle ore di terapia, ma deve estendersi a tutti i contesti in cui il bambino vive; a questo proposito è da ricordare che in Italia l’inserimento del bambino autistico nella scuola “di tutti” può, con gli opportuni accertamenti, garantire un intervento educativo intensivo. 14.6.4. L’intervento deve coinvolgere i genitori Nel caso di interventi terapeutici esplicitamente disegnati per essere mediati dai genitori (in cui è il genitore stesso, adeguatamente formato e supervisionato, a trattare il bambino), gli stessi vanno comunque sostenuti nella comprensione del disturbo del loro bambino, attivamente coinvolti nella terapia, indirizzati in merito alle scelte da effettuare nei vari momenti evolutivi, ascoltati e curati per le reazioni depressive eventualmente presenti. L’intervento deve essere “cucito” su misura per il singolo bambino e a seconda del momento evolutivo, definendo gli obiettivi intermedi e i criteri di valutazione e verifica. 14.6.5. L’intervento deve essere non solo sul bambino ma anche sul contesto Questo intervento è particolarmente necessario nei casi di disturbi dello spettro dell’autismo che si manifestano in bambini e ragazzi intelligenti: in questi casi è infatti possibile che, per la loro ingenuità sociale, i ragazzi siano oggetto di vittimizzazione e di bullismo da parte dei coetanei o che, per l’ignoranza del problema, la scuola rifiuti il loro inserimento sulla base dell’erronea interpretazione dei loro comportamenti come dettati da “maleducazione o cattiveria”. 16.7. Indicazioni educative e legislative Per organizzare un progetto per bambini con ASD a scuola è innanzitutto fondamentale approfondire la conoscenza del funzionamento di questi bambini da un punto di vista cognitivo, sensoriale, comunicativo emotivo e relazionale; altrettanto importante è individualizzare l’intervento, dato che non esiste un modello unico che vada bene per tutti, contestualizzandolo e coinvolgendo i vari “attori”, soprattutto la famiglia. L’intervento a scuola dovrà essere attivato precocemente ed essere intensivo; in ambiente scolastico, le principali sfide da affrontare sono l’accoglienza e la gestione dei nuovi ambienti e persone, l’apprendimento, la socializzazione e la gestione dei problemi comportamentali. L’integrazione degli alunni con ASD richiede: alleanze tra scuola, famiglia, servizi specialistici, enti/associazioni e una programmazione didattica adeguata, intesa come l’insieme di attività affidate essenzialmente agli insegnanti per definire obiettivi educativi, strategie didattiche e valutative relative alla situazione scolastica concreta. La funzione del programmare comporta la capacità di prevedere i risultati dell’insegnamento e di regolarne i processi in itinere, con l’obiettivo di realizzare le finalità formative prefissate. Nel dialogo tra scuola e famiglia, la risposta della scuola è l’approccio progettuale (PEI), in cui si osservano e si definiscono gli obiettivi a breve/medio/lungo termine; l’aggiornamento della valutazione è periodico. È importante un continuo dialogo tra gli insegnanti di sostegno e quelli 91 curricolari per riuscire a programmare attività personalizzate all’interno e all’esterno della classe nella prospettiva dell’integrazione. La scuola può essere il luogo privilegiato in cui potenziare gli apprendimenti scolastici, l’interazione sociale e la comunicazione nel gruppo dei pari, nonché generalizzare le competenze/acquisizioni raggiunte in setting terapeutici. In generale, in qualunque fascia di età (prescolare, scolare e adolescenziale), è importante rendere l’ambiente scolastico prevedibile). CAPITOLO 15: Disturbi dell’umore I Disturbi dell’umore di caratterizzano per un’alterazione dello stato affettivo in senso depressivo o eccitatorio, con implicazioni complesse sui livelli di energia, i ritmi circadiani e le funzioni cognitive. Il DESM-5 suddivide i Disturbi dell’umore in due grandi categorie, Disturbi depressivi e Disturbi bipolari, sulla base degli episodi di alterazione dell’umore presentati; tale classificazione definisce criteri univoci nell’adulto e nel bambino, ma la loro espressività clinica può mutare con il variare del livello di sviluppo, determinando una maggiore difficoltà diagnostica in infanzia e adolescenza e una complessa diagnosi differenziale con altri disturbi e con le fisiologiche dinamiche affettive che caratterizzano lo sviluppo individuale. 15.1. Dati epidemiologici, genetici e neurofunzionali I disturbi depressivi sono una condizione clinica relativamente frequente in età evolutiva; dagli studi condotti negli USA è emerso che la prevalenza di questo disturbo tende a crescere nel corso dell’adolescenza, con un incremento maggiore nel sesso femminile. Per quanto concerne il Disturbo bipolare (DB), la consapevolezza della sua esistenza in età evolutiva e, in particolare, in età pre-puberale è andata progressivamente crescendo negli ultimi decenni; dagli studi è emerso che la prevalenza del disturbo prima dei 21 anni risulta essere dell’1,8%. 15.2. Diagnosi funzionale, profilo psicopatologico e neuropsicologico 15.2.1. Disturbo depressivo maggiore Il Disturbo depressivo maggiore è caratterizzato dalla presenza di uno o più episodi depressivi, della durata di almeno due settimane, in assenza di episodi di eccitazione maniacale o ipomaniacale. Le caratteristiche cliniche fondamentali sono la presenza di umore depresso o irritabile e/o di una costante incapacità nel provare piacere in attività precedentemente piacevoli, associata almeno a quattro sei seguenti sintomi: 1. riduzione (più raramente aumento) di appetito, spesso con calo ponderale (più raramente aumento); 2. disturbo del sonno; 3. agitazione psicomotoria (più raramente rallentamento); 4. senso di affaticamento, perdita di energia, stancabilità; 5. sentimenti di indegnità, colpa, biasimo, vergogna; 6. difficoltà nel concentrarsi, nel ricordare, nel prendere decisioni; 7. pensieri di morte, ideazione suicidaria, tentativi di suicidio. I sintomi possono presentarsi con diverse modalità nelle diverse età, ma anche in diverse tipologie psicopatologiche di depressione; una delle più significative in adolescenza è la depressione atipica, così definita per la frequente inversione di alcuni sintomi depressivi, come il rallentamento psicomotorio, l’iperfagia (anziché la riduzione dell’appetito) e l’ipersonnia (anziché l’insonnia). Elemento caratterizzante di questo tipo di depressione è l’estrema sensitività interpersonale, con elevata sensibilità al rifiuto, che porta alla convinzione che le proprie sofferenze non siano di interesse per gli altri e all’attivazione di comportamenti istrionici; per il timore di non essere compresi e accettati, essi possono manifestare, in modo spesso esibito ed esplicito, tematiche di 92 tipo suicidario, sui social network, diari o altri canali comunicativi, e comportamenti suicidari dimostrativi. Un’altra importante depressione adolescenziale, che può presentarsi anche in epoca pre-puberale, è la depressione psicotica, in cui i sintomi depressivi si associano a sintomi psicotici (dispercezioni e deliri) generalmente a contenuto depressivo. Le dispercezioni sono più frequentemente allucinazioni uditive o illusioni-allucinazioni visive, mentre i deliri sono più spesso a contenuto di colpa, vergogna, solitudine, fallimento e persecutori. La depressione psicotica deve essere sospettata per evitare un’errata diagnosi di schizofrenia e inducendo così prognosi o terapie non adeguate. Un terzo tipo di depressione, la depressione bipolare, si caratterizza per la presenza di episodi ipomaniacali o maniacali pregressi o in associazione (stati misti). 15.2.2. Disturbo depressivo persistente (ex Disturbo distimico) Il Disturbo depressivo persistente è un disturbo cronico caratterizzato da umore stabilmente depresso o irritabile per almeno un anno (due anni negli adulti), senza intervalli liberi superiori a due mesi. Almeno due tra i seguenti sintomi sono stabilmente presenti per la maggior parte del tempo: • riduzione o aumento dell’appetito; • riduzione o aumento del sonno; • affaticabilità, perdita di energia; • bassa autostima; • ridotta abilità di pensare o concentrarsi; • sentimenti di perdita di speranza. Tale disturbo è cronico e pervasivo; la sua durata media può essere di 2-3 anni, con un impatto sulla personalità in formazione particolarmente intenso. L’associazione di diversi sintomi affettivi, la loro persistenza nel tempo e la scarsa reattività ad eventi ambientali può indirizzare la diagnosi; i bambini in età scolare appaiono più spesso scostanti, infelici o apatici per periodi prolungati. Quando il loro repertorio verbale aumenta, sono capaci di riferire il sentimento di sentirsi poco amati, la perdita di speranza, lamentele somatiche, ansie e preoccupazioni, difficoltà di concentrazione. In adolescenza l’umore è triste, si associa a irritabilità, bassa autostima, sintomi vegetativi, ritiro sociale; spesso concomitano un disturbo del comportamento e marcate difficoltà scolastiche. I segni e sintomi depressivi si esprimono in modo diverso a seconda delle diverse fasce di età: nei bambini in età prescolare, le manifestazioni sono spesso non verbali; questi bambini appaiono tristi o irritabili, rallentati e apatici, ma talvolta agitati e instabili. Spesso è scarso l’interesse per il gioco, ma anche la curiosità nei confronti dell’ambiente e l’iniziativa sociale. La mimica facciale è scarsa, il contatto visivo non costante, l’espressività emotiva appiattita; è frequente un disturbo del sonno o dell’appetito. Intorno ai 6-7 anni, la tendenza all’evitamento sociale, lo scarso interesse nel gioco, le lamentele somatiche o la regressione di pregresse acquisizioni possono risultare prevalenti, anche se inizia a rendersi più evidente l’aspetto affettivo, quindi la tristezza, il pianto, e i contenuti depressivi nei giochi e nei disegni ancor più che nelle verbalizzazioni, con sentimenti di debolezza, inferiorità, scarsa amabilità. In età scolare aumenta la capacità dei bambini di verbalizzare il loro stato d’animo depressivo, con contenuti di bassa autostima, inferiorità rispetto ai coetanei, timori di perdita o abbandono, sensazione di essere poco amati o rifiutati dagli altri, con accresciuta sensibilità dinanzi ad eventi ambientali. Può emergere un senso di noia o disinteresse per attività precedentemente interessanti, un peggioramento delle prestazioni scolastiche (con problemi di concentrazione e memoria), affaticabilità e esauribilità. 15.2.3. Disturbo bipolare 95 Altro fattore di rischio demografico importante è l’orientamento sessuale; gli adolescenti appartenenti a una minoranza sessuale (gay, lesbiche o bisessuali) presentano molto più spesso comportamenti a rischio suicidario rispetto ai pari eterosessuali; tale rischio aumenta se appartenenti a più minoranze o al genere femminile. Tra i fattori di rischio clinici di particolare importanza appare l’associazione con disturbi psichiatrici e, nello specifico, con disturbi dell’umore (depressione e disturbo bipolare), altri disturbi psichiatrici, uso di sostanze e precedenti tentativi di suicidio. Anche il Disturbo post traumatico da stress (DPTS) è un importante fattore di rischio suicidario, il quale si associa spesso a depressione ma anche a suicidalità senza apparenti sintomi depressivi correlati; il rischio di suicidio, tuttavia, non è necessariamente collegato allo sviluppo di un disturbo post-traumatico, ma può presentarsi anche in soggetti esposti a trauma/abuso e non affetti da DPTS. Tra gli ulteriori disturbi associati a un aumentato rischio suicidario troviamo quelle patologie correlate ad un alto livello di impulsività (ADHD e Disturbo di condotta), che si associa anche a comportamenti antisociali e aggressività. Anche il Disturbo dello spettro autistico (DSA) ad alto funzionamento si associa ad un maggior rischio di suicidalità, sia per l’età adulta che per quella adolescenziale; soprattutto il periodo dell’adolescenza, caratterizzato da maggiori richieste di competenze sociali e relazionali, può risultare per questi soggetti molto critico, portando allo sviluppo di sentimenti di inadeguatezza o maggiore isolamento rispetto al contesto sociale. Infine, i ragazzi con DSA possono essere maggiormente esposti, rispetto alla popolazione generale, a fattori di rischio suicidario comuni, quali bullismo e cyberbullismo. Altre patologie spesso associate al suicidio sono i disturbi del comportamento alimentare e i disturbi di personalità; anche i pazienti che presentano importanti problemi di sonno hanno un aumentato rischio suicidario. 15.5. Trattamento riabilitativo, psicoeducativo e indicazioni legislative La diagnosi di depressione implica un piano di trattamento; un intervento psicoeducativo, che includa un’adeguata spiegazione dei sintomi e del loro significato, delle conseguenze sul funzionamento e sulla qualità della vita e delle possibili strategie terapeutiche, è sempre necessario per stabilire un’alleanza terapeutica con il soggetto e con la sua famiglia. L’efficacia della psicoterapia individuale è stata validata da studi controllati, anche se una percentuale di soggetti non migliora in modo soddisfacente; la terapia cognitivo-comportamentale è la più studiata nella depressione infantile e si è rivelata efficace nella depressione lieve e moderata. Essa è, tuttavia, molto meno efficace nelle forme gravi o gravissime, almeno come unica forma di trattamento. Quando un paziente non risponde a un intervento psicoeducativo e/o psicoterapico, o quando questi approcci non sono indicati come interventi isolati per l’elevata gravità clinica, dovrebbe essere preso in considerazione un intervento farmacologico. Numerose evidenze indicano infine come alcuni fattori familiari siano in grado di influenzare la risposta al trattamento di bambini e adolescenti con disturbi dell’umore, in particolare la presenza di disturbi psichiatrici nei genitori, conflittualità intrafamiliare, lutti e abbandoni; è importante fornire alle famiglie strumenti e nozioni per una migliore comprensione dei sintomi, del decorso e dei trattamenti, ma anche insegnare metodi per fronteggiare e gestire i sintomi, strategie per la prevenzione delle ricadute e indicazioni per favorire un’attiva partecipazione al processo di cura e guarigione. Sul piano legislativo, a tutela dei complessi bisogni evidenziati da bambini e ragazzi con disturbi psichiatrici che implicano un significativo impatto disfunzionale generale (in particolare sulla frequenza scolastica e le relazioni sociali) è prevista l’attivazione in ambito scolastico della normativa sui BES e la messa a punto di un Piano Didattico Personalizzato in accordo con la famiglia e il consiglio di classe; è utile, in generale, favorire la ripresa della frequenza con modalità a basso 96 impatto di stress e flessibilità, che tengono conto della fase di importante disagio esperito, facilitando la graduale reintegrazione all’interno del gruppo classe e il senso di autoefficacia personale attraverso la gratificazione e la valorizzazione dei risultati positivi, anche minimi, soprattutto se frutto dell’impegno. CAPITOLO 16: Disturbi d’ansia I disturbi d’ansia sono i disturbi psicopatologici più frequenti nella popolazione infantile, con un’interferenza sulla vita quotidiana potenzialmente non dissimile da quella dei disturbi degli adulti e con possibilità di mantenimento nel tempo. 16.1. Inquadramento nosografico, caratteristiche neurogenetiche, epidemiologia e comorbidità Il DSM-5, relativamente ai disturbi d’ansia del bambino, distingue ansia e paura: la paura è intesa come una risposta emotiva a una minaccia reale imminente (vera o percepita come tale); l’ansia è, invece, definita come risposta emotiva anticipatoria rispetto a minacce future o percepite come tali. I Disturbi d’ansia sono definiti all’interno del DSM-5 in diverse forme: • Disturbo d’ansia di separazione; • Mutismo selettivo; • Fobia specifica; • Disturbo d’ansia sociale (fobia sociale); • Disturbo di panico (con specificatore agorafobia); • Disturbo d’ansia generalizzata; • Disturbo d’ansia indotto da sostanze; • Disturbo d’ansia da condizione medica. 16.1.1. Neurobiologia Il rapporto tra dotazione neurobiologica e fattori ambientali si sta configurando in termini molto più complessi e problematici; la dotazione neurobiologica e le influenze ambientali agiscono in modo molto più interattivo di quanto ritenuto in passato. L’ansia rappresenta una situazione psicofisica che coinvolge complessi meccanismi e diversi circuiti neuronali, con conseguenti manifestazioni psichiche e somatiche; sono state identificate diverse zone responsabili di tale sintomatologia, tra cui le più importanti sono il talamo e l’amigdala. 16.1.2. Genetica Dato che il temperamento è considerato come la parte più geneticamente determinata della personalità, esso potrebbe rappresentare uno dei meccanismi attraverso cui avviene la trasmissione della vulnerabilità psicopatologica da una generazione all’altra, almeno per quanto concerne i disturbi ansiosi. Se il temperamento rappresenta la dotazione di base che colora la qualità della relazione con il mondo esterno a partire dalle prime fasi dello sviluppo, esso si intreccia con le modalità con le quali si sviluppano le prime relazioni nella realtà, cioè nei processi di attaccamento. 16.1.3. Epidemiologia I disturbi d’ansia sono le condizioni a maggiore prevalenza in ogni fascia di età; dati epidemiologici circa l’incidenza dei disturbi d’ansia in bambini e adolescenti della popolazione generale indicherebbero una prevalenza di disturbi d’ansia intorno al 5%. In sintesi, la reale prevalenza dei disturbi d’ansia è ancora discussa, in rapporto al complesso problema del confine tra ansia normale e ansia patologica, che attraversa i diversi disturbi d’ansia del bambino. Da alcuni studi è emerso che i sintomi d’ansia sono relativamente frequenti nella popolazione infantile generale, sono 97 relativamente stabili e possono produrre anche significative interferenze, ma non necessariamente rappresentano un elemento di rischio per lo sviluppo di un Disturbo d’ansia clinicamente rilevante. 16.1.4. Comorbidità È noto che nei bambini, ancor più che negli adulti, la comorbidità è la regola mentre i disturbi puri sono l’eccezione; questo è vero nei disturbi d’ansia più che in ogni altra psicopatologia. Le più importanti comorbidità sono tra i diversi disturbi d’ansia, ma anche dei disturbi d’ansia con quelli dell’umore e con l’ADHD. Particolarmente rilevante è la comorbidità tra i disturbi d’ansia e la depressione; tale comorbidità è particolarmente elevata in campioni clinici e, soprattutto, nelle forme clinicamente più gravi e in quelle con disturbi multipli d’ansia. Bambini con ansia associata a depressione presentano forme più gravi sia di ansia sia di depressione, sono di solito di età maggiore di quelli senza comorbidità e hanno una maggiore compromissione funzionale. Anche le malattie organiche (malattie cardiovascolari, respiratorie, artriti ed emicranie) sono spesso frequenti nei pazienti affetti da Disturbi d’ansia. 16.2. Diagnosi funzionale e differenziale La diagnosi dovrebbe essere relativa alla tipologia patologica, all’intensità della sintomatologia e alla compromissione funzionale derivante. Le interviste cliniche che esplorano i diversi ambiti della psicopatologia sono spesso basate sui criteri diagnostici del DSM-5; la loro utilità non è solo quella di identificare lo specifico disturbo d’ansia, ma soprattutto di mettere a fuoco la presenza di disturbi associati, che potrebbero essere mascherati dal disturbo d’ansia prevalente, e la cui presenza condiziona sia la prognosi che il trattamento. Le interviste dovrebbero essere somministrate sia ai genitori che ai bambini, potendo le diverse fonti riportare informazioni discordanti (in particolare per i disturbi d’ansia). 16.3. Profilo neuropsicologico e psicopatologico Lo studio della psicopatologia in età evolutiva richiede un modello teorico multifattoriale, che tenga conto delle numerose catene causali che possono condurre alla sofferenza del bambino, secondo un approccio bio-psico-sociale della salute. La teoria dell’attaccamento di Bowlby dà una forte importanza agli aspetti relazionali della diade genitore/bambino come fattore determinante per il successivo sviluppo; il tipo di attaccamento maggiormente presente nei bambini ansiosi risulta quello insicuro-ambivalente, come esito di una figura di apprendimento imprevedibile. Per questo i bambini, per esercitare controllo sulla madre, manifestano fobie, ansia da separazione, disturbi psicosomatici o disturbi della condotta; se i sintomi dell’ansia non vengono trattati, possono provocare a lungo termine effetti negativi anche sullo sviluppo sociale ed emotivo, come per esempio scarso rendimento scolastico, scarsa rete e supporto sociale, disoccupazione e uso di sostanze. L’ansia viene comunemente considerata come un costrutto multidimensionale con componenti fisiologiche, comportamentali e cognitive; per quanto riguarda i sintomi comportamentali, si possono osservare condotte di evitamento e fuga rispetto a situazioni percepite come minacciose. Per quanto riguarda i sintomi fisiologici si considerano la sudorazione, la tensione addominale, rossore in viso, tremori agli altri, disturbi gastrointestinali e tachicardia; per quanto riguarda le componenti cognitive, è possibile identificare alcuni pensieri disfunzionali. Nel Disturbo d’ansia di separazione (DAS) il bambino sviluppa dei pensieri negativi sulla possibilità che i genitori possano essere uccisi o rapiti, oppure che possano ammalarsi gravemente e morire anche in seguito a malesseri transitori; oppure che i genitori possano essere oggetto di ferite o incidenti. Si associano, quindi, comportamenti di elevato controllo sul genitore; il bambino si rifiuta di stare con un altro adulto di riferimento diverso dal caregiver, di pernottare da amici o di andare
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