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RIASSUNTO - IL CRISTIANO NEL MONDO (pp. 23-84), A. Fumagalli, Sintesi del corso di Teologia

Riassunto delle pp. 23-84 del testo di A. Fumagalli utile per il superamento dell'esame di TEOLOGIA III con S. MACCHI

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 28/02/2020

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Scarica RIASSUNTO - IL CRISTIANO NEL MONDO (pp. 23-84), A. Fumagalli e più Sintesi del corso in PDF di Teologia solo su Docsity! RIASSUNTO Aristide Fumagalli IL CRISTIANO NEL MONDO (p. 23-84) CAPITOLO PRIMO I LEGAMI DELLA LIBERTÀ (pag. 25) “Io sono la vite, voi i tralci” (Gv): in tale allegoria riferita da Gesù alla sua relazione coi discepoli è riassunta la morale cristiana, che consiste nel legame che intercorre tra Cristo e gli uomini, così come dall’innesto della vite dipendono la vitalità/fruttuosità dei tralci. L’allegoria evangelica è una guida per illustrare i nodi essenziali della morale cristiana: ma cosa significa “morale”? 1. Morale ed etica Il termine “morale” deriva dall’aggettivo moralis, morale. Introdotto in latino da Cicerone partendo dal nome mos, moris (maniera di comportarsi/modo d’agire), l’aggettivo latino è l’adattamento dell’aggettivo greco ethiká, che è anche giunto nelle lingue moderne nella forma del sostantivo “etica”. Il nome di derivazione greca “etica” e quello di provenienza latina “morale” si usano tutt’oggi con differente significato: può essere che “etica” indichi la riflessione filosofica (anche se c’è la filosofia morale) e “morale” quella di matrice religiosa (anche se si dice etica cristiana); talora “etica” indica lo studio fondamentale del problema, mentre “morale” si riferisce alle norme concrete del comportamento umano. Tuttavia noi ci atterremo all’uso sinonimo dei 2 nomi. Risalendo all’origine dei termini morale/etica, troviamo il nome greco ethos (da cui ethiká), scritto con 2 diverse grafie: - con l’epsilon (ε) significa abitudine, usanza, costume, tradizione, ... - con l’eta (η) supporta anche il concetto di carattere. Componendo le 2 accezioni di ethos, possiamo definire l’etica/morale come “ciò che caratterizza l’agire umano”. Tale definizione è confermata dall’accezione ancor più arcaica di ethos, ossia “residenza/luogo dove si abita”: l’etica/morale può così essere intesa come “dimora” propria dell’uomo, dimensione che caratterizza il suo modo di comportarsi in senso propriamente umano. Cosa caratterizza il modo umano di comportarsi? Il raffronto con altre specie viventi rinvia alla libertà: l’agire umano è libero! L’uomo compie azioni sapendo e volendo agire. Ragione/volontà sono ingredienti dell’agire libero, per cui l’uomo, differentemente da ogni altro essere vivente, “è padrone/dominus dei propri atti” (Tommaso). Se l’etica caratterizza il comportamento umano, il luogo in cui risiede l’umanità dell’uomo, allora essa è anche riferimento per l’agire dell’uomo. Così l’etica/morale presenta, oltre che un’accezione interpretativa, un’accezione normativa. Il principio primo dell’agire morale è “Fai il bene ed evita il male” (Tom.). La “morale” riguarda l’agire libero dell’uomo, valutandolo come buono o cattivo: su tale base, la morale cristiana considera l’agire libero dell’uomo facendo di Cristo la norma che giudica il bene e il male. 2. La presunta libertà “Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me” (Gv). L’immagine prospettata da Gesù per accreditare la necessità della relazione con Lui in ordine all’agire buono non è pacifica oggi. Uno sguardo all’odierna concezione dell’etica postmoderna costituisce la premessa affinché la delineazione della morale cristiana mostri la sua originalità e la sua capacità di dialogo critico col mondo contemporaneo. 2.1 L’orizzonte postmoderno A lungo l’etica è stata concepita in dipendenza dall’Essere divino. Agli occhi della filosofia classica/teologia cristiana, l’agire umano era considerato ancorato alle disposizioni divine. A garantire il legame provvedeva la forza del pensiero, ritenuto in grado di conoscere Dio e riconoscere le leggi costitutive dell’essere-uomo che devono regolare il suo agire. Con l’epoca moderna v’è stata una svolta: la questione alla ribalta, dopo secoli di speculazione su Dio, è la questione dell’uomo. Sotto il profilo dell’etica, tale svolta verso il soggetto umano porta ad un nuovo modo d’argomentare: dall’interrogazione del mistero di Dio con lo scopo di dedurre le leggi dell’agire umano, si passa all’interrogazione diretta di quest’ultimo, nel tentativo di scoprire le leggi immanenti che lo regolano. La sfida moderna riguarda la possibilità di reperire un fondamento per l’agire morale etsi Deus non daretur, come se Dio non esistesse. Lo sforzo moderno di dare alla morale una fondazione autonoma raggiunge l’apice con Kant (1724-1804): la sua etica è qualificata come “autonoma”/indipendente da ogni autorità che non Il legame libertà-corpo s’esprime anche nelle emozioni: il nome stesso “e-mozione” rimanda all’influsso che essa esercita sulla libertà. L’emozione può paralizzarci (come agli esami), scioglierci (nell’innamoramento), scatenarci (nella musica), ... La libertà è condizionata anche dalle abitudini che non le consentono di cambiare le proprie scelte con fermezza/rapidità (pensiamo alle sigarette). C’è poi il livello biologico del corpo che condiziona la libertà in modo assoluto: nascita, crescita, età, morte sono realtà indisponibili all’uomo. Per quanto libera sia una persona non può prescindere da tali condizionamenti che le sfuggono. Il legame corpo-libertà non permette però di concludere che la libertà sia schiava. Il corpo è come una medaglia: l’una faccia non nega, ma implica necessariamente l’altra. Ciò che per un verso è condizionamento, dall’altro è condizione di possibilità. Tale ambivalenza si trova in tutti gli altri legami della libertà. 3.2 La libertà e il mondo Il corpo non è confine oltre cui la libertà non ha contatti: il corpo non è uno scafandro della libertà. L’uomo sulla terra è paragonabile al pesce nell’acqua: l’ambiente che lo circonda è parte integrante della sua vita. Il degrado di aria ed acqua, il disboscamento, il dissesto idrogeologico, lo sfruttamento delle risorse sono fenomeni preoccupanti che costituiscono la “questione ecologica”, mostrando l’inevitabile legame che l’uomo ha con la natura. L’evoluzione sinistra che l’uomo ha favorito è la degenerazione di un legame che l’uomo inevitabilmente intrattiene col suo mondo vitale. Laddove l’uomo vive, la natura è già cultura. La cultura è ciò che scaturisce dalla libertà che opera nella natura: in tal senso, un graffito primitivo è espressione della cultura tanto quanto un dipinto di Raffaello. L’accelerazione della civiltà comporta la sostituzione del naturale con l’artificiale; la sostituzione è così efficace che un odierno black-out è paragonabile allo spegnersi del Sole nel passato: l’uomo non riuscirebbe a fronteggiare i disagi che ne deriverebbero. L’ultima frontiera di sviluppo tecnologico - quella telematica - sta cambiando l’uomo: le informazioni/emozioni/relazioni viaggiano alla velocità della luce sulla rete; il mondo virtuale contende così il primato a quello reale. Naturale o artificiale, virtuale o reale, il mondo è legato all’uomo. Non si può vivere senza stare al mondo, non si può vivere fuori dal mondo (lo si può fare solo metaforicamente). 3.3 La libertà e gli altri Il mondo dell’uomo non è solo un mondo di cose: esso è popolato da altri simili a lui. Sono gli altri che consentono all’uomo di venire al mondo: un bambino nasce da un legame uomo-donna. Gli altri non solo ci mettono al mondo, ma pure ci consentono di stare. Gli altri non solo ci mantengono in vita, ma danno vita alla nostra identità personale. Scopro di essere piccolo perché ci sono i grandi, maschio perché ci sono femmine, ... Ciò che vale per gli aspetti generali vale anche per la mia individualità specifica: chi sono io lo scopro al contatto con gli altri. Senza gli altri non saprei chi mi piace, quanto sono simpatico, ... Il legame con gli altri può essere più o meno stretto. C’è ad es. l’affettivo legame coi genitori che, già a partire dalla tenera età, diventa vincolante per tutta la vita; tra i legami più intimi c’è anche quello con colui/colei di cui sono innamorato (che può diventare legame matrimoniale). La libertà personale è intrinsecamente sociale: l’essere umano è essere-con-gli-altri. Gli altri, nonostante ci consentano di vivere, sono comunque dei limiti alla libertà personale. La libertà dell’individuo finisce dove comincia quella degli altri. “Gli altri - per Sartre - sono l’inferno”; non mancano es. che potrebbero avallare tale tesi estrema: l’altro è il bugiardo, il violento, il serial killer, ... La nostra libertà è nelle mani degli altri, tanto che gli altri possono privarcene, talvolta addirittura senza neanche cattiveria, ma solo per superficialità/gioco (come negli incidenti del sabato sera). Gli altri possono favorire/ostacolare la mia libertà. Sempre, in un modo o nell’altro, la legano. 4. La libertà trasgressiva Per quanto legata a qualcos’altro, la libertà non è totalmente schiava: c’è uno spazio che non le può essere tolto. Si può immobilizzare una persona, ma non si può pretendere che sia contenta. Si può voler bene a qualcuno, ma non pretendere che ci ami. La libertà personale, pur minacciata/ sedotta, conserva sempre un margine d’indipendenza: margine sufficiente perché si accenda in essa il sogno dell’indipendenza totale. Quando ciò accade, la libertà comincia a sentire i legami col corpo, col mondo e con gli altri come il prigioniero sente le mani legate dietro la schiena. Pensiamo a questo caso: non si cerca di “liberarsi” (termine non casuale) dei kg di troppo sulla pancia per apparire più in forma? Oppure, i figli non ritengono spesso i genitori gli oppressori della loro indipendenza giovanile? Per non parlare delle leggi morali e religiose, ad es. quella della Chiesa Cattolica, magari rispetto alla sessualità ... Tale rassegna di ciò che sembra tarpare le ali della libertà è sufficiente farci percepire la seducente tentazione dell’autonomia assoluta: Assoluta, ricordando l’etimologia latina “ab-soluta”, ossia sciolta da ogni legame. Se legame dev’esserci, spetta alla libertà deciderlo. La tentazione non è nuova: non a caso è narrata nella Bibbia, nella Gen.; fin dall’origine, uomo-donna, pur circondati da ogni bene di Dio, sono sedotti dalla tentazione dell’autonomia totale. L’Io umano vorrebbe essere come Dio, senza leggi da osservare che non siano quelle da lui stesso stabilite. Essere autonomi - dal greco auto-nómos, “essere la legge di se stessi” - è la più grande tentazione dell’uomo. Ma come conquistare l’autonomia assoluta? Come ottenere l’in-dipendenza totale? La libertà, come già visto, è necessariamente legata al corpo, al mondo, agli altri. Non potendo negare d’avere a che fare con altro da sé, la libertà si ribella e tenta di farsi valere come la più forte. Trasgredire i legami che le sono imposti, asservire a proprio piacere ciò a cui si trova legata: è questo il programma d’azione mediante cui la libertà tenta d’essere del tutto libera. Trasgressione/ dominio - che sono la stessa cosa, poiché andare oltre ogni limite è volersi imporre ovunque - sono il motto dell’Io che vuole fare di se stesso il proprio dio. Il libertino vuole dominare l’altro: libertà totale/violenza sono parenti prossimi. Trasgressione/violenza esplodono oggi drammaticamente. A parte gli episodi di cronaca nera, la cartina tornasole è la sfera sessuale: la libertà sembra scorazzare in quest’ambito senz’altro limite che quello di superare ogni limite. Il corpo sessuato viene ricreato dalla libera scelta personale. Il comportamento sessuale, maschile o femminile, non è riconosciuto a partire dal corpo che si ha, ma a prescindere da esso. Non è detto che si debba per forza essere eterosessuali. Non è forse un diritto della libertà - così dice la cultura liberale - quello di scegliere di comportarsi come trans-, omo-, bi-sex? Prescindendo dal giudizio personale su chi si comporta in tal modo, sembra incontestabile che una simile cultura neghi che il corpo abbia qualcosa da dire alla libertà. “Il corpo è mio e lo gestisco io”: una simile posizione presuppone che il corpo sia uno strumento da usare e non una dimensione della persona. La relazione col corpo appare come quella con l’auto: la libertà personale ci entra e guida più o meno spericolatamente, accelerando per ottenere le massime prestazioni. Il paragone dell’auto ci porta a considerare la dimensione sociale della trasgressione. C’è un modo di vivere off-limits che fa tendenza, anche se arriva a mettere a repentaglio la vita propria ed altrui. Psicologi/sociologi non mancano di evincere le ragioni della devianza giovanile: a differenza di qualche decennio fa, oggi la trasgressione giovanile non è più ideologica, ossia motivata da un ideale sociale che intenda rivoluzionare lo status quo. Oggi si lanciano sassi non contro lo Stato o i poliziotti, ma per dimostrare a chi è vicino il brivido/piacere d’una libertà estrema. Poter fare ciò che vuole: l’ebbrezza e l’ispirazione della libertà è la potenza. Ma non potendo, come Dio, creare dal nulla, l’Io assapora la propria potenza riducendo al nulla. Come il bambino distrugge il giocattolo per percepire la sua capacità manipolatoria, oggi l’uomo infrange ogni limite per affermare la sua potenza. Gli ambiti in cui la libertà impone il suo potere sono vari: l’egoismo è cosmopolita. La voglia d’indipendenza totale ed il desiderio di trasgressione si riconoscono anche a occhi chiusi: basta guardare dentro di sé. L’egoismo, per quanto covi nel cuore o esploda esternamente con episodi di violenza, proviene sempre dalla stessa origine: il tentativo della libertà di farsi padrona dell’alterità, sia essa il suo stesso corpo, il mondo, gli altri. Volendo l’altro a propria immagine e somiglianza si finisce per imbrigliarlo/mortificarlo. La libertà egoista non è interessata a riconoscere chi sia l’altro, gli basta poterlo usare. L’altro non ha parole da dire. La libertà egoista zittisce il corpo, sfrutta il mondo, lega gli altri. Perché la libertà si decida per il male non è cosa spiegabile fino in fondo, tanto più che alla scelta del male consegue altro male; drogarsi vuol dire rendersi schiavo senza poter far più ciò che si vuole; distruggere le risorse naturali favorisce pericolose catastrofi naturali; ledere qualcuno, significa crearsi un nemico. 5. L’inevitabile oltre della libertà Il corpo, il mondo e gli altri sono i legami inevitabili con cui la libertà gioca la sua partita. La partita, tuttavia, è imposta. Ma chi l’ha imposta? Chi ci ha consentito di giocare da titolari tale partita? Torniamo al problema dell’origine della libertà. Che cosa sta al principio della libertà? Perché siamo al mondo? A tali domande sono state date le risposte più diverse. C’è chi le ritiene domande inutili e chi parla del puro caso. Ci sono grandi religioni (ebraismo, islamismo, induismo, ...) che propongono la risposta religiosa per cui l’origine dell’uomo e il senso della sua vita sono oltre l’umano e risiedono in Dio. Non mancano coloro che negano tale possibilità, gli atei. In tutti c’è una presa di posizione nei confronti della vita e dei suoi misteri. Il senso religioso, dato per spacciato in passato, sembra tornato alla ribalta e in forme, come quelle di molte sette, che sembravano relegate alle sole culture primitive. Il perché l’uomo viva, il perché debba giocarsi senza aver scelto di giocare sono domande che l’uomo inevitabilmente si fa ed è una domanda a cui, anche se non vuole, dà comunque una risposta. Anche chi non vuol fare il filosofo, ha una sua filosofia di vita. Disinteressarsi del legame con Dio, non preoccuparsi della sua esistenza è già una risposta: “Per me, Dio non esiste”. Una simile posizione conferma che, al di là della risposta, l’uomo è inevitabilmente legato a Dio. La dipendenza umana da “qualcosa/qualcun” altro è ammessa dalla filosofia contemporanea quando osserva che la nostra libertà non si genera da sola: “essa si fa accogliendo ciò che non fa: in questo la nostra libertà è soltanto umana” (Ricoeur). Nella dipendenza umana da un Altro, la dottrina cristiana riconosce la sua creaturalità: “La riflessione razionale e l’esperienza quotidiana dimostrano la sua debolezza, da cui è segnata la libertà umana. È libertà reale, ma finita: non ha il suo punto di partenza in se stessa, ma nell’esistenza dentro cui si trova e che rappresenta per essa, al contempo, un limite e una possibilità. È una libertà donata, da far maturare nella responsabilità” (GP II). Il riconoscimento dell’uomo come creatura è il confine cui giunge l’indagine sulla libertà. L’uomo non scorge ciò che sta oltre e tuttavia, riconoscendo l’esistenza di un confine, solleva la questione dell’oltre. L’agire umano solleva la domanda su ciò che lo trascende, ossia su ciò che potremmo nominare “Dio”. L’esistenza della nostra libertà - umana - pone di necessità la questione di Dio. Poiché la libertà non è un principio teorico, ma un dinamismo pratico (vive cioè nelle azioni), si deve dire che l’agire umano solleva la questione del suo rapporto con l’agire di Dio, e di come questo fluisca in quello. 6. Etica laica e teologia morale Riguardando l’agire umano, la soluzione data alla questione di Dio ha riflessi sui problemi morali. L’alternativa morale può essere prospettata chiedendosi se avesse ragione Dostoevskij quando osservava che se Dio non esiste, tutto è permesso, oppure si deve riconoscere la possibilità di un’etica atea? L’alternativa costituisce il nucleo problematico dell’enciclica Veritatis Splendor (1993), dedicata a questioni fondamentali della morale. Il rilievo di tale intervento magistrale non riguarda la novità della dottrina insegnata, quanto il riferimento della dottrina alla novità dell’epoca post-moderna, epoca in cui il legame della libertà umana con la verità divina risulta, se non negato, incerto/smarrito: “La contrapposizione/dissociazione tra libertà e verità è ritenuta conseguenza/manifestazione/compimento di un’altra più deleteria dicotomia, quella che separa la fede dalla morale” (GP II). L’etica postmoderna si struttura sulla base della sola libertas. Se di verità ancora si parla, s’inclina a ritenerla una creazione autonoma della libertà. Privata di ogni tratto oggettivo/universale, la verità diviene una realtà soggettiva/regionale, originando quell’individualismo/relativismo che accomuna le etiche laiche contemporanee. L’odierna etica della sola libertas si è affermata opponendosi alla morale della c.d. sola veritas. Preoccupato dell’autonomia che la libertà soggettiva stava assumendo, la morale religiosa ha rivendicato il primato della verità oggettiva (che è come una legge eteronoma, imposta alla coscienza umana dall’esterno). La verità morale, priva del suo riferimento alla libertà, è stata identificata con la logica razionale e i dati della natura fisica, originando quel razionalismo/ naturalismo che ha afflitto la manualistica teologica-morale preconciliare. L’etica laica della sola libertas e la morale religiosa della sola veritas soffrono dello stesso difetto. Entrambe riducono l’equazione dell’agire morale ad una sola variabile. Lo smarrimento di una delle 2 variabili impedisce sia di riconoscere la loro collaborazione, ma anche il peculiare apporto di ciascuna all’agire morale e quindi la loro differenziale identità: “verità è libertà o si coniugano insieme o insieme periscono” (GP II). Da tale convinzione deriva lo statuto epistemologico della teologia morale, rappresentabile come equazione a 2 variabili: la libertà implicata nell’agire umano e la verità relativa all’agire divino. Il problema soggiacente alla morale cristiana è infatti “la collaborazione dell’agire umano e di quello divino nella realizzazione piena dell’uomo” (Ratzinger). Ma come può essere indagato il problema della collaborazione dell’agire umano e di quello divino se il 2º trascende la natura del 1º (ossia gli è “soprannaturale”)? Nella misura in cui vuole accedere alla variabile divina, la nostra indagine deve aprirsi al contributo della teologia. Poiché intellectus fidei, la teologia offre infatti l’accesso alla Rivelazione di Dio. Accedendo alla Rivel- azione, il sapere morale scopre la variabile divina presente nell’agire umano e viene così a disporre anche dell’altra variabile, oltre a quella umana, necessaria per studiare l’equazione della Salvezza: ai loro occhi increduli appariva come una pretesa blasfema. In effetti, la crocifissione identificherebbe Cristo come un maledetto da Dio. La provocazione “diabolica” di scendere dalla croce mossa dai nemici di Cristo mirerebbe a smascherare il sedicente Figlio di Dio: se egli lo fosse davvero, non potrebbe morire maledetto dalla legge divina. Molti avversari di Gesù non hanno creduto in Lui, paghi del buon esito della loro operazione di falsificazione. Davanti al sepolcro vuoto, i sommi sacerdoti non solo non si lasciarono scalfire dalla loro incredulità, ma si attivarono per diffondere una falsa diceria. Successivamente i discepoli furono perseguitati/martirizzati, e non sempre "per ignoranza" o in buona fede. Del resto, da Ponzio Pilato a Porcio Festo, una cortina d'indifferenza e scetticismo è rimasta sulla morte e risurrezione di Gesù: "Venne fra i suoi e i suoi non l'hanno accolto ..." (Gv). 1.4 "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio" Allo sguardo dei Giudei che pretendevano miracoli, Gesù crocifisso appariva scandaloso/stolto ("uno davanti al quale ci si copre la faccia", Is). Davanti alla croce però, la libertà umana è sollecitata dallo Spirito Santo ad arrendersi all'azione salvifica di Dio. Di grande valenza è il fatto che in Mc, sia un pagano (il centurione romano che aveva eseguito la condanna a morte) ad emettere la più alta professione di fede di tutto il vangelo: "Veramente quest'uomo era Figlio di Dio". Ma è soprattutto allo sguardo credente di coloro che con Maria seguono Gesù fin sotto la croce, che il crocifisso risplende nel suo singolare fascino: la misteriosa attrazione che Egli esercita è dovuta all'atto di donazione della propria vita a favore degli uomini. Il senso di tale atto è anticipato nel gesto eucaristico dell'Ultima Cena; con il dono di sé, espresso col segno dell'offerta del pane e del vino, Gesù consente alla gloria divina di manifestarsi in tutto il suo splendore. In coloro che di fronte alla rivelazione attuata dal Crocifisso Risorto credono in Lui (come il centurione) si attua una progressiva glorificazione nel senso che, già durante l'esistenza terrena, sono messi in grado dallo Spirito Santo di partecipare sempre più alla "gloria del Signore" fino al giorno in cui abiteranno definitivamente presso di Lui. 1.5 Sintesi teologico-morale I racconti evangelici pasquali mostrano i dinamismi essenziali della morale cristiana, che rappresentiamo così: A) L'attrazione dello Spirito a') Il dono dello Spirito a'') La (ri)creazione della libertà B) L'azione della libertà b') La resistenza della libertà b'') La resa della libertà A) L'attrazione dello Spirito: la Pasqua è evento trinitario. Morendo sulla croce, Gesù si consegna al Padre, rivelandolo come l'amante che genera ed attrae a sé Lui, il Figlio amato, nella comunione amorosa dello Spirito Santo. a') Il dono dello Spirito: totalmente consegnato al Padre, il Figlio Gesù attira l'umanità all'interno dell'amore trinitario, rendendola partecipe dello Spirito che, dall'alto della croce, egli offre gratuitamente agli uomini. La solidarietà incondizionata di Gesù ed il raggio d'azione dello Spirito Santo da lui donato, non conoscono limiti, dato che Gesù ha versato il suo sangue per tutti e si è consegnato nelle mani dei peccatori. a'') La (ri)creazione della libertà: mediante il dono dello Spirito, effuso sull'umanità in virtù del sangue versato da Gesù, il Padre riplasma gli uomini peccatori a immagine del Figlio affinché, recettivi ed obbedienti come costui, scelgano in piena libertà di lasciarsi attirare nella comunione trinitaria. La potenza creativa dello Spirito ricrea persino una libertà, (i)perdonandola, ridonandola cioè a se stessa, qualora essa si fosse liberamente perduta a causa del rifiuto del dono divino. B) L'azione della libertà: lo Spirito Santo, per via della sua solidarietà universale, include tutti e nessuno esclude dalla sua azione: non c'è libertà umana che non sia raggiunta dall'attrazione universale di Gesù. L'attrazione dello Spirito, mediante cui il Padre desidera conformare ogni uomo a Cristo, necessita la libertà ad agire, obbligandola a scegliere tra la resistenza e la resa. b') La resistenza della libertà: la libertà umana, che non può non agire, può però resistere all'attrazione dello Spirito, rifiutando di essere ricreata in Cristo ed indurendosi progressivamente nel peccato. b'') La resa della libertà: la libertà umana, obbligata all'azione, può altrimenti affidarsi all'attrazione dello Spirito, riconciliandosi con Dio e convertendosi nella verità del Figlio che si abbandona docilmente al Padre. 2. La gradualità della morale cristiana Attraendo ogni cosa a sé, Gesù imprime un movimento unitario, che non si realizza immediatamente, ma è meglio rappresentato da un’ascensione graduale. “Il disegno salvifico di Dio, culminante in Cristo, è unitario, ma si è realizzato progressivamente attraverso il tempo. L’aspetto unitario e quello graduale sono ambo importanti” (Pontificia Commissione Biblica). Il dinamismo graduale, benché non lineare, della morale rivelata nella Bibbia può essere illustrato tenendo conto delle principali articolazioni del canone biblico, ossia della distinzione tra Antico e Nuovo Testamento e della successione dei testi da Genesi sino ad Apocalisse. Privilegiando quindi un approccio canonico alla Bibbia, vi riconosciamo 4 gradi del dono divino a fondamento/orientamento della risposta morale dell’uomo: 1. il dono iniziale della Creazione, narrato nella Gen. (e in alcuni Salmi) 2. il dono dell’Alleanza con il popolo israelitico (con centro nell’alleanza al Sinai) 3. il per-dono della nuova Alleanza in Cristo, compiuta nella sua Pasqua 4. il dono escatologico della vita eterna in Lui, già efficace nel presente, ma ancora in attesa del compimento futuro Da ciascuno di tali gradi che scandiscono il progressivo donarsi di Dio, scaturiscono le implicazioni morali per l'uomo: 1. Al 1° grado della Creazione dell'Uomo a immagine di Dio corrisponde la responsabilità dell'uomo nei confronti di Dio, cui deve l'origine/persistere della sua vita, e nei confronti di ogni realtà creata, del cui trattamento l'uomo è chiamato a rispondere a Dio. La morale cristiana non è una morale autonoma, ma una morale responsoriale ed una morale religiosa, ossia che ha la sua condizione di possibilità nel legame con Dio. 2. Dal 2º grado dell’Alleanza con il popolo israelitico, e tramite Israele con tutta l’umanità, deriva l’obbligo d’osservare la Legge, espressa in primis nel Decalogo. Il Decalogo insegna a concepire la Legge come dono liberante di Dio: “Essa non è in partenza una nozione giuridica, impostata su comportamenti/atteggiamenti, ma un concetto teologico, che la Bibbia stessa chiama 'cammino' (derek in ebraico, hodos in greco): un cammino proposto” (PCB). 3. Con l’eterna Alleanza in Gesù, il dono divino giunge al suo grado supremo/definitivo. Assumendo la condizione umana, compresi gli effetti dell’opposizione peccaminosa all’alleanza con Dio, Gesù mostra la potenza del dono di Dio che giunge sino al per-dono. L’incondizionata offerta dell’alleanza, anche a fronte del conclamato rifiuto da parte dell’uomo, configura la morale cristiana non come adempimento della Legge, ma come accoglienza di una Grazia. L’agire morale non nasce come iniziativa umana, ma deriva dalla fede in Cristo. La morale cristiana ha la sua dimora nell’alleanza in Cristo. 4. L’iper-dono dell’eterna Alleanza, sigillata nella morte/resurrezione di Gesù, inserisce l’uomo nell’orizzonte della vita eterna. Per mezzo dello Spirito Santo, effuso nella Pasqua, la promessa di Gesù d'attirare tutti a sé, si realizza fino agli estremi confini della Terra ed in ogni epoca. L’attrazione dello Spirito nella verità di Cristo e nella comunione trinitaria col Padre, non pone fine alla storia umana, ma in essa va distendendosi, incrociando la vicenda d’ogni persona e sollecitando la sua resa libera all’amore divino. Il documento Bibbia e morale della PCB, dopo aver richiamato che “l’Apocalisse, in continuità con l’escatologia realizzata nel Vangelo di Gv, sottolinea la presenza attuale di Cristo risorto in mezzo alla sua Chiesa e nel mondo” afferma che “tale presenza, veicolata dall’azione dello Spirito, crea una nuova fase dell’incoronazione in cui Gesù fa pressione prima direttamente sulla Chiesa e poi anche attraverso l’azione multipla della Chiesa stessa sul resto del mondo, improntando tutto e tutti dei suoi valori/vitalità”. Il dono escatologico della vita eterna, presente ma non ancora compiuto, prospetta la morale cristiana come un camminare nello Spirito, verso la progressiva incorporazione in Cristo, sino alla misura in cui Dio sarà tutto in tutti (Cor). Entro tale cornice “l’insegnamento morale della Bibbia non può essere ridotto solo ad un insieme di principi o leggi casistiche” e “la Bibbia non può essere tratta come insieme di pagg. di un sistema morale” ma “deve essere vista dinamicamente, alla luce crescente della rivelazione” (PCB). L’es. principale del dinamismo della morale biblica si ha considerando l’amore del prossimo, inscindibilmente connesso all’amore di Dio. Pur fissando nell’amore per i nemici il comandamento supremo della relazione col prossimo, la Bibbia prospetta l’intera estensione che dalla vendetta esagerata di Lamech, che ripaga 70 volte 7 l’offesa subita, passa all’uguaglianza del contraccambio prevista dalla legge del taglione, sollevandosi poi oltre la retribuzione violenta, affidata semmai a Dio, per entrare nell’ottica positiva dell’amore suggerita dalla regola aurea, sino al rovesciamento completo del ciclo della vendetta con il perdono offerto 70 volte 7. 3. L’amore come legge La rivelazione Biblica dei dinamismi della morale cristiana fornisce la struttura per lo sviluppo della teologia morale. Il Conc. Vat. II ha sollecitato la teologia morale affinché fosse “maggiormente nutrita della dottrina della Scrittura”; anche il più recente Magistero ha ribadito l’importanza della Scrittura, definendola “sorgente viva e feconda della dottrina morale della Chiesa” (GP II). Il disegno di teologia morale si svilupperà qui in 3 parti: - in questo capitolo riflettiamo sull’attrazione dello Spirito Santo quale legge morale della libertà - in quello successivo penseremo all’indagine sulla struttura della libertà - in quello finale sulla libera scelta del bene o del male 3.1 La legge nuova “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv): l’anticipazione di Gesù ai discepoli circa il suo innalzamento sulla croce e resurrezione allude allo Spirito quale “fonte/risorsa della vita morale” (GP II). La promessa d'attirare tutti a sé si realizza per mezzo dello Spirito, che è effuso nella Pasqua per condurre gli uomini alla verità: verità che è Cristo stesso. L’attrazione esercitata dallo Spirito sulla libertà invita ad una rinnovata interpretazione della legge morale, che trova appoggio nel trattato Summa Theologiae (S.Th.) dedicato da Tommaso d’Aquino alla legge e culminante nella “legge nuova”. 3.1.1 La Grazia dello Spirito Santo. “La legge nuova è la stessa grazia dello Spirito Santo, concessa a coloro che credono in Gesu” (S.Th.). Identificando la grazia dello Spirito con la legge nuova, Tommaso introduce una concezione inedita di legge che, pur giungendo all’uomo dall’esterno, agisce dal suo interno. La legge nuova (aggettivata così perché “legge della nuova alleanza”), è posta da Dio nell’intimo dell’uomo (come disse Geremia “Oracolo del Signore: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul suo cuore”): la legge nuova è una legge “infusa”. La natura della legge nuova impedisce di considerarla come un codice esteriore di precetti ma esige d’intenderla come un dinamismo interiore. La grazia dello Spirito non è una norma estrinseca rispetto alla libertà, ma una sua intima potenzialità. 3.1.2 L’amore sino alla fine Anche se infusa nell’intimo dell’uomo, la legge nuova non è nel suo cuore come un tesoro sepolto; come una linfa essa innerva la libertà umana, affinché dalle radici profonde dell’identità morale risalga alimentando le disposizioni ad agire, sino a produrre gli atti. Le azioni prodotte sotto la mozione della grazia sono le opere della carità. Si possono descrivere le opere della carità derivanti dalla legge non scritta della grazia? La risposta richiama la duplice forma della legge nuova che “in primis è una legge infusa, e secondariamente una legge scritta” (S.Th.). La traccia scritta della legge nuova si rinviene nel Nuovo Testamento (specie i Vangeli, come nel Discorso della montagna dei capp. 5-7 di Mt). S. Agostino presenta il Discorso della Montagna come: - il vertice della vita cristiana, poiché in esso si riscontra “la norma definitiva della vita cristiana per quanto attiene ad un’ottima moralità”; - il compendio della vita cristiana poiché “in esso vi sono tutti i precetti che attengono a regolare la vita”. Il Discorso della Montagna illustra la via graduale/ascendente sulla quale la libertà è attirata dallo Spirito Santo, sino a raggiungere la piena conformazione a Cristo, amando come Lui ha amato. La gradualità ascendente della vita cristiana è scandita dalle 7 beatitudini poste in apertura al Discorso della Montagna e culminanti nell’8ª beatitudine: “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei Cieli”, ampliata da Gesù nel suo rivolgersi in forma diretta agli auditori: ”Beati voi quando v’insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta L’estensione che separa i 2 livelli amorosi spiega come l’amore, pur universale/immutabile, sia vissuto a diversi gradi e, dunque, trovare diversa espressione nello spazio/tempo, a seconda che sia più vicino il livello-base dell’amore del prossimo (v.d. Decalogo) o quello superiore dell’amore dei nemici (v.d. Discorso della Montagna). Ne deriva una concezione della legge morale che può essere detta “legge della gradualità amorosa” (GP II). Diversamente da una “gradualità della legge” che volesse abbassare il comandamento dell’amore al grado arbitrariamente deciso da ciascuno, la legge della gradualità amorosa fissa nell’amore sino alla fine (anche quello per i nemici) il livello amoroso da perseguire e nei precetti del Decalogo il livello amoroso imprescindibile. La legge morale è: - “uguale per tutti”: perché tutti devono amare il prossimo al grado basilare della legge naturale illustrata dal Decalogo, ma anche perché l’amore del prossimo dev’essere perfezionato sino alla fine, fino a comprendere anche il nemico. - “non uguale per tutti”: ciascuno deve amare al grado che la progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore assoluto gli consentono al momento presente. Il fatto che la legge naturale segnali il gradino-base dell’amore non autorizza a sedercisi sopra, accontentandosi di tal forma amorosa incompiuta. Non pensiamo che i precetti del Decalogo siano doverosi mentre il comandamento nuovo dell’amore facoltativo: sono entrambi obbligatori. Se il Decalogo stabilisce il limite oggettivo sotto cui l’amore scompare, il comandamento nuovo fissa la meta amorosa, ossia la direzione verso cui la libertà umana, attirata dallo Spirito Santo, deve camminare. CAPITOLO TERZO I DINAMISMI DELLA LIBERTÀ (pag. 53) La legge morale, dovuta allo Spirito Santo, comanda d’amare come Cristo. In quanto amore offerto/richiesto, la legge si rivolge all’uomo libero: senza libertà, la legge, per quanto amorevole, finirebbe per essere un’imposizione violenta o potrebbe al massimo suscitare una reazione istintiva/automatica. L’attrazione indotta dallo Spirito, che comanda d’amare come Cristo, suscita un’azione libera: “Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà” (Cor). In quanto amore, la legge morale cristiana non si rivolge all’uomo come semplice dichiarazione verbale, ma lo coinvolge nella sua totalità: così, la risposta dell’uomo non sarà solo verbale- intellettuale, ma esistenziale-pratica. L’attr-azione dello Spirito produce una risposta che si configura come re-azione. Ma come la libertà umana re-agisce all’attrazione dello Spirito? Quali elementi rendono ragione della libertà in quanto “responsabile”, abile cioè p a (cor)rispondere allo Spirito? Indaghiamo la struttura della libertà umana. La libertà non è un’ipostasi che staziona fuori dalla prassi, ma sussiste solo nella concretezza delle singole azioni, pur non identificandosi con nessuna di esse. L’azione è dimora della libertà. L’analisi della libertà agente prende avvio laddove essa abita, nell’agire concreto. Lo studio della singola azione (analitica) mostrerà le sue implicazioni ontologiche (metafisica) e dinamiche (storia). 1. Analitica dell’atto La delimitazione dell’azione della libertà - tale è la condizione per parlare di “singola azione” - non è la pretesa di sezionare artificialmente ciò che è indivisibile? Tale pretesa non comporta la caduta in una concezione atomizzata/attimizzata dell’agire umano? Concentrandosi sulle singole azioni, non si finisce per immaginare l’agire morale come composto di tante azioni, le une solo accostate alle altre come biglie in fila su un tavolo da biliardo? Lo studio della singola azione somiglia alla vista oculare che, sullo sfondo di ciò che vede, fissa un punto mettendolo a fuoco: la vista focale non prescinde dalla vista periferica che permette di situare i particolari, altrimenti incomprensibili; e, d’altro canto, solo la vista focale permette di vedere ciò che altrimenti sarebbe indefinito. 1.1 La singola azione Senza il concetto di singola azione, il buon senso comune finirebbe smarrito: continuo è il suo impiego. La più comune domanda circa l’agire umano è “Cosa hai fatto?”, che diventa “Cosa stai facendo?” in corso d’opera o “Cos’hai intenzione di fare?” prima di metter mano all’opera, àncora il verbo al concreto d’una “cosa”, lasciando intuire che l’agire umano, benché non racchiudibile in un solo atto, non sussiste se non in atto. La negazione d’un concetto discreto di azione impedirebbe di valutare l’agire umano nel corso della vita. La valutazione dell’agire umano per viam sarebbe rimandato postmortem, perché solo allora l’agire potrebbe dirsi compiuto. A quel punto però, venendo meno l’homo viator, verrebbe meno anche la possibilità che egli valuti la sua vita. Impossibilitato a valutare il suo agire prima che esso sia compiuto, come pure a farlo una volta che lo sia, l’uomo resterebbe senza responsabilità. L’agire morale sarebbe un evento naturale come gli altri, e come tale l’unico metodo per valutarlo sarebbe quello delle scienze positive. Contro tale naturalismo però si possono far valere le ragioni del senso comune che ritiene l’uomo responsabile di singole azioni (Runggaldier). 1.2 L’azione morale Il linguaggio comune segnala la differenza azione umana/evento naturale quando si dice ad es., in un caso che “un agente muove il dito” e, nell’altro, che “si è verificata la contrazione di un dito”. L’ingegno di Tom. ha dato statuto filosofico al senso comune, distinguendo tra atti propri dell’uomo (actus humanus) e gli atti comuni all’uomo e agli altri animali (actus hominis). Negli atti propriamente umani è presente la libertà, assente invece negli atti genericamente dell’uomo. La distinzione tra i 2 tipi d’atti è indicata nominando i primi come “azioni” e i secondi come “passioni”: i primi sono “agiti”, tramite l’esercizio della libertà ed i secondi sono “patiti”, dovuti cioè ad altri dinamismi, fisici, psichici, ... di cui l’uomo, non essendo puro spirito, è costituito. Tale distinzione però non può essere irrigidita sino ad immaginare che tutti gli atti vadano incasellati nell’uno o nell’altro tipo, sicché vi sarebbero atti puramente liberi ed altri necessitatati. Non essendo l’uomo puro spirito/solo corpo animale, ma “totalità unificata” (GP II) di spirito/ corpo, le azioni umane sono intreccio di azione/passione. I 2 concetti segnalano i 2 poli estremi entro la cui tensione si costituiscono le azioni, che risultano più o meno agite o più o meno patite. Le azioni sono costituite dalla reciprocità di volontario/involontario. L’analisi morale dell’azione umana suppone però che essa sia almeno minimamente libera. Senza nemmeno un briciolo di libertà, l’atto fuoriesce dall’ambito di competenza della scienza morale, divenendo oggetto d’altre discipline; la libertà non vive se non in azione. Tracciando l’estensione dell’agire libero, possiamo fissare al limite inferiore dell’agire morale “l’azione prorompente/impulsiva in cui il soggetto non si riconosce e di cui dice che gli è sfuggita”. All’estremo superiore collochiamo “l’azione differita in cui una decisione è presa, ma la sua esecuzione è subordinata da un segnale che non dipende da me (circostanze materiali, condizioni corporee, eventi sociali, ...)” (Ricoeur). Dopo aver delimitato in negativo l’estensione dell’agire umano, tra il limite inferiore dell’azione impulsiva e quello superiore dell’azione differita, si tratta ora di definirlo in positivo. L’operazione però non è scontata, poiché l’azione non è un oggetto statico, ma processo dinamico. 1.3 I tempi dell’azione L’azione morale è un dinamismo che non può essere staticamente fissato. Come per la fisica quantistica, vale il principio d’indeterminazione di Heisenberg, per cui è impossibile determinare simultaneamente con lo stesso grado di precisione la posizione e velocità di una particella subatomica; per la riflessione morale è impossibile descrivere l’azione senza perderne di vista il dinamismo: si può al massimo procedere ad un rilievo di alcuni momenti topici. Con un paragone fotografico, i tempi dell’azione che descriviamo non sono il filmato dell’agire morale, ma una sequenza di foto. Nella S. Th. si rinvengono 6 tempi dell’azione morale, definibili in base alla diversa configurazione che la libertà in essi assume. Seguendo il corso di un’azione, si potrebbe scorgere: - tempo del volere, in cui la libertà desidera acquisire un dato bene - tempo del progetto, in cui la libertà (in)tende effettivamente alla realizzazione di ciò che prima solo desiderava - tempo del discernimento, in cui la libertà confronta le varie possibilità di realizzare ciò che intende - tempo della scelta, in cui la libertà decide di realizzare ciò che intende - tempo dell’efficienza, in cui la libertà persegue la scelta compiuta - tempo della gioia, in cui la libertà gode del desiderio realizzato In quanto forme eventuali della libertà, la sequenza dei vari tempi dell’agire non risulterà sempre completa/invariabile. I 6 tempi visti sono solo delle possibili disposizioni della libertà, la quale può saltarli/soffermarsi/interromperli/enfatizzare l’uno o l’altro, dando origine ad un’infinità d’azioni dalle combinazioni più varie. La diversa gestione dei tempi dell’azione può rivelare una “libertà pigra” (che non passa mai da un tempo all’altro dell’azione, consentendole così di compiersi) o una “libertà impulsiva” (che brucia i tempi dell’azione). Pigrizia/impulsività descrivono bene l’odierna libertà umana, oscillante tra disimpegno/sperimentalismo. Le scelte eternamente rimandate convivono con quelle improvvisate. L’uno e l’altro atteggiamento sono 2 facce delle stessa medaglia. La libertà pigra è una libertà che, rinunciando all’impegno attivo, più facilmente subisce l’influsso delle passioni, agendo impulsivamente. La libertà, nella varietà dei suoi tempi, è sempre in azione; la diversa qualità dei tempi in cui si attua, la determina in modo diverso; diverso è il “peso” d’ogni tempo e quindi la sua incidenza sulla fisionomia che la libertà assume. Il tempo della scelta è decisivo: è quello in cui la libertà decide irreversibilmente di sé. 1.4 La scelta Quando la libertà sceglie di fare qualcosa, rinuncia simultaneamente ad ogni altra cosa. Il risvolto negativo della scelta positiva è il “tagliar via” le altre possibili scelte: la scelta è una de-cisione che, come suggerisce l’etimologia, comporta una recisione. Il carattere decisivo della scelta fa di essa un filtro tramite cui la libertà realizza una possibilità e si priva delle altre. L’azione è filtro che trasforma una possibilità futura in realtà del passato (è la sezione della clessidra che consente il transito di un solo granello di sabbia, che non è più confinato nell’ampolla superiore e, dopo essere transitato, è fissato nell’ampolla inferiore). Attraverso la scelta, le molteplici possibilità del futuro divengono l’unica necessità del passato: si potrà anche rinnegare la scelta fatta, ma essa non potrà essere disfatta. La scelta di una tra le possibilità che si presentano non pone problemi normalmente. La situazione si complica quando la scelta riguarda l’ambito morale, ossia azioni qualificabili come buone/cattive. 1.5 Le 3 fonti della moralità - “atti periferici”, che lo fanno solo parzialmente. In questi, l’opzione fondamentale rimane invariata. La diversa incidenza delle azioni particolari sull’opzione fondamentale comporta la variazione di quest’ultima fino al suo rovesciamento da positiva a negativa o, al contrario, da negativa a positiva. Il passaggio dal sì al no verso Dio costituisce il peccato; quello dal no al sì la conversione. L’opzione fondamentale per il Bene assoluto (Dio) può giocarsi nelle scelte particolari riguardanti i beni umani. 2.2 La coscienza Richiamando il loro indissociabile vincolo, l’enciclica Veritatis Splendor afferma che “l’opzione fondamentale s’attua mediante scelte consapevoli/libere”. La consapevolezza/deliberazione delle scelte in cui s’attua l’opzione fondamentale introduce il tema della coscienza morale. Quale consapevolezza ha l’uomo del peso delle sue azioni? Come egli sa che nelle sue azioni particolari si gioca la sua opzione fondamentale? Come si orienta tra i beni umani percependo al contempo l’implicazione del Bene divino? Come l’uomo conosce il bene e il male, minuscoli e Maiuscolo? A fronte dell’enfasi sulla coscienza e sui suoi diritti risulta problematico stabilire cosa essa sia. Il termine “coscienza” è come un attaccapanni su cui le discipline scientifiche (biologia, psicologia, filosofia, cibernetica, ...) appendono le loro diverse/conflittuali interpretazioni. In epoca moderna/ contemporanea, la coscienza morale è stata criticata sino ad essere eliminata perché considerata prodotto derivato e mascherato di condizionamenti gravanti sulla libertà dell’uomo. Le decostruzioni più classiche sono quelle dei “maestri del sospetto” (Marx, Freud e Nietzsche): - per Marx, la coscienza morale è il riflesso nella mente del singolo della sovrastruttura sociale prodotta dai rapporti di produzione economica. - per Freud, la coscienza morale coincide col territorio psichico del Super-Io, prevalentemente inconscio e derivante dall’interiorizzazione dell’autorità dei genitori. - per Nietzsche, la coscienza morale è la “voce del gregge in noi”, ossia l’effetto dovuto all’interiorizzazione di norme morali di una certa società. Dato il recente rilievo assunto dalla biologia cerebrale e il revival dell’evoluzionismo biologico, tra i maestri del sospetto ascriviamo anche Darwin e coloro che ritengono che la coscienza non è che il prodotto sofisticato di meccanismi neuro-biologici. 2.2.1 Consapevolezza psicologica e coscienza morale “Coscienza” etimologicamente traduce il greco syneidesis (dal verbo syn-oida: con-sapere, sapere con altri). Ad esso corrisponde in latino, per imitazione letteraria, il termine conscientia, composto da cum e scientia. L’etimologia di “coscienza” rimanda ad una realtà in relazione con altro da sé. Ciò è confermato dalla filosofia contemporanea che dichiara che “ogni coscienza è coscienza di...”. Il paragone/similitudine con la percezione sensoriale illumina la natura relazionale della coscienza: la vista è tale nella misura in cui l’occhio è raggiunto dalla luce riflessa sulla retina; l’orecchio non produce da sé l’udito ma necessita del suono, il gusto d’un sapore, l’olfatto d’un odore, il tatto d’un oggetto. Dov’è però la differenza tra percezione sensoriale/coscienza morale? La differenza è nella “responsabilità”, dimensione tipica della coscienza morale. Per parlare di coscienza morale non basta che un soggetto si dica colpito da un valore morale. Il semplice essere colpiti appartiene al livello psicologico della coscienza (a quella che definiamo “consapevolezza psicologica”). Un es. chiarirà la somiglianza e la differenza tra coscienza in senso psicologico e in senso morale: È la differenza tra innamoramento e amore: l’uno e l’altro non sono estranei (di solito l’uno innesca l’altro), ma non coincidono. L’amore per l’altro/a prevede la libera scelta, consapevole e volontaria (non solo “mi piaci”, ma anche “ti voglio”). La coscienza morale non consiste solo nella consapevolezza d’essere in relazione con qualcosa/qualcuno, ma risponde delle relazioni che inevitabilmente intrattiene. Così si parla della coscienza morale come coscienza “responsabile”, cioè abile nel rispondere a ciò che l’interpella. La responsabilità della coscienza morale è dovuta alla libertà di determinarsi rispetto a ciò che la interroga. La risposta della coscienza non è predeterminata, come un impulso incontrollabile/istinto automatico, ma libera, anche se non assolutamente. Ciò spiega la stretta parentela che intercorre sotto il profilo morale tra coscienza/libertà. La coscienza morale, poiché riconosce il bene e di esso decide, è la radice da cui la libertà si alimenta. La libertà, poiché ragionevole, è attività cosciente, coscienza in azione. La libertà di cui gode la coscienza morale non è libertà ab-soluta (sciolta da ogni legame). La coscienza infatti è sempre “coscienza di ...” e dunque sussiste nella misura in cui è “dialogo con ...”. La coscienza non si chiude mai in un monologo: la pura autonomia è solo un’illusione. 2.2.2 La coscienza morale come eco della voce di Dio Una considerazione adeguata delle relazioni costitutive della coscienza prevede di considerarne almeno 4: - relazione ambientale con natura/cultura - relazione intrapersonale col corpo - relazione interpersonale col prossimo umano - relazione religiosa con Dio La censura/esagerazione di una di tali relazioni compromette la coscienza morale, producendo numerosi deviazioni identificabili dalla desinenza -ismo (naturalismo, storicismo, relativismo, individualismo, collettivismo, ...). Guardiamo alla dimensione religiosa della coscienza: il Conc. Vat. II definisce la coscienza “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”. Dopo l’assunzione nel vocabolario greco- pagano della coscienza, è Paolo il 1º autore a farne uso nella S. Scrittura e la tradizione cristiana ne ha indagato il misterioso fenomeno cercando di comprenderlo sia nella sua provenienza da Dio, che nel suo radicamento nell’intimità dell’uomo. Ora la si è intesa soprattutto come voce di Dio (Agostino), che l’uomo sente quando rientra nell’intimo di se stesso; ora come voce dell’uomo (Tom.), nel senso per cui l’uomo, partendo dalla conoscenza dei principi del bene e del male di cui Dio lo ha dotato, li applica mediante ragione alle singole sue azioni, giudicandole nella loro bontà/ malizia. In tale 2ª visione (la più influente nella dottrina morale cattolica), la coscienza morale comprende sia la stabile percezione dei principi della moralità (definita sinderesi a partire dal Medioevo), sia il giudizio concreto su atti che sono già o non sono ancora stati compiuti (ciò che nel Medioevo di chiamava conscientia). In epoca recente, anche in reazione ad un’ipertrofia della legge oggettiva rispetto alla coscienza soggettiva, si rivendicava una totale autonomia di coscienza nelle proprie scelte morali. Anche laddove non si neghi il riferimento a Dio ed ai principi generali della legge morale si postula l’insindacabilità della propria coscienza e si concepiscono le questioni morali come questioni private. A fronte del rischio di censura della voce di Dio nell’interpretazione della coscienza, il Magistero morale recente insiste sulla necessità di concepire la coscienza come “testimonianza di Dio stesso, la cui voce/giudizio penetrano l’intimo dell’uomo. Nel giudizio pratico della coscienza che impone alla persona l’obbligo di compiere un determinato atto, si rivela il vincolo della libertà umana con la verità divina” (GP II). Il richiamo del magistero impegna la teologia morale a riprendere l’antico compito d’indagare il misterioso fenomeno della coscienza morale, rendendo ragione della sua duplice qualità (divina ed umana); interessante è la metafora della coscienza come “eco d’una voce” (Card. Newman). Partendo dalla metafora newmaniana, s’intende la coscienza come eco producentesi nel contatto dello Spirito divino con la libertà umana. La coscienza morale sarebbe il “suono”, più/meno accentuato, che scaturisce dall’intreccio tra iniziativa amorosa dello Spirito e tipo d’accoglienza che la libertà gli riserva; sarebbe l’eco che si produce quando la vibrazione amorosa ingiunta dallo Spirito, corrispondente al comandamento nuovo dell’amore (Gv), incontra la frequenza amorosa a cui la libertà vibra nelle azioni che compie. Concepita come eco dello Spirito Santo che “risuona” in base alla diversa disposizione amorosa della libertà, la coscienza non è più voce solo divina o solo umana (nemmeno la somma delle 2). La coscienza morale è un “fenomeno relazionale”, ossia derivante dalla relazione libertà umana/ Spirito divino, la “voce sinfonica” che attesta/giudica le azioni: poiché dipende dalla libertà, attesta la qualità di un’azione; poiché è dovuta dallo Spirito, ne è il giudizio. 3. Storia dell’atto Se l’uomo agisce istruito/sorvegliato dalla coscienza, opta pro o contro Dio. L’agire umano non si frammenta però in tante azioni giustapposte, ma si distende nel tempo della vita terrena dell’uomo. L’analisi di tale concetto è illuminata coi concetti di “possesso” e “privazione”. Il decidere, poiché riduzione delle possibili scelte all’unica, da una parte permette all’uomo di venire in possesso di ciò che ha scelto, dall’altra lo priva di ciò che non ha scelto. Quando la scelta è d’ordine morale (riguardando il bene da fare), succede che l’uomo, compiendolo, ne entra in possesso, divenendo più buono; mentre omettendolo se ne priva, divenendo più cattivo. Una scelta d’ordine morale può altrimenti riguardare il male da evitare. Allora l’uomo, compiendo il male si priverebbe del bene divenendo più cattivo e astenendosi dal compierlo, si priverebbe del male risultando più buono. La bontà di cui l’uomo, tramite le sue scelte, entra in possesso o si priva diviene condizione del suo agire, un habitus che, a seconda che sia buono o cattivo, si specifica rispettivamente come virtù o vizio. L’azione della libertà, che si incardina nella scelta, è il telaio su cui si tesse la personalità morale (virtuosa/viziosa) del soggetto agente. La virtù è così “storia buona della libertà (o storia della libertà buona)” e il vizio “storia cattiva della libertà (o storia della libertà cattiva)”. Poiché qualificazione buona della storia della libertà, la virtù appartiene alla libertà e determina il bene fatto dalla libertà; invece, poiché qualificazione cattiva della storia della libertà, il vizio appartiene alla libertà e determina il male fatto dalla libertà. 3.1 Virtù “Virtù” deriva dal latino virtus, ossia forza/valore (da vir = uomo maschio), ma dipende dal greco areté (etimologicamente legato ad áriston, il migliore, superlativo di agathón, buono). La vita secondo virtù (anche per i filosofi greci) è la miglior vita che l’uomo possa condurre. La virtù, per Aristotele, è acquisibile dall’uomo mediante l’esercizio costante/ripetuto di un’azione buona, da cui deriva la disposizione stabile a fare il bene spontaneamente/facilmente/piacevolmente. Le virtù morali si acquisiscono come le abilità artistiche (ad es. costruendo case diventiamo architetti e suonando la cetra diveniamo cetaredi). In senso greco-classico, la virtù è prodotto dell’attività umana. Virtuoso è colui che, mediante l’esercizio ascetico, ha scolpito nel suo carattere la capacità di fare il bene. “La virtù rende buono chi la possiede e buona l’azione che compie” (Tom.). Virtuoso è l’agente buono che agisce bene. La genesi antropocentrica della virtù è il principale motivo per cui nella Bibbia il concetto di virtù è assente e mai compare sulle labbra di Gesù. La successiva teologia però, incrociando la filosofica greco-classica, ha assunto il concetto di virtù per farne una delle chiavi per comprendere la realtà viva della vita cristiana. Ciò è avvenuto nel Medioevo in primis grazie a Tom., che ha integrato la concezione filosofica di Aristotele con quella teologica di Agostino. Per quest’ultimo “la virtù è una qualità buona della mente umana con la quale rettamente si vive e che Dio produce in noi senza di noi”: qui la virtù non è prodotta dall’uomo mediante i suoi atti, ma all’uomo donata da Dio per pura grazia. Secondo la visione cristiana, più che nel terreno della volontà umana, la virtù è piantata in quello della grazia divina. L’originale integrazione di Tom. non manca di presentare la virtù come ciò che l’uomo acquisisce, ma ritiene che ciò sia possibile per dono di Dio. La definizione ormai classica della dottrina cristiana, quella della virtù come habitus infusus, segnala questa particolarità: l’uomo “ha” virtù perché Dio gliela “infonde”. 3.2 L’articolazione della virtù Il legame con Dio rende ragione di come il termine virtù, prima d’essere specificato in riferimento alle singole virtù, dev’essere colto nella sua unitaria radice. Le molteplici virtù cristiane sono come ramificazioni d’un albero il cui tronco affonda nell’unico terreno della grazia divina, che genera/ alimenta, come linfa, i vari rami. L’originale integrazione di Tom., oltre che il concetto di virtù, riguarda anche i suoi contenuti. Egli provvede all’integrazione delle 4 virtù di prudenza/giustizia/fortezza/temperanza, mutuate dalla filosofia ed introdotte dal Cristianesimo come “virtù cardinali” da Ambrogio, con le 3 virtù teologali di fede/speranza/carità (d’origine biblica). L’integrazione di Tom. estende il concetto di habitus infusus, riferito originariamente alle virtù teologali, a tutte le virtù della vita morale, a partire dalle 4 “cardinali” per giungere alle altre, irriducibili ad un preciso ordine/numero che lo Spirito Santo infonde sin nelle minime specificazioni dell’agire umano. Le virtù teologali non s’aggiungono alle morali per addizione, ma s’”infondono” in esse, sicché le virtù morali vanno considerate l’”incarnazione” delle virtù teologali che, da parte loro, svolgono un’azione integrante/animatrice dell’agire morale. Colta la radice unitaria dell’albero della virtù si prosegue lo studio seguendone tutte le ramificazioni (Tom. ne considera più di 40). La rilevanza della triade teologale delle virtù è segnalata dal suo essere attestato nel Nuovo Testamento, che pur non sviluppa una teologia delle virtù. Paolo formula la triade fede/speranza/carità (vediamo la conclusione dell’anno alla carità: “Ora rimangono 3 cose: fede, speranza, carità. Ma la più grande di tutte è la carità” (Cor)). Nel tentativo di cogliere ciò che ognuna delle 3 virtù teologali esprime dell’unico mistero della grazia divina che incontra la libertà umana, invece che attingere al non immediato linguaggio della riflessione teologica, assumiamo la fenomenologia dell’abbraccio: esso è un simbolo evangelico da cui traspare l’incontro di Dio con l’uomo. Ad es. nella parabola del Padre misericordioso evochiamo l’abbraccio col figlio più giovane: “quand’era ancora lontano, suo Padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. Nel quadro di Rembrandt notiamo le braccia del Padre che s’aprono per attirare/accogliere il figlio e stringerlo a sé; il figlio, attratto dalle braccia del Padre, è indotto a corrispondere all’abbraccio concedendosi a Lui. Notiamo poi il relazione amorosa con Dio/prossimo: il peccato veniale può essere visto come la “preistoria” del peccato mortale. Reciprocamente, il peccato mortale, più che essere considerato come episodio che capita improvvisamente (fulmine a ciel sereno) va riconosciuto nel suo carattere processuale. L’identificazione del peccato mortale con la stabilità del vizio non compromette la possibilità che il peccato mortale si realizzi con un solo atto: un solo atto può originare la stabile propensione viziosa. La miglior spiegazione di tale eventualità esige di studiare l’intensità dell’agire peccaminoso mediante la considerazione delle condizioni oggettive/soggettive del peccato. 1.3 Le condizioni del peccato La concezione del peccato come disamore porta a riformulare, riguardo l’amore, 3 elementi la cui compresenza, per la tradizione moralteologica, comporta il peccato morale e l’assenza di uno di essi invece determina il peccato solo veniale: sono la “piena avvertenza”, il “deliberato consenso” e la “materia grave”. In tale direzione s’orienta la stessa dottrina comune della Chiesa, quando insegna che “la materia grave è precisata dai 10 Comandamenti, secondo la risposta di Gesù al giovane ricco: ‘Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora padre e madre’. La gravità dei peccati è più o meno grande: un omicidio è più grave d’un furto. Si tiene conto anche delle qualità delle persone lese: la violenza contro i genitori è più grave di quella fatta ad un estraneo”. La materia grave è riferita all’amore del prossimo, di cui i precetti del Decalogo sono condizione basilare. La concezione del peccato come disamore comporta una visione interpersonale della materia grave del peccato e dunque della sua oggettiva gravità. L’oggettività del peccato è connessa all’altro, più che non ad un valore ideale/legge impersonale. “L’oggetto della colpa è qualcuno che ferisco. La sua presenza è nel cuore stesso del mio rifiuto, come una chiamata/ accusa (e anche una proposta di perdono), più di quanto non lo siano un oggetto/legge/valore. L’oggettività del male è in ogni realtà umana ferita. Nella miseria/fame del povero, nella magrezza del denutrito, nella sofferenza del corpo torturato, nella solitudine dell’abbandonato, nella donna ingannata, negli uomini disprezzati, in coloro che sono oggetto di gelosia/disperso, ...” (Guilluy). La materia grave segnala il confine oltre cui il disamore diviene letale per la vita del prossimo. La materia però, riguardando l’amore per il prossimo, non prescinde dai soggetti in relazione. Perciò, seppur la materia grave traccia un confine alla possibilità dei soggetti di dar forma all’amore, nondimeno il disamore non è circoscritto dalla materia grave, ma può manifestarsi altrimenti. La forma disamorosa può plasmarsi assumendo una materia che diverrà lieve o grave a seconda delle intenzioni dei soggetti in gioco, della situazione in cui si trovano, del grado amoroso della loro relazione. Il disamore non è dovuto alla sola variabile del che cosa si fa al prossimo, ma anche a quella del come s’agisce. L’intensità del disamore può ag-gravare la materia, rendendola, per quanto lieve, espressiva di peccato mortale. Non esiste un peso assoluto dei peccati (che prescinda dai soggetti in gioco), ma esiste un “peso specifico” dovuto al grado amoroso della relazione. Pur entro certi limiti, segnalati dalla materia grave definita dal Decalogo, la gravità del peccato è flessibile in relazione all’alleanza amorosa. Ad es., in un matrimonio in cui 2 coniugi, quando litigano, sono abituati ad usare “espressioni pesanti”, l’offesa verbale risulterà meno grave che non l’uso delle stesse espressioni tra coniugi abituati, anche quando litigano, al reciproco rispetto. L’oggettività del riferimento al prossimo non esaurisce gli elementi essenziali per determinare il peccato; s’esige che l’elemento della materia grave sia integrato dagli elementi della piena avvertenza e del deliberato consenso. La determinazione di piena avvertenza e deliberato consenso non è agevole, tanto più dopo che le scienze umane (es. psicologia) hanno mostrato l’incidenza dei dinamismi inconsci sull’amore umano; una concezione del peccato come disamore scalza l’improbabile convinzione che piena avvertenza-deliberato consenso siano misurabili in termini di totale lucidità razionale/assoluta purezza della volontà. Tale convinzione si tramuta nel comodo alibi di chi invoca le oscure trame/ sorde pressioni dell’inconscio. La piena avvertenza/deliberato consenso, se riferite all’amore del prossimo, si riferiscono alla percezione del suo bene ed alla disposizione a realizzarlo. E il bene del prossimo, avendo come riscontro l’espressione del suo volto e la concretezza della sua vita, è più riscontrabile che non i gradi della propria consapevolezza/libertà. È nella relazione vissuta con gli altri, più che non nello sguardo introspettivo dentro di sé, che ci si può render meglio conto della qualità consapevole/volontaria delle proprie azioni. 2. La conversione Rispetto all’attrazione dello Spirito, la libertà può resistere, opponendosi nel peccato, o (ar)rendersi, lasciandosi gradualmente plasmare affinché ami come Cristo. Tale processo di conversione non avviene in un momento, ma nel corso del tempo si distende allontanandosi dal peccato e progredendo nell’amore di Cristo. La meta della conversione è ben oltre la mera emendazione dai peccati: “essa corrisponde all’’uomo perfetto’, fino a giungere alla pienezza di Cristo” (Ef). Nella continuità d’un processo che non conosce rigidi confini, la tradizione spirituale distingue 3 livelli di conversione: iniziale, progressiva, perfetta. Tale sequenza diacronica non coincide per forza con il suo sviluppo cronologico. L’esperienza dei cristiani dimostra che la storia della conversione non conosce solo il progresso lineare, ma anche arresti/cadute/regressi. 2.1 La conversione iniziale La morale cristiana vive della grazia di Cristo; la conversione dell’uomo dalla morte del peccato alla vita di carità inizia con l’atto di fede, mediante cui il peccatore s’apre all’iniziativa della grazia. Il momento sacramentale proprio è il battesimo che, per l’insegnamento del Magistero definito al Concilio di Trento, benché tolga il peccato originale, lascia la concupiscenza che, anche se non va intesa come vero/proprio peccato, da esso ha origine ed inclina. L’inizio della conversione morale si caratterizza come liberazione dal dominio della concupiscenza, così che la libertà non assecondi la sua inclinazione peccando mortalmente. Essa mira all’abbandono di quei comportamenti gravemente contrari alla carità cristiana. Strumento per la lotta contro il peccato mortale è la grazia del sacramento della riconciliazione, accompagnata dalle “opere di penitenza”, ossia preghiera/digiuno/elemosina. 2.2 La conversione progressiva La conversione suscitata dalla grazia ed assecondata dal libertà apre al successivo progresso. L’attenzione, prima centrata sulla liberazione dal dominio della concupiscenza e quindi dal peccato mortale contro l’amore (contra caritatem), col progredire della conversione diviene impegno a far sì che nessuna azione umana sia senza amore (praeter caritatem). La conversione si configura in un ulteriore stadio come lotta contro il peccato veniale. La necessità di tale lotta non è facoltativa, poiché l’agire morale umano non conosce posizioni di stallo, neutre: o retrocede verso il male o procede verso il bene. Comprendiamo l’opportunità della c.d. “confessione di devozione”, benché non obbligatoria, è raccomandata dalla tradizione spirituale della Chiesa. La considerazione non puntuale ma processuale del peccato invita a combatterlo fin dal suo comparire all’orizzonte come tentazione. La tentazione, poiché azione sulla libertà, richiede di re- agire (ponendo una contro-azione). Accontentarsi dell’intenzione di resistere alla tentazione rimanendo in essa, oltre che presuntuoso, è ingenuo. Circa la tentazione, la traduzione cristiana distingue tra diavolo, mondo, concupiscenza. Poiché la tentazione diabolica agisce nel mondo e mediante la concupiscenza, accenniamo solo a queste ultime, non dimenticando che i mezzi per il combattimento contro il Maligno sono in primis i sacramenti e poi i sacramentali (esorcismi), accompagnati da preghiera/digiuno/elemosina. La tentazione mondana è conosciuta nella tradizione moralteologica anche come “occasione di peccato”, con cui s’intende “circostanza inerente a persone, cose, rapporti di tempo/luogo e che costituisce un’occasione esteriore di tentazione, un pericolo di peccare. Secondo la gravità del pericolo, si parla d’occasione prossima o remota e secondo la possibilità d’evitarla si parla d’occasione necessaria o volontaria di peccato. Siamo obbligati ad evitare ogni occasione di peccato e quando (per ufficio, posizione, ...) si tratta d’occasione necessaria, di renderla remota applicando metodi adeguati. Le occasioni remote connesse alla vita d’ogni giorno non possono e non devono essere evitate”. La strategia di fuggire le occasioni prossime di peccato non vale solo per la tentazione esteriore del mondo, ma anche per quella interiore (o concupiscenza, come riportava la Bibbia come “concupiscenza (epithymia) della carne, degli occhi e superbia della vita”). La S. Scrittura descrive emblematicamente il sorgere della tentazione e il suo tradursi in peccato nel racconto del “peccato originale” (nella Gen). Tale peccato è al culmine di quello che, analogicamente, definiamo il racconto della “tentazione originale’ (tentazione da cui ogni peccato s’origina). Essa sorge come deformazione della coscienza: la suggestione del serpente attrae lo sguardo della donna su di un unico albero (quello della conoscenza di bene-male) e quindi distraendolo da tutti gli altri alberi. “La donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza” (Gen). L’astrazione impedisce a donna e uomo di ricordare che il comandamento di Dio non è riducibile al non mangiare dell’albero della conoscenza del bene-male, ma prevede di mangiare dei frutti degli altri alberi; il comando diventa solo negativo e scatta il desiderio della trasgressione. Tale racconto mostra come il peccato abbia la sua genesi nella tentazione interiore (concupiscenza), tentazione che mira a falsificare lo sguardo sulla realtà: l’immagine del mondo viene distorta; l’attività immaginativa gioca un ruolo determinante nella tentazione. Se l’attività immaginativa è all’origine della tentazione, la strategia migliore per non cadere in tentazione è quella di vigilare sulla propria immaginazione: ciò assume rilievo nell’attuale società dell’immagine, che interviene efficacemente nell’attività immaginativa del soggetto, fino a inoculargli una realtà virtuale che prende il posto della realtà reale. L’estetica, senza etica, scade nell’estetismo, falsa apparenza senza verità, menzogna. E la menzogna, poiché rifiuto della verità, è lo statuto epistemologico del peccato. Se è vero che l’estetica non può fare a meno dell’etica, è anche vero che l’etica non può fare a meno dell’estetica: l’etica senza estetica cade nell’ascetismo privo di senso. La morale non può limitarsi alla censura di immagini/immaginazione, ma dovrà indurre all’immaginazione del bello: la morale abbisogna dell’arte. 2.3 La conversione perfetta La conversione, fin dal suo sorgere, è orientata a Dio: essa non è adeguatamente descritta col termine “conversione”, ma è meglio qualificata come “conversione a Dio”. In tutta la tradizione cristiana (e anche nella S. Scrittura) per dire del perfezionarsi della conversione s’è ricorso al tema della “sequela” e dell’”imitazione di Cristo”. L’imitazione cristiana trova espressione nell’esortazione di Paolo ai Filippesi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo”, ciò che è possibile solo per opera dello Spirito Santo. Attirando l’uomo nella comunione con Cristo e il Padre, lo Spirito evita che l’imitazione dei cristiani si riduca al fallimentare tentativo delle loro sole forze. Al contrario, ogni atto buono è frutto dell’azione creativa dello Spirito accolto nella fede. Anche al suo livello più maturo (come agli esordi), la conversione si configura come fede nella grazia dello Spirito Santo. 3. Il discernimento morale La storia della libertà conosce l’alternativa peccato-conversione. La considerazione storica delle 2 alternative ha indotto a intenderle non come situazioni statiche, ma come processi dinamici: si diviene peccatori, si progredisce nella conversione. Se la vita morale è marcia verso l’una o l’altra alternativa, risulta che né l’una, né l’altra sono già fissate. Dal punto di vista morale l’uomo non è definitivamente né diavolo, né santo, ma è più prossimo all’uno o all’altro: la storia della libertà umana può così essere intesa come storia d’un conflitto sofferto e riconciliato. 3.1 Le situazioni conflittuali Il conflitto che la libertà vive nella storia non riguarda la scelta di peccato o conversione, del bene piuttosto che del male: a tale livello non ci può essere conflitto di coscienza che sempre, senza eccezioni, deve scegliere il bene ed evitare il male. Il conflitto riguarda piuttosto i singoli beni, che sono la modalità storica mediante cui l’uomo si decide rispetto al Bene divino. Capita che beni/valori entrino in conflitto? Vi sono autori che lo negano. La ragione su cui si basano è che ogni valore si colloca in un universo di valori gerarchicamente ordinato. Tenendo presente la libertà con le sue inevitabili implicazioni, si può indicare una scala assiologica che, in senso ascendente, collochi valori fisici, valori morali e valori religiosi. Il diverso livello su cui si collocano impedisce che sorga conflitto di valori dal punto di vista morale; la scelta della libertà infatti non può che preferire il valore superiore, Ma i valori/beni, gerarchicamente ordinati, non sussistono allo stato puro/ideale: essi sono sempre situati in una storia che, per i limiti interni/esterni della libertà, non realizza il bene assoluto, ma solo quello possibile qui e ora. Il massimo bene possibile non è tutto il bene idealmente realizzabile; esso comporta un bene che non viene realizzato. Inoltre, non sempre il bene maggiore risulta chiaramente determinato. È per es. il caso in cui 2 o più valori: 1. siano omogenei, ossia si trovino sullo stesso piano della gerarchia dei valori 2. siano entrambi urgenti 3. la scelta dell’uno comporti inevitabilmente l’emissione/esclusione/violazione degli altri. La libertà umana non realizza solo il bene, ma mentre realizza progressivamente il bene ancora compie il male, come Paolo attesta nelle pagg. dei capp. VII e VIII della Lett. ai Romani. Una libertà storica non è una libertà escatologica: la 1ª patisce ancora il conflitto bene-male. La vita sulla Terra ancora non gode dell’avvento definitivo del Regno dei Cieli. Accettando la conflittualità quale condizione reale della libertà, non si può pensare alla scienza morale come alla via per sottrarsi alla responsabilità, ma si deve intenderla come l’insegnamento ad assumerla, anche nei riguardi del male che l’uomo, data la sua condizione storica, non sa evitare. La morale non diventa la modalità per sottrarsi alla responsabilità, ma l’itinerario mediante cui l’uomo si fa carico del male che inevitabilmente ancora compie. decifrare. Lo Spirito crea la stessa coscienza. Dove giunge lo Spirito non solo sorge la capacità di scegliere bene, ma sorge la stessa capacità di scegliere. La formazione della coscienza morale (sorgere della capacità di discernere bene-male, scegliendo il 1º ed evitando il 2º) più che attività dell’uomo è disponibilità dell'uomo nei confronti dello Spirito Santo. Formare la coscienza, più che un "fare" dell'uomo, è un "lasciarsi fare" da Dio. La coscienza è in primis responsabilità nei confronti dello Spirito, frutto della relazione con Lui. Vari sono i luoghi in cui lo Spirito, che pur soffia dove vuole, può essere percepito. Tra essi alcuni lo sono in modo speciale: S. Scrittura, sacramenti, comunità cristiana. 1. Coscienza morale e S. Scrittura. Facciamo un es. di come la S. Scrittura intervenga nella formazione della coscienza morale; un giovane ricco deve decidere del suo futuro e porta nel cuore la domanda sul senso della vita e sulla sua relazione con Dio. Il giovane è incerto tra 2 ipotesi accompagnate da 2 sentimenti: nella 1ª ipotesi si vede dedito alla pratica religiosa, cui corrisponde un sentimento d'oppressione; nella 2ª s'immagina libero da ogni remora religiosa, ma teme il giudizio divino. Nell'uno o nell'altro caso cova un segreto risentimento verso Dio, nei confronti del quale deve comunque decidersi. La parabola del Padre Misericordioso interviene agendo in primis sul risentimento e quindi riconfigurando le condizioni del discernimento in atto. Il risentimento è tolto, perché la parabola induce a cancellare l'immagine di padre-padrone che ambo i figli, minore e maggiore, avevano attribuito al genitore. Se il padre è buono, non geloso delle sue sostanze ma preoccupato che i figli vi partecipino, allora non si tratta più di scegliere tra il servirlo sentendosi uno schiavo e andandosene temendo il castigo. La scelta riguarda la modalità per corrispondere meglio all'amore del Padre. Il discernimento assume non più come misura la legge, osservata/ trasgredita, ma l'amore. E quando uno ama, diviene meno assillante la questione della scelta giusta ed il timore di sbagliare (Agostino dice: "Ama e fa ciò che vuoi!"). 2. Coscienza e sacramenti. Poiché comunicano lo Spirito Santo, i sacramenti provvedono alla formazione della coscienza. Ma in uno di essi pare più facilmente percepibile l’azione dello Spirito. L’esperienza dei cristiani (specie i santi) testimonia l’efficacia del sacramento della riconciliazione in ordine alla formazione della coscienza. L’efficacia è legata alla profonda personalizzazione che tale sacramento consente. Confessare ciò che è nell’intimo della propria coscienza permette d’imparare a conoscersi meglio e vivere più responsabilmente. A tal riguardo non va dimenticato che alla coscienza profonda si giunge imparando il linguaggio con cui essa s’esprime. E il linguaggio con cui la coscienza parla sono pensieri/parole/opere/ omissioni. Non si può riconoscere la coscienza che si ha senza considerare ciò che si fa: “Dai loro frutti li riconoscerete...”. 3. Coscienza e comunità cristiana. L’Illuminismo, reagendo agli assolutismi del passato, ha rivendicato i diritti della coscienza individuale. La giusta rivendicazione ha però ottenebrato le inevitabili relazioni che costituiscono la coscienza stessa e senza le quali la coscienza è deformata. Non è quindi immaginabile formare la coscienza laddove tali relazioni siano deteriorate. Ciò comporta l’impegno reciproco a fornire una buona relazione affinché l’altro possa formare la sua coscienza: ma implica un legame inscindibile tra coscienze, per cui è ingenuo immaginare che sussista una buona coscienza isolata, circondata da cattive coscienze. La sfida della formazione della coscienza non è impresa solitaria (da Don Chisciotte); essa si pone sotto il segno della parola evangelica: “Portate i pesi gli uni degli altri” (Gal). Interpretiamo tale espressione di Paolo non solo all’imperativo (come il comando di preoccuparsi del prossimo) ma anche all’indicativo (rivelazione che la relazione col prossimo, nel bene-male, è costituiva-inevitabile). Ciò significa che la coscienza amorfa/deforme dell’altro incide sulla mia e che, per quanto amorfa-deforme, la mia coscienza può contare sul beneficio della coscienza formata dall’altro. Non esiste solo la complicità del male, ma anche la solidarietà del bene. Tra le relazioni che la coscienza vive nella comunione morale della Chiesa v’è quella col Magistero gerarchico del Papa e dei vescovi, a cui compete, per particolare assistenza dello Spirito, il carisma dell’insegnamento. Ad essi spetta un compito rilevante nella formazione della coscienza morale. Nella contemporanea crisi del rapporto libertà-autorità, anche quello coscienza personale-Magistero gerarchico è divenuto conflittuale. Occorre riconoscere che Magistero gerarchico e coscienza personale non sono alternativi-rivali. Il servizio del Magistero si rivolge alle coscienze, affinché siano aiutate nel discernimento morale. L’integrazione Magistero-coscienza non esclude l’eventuale conflitto, il caso in cui cioè il dettame della singola coscienza sia divergente rispetto al dettato del Magistero. In tal caso, “per il singolo è la coscienza, qualora parli incondizionatamente, ad avere l’ultima parola, da cui egli non può allontanarsi. Ma ciò non significa avere anche l’ultima parola sulla realtà in questione: tale ultima parola, secondo il cattolicesimo, è destinata al Magistero, che però da parte sua non può eliminare il rapporto immediato della singola coscienza con Dio (Weber).