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Riassunto il paesaggio , Sintesi del corso di Estetica del Cinema

riassunto libro Paesaggio

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 29/01/2016

marta.messina.51
marta.messina.51 🇮🇹

5

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Scarica Riassunto il paesaggio e più Sintesi del corso in PDF di Estetica del Cinema solo su Docsity! Riassunto Il paesaggio nel cinema contemporaneo Premesse Nel web tutti i luoghi sono destinati a diventare paesaggi. Le immagini incontrate nelle incursioni, ormai quotidiane, dentro la rete declinano tutte le tipologie e tutti gli usi possibili di paesaggio: la pubblicità vacanziera, la denuncia dell’ambiente inquinato ecc.. Nel caos indifferenziato del web si ripropone, come in archivio disordinato, quell’idea di <<onni-paesaggio>> che caratterizzata l’epoca contemporanea secondo Micheal Jakob. I luoghi così sono ridotti alla loro icona, al marchio di riconoscimento e di spendibilità. L’ambigua collocazione del paesaggio tra rappresentazione ed esperienza viene moltiplicata in un processo continuo di reversibilità, in cui si perde il rapporto tra l’archetipo naturale e le sue riproduzioni, entrambi inglobai in un inesauribile circuito di flussi. L’antropologo Arjun Appadurai, con il concetto di << mediascape>>, indica un ambiente ormai integralmente ridefinito dai media, che si costituisce attraverso la simbiosi tecnologica e culturale fra luogo reale e schermo. Nella contemporaneità i principi di riproduzione del paesaggio ( come ad esempio mappe ecc.. ) si espandono dal momento che l’abbinamento tra informatica e video, progressi dell’interattività, il perfezionamento delle simulazioni dell’immagine numerica creano nuovi dispositivi estetici. Il termine paesaggio è tornato alla ribalta soltanto a partire dagli anni ’80 del ‘900, ponendosi in relazione con un’altra fitta rete di parole: ambiente, al centro dei movimenti ecologisti e delle loro etiche; natura, come ambito privilegiato del valore estetico, come sottolinea Paolo D’angelo, affermando che il paesaggio non è l’espressione di uno stato d’animo soggettivo ma costituisce l’ << identità estetica di un luogo >>, definita da un carattere intersoggettivo, che lega insieme storia e natura, individuo e comunità. Il paesaggio sottende una complicata formazione concettuale e, allo stesso tempo, esplicita un processo di concreta appropriazione dello spazio. Il riconoscimento di valori comuni e l’edificazione di un’identità culturale collettiva si fondano su un’azione sociale attuata attraverso la costruzione di una territorialità e di un immaginario condivisi. Queste riflessioni sollevano il paesaggio dalla dimensione di rappresentazione passiva per collocarlo in un versate ideologico e politico. Esso , secondo William J. T. Mitchell, non va più considerato come un genere dell’arte, ma come un << medium >>: una scena naturale mediata dalla cultura che incornicia e riproduce allo stesso tempo lo spazio presentato e quella rappresentato, il luogo reale e il suo simulacro. Importanti e numerosi si rivelano le ipotesi interpretative culturaliste che intendono il paesaggio filmico come strumento strategico nella definizione dei concetti di identità nazionale, culturale e sociale in merito alle politiche di rappresentazione. Il privilegiamento di un’ottica cinematografica si accompagna alla tensione verso un dialogo continuo con le altre arti e degli altri media: nella consapevolezza che intorno al paesaggio si giocano partite molteplici e che esso si pone sempre all’incrocio di campi di ricerca diversi, come una sorta di zona liminare, lambita da una varietà di punti di vista. Le sezioni del libro si pongono ognuna un obiettivo differente: a. La prima sezione, Topologie, è dedicata alla riflessione teorica; b. La seconda, Geografie, cerca di dar conto delle modalità di rappresentare il paesaggio in aree fisiche e culturali diverse; c. La terza, Attraversamenti, si concentra, su alcuni nodi decisivi legati alla forma documentaria, alla tecnologia digitale, alle arti sperimentali e alle architetture urbane. d. La quarta, Figure, si riferisce ad alcuni aspetti particolari del paesaggio, legati alla Dimentica del carattere necessariamente multisensoriale e perfino sinestesico dell’autentica esperienza del paesaggio, è una prospettiva che inficia un po’ tutta la storia di questa nozione, dal primo pioneristico vedutismo sino a quello totalmente deformato dalla velocità. Una quarta e più formale interpretazione è che oggi svolga la funzione del paesaggio solo ciò che garantisce l’estraniamento dal quotidiano. Che si ottiene col “ perdersi “ eversivo nello spazio e con la ricettività per l’inatteso reso possibile da qualsiasi detour. Ma forse la più tenace delle interpretazioni (o, come si è detto, pregiudizi ) è quella che, come effetto perverso della soggettivizzazione kantiana, ravvisa nel paesaggio, qualcosa che esiste unicamente nello sguardo, ovviamente relativo in storicamente condizionato, dello spettatore. Nessuna proiezione e reinterpretazione soggettiva, insomma, ci pare permetta invece di ravvisare nel paesaggio nebbioso, monotono e spazzato dal vento, splendidamente filmato nei piani-sequenza di Béla Tarr . Il paesaggio quindi – una porzione dello spazio ( vissuto ) ritagliata nel continuum per una sua riconoscibile tonalità atmosferica – non è affatto un’arbitraria proiezione del soggetto, tutt’al più una reazione proprio-corporea del percipiente a un sentimento che trova effuso nello spazio. Ed è filosoficamente interessante, in breve, non solo perché costituisce il registro delle storicamente mutevoli reazioni dell’uomo all’ambiente naturale, ma anche se non soprattutto perché segnala limpidamente la funzione centrale, il paesaggio smentisce comunque la nostra pretesa di essere del tutto razionali, rimandandoci esteticamente sia alla natura che noi stessi siamo, sia a come “ ci sentiamo “ nel mondo esterno. Soggettività del paesaggio? La proposta atmosferologica Tentiamo di rienterpretare la nozione di paesaggio in termini atmosferologici. Non tanto di rileggere le numerose teorie classiche, e magari anche l’evoluzione dell’arte dei giardini, in termini genericamente atmosferici, ma di verificare semmai se il concetto estetico e fenomenologico di atmosferica possa davvero aiutare a risolvere alcuni problemi. Il più ricorrente dei quali è quello della natura soggettiva od oggettiva del paesaggio. Non è certo sufficiente rinviare a relativa oggettività del paesaggio come << forma spirituale >> alla Stimmung, a una << forza unificatrice dell’anima >> , concepita irenicamente come una situazinoe anteriore a ogni dualismo soggetto/oggetto e proprio per questo ipoteticamente in grado di frugare ogni interpretazione unilaterale del paesaggio. Una concezione atmosferica del paesaggio presuppone: a. Che sia il paesaggio sia l’atmosfera esistano non alla maniera di gatti e tavoli, ossia di oggetti distaccati, tridimensionali, ma anche entità solide dai confini però indeterminati e incompleti. b. Che sia possibile ricondurre i caratteri di un paesaggio a delle affordances “ ecologiche “, specialmente a “ inviti “, privi di indicazioni pragmatiche e che, pur se condizionati da ragioni fisiche. c. Che tali affordances paesaggistico-atmosferiche vincolino dall’esterno la disposizione emotiva di chi le percepisce, resistendo a qualsiasi intento proiettivo, visto che << quando siamo trasportati all’interno di un determinata impressione, non guardiamo verso di essa, ma semmai a partire da essa >> Ne consegue che nelle pionieristiche riflessioni di Simmel sul paesaggio non sia possibile trovare una vera risposta, poiché la tesi secondo cui è solo grazie a una Stimmung unitaria specifica che la percezione ingenua trasforma in paesaggio una certa porzione di natura. Resta imprecisato se l’individualizzazione formale sia del tutto arbitraria, oppure dipenda dall’autonomo svilupparsi di un punto di aggregazione nel mondo esterno. Simmel ritiene di potersela cavare appellandosi al vissuto intenso come quell’unità organica e indivisa da cui sorgerebbero, contemporaneamente e senza interrelazioni causali, il lato della Stimmung del paesaggio e quello della sua unità visiva, scindibili solo quando si scomponga ex post l’unitario atto spirituale. Una rinnovata estetica della natura, attenta al nesso tra qualità espressive ambientali e stati emotivi, potrebbe e dovrebbe invece tematizzare i paesaggi in termini appunto atmosferici. L’identità estetica di un paesaggio è quindi per noi proprio l’atmosfera che vi avvertiamo, anche se per lo più in forma semi-cosciente: una sorta di condizione affettiva e proprio- corporea che ora si destra improvvisamente, ora, come un basso continuo, accompagna la nostra esistenza e via influisce. Occorre svincolare l’ideale di paesaggio da un’unica e determinata atmosfera, ravvisandovi piuttosto la possibilità di incarnare un più vasto spettro di atmosfere ( positive, negative, ambigue, contraddittorie, indeterminate ecc.. ). Il paesaggio ha dei confini? Pur non essendo propriamente né una sostanza né un accidente, l’atmosfera possiede una spazialità sui generis. E forse, proprio come il paesaggio, anche una cornice. Il fenomeno rientra per Simmel nella << più radicale tragedia dello spirito >>, in quella << lacerazione rispetto al sentimento unitario della natura universale >>, a causa della quale nella Modernità << la parte un tutto indipendente, diventando troppo grande per l’intero cui apparteneva e pretendendo particolari diritti rispetto ad esso >>. Il paesaggio potrebbe derivare da un processo percettivo di segmentazione e articolazione mesoscopiche analogo a quello in virtù del quale, in ambito linguistico, un enunciato inquadra l’attenzione, determinando un confine tra ciò che è pertinente e ciò che non lo è. Ne viene che l’unità paesaggistica deve avere dei confini, oltre a quali cessa effettivamente la sua efficacia. Ma confini fiat, istituiti cioè in modo relativamente arbitrario dalla nostre operazioni percettive, cognitive e pragmatiche. Le Non c’è dunque da sorprendersi se la secondo metà del XIX secondo vide anche l’introduzione delle cartoline, che furono presto corredate di un’immagine, di solito un paesaggio, disegnato o fotografato. Il paesaggio autonomo e la narrazione cinematografica Pur continuando ad essere popolate di figure umane, le opere di questi artisti mostrano che era ormai indiscutibilmente avvenuta un’inversione di tendenza nella relazione tra queste figure e i loro ambienti naturali. In effetti, visto che questi ultimi dominano il campo visivo e sopraffanno o marginalizzano completamente gli attori umani e loro azioni, il paesaggio può essere interpretato come il vero soggetto di questi lavori. Il processo fu poi portato a compimento nel XVII secolo con i lavori di Rubens ( 1577 – 1640 ), Poussin ( 1594 – 1665 ), Lorrain ( 1600 – 1682 ), Ruisdael ( 1628 – 1682 ) e molti altri. Se l’autonomia dello spazio rappresentato risulta fondamentale nelle arti visive per l’emergere del paesaggio come concetto pittorico distinto dalla mera ambientazione che comprende personaggi, azioni ed eventi, allora si può legittimamente mettere in dubbio la capacità del cinema dominante di presentare dei paesaggi. La distinzione tra paesaggio e ambientazione, si fonda su un problema di economia pittorica: finché lo spazio naturale in un’opera è asservito ai personaggi, agli eventi e all’azione, finché la sua funzione è quella di provvedere a uno spazio per loro, l’opera non è un paesaggio in senso proprio. Prendiamo ad esempio The Art of Photoplay Making di Victor Freeburg. Pur essendo un fautore delle riprese in esterni reali, Freeburg raccomanda ai cineasti << l’uso subordinato dell’ambientazione naturale può essere considerata neutra, informativa, armoniosa, partecipe e formativa. Questa tassonomia connette l’ambientazione a eventi e personaggi, e ne mappa uno spettro generale lungo un asse esteriorità-interiorità. A un’estremità dello spettro troviamo l’ambientazione neutra, che si relazione in modo indifferente all’azione o ai personaggi, mentre all’altra estremità si colloca l’ambientazione formativa, che cerca di esprime lo stato mentale interiore del personaggio. La funzione informativa usa dunque l’ambientazione per dare visivamente informazioni a proposito dei personaggi del film, quella armoniosa fissa l’umore, il tono o l’atmosfera in cui si dispiegano gli eventi, e infine quella partecipe usa l’ambientazione come un <<fattore che prende parte alla storia >>, capace di interpretare l’individualità e la fibra morale della dramatis personae. Tuttavia, qualsiasi funzione l’ambientazione svolga, essa non deve mai diventare indipendente dalla narrazione. Per l’estetica della subordinazione narrativa portata avanti da Freeburg, il paesaggio, come entità autonoma, è chiaramente indesiderato. Il pericolo sembra provenire alla progressione e al flusso in avanti della narrazione, perché si corre il rischio che l’ambientazione narrativizzata venga rimpiazzata con attrazioni visive ed evidentemente prescritti, ma essi lasciano intravedere la possibilità di un matrimonio precario tra l’aspetto pittorico e quello narrativo nel cinema classico, incentrato sulla narrazione. Anche sotto regime classico, la subordinazione narrativa non può essere assoluta. Non solo i film e gli spettatori sono a volte indisciplinati, ma le attrazioni visive e lo spettacolo hanno sempre un ruolo importante nell’esperienza cinematografica. In molti film classici, però, gli spettatori hanno riconosciuto che ambientazione e narrazione sono fra loro “ scardinati “, rendendo indipendente l’ambientazione. Ancora una volta, l’idea qui è di riconoscere che la narrazione e il paesaggio pittorico spesso coesistono nel film in uno stato di tensione. Brevemente: il “ paesaggio internazionale “ si fonda sull’attribuzione interpretativa da parte dello spettatore dell’intento esplicito di produrre un paesaggio. Tale attribuzione è supportata da strategie visuali che richiamano l’attenzione quasi inequivocabilmente sull’ambientazione naturale del film, secondo modalità che ricordano quelle relativa all’esperienza dell’arte paesaggistica. Il “ paesaggio impuro “ differisce, d’altra parte, soltanto in quanto lo spettatore non è indotto ad attribuire nessuna “ palese” intenzione paesaggistica al cineasta. Per prendere in esempio le parole di Freeburg, potrebbe accadere che perfino sotto il tipo “ giusto “ di alberi, lo spettatore rivolga comunque la propria attenzione verso il paesaggio, rompendo momentaneamente il vincolo narrativo di subordinazione che unisce l’ambientazione all’evento che si sta svolgendo. Interludio: Ask the Dust La capacità di “ estrarre “ e “ fermare “ mentalmente i paesaggi dal flusso dei film narrativi e delle loro diverse ambientazioni naturali è stato catturato e replicato qualche anno fa dall’artista di Los Angeles Cindy Bernard, in un’originale opera seriale intitolata Ask the Dust ( 1988-1992 ca. ). L’opera consiste in un set di ventuno fotografie scattate dalla Bernard stessa. Esse includono prevalentemente paesaggi natuali, ma anche quelli che l’antropologo francesce Marc Augé chiamerebbe non- luoghi, ed un paesaggio urbano. La caratteristica peculiare del lavoro è che le fotografie si riferiscono tutte a luoghi degli Stati Uniti, dove sono stati girati dei film che vanno dal 1954 al 1974, periodo che è stato caratterizzato dall’abbandono degli Studios a favore delle Shooting Location. Ciascuna fotografia intende perciò riprodurre l’inquadratura di una data scena in un dato film. A volte ci sono delle leggere discrepanze formali tra la fotografia e l’immagine intertestuale d’origine, o anche delle differenze nel contenuto del paesaggio in alcuni luoghi, dovute al passare del tempo. L’effetto complessivo comunque quello di una rappresentazione “ fedele “. I film a cui si fa riferimento nella serie sono: Them ( Assalto alla Terra, Gordon Douglas, 1954 ), The Far Country ( Terra Lontana, Anthony Mann, 1955 ), The Searchers ( Sentieri Selvaggi, John Fors, 1956 ), 3:10 to Yuma ( Quel Treno per Yuma, Delmer Deves, 1954 ), Vertigo ( La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock, 1958 ) , North by Northwest ( Intrigo Internazionale, Alfred Hitchcock, 1959 ), The Alamo ( La Battaglia di Alamo, John Wayne, 1960 ), riflessione sui paesaggi cinematografici deriva evidentemente dalla natura pittorica del cinema. Per cominciare, si deve chiarire che l’enfasi posta prima sulla “pittoricità fissa “ non era tesa a mascherare il fatto che anche numerosi altri fattori, inclusi la durata, il movimento, il suono e soprattutto la musica contribuiscono ugualmente a quest’esperienza. In “ Madre e Figlio “ ( Sokurov, 1997 ) si vede una scena dove l’inquadratura dura per più di un minuto e mezzo e la macchina da presa è immobile. In questo caso, la nostra capacità di “ arrestare “ l’immagine paesaggistica è accompagnata da emozioni alimentate anche da fattori come la durata dell’inquadratura, il movimento lento del treno, il tenue eco del suo fischio mentre esce senza fretta dall’inquadratura e, naturalmente, la colonna musicale melanconica. Sarebbe gradevole, sostenere che queste emozioni, che possono divenire la “ componente-pensiero” di cui parlavo nel paragrafo precedente, possono aiutare ad attirare dentro il paesaggio. Quest’ultimo ha offerto ai pittori occidentali un’opportunità iniziale di mostrare ed enfatizzare lo stile pittorico. Ma al di là di questo, ciò che rende il paesaggio importante, e dunque umano, è il ruolo che esso svolge nelle nostre forme di vita come abitanti, sia concretamente ( in situ ) sia simbolicamente ( attraverso le rappresentazioni ). Il concetto di abitare appartiene, all’armamentario filosofico di Heidegger, ed esprime la dimensione più essenziale del Dasein, quella dell’Essere- nel-mondo. Reclamando l’adozione di una “ prospettiva dell’abitare” a proposito del paesaggio, Ingold sviluppa metafore visuali e uditive che trovano particolare risonanza presso lo studio di cinema. Il suo discorso cerca di far dialogare gli aspetti qualitativi dello spazio e del tempo abitati, o ciò che Ingold chiama landscape and taskscape ( il paesaggio e il paesaggio in pratica ), in modo che << il landscape/paesaggio nel suo complesso possa essere compreso come il taskscape nella sua forma corporeizzata>>. Il primo passo in questa discussione implica la distinzione del “paesaggio” dalla “ terra “, e la definizione del taskscape. Per quanto riguarda la terra, spiega Ingold, ci si può ragionevolmente chiedere quanta ce ne sia – la terra ha cioè significato come quantità di spazio. Del paesaggio, ha senso chiedersi come esso sia – il paesaggio ha cioè significato come qualità o forma nello spazio. Analogo a questa relazione è ciò che distingue il lavoro e << tutte le operazioni pratiche portate avanti da un agente competete in un ambiente, come parte della sua normale occupazione di vita >>, ovvero ciò che Ingold chiama tasks, atti che per lui costituiscono l’abitare. Perciò mentre << la terra e il lavoro sono quantitativi e omogenei [ … ] il paesaggio e i tasks sono qualitativi ed etorogenei. >> Il taskscape, corrisponde all’ << insieme globale dei tasks >>. Per dar conto di landscape e taskscape, Ingold fa un parallelismo con la musica e la pittura. Egli, infatti, dice << La musica riflette meglio le forme del taskscape mentre la pittura è il medium più naturale per rappresentare le forme del landscape >>. Se l’analogia del paesaggio con la pittura non ha bisogno di essere spiegata nei dettagli, la relazione del taskscape con la musica è giustificata dal fatto che la musica condivide la sua natura temporale con gli atti pratici e con i sentieri ritmici della vita e del mondo. La tappa finale della discussione consiste nel sorpassare questa dicotomia, incorporando il concetto di taskscape in quello di landscape. Ciò implica il riconoscimento della temporalità del paesaggio, il riconoscimento del paesaggio come una forma perdurante o congelata del taskscape, dell’abitare. Questo significa anche riunire lo spazio ed il tempo, l’immagine ( landscape ) e il suono ( taskscape ). Ingold, infine, sul paesaggio dice: Il paesaggio, non è una tonalità verso cui tu o chiunque altro può guardare, esso è piuttosto il mondo in cui siamo e da cui assumiamo un punto di vista su ciò che ci circonda. Ed è nel contesto di questo attento coinvolgimento col paesaggio che l’immaginazione umana si impiega a costruire delle idee su di esso. Perché il paesaggio, per ricordare le parole di Merleau- Ponty, non è tanto l’oggetto quanto “ la patria dei nostri pensieri”. Ora, è abbastanza facile capire che lo spazio cinematografico sempre temporalizzato, come illustrato efficacemente dal film immaginato da Ingold. L’ovvio limite della metafora filmica di Ingold, risiede però nella trasparenza con cui essa sembra concepire l’immagine cinematografica, nel modo cioè in cui trascura l’intervallo che esiste tra l’immagine e il mondo. Si possono fare, inoltre, molti passi avanti rispetto la spiegazione dell’importanza che il genere riveste nella nostra esperienza dei paesaggi cinematografici. In effetti, l’analogia ci aiuta a differenziare tra ambientazione e paesaggio in termini non diversi quelli che, per Heidegger, distinguono lo stesso ponte visto come abitare o come indifferente mezzo per attraversare il fiume. Il paesaggio pittorico del cinema narrativo emerge, come Lefebvre ha cercato di spiegare, all’interno di una cultura visuale che è ancora sotto l’influenza dei paesaggi autonomi della pittura ( e della fotografia ). Quest’esperienza va però contro l’effetto potenziale della narrazione di nascondere il paesaggio come ambientazione. Nel cinema narrativo, come nella pittura o nella fotografia, la nostra capacità di esperire e interpretare il paesaggio. Infatti nonostante esista spesso una tensione in un film tra l’esperienza pittorica del paesaggio e la narrazione, quell’esperienza- e il pensiero che può accompagnarla – può a sua volta portare la narrazione a rivelare il paesaggio come abitare. In un certo senso, ciò che troviamo qui non è niente meno che un capovolgimento delle vecchie prescrizioni estetiche di Victor Freeburg, perché in queste condizione ora è la narrazione che è asservita al paesaggio. Antonio Costa. Dentro il paesaggio: natura e artefatto Oltre l’immagine, le radici Ci sono dei generi e autori che agli elementi attribuiscono una funzione che non è di semplice ambientazione della storia, di componenti dello sfondo, superando costantemente i limiti di una visione di superficie per andare, appunto, alla radice delle il paesaggio, dal quale emergono le incomparabili bellezze della foresta pluviale. Ma oltre alla visione di superficie del paesaggio, si percepiscono vortici e spinte ascendenti determinati dalla sterminata energia prodotta dalla cascata. Il diamante bianco, goccia d’acqua manovrata con indicibile leggerezza ed eleganza, si riflette su una distesa d’acqua in una totale indecidibilità tra reale e virtuale, aereo e acquatico, naturale e artificiale. Definisci terra! La combinazione di parole e immagini mette in relazione la terra della cosmogonia e la terra inseminata e feconda. Ma l’immagine che si fissa nella nostra memoria è quella arcaica del film di Griffith, l’unica in bianca e nero. Un’immagine non priva di connotazioni oleografiche: Griffith si era ispirato a una certa pittura ottocentesca, in particolare a François Millet. Importante film basato sulla centralità della parola terra, è La Région Centrale di Micheal Snow ( 1971 ). In questo film non è difficile trovare precise corrispondenze tra le varie riprese realizzate e le differenti accezioni della parola terra: da quella cosmica, basata sulla dualità tra cielo e terra, a quella propriamente detta geografica o geologica. Sono i movimenti di macchina che fissano quanto cade sotto lo sguardo della cinepresa, come una sorta di proiezione cartografica. Geometria regolarità dei movimenti di macchina e indeterminatezza di un luogo selvaggio: la cinepresa ci fornisce le condizioni di visibilità del mondo sensibile e ci restituisce le sue configurazioni. Quando diciamo che la cinepresa inquadra la terra, dunque, dobbiamo sempre chiederci in quale accezione usiamo la parola. Se stabiliamo, ad esempio, come prima pertinenza Terra intesa come pianeta, ci riferiamo alla fantascienza, ai documentari scientifici e ai film catastrofici, naturalistici ed ecologistici. Inquadrare significa, quindi, definire in tutte le possibili accezioni del termine. Quella etimologica di limitare, stabilire dei limiti, circoscrivere. Se prendiamo, invece, terra nell’accezione di land ( paesaggio, landscape ), si può stabilire una tipologia di inquadrature attraverso le quali si definiscono i caratteri originali di un paesaggio. La forma dell’acqua L’acqua ha rappresentato sin delle origini un elemento di grande attrazione per i pionieri della nuova arte che lo hanno ampiamente sfruttato sia nel cinema dal vero sia in quello basato sui trucchi. È tuttavia il cinema francese degli anni venti e trenta che, come abbiamo già ricordato sviluppa tutte le potenzialità della fotogenia dell’acqua, per usare una formula di Jean Epstein che della fotogenia fu il principale teorico. Gilles Deleuze dedica, alla componente acquatica, un fondamentale capitolo di Immagine-movimento ( uno suo trattato ). Si tratta di uno snodo cruciale della trattazione deleuziana: è qui che il filosofo propone di superare la dicotomia tra visione soggettiva ( quella che normalmente viene attribuita al personaggio ) e visione oggettiva ( attribuita al narratore ). Egli delinea, dunque, un’interpretazione di alcuni dei più significativi film francesi tra le due guerre, accomunati da un’ambientazione marinara o fluviale, sviluppando uno degli aspetti più innovativi della sua teoria. L’originalità della sua teoria dell’immagine-percezione consiste nel tentativo di unificare aspetti tematici ( che possono essere chiamati anche contenutistici, ambientali e iconografici ) e aspetti formali. A proposito della scuola cinematografica alla quale appartengono L’Herbier, Gremillon, Epstein ecc.. è l’acqua, che secondo Deleuze, detta ai cineasti il ritmo della sequenza, della rappresentazione, del racconto. È dall’acqua che il cineasta ricava la condizioni ottico-sonore della sua narrazione. Deleuze riesce a dare consistenza plastica e visiva alla sua idea di compenetrazione, o addirittura d’identità, tra materia e forma, nel momento in cui ci parla di due elementi, il ferro e l’acqua, che per il filosofo sono collocati lungo una linea evolutiva della storia del cinema francese. Un altro importane esponente del cinema francese, seppur antecedente a quelli nominati, fa uso dell’acqua nei suoi film. Méliès ricorre all’acquario come una delle possibili metafore dello schermo cinematografico: lo fa in Les Hallucinations du Baron de Müchhausen ( 1911 ), un film che è un po’ la summa della sua arte. Mostrandoci le allucinazioni e gli incubi che popolano il sonno inquieto del barone, Méliès utilizza la doppia immagine. La modernità del film sta però nella varietà di metamorfosi che subisce la scena delle visioni, che diventa specchio, palcoscenico, giardino, grotta, antro marino e infine acquario. Al fuoco! Al fuoco! Il fuoco è la principale attrazione del cinema primitivo ( il cinema della attrazioni ) ed è quella che forse meglio esalta le proprietà del nuovo mezzo e meglio definisce la posizione dello spettatore. Il cinema ti consente di contemplare da vicino il fuoco, non solo la fiamma domestica della candela, ma il fuoco degli incendi, delle esplosioni, delle eruzioni vulcaniche, il fuoco nelle sue manifestazioni più distruttive e proprio per questo più emozionanti, più spettacolari. Causa e allo stesso tempo effetto dei processi distruttivi di tutti i tipi, di mutazioni e metamorfosi degli stati della materia, il fuoco ha sempre suscitato un misto di stupore e di terrore negli umani e proprio per questo costituisce uno degli ingredienti prediletti dal cinema apocalittico-catastrofico dei giorni nostri, che spesso ha trovato nella presa diretta televisiva di eventi reali un formidabile concorrente. Gli effetti pirotecnici, così vicini alle attrazioni degli spettacoli di fiera e delle feste paesane, ma anche di quelle di corte, erano così importanti da essere segnalati nelle descrizioni dei singoli quadri delle vedute messe in vendita tramite i cataloghi delle prime case cinematografiche ( Star Films di Georges Méliès ). Gli effetti pirotecnici sono stati tra i primi ad avvantaggiarsi dell’integrazione della coloritura ( a mano, a pochoir o tecniche consimili ), sommando effetto scenografico ed effetto ottico o effetto realizzato nel pro-filmico e in post-produzione. psicologie dei personaggi; e sta ai bordi, sulla soglia di una location tra realtà e fantasia. È un’attenzione nuova, un nuovo sguardo che si trova nel cinema mainstream, ma anche in un cinema “ fuori norma “, per dirla con Andriano Aprà, in un cinema border line, sperimentale e quasi sempre visibile. Un esempio del tutto opposto viene dal documentario. In modo provocatorio si può parlare della definizione di “ paesaggio “ parlando di Ossigeno ( 2012 ) di Piero Cannizzaro, un documentario basato un unico primo piano dedicato a un ex carcerato, ora poeta e artista. Un documentario volutamente claustrofobico ( da qui il nome, che sottolinea la mancanza d’aria ), basato su quell’unica ossessiva inquadratura sghemba sul volto di un uomo. Ma se è vero come è vero che il primo paesaggio è il volto umano, ecco che tra quelle rughe c’è un complesso “ paesaggio “. E non a caso Cannizzaro sente il bisogno di contrappuntare con dei “ veri “ paesaggi l’affascinante ma inquietante personaggio-paesaggio. Un importante testo teorico di riferimento che sta a monte delle riflessioni di Zagarrio, è quello di Sandro Bernardi che, traccia da un lato una storia del paesaggio nel cinema, dal muto alla contemporaneità, dall’altro ne analizza gli elementi formali. Il << il paesaggio come forma simbolica >>, si fonda su una << stereoscopia di sguardi >>. Nel cinema, paesaggio significa non solo rapporto fra personaggio e spazio, fra uomo e mondo, ma anche rapporto fra diversi livelli di sguardo; c’è l’osservatore che è un personaggio, e la cinepresa, che osserva l’osservatore. Sembra quasi che abbia letto questo passaggio Carlo Mazzacurati, in una scena del suo “ La giusta distanza “ (2007 ). Significative , in particolare, sono due sequenze in cui Hassan ( coprotagonista del film ), è nascosto tra gli alberi, sotto la casa di Mara ( protagonista del film ), che permettono all’osservatore di guardarla senza essere visto. Si tratta di una scena di intenso voyeurismo e di forte sensualità, basata sulle soggettive di Hassan. La presenza di un osservatore, è parte essenziale del paesaggio, implica un riferimento di guardare, ricorrente nella pittura e nella letteratura ma essenziale nel cinema contemporaneo, dove si mette in gioco, appunto, un reticolo di sguardi. Tornando a Bernardi << lo sguardo dei personaggi dentro il film, lo sguardo del film, lo sguardo dello spettatore sul film >>. Se le scene di paesaggio sono momenti di riflessione, sembra che nel cinema italiano <<o almeno in una parte di esso, quella che si appropria dell’eredità neorealista e la prosegue in una ricerca epistemologica, accada qualche cosa di più. Il paesaggio qui spesso diventa un vero e proprio paesaggio. Bernardi affronta il problema della “ natura “, dove il paesaggio diventa sempre più un <<oggetto filosofico >>, il tema del paesaggio come relazione fra uomo e mondo, l’idea di paesaggio come << sguardo escluso >>, il paesaggio come skené, nozioni tutte utili al nostro discorso. Il paesaggio diventa insomma un problema estetico-antropologico e non soltanto un tema iconografico. Delle riflessioni di Bernardi, infine, bisogna prendere in prestito una doppia coppia di categorie: da un lato la forbice tra << paesaggio narrativo >> e <<paesaggio pittorico >> ( il primo come integrato e funzionale alla narrazione e alla drammaturgia del film, il secondo come caratterizzato da uno sguardo riflessivo); dall’altro la contrapposizione che ne discende tra << luoghi >> e << spazi >>. L’irruzione del paesaggio La filmografia di Luca Bigazzi ci permette di analizzare alcuni autori e film fondamentali per il discorso che si sta facendo. Ne “ La giusta distanza “ ( dove Bigazzi è il DOP ), la dichiarazione d’intenti da parte del regista e del suo direttore della fotografia, sta già nella sequenza dei titoli di testa, dove la macchina da presa segue dall’alto di un elicottero lo snodarsi del Po, lungo la cui strada corre l’autobus con a bordo la protagonista femminile. Il paesaggio è una pianura del Nord che richiama di certo, per la generazione del fascismo e della guerra, certe mitiche praterie del paesaggio americano o della fotografia del New Deal. A questo “ mito “ si rifà la forte inquadratura di Mara ( la protagonista ndr ), dritta sullo sfondo del paesaggio della Bassa, che dà origine anche al manifesto del film. La formidabile filmografia di Bigazzi pone anche il problema di chi sia il responsabile della rappresentazione di un paesaggio autoriale. La nozione di paesaggio deve essere allargata alla sua stessa dimensione non naturale: l’artificio, la città e la strada. C’è un “ paesaggio urbano “ che merita la stessa analisi di quello “ naturale “. Molti sono gli esempi sotto questo aspetto: la Lecce di “Mine Vaganti” (2010 ) di Ozpetek ne è solo uno. Il paesaggio, però, è anche virtuale. Un esempio significativo di ciò è “ Fascisti su Marte “ ( 2006 ) di Corrado Guzzanti, commedia surreale e delirante, film satirico su una supposto pattuglia di eroi mussoliniani che, con un improbabile razzo, atterrano su Marta alla conquista del “ pianeta rosso “. Il rosso è anche quello del comunismo che i fascisti vogliono abbattere, e la missione su Marte permette a Guzzanti di esercitare la sua critica contro i fascismi di ieri e di oggi, contro la retorica, il linguaggio, i miti e gli stereotipi del fascismo. Il risultato è un film surreale, la cui “ sur-realtà” è aiutata dalla scenografia virtuale, tutta ricostruita, o ritoccata al computer. La trama è solo una sequenza di divertenti sketch che non regge alla prova del lungometraggio, ma quello che resta è un bizzarro esperimento di contaminazione, e di invenzione di un “ paesaggio “ anomalo, artefatto, ironico e alla fine sperimentale. Nel contesto siciliano, invece, un rilievo particolare, provato anche dalle ragioni produttive ,ha assunto il paesaggio ibleo: per lo spettatore medio è quello de Il commissario Montalbano e dei suoi “ luoghi “, che sono diventati luoghi di culto e di turismo di massa. Ma il paesaggio è quello descritto da Gesualdo Bufalino nei suoi romanzi e teorizzato nella sua formula di “ Sicilia cinematografica naturalier “; è l’ampio territorio della Val di Noto indagata da Antonioni ( L’avventura, 1960 ) o da Tornatore ( L’uomo delle stelle, 1995). In mezzo a questa vasta costellazione di film e di fiction tv che trova nel paesaggio ibleo, un luogo ideale, si può ritrovare ), che come molti film contemporanei portava all’attenzione nuovi territori regionali e locali. È su questa nuova cultura iconica che si può innestare il cinema degli anni duemila, quello delle Film Commission: spesso il loro ruolo prioritario è meno quello di diretti finanziatori, e più quello di referenti e coordinatori della lavorazione in loco, e di aiuto nella concessione dei permessi o nell’ospitalità. Paesaggi: provincia e città Un utile radiografia del paesino provinciale e regionale può venire però dalla fase successiva al neorealismo: è il momento in cui l’ampio movimento culturale dei padri fondatori degenera verso le sue stereo-tipizzazioni: la vena melodrammatica presente nel neorealismo slitta nel “ melodramma d’appendice “, la linea populista sfocia nel “ neorealismo rosa “, e pian piano verso la commedia degli anni cinquanta, e poi nella commedia “all’italiana”. Ma qui la commedia “ all’italiana “ coincide col cinema d’autore, ed è sempre più difficile distinguere dinamiche autoriali da progetti commerciali e rifermenti ai generi classici. Un paesaggio provinciale che sarebbe interessante analizzare attraverso il medium complementare e al tempo stesso concorrente al cinema, cioè la televisione: da Campanile sera degli anni sessanta sino alla domenicale Linea Verde degli anni novanta-duemila, il territorio periferico, con tutte le sue tipicizzazioni folkloriche, paesaggistiche e culinarie, è entrato nella cultura quotidiana dello spettatore italiano. Il regionalismo, le periferie, il dialetto sono entrati prepotentemente nella fiction e nella soap opera nostrane ( Un posto al Sole a Napoli, I Cesaroni a Roma, Agrodolce ideato e prodotto a Palermo ). Figure Jacques Aumont. L’origine del crimine.. I luoghi della memoria Conosciamo il paradosso di Rohmer: il cinema è un’arte dello spazio. Paradosso, perché da subito tutto ci dice che il cinema è un’arta delle immagini in movimento, destinate a essere viste nel tempo. Come, nel cinema, lo spazio viene informato da un determinato trattamento del tempo? La risposta più banale è che, per avere a che fare con il tempo, occorre che lo spazio sia stato inscritto in una storia e che ne conservi qualche traccia: che sia diventato un luogo definito, piuttosto che uno spazio indistinto, e che sia in gioco qualcosa di simile a una memoria. Mémoire des lies, mémoire d’un lie: l’espressione è ambigua, come spesso accade in francese con la proposizione de. Se si tratta semplicemente di affermare che qualcuno conserva un certo ricordo di alcuni luoghi, è sufficiente un racconto che esponga il contenuto di questa memoria. Se si tratta di supporre che certi luoghi custodiscano una memoria, il concetto diviene enigmatico: di quale memoria si tratta? Una prima risposta mette in gioco la storia. Questa è l’idea, recente ma entrata quasi subiti in uso, di “ luoghi della memoria “, riconosciuti, nell’accezione proposta da Pierre Nora ( storico francese ). Il cinema può evidentemente risultare correlato a siffatti “ luoghi della memoria “, ma nel modo in cui si rapporta a un fatto di cultura generale, né più né meno. Il luogo descritto da Antonioni in Chung-Kuo ( 1972) è tipico dei luoghi della memoria : si tratta di un posto specifico, arredato con alcuni oggetti che ne se sorreggono il senso, in virtù di un legame convenzionale con un certo racconto storico. Senza parlare anche dei “ luoghi della memoria “ che non hanno alcuna personificazione geografica, è difficile comprendere come il cinema possa aver a che fare con siffatti luoghi memoriali, se un luogo è giusto uno spazio definito dal suo utilizzo, dagli avvenimenti che accoglie, vale a dire in definitiva, da un certo senso. Il paradosso di “ luogo della memoria “ ufficiale, consiste nel fatto che la sua origine è specifica, ma che rivendica sempre una vocazione universale. A priori, il cinema non si pone questo problema; il più delle volte, si accontenta di riprendere tale e quale la designazione di siffatti siti, monumenti, paesaggi, come “ luoghi della memoria. Un’altra domanda che ci si pone spesso è: come poter filmare un luogo in maniera tale che si carichi di memoria? Una prima tentazione è quella di considerare che il luogo parla da se, poiché nella realtà afilmica, è depositario di una memoria. Dire che un luogo parla non può essere altro che una metafora, ma una metafora che è frequente, e vigorosa. Il paesaggio, come lo ha definito una lunga tradizione pittorica e di seguito letteraria, è una prospettiva al tempo stesso fisica e culturale su un pezzetto di territorio; il paesaggio include il punto di vista che io adotto sul territorio, dichiara che guardando, io attribuisco un senso a quello che guardo. È facile inventare storie di cui i personaggi abbiano memoria; non è neppure difficile immagine sceneggiature nelle quali la memoria è apparentemente legata a dei luoghi. Meno semplice è mostrare il rapporto con la memoria, per l’eterna ragione dei luoghi. Meno semplice è mostrare il rapporto con la memoria, per l’eterna ragione che, davanti alla scena di un film di finzione e con tutti i punti di vista interni che si voglia, non sono mai << nella testa >> di un personaggio, ma osservo il suo comportamento dall’esterno. Se un personaggio ricorda qualcosa, questo mi dovrà essere comunicato, o per mezzo della mimica, o in maniera più indiretta. La mimica non è una soluzione molto elegante, e, a partire dalla fine del cinema muto, non vi si è più fatto un gran ricorso. In questo articolo, l’autore si sofferma solo a tre film, tutti e tre relativamente recenti, e tutti e tre basati su un ritorno, riuscito o meno, ma sempre velato di malinconia, in un luogo emotivamente significativo. Il primo film è “Japón” ( Carlos Reygadas, 2002 ). Film che racconta la crisi esistenziale di un pittore che giunge in un borgo di montagna con l’intento di suicidarsi, ma alla fine ripensa al suo gesto grazie ad una donna incontrata nel borgo stesso. L’onniveggenza cieca Il cineasta di “ Entre chien et loup” al contrario, osserva, e anche molto. Allenato dal suo mestiere di uomo d’immagine a trovare, quasi in maniera istintiva, il punto di vista più efficace, lo vediamo esplorare dall’alto la piccola cittadina di Do-gye, alla quale il suo sguardo assegna una forma, ovale, chiusa, rassicurante come un piano di ripresa. Il gioco del quadro e dello << sguardo >> della camera è ancora più insistente in Japón. Reygads, ci da prova di una straordinaria sensibilità per ciò che è un luogo e per la visione che se ne può avere. Ha scelto un villaggio sul quale il personaggio non può avere una visione complessiva a partire dallo spiazzo, dove abbandona l’auto che lo ha condotto dal Messico, annidato com’è nelle pieghe della terra. La fin béante Si è andati da qualche per morire, per riappacificarci, per fuggire e recuperare il legame con la propria infanzia, e sono stati gli altri a morire; si riparte più confusi che mai, In che modo un film, un racconto possono parlare di questo fallimento? I tre film hanno trovato delle soluzioni differenti, ma tutti e tre nell’ordine delle deplezione: la fine coincide con un vuoto, una sospensione, una risposta all’enigma iniziale, ma una risposta dislocata, che non risolve nulla. La memoria è una questione di significato, e di conformità alla letta: affinché un luogo consegni un ricordo, bisogna portegli associare, e in modo rigoroso, qualcosa di simile a un testo. Questi tre film non ci parlano: non si rivolgono direttamente, affabilmente a noi per raccontare una storia, interpellandoci da testimoni. Al contrario, ci troviamo dinanzi una manifestazione opaca dell’opacità. Delle motivazioni ci sono comunicate, ma con parsimonia e quasi controvoglia. Ciò che ci pone, dinanzi a questi tre film, in un atteggiamento di interrogazione e di sorpresa costante, è lo scarto tra intenzioni del personaggio. Per lo spettatore, questi luoghi non sono comuni, non inquietano ma intrigano. Vediamo degli esseri agitarsi invano e non condividiamo la loro agitazione; il nostro compito è un altro: accettare di credere che davanti a tali luoghi, che non ci dicono nulla, sia in gioco una scommessa memoriale. Questa è in fondo, l’unica lezione che si può trarre da questo breve studio: tra i suoi numerosi poteri, la finzione ha quello di inscrivere uno spazio in una storia, di farne una luogo singolare, che sfugge all’indistinto, lasciano credere che sia in gioco qualcosa come una memoria, ma senza mai offrircene la minima traccia positiva. Se ogni memoria, in fondo, è la memoria di un crimine