Scarica RIASSUNTO ESAUSTIVO Informazione e potere: Storia del giornalismo italiano Mauro Forno e più Appunti in PDF di Storia del Giornalismo solo su Docsity! Informazione e potere Storia del giornalismo italiano Le premesse All’alba di una storia L’apertura di una nuova era per la storia dell’editoria si lega a un preciso luogo, Magonza, e a una specifica figura, il tipografo tedesco zur Laden il quale, di rientro da Strasburgo, attorno al 1450 diede vita al primo esemplare di Bibbia stampato con caratteri mobili. La scoperta di Gutenberg permise la realizzazione in Occidente di una separazione e un’estensione delle funzioni umane sino a poco tempo prima inimmaginabili; rese possibile lo sviluppo delle prime timide espressioni di “giornalismo” ante litteram. Fu il caso dei cosiddetti avvisi e fogli di notizie, pubblicazioni quasi sempre dedicate a una specifica informazione o a un particolare fatto, che in Italia nacquero attorno al 1470. Attorno agli anni Sessanta del Cinquecento a Venezia si diffusero i broglietti, dal nome della piazza davanti a Palazzo Ducale, dove la gente si ritrovava solo per scambiare pettegolezzi. Dal canto loro i pubblici poteri si preoccupavano sin dall’inizio di sfruttare a proprio vantaggio il crescente potenziale di questi strumenti e di attivare su di essi severi controlli attraverso la concessione del privilegio di stampa. I primi anni del Settecento segnarono la nascita di un altro aspetto significativo, poi divenuto peculiare del giornalismo “moderno”: il carattere periodico delle pubblicazioni, all’interno delle quali le notizie iniziarono a essere disposte secondo un criterio gerarchico. Dal punto di vista tecnico, il cronista del Seicento lavorava senza grandi supporti personali; doveva occuparsi di raccogliere le notizie, della stesura, del lavoro di tipografia ecc. Con la nascita, poi, dell’altra figura fondamentale del giornalismo, il “lettore abituale”, i giornali si diedero la possibilità di organizzare meglio il proprio futuro. Con l’accrescersi, sia pure parziale, dei diritti dei cittadini iniziarono ad affermarsi altre tipologie di pubblicazione, più attente ai fatti di cronaca, e anche i primi spazi embrionali di pubblicità, che permisero ai giornali di sganciarsi parzialmente dagli introiti derivanti dalle vendite e dagli aiuti interessati dei regnanti. Nella Penisola italiana questi fogli a cadenza periodica nacquero tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta del Seicento in centri come Venezia, Genova, Roma, Bologna, Firenze, Milano e Torino. Il XVII secolo si chiuse con un avvenimento di un certo rilievo per i destini del giornalismo e della stampa: il governo inglese nel 1695 non rinnovò il Licensing Act, ribandendo il regime della censura preventiva. Sempre a Londra nel 1702 nacque il primo quotidiano a cadenza regolare della storia della stampa; il “Daily Courant”, che in un annuncio pubblicato sul numero di apertura espresse esplicitamente l’aspirazione a un’informazione corretta, in cui fossero sempre citate le fonti delle notizie e fossero adeguatamente separati i fatti dalle opinioni. Nel 1785 nacque a Londra il “The Universal Daily Register”, oggi conosciuto come “The Times”, uno dei primi ad affermarsi nella nuova grafica, distaccandosi dalla forma a libro che prima usavano avere i giornali e configurandosi come quelli che conosciamo oggi, con le colonne spezzate in brevi paragrafi. Anche per l’Italia il Settecento fu un secolo di notevoli sviluppi nel campo della stampa. Se le gazzette, strumenti vicino al potere, continuarono a rivestire un ruolo di rilievo, nel secondo cinquantennio del secolo iniziarono ad affermarsi alcuni fogli rivolti soprattutto a un pubblico di ceti urbani interessati ad un’informazione economica, agricola e medica. Fu tuttavia soprattutto la Rivoluzione francese a imprimere al giornalismo del Vecchio continente una significativa trasformazione. Con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata nel 1789, fu ufficialmente sancito il diritto di parlare, scrivere e stampare. Come, tuttavia, avverrà in Francia, dopo il consolidarsi degli esecutivi post-rivoluzionari, in un breve volgere di tempo l’indulgenza e la tolleranza governativa verso la stampa si trasformarono in insofferenza. Nelle “repubbliche italiane” gli interventi repressivi a carico dei giornali diventarono molto frequenti, ma anche dopo la fine della parentesi napoleonica e il duro periodo della Restaurazione le tracce dell’evoluzione avvenuta nel settore non furono del tutto cancellate, a dimostrare un cambiamento inarrestabile. I lettori si erano allargati e altre evoluzioni stavano avvenendo; le notizie dell’interno iniziarono a prevalere sulle notizie dell’estero; fecero la comparsa i primi quotidiani (es. il “Giornale italiano”) all’interno dei quali i compilatori unici iniziarono a essere affiancati da altre figure, come quella del direttore, del collaboratore e del redattore. Stampa e giornalismo all’inizio del XIX secolo Dopo Napoleone alcuni ideali nati dall’Ottantanove rimasero a covare sotto le ceneri, mentre a livello governativo andarono rafforzandosi le certe4zze sui vantaggi ricavabili da un’oculata gestione della stampa. In particolare, la sua crescente diffusione pose per la prima volta i regnanti attraverso i giornali, di dover difendere e alimentare una propria “immagine pubblica”. Nei territori sabaudi esisteva una censura ecclesiastica molto dura e gli spazi per la trattazione di temi politici furono sin dall’inizio ridotti al minimo o riservati agli incolori fogli “ufficiali”. Nel complesso, migliore fu la situazione del Granducato di Toscana, dove accanto al foglio ufficiale, il “Giornale Politico di Firenze”, riuscirono ad affermarsi alcune riviste e vari giornali umoristici che tentarono qualche timida apertura rispetto ai problemi politici e sociali della propria patria. Tra il 1820 e il 1821 i moti rivoluzionari scoppiati in Italia e nella Penisola Iberica ravvivarono il clima dell’Europa della Restaurazione, riverberando i propri effetti anche sulla stampa, che visse una stagione di notevole rigoglio. Ovviamente non fu un ritorno alla situazione pre-rivoluzionaria. I fogli “Indicatore livornese” e “indicatore genovese”, dove scriveva lo stesso Mazzini le sue idee rivoluzionarie, riuscirono a esercitare un certo influsso tra le ristrette fasce borghesi da cui nasceranno i primi cospiratori patriottici. Con la caduta di Carlo X, la stampa rifiorirà a carattere politico, verso il 1830. Di rilievo poi i contenuti che provenivano da Marsiglia, dove Mazzini aveva fondato una sua rivista, la “Giovine Italia”, organo dell’omonima associazione politica insurrezionale. Mazzini ne fece un formidabile strumento di mobilitazione degli animi, in vista della formazione di una nuova coscienza italiana. Nel Piemonte di Carlo Alberto questa tendenza fu esemplarmente espressa da un tipografo e promotore di cultura come Giuseppe Pomba, che all’intraprendenza imprenditoriale associò l’interesse per l’innovazione tecnologica e una certa simpatia per le idee liberali. Pomba seppe ritagliarsi interessanti spazi editoriali in un regno sabaudo in cui, pur continuando a operare la censura, sembravano anche potersi aprire nuove prospettive di circolazione di idee cautamente riformatrici. Probabilmente le maggiori aperture al progresso civile, sociale e culturale e alle nuove aspirazioni liberali e unitarie si manifestarono tuttavia in Lombardia, dove periodici come “La Rivista Europea” e il mensile “Politecnico” di Carlo Cattaneo furono testimonianza di una sempre maggiore fiducia nella stampa come fattore di crescita civile e di diffusione di cultura. Tecnologie e informazione: un meccanismo a doppia mandata La Rivoluzione americana e quella francese avevano fatto si che le nuove espressioni dell’opinione pubblica non fossero più solo esclusive per un certo gruppo ristretto di persone. In un contesto socialmente, politicamente e economicamente in evoluzione, divenne insomma quasi indispensabile uno sforzo di adattamento degli strumenti tecnologici alle nuove esigenze, al fine di velocizzare i tempi di raccolta delle informazioni e di ampliare i volumi di produzione dei giornali (fu introdotta la stampatrice a vapore piano-cilindrica, venne inventato il primo telegrafo da Samuel Morse per la trasmissione via cavo delle notizie e dei testi, si scoprirono tipi di carta meno costosi e la rotativa si estese all’Europa permettendo la stampa di sempre più volumi). Le scoperte di questo periodo, ovviamente, causarono delle conseguenze sul piano economico e sociale, ad esempio proteste da parte dei lavoratori, aumento della competizione nel settore per il proliferare delle notizie ad un incredibile velocità, che, ovviamente, le rendeva anche più velocemente “superate” o “vecchie”. Il moltiplicarsi degli strumenti di comunicazione impose naturalmente anche maggiori sforzi per la gestione e la selezione dei flussi. Da qui il rapido sviluppo delle agenzie di stampa, strutture specificamente deputate alla raccolta e alla fornitura ai giornali delle informazioni. Con la nascita delle prime agenzie (la torinese Agenzia Stefani telegrafia privata), la notizia venne dunque a rafforzare il suo valore di scambio, mutevole e riconoscibile al pari di altre merci. Sotto vari aspetti, soprattutto a partire dai primi decenni dell’Ottocento, l’informazione divenne dunque davvero un lavoro per “specialisti”. In alcuni paesi si andavano delineandosi pure nuove prospettive sul piano legislativo, come il Libel Act in Inghilterra, che garantiva un accrescimento del potere di controllo e di vigilanza della stampa sull’operato delle istituzioni, tanto che la stampa divenne “ il quarto potere”, a fianco dei tre tradizionali, legislativo, esecutivo e giudiziario. In quegli anni anche in USA si ebbe un notevole sviluppo dell’informazione, come il fenomeno della penny press, della rivista “The Sun”, non estraneo a una certa vocazione di populismo, scandalismo e al sensazionalismo, ma molto adatto ad un pubblico “popolare”. Di certo, in quel periodo si ebbe una prepotente affermazione della figura del reporter, una sorta di investigatore privato alla ricerca di notizie. In un tale contesto nacque il “New York Daily Times”, ossia l’odierno New York Times, sullo stile della penny press, ma con maggiore rigore, non disdegnando di approfondire i temi della politica e della diplomazia internazionale e sforzandosi soprattutto di garantire la precisione e la completezza dell’informazione. Gli anni della svolta: gli editti sulla stampa del 1847-1848 Anche nei piccoli regni italiani il mondo della stampa e del giornalismo giunse alla vigilia della grande stagione rivoluzionaria con un potenziale tecnico e un bagaglio di esperienze non trascurabili. Nello Stato della Chiesa fu avviata una politica prudentemente riformatrice, sfociata in un primo significativo provvedimento di apertura. Un editto pubblicato dalla Segreteria di Stato nel marzo 1847 dispose uno snellimento delle procedure di parlamentari, in cui era spesso esecrata, dietro organismo come l’Ufficio per la stampa del capo del governo, la presenza di un “vero e proprio mercato per illuminare meglio i cittadini con diari condotti a provvigione”. E’ noto che le intromissioni dei governi per influenzare e finanziare occultamente la stampa furono prerogative anche di altri contesti nazionale, a partire dalla vicina Francia. Tuttavia deve essere osservato che soprattutto i caratteri di debolezza del sistema editoriale italiano ottocentesco favorirono in misura del tutto particolare i margini di intervento del potere politico. Lo stesso affidamento a una particolare testata della pubblicazione a pagamento degli atti ufficiali dello Stato divenne uno strumento piuttosto efficace per il controllo di un giornale e per il suo allineamento agli indirizzi del governo. Un’altra pratica abituale era quella del “giornalista anfibio”: funzionario dello stato o, talvolta, giornalista incaricato e stipendiato da quest’ultimo, il “giornalista anfibio” era una persona che si assumeva il compito di fornire a giornali “amici” corrispondenze gratuite dalla capitale. La presenza di questo soggetto permetteva ai governi di orientare l’informazione politica e di risparmiare su tutta una serie di testate provinciali e di piccole e medie dimensioni. I governi post-unitari adottarono anche vari interventi per osteggiare e rendere difficile la vita dei giornali considerati “nemici”. Fra le varie tipologie di giornalista ottocentesco c’era il “corrispondente cumulativo”, figura presente soprattutto trai giornalisti parlamentari e di cui fu un noto rappresentante Vittorio Tedeschi. Per questo tipo di giornalista era tipico assumersi il compito di fornire corrispondenze dal parlamento a diversi giornali, anche quattro o cinque contemporaneamente, accettando di lavorare per un compenso minore. La pratica, evidentemente, consentiva alle testate dotate di mezzi relativamente modesti il “lusso” di un corrispondente fisso dalla capitale. Non di rado i corrispondenti cumulativi si proponevano di lavorare anche per o giornali di colore politico molto diverso, circostanza che spesso induceva i medesimi ad attribuire resoconti coloriture o accentuazioni differenti, a seconda della linea politica dei giornali e del pubblico a cui questi si rivolgevano. I giornali in Italia dopo il trasferimento della capitale Le Breccia di Porta Pia del settembre 1870 e la conseguente fine della censura negli ex territori pontifici produssero un certo fiorire di iniziative editoriali nella nuova capitale del regno. Anche molte testate torinesi o fiorentine decisero di traslocare in quella sede le proprie redazioni. Nel complesso però, furono soprattutto i giornali dell’area democratica e quelli della sinistra costituzionale a guardare con maggiori speranze alla nuova capitale, individuata come possibile base strategica per esercitare una forte influenza sulle regioni del Centro e del Sud. Tra i vari quotidiani creati dopo Porta Pia ci sono “La Capitale”, “La Riforma”, sottoscritto da uomini come Crispi, Cairoli e Bertani. Vari furono anche i giornali ascrivibili alla destra, ma solo alcuni seppero dimostrare una significativa forza di penetrazione, uno di questi fu “La Nuova Roma”. Nel campo della stampa deve essere ricordato l’esperimento praticato a Firenze del “Fanfulla”; un giornale, questo, a cui andrebbe attribuita l’invenzione del cosiddetto elzeviro: pezzo di due colonne, lirico ed evocativo, che nella stampa di inizio Novecento avrebbe caratterizzato le terze pagine di tutti i principali giornali. Anche la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia fu trasferita nella nuova capitale e posta sotto la direzione di Giovanni Piacentini. Come, però, abbiamo citato all’inizio, nonostante il buon inizio, l’elevazione al rango di capitale non permise tuttavia a Roma di conquistare un vero primato nazionale tra il giornalismo d’opinione. Lo stesso peso dei giornali della sinistra liberale rimase complessivamente mediocre, con un pubblico globale di lettori molto basso e appartenente alla classe politica o a deputazioni regionali per lo più. I governi della sinistra storica L’avvento al potere della sinistra storica, nel 1876, non fu privo di riflessi sull’organizzazione della stampa in Italia. Dopo la nascita del primo governo Depretis furono ad esempio decretate l’abolizione dei “giornali ufficiali” e la revoca degli impieghi assunti dal governo con i fogli provinciali per l’appalto della pubblicazione dei provvedimenti legislativi e delle ordinanze amministrative. Tali decisioni scossero indubbiamente l’impalcatura costruita in quindici anni dai moderati attorno ai giornali locali. Come però abbiamo già accennato, neanche la nuova maggioranza ministeriale si astenne da arbitrarie pratiche di sottogoverno. Furono solo ridimensionati, e non solo cancellati, i finanziamenti ai “giornali ufficiosi”, mentre il lavoro di schedatura di testate e giornalisti fu addirittura ampliato e reso particolarmente meticoloso. Agostino Depretis si convinse presto dell’esigenza di crearsi un organo di informazione sufficientemente diffuso e a sua totale disposizione, scopo per il quale si rivolse a Costanzo Chauvet. Quest’ultimo, grazie anche agli aiuti della Banca Romana, seppe dar vita ad un foglio di buona diffusione. Egli fu del resto molto abile ad accumulare cospicue somme di denaro mettendo in atto una serie di ricatti ai danni di personaggi piuttosto noti della capitale (ritroveremo Chauvet come uno dei coinvolti nello scandalo della Banca Romana). Merita ricordare che gli anni del passaggio del potere dalla destra alla sinistra storica furono anche quelli in cui diversi giornali introdussero la pratica dei supplementi culturali, vale a dire di luoghi in cui scrittori, poeti e intellettuali di spicco furono chiamati a confrontarsi con il giornalismo “di informazione” e a sforzarsi di far breccia non solo tra gli “addetti ai lavori”, ma anche tra il grande pubblico. L’ascesa dei quotidiani milanesi Dal punto di vista editoriale, negli anni successivi all’unificazione furono soprattutto alcuni giornali del Nord, in particolare milanesi, a riuscire a meglio interpretare le esigenze di una borghesia imprenditoriale in ascesa e anche a guardare con interesse alle esperienze della stampa popolare anglosassone, per tentare di imitarne alcuni tratti. Nel 1866 nacque a Milano (Raffaele e Edoardo Sonzogno erano i fondatori della casa editrice) un quotidiano molto popolare, “Il Secolo”, molto sensibile ai temi della moralizzazione della politica e fiero oppositore del crescente autoritarismo delle istituzioni. In una decina di anni divenne il quotidiano italiano più importante per diffusione. Per la prima volta un giornale che guardava a un pubblico nuovo, fatto anche di lavoratori salariati, piccoli professionisti, negozianti, seppe inoltre assumere una struttura articolata e di stampo imprenditoriale, dotandosi di un servizio telegrafico autonomo e di una rete ampia e agguerrita di corrispondenti. Sonzogno divenne poi il titolare di ben tre famosissimi quotidiani, “La Capitale”, “La Gazzetta di Milano” e “Il Secolo”. Il giornalismo di taglio popolare venne importato invece da Dario Papa, dopo il suo viaggio in America; Papa adottò una titolazione vivace e su diverse colonne, un taglio agile, un lignaggio efficace, riservando particolare spazio alla cronaca e alle notizie. Tuttavia il suo esperimento non ebbe molto seguito perché troppo democratico e filo repubblicano. Nel 1867 nacque a Torino “La Gazzetta Piemontese”, che verrà poi rinominata “La Stampa”, giornale destinato a percorrere un lungo e fortunato cammino. Abbastanza vivo fu il panorama fiorentino, che aveva attraversato un periodo di “passione” soprattutto dopo il primo trasferimento di capitale. Qui il ruolo di giornale guida era stato assunto da “La Nazione”, fondata nel luglio 1859 da un gruppo di moderati unitari vicini a Benedetto Ricasoli. Nel marzo 1885 a Bologna nacque “Il Resto del Carlino”, dopo essere passato da posizioni radicali e filosocialiste all’appoggio di settori della borghesia imprenditoriale cittadina favorevoli a sostenere la politica estera crispina. Occorre tuttavia ritornare ancora a Milano per vedere la nascita nel 1876, in coincidenza con il passaggio di potere dalla destra alla sinistra storica, di una testata destinata a ritagliarsi uno spazio di primissimo piano nel mondo della stampa nazionale fino a divenire il vero e proprio principe dei quotidiani italiani: “Il Corriere della Sera”. Questo quotidiano contendeva a “Il Secolo” il primato cittadino, grazie anche all’appoggio del mondo imprenditoriale lombardo. Il giornale divenne in pochi anni una grande impresa editoriale, nel complesso, esso prese posizioni di liberismo in economia, di conservatorismo in politica interna, di filotriplicismo e di modesta attrazione per le avventure coloniali in politica internazionale. Le “opposizioni” cattolica e socialista Negli anni che seguirono l’unificazione, mentre andavano ampliandosi le fratture tra la stampa della sinistra storica e i fogli di ispirazione democratica e radicale, a proporsi con un peso non insignificante furono soprattutto i giornali cattolici e socialisti. La prima stampa cattolica post-unitaria fu caratterizzata da una netta prevalenza delle posizioni intransigenti, ossia le tendenze di quei cattolici che avevano rifiutato i principi e i modi di costituzione del nuovo Stato e stigmatizzato gli “abusi” e le inefficienze della nuova classe al potere (“L’Armonia” era l’emblema dell’opposizione cattolica). Nel 1863, Giacomo Margotti, con il beneplacito di Pio IX, diede vita a Torino a “L’Unione Cattolica”, quotidiano che avrebbe saputo ritagliarsi uno spazio non trascurabile nel panorama cattolico dell’Ottocent6o; una delle poche voci capaci di superare gli angusti orizzonti localistici e di svolgere in qualche caso anche un ruolo “semi-ufficiale” rispetto agli orientamenti della Santa Sede. Del tutto peculiare, per via dello specifico ruolo rivestito, fu invece il caso dell’“Osservatore Romano”; questo giornale, battagliero e apertamente schierato, durante il periodo post-Risorgimentale, su posizioni di intransigenza, non diede prova, specie in seguito alla sua promozione del 1870 a organo ufficiale della Santa Sede, di una particolare violenza o esasperazione di toni. Negli anni compresi tra l’unificazione e la crisi di fine secolo il giornalismo cattolico, soprattutto quello intransigente, conobbe dunque una stagione di indubbio rigoglio. Sotto il profilo qualitativo essi rimasero peraltro molto modesti e incapaci di reggere il confronto con i maggiori quotidiani liberali. Anche sul fronte laico e anticlericale in quegli stessi anni si manifestarono alcune significative esperienze, attente soprattutto alle esigenze e alle rivendicazioni dei ceti popolari. Fra questi va ricordato “La Plebe”, espressione di tendenze democratiche ancora a cavallo tra forme classiste e aspirazioni al riformismo, ma anche palestra politico-giornalistica per uomini destinati a rivestire un ruolo di primo piano all’interno del socialismo italiano, come Filippo Turati e Andrea Costa. Fu solo sul finire degli anni Ottanta del secolo che una nuova stampa socialista seppe allargare la propria influenza alle masse popolari; fogli come “L’Unione” contribuirono in maniera significativa allo sviluppo di un dibattito politico ideologico sulla condizione degli operai e delle classi subalterne. Nel 1892 nacque il Partito dei lavoratori italiani e il giornale che lo rappresentò fu il settimanale milanese “Lotta di Classe”, almeno fino alla fondazione del quotidiano “L’Avanti!”. Un mestiere amato e bistrattato Nei primi decenni post-unitari: o I giornali si proposero anche come strumenti di affermazione politica e di sfoggio culturale per alcuni rappresentanti del ceto medio, intellettuali di secondo piano, professionisti, funzionari o militari a riposo, che di fatto non facevano del lavoro giornalistico la principale fonte di reddito. o Altre volte i giornalisti dell’epoca erano rampolli di famiglie benestanti in cerca di emozioni letterarie o piccoli imprenditori che riuscivano a fondare una testata, salvo poi affondarla molto rapidamente. o Altre volte ancora a gettarsi in quella particolare avventura erano giovani della piccola e media borghesia, sinceramente rapiti dalla professione, oppure attratti da favorevoli risvolti legati al suo esercizio. Chiunque in quel periodo decideva di entrare a far parte del mondo giornalistico, potendo contare solo sul proprio talento e senza poter godere di una totale autosufficienza economica, conosceva i rischi a cui andava incontro, compresi quelli di essere giudicato da una parte di opinione pubblica come un vero e proprio apostolo di una missione, da un’altra come un “mangiapane a tradimento”, un imbroglione senza onore. Era del resto molto difficile pensare di poter vivere agiatamente e senza compromessi con il giornalismo. Tornando alle vicende italiane post-unitarie, col trascorrere dei decenni gran parte della classe politica nata nel Risorgimento scomparve definitivamente dalla scena, sostituita da una generazione meno sensibile agli ideali patriottici e piuttosto attenta alle esigenze del proprio collegio e ansiosa di trovare nuovi collegamenti e mezzi di acquisizione del consenso. In questa prospettiva non si può non citare lo Scandalo Oblieght, scoppiato negli ambienti finanziari della capitale nel 1882. Oblight, finanziere italiano di origini ungheresi, era riuscito ad estendere il suo giro di affari in campo editoriale, ottenendo la cointeressata Agenzia Stefani e assumendo il controllo di alcuni grandi giornali locali e nazionali. Nel 1882 Oblieght cedette le sue partecipazioni ad una grande finanziaria transalpina, vicina ad ambienti vaticani e operante in Italia attraverso la Banca Romana. Il passaggio della catena di stampa posseduta da Oblieght nelle mani francesi fu da molte parti interpretata come una possibile cagione di pesanti ingerenze clericali nella vita politica italiana. Lo scandalo esplose e per far luce sulla vicenda fu nominata una commissione parlamentare d’inchiesta, mentre vari direttori e collaboratori di giornali iniziarono a rassegnare le dimissioni. Anche Oblight fu costretto a recedere dagli accordi siglati. Naturalmente non tutti i giornali e gli editori italiani erano avvezzi a operare all’ombra di trame politiche e finanziarie. Al contrario, a partire dagli anni Ottanta del secolo tra di loro iniziarono a esprimersi diverse voci di condanna nei confronti della degenerazione della vita politica e giornalistica e del reiterato ricorso a varie pratiche di sottogoverno. Alcuni giornali calcarono in maniera particolare questi caratteri di opposizione verso l’establishment politico, talvolta con accenti forti vicini allo scandalismo. In quasi tutti i casi il governo decise di rispondere con la repressione ancora una volta. Giornalismo e sfide d’onore Tipica espressione del codice d’onore delle classi medio-alte ottocentesche, lo strumento del “duello” era ancora ampiamente utilizzato all’interno del mondo giornalistico nazionale nel periodo che va dall’unificazione alla fine del secolo. Non tutti i giornalisti avevano peraltro le stesse idee a riguardo. Alcuni consideravano la pratica, identificata come reato dal codice penale, decisamente barbara. Altri la ritenevano, oltre che molto utile, addirittura in grado di svolgere una funzione “sociale” e “morale”. Secondo Faelli, molti giornalisti, specie se poco affermati, erano addirittura attratti dallo scontro, nella convinzione che, se non avessero potuto annoverare nel proprio “stato di servizio almeno un duello”, non sarebbero stati tenuti nel “debito conto”. Alla fine il duello si risolveva senza che nessuno si facesse poi particolarmente male e con ferite esclusivamente superficiali. Talvolta, ancora, i duelli nascevano per ragioni del tutto pretestuose, sollevate da uno dei due contendenti, e lo sfidato veniva praticamente costretto a subire la contesa, pur non avendo nessuna intenzione di parteciparvi. Anche per questa ragione nell’agosto 1877 fu costituita a Roma l’Associazione della stampa periodica italiana, tra i cui scopi, oltre a quello di fare in modo che le polemiche di carattere giornalistico non eccedessero i canoni I “professionisti” dell’informazione, dal canto loro, iniziarono a rafforzare le proprie forme associative e lo stesso fecero gli editori con la fondazione, nel 1910, dell’Unione editori di giornali quotidiani. Il primo contratto collettivo di lavoro dei giornalisti italiani fu stipulato l’11 giugno 1911. Naturalmente tutte queste trasformazioni non furono esenti da costi. Le spese di gestione iniziarono a lievitare, venendo solo parzialmente compensate dalle crescenti entrate pubblicitarie e da quelle ricavate dalle vendite. In parte come conseguenza di questo stato di cose, alla fine del primo decennio del Novecento, la tendenza all’ingresso, nel mondo della stampa, di grandi gruppi industriali si accrebbe notevolmente. Questi, che stavano affrontando le prime crisi di sovrapproduzione, si trovarono, anche col sostegno bancario, a dover intraprendere nuove iniziative a tutela dei propri interessi, soprattutto attraverso adeguate pressioni a mezzo stampa sui governi. Il Novecento quindi si aprì in Italia con i tratti di un giornalismo di certo molto vicino alla politica, ma anche al servizio degli interessi delle forze economiche e finanziarie emergenti nel paese. Uno degli “investimenti” propagandistici su cui molti editori puntarono fu la guerra in Libia, dichiarata dal governo Giolitti nel 1911. La vigorosa campagna di stampa favorevole all’intervento vide protagonisti gli organi di stampa italiani a maggiore tiratura (fa eccezione “Avanti!”), accanto a giornali del fronte nazionalista e del fronte cattolico. Allo scoppio della guerra con la Turchia vennero inviati sul fronte uomini di alto livello professionale; circa un centinaio di persone, fra giornalisti, fotografi e disegnatori. Di certo, questo atteggiamento fu in parte anche il frutto dell’influenza esercitata, soprattutto su ampi settori della piccola e media borghesia, dalla retorica nazionalista. Nella convinzione che l’interesse della patria andasse in quel momento difeso con le uniche armi del mestiere, le penne, i giornalisti italiani si sentirono anche in dovere di schierarsi contro la stampa estera meno disposta ad avallare l’aggressione italiana. Il “trust” della stampa cattolica Con l’avvio del nuovo secolo una parte della stampa cattolica si propose con un nuovo atteggiamento rispetto allo stato. In particolare si pensava ad un accordo con i liberali per l’inserimento dei cattolici nel sistema politico nazionale (la traduzione storica di questo è il Patto Gentiloni del 1913). Fu grazie all’azione di Giovanni Grosoli, ideatore di un trust editoriale, che la stampa cattolica poté scendere sul terreno della stampa di informazione. Con il contributo di alcune banche cattoliche, di cui il Banco di Roma, alla Società editrice romana, Grosoli creò questo trust editoriale non direttamente dipendente dalla gerarchia e capace di competere con la grande stampa liberale. In un breve tempo il trust grosoliniano estese il suo controllo a buona parte dei maggiori quotidiani cattolici dell’epoca: “L’Avvenire”, “L’Italia”, “Corriere d’Italia”. Fu proprio la Santa Sede a diffidare di questo esperimento, determinandone anche il cattivo esito; erano giornali troppo simili a quelli liberali per essere ritenuti “accettabili”; la Ser fu colpita nuovamente dalle riserve della Santa Sede e attanagliata da pressioni finanziare venne sostituita con l’Unione editoriale italiana nel 1916, ma una situazione di profondo dissesto economico fece si che neanche l’intervento economico personale di Grosoli poté porre rimedio e anche l’Uei si sciolse nel 1918. All’interno di un panorama dominato dalla grande stampa liberale, ebbe fine in questo modo il primo massiccio e concorrenziale tentativo di sfida editoriale cattolica. I giornali dei direttori L’età giolittiana coincise con la definita consacrazione di alcuni grandi giornali nazionali: il “Corriere della Sera” di Milano, “La Stampa” di Torino e “Il Giornale d’Italia” di Roma. Le esperienze di questi giornali si alimentarono in maniera intensa del particolare carisma dei rispettivi direttori. Luigi Albertini era approdato al “Corriere della Sera” nel 1896 e ai guadagnò il titolo di direttore pubblicando un articolo durissimo in cui era biasimata la politica liberticida del governo presieduto da Pelloux. Gli editori del giornale decisero di investire in quel, a suo tempo ventinovenne, che divenne comproprietario del giornale. Albertini, in un breve tempo, seppe ritagliarsi una notevole autonomia redazionale e direzionale, sino a riuscire ad affermarsi come la vera anima del giornale. Egli diede vita ad un nucleo redazionale coeso, efficiente, meritocratico in cui poco spazio era lasciato al caso e dove ogni informazione era attentamente pesata e verificata. Il suo giornale in poco tempo divenne uno dei primi quotidiani italiani a modellarsi secondo una logica di impresa, in cui non era esclusa la realizzazione di profitti. Per via dell’autorevolezza acquisita sul campo, anche a livello internazionale il quotidiano milanese assunse rapidamente il ruolo di modello di riferimento per tutta la stampa italiana e il suo direttore quello di vero e proprio opinion leader, con un prestigio anche superiore di quello di molti uomini politici. Soprattutto l’atteggiamento di fiera opposizione al riformismo giolittiano e la sua vicinanza al modello conservatore esercitarono un notevole peso sull’opinione pubblica. A Roma “Il Giornale d’Italia” di Alberto Bergamini si propose di ripercorrere le orme del grande quotidiano milanese; sul piano politico il giornale fu particolarmente sensibile alle rivendicazioni delle classi conservatrici e alle ragioni dei proprietari terrieri nel Mezzogiorno. Il suo giornale seppe rapidamente garantirsi una certa diffusione al Centro-Sud. Era al quarto posto, dopo il “Corriere”, “La Stampa”, “Il Secolo”. Anche Giolitti ebbe modo di godere dell’appoggio di lacune testate di prestigio come “La Stampa” e “La Tribuna”, “Il Secolo” di Milano, portavoce degli ambienti democratici lombardi. Tuttavia, durante il suo terzo ministero, Giolitti dovette subire alcune defezioni di giornali a lui precedentemente favorevoli; tutte circostanze che indussero lo statista piemontese a intensificare i suoi interventi per “indirizzare” con sempre maggiore forza l’informazione, anche attraverso finanziamenti occulti. Per non parlare della consuetudine ad intercettare le conversazioni fra Albertini e la sua redazione romana, oppure quella di impartire “ordini” ai giornali tramite il Capo ufficio stampa del ministero dell’Interno di tentare di rendere difficile la vita della stampa sovversiva. Anche Salandra, che gli succedette, fece uso di fondi segreti per finanziare la stampa. Fedele a Giolitti rimase solo “La Stampa” fino alla fine della sua politica. Frassati ne era il direttore, di temperamento vigoroso e attratto dalle scienze sociali ed economiche, egli accolse al suo giornale intellettuali di valore come Francesco Saverio Nitti e Gaetano Mosca, fino a Luigi Einaudi. Impose inoltre una decisa modernizzazione tecnica e redazionale, riproponendo in qualche maniera il modello adottato da Albertini anche se su una linea meno conservatrice. La nascita della “terza pagina” Il nuovo pubblico di lettori era ormai sensibile, non solo alla caratterizzazione politica dell’informazione, ma anche alla sua completezza e precisione. Proprio in quegli anni si impose nei giornali la consuetudine della terza pagina. Il rapporto tra i quotidiani e il mondo della cultura non nacque dal nulla. Fu, al contrario, decisamente lungo e condizionato da tradizioni come quella dell’articolo risvolto; dei romanzi d’appendice; delle rassegne teatrali e bibliografiche, presenti ben prima di quella data su buona parte della stampa di informazione. Questo esperimento era stato provato con grandissimo successo da Albertini, con l’introduzione del “La Domenica del Corriere”, prodotto rivolto ad un pubblico non necessariamente elitario e ristretto. Detto questo, bisogna aggiungere che il vero iniziatore di questa tradizione fu Bergamini, che nel suo “Giornale d’Italia” concesse ben una pagina intera in occasione della prima dell’opera dannunziana Francesca da Rimini. La terza pagina si componeva generalmente dell’elzeviro e di altri spazi dedicati alla cultura e all’arte, oltre che di rassegne, recensioni, articoli di costume, commenti e polemiche tra scrittori. I giornali maggiori dell’epoca fecero a gara ad invitare i maggiori artisti dell’epoca, fra i quali si ricordano Luigi Pirandello, Grazia Deledda, Gabriele D’Annunzio, Gaetano Mosca, Umberto Saba e Corrado Alvaro. Anche se in alcuni casi non fece che ribadire l’originaria ispirazione umanistica e letteraria del giornalismo italiano, nella sua funzione di mediazione tra il mondo della cultura e il grande pubblico la terza pagina divenne dunque uno spazio interessante e aperto dove i giornalisti si improvvisarono scrittori e gli scrittori si improvvisarono giornalisti. Il primo conflitto mondiale Allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914, il fronte italiano si divise fra neutralisti e interventisti; i primi erano essenzialmente il mondo socialista, cattolico e i liberali giolittiani; i secondi erano democratici, rivoluzionari, nazionalisti e liberali, che auspicavano la fine del disegno risorgimentale con l’acquisizione delle terre irredente. Si ricorda che la campagna interventiste era animata da grandi personaggi come Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini. Uno dei primi effetti, per il mondo del giornalismo, di questo delicato passaggio fu la soppressione decretata dal governo austriaco dell’Associazione della stampa italiana di Trieste. Fra il 1914 e il 1915 fu proprio la stampa a rappresentare la principale cartina di tornasole della contrapposizione dei fronti, che videro aumentare considerevolmente le proprie tirature e coinvolsero nella loro retorica nazionalista anche diversi organi liberali come il “Corriere della Sera”, “Il Secolo”, “Il Giornale d’Italia” ecc. Laddove il neutralismo dell’”Avanti!” apparve in qualche caso incerto, rimasero in opposizione al conflitto solo alcuni giornali filo giolittiani come “La Stampa” e “La Tribuna” e un certo numero di giornali cattolici. Dal punto di vista del controllo sull’informazione, tutte le nazioni coinvolte nel conflitto attuarono sin dall’inizio vari interventi, non solo di censura sulle notizie militari, ma anche di orientamento patriottico, volto a impedire qualsiasi tentazione al disfattismo e ogni possibile attacco alla concordia nazionale. In UK, culla del quarto potere, fu insediato presso il Capo del Governo un War Propaganda Bureau e un Department of Information, con il compito di attuare una attenta politica di propaganda. In Germania invece prevalsero gli sforzi sulla censura, mentre fu sfruttato in misura inferiore il potenziale propagandistico. In Italia venne approvata una legge che approvava provvedimenti per la difesa economica e militare dello stato, che fu poi approvata dal Senato senza sollevare particolari obiezioni tra i direttori dei grandi giornali di informazione. In quei frangenti non mancarono nemmeno gli interessi finanziari di Stati stranieri per introdurre alcune testate italiane e sposare una linea a loro favorevole. Per quanto concerne le esigenze di controllo governativo sull’informazione, dopo l’ingresso dell’Italia nel conflitto, oltre alla censura sulle notizie di carattere militare, l’azione di sequestro di periodici disfattisti fu delegata ai prefetti, in stretta collaborazione con l’Ufficio stampa del ministero dell’Interno. Per la concreta azione di spoglio e segnalazione del materiale a stampa, in molti casi, furono proprio i giornalisti ad essere assoldati. La censura preventiva sulla stampa e sulle comunicazioni telegrafiche fu introdotta con una serie di decreti approvati nel 1915, in deroga a quanto previsto dall’Editto sulla stampa del 1848 e dal decreto del 1906. Essi stabilirono anche l’estromissione della magistratura dall’azione di sequestro dei periodici, che diventava prerogativa esclusiva del Capo del Governo. Soprattutto la propaganda coniugata alla censura fu dunque uno dei fatti realmente nuovi della prima guerra mondiale, parentesi in cui i controlli sull’informazione assunsero dimensioni mai viste prima e furono attuati dai governi anche attraverso il ricorso a tecniche di psicologia della comunicazione. Propaganda e guerra psicologica Con l’ingresso del paese nel conflitto, anche agli italiani fu chiesto di trasformarsi in cittadini “patriotticamente mobilitati” e “moralmente responsabili di fronte alla nazione”. Tutti i principali giornali inviarono al fronte corrispondenti di riconosciuta fama, che si allinearono senza troppe riserve alle disposizioni delle gerarchie militari. Il 23 maggio 1915, giorno in cui un decreto dispose il divieto della pubblicazione di notizie militari non comunicate da fonti ufficiali, la Fnsi, per dar prova della sua lealtà, prese formalmente atto dell’esigenza di una rigorosa militarizzazione dei corrispondenti di guerra. Il dovere di cronaca venne sostituito dalla ragione di Stato. Il quarto potere divenne la quarta arma, posta al servizio del paese. Nel 1917 venne istituito un sottosegretariato per la Propaganda all’estero e per la stampa, inserito nella struttura del ministero dell’Interno. Talvolta, l’obbligo di consegnare alla censura prefettizia le bozze delle pagine della testata costrinse i giornali a uscire anche con vistosi spazi bianchi, fatto che ebbe spesso l’effetto di ingenerare nei lettori dei sospetti sulle possibili notizie censurato, o, ancora, l’impressione che le notizie soppresse fossero le uniche veramente credibili. I resoconti di cosa davvero succedeva al fronte rimasero ben lontani dall’essere forniti alla pubblica opinione, tra cui la disinformazione la fece da padrona. Durante la guerra scomparvero dai giornali anche le notizie “interne” sugli scontri parlamentari, gli scioperi e le manifestazioni di intonazione neutralista, le condizioni sanitarie del paese, i disagi nei trasporti ecc. Il tutto come anticipazione a modi e metodi che verranno ripresi con il ventennio fascista. Solo dopo la fine del conflitto verranno abolite le misure di censura preventiva sulla stampa, fatta salva la permanenza del divieto di pubblicazione di notizie militari dalle zone ancora in guerra. Il silenzio che calò su quello che era successo e che succedeva veramente al fronte creò un grandissimo malumore fra i reduci e i combattenti, che si sentirono profondamente traditi dai capi di stato e di governo e la retorica patriottica divenne sempre più insopportabile col trascorrere dei mesi. La guerra ovviamente venne seguita dai lettori dei giornali, che andavano a ricercare ovunque le trovassero informazioni, per questo la guerra divenne anche un grosso affare per gli editori, nonostante gli inevitabili aumenti dei costi di pubblicazione e l’impoverimento dei quadri redazionali. Quanto ai vertici politici e militari, essi seppero cogliere troppo tardi il disagio psicologico dei fanti al fronte; si dovette aspettare Caporetto per assistere ad un tentativo del Comando supremo di sfruttare in maniera organica la propaganda per sollevare il morale delle truppe e deprimere quello delle truppe nemiche. Risposero a queste esigenze i cosiddetti “giornali di trincea”, espressioni periodiche nate per iniziativa dei singoli soldati che avevano spesso nomi carichi di successione e richiami continui alla battaglia; vi collaborarono anche diversi intellettuali di spicco come Giuseppe Ungaretti, Gaetano Salvemini e Piero Calamandrei. Il rafforzamento del ruolo delle grandi imprese Negli anni del conflitto molti gruppi imprenditoriali si attivarono per accrescere la propria presenza e il proprio potere di condizionamento nel settore giornalistico e in quello delle industrie tipografiche e delle agenzie di informazione. Frutto di un particolare intreccio tra politica, informazione, mondo finanziario e settore industriale fu il caso del “Popolo d’Italia”, quotidiano fondato da Benito Mussolini nel 1914 grazie a finanziamenti proveniente da ambienti socialisti francesi e da alcuni capitani dell’industria italiana come Giovanni Agnelli. della stampa italiana non ancora fascistizzata di fare appello a un soggetto che avrebbe teoricamente dovuto rappresentare il principale garante della saldezza delle istituzioni liberali. Fu Ermanno Amicucci, membro dell’Snfg, ad intensificare la sua azione per giungere in tempi brevi alla liquidazione della principale libera organizzazione di rappresentanza dei giornalisti italiani e per proporre l’approvazione del disegno di legge teso a risolvere politicamente e professionalmente il problema della stampa. Il disegno in oggetto ruotava intorno all’istituzione dell’albo nazionale dei giornalisti, con l’evidente obiettivo di bloccare e pianificare la selezione politica dei futuri professionisti. Il problema che dall’istituzione dell’albo derivava era che, i giornalisti iscritti all’albo, non avessero una adeguata preparazione al mestiere, alla quale si sarebbe posto rimedio tramite un corso di studi che formasse, al pari degli altri corsi di laurea, i futuri giornalisti e gli abilitasse all’esercizio della professione. Ovviamente solo gli iscritti all’albo poi avrebbero potuto esercitare la professione. Ovviamente la risposta dell’Fnsi non fu quella che Amicucci si aspettava, per questo decise semplicemente di togliere di mezzo un’organizzazione che era ormai diventata troppo scomoda; fece così riconoscere al Gran Consiglio del fascismo un solo sindacato per ogni specie di impresa e categoria di lavoratori. Nel 1926 le due associazioni sindacali giornalistiche si fusero in un nuovo soggetto, il Sindacato nazionale fascista dei giornalisti italiani, di cui Amicucci sarebbe divenuto segretario nazionale. Sulle basi qui sommariamente descritte si sarebbe realizzato il processo di allontanamento forzato dei giornalisti non graditi al regime; un’opera che come vedremo produrrà risultati contradditori. Vari soggetti riuscirono infatti a interferire sull’azione del sindacato, minandone le aspirazioni di radicale intransigenza. Mussolini sapeva del resto bene di non poter andare allo scontro diretto con gli editori, con il rischio soprattutto di accollarsi le spese dei giornali, muovendosi piuttosto verso la collaborazione con i medesimi. Infine, ci sarà un sostanziale appiattimenti delle richieste del fascismo, una dazio necessaria se si voleva garantire un effettivo potere di influenza sulle scelte del governo, soprattutto nel campo della politica economica. Dal canto loro anche i giornalisti risposero ai provvedimenti approvati dal governo con un atteggiamento piuttosto remissivo; alcuni certificarono anche per iscritto la propria adesione alla fede fascista. Se la si guarda bene, però, l’azione di epurazione attuata dal fascismo, nel 1927-28 non assunse insomma le dimensioni e i caratteri di intransigenza che inizialmente il sindacato di Amicucci aveva auspicato e che alcuni storici del giornalismo avrebbero descritto per il dopoguerra. Negli anni successivi, di fatto, dopo la necessaria operazione di maquillage politico, a molti giornalisti, a cui inizialmente l’iscrizione all’albo era stata negata, venne concessa. In un numero considerevole di casi i giornalisti italiani superarono dunque senza traumi insanabili l’azione moralmente avvilente del sindacato. L’ultima resistenza della grande stampa liberale Fra le poche testate che rimasero all’opposizione del fascismo vi erano “La Stampa” e il “Corriere della Sera”, troppo prestigiose perché Mussolini le potesse sopprimere con un atto di forza. Al duce era chiaro che non avrebbe potuto godere di adeguato credito, anche internazionale, fino a quando non si fosse garantito l’appoggio anche di queste ultime due. Con una sorta di infiltrazione alla successione di Albertini, Mussolini riuscì in parte a modificare l’allineamento del quotidiano, che divenne ossequiente al regime ma piuttosto asettico, capeggiato da Pietro Croci e Ugo Ojetti. La Stampa aveva deciso di modificare la sua linea, riducendo molto la parte editorialistica e circoscrivendola esclusivamente alla politica e all’economia. Nel 1926 l Fiat diede vita all’editrice La Stampa posta sotto la guida diretta di Giovanni Agnelli . Alla direzione fu chiamato Andrea Torre, uomo gradito sia all’editore sia agli ambienti governativi. Con la politica protezionistica nel 1926 aumentò il costo da due a cinque lire-oro al quintale del dazio sulle importazioni della carta, questo ovviamente fece aumentare il prezzo dei quotidiani da 25 a 30 centesimi e la successiva decisione di ridurre a un massimo di sei il numero di pagine. Il 31 ottobre del 1926 l’attentato alla vita del duce diede nuovo vigore alle rappresaglie delle squadre fasciste contro i pochi giornali e giornalisti che ancora erano riusciti a opporre una qualche resistenza al fascismo; si proseguì sopprimendo tutti i giornali non allineati. Come vedremo, alla fine, Mussolini e i suoi collaboratori tollereranno effettivamente la presenza, accanto a una stampa instransigentemente fascista, di una stampa meno allineata, nella consapevolezza che se una parte dei lettori borghesi sarebbe forse riuscita col tempo a digerire alcuni aspetti del fascismo, non avrebbe mai potuto accettare la violenza verbale di certi suoi fogli. Per questo non venne messa la “camicia nera” al Corriere della Sera e la Stampa non venne fascistizzata. L’Agenzia Stefani e il regime Con l’avvento del fascismo l’Agenzia Stefani si era posta al servizio dei governanti di turno e aveva vissuto uno sviluppo rigoglioso anche per questo. Dal punto di vista amministrativo rimase sempre formalmente indipendente, anche se il regime la sostenne con consistenti agevolazioni e sostanziosi finanziamenti. Ottenne inoltre il privilegio di intervenire, su indicazione del governo, sulle informazioni raccolte attraverso i canali e di trattarle secondo le esigenze della propaganda. La sua presenza come unica agenzia autorizzata diede indubbiamente un notevole contributo al controllo dell’informazione, sgravando per giunta l’esecutivo dall’onere di crearsi autonomamente un’organizzazione di raccolta delle notizie. Il sistema di diffusione e di raccolta delle notizie era ben poco complicato: fin dall’inizio la notizia veniva sottoposta al controllo del giornalista della Stefani come meccanismo di autocensura; poi subiva il rimaneggiamento del caso e se necessario il vaglio dell’Ufficio stampa del capo del governo. A quel punto le notizie potevano essere trasmesse, attraverso comunicati telegrafici, alle principali sedi postali ecc. Naturalmente anche dopo la rielaborazione del giornalista, a cui materialmente era affidata la stesura dell’articolo, era ancora possibile l’intervento della censura esercitata dal governo su tutte le pubblicazioni. Il “nuovo giornale fascista” Mussolini si mosse verso i giornalisti offrendo loro molti privilegi, fra i quali la costituzione di un Istituto di previdenza e un Ufficio di collocamento. Nel 1928 i giornalisti riuscirono a strappare un innovativo contratto nazionale di categoria che prevedeva, tra l’altro, un risarcimento in caso di licenziamento, la pensione garantita a sessant’anni, una congrua somma da destinare agli eredi in caso di morte prematura, una serie di agevolazioni nei casi di infortunio sul lavoro, malattia e disoccupazione. Inoltre, per riparare alla formale inadeguatezza di un sistema che da un lato prevedeva l’iscrizione all’albo per esercitare la professione e dall’altro non indicava un percorso specifico di studi o di formazione per accedervi, il segretario nazionale del sindacato diede inizio alla costruzione della Scuola fascista di giornalismo. Amicucci espresse in questo modo la intenzione di creare dei veri reporter, forgiati alla cultura del fascismo. Nonostante le reazioni poco entusiastiche per la sua proposta, il progetto venne comunque portato avanti con determinazione, ma nonostante questo la scuola di formazione ebbe un’esistenza brevissima. Essa chiuse i battenti nel 1933 dopo aver diplomato solo 60 iscritti. La cause del fallimento furono varie, fra cui i limitati finanziamenti garantiti dallo stato, il quasi inesistente insegnamento pratico delle tecniche giornalistiche, l’insufficiente preparazione dei professori e la perdita degli appoggi politici necessari. Nonostante tutto questo, la scuola offrì comunque spunti di interesse, come il fatto che accolse molte donne e il fatto che concesse il nullaosta all’iscrizione a tutti coloro che ne facessero richiesta, con la conseguenza che la gran parte dei sui 137 allievi fu costituita da giovani del tutto estranei a stretti vincoli di parentela con i giornalisti di maggiore fama e influenza. Con la chiusura della scuola, anche per l’ostracismo dell’establishment politica, il fascismo rinunciava alle sue ambizioni di creare dal basso un “giornalista nuovo”. Il fallimento della scuola e la sempre maggiore tendenza all’accentramento dei meccanismo di manipolazione dell’informazione rappresentarono due significative espressioni di questa scarsa fiducia alla fine maturata dal regime rispetto al contributo ricavabile da una nuova generazione di giornalisti e anche di una rinnovata preferenza per altre, consolidate pratiche burocratico-autoritarie, fatte di censura, finanziamenti occulti e ordini alla stampa. Mussolini in pratica si accontentò di richiedere ai giornalisti il classico “asservimento gerarchico” che era normalmente chiesto ai funzionari dello stato. Le conseguenze del “monolitismo” Nel 1930 venne varato il nuovo codice penale firmato da Alfredo Rocco, che in vari punti toccava la questione della stampa. Fu prevista, ad esempio, un ulteriore gerarchizzazione della struttura giornalistica, attraverso una norma in base a cui il direttore diventava “oggettivamente” responsabile, accanto all’autore, per ogni reato commesso a mezzo stampa. Con il successivo Testo unico di pubblica sicurezza, approvato nel 1931, fu anche riformato lo strumento del “sequestro in via amministrativa”. Per quanto nessuna delle statistiche risulti veramente attendibile, pare che durante gli anni Trenta ci fu un considerevole incremento della tiratura dei principali fogli nazionali. Le ragioni questa espansione, certamente in parte influenzata anche dalla riduzione del numero dei quotidiani pubblicati nel paese, furono varie: l’aumento del volume di pagine dedicate ad avvenimenti sportivi, l’introduzione delle edizioni pomeridiane o serali, l’espansione della popolazione e del suo grado di alfabetizzazione, con il succedersi di avvenimenti di particolare rilievo, come l’impresa coloniale italiana, la guerra di Spagna, lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Chiunque si avvicini ad un giornale pubblicato in Italia durante il regime non fatica a identificarvi uno strumento prostrato alle esigenze del potere politico, integralmente votato a coinvolgere il lettore nel clima mistico e vittorioso del fascismo. La figura del duce era costantemente esaltata, con un martellante e ripetitivo ricorso ad accostamenti, citazioni e metafore fuori di ogni misura. Atteggiamenti analoghi furono adottati da molti direttori disposti anche a perdere il favore di qualche lettore avvilito dalla pesantezza della propaganda, piuttosto che l’appoggio di un potente gerarca o peggio ancora dello stesso Mussolini. All’atto pratico tutti i giornali si adeguarono a questa linea mistificante, sforzandosi di trasmettere l’immagine di un paese idea non corrispondente a quello reale e di liberare il lettore di qualsiasi sforzo autonomo di interpretazione. Per qualsiasi quotidiano era presto diventato impossibile riuscire a interessare il pubblico grosso. Paradossalmente, proprio questa condizione impose tuttavia ai direttori una particolare verve creativa, tutta giocata nelle pagine non adibite alla propaganda, per allentare la piattezza del monolitismo. Giornali del ventennio e “modernizzazione” La Gazzetta del Popolo fu, come la gran parte della stampa durante il regime, un giornale piattamente propagandistico. Sotto molti aspetti, il suo zelo nell’adeguarsi alle esigenze politiche del fascismo fu anzi superiore a quello di altri giornali concorrenti. Al di fuori di tale ambito, essa fu tuttavia in grado di aprire la strada a una serie di iniziative piuttosto innovative, che contribuirono molto allo svecchiamento editoriale del settore. Si ispirò in modo molto poco convenzionale al cosiddetto yellow journalism; un prodotto non legato alla tradizionale impaginazione verticale, una titolazione accattivante, una notevole ricchezza e diversificazione delle rubriche, la presenza di immagini di forte impatto. Il giornale propose ai lettori gite, soggiorni estivi al mare e in montagna, ma soprattutto un elevato grado di approfondimento dei temi, in modo da soddisfare tutte e categorie sociali e, nell’ambito di queste, tutti i componenti della famiglia. In un periodo in cui i progressi nel campo delle telecomunicazioni furono davvero straordinari, il giornale torinese fu anche tra i primi a dotarsi di modernissime rotative e di una moderna stazione radiotelefonica. Soprattutto i numerosi inserti a colori e i supplementi illustrati, introdotti anche per ricavare nuovi spazi pubblicitari, rappresentarono inoltre i segnali dello sviluppo di un nuovo marketing editoriale. La modernizzazione della Gazzetta del Popolo raggiunse un’ampiezza priva di precedenti bella storia della stampa nazionale, anche grazie al suo tentativo di settimanalizzare il quotidiano. Se, insomma, Amicucci fu un giornalista ardentemente fascista e non certo animato da propensioni liberali, seppe ugualmente proporre un modello editorialmente moderno, ispirandosi alla consapevolezza che nessun quotidiano fascista avrebbe mai potuto svolgere al meglio il suo compito di “educazione politica” se non fosse stato anche sufficientemente diffuso e apprezzato dal pubblico. Il peso delle iniziative della Gazzetta del Popolo fu tale da far correre ai ripari il rivale per eccellenza, La Stampa, mentre il Corriere della Sera si rinnovò con maggiore ritardo; quest’ultimo, sotto la guida di Aldo Borelli fu rinnovato e fascistizzato con maggiore energia, ma mantenne sempre toni sobri. Solo dal 1933 si convinse ad introdurre le prime illustrazioni disegnate e alla fine del 1934 le prime fotografie prodotte in proprio. Ovviamente tutti questi ritocchi andarono ad appesantire pesantemente le casse dei vari giornali, in primis la Gazzetta del Popolo, la quale dovrà direttamente essere salvata da Mussolini stesso, che dovette inserire l’azienda proprietaria del giornale sotto il controllo dell’Iri. Nel frattempo, Giovanni Agnelli e l’ex direttore della Stampa Frassati, entrarono nel nuovo consiglio di amministrazione del giornale, circostanza da cui sarebbe nato un patto di non belligeranza tra i due quotidiani torinesi, che si sarebbe esteso successivamente a quelli milanesi e, in particolare, al Corriere della Sera e al Popolo d’Italia. Abbiamo già detto che il giornale del duce venne affidato al fratello Arnaldo, che lo avrebbe diretto fino alla sua morte nel 1931. Dal punto di vista politico esso sostenne sempre le ragioni del “centrismo” mussoliniano, rimase sulla linea delle “pubblicazioni ufficiali” senza mai manifestare una dialettica interna propria, con un livello giornalistico modesto. I principali giornalisti erano tutti fascisti devotissimi del duce e quasi inamovibili, indipendentemente dal reale valore professionale. Con l’arrivo di Giorgio Pini alla direzione, il giornale raggiunse valori ancora superiori, con punte di rilievo nel 1937, in corrispondenza dello scoppio della guerra in Spagna del ricomparire di alcuni editoriali firmati dallo stesso duce. I periodici All’omologazione corrispondente al regime si devono considerare alcune rilevanti eccezioni, rappresentante dalle sezioni di evasione e di intrattenimento di qualche quotidiano e da alcune riviste periodiche, che manifestarono tratti di relativa autonomia. Fra queste riviste vanno ricordate quelle vicine ai gruppi di giovani fascisti; basati sull’immediatezza fotografica e capaci di interessare con un’informazione leggera, questi alla paura di sbagliare, ebbe un indubbio ruolo di freno sullo spirito dell’iniziativa degli uomini del ministero. Di fronte ai rilievi dei funzionari tedeschi, i responsabili italiani si giustificarono in genere sostenendo che, al contrario di quanto avveniva in Germania, l’ultradecennale durata del regime era condizione sufficiente a garantire una “pronta” e autonoma interpretazione, da parte dei giornalisti stessi, delle direttive alla stampa. Ma era chiaro che in questo modo essi ammettevano di non essere in grado di controllare in maniera piena i meccanismo di formazione delle notizie. Vecchi metodi e nuove tecnologie Le innovazioni degli anni Venti e Trenta esercitarono una grandissima influenza sul mondo del giornalismo, permettendo di accumulare un notevole potere a chi deteneva i nuovi media. L’ispirazione di molti governi, infatti, in primis era quella di riuscire a omogeneizzare un pubblico fattosi estremamente ampio, per orientarlo ai fini della pianificazione del consenso. Adesso si potevano usare mezzi diversi da quelli tradizionali e i giornalisti iniziarono in molti casi a diventare dei veri e propri selezionatori e miscelatori di notizie recapitate al giornale attraverso le agenzie di stampa o reperite attraverso il telefono. In Europa si diffuse il modello di radio di stato, a cui fu garantito il monopolio della gestione delle frequente e dei canoni abbonamento. Come abbiamo detto, infatti, furono i regimi dittatoriali per primi ad accorgersi dell’enorme potenziale del nuovo mezzo di comunicazione, che permetteva di comunicare in tempo reale a grandi masse e consentiva un aggiornamento rapido delle informazioni. In questi anni infatti l’ascolto radiofonico conobbe una grandissima diffusione. A partire dal 1929 furono introdotti i radiogiornali e trasmessi tre volte al giorno, a cui furono affiancate le radiocronache dei discorsi mussoliniani. Anche i cinegiornali erano molto utilizzati in prospettiva propagandistica, a scopo didattico e formativo, che furono obbligatoriamente proiettati in tutti i cinema d’Italia, prima della visione di ogni film. La mobilitazione per le guerre Nei mesi che precedettero la conquista dell’Etiopia furono messe a frutto tutte le esperienze di controllo dell’informazione maturate dal regime in oltre un decennio di potere. Con lo scoppio del conflitto l’azione degli italiani fu sin dall’inizio descritta con tinte edulcorate, mentre furono totalmente taciute le violenze sommarie contro gli indigeni, le difficoltà incontrate dalle truppe di occupazione e ogni altro elemento funzionale all’immagine di una guerra giusta e moralmente giustificabile. L’impresa fu così minuziosamente preparata che in occasione dell’intervento nel secondo conflitto mondiale le strutture preposte alla propaganda non dovranno subire particolari adeguamenti. Alcune ricerche hanno ricostruito i meccanismi di confezionamento delle notizie in occasione della guerra in Africa orientale. Il 20 settembre fu costruito un ufficio stampa, competente sulle operazioni al fronte sud, che prese stanza a Mogadiscio e fu affidato al deputato fascista Domenico Pettini. All’Ufficio stampa di Asmara spettava la trasmissione a Roma di tutte le informazioni riguardanti le operazioni italiane in Etiopia. Dopo gli opportuni rimaneggiamenti le informazioni venivano inviate per telegrafo, tre volte al giorno, sotto forma di comunicati ufficiali, al ministero delle Colonie. Sulla base dei comunicati ufficiali provenienti dal ministero, successivamente rinviati per telegrafo in Africa, anche i giornalisti presenti sul luogo delle operazioni potevano infine predisporre, sotto il controllo degli uffici di Asmara e Mogadiscio, le corrispondenze ai giornali di appartenenza. I comunicati ufficiali del ministero precedevano dunque sempre le corrispondenze dal fronte, mentre il compito di divulgare l’immagine dell’Italia in Africa spettò sempre a Roma. Anche la stampa cattolica come abbiamo visto visse con elevato coinvolgimento le operazioni africane di conquista, come si deduce dalla lettura della pubblicistica dell’epoca, in cui si assistette tra l’altro a una sensibile crescita dell’utilizzo dei termini duce e fascismo, che sino ad allora non erano mai stati abusati, laddove il culto di Mussolini e del suo movimento imperava invece da un decennio sul resto dei giornali. Come per l’Etiopia, anche in Spagna, il regime mise in gioco tutto il suo potenziale attraverso stampa e propaganda, per alimentare la crociata “cattolica” contro il bolscevismo. L’eco fu però molto inferiore rispetto a quello dell’Africa e anche gli inviati in Spagna furono molti meno, a significare che, combattere la guerra per qualcun altro non eguagliava il patriottismo della conquista di un proprio e personale “impero” . I giornali e la campagna antisemitica Alla fine degli anni Trenta, dopo l’approvazione delle leggi razziali, una delle principali missioni che i giornalisti italiani furono chiamati a interpretare fu quella di convincere i cittadini non solo dell’esistenza, ma anche della rilevanza di un problema ebraico. Le politiche di stampo razziale furono opportunamente sostenute dalla stampa. Più che la convinzione dell’antisemitismo, al contrario di quanto succedeva in Germania, in Italia corrispondeva ad un contesto sociale ed economico interno sempre meno rassicurante, che necessitava di un problema capace di mobilitare l’opinione pubblica e di identificare un nuovo nemico del paese su cui dirigere rancori e insoddisfazioni. Sugli organi di stampa nazionale si accese una vera e propria corsa alla produzione di articoli antisemiti, per rendere partecipi i lettori dell’avvenuto mutamento di prospettive. Mussolini sentì egli stesso l’esigenza di far sentire nuovamente la sua voce con un articolo, non firmato, pubblicato su “Il Popolo d’Italia”. Il 6 ottobre si svolse la seduta del Gran Consiglio del fascismo in cui fu dato l’avallo politico alla persecuzione contro gli ebrei, che fu salutata con entusiasmo e partecipazione da tutta la stampa nazionale. In questo clima di accesa mobilitazione tra il settembre e il novembre del 1938 si aggiunse alla configurazione una legislazione razziale articolata e compiuta. All’atto pratico un istituto indipendente dal Minculpop, l’Ufficio studi e propaganda della razza, si fece carico di condurre su tutto il fronte la battaglia giornalistica antisemita, imponendo la soppressione della stampa ebraica e sionista e imponendo ai giornalisti e scritto ebrei di pubblicare sui giornali nazionali. Vennero radiati dall’albo e si proseguì con l’epurazione di ben 60 direttori ebrei. Abbastanza differente fu, nel complesso, l’approccio adottato dalla stampa cattolica. In particolare, l’estensione delle disposizioni discriminatorie ai matrimoni misti fu salutata con varie declinazioni, ma nel complesso con sostanziale freddezza. Dal crollo di Mussolini agli anni di piombo L’ultima guerra fascista Il secondo conflitto mondiale fu un evento caratterizzato da un’enorme copertura mediatica e, per il regime fascista, una nuova occasione per mettere a frutto le tecniche di controllo e di manipolazione dell’informazione sperimentate durante gli anni Trenta e affinate durante le guerre d’Africa e di Spagna. Lo sforzo propagandistico coinvolse sia la stampa sia la radio; quest’ultima soprattutto conobbe le radio clandestine, come Radio Londra e Radio Mosca. Trascorso il primo anno di guerra, quello di “non belligeranza”, la stampa fu richiamata al proprio ruolo di strumento al servizio dei supremi interessi della nazione; tutti gli organi di stampa furono da quel momento sollecitati a un’adeguata esaltazione delle strategie politiche e militari italiane. Nonostante tutto questo, però, l’impalcatura propagandistica messa in piedi dal regime cadde in uno stato di crisi grave. In particolare l’aggravarsi della crisi economica, sociale e militare diede avvio a quel corto circuito che spesso caratterizza i sistemi di informazione illiberali, dove gli sforzi richiesti alla popolazione finiscono per soverchiare le forze di resistenza e di sopportazione. Il giornalismo della Repubblica sociale italiana Dopo la convulsa notte del 25 luglio 1943, impose a Mussolini l’abbandono della guida del regime fascista, il maggiore quotidiano italiano, il Corriere della Sera, nel tentare di rimuovere i sensi di colpa per aver contribuito ad alimentare per un ventennio un clima di menzogna, espresse ai suoi lettori il disagio che aveva vissuto per tanto tempo, quando i suoi redattori si erano visti “dettare” le notizie da un ministero. Ovviamente, fu solo una brevissima parentesi. Ben presto questi si sarebbero dovuto di nuovo adattare ad una totale situazione di sottomissione, stavolta per mano anche tedesca. Con la Repubblica di Salò, il governo riprese immediatamente una posizione centrale nelle strategie di ricerca del consenso. Sotto l’aspetto organizzativo, il Minculpop fu ricostituito dal giovane e zelante ministro Fernando Mezzasoma attraverso una serie di decreti tesi a riorganizzare e snellire la vecchia struttura. Nell’agosto 1944l’apparato fu completato con la costituzione di un Comitato consultivo per la propaganda, formato da cinque giornalisti di comprovata fama. Nelle intenzioni del ministero, i direttori avrebbero dovuto diventare delle figure fondamentali, soprattutto per “responsabilizzare” i giornalisti. All’atto pratico, l’organizzazione messa in piedi dalla Rsi, meno complessa e meglio gestibile rispetto a quella del ventennio, dovette sin dall’inizio scontrarsi con problemi di non poco conto: la maggior parte delle notizie giungeva dalla Stefani, che si muoveva tra mille incertezze legate alle cattive comunicazioni e con un notevole dissesto finanziario; i giornalisti rimasti fedeli a Mussolini si erano spaccati, fra chi sosteneva l’esigenza di ripristinare i metodi adottati prima del crollo del regime e chi si faceva portavoce di un certo rinnovamento politico. Mussolini, in questo contesto, fu costretto a reintrodurre la censura preventiva su tutte le pubblicazioni periodiche. All’interno dell’apparato politico-amministrativo della Rsi, anche il settore della stampa e della propaganda non fu per nulla immune dai pesanti controlli tedeschi; essi avevano, ad esempio, l’esclusiva prerogativa di stabilire quali notizie rientrassero nella categoria di interesse militare, con un conseguente controllo su quest’ultimo che era sottratto all’autorità italiana. Gli occupanti, oltre al diritto di censura, si riservavano quello di ordinare le pubblicazioni di articoli e di emanare direttive sulla tiratura dei giornali. I vertici tedeschi attivarono anche un’azione autonoma di propaganda, che si espresse principalmente attraverso tre canali: i Propaganda Staffel, l’Ufficio stampa dell’ambasciata tedesca, una rete di fiduciari e di informatori alle dipendenze dell’ambasciatore Rudolf Von Rahn. Nel complesso, nonostante i consistenti sforzi profusi, il neo fascismo repubblicano non raggiunse mai le condizioni di dare vita a un’azione pienamente autonoma e all’altezza delle aspettative mussoliniane; troppe inefficienze tecnico-amministrative e ingerenze dall’esterno. L’ora delle scelte: un caso emblematico Dopo l’8 settembre e la successiva nascita della Rsi le defezioni erano state decisamente numerose, come anche gli allontanamenti forzati di chi si era maggiormente esposto, in senso “antifascista”, durante i 45 giorni. Furono ragioni di coerenza, alle quali si aggiunsero valutazioni di tipo opportunistico, di fronte alla possibilità di lanciarsi in una sfida che sembrava destinata al fallimento. Il nuovo direttore del Corriere della Sera, Amicucci, al suo arrivo, ebbe subito chiara questa sensazione, per questo fece inviare delle raccomandate allo scopo di convincere i recalcitranti a tornare nei ranghi. Essi ormai avevano la predisposizione a “deresponsabilizzare” il proprio operato e alcune delle risposte di questi giornalisti appaiono piuttosto eloquenti: fra chi richiamava la necessità di passare del tempo con la famiglia, di sistemare un genitore malato, o ancora di sistemare la propria salute, era chiaro che nessuno voleva tornare. Alcuni di questi giornalisti, come Vittorio Brocchieri finirono in seguito per collaborare con il movimento resistenziale, altri, come Arturo Lanocita, per scrivere su organi della stampa clandestina anti fascista. Vi fu comprensibilmente anche chi, agli inviti di Amicucci, ritenne conveniente non rispondere per nulla. Anche un intellettuale del calibro di Giovanni Gentile venne invitato a collaborare al giornale con almeno un paio di articoli a settimana, ma all’atto pratico la sua collaborazione fu tuttavia limitatissima, o meglio, limitata ad un unico articolo per fare appello alla concordia degli animi, che fu sufficiente a scatenare gli attacchi dei fascisti intransigenti come Farinacci. Pessimi esiti anche per il tentativo, alla morte di Gentile, da parte di Amicucci, di pubblicare un articolo in suo onore. Le zone liberate Con il termine “stampa della resistenza” si intende generalmente indicare quel vasto arcipelago di pubblicazioni, dal volantino, al giornale della brigata, diffuso clandestinamente in Italia centro-settentrionale nel biennio 1943-45, allo scopo di diffondere i messaggi “operativi, politici, propagandistici, morali” del fronte partigiano. Questa si propose essenzialmente di alimentare il senso identitario del fronte anti fascista e di farsi strumento di pedagogia democratica. Nelle porzioni terra liberate dagli americani ci fu un parziale ritorno ad una stampa, non proprio libera, ma libera sicuramente dalle incursioni del Minculpop, prima in Sicilia, poi in Calabria, fino a che “La Gazzetta del Mezzogiorno” non diventò il giornale ufficioso del governo Badoglio. Non si parlava ancora di stampa propriamente libera. Gli americani, attraverso il Psychological Warfare Branch (PWB), la gestivano anzi in maniera diretta, con strumenti come la censura, l’obbligo di autorizzazione, la distribuzione controllata della carta e dell’inchiostro. Solo con l’armistizio lungo tale misura ebbe una parziale attenuazione. All’inizio del 1944 i comandi alleati allentarono ulteriormente i controlli, trasferendo al governo italiano del Sud la prerogativa di autorizzare la pubblicazione di quotidiani e periodici. La liberazione di Roma del giugno 1944 rappresentò un passaggio fondamentale per la riorganizzazione del settore della stampa e anche quella del sistema radiofonico, che passò da essere Eiar a Radio audizioni italiane Spa (RAI), titolare del monopolio del servizio. Alla progressiva liberazione del paese iniziarono a nascere varie testate destinate ad un lungo futuro, mentre, con la liberazione di tutto il territorio nazionale, uno dei principali problemi da affrontare divenne quello legato alla permanenza in vita di alcune testate settentrionali di lungo corso e di notevole prestigio, come il Corriere e la Stampa, accusate di essere state collaborazioniste, ma decisamente gradite agli alleati. Come vedremo, alla fine a prevalere saranno le esigenze dei vecchi editori di tornare protagonisti e quelle degli angloamericani di non lasciare la stampa nelle mani esclusive degli organi dei partiti del Cln. Dopo il 25 aprile Il 25 aprile 1945 fu interpretato dal mondo del giornalismo e della cultura come un vero e proprio spartiacque, un punto di frattura piuttosto netto tra un prima e un dopo. Nel campo della stampa periodica si avviarono di trasformazione. Un discorso a parte va fatto per l’organo della Santa Sede, l’Osservatore Romano, che grazie ad alcuni direttori di lungo corso, si propose con il taglio misurato che aveva caratterizzato la sua quasi secolare storia, sforzandosi di interpretare i mutamenti di linea e di ruolo della Chiesa nel mondo contemporaneo. Per quanto concerne l’organo della DC, il Popolo, nonostante il prestigio di alcuni direttori come Aldo Moro o Ettore Bernabei, esso non raggiunse mai cifre elevate di tiratura, risentendo della linea di un partito interessato non tanto a sostenere una propria stampa, quanto a controllare i media su larga diffusione. La DC aveva del resto rapidamente assunto il potere, aveva suoi uomini nelle strutture chiave dello Stato, compresi i settori dell’istruzione e dell’informazione, orientava vari organi di stampa e non aveva particolari esigenze di avere voci aggiuntive che sostenessero la sua politica. La stagione del “Giorno” Il 1953 fu un anno significativo per il paese; la fine dell’era degasperiana coincise con lo svolgimento delle elezioni politiche, i un clima surriscaldato dalle polemiche per l’approvazione della “legge truffa” e dal timore di complotti e intrighi. Sia il governo sia la magistratura si dimostrarono in quelle fasi particolarmente vigili nei confronti della stampa. Specificatamente nel campo della stampa quotidiana, dopo la diffusione nel 1956 del rapporto Krusciov sui crimi di Stalin, i moti in Polonia e in Ungheria e il distacco di molti intellettuali e giornalisti dal Pci, si assistette alla crisi di vari giornali comunisti e a quella temporanea dell’Unità. Il 1956 fu caratterizzato da un passaggio di un certo interesse anche per la stampa di area progressista; la nascita, il 21 aprile, del quotidiano “Il Giorno”, fondato da Cino Del Duca e Enrico Mattei, presidente dell’Eni. Seguiva il modello del “Daily Express” londinese, con la terza pagina abolita, gli articoli culturali erano ora pubblicati nell’inserto, che proponeva anche un’intera pagina di fumetti e di giochi. Un’altra sezione si occupava dell’economia e della finanza. I testi erano brevi, accessibili, efficaci, vivaci ai problemi della gente e votati a fare breccia in quella parte di pubblico che era favorevole all’esperimento del centro-sinistra, a un crescente intervento dello stato in economia e all’apertura di una stagione di riforme sociali ed economiche. Nel 1959 si diffuse la notizia che il giornale ricevesse finanziamenti dall’Eni, vale a dire dallo stato. La direzione fu assunta dell’ex partigiano Italo Pietra, che impresse al giornale un ulteriore radicale rinnovamento, aggiungendo nuovi inserti settimanali, avviando edizioni locali, aprendo la redazione a giornalisti di valore come Giorgio Bocca e ad artisti e intellettuali come Pasolini e Calvino. Questo ampio e costoso piano di rinnovamento produsse un aumento delle tirature, tale da indurre anche il concittadino Corriere della Sera a correre ai ripari portando a termino uno svecchiamento editoriale e di investimento sugli uomini. Per quanto riguarda la radio, anche in questo campo, attraverso la direzione generale di Pubblica sicurezza, il ministero dell’Interno si mosse sin dall’inizio con fermezza per garantire una piena omologazione alle direttive governative e per controllare e contrastare tutte le altre trasmissioni, non autorizzate, su territorio. L’inizio dell’era della televisione Lo stato estese il suo monopolio sulla televisione immediata, come fece esattamente con la radio. Nel 1954 fu messo in onda il programma di apertura delle trasmissioni; alle 20 e 45 fu trasmesso il telegiornale, a sancire lo stretto rapporto che, da quel momento, avrebbe dovuto legare il mezzo televisivo all’informazione. In accordo alla DC, furono immediatamente banditi dalla programmazione temi “delicati” come la prostituzione, parole come divorzio e qualsiasi altra espressione poco funzionale alla conservazione dell’ordine sociale. I risultati inevitabili furono che quella della televisione era un’informazione ingessata e paludata, clericale, conformista e filoamericana. Dal punto di vista del bacino di utenza, l’elevata audience del telegiornale delle 20 e 30 e il successo di alcune trasmissioni, come Lascia o raddoppia ?, resero nel giro di alcuni anni la televisione un oggetto di consumo di massa e la principale fonte di informazione per quelle famiglie in cui normalmente non si leggevano i quotidiani. La pagina politica era affidata a giornalisti di fiducia e, anche quando nel 1961 fu attivata una seconda rete nazionale Rai2, l’appuntamento della sera con l’informazione rimase una prerogativa della prima rete. Come, tuttavia, era avvenuto con la stampa post-unitaria, anche la televisione fu ben presto identificata come uno strumento insidioso, da tenere costantemente a bada e da usare con cautela. Nel 1961 alla direzione generale della Rai venne chiamato Stefano Bernabei che promosse una maggiore differenziazione dei programmi, una qualche apertura verso gli intellettuali di area non governativa, un rafforzamento della funzione di intrattenimento della televisione. Politicamente egli mantenne tuttavia l’asse dell’azienda ancora saldamente ancorato alla DC. Sul piano tecnico, poi, presero il via, nel 1960, i collegamenti via satellite, che diventarono regolari dopo la prima messa in orbita del primo satellite per le telecomunicazioni. Con le elezioni amministrative del 1960 fu anche inaugurata la stagione delle tribune elettorali e politiche, che permisero ai telespettatori di sentir parlare dal vivo i leader della maggioranza e dell’opposizione. Durante gli anni Sessanta il picco massimo di interesse per un avvenimento televisivo fu toccato in occasione dello sbarco degli americani sulla luna, nel 1969. Con l’affermarsi del nuovo mezzo prese progressivamente corpo un nuovo mito giornalistico: quello secondo cui il telegiornale, offrendo la prova visiva dei fatti, non poteva mentire agli spettatori. Di qui, soprattutto all’interno del mondo politico, anche la presunzione dell’onnipotenza del piccolo schermo, di un suo straordinario potere di influenzare un pubblico immaginato come una massa indistinta e sostanzialmente inerte di persone. La conseguenza che il successo della televisione ebbe sulle vendite dei giornali è intuitiva, così come lo fu la scoperta della radio; tuttavia, storico e sociologi della comunicazione hanno spesso sottolineato che raramente un media ha saputo rimuoverne completamente un altro. In questo senso, infatti, la crisi fu attuti anche dal sensibile miglioramento dell’informazione dei giornali; con maggiore diversificazione delle proposte, toni vivaci e colloquiali per un quadro nazionale e internazionale che i nuovi media tendono sempre a semplificare. All’interno della nuova articolazione dei media, anche il lavoro giornalistico conobbe inevitabilmente un’evoluzione; la riduzione dei costi di ottenere notizie rese molto meno agevole il lavoro di professionisti ormai sommersi da una marea di notizie, con le agenzie di stampa che iniziarono ad invadere le redazioni. I un paese in cui raramente le vendite erano riuscite a compensare le spese di pubblicazione dei giornali, proprio l’attuazione di nuove sinergie e la crescente industrializzazione dell’informazione iniziarono a diventare scelte abituali per molti editori, i quali, con i propri prodotti, riuscirono a garantirsi l’accesso a un arco culturale e politico di lettori piuttosto ampio. La “questione” dell’albo professionale Nel secondo dopoguerra e per una buona parte degli anni ’50, una parte della legislazione fascista sulla stampa non fu rimossa. Nel Codice penale furono anzi conservate diverse norme restrittive, a partire da quelle sulla rivelazione di notizie vietate, sul segreto d’ufficio, sulle indagini condotte in maniera autonoma dai giornalisti, sulla diffamazione. Solo con la legge n.69 del 3 febbraio 1963, che istituiva formalmente l’ordine dei giornalisti, si pose fine ad alcune disposizioni del tutto incompatibili, con un regime di democrazia. Questa legge mantenne l’obbligo di iscrizione all’alba per l’esercizio della professione, nonostante quelli che ritenevano che collidesse con l’articolo 21 della Costituzione. Allora, la Corte Costituzionale si pronunciò, affermando che l’albo sarebbe stato lesivo dei diritti costituzionali solo nel caso in cui non avesse consentito a soggetti diversi dagli iscritti di manifestare liberamente il pensiero a mezzo stampa; cosa non vera perché l’art.35 della legge permetteva a chiunque di scrivere su un giornale, senza obbligo di iscrizione all’albo, per un periodo fino a due anni. Quello che finì per essere la legge n.69 fu un perpetuarsi della vecchia, ormai consolidata, forma di giornalismo italiano, dove al primo posto, per il mestiere e per il successo di esso contano le relazioni politiche con uomini influenti, poi i vincoli parentali e di amicizia, i buoni rapporti con il direttore, i ruoli di portavoce di interessi o uomini potenti. Quanto al valore professionale, esso era insignificante e relegato all’ultimo posto. Si tratta, e occorre osservarlo, di caratteri che hanno qualificato quasi esclusivamente il giornalismo italiano, non quello degli altri. Anzi, nel corso dei decenni successivi alla fine della guerra in moltissimi paesi furono approvati codici etici per garantire l’accesso al mestiere di giornalista a persone professionalmente degne. L’Unesco approvò il Decalogo di deontologia giornalistica, documento che in parte la Corte di Cassazione provò ad imitare definendo una serie di regole di analogo tenore, a cui tutti i giornalisti avrebbero dovuto conformarsi. Giornali e giornalismo alla vigilia della contestazione Il consumo della televisione in Italia, se all’inizio era stato selettivo, negli anni Settanta iniziò a diventare quasi esclusivamente privato e domestico. Sotto il profilo politico, poi, stava succedendo qualcosa che avrebbe posto il mondo del giornalismo e dell’informazione sul banco degli imputati, come strumento insensibile alle esigenze delle classi inferiori e piuttosto al servizio del “padrone”. Da qui, questi ultimi, iniziarono a stare più attenti, in un periodo di accese contestazioni, ai problemi sociali e alla “controinformazione”. Mentre diverse espressioni delle forze politiche di sinistra sembravano potere continuare a ribadire il loro ruolo non marginale, il Pci, a partire dall’inizio degli anni ’70 conobbe un trend di crescita piuttosto significativo, tale da destare un certo allarme nel governo e tra gli stessi alleati occidentali. Il picco di consenso elettorale ci fu nel 1976, quando il partito di Enrico Berlinguer raccolse il 34,4% dei voti. Con l’avvio del primo governo organico di centro- sinistra, la grande stampa cosiddetta indipendente si pose lungo una linea oscillante tra l’incerto e l’ostile. Solo il Giorno, come abbiamo visto, scelse la linea del sostegno aperto. Nel 1963, come abbiamo visto, i giornalisti avevano ottenuto la costituzione dell’ordine professionale e tale circostanza era andata ad intaccare il potere assoluto degli editori sulla scelta dei collaboratori, a maggior ragione, per il direttore e il vicedirettore responsabile di una testata, di essere iscritto all’albo dei professionisti. La stampa cattolica decise di ridare forma al rapporto fra Chiesa e giornalismo, emancipandosi dal ruolo di strumento di formazione strettamente sottoposto al controllo della gerarchia clericale. La stessa Santa Sede decise di dotarsi autonomamente di nuovi strumenti, attivando un vero e proprio ufficio stampa nel 1962. Il nuovo direttore dell’Osservatore Romano, dopo la lunghissima direzione di Giuseppe Dalla Torre, passò a Raimondo Manzini, con il quale il giornale raggiunse un atteggiamento sensibile alle esigenze di cambiamento provenienti dal laicato e da una parte della gerarchia, sostenendo l’esperimento del centro-sinistra nella versione auspicata da Aldo Moro. Sul fronte delle sinistre, dopo i negativi contraccolpi seguiti dal rapporto Krusciov, soprattutto l’Unità si era distinta per uno sforzo, grazie all’appoggio al giornale della grande industria. Un nuovo piano di rilancio si era posto l’obiettivo della trasformazione del quotidiano di un vero organo d’informazione. Tuttavia, con una recessione economica strisciante chiusero molti quotidiani, compreso il Sole e il 24 Ore, ad oggi uniti insieme. Contestualmente si intensificò il processo di concentrazione editoriale, legato alle esigenze degli imprenditori di rafforzare il proprio potere di influenza a livello politico. Nel 1966 il petroliere e industriale dello zucchero Attilio Monti mise le mani sul Resto del Carlino, la Nazione e il Giornale d’Italia che aveva acquistato Confindustria. Queste e altre repentine scalate causarono una certa pressione a livello politico, da cui per altro non prese forma alcuna seria iniziativa antitrust. Inoltre, i giornali continuarono ad essere sottoposti all’occhiuta vigilanza del governo, come dal ministero dell’interno e dalla presidenza del Consiglio, dagli organi di polizia e dai carabinieri. Tutte circostanze queste che ci permettono di dedurre che, dentro ogni redazione, c’era almeno un giornalista o un altro lavoratore disposto a girare le informazioni alla questura o alla prefettura. Professionisti sotto tiro Negli anni compresi fra il 1968 e il 1969 l’Italia fu attraversata da tensioni molto forti. Mentre alle proteste studentesche si affiancavano le lotte dei lavoratori per i rinnovi contrattuali e il miglioramento delle condizioni di lavoro, il 12 dicembre in piazza Fontana a Roma nel 1969, una bomba di matrice neofascista collocata nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura causò 16 morti e 88 feriti, inaugurando la cosiddetta “strategia della tensione”. Gli apparati dello Stato e i mezzi di comunicazione da esso influenzati furono accusati di alterare le regole del gioco e di condizionare la convivenza democratica. Ci fu una crescente deriva poliziesca, un consistente ampliamento dei poteri discrezionali degli organi statuali, un ricorso talvolta spregiudicato e poco limpido al contributo dei servizi segreti. Il mondo giornalistico, ancora una volta, emergeva come spalla al potere politico, ben lontano dall’obiettivo di informare, piacere o vendere e piuttosto interessato a garantire singoli imprenditori e gruppi di potere un peso e un’influenza a livello politico. Nacque l’articolo di fondo; un pezzo tutto impostato per piacere agli “addetti ai lavori” o, al massimo, a quei particolari lettori ansiosi di trovare, durante la lettura, puntuali conferme alle proprie tesi o ai propri pregiudizi. Secondo Enzo Forcella, fra giornalisti e uomini politici vigeva un rapporto di dipendenza e di interdipendenza, che si esprimeva in una sorta di recita, in cui si mescolavano l’esigenza di non scontentare i protagonisti della politica e di reggere alle pressioni che il rapporto quotidiano con il mondo politico imponeva. Tutte le volte che un giornalista derogava queste regole, finiva per cadere nella trappola delle smentite ufficiali dei protagonisti coinvolti o nel loro pesante ostracismo (l’esempio è quello di uno dei redattori di Scalfari, che aveva intervistato un componente del partito socialista e che dopo l’uscita dell’articolo aveva smentito tutto). Per queste e altre ragioni, stava iniziando ad affermarsi una controinformazione, senza vincoli di conformismo, consumismo o semplice manipolazione; anche all’interno della Federazione nazionale della stampa presero vita rivendicazioni di una meno stretta dipendenza dagli editori, una maggiore completezza dell’informazione, un diverso ruolo nella gestione dei giornali e un rafforzamento dei comitati di redazione. Insomma, professionisti dell’informazione si proposero di superare il modello di giornalista al servizio del potere o da esso largamente influenzabile. Dopo lo scandalo di Watergate, sul finire degli anni Settanta i giornalisti italiani si trovarono a doversi confrontare con un’altra terribile sfida: molti di loro divennero oggetto della violenza terroristica delle Brigate Rosse, che li identificavano come servi del potere e dello stato (Indro Montanelli, Carlo Casalegno, Emilio Rossi, Guido Passalacqua furono vittime di questo periodo). Per quanto riguarda la televisione, la programmazione, per tutti gli anni Settanta, rimase sotto stretto controllo del governo, e, di riflesso, del partito della maggioranza. Tra i vari modelli possibili di televisione pubblica, in Italia, sin dall’inizio, era prevalso il modello governativo, col tempo parzialmente mutato in quella della rappresentanza proporzionale e, in sostanza, della lottizzazione partitica. Sin dal 1960, come abbiamo visto, era nata la Tribuna elettorale, che aveva dato modo per la prima volta di vedere dal vivo i volti dei leader della maggioranza e dell’opposizione. Ma non per questo erano venute meno le rimostranze dei gruppi politici e sindacali di minoranza, legate alla scarsa partecipazione alle decisioni sulla programmazione televisiva e all’esclusione delle trasmissioni di tema politico. Mente nell’ottobre del 1961 l’approdo di Enzo Biagi al Tg1 aveva favorito una leggera attenuazione del grigiore filo governativo e filo istituzionale, il 4 novembre era nato il secondo canale Rai, con un suo telegiornale, affidato a Ugo Zatterin, con un tono meno compassato rispetto al fratello e una certa apertura a temi sociali e del lavoro. Dal gennaio 1963 era stato nel frattempo inserito in una programmazione della domenica sera il capostipite di tutti i settimanali giornalistici televisivi, Tv7, finestra sui fatti della settimana e strumento di approfondimento in campo sociale e politico. Sotto il profilo politico, solo a partire dalla legge n.103 del 1975 la caratterizzazione della Rai come latifondo democristiano fu concretamente scalfita. La riforma sottrasse infatti al governo una parte del suo potere di controllo, trasferendolo al Parlamento. Fu fondata una nuova rete, Raitre, affidata a Giuseppe Rossini, anche allo scopo di riequilibrare il peso fra i vari partiti e di dare maggiore spazio alle redazioni dei giornali. Ciò permise lo sviluppo di un certo pluralismo, dove il Tg1 rimase di fatto un feudo esclusivo della DC, il Tg2 divenne voce dell’arena riformista del Psi e il Tg3 il ricettacolo di espressioni politiche, con in testa il Pci, e del lavoro delle varie redazioni regionali. Gli sviluppi del nuovo mezzo In un contesto di gravi lacune normative, a partire dagli anni Settanta iniziava a diffondersi il fenomeno delle “radio libere”, a cui si affiancarono ben presto alcune radio politicamente e socialmente “militanti”, legate soprattutto ai movimenti. La prerogativa di essere avviate con un finanziamento modesto di garantire agli inserzionisti sbocchi pubblicitari meno costosi rispetto alle emittenti pubbliche, rese queste prime radio private anche interessanti strumenti di espressione di un nuovo localismo, inteso come diverso rapporto con le persone e il territorio. Su un piano strettamente tecnico, soprattutto lo sviluppo di un diverso modo di fare informazione e di ridurre parzialmente il gap tra le piccole emittenti private e la televisione pubblica. Tutte queste circostanze iniziarono ad erodere il tradizionale primato Rai, ormai sottoposta agli umori di un pubblico sempre meno disponibile ad annoiarsi di fronte a una trasmissione poco brillante. Di qui una notevole evoluzione sul piano della cultura e delle strategie di comunicazione, che produsse anche un progressivo superamento di alcuni caratteri tipici della televisione di stato. Con l’avvento del mercato, la televisione non poteva del resto continuare a rimanere solo un mezzo atto a creare consenso, a educare i cittadini, a tutelare gli interessi delle maggioranze al potere. I media iniziarono a condizionare i modi e i tempi della politica, divenendo il luogo in cui nuovi interessi cresciuti dal basso si rappresentavano e si articolavano. In campo radiofonico, i primi sorpassi a livello di ascolti tra radio di stato e radio private giunsero nel 1987. Da allora si alternarono momenti di espansione ad altri di contrazione per il settore privato, con un primato Rai destinato a rafforzarsi soprattutto in occasione di eventi a lunga durata e di grande impatto emotivo, come la Guerra del Golfo. Solo nel luglio 1976 la sentenza n.202 della Corte Costituzionale infranse il monopolio Rai, legalizzando le trasmissioni televisive via etere delle reti private a livello locale. A derivarne fu l’immediato interesse per la televisione di alcuni editori di rilievo, dalle cui iniziative nacquero i primi grandi network privati. Il vero astro nascente della televisione commerciale fu tuttavia l’imprenditore Silvio Berlusconi, il quale, dopo aver accumulato un capitale tramite azioni immobiliari, aveva fatto nascere Telemilano e poi Telemilano58. Berlusconi, acquisendo stazioni locali, resi di fatto la sua rete una televisione nazionale, aggirando i divieti legislativi con l’escamotage di mettere in onda contemporaneamente videocassette contenti i medesimi programmi. Riuscì a sbaragliare la concorrenza fino ad espandere enormemente il suo bacino di pubblico, acquistando Italia1 e Retequattro e giungendo a possedere ben tre televisioni nazionali. Una specifica legge, la n.10 del 4 febbraio 1985, approvata dal governo Craxi, aveva infatti nel frattempo reso legale una condizione di cui il divieto di trasmissione fuori dall’ambito locale era stato sistematicamente eluso. L’espansione della stampa femminile Nel ventennio fascista abbiamo conosciuto un dato abbastanza anomalo, come l’iscrizione di una cinquantina di donne alla Scuola di giornalismo e all’albo professionale. Nello specifico, mentre in una parte della stampa femminile del ventennio non mancarono i dovuti riferimenti al modello di donna prediletto, madre esemplare e casalinga, in un’altra i temi dominanti furono legati alla donna sportiva, che praticava lo sci o la vela, della donna letterata, della donna consumatrice di moda. Anche dopo la Liberazione la dicotomia tra i due modelli di donna, madre di famiglia e padrona di casa oppure persona in cerca di riscatto sociale, si ripropose. Il primo fu diffuso soprattutto nella giornalistica cattolica; il secondo fu principalmente riprodotto da alcune testate, peraltro a basso diffusione, vicine ai partiti della sinistra. Alla fine degli anni Settanta l’interesse della grande editoria per l’universo femminile divenne decisamente ampio e diffuso; ne furono espressioni Cosmopolitan di Mondadori o Milleidee di Rizzoli. Giornalismo e stampa sportiva Tra gli elementi che hanno storicamente caratterizzato la vicenda del giornalismo italiano novecentesco, uno si distingue in maniera particolare. Si tratta dell’interesse per l’informazione sportiva, comprovato dalla presenza anche a partire dal secondo dopoguerra di ben tre quotidiani sportivi con tirature pari e talvolta superiori a quelle dei maggiori quotidiani nazionali. Fu proprio sotto il fascismo che lo sport seppe ritagliarsi sui media uno spazio davvero ampio, anche per via di alcuni suoi contenuti facilmente sfruttabili a livello propagandistico. Durante il fascismo e anche dopo il suo crollo, l’interesse per lo sport non cessò. Il primo quotidiano del settore rimase la Gazzetta dello Sport, nata nel 1896, essa si era subito dimostrata attenta, sin dai suoi albori, a tutti gli sport praticati in Italia, anche se il suo interesse per il principale dell’epoca, il ciclismo, non tardò a mostrarsi. Nel 1899 assunse la paginazione rosa, che ne rimarrà tratto distintivo. La definitiva consacrazione si era avuta durante gli anni Venti, quando il tifo calcistico, da essa stabilmente alimentato, si diffuse rapidamente in Italia. Dopo la seconda guerra mondiale, il giornale dovette subire una breve sospensione. Con gli anni Settanta, con il progressivo affermarsi della televisione, la Gazzetta decise di adottare un diverso modo di comunicare le notizie. A farsi portabandiera di questa tendenza fu Gino Palumbo, propugnatore del cosiddetto “dietro le quinte”, per evidenziare sempre nuove storia e situazioni alle spalle degli sportivi. Piuttosto differente fu, nel complesso, la vicenda del Corriere dello Sport. Il giornale, con l’esplicito intento di non entrare in competizione con la Gazzetta, decise sin dall’inizio di dedicarsi all’interesse per il pugilato. Il boom fatto registrare da questo settore di stampa, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, fu tale da indurre anche i quotidiani di informazione ad ampliare il proprio interesse per lo sport e ad alimentare una crescente spettacolarizzazione dei temi. Gli anni Ottanta Gli anni Ottanta si aprirono inaspettatamente, per il mondo della carta stampata, all’insegna dell’ottimismo. Soprattutto i rapidissimi sviluppi delle nuove tecnologie, ridussero in maniera consistente i tempi e i costi di produzione, anche se provocarono le resistenze di chi temeva di dover pagare il prezzo di quelle trasformazioni. L’ingresso in redazione dei computer ebbe l’effetto di ridisegnare i ruoli e figure professionali, permettendo la compilazione dio un quotidiano con il contributo di pochissime persone. Mentre i minori costi di gestione iniziarono a consentire un’espansione delle proposte della stampa quotidiana locale, nel 1985 i quotidiani che presentavano un bilancio in deficit si ridussero a una ventina. Il 5 agosto 1981 era stata approvata la legge n.416, tesa a mettere in ordine un sistema in cui erano andate sviluppandosi grandi concentrazioni editoriali e ad assicurare una maggiore trasparenza sulle fonti di finanziamento dei giornali. La legge pose il 20% della tiratura globale il limite massimo di concentrazione, indicando dei limiti di zona all’interno di varie aree regionali. Vennero poi disciplinati gli interventi statali per il sostegno del settore e stabilita la liberalizzazione del prezzo dei giornali. Vent’anni dopo, nel 2001, una nuova legge n.62, avrebbe disposto che anche i siti web destinati alla diffusione di informazioni presso il pubblico avrebbero dovuto essere considerati prodotti editoriali e, come tali, soggetti alla normativa sulla stampa. Per il convergere di varie circostanze, gli anni Ottanta si affermarono dunque veramente come un decennio de grande sviluppo e trasformazione per l’editoria italiana, con l’affermarsi di giornali come la Repubblica, il Sole 24 Ore e il Corriere dello Sport e la Gazzetta dello Sport. Anche la giornalistica fu toccata da un profondo rinnovamento generazionale. Tra il 1978 e il 1983 si registrarono quasi 2.500 nuove iscrizioni all’ordine. Influirono su questo fenomeno espansivo la costituzione di scuole di giornalismo, la promozione di borse di studio per i giovani e altre iniziative. Non fosse altro per ragioni anagrafiche, scomparvero anche dalla scena, con le rilevanti eccezioni di Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giorgio Bocca, molti dei rappresentati della generazione giornalistica che era nata e cresciuta durante il fascismo. In quegli anni ci fu un avvenimento di notevole rilievo, ossia, il salvataggio finanziario del Corriere della Sera, dopo la batosta seguita allo scandalo della P2. A spuntarla nella battaglia per accaparrarsi la prestigiosa testata milanese, fu una cordata facente capo al gruppo Pirelli, a Mediobanca e alla Fiat, assieme alla finanziaria Gemina. Soprattutto da quel momento, la competizione fra Corriere della Sera e la Repubblica si fece particolarmente vivace. Nell’ambito di una sempre maggiore specializzazione dei professionisti dell’informazione, un notevolissimo sviluppo qualitativo e quantitativo degli ultimi venti anni del solo fu infine realizzato dal giornalismo economico, i cui spazi si ampliarono e nacque una nuova figura specializzata di giornalista, ossia il giornalista economico, dotato di un sempre maggiore bagaglio di conoscenze specifiche, al cui apprendimento iniziarono a provvedere anche i corsi universitari e le scuole di specializzazione. La crescita del settore fu, certo, in parte legata al recupero del divario che sino ad allora aveva caratterizzato la stampa italiana rispetto a quella degli altri paesi a capitalismo avanzato, ma fu in parte connessa anche a un generale aumento del benessere nel paese e all’ampliarsi di alcune particolari categorie professionali, come quelle degli imprenditori e dei manager. La “guerra di Segrate” e l’ultimo decennio La battaglia per il primato delle vendite tra Corriere della Sera e la Repubblica fu il prologo di un vero e proprio scontro editoriale, che sarebbe poi passato alla storia come guerra di Segrate. Alla fine degli anni Ottanta, Caracciolo e Scalfari vendettero le loro rispettive quote de l’Espresso a Carlo di Benedetti, che deteneva già quote rilevanti nella Mondadori, di cui stava andando ad assumere il controllo. L’operazione, se conclusa, avrebbe dato vita ad un enorme gruppo editoriale. Il 6 agosto 1990 fu approvata la legge n.223 di disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato: dispose il divieto, per chi aveva la concessione per un canale televisivo nazionale, di avere anche il controllo di imprese editrici di quotidiani la cui tiratura avesse superato nell’anno solare precedente, il 16% della tiratura complessiva del paese. Nessun quotidiano avrebbe potuto inoltre essere posseduto da chi deteneva tre reti nazionali. Alle reti private veniva permesso di trasmettere in diretta, come con l’obbligo di predisporre anche un proprio telegiornale. Sostanzialmente la nuova legge metteva fine al monopolio in campo informativo della Rai. A livello privato, il principale beneficiario di questa legge fu Silvio Berlusconi, che controllava tre canali televisivi nazionali e il quotidiano il Giornale. Berlusconi rispose al provvedimento affidando l’editrice del giornale al fratello Paolo e rimanendo azionista di minoranza. La circostanza ebbe un’inequivocabile conferma del 1994, quando, dopo aver fondato Forza Italia, lo stesso Berlusconi chiese esplicitamente l’appoggio del Giornale per promuovere la sua carriera politica (istanza a cui Indro Montanelli rispose lasciando il giornale che lui stesso aveva fondato, seguito da una quarantina di altri giornalisti della redazione). L’ingresso sulla scena politica nazionale di Silvio Berlusconi e i suoi brillanti successi elettorali finirono per accentuare i caratteri di partigianeria del mondo dell’informazione italiano il quale, sia pure con varie sfumature e con alcune significative eccezioni, tese da quel momento a polarizzarsi su due distinti fronti: quello “berlusconiano” e quello “antiberlusconiano”. Tornando al tentativo di De Benedetti di scalata della Mondadori, il suo progetto entrò ben presto in collisione con quello di Silvio, il quale puntava alla casa editrice egli stesso. Dopo oltre due anni di battaglie legali e finanziarie, grazie anche all’aiuto di Giulio Andreotti, fu temporaneamente posto fine alla disputa. I caratteri della spartizione furono stabiliti da un apposito lodo, che assicurava a Carlo De Benedetti il quotidiano la Repubblica, il settimanale l’Espresso e alcune testate locali e a Silvio Berlusconi “Panorama”, “Epoca” e la stessa Mondadori. Oligopolio e concentrazione dell’informazione Le normative antitrust approvate in Italia a partire dagli anni Ottanta non furono certo sufficienti a minare il predominio di poche grandi concentrazioni editoriali. Ancora all’inizio del nuovo millennio un gruppo come la Rcs Mediagroup pubblicava il Corriere della Sera, la Gazzetta dello Sport, diversi mensili, la free press e diverse riviste al femminile. Si muoveva sul terreno radiofonico con l’emittente nazionale Radio Italia Network e, nel settore dei libri, attraverso il controllo esercitato dalla casa editrice Rizzoli, Fabbri e Bompiani. Il gruppo editoriale l’Espresso, oltre alla Repubblica, pubblicava alcuni quotidiani ed era presente sul terreno radiofonico come con Radio Deejay e Radio Capital. Della Fininvest facevano parte il gruppo Mediaset, con Canale5,