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RIASSUNTO ISTITUZIONI DI DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA - UGO VILLANI, Sintesi del corso di Diritto dell'Unione Europea

Il documento contiene il riassunto del libro "Istituzioni di diritto dell'Unione europea", 6° edizione, 2020 (Cacucci Editore). Nel testo sono presenti dei rimandi alle pagine del libro nel caso in cui si voglia approfondire gli argomenti in questione.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 07/03/2024

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Scarica RIASSUNTO ISTITUZIONI DI DIRITTO DELL'UNIONE EUROPEA - UGO VILLANI e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! CAP I – ORIGINI, EVOLUZIONE E CARATTERI DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA I PRIMI MOVIMENTI EUROPEISTI Il processo d'integrazione europea muove da lontano e trova le sue radici in concezioni politiche e filosofiche di illustri pensatori, in progetti di movimenti di privati cittadini, in iniziative di statisti e di uomini di governo. a) La concezione confederale: Un promotore del progetto di unire gli Stati europei, che merita di essere particolarmente ricordato per l'influenza che riuscì a esercitare anche su uomini di governo, a cominciare dal francese Aristide Briand, è il conte Richard Coudenhove-Kalergi, il quale, nel 1924, diede vita all'Unione paneuropea. La fondazione di tale associazione muoveva dall'intento di raggiungere l'unificazione europea, nella convinzione della necessità di preservare I'Europa dalla minaccia sovietica, da un lato, e dalla dominazione economica degli Stati Uniti, dall'altro. Fu Aristide Briand, in qualità di ministro degli esteri francese, che compì il primo passo ufficiale, in nome del suo governo, di proporre una unione europea, presentando a tal fine un Memorandum alla Società delle Nazioni il 1° maggio 1930, che però non ebbe un seguito concreto. Il suo progetto prevedeva la creazione di una organizzazione politica tra gli Stati partecipanti, senza mettere in discussione la loro sovranità. Esso esprimeva, pertanto, una visione di tipo confederale, nel solco del fenomeno delle organizzazioni internazionali tradizionali, che comportano l'istituzione di organi e strutture volte al perseguimento degli scopi comuni stabiliti mediante un accordo tra gli Stati membri, i quali, pur assumendo un complesso di obblighi giuridici, conservano la propria sovranità. b) La concezione federalista: Una diversa concezione, di carattere federalista, veniva a esprimersi in un documento fondamentale nella storia dell'integrazione europea, il "Manifesto di Ventotene per un'Europa libera e unita", del 1941, dovuto allo slancio europeista che accomunava, malgrado la loro differente formazione politica, i tre autori: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Secondo tale impostazione, per assicurare la pace tra i Paesi europei occorreva che questi rinunciassero alla propria sovranità e che si giungesse a una nuova entità, la Federazione europea, dotata di un proprio esercito, di una propria moneta, di proprie istituzioni politiche nelle quali i cittadini fossero direttamente rappresentati, di una propria politica estera. Nell’individuare gli scenari e i compiti del dopoguerra si paventava, quale più grave rischio per la civiltà europea e per la pace, la restaurazione dello Stato nazionale. Tale concezione ispirò la nascita nel 1943 del Movimento federalista europeo. c) Il metodo funzionalista: Accanto alla concezione, espressa dal Manifesto di Ventotene, un'altra, negli anni della seconda guerra mondiale, venne a maturare per merito, principalmente, del politico e industriale francese Jean Monnet, la cui opera fu storicamente determinante per l'avvio e lo sviluppo della costruzione europea. Mentre il progetto federalista prevedeva l'obiettivo immediato di una unione politica europea, quello sostenuto da Jean Monnet, pur mirando, in prospettiva, a questo risultato, si basava su un diverso metodo, funzionalista e graduale. Anch'esso muoveva dal convincimento che il permanere dei nazionalismi fra gli Stati europei avrebbe costituito una costante minaccia per la pace e che, pertanto, ci si dovesse porre l'obiettivo di una unione europea di carattere politico. Tuttavia non sarebbe stato realistico tentare di raggiungere immediatamente tale obiettivo: il metodo da seguire, al contrario, era quello di realizzare forme di coesione, di solidarietà in specifici settori, così da costruire progressivamente una situazione di fatto di integrazione tra i Paesi europei, che sarebbe sfociata, quasi naturalmente, in una unione politica. Alla fine della seconda guerra mondiale i fermenti europeisti che da più parti emergevano trovarono una nuova, autorevole adesione in un celebre discorso tenuto all'Università di Zurigo il 19 settembre 1946 dallo statista britannico Winston Churchill, il quale, richiamandosi alle iniziative di Coudenhove-Kalergi e di Aristide Briand e ricordando che le passioni nazionalistiche avevano distrutto la pace, propose apertamente di stabilire una sorta di Stati Uniti d'Europa, il cui primo passo doveva essere una intesa tra la Francia e la Germania. E fu lo stesso Churchill a presiedere il congresso europeo organizzato dai diversi movimenti europeisti, che si tenne all’Aja dal 7 al 10 maggio 1948, con la partecipazione dei più autorevoli statisti dell’epoca. LE ORGANIZZAZIONI EUROPEE DEL SECONDO DOPOGUERRA La spinta politica decisiva affinché le idee e i progetti che venivano maturando si traducessero in una concreta realizzazione, con la creazione di un'organizzazione internazionale europea, fu data dal Segretario di Stato statunitense George Catlett Marshall, il quale, nell'enunciare quel poderoso piano di aiuti per la ricostruzione dell'Europa, sconvolta dalla guerra, chiamato European Recovery Program (ERP), o Piano Marshall, ne subordinava l'attuazione alla istituzione di uno strumento che ne favorisse una utilizzazione congiunta e, più in generale, garantisse un'area di stabilità economica e politica. L'offerta statunitense fu accolta dai Paesi dell'Europa occidentale, i quali, con la Convenzione di Parigi del 16 aprile 1948, crearono un'apposita organizzazione, l'Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE). Questa ebbe, appunto, quale compito principale, di amministrare gli aiuti del piano Marshall e una volta esaurito tale compito - si trasformò, nel 1960, nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). L’OCSE è una tipica organizzazione internazionale di carattere intergovernativo, destinata, cioè, a operare mediante organi, anzitutto il Consiglio, composto dai rappresentanti dei governi degli Stati membri, la cui azione è quindi soggetta alla volontà di tali governi e, per di più, subordinata al consenso unanime dei rappresentanti degli Stati membri, e si volge, in principio, agli Stati membri, non già ai loro cittadini. Carattere intergovernativo ha anche l'altra organizzazione europea costituita in quegli anni, il Consiglio d'Europa, in base al Trattato di Londra del 5 maggio 1949, nato originariamente tra i Paesi dell'Europa occidentale, ma esteso ormai all'intera regione europea. Queste esperienze, come, per altro verso, I'Unione occidentale, costituita con il Trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948 per scopi essenzialmente di difesa militare e trasformata in Unione dell'Europa occidentale (UEO) con il Trattato di Parigi del 23 ottobre 1954 (estintasi, peraltro, il 30 giugno 2011), creavano un clima politico favorevole a ulteriori e più strette forme di collaborazione tra gli Stati europei. LA NASCITA DELLA CECA La prima organizzazione, con la quale ha inizio quel processo d'integrazione europea, caratterizzato da un progressivo "trasferimento" di poteri sovrani da parte degli Stati membri a enti che, proprio in ragione della novità del fenomeno, vennero designati come "Comunità sopranazionali" (non più organizzazioni internazionali), è la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA). All'origine della CECA vi è la celebre dichiarazione del ministro degli esteri francese Robert Schuman (ispirata da Jean Monnet), del 9 maggio 1950, nella quale l'anima federalista si sposa con il metodo funzionalista, basato su interventi settoriali e graduali. Essa mostra l'intimo legame esistente tra la cooperazione nella materia economico-commerciale alla quale ricerche e la diffusione delle cognizioni tecniche, lo stabilimento di norme di sicurezza, il regolare ed equo approvvigionamento dei materiali nucleari, la garanzia e il controllo affinché i materiali nucleari non siano distolti dalle finalità cui sono destinati, la proprietà della Comunità sulle materie fissili speciali, la realizzazione di un mercato comune dei materiali e delle attrezzature speciali (diversi dalle materie fissili), nonché la libera circolazione dei capitali per gli investimenti nucleari e la libertà d'impiego degli specialisti all'interno della Comunità, lo stabilimento con gli altri Paesi e con le organizzazioni internazionali di tutti i collegamenti idonei a promuovere il progresso nell'utilizzazione pacifica dell'energia nucleare. IL CARATTERE “SOPRANAZIONALE” DELLE COMUNITA’ EUROPEE: IL PARZIALE TRASFERIMENTO DEI POTERI LEGISLATIVI Le tre Comunità europee create con i Trattati di Parigi del 1951 e di Roma del 1957 si differenziarono sin dalla loro nascita dalle comuni organizzazioni internazionali. La stessa denominazione di "Comunità", infatti, evoca un rapporto più stretto e intenso di quello che si realizza nelle organizzazioni tradizionali. [Peraltro, dobbiamo avvertire che il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009 (oltre, par. 11), ha sostituito, salvo che per la CEEA, la denominazione di Unione europea a quella di Comunità europea (la quale aveva già sostituito quella di Comunità economica europea).] Le suddette comunità, come oggi l’Unione europea vennero qualificate come sopranazionali. Con questo termine (espressamente impiegato nel Trattato CECA con riguardo all'Alta Autorità) si vogliono sottolineare gli elementi di novità che esse presentano rispetto alle organizzazioni internazionali. Le une e le altre prendono vita mediante la conclusione di un accordo tra gli Stati membri, con il quale essi stabiliscono gli scopi comuni che ci si propone di realizzare e la struttura dell'ente. LE CARATTERISTICHE DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI ● Nelle organizzazioni internazionali gli Stati membri, di norma, sono rappresentati esclusivamente dai propri governi nei vari organi dell'organizzazione, mentre non vi è alcuna forma di partecipazione dei popoli di tali Stati. ● Oltre a tale caratteristica, che induce a designare le organizzazioni in questione anche come "intergovernative", va sottolineato che, in principio, gli atti di queste organizzazioni, anche quando hanno efficacia obbligatoria, hanno quali destinatari gli Stati membri. Spetta poi a tali Stati dare esecuzione, all'interno del proprio ordinamento giuridico, agli obblighi nascenti dai suddetti atti, adottando gli opportuni provvedimenti normativi, che si rendono necessari anche perché, solitamente, gli atti delle organizzazioni sono privi di quella precisione e completezza di regolamentazione che sarebbe necessaria, ove si volesse eseguirli all'interno degli ordinamenti statali. In definitiva, sia sotto il profilo della partecipazione alla vita e alle determinazioni dell'ente internazionale, sia sotto quello dell’esecuzione dei suoi atti, lo Stato si interpone quale diaframma tra l'organizzazione internazionale e la propria comunità interna. LE CARATTERISTICHE DELLE COMUNITA’ SOPRANAZIONALI Le Comunità sopranazionali si differenziano sotto diversi aspetti dalle organizzazioni internazionali “classiche” (tali differenze sono state evidenziate dalla giurisprudenza della Corte nella sentenza Van Gend en Loos): ● Partecipazione dei cittadini alla vita della Comunità , come oggi dell’Unione, mediante il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale. Tale elemento, che risulterà sempre più accentuato grazie, da un lato, all’elezione a suffragio diretto del Parlamento a partire dal 1979, dall’altro, al progressivo ampliamento dei suoi poteri, differenzia le Comunità sopranazionali dalle organizzazioni internazionali, nelle quali gli Stati membri sono rappresentati esclusivamente dai propri governi. ● Il (parziale) trasferimento di sovranità dagli Stati membri all’Unione . - Esso emerge anzitutto sul piano della potestà legislativa. Gli organi dell’Unione sono investiti, infatti, di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli Stati membri sia dei loro cittadini. Essi hanno il potere di adottare atti obbligatori; in particolare il regolamento presenta le caratteristiche tipiche di una legge statale: esso ha portata generale, obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. Oltre alla generalità e all’obbligatorietà, va segnalata la diretta applicabilità del regolamento all’interno degli Stati membri. Ciò implica che tale atto è idoneo a produrre obblighi e diritti per i singoli, a essere applicato dai giudici e dalle autorità di ciascuno Stato membro senza necessità di un atto di esecuzione da parte di tale Stato. Tale carattere di diretta e immediata applicabilità va riconosciuto anche a molteplici disposizioni dei Trattati istitutivi dell’Unione europea, nonché ad altri atti obbligatori, sicché il diritto dell’Unione, nella misura in cui è direttamente applicabile all’interno degli Stati membri senza bisogno di atti di esecuzione, viene a integrarsi nel diritto interno di tali Stati. Proprio in virtù di questa diretta applicabilità di larga parte del diritto dell’Unione vanno riconosciuti, quali soggetti di tale ordinamento, non solo gli Stati membri, ma anche i loro cittadini. Essi, infatti, sono immediatamente destinatari di diritti e obblighi derivanti da norme europee, con possibilità, per quanto riguarda i primi, di esercitarli anche in giudizio davanti ai giudici nazionali. L’intensità del fenomeno del (parziale) trasferimento di potestà legislativa dagli SM all’Unione europea risulta accresciuta dalla considerazione che la corte di Giustizia ha affermato, sin dalla sentenza del 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. ENEL, il primato del diritto comunitario su quello interno incompatibile, anche se successivo, con la conseguenza che il giudice nazionale è tenuto ad applicare il primo, che prevale su quello interno. Questa impostazione dei rapporti tra il diritto dell’Unione e il diritto interno è stata accolta anche dalla Corte di giustizia italiana. Il trasferimento di sovranità, per quanto riguarda i poteri legislativi, si segnala, inoltre, per l’ampiezza e la natura delle materie nelle quali esso si realizza. Tali materie corrispondono, infatti, alle finalità, estremamente vaste, dei Trattati europei, in particolare di quello CEE (oggi TFUE), e delle politiche ivi contemplate. E si tratta di materie che non riguardano, se non in misura ridotta, i governi o i ministeri degli esteri degli Stati membri, ma incidono profondamente sulla vita quotidiana dei cittadini europei. - Il parziale trasferimento di sovranità dagli SM all’Unione europea non riguarda solo la potestà legislativa, ma si estende a quella giudiziaria. In questa sede va richiamata la competenza, attribuita alla Corte di giustizia, detta “pregiudiziale” o “di rinvio” (art. 267 TFUE). Ai sensi di tale disposizione, qualora in un processo dinanzi a un giudice nazionale sorga una questione, un dubbio, concernente l’interpretazione dei Trattati europei o di un atto delle istituzioni europee, o la validità di un tale atto, e la soluzione di detta questione sia necessaria affinché il giudice possa decidere il caso sottoposto al suo esame, lo stesso giudice deve (o può, a seconda del grado di giudizio) sospendere il processo interno e chiedere alla Corte di giustizia dell'Unione europea di risolvere la suddetta questione. La Corte di giustizia non decide il caso concreto, ma si limita a pronunciare la corretta interpretazione della norma europea e a decidere se l'atto in questione sia valido o meno; la decisione del caso compete pur sempre al giudice nazionale. Tuttavia la sentenza della Corte di giustizia è per lui obbligatoria; di conseguenza la decisione che egli emetterà si fonderà sulla interpretazione della norma europea stabilita dalla Corte di giustizia; e, analogamente, applicherà o meno al caso sottoposto al suo giudizio l'atto in questione, a seconda che la Corte di giustizia lo abbia giudicato legittimo o, al contrario, invalido. Come può constatarsi, il citato art. 267 non implica l'attribuzione alla Corte di giustizia della competenza a decidere le cause nazionali che mettano in questione l'interpretazione del diritto dell'Unione o la legittimità dei suoi atti. Esso, peraltro, comporta una pesante “interferenza" della Corte di giustizia sulla sorte di tali cause, poiché il giudice nazionale è tenuto a deciderle in applicazione della sentenza (interpretativa o sulla validità) emanata da tale Corte. Sotto questo profilo deve, quindi, riconoscersi che la Corte di giustizia si inserisce nell’esercizio della funzione giurisdizionale, condizionando, mediante la propria competenza, l’esercizio e i risultati della potestà giudiziaria nazionale. L’incidenza della Corte di giustizia nel complessivo fenomeno dell’integrazione europea risulta ancor più profonda alla luce di due osservazioni: anzitutto, sebbene le sentenze della Corte emanate ai sensi dell’art. 267 del TFUE siano obbligatorie solo per il giudice a quo, esse tendono a produrre effetti generali, vincolando i giudici interni (ma anche le autorità nazionali, quale la pubblica amministrazione) a conformarsi ad esse. In secondo luogo, va rilevato che, sin dalle sue prime esperienze, la Corte di giustizia ha inteso il proprio ruolo non in termini di pura interpretazione delle norme dei Trattati (e degli atti emanati in base agli stessi Trattati) e di loro applicazione al caso al suo esame; essa, al contrario, ha mostrato di sentirsi svincolata da uno stretto rispetto delle norme, svolgendo una funzione di evoluzione, di impulso, se non addirittura creativa del diritto. E’ suo merito, infatti, avere delineato e affermato i caratteri propri del diritto dell’Unione europea – a cominciare dalla sentenza Van Gend en Loos del 5 febbraio 1963 -, la diretta invocabilità (a certe condizioni) dei diritti da esso derivanti dinanzi ai giudici nazionali, il suo “primato” sul diritto interno incompatibile; nonché un complesso di principi generali. - Un’ulteriore manifestazione del “trasferimento” di poteri sovrani dagli SM alle istituzioni europee si sarebbe poi determinata con l’adozione dell’euro quale moneta unica (anche se non in tutti gli Stati europei), in circolazione dal 1° gennaio 2002. Ciò ha comportato l’attribuzione alla BCE del potere di “battere moneta”, tipica prerogativa sovrana, e della competenza in materia di politica monetaria completa, sul piano della “sovranità monetaria”. L’ALLARGAMENTO DELL’UE Rispetto ai Trattati di Parigi del 1951 e di Roma del 1957 il quadro odierno dell’integrazione europea è profondamente ampliato e arricchito, anche se non risultano modificati i caratteri propri del diritto dell’Unione europea. Tali caratteri, anzi, tendono a espandersi a nuove sfere di cooperazione tra gli SM. I mutamenti rispetto agli originari Trattati istitutivi delle Comunità europee riguardano sia il profilo soggettivo della partecipazione degli Stati membri, che quello oggettivo relativo agli obbiettivi, alle politiche, alle competenze della più ampia realtà costituita oggi dall’Unione europea. Per quanto riguarda gli Stati membri, rispetto al nucleo originario dei sei fondatori il numero degli Stati appartenenti all’Unione si è progressivamente ampliato agli attuali 27. L’allargamento dell'Unione europea ha determinato anche una progressiva estensione dell'applicazione del diritto dell'Unione nei nuovi Stati membri. Tuttavia, tale applicazione generalmente non è piena né immediata. Le differenze che, da un punto di vista anzitutto economico, ma anche sociale e giuridico, sussistono tra i nuovi Stati membri e quelli preesistenti inducono a inserire negli atti di adesione ( contenenti comune e quella sulla giustizia e affari interni; 2) il Trattato sulla CEE, che viene ridenominata Comunità europea; 3) il Trattato sulla CEEA; 4) il Trattato sulla CECA (estintosi nel 2002). Questa articolazione in tre pilastri - superata solo dal Trattato di Lisbona del 2007 - comporta che: ● mentre nel primo operano pienamente le istituzioni, i procedimenti, il sistema di fonti e il carattere "sopranazionale" propri delle originarie Comunità europee, ● negli altri due (specialmente nella PESC) prevale, invece, un metodo intergovernativo tradizionale, nel quale i protagonisti dei processi decisionali restano gli Stati membri, rappresentati dai rispettivi governi, mentre in una posizione più modesta (nel terzo pilastro) o del tutto marginale (nel secondo) restano le istituzioni più genuinamente innovative, a cominciare dal Parlamento europeo (o giudiziarie, come la Corte di giustizia). II Trattato di Maastricht reca ulteriori, fondamentali sviluppi: ● stabilisce i ritmi e le condizioni (implicanti il rispetto di rigorosi parametri economici e finanziari, i c.d. criteri di convergenza) per il passaggio a una moneta europea unica, l'euro. ● riconosce espressamente, quali principi generali del diritto comunitario (oggi dell'Unione europea), i diritti umani fondamentali risultanti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 4 novembre 1950 e dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri; ● istituisce una cittadinanza europea, consistente in uno status giuridico spettante a ogni cittadino di uno Stato membro. Questa accresciuta sollecitudine per i profili umani e sociali dell'integrazione - in una con l'ampliamento delle politiche europee a nuovi settori, quali l'istruzione, la gioventù, la cultura, la sanità pubblica, la protezione dei consumatori ecc. - di rilevanza non meramente economica e mercantile, ma sociale, giustifica anche il mutamento, effettuato dal Trattato di Maastricht, della originaria denominazione della CEE in Comunità europea. L'eliminazione della "E" di "economica" intende proprio evidenziare il passaggio da una entità essenzialmente economica e commerciale a una dimensione più elevata, di carattere sociale, culturale, umano. ● istituisce, sebbene solo in determinate ipotesi, una nuova procedura di adozione degli atti delle istituzioni europee, denominata nella prassi "codecisione", la quale comporta che l'atto sia adottato solo se sul suo testo si registri la comune volontà sia del Consiglio che del Parlamento europeo. Perfezionata dal Trattato di Amsterdam del 1997, il suo ambito di applicazione sarà progressivamente ampliato dallo stesso Trattato di Amsterdam e da quello di Nizza del 2001, sino a essere prevista quale procedura legislativa "ordinaria" dal Trattato di Roma del 29 ottobre 2004 che adotta una Costituzione per l'Europa, peraltro non entrato in vigore, e dal successivo Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, in vigore dal 1° dicembre 2009. ● accetta definitivamente il modello di un'integrazione europea non necessariamente uniforme per tutti gli Stati membri, ma che può svilupparsi in maniera più o meno intensa e avanzata per l'uno o per l'altro Stato membro. È il modello chiamato, di volta in volta, dell'Europa a più velocità, a geometria variabile, a cerchi concentrici, a integrazione differenziata, o flessibile, o à la carte. Nel Trattato di Maastricht, infatti, di fronte all'ostilità manifestata dal Regno Unito nei confronti della nuova normativa relativa alla politica sociale, si preferì allegare allo stesso Trattato il Protocollo n. 14 contenente un Accordo sulla politica sociale, consentendo al Regno Unito di restare fuori da tale Accordo. Analoga soluzione fu prefigurata per I'unione monetaria, prevedendo che non tutti gli Stati membri accettassero I'euro (o fossero in grado di soddisfare le condizioni prescritte per I'adozione dell'euro). Sin dall'introduzione della moneta unica europea, infatti, il Regno Unito, la Danimarca e la Svezia sono restati fuori dall'attuazione della unione monetaria. Successivamente le possibilità di non partecipare a specifici sviluppi dell'integrazione europea si sono moltiplicate, mediante clausole dette di opting out o di opting in e mediante un meccanismo di generale applicabilità, detto di cooperazione rafforzata. GLI SVILUPPI SUCCESSIVI E IL FALLIMENTO DELLA “COSTITUZIONE EUROPEA” ● Trattato di Amsterdam 1997 (entrato in vigore il 1° maggio 1999): - in esso si accentua la connotazione politico-sociale della costruzione europea, proclamando i principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani, stato di diritto quali principi fondanti dell’Unione e inserendo tra i suoi obbiettivi quello di promuovere un elevato livello di occupazione. - Istituzionalizza il modello dell’Europa a più velocità, prevedendo un apposito meccanismo: la cooperazione rafforzata. - Ha realizzato una parziale “comunitarizzazione” del terzo pilastro: le materie concernenti la circolazione delle persone, l’asilo, l’immigrazione e i visti vengono sottratte al Trattato sull’Unione europea e passano nell’ambito del Trattato sulla Comunità europea. ● Trattato di Nizza 2001 (in vigore dal 1° febbraio 2003): contiene novità di un certo rilievo relativamente all’organizzazione giudiziaria: attraverso determinate procedure, le istituzioni europee possono creare nuovi organi giudiziari e modificare talune competenze di quelli esistenti. ● Roma, 29 ottobre 2004, Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa: ove fosse entrato in vigore, avrebbe comportato una profonda trasformazione dell’assetto normativo e istituzionale. Tale Trattato, comunemente denominato “Costituzione europea” era frutto non solo – come nelle precedenti modifiche ai Trattati europei – del negoziato tra i rappresentanti dei governi degli SM. Il testo, infatti, è stato elaborato da una Convenzione, organo collegiale composto dai rappresentanti dei governi, della Commissione, del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali (seguendo il modello sperimentato per la redazione della Carta di Nizza sui diritti fondamentali). Il testo è stato adottato da tale Convenzione per consenso nel 2003, ed approvato dai rappresentanti dei governi degli SM riuniti in una conferenza intergovernativa il 18 giugno 2004. Tuttavia, pur avendo ricevuto numerose ratifiche, non è entrata in vigore, occorrendo, a tal fine, la ratifica di tutti gli SM. Inoltre, a seguito dei risultati negativi del referendum francese del 29 maggio e di quello olandese del 1° giugno 2005 e della presunta “pausa di riflessione” stabilita dai rispettivi Capi di Stato o di governo, nel giugno del 2007 il Consiglio europeo ha definitivamente abbandonato il progetto costituzionale. Esso ha affidato a una conferenza intergovernativa il mandato di elaborare un nuovo trattato di riforma, destinato a integrare nei Trattati esistenti le innovazioni della “Costituzione europea” (nei limiti e nei termini precisati dallo stesso Consiglio europeo). IL TRATTATO DI LISBONA DEL 2007 I lavori della conferenza intergovernativa si sono conclusi il 19 ottobre 2007, quando i Capi di Stato o di governo hanno potuto approvare il testo del Trattato, sottoscritto a Lisbona il successivo 13 dicembre. La sua entrata in vigore era subordinata alla ratifica di tutti gli SM e sarebbe dovuta avvenire il 1° gennaio 2009 (così da consentire che le elezioni del Parlamento europeo si svolgessero alla luce del nuovo Trattato). In realtà il processo è stato più travagliato di quanto si poteva sperare, sono infatti sorte opposizioni: ● da parte del referendum irlandese del 12 giugno 2008 (conclusosi con una bocciatura); solo dopo varie concessioni a tale Paese, decise nel Consiglio europeo, un secondo referendum tenuto il 2 ottobre 2009 ha dato esito largamente positivo e l’Irlanda ha emesso al propria ratifica. ● da parte della Corte costituzionale tedesca (sentenza 30 giugno 2009), dichiarando che una delle leggi emanate in Germania al fine di consentire l’immissione del Trattato di Lisbona nel proprio ordinamento era in contrasto con la Costituzione e richiedeva una modifica (successivamente attuata) per rafforzare ulteriormente i poteri del Bundestag e del Bundesrat (le due camere del predetto Parlamento). ● da parte della Polonia e dalla Repubblica Ceca: quando ormai l’entrata in vigore del Trattato era impedita dall’assenza della sola ratifica ceca, si è infine raggiunto un compromesso, in virtù del quale il Consiglio europeo ha convenuto di estendere alla Repubblica ceca le stesse limitazioni degli effetti obbligatori alla Carta dei diritti fondamentali, già concessi a Polonia e Regno Unito con il Protocollo n.30. Ciò ha sbloccato la posizione del Presidente della Repubblica ceca, la cui firma sull’atto di ratifica (3 novembre 2009) ha consentito che il Trattato di Lisbona entrasse in vigore il successivo 1° dicembre. A differenza della c.d. Costituzione europea, che unificava in un solo Trattato quello sull’Unione europea e quello sulla Comunità europea, il Trattato di Lisbona conserva la separazione in due distinti Trattati. Essi, profondamente modificati nel loro contenuto, hanno lo stesso valore giuridico; peraltro il Trattato sulla Comunità europea è ridenominato “Trattato sul funzionamento dell’Unione europea” (TFUE) in conformità della unificazione dell’Unione e della Comunità europea nella sola Unione europea, la quale sostituisce e succede alla Comunità europea. Accanto al TUE ed al TFUE, sono presenti inoltre 37 protocolli (con due allegati), nei quali è ulteriormente ripartita la disciplina dell’Unione europea. Deve notarsi che l’unificazione tra gli enti europei non è, tuttavia, piena: sopravvive, infatti, la CEEA (o Euratom), alla quale il Trattato di Lisbona dedica un Protocollo contenente modifiche al Trattato istitutivo della stessa CEEA, dirette a raccordarlo alle modifiche introdotte al TUE ed al TFUE. Riguardo ai contenuti del Trattato di Lisbona, essi comportano: ● l'abolizione della struttura in tre pilastri, quello comunitario, la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, creata dal Trattato di Maastricht del 1992 e modificata, rispetto al terzo pilastro, da quello di Amsterdam del 1997. Tendenzialmente, cioè, si ha una generalizzazione delle regole proprie dell'originario diritto comunitario. Tuttavia, tale fenomeno riguarda, in realtà, solo il terzo pilastro (la cooperazione di polizia e giudiziaria penale), al quale, in principio, vengono estese le regole, i procedimenti, gli atti, le competenze di carattere generale dell'Unione europea. La PESC (comprendente la politica di sicurezza e di difesa comune) resta soggetta a proprie regole specifiche (contenute essenzialmente nel Trattato sull'Unione europea), che ne perpetuano il carattere marcatamente intergovernativo, confermato dall'attribuzione delle più significative competenze alle istituzioni formate dai rappresentanti dei governi degli Stati membri (Consiglio europeo e Consiglio) e dal sistema di votazione consistente generalmente nella unanimità. ● Riguardo alla struttura organizzativa dell'Unione, le novità forse più rilevanti consistono nella istituzione - di un Presidente del Consiglio europeo - dell'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. ● Molto importante è l’aumento dei poteri del Parlamento europeo sia in materia di bilancio che di adozione degli atti dell'Unione, diventando la codecisione la procedura legislativa ordinaria. ● L’istituzione di poteri dei parlamenti nazionali nel controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà. ● L’istituzione del diritto dei cittadini europei (in numero di almeno un milione) di invitare la Commissione a presentare una proposta di atto giuridico. ● Sul piano dei diritti fondamentali: Questa disposizione mostra la volontà dell'Unione europea di dare vita a una politica estera unitaria, ponendosi sulla scena internazionale come un soggetto politico (e, nell'ambito delle sue competenze, anche giuridico), non solo a tutela dei propri interessi e di quelli dei propri cittadini, ma anche facendosi portatrice di interessi e valori di carattere generale, come la pace e la sicurezza, lo sviluppo sostenibile, il commercio libero ed equo, l'eliminazione della povertà e la tutela dei diritti umani. La disciplina dell’azione esterna dell’Unione europea è ripartita fra il TUE (art. 8 e titolo V) ed il TFUE (parte quinta). E’ opportuno sottolineare l'impegno, presente nel citato art. 3, par. 5,TUE all'osservanza del diritto internazionale e al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite: sotto il primo profilo I'Unione europea conferma la sua sottoposizione al diritto internazionale, che essa è tenuta a rispettare in quanto soggetto di tale ordinamento; riguardo alla Carta delle Nazioni Unite la proclamata fedeltà ai suoi principi non solo implica il rispetto delle sue norme materiali (quali il divieto dell'uso della forza - salva la legittima difesa - l'autodeterminazione dei popoli, il rispetto dei diritti umani, la soluzione pacifica delle controversie), ma acquista particolare rilevanza nel contesto di una dimensione anche militare che l'Unione europea tende sempre più ad assumere nell'ambito della politica di sicurezza e di difesa comune (art. 42 ss. TUE). L'Unione europea, dunque, pone a disposizione delle Nazioni Unite le proprie capacità militari ai fini del mantenimento (e, se del caso, dell'imposizione) della pace, in conformità delle norme contenute nel capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite (in particolare l'art. 53), relativo ai rapporti tra le stesse Nazioni Unite e le organizzazioni regionali, quale va qualificata l'Unione europea, in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Il quadro degli obbiettivi perseguiti dall’Unione europea va peraltro completato alla luce delle “disposizioni di applicazione generale” contenute nel titolo II della parte prima del TFUE. Per quanto riguarda, in particolare, le disposizioni dalle quali si ricavano obbiettivi dell’Unione europea, va osservato che tali obbiettivi sono configurati come trasversali alle diverse politiche e azioni dell’Unione, nel senso che quest’ultime, oltre alle specifiche finalità cui sono preordinate, devono tendere a realizzare i suddetti obbiettivi. Questi comprendono l'eliminazione delle ineguaglianze e la promozione della parità tra uomini e donne (art. 8 TFUE); la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un'adeguata protezione sociale, la lotta Contro l'esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana (art. 9); la lotta alle discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale (art. 10); la tutela dell'ambiente, in particolare nella prospettiva di uno sviluppo sostenibile (art. 11); la protezione dei consumatori (art. 12). Inoltre, nell'ambito delle politiche concernenti vari settori (agricoltura, pesca, trasporti, mercato interno, ricerca e sviluppo tecnologico e spazio) I'Unione e gli Stati membri devono tenere conto pienamente delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto "esseri senzienti"(art. 13). [Ulteriori disposizioni generali in tale titolo II riguardano i servizi di interesse economico generale, la trasparenza nell’azione delle istituzioni, organi e organismi dell’Unione, la protezione dei dati personali, il rispetto, da parte dell’Unione, dello status di cui godono, in virtù del diritto nazionale, la chiesa e le associazioni o comunità religiose, nonché le organizzazioni filosofiche e non confessionali, e il mantenimento di un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni.] I VALORI FONDANTI DELL’UE ● Rispetto dignità umana ● Libertà ● Democrazia ● Uguaglianza ● Stato di diritto ● Rispetto dei diritti umani ● Pluralismo ● Non discriminazione ● Tolleranza ● Giustizia ● Solidarietà ● Parità tra uomini e donne Tali principi vengono posti a fondamento dell’Unione europea e sono dichiarati comuni a tutti gli SM. L’azione interna ed esterna (l’Unione si prefigge di promuovere tali valori nel resto del mondo) dell’Unione si fonda su tali valori. Necessità che gli SM condividano e rispettino tali valori, in caso contrario: ● non è possibile per uno Stato essere ammesso all’Unione ● uno SM può essere sottoposto a procedura sanzionatoria Quanto alla libertà, il termine non va riferito alle numerose libertà riconosciute dai Trattati, ma alla sua dimensione politica, quale garanzia di rispetto di una sfera di autonomia dei cittadini rivendicata nei riguardi dei pubblici poteri e sottratta alla loro ingerenza. Il valore della democrazia implica un rinvio ai principi basilari delle democrazie occidentali. Esso non comporta alcun modello rigido bensì richiede la garanzia di alcuni requisiti minimi ma essenziali e irrinunciabili quale, anzitutto, la derivazione dei pubblici poteri dalla volontà popolare. Tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo 1948). Il principio di democrazia si riflette nel Parlamento europeo ed esige un pieno rispetto delle sue prerogative. In passato, il principio democratico, in particolare nel quadro del procedimento di adozione degli atti normativi europei, non poteva dirsi adeguatamente realizzato, essendo palesemente insufficiente la mera consultazione del Parlamento europeo. Tale situazione era stata denunciata come problema del deficit democratico , il quale solo progressivamente (e parzialmente) aveva trovato soluzione nell’ambito della Comunità europea, con la previsione del procedimento della codecisione (peraltro non di generale applicazione), nel quale il potere legislativo è esercitato su un piano di parità dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Con il Trattato di Lisbona tale procedimento è stato generalizzato (pur con alcune eccezioni, in specie la materia della PESC), determinando così un sensibile sviluppo democratico della costruzione europea. Inoltre, il titolo II del TUE è dedicato ai principi democratici, i quali si esprimono sia nella forma della democrazia rappresentativa che di quella partecipativa e coinvolgono non solo il Parlamento europeo, ma pure quelli nazionali e, in qualche misura, la stessa società civile. Il valore dello Stato di diritto (rule of law) esprime la necessità che nella stessa Unione tutti i soggetti e gli “attori” coinvolti siano subordinati al rispetto del diritto, risultante dagli stessi Trattati, dal diritto derivato e da ogni norma giuridica applicabile nell’ordinamento europeo. Il principio in parola si lega anche alla presenza di un sistema di controllo giudiziario nell’Unione: nella giurisprudenza recente è costante l’affermazione che la tutela giudiziaria effettiva dei diritti derivanti dal diritto dell’Unione concretizza il valore dello Stato di diritto. Per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani, esso implica un rinvio non solo agli ordinamenti degli Stati membri, ma anche ai principi affermatisi a livello internazionale, a cominciare dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948. Nonostante i valori enunciati dall’art. 2 presentano un carattere sensibilmente politico, essi corrispondono ai principi generali del diritto dell’Unione e dunque costituiscono una fonte di tale diritto, essi sono applicabili dalla stessa Corte al fine di verificarne il rispetto da parte sia delle istituzioni dell’Unione che degli Stati membri (naturalmente nei limiti delle competenze giudiziarie istituite dagli stessi Trattati). I PROCEDIMENTI DI CONTROLLO SUL RISPETTO DEI VALORI UE 1) PROCEDURA DI CONTROLLO SULLA CONDOTTA DEGLI SM - Art. 7 par. 2 TUE: 1° - Accertamento di una grave e persistente violazione dei valori dell’art. 2 TUE 2°- Di conseguenza, nel caso in cui la violazione sia accertata, sono previste sanzioni sospensive di diritti in qualità di membro dell’Unione (compreso diritto di voto del Consiglio). Procedura: Il Consiglio europeo, delibera all’unanimità su proposta di un terzo degli SM o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo. È garantito il principio del contraddittorio: diritto dello Stato in questione a esporre le proprie ragioni prima che il Consiglio europeo ed il Parlamento europeo deliberino. Le misure sanzionatorie possono essere successivamente modificate o revocate dal Consiglio 2) PROCEDURA DI PRE-ALLARME - Art. 7 par. 1: Volta a verificare l’esistenza di “ un evidente rischio di violazione grave ” di tali valori e a prevenire la stessa commissione della violazione. Procedura: Su proposta motivata di un terzo degli SM, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio delibera alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo. Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo SM in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni. Il procedimento regolato dall’art. 7 TUE non è soggetto a controllo giudiziario: l’unica competenza esercitabile in proposito dalla Corte di giustizia riguarda gli aspetti “procedurali” (non il merito). 3) Comunicazione dell’11 marzo 2014: MECCANISMO DI PREALLARME NEL CASO DI “DISFUNZIONE SISTEMICA” DELLO STATO DI DIRITTO, basato su un dialogo della Commissione con lo Stato membro interessato, al fine di individuare soluzioni, prima di ricorrere al procedimento previsto dall’art. 7 TUE. Tale meccanismo si articola in tre fasi: 1°- In una prima, di valutazione, la Commissione dà avvio a un dialogo con lo Stato membro in questione e gli trasmette un parere riservato nel quale esprime le sue preoccupazioni in merito a una minaccia sistemica allo stato di diritto. 2°- Se la questione non si risolve, la Commissione nella seconda fase, invia allo Stato una raccomandazione, indicando eventualmente le misure da adottare e stabilendo un termine entro il quale risolvere i problemi constatati. 3°- Nella terza fase, di follow up della raccomandazione, la Commissione - mantenendo sempre un dialogo l'adozione di una posizione devono trascorrere dieci giorni. Inoltre, nelle otto settimane non può essere constatato alcun accordo riguardante il progetto di atto legislativo. È evidente che tale disposizione è volta a consentire ai parlamenti nazionali non solo un adeguato esame e una discussione del progetto legislativo, ma anche la formulazione di osservazioni, proposte, atti formali, da definire, peraltro, in base ai rispettivi ordinamenti nazionali. b. Per quanto riguarda il secondo aspetto (rappresentanza in via diretta): ● un caso di tale partecipazione è previsto dall'art. 48, par. i, TUE, il quale contempla dei procedimenti semplificati di revisione dei Trattati, consistenti nel passaggio dalla procedura di deliberazione all'unanimità nel Consiglio alla deliberazione a maggioranza qualificata e nel passaggio da una procedura legislativa speciale a quella ordinaria. Ai sensi del 3° comma del suddetto par. 7, ogni iniziativa in proposito, che compete al Consiglio europeo, va comunicata ai parlamenti nazionali e qualora anche un solo parlamento nazionale, entro sei mesi dalla trasmissione, si opponga alla modifica questa non è adottata. ● Un ruolo propositivo del potere dei parlamenti nazionali emerge in sede di revisione ordinaria, con la partecipazione di propri rappresentanti alla "convenzione", organo incaricato di esaminare i progetti di modifica e di adottare in proposito raccomandazioni (art. 48,par. 3, TUE). ● Un altro ruolo propositivo si esplica nei poteri riconosciuti dall’art. 10 del Protocollo n. 1 alla Conferenza degli organi parlamentari specializzati per gli affari dell'Unione europea (COSAC). Tale Conferenza può sottoporre i contributi che ritiene utili all'attenzione del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione. Essa, inoltre, opera da tramite tra i parlamenti nazionali e quello europeo, e tra le loro commissioni specializzate, promuovendo lo scambio di informazioni e di buone prassi. Infine può organizzare conferenze interparlamentari su temi specifici, concernenti, in particolare, la PESC. ● Per quanto riguarda il rispetto del principio di sussidiarietà, l’art. 5, par. 3, TUE dichiara che i parlamenti nazionali vigilano sul rispetto di tale principio, secondo la procedura prevista dal Protocollo n.2 IL RUOLO DEI PARTITI POLITICI Art. 10, par. 4, TUE: “I partiti politici a livello europeo contribuiscono a formare una coscienza politica europea e ad esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione”. Si tratta non solo di un ruolo rappresentativo (dei cittadini europei), ma anche formativo di una coscienza europea, cioè di una appartenenza consapevole all’Unione e di una posizione attiva nella costruzione europea. Il ruolo dei partiti politici emerge, in particolare, nella composizione del Parlamento europeo, nel quale i gruppi politici si costituiscono non già su base nazionale, ma sul fondamento delle affinità politiche. LA DEMOCRAZIA PARTECIPATIVA Art. 10, par. 3: “Ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell'Unione. Le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini.” Tale norma enuncia, anzitutto, il principio di "trasparenza", il quale corrisponde all'obiettivo, contemplato già dall'art. 1, 2° comma, TUE, di promuovere un'unione in cui le decisioni siano prese nel modo più trasparente possibile. La norma, inoltre, esprime il principio di "prossimità" (anch'esso già risultante dall'art. 1, 2° comma, TUE), richiedendo che le decisioni concernenti la vita dell'Unione siano assunte al livello più vicino al cittadino, per consentire una sua più autentica partecipazione. Essa costituisce l'anello di congiunzione tra la democrazia rappresentativa e la democrazia partecipativa, oggetto dell'art. 11 TUE. Nel par. 4 di quest’ultimo e nel regolamento UE 2019/788, è disciplinato il POTERE DI INIZIATIVA “POPOLARE” (ICE: iniziativa dei cittadini europei): Almeno un milione di cittadini dell’Unione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri (almeno un quarto) 1 , possono prendere l’iniziativa di invitare la Commissione europea, nell’ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengano necessario un atto giuridico dell’Unione ai fini dell’attuazione dei Trattati. 1 è richiesto, inoltre, che in tali Stati, i sostenitori (“firmatari”) corrispondano almeno al numero dei membri del Parlamento europeo eletti in ciascuno di essi moltiplicato per il numero complessivo dei membri del Parlamento europeo. La procedura prende l’avvio con la formulazione di una proposta d’iniziativa da parte di un gruppo di organizzatori. L’iniziativa è registrata dalla Commissione se il gruppo degli organizzatori soddisfa le prescrizioni del regolamento contenute nell’art. 6, par. 3. La decisione della Commissione di non registrare la proposta d’iniziativa è sottoponibile a controllo giudiziario da parte della Corte di giustizia. Se la proposta d’iniziativa è registrata, le dichiarazioni di sostegno dei firmatari sono raccolte entro dodici mesi. Scaduto tale termine, se essa abbia ottenuto il sostegno dei firmatari richiesti, la Commissione esamina l’iniziativa ed entro sei mesi espone in una comunicazione le sue conclusioni giuridiche e politiche riguardo all’iniziativa dei cittadini, l’eventuale azione che intende intraprendere e i suoi motivi per agire o meno in tale senso. La Commissione conserva dunque il suo consueto potere discrezionale nel decidere sull’opportunità politica di presentare o meno una proposta di atto dell’Unione, fermo restando il dovere di esame dell’inziiativa e di motivazione delle sue determinazioni. IL RISPETTO DEI DIRITTI UMANI FONDAMENTALI Tra i valori fondanti dell’Unione europea, l’art. 2 TUE menziona il rispetto dei diritti umani. Ai diritti umani è poi dedicato l’intero art. 6 TUE, che al par. 3 dichiara: “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. In quanto principi generali del diritto dell’Unione europea, le istituzioni europee sono obbligate al loro rispetto. Di conseguenza atti di tali istituzioni emanati in loro violazione sono illegittimi e suscettibili, pertanto, di essere annullati dalla Corte di giustizia. La loro obbligatorietà vale anche nei confronti degli Stati membri, purché, beninteso, ci si trovi nelle materie già rientranti nell'ambito del diritto dell'Unione europea. Pertanto, in tale ambito, la Corte è competente ad accertare l'infrazione di uno Stato membro derivante dalla sua condotta in violazione dei diritti fondamentali. In una prima fase, la Corte di giustizia aveva rifiutato di tenere conto, ai fini di valutare la legittimità di un atto comunitario, della eventuale violazione dei diritti umani, garantiti dalle costituzioni degli Stati membri. Neppure il Trattato CECA, così come i Trattati CEE e CEEA, contenevano disposizioni volte a garantire che l’azione comunitaria si svolgesse nel rispetto dei diritti umani fondamentali. Successivamente la Corte ha compiuto una decisiva svolta, affermando che i diritti umani fondamentali fanno parte del diritto comunitario, quali suoi autonomi principi generali (informati alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e agli accordi internazionali sui diritti umani). Fondamentale, in proposito, è la sentenza del 17 dicembre 1970, causa 11/70 Internationale Handelsgesellschaft mbH. L’inserimento dei diritti umani fondamentali nel diritto dell’Unione europea è dunque avvenuto in via “ pretoria ”, grazie alla giurisprudenza creativa della Corte di giustizia . Per quanto riguarda il richiamo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), la Corte di giustizia, pur ribadendo l’appartenenza dei diritti da essa contemplati al diritto dell’Unione, ha più volte affermato che la Convenzione non costituisce, fintantoché l’Unione non vi abbia aderito, un atto giuridico formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione. La Corte ha inoltre escluso che la Convenzione sia direttamente applicabile all’interno degli Stati membri e sia provvista del “primato” sulle norme nazionali incompatibili. Il par. 1 dell’art. 6 TUE attribuisce valore giuridicamente obbligatorio alla Carta di Nizza dei diritti fondamentali del 2000, riproclamata, con adattamenti, a Strasburgo il 12 dicembre 2007. La Carta dei diritti fondamentali, contenente un elenco di tali diritti, alcuni preesistenti, in quanto corrispondenti a quelli contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo o risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, ma altri profondamente innovativi, come quelli legati alla bioetica o i diritti sociali, acquista così il medesimo valore giuridico dei Trattati. Le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Tuttavia, la Corte di giustizia ha dichiarato che le istituzioni europee sono tenute a rispettare i diritti riconosciuti dalla Carta anche quando operano al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’Unione. (…) pag. 56, 57, 58, 59 60 L’art. 6, par. 2, TUE, stabilisce che l’Unione aderirà alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950. Malgrado il valore giuridico che i diritti contemplati dalla Convenzione europea già rivestono nel diritto dell’Unione, l’adesione alla Convenzione rappresenterebbe un progresso di notevole portata: essa, infatti, comporterebbe la sottoposizione dell’Unione al controllo della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per i propri atti eventualmente lesivi dei diritti ivi riconosciuti . Naturalmente l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea implica numerosi problemi, tecnici e politici, alla cui soluzione dovrebbe provvedere l’accordo di adesione. I negoziati per l’adesione, condotti a nome dell’Unione dalla Commissione e dal Comitato direttivo per i diritti umani a nome del Consiglio d’Europa, sono sfociati i 5 aprile 2013 in un progetto di accordo di adesione. La Commissione, il 4 luglio 2013, ha chiesto alla Corte di giustizia un parere sulla compatibilità di tale progetto con i Trattati dell’Unione, in conformità dell’art. 218, par. 11, TFUE. Ebbene, la Corte di giustizia ha dichiarato che il progetto di accordo di adesione è incompatibile sotto molteplici profili con i Trattati. Al momento, dunque, l’Unione resta fuori dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, malgrado l’impegno all’adesione risultante dall’art. 6, par. 2, TUE. La materia dei diritti umani, al giorno d’oggi, implica il rischio di duplicazioni o di contraddizioni fra i diversi con il Trattato di Lisbona): criteri ai quali i candidati devono conformarsi progressivamente, nel corso di una fase di pre-adesione, sotto il controllo della Commissione che ne verifica il rispetto. 1. Criterio giuridico: capacità del Paese candidato di adeguarsi alle norme dei Trattati , del diritto derivato e, più in generale, all’acquis dell’Unione. 2. Criterio politico: effettivo rispetto dei principi enunciati dall’art. 2 TUE . 3. Criterio economico: garanzia dello Stato candidato di assicurare il funzionamento di un mercato aperto di libera concorrenza PROCEDURA DI ADESIONE 1°) Preparazione alla candidatura (o fase di pre-adesione): l’aspirante candidato deve porre le basi istituzionali ed economiche per poter soddisfare i requisiti presupposti dall’adesione all’Unione. A tal fine, l’aspirante candidato stipula con l’UE i c.d. “accordi bilaterali di stabilizzazione e associazione” volti a supportare economicamente il primo nella conformazione economico-istituzionale del proprio sistema ai requisiti posti dall’adesione. 2°) I fase - Fase interistituzionale: 1°- Lo Stato richiedente trasmette la sua domanda al Consiglio, che si pronuncia all’unanimità. 2°- Il Consiglio è giuridicamente tenuto a consultare la Commissione, che emette un parere (tecnico) obbligatorio ma non vincolante. 3°- La delibera del Consiglio è subordinata al consenso del Parlamento europeo. 3°) II fase - Procedimento di “negoziazione” del trattato di adesione: Una volta che il Consiglio ha deliberato di accogliere la domanda di adesione, si svolge una seconda fase che si conclude con la stipulazione di un accordo tra lo Stato aderente e gli SM contenente in un atto allegato le condizioni di ammissione e gli adattamenti dei Trattati. Normalmente al nuovo SM sono concesse delle deroghe, temporanee o anche perpetue, in determinate materie. 4°) L’entrata in vigore dell’accordo di adesione (e dunque l’ingresso del nuovo SM) è subordinata alla ratifica degli Stati contraenti. IL RECESSO DALL’UNIONE EUROPEA (Art. 50 TUE) Il diritto di recesso volontario dall’UE è stato introdotto con il Trattato di Lisbona. Procedimento: 1°) Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. 2°) Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, I'Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. L’entrata in vigore dell’accordo sulle modalità di recesso segna il momento di cessazione dell’applicazione dei Trattati allo Stato interessato. Se non si riesce a concludere un accordo, i Trattati cessano ugualmente di essere applicabili due anni (eventualmente prorogabili) dopo la notifica della decisione di recedere. Lo Stato che abbia notificato la propria intenzione di recedere dall’Unione può revocare unilateralmente la notifica, finché non sia entrato in vigore un accordo di recesso con l’Unione o, in mancanza, non sia scaduto il termine di due anni. CAP. III - I PRINCIPI DELIMITATIVI TRA LE COMPETENZE DELL’UNIONE EUROPEA E QUELLE DEGLI STATI MEMBRI LE COMPETENZE DI ATTRIBUZIONE / IL PRINCIPIO DI ATTRIBUZIONE In riferimento all’Unione unitariamente intesa (Art. 5, par.2, TUE): L'Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei Trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei Trattati appartiene agli Stati membri. In riferimento alle istituzioni dell’Unione (Art. 13, par. 2, TUE): Ciascuna istituzione agisce nei limiti delle attribuzioni che le sono conferite dai Trattati, secondo le procedure, condizioni e finalità da essi previste. Sotto questo profilo, il principio di attribuzione opera anche nei rapporti tra le istituzioni dell’Unione, risolvendosi nel principio di equilibrio istituzionale. Il rispetto del principio di attribuzione è giuridicamente sanzionato: ove l’Unione o le sue istituzioni agissero al di là delle competenze a esse conferite, gli atti emanati sarebbero illegittimi, in quanto viziati da incompetenza e soggetti a dichiarazione di nullità da parte dei giudici dell’Unione. LE COMPETENZE SUSSIDIARIE (Art. 352 TFUE) L’art. 352 TFUE prevede la possibilità di conferire nuovi poteri (detti “competenze sussidiarie”) all’Unione senza una formale modifica dei Trattati. Tale articolo contiene la c.d. clausola di flessibilità. “Se un'azione dell'Unione appare necessaria, nel quadro delle politiche definite dai Trattati, per realizzare uno degli obiettivi di cui ai Trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, adotta le disposizioni appropriate. Allorché adotta le disposizioni in questione secondo una procedura legislativa speciale, il Consiglio delibera altresì all'unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo” [La necessità di specificare quanto scritto in quest’ultimo paragrafo deriva dal fatto che nelle procedure legislative speciali talvolta il Consiglio delibera a maggioranza e, il più delle volte, il Parlamento ha solo un potere consultivo (non vincolante).] LIMITI E CONDIZIONI: ● L’ipotesi prevista da tale art. è che un determinato scopo rientri già nella competenza dell’Unione, ma che quest’ultima non sia stata provvista dai Trattati dei poteri d’azione necessari per realizzarlo. Non sarebbe possibile, pertanto, estendere la portata dei Trattati, ampliando le stesse materie rientranti nel loro ambito. ● le misure fondate su tale articolo non possono comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei casi in cui i Trattati la escludano. ● il ricorso alla procedura dell’articolo in esame è del tutto escluso in materia di PESC. ● L’articolo in esame non può essere applicato per perseguire i seguenti obbiettivi: - Promozione della pace; - Valori dell’Unione e del benessere dei suoi popoli; - Unione economica e monetaria; - PESC. ● Riguardo alle "disposizioni appropriate" che l'art. 352 consente di adottare, esse comprendono ogni tipo di atto che le istituzioni europee, nell'esercizio della loro discrezionalità, ritengano opportuno ● Soggezione al rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità. I POTERI IMPLICITI La teoria dei poteri impliciti è stata elaborata in origine dalla Corte suprema statunitense, per poi essere ripresa dalla Corte internazionale di giustizia ed in seguito integrata all’interno dell’ordinamento dell’Unione dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Secondo tale teoria, l'Unione europea deve ritenersi provvista non solo dei poteri a essa conferiti espressamente dai Trattati istitutivi (poteri espliciti), ma anche dei poteri (impliciti), pur non menzionati dai Trattati, che siano funzionali ai poteri espliciti; che siano, cioè, necessari per garantire che i poteri suddetti siano esercitati nella maniera più efficace. In questa versione i c.d. poteri impliciti vengono ricavati da quelli espliciti, risultanti dai Trattati. Ma esiste anche una versione più avanzata della teoria dei poteri impliciti, secondo la quale tali poteri possono essere ricavati direttamente dagli scopi dei Trattati: l’Unione, così, sarebbe fornita dei poteri (impliciti) occorrenti per raggiungere i predetti scop i . LE CATEGORIE DI COMPETENZE DELL’UE In seguito al Trattato di Lisbona, si sono distinte tre diverse categorie di competenze dell’UE: 1) Competenze esclusive 2) Competenze concorrenti 3) Competenze di sostegno, coordinamento o completamento dell’azione degli Stati membri. Tali categorie non esauriscono la tipologia delle competenze dell'Unione: - una posizione a sé occupa la PESC , fondata essenzialmente su metodi e atti di carattere intergovernativo, nella quale, pertanto, i principali protagonisti restano gli SM. - riguardo alla materia economica e a quella occupazionale , sono gli Stati membri che coordinano le loro politiche, peraltro nell'ambito dell'Unione; a quest'ultima spetta il compito di definire le modalità di coordinamento, in conformità del TFUE (art. 2, par. 3), mediante l'adozione di indirizzi di massima per il coordinamento delle politiche economiche e di orientamento per le politiche occupazionali, nonché di iniziative per il coordinamento delle politiche sociali. COMPETENZE ESCLUSIVE – Art. 2 par. 1 TFUE Quando i Trattati attribuiscono all'Unione una competenza esclusiva in un determinato settore, solo I'Unione può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall'Unione oppure per dare attuazione agli atti dell'Unione. Le materie di competenza esclusiva sono: a) l'unione doganale; b) le regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; c) la politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l'euro; d) la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; e) la politica commerciale comune. obbiettivi europei siano assunte al livello più adatto a consentire ai cittadini di esprimere le proprie esigenze e le proprie determinazioni, si parla al riguardo di un principio di prossimità: il principio di sussidiarietà tende a individuare il più idoneo livello di intervento per la realizzazione degli obbiettivi dell’Unione, muovendo da quello locale, al livello regionale, nazionale ed europeo, avendo come criterio guida non solo l’efficacia dell’azione, ma anche la vicinanza ai cittadini . Al principio di sussidiarietà si riferisce anche il Protocollo n. 2 (inserito dal Trattato di Lisbona) sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità, espressamente richiamato dall'art. 5, par. 3, 2° comma, TUE. Esso pone taluni obblighi alle istituzioni europee e regola i poteri di vigilanza sull'applicazione del principio di sussidiarietà attribuiti ai parlamenti nazionali: ● la Commissione, prima di proporre un atto legislativo (e salvo casi di straordinaria urgenza), effettua ampie consultazioni tenendo conto, se del caso, della dimensione regionale e locale dell'azione intrapresa. Ogni proposta di atto legislativo deve essere motivata con riguardo al principio di sussidiarietà (nonché di proporzionalità). ● Il Protocollo n. 2 aggiunge una serie di disposizioni volte a: - garantire l'informazione dei parlamenti nazionali: esso prevede l'obbligo, a seconda dei casi, della Commissione, del Parlamento europeo e del Consiglio di trasmettere ai parlamenti nazionali i progetti di atti legislativi europei e i progetti modificati; analogamente sono trasmesse, non appena adottate, le risoluzioni legislative del Parlamento europeo e le posizioni del Consiglio. - conferire ai parlamenti nazionali poteri di vigilanza: rispetto ai progetti di atti legislativi europei ciascun parlamento nazionale (o sua camera) può mettere in moto una procedura di preallarme: entro otto settimane dalla trasmissione di un progetto di atto legislativo europeo ciascun parlamento nazionale (o sua camera) può formulare un parere motivato (che è inviato ai presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione), nel quale dichiara di ritenere che il progetto non sia conforme al principio di sussidiarietà. L'emanazione di un siffatto parere va tenuta in conto dalle istituzioni (o dagli Stati) proponenti: a) Se il parere proviene da almeno un terzo dei voti attribuiti ai parlamenti nazionali (nella misura di due voti per ciascun parlamento e di un voto per camera, per quelli bicamerali), esso ha I'effetto di un "veto sospensivo": il progetto di atto legislativo deve essere riesaminato e, al termine di tale riesame, I'istituzione (o il gruppo di Stati) proponente è tenuta a motivare la sua decisione, che può consistere nel mantenere il progetto, così come nel modificarlo o ritirarlo. b) Se un atto da adottare con la procedura legislativa ordinaria sia contestato, per violazione della sussidiarietà, dalla maggioranza semplice dei voti dei parlamenti nazionali, la Commissione deve riesaminare la proposta e, ove intenda mantenerla, deve inviare il proprio parere e quelli dei parlamenti nazionali al Parlamento europeo e al Consiglio. Se il Consiglio, a maggioranza del 55% dei suoi membri, o il Parlamento europeo, a maggioranza dei voti espressi, ritengono che la proposta sia incompatibile con la sussidiarietà, essa è respinta . ● Uno SM può impugnare un atto legislativo europeo che viola il principio di sussidiarietà dinanzi alla Corte di Giustizia non solo di propria iniziativa, ma anche a nome del suo parlamento nazionale o di una sua camera. II potere di ricorso alla Corte di giustizia è riconosciuto anche al Comitato delle regioni, ma solo per l'annullamento di atti per la cui adozione sia prescritta la sua consultazione. Nella prassi la motivazione degli atti delle istituzioni europee concernente la sussidiarietà, almeno per quanto risulta dal testo degli atti adottati, si risolve in una formula di stile, presente nei “considerando”, che si limita sostanzialmente a ripetere la disposizione corrispondente a quella oggi contenuta nell’art. 5, par. 3, TUE. Va precisato, infine, che rispetto del principio di sussidiarietà non deve essere verificato nei confronti della situazione specifica di ciascuno SM, ma della esigenza oggettiva di un’azione a livello europeo. PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’ Ai sensi dell’art. 5, par. 4, TUE: In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obbiettivi dei Trattati. Il principio di proporzionalità era già stato da tempo affermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia ed è stato codificato in seguito al Trattato di Maastricht del 1992. Comporta una valutazione circa la congruità dei mezzi impiegati rispetto all’obbiettivo perseguito e implica che tali mezzi devono essere limitati a quelli occorrenti per il raggiungimento dell’obbiettivo in questione. Esso vincola non solo l’Unione , ma anche gli SM (con la conseguenza che la sua violazione da parte di quest’ultimi rappresenta una infrazione sottoponibile al giudizio della Corte di Giustizia): ● riguardo agli SM, la proporzionalità opera come limite all’esercizio della facoltà loro concessa di porre delle eccezioni alle libertà previste dai Trattati o, più in generale, agli obblighi da essi derivati. ● in quanto riferito all’Unione, esso è teso a porre un argine alla sua azione. A differenza del principio di sussidiarietà, quello di proporzionalità opera nell’intero campo di applicazione dei Trattati, ivi comprese le materie nelle quali l’Unione ha una competenza esclusiva. L'art. 5, par. 4, TUE fa espresso riferimento non solo al contenuto dell'azione dell'Unione, ma anche alla forma, cioè ai tipi di atti adottabili. È da ritenere pertanto, che le misure normative, graduate rispetto all'obiettivo, devono avere la minore obbligatorietà possibile. Così, ad esempio, se non è indispensabile un regolamento (obbligatorio in ogni suo elemento e direttamente applicabile) dovrà emanarsi una direttiva (obbligatoria solo per il risultato da raggiungere); e se non è necessario un atto vincolante dovrà preferirsi una raccomandazione. Il principio di proporzionalità impone che non si vada al di là del necessario anche per quanto riguarda gli oneri amministrativi e finanziari derivanti dall'intervento dell'Unione : i progetti di atti legislativi devono tener conto della necessità che gli oneri (finanziari o amministrativi) che ricadono sull'Unione, sui governi nazionali, sugli enti regionali o locali, sugli operatori economici e sui cittadini, siano il meno gravosi possibile e commisurati all'obiettivo da conseguire. Per quanto riguarda il controllo giudiziario sul rispetto del principio di proporzionalità, la Corte di giustizia ha affermato che tale controllo non mette in discussione la discrezionalità del legislatore dell’Unione: compito della Corte di giustizia non è accertare se una misura emanata in un determinato settore fosse l’unica o la migliore possibile: solo la manifesta inidoneità della misura, rispetto allo scopo che le istituzioni competenti intendono perseguire, può inficiare la legittimità della misura medesima. Tuttavia, anche in presenza di tale potere di ampia discrezionalità, il legislatore dell’Unione è tenuto a basare le proprie scelte su criteri oggettivi ed è alla base dei suddetti che la Corte deve accertare se un atto dell’Unione abbia violato o meno il principio di proporzionalità. PRINCIPIO DI LEALE COOPERAZIONE Art. 4, par. 3, 2° e 2° comma TUE: Gli SM adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati ovvero conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione. Gli SM facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obbiettivi dell’Unione. La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha rinvenuto in tale disposizione un principio generale di leale collaborazione, o cooperazione, degli SM nei riguardi dell’Unione europea. Da tale principio, la Corte di giustizia ha ricavato una serie di specifici obblighi degli Stati (gli obblighi in questioni riguardano tutti gli organi e le autorità pubbliche degli SM, siano essi legislativi, giudiziari o amministrativi e siano essi organi formalmente dello Stato oppure altri enti territoriali): ● Nella causa Costa c. ENEL, la Corte ha affermato il primato del diritto comunitario su quello nazionale e la conseguente impossibilità per gli SM di far prevalere una legge interna successiva, in contrasto con l’ordinamento comunitario. ● Obbligo del giudice nazionale di garantire la tutela giurisdizionale dei diritti dei singoli derivanti dal diritto dell’Unione. - Con particolare riguardo alla tutela giurisdizionale dei diritti derivanti dalle norme del diritto dell'Unione aventi efficacia diretta la Corte ha dichiarato che in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, è l'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti. A questo fine il giudice è tenuto anche ad adottare provvedimenti provvisori a tutela dei singoli, persino nell'ipotesi in cui il diritto interno vieti l'emissione di tali provvedimenti. ● Obbligo degli SM (a certe condizioni) di risarcire i danni provocati ai singoli dalle proprie violazioni di obblighi derivanti dal diritto dell’Unione. ● Obbligo del giudice interno di interpretare il proprio diritto in maniera conforme al diritto dell’Unione. Esso rileva specialmente per le direttive: in mancanza di misure statali di esecuzione (o quando tali misure non siano appropriate) l'obbligo di interpretazione conforme tende a consentire l'applicazione della direttiva, sebbene non attuata, nell'ordinamento interno, "piegando" il diritto dello Stato a conformarsi in via interpretativa alla direttiva in questione. ● Principio di assimilazione: lo Stato membro deve sanzionare le violazioni del diritto dell’Unione nei termini analoghi rispetto a violazioni comparabili al diritto interno. ● Obbligo, per uno SM, di adottare i provvedimenti necessari per fronteggiare atti di privati che impediscano l’esercizio delle libertà garantite dal diritto dell’Unione. ● Art. 4, par. 3, TUE: l’Unione e gli SM si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati Inserita con il Trattato di Lisbona, l’aspetto innovativo di tale norma è quello che prescrive l’obbligo dell’Unione, quindi delle sue istituzioni e dei suoi organi, di assistenza agli Stati. ● Il principio di leale cooperazione ha trovato applicazione anche nei rapporti tra le istituzioni europee . Per esempio, nella sentenza della causa C-65/93, Parlamento c. Consiglio (pag. 114, 115). Questa giurisprudenza è stata accolta nel Trattato di Lisbona, nell'art. 13, par. 2, TUE: le istituzioni attuano tra loro una leale cooperazione. L’INTEGRAZIONE DIFFERENZIATA I rapporti tra l’Unione europea e gli SM non sempre hanno il medesimo contenuto e la medesima portata: Nel caso in cui uno Stato membro sia intenzionato ad entrare a far parte di una cooperazione rafforzata già instaurata, notifica al Consiglio e alla Commissione tale intenzione, sulla quale si pronuncia la stessa Commissione, che può richiedere che siano soddisfatte certe condizioni di partecipazioni. Ove la Commissione ritenga che tali condizioni non siano state soddisfatte, lo Stato in parola può sottoporre la questione al Consiglio, che decide (con il solo voto degli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata già instaurata). Alla Commissione e al Consiglio spetta assicurare la coerenza delle azioni intraprese nell'ambito di una cooperazione rafforzata e la coerenza di dette azioni con le politiche dell'Unione (art. 334 TFUE). CONDIZIONI PER L’INSTAURAZIONE DI UNA COOPERAZIONE RAFFORZATA: ● La necessità che essa sia diretta a promuovere gli obiettivi dell'Unione, a proteggere i suoi interessi e a rafforzare il processo d'integrazione. ● La necessità che sia aperta in qualsiasi momento a tutti gli Stati membri + la Commissione e gli Stati membri che partecipano a una cooperazione rafforzata si adoperano per promuovere la partecipazione del maggior numero possibile di Stati membri. ● Considerazione della cooperazione rafforzata quale extrema ratio, rispetto al normale funzionamento delle disposizioni e degli strumenti dei Trattati: la decisione che autorizza una cooperazione rafforzata è adottata dal Consiglio in ultima istanza, qualora esso stabilisca che gli obiettivi ricercati da detta cooperazione non possono essere conseguiti entro un termine ragionevole dall'Unione nel suo insieme (art. 20, par. 2, TUE). ● La facoltà di ricorrere ad una cooperazione rafforzata può essere esercitata qualora uno o più SM dichiarino l’impossibilità di conseguire gli obbiettivi in questione dell’Unione nel suo insieme entro un termine ragionevole. Ciò può essere dovuto a diverse cause, quali una mancanza di interesse di uno o più SM o l’incapacità degli SM, che si mostrino tutti interessati all’adozione di un regime a livello dell’Unione, di pervenire un accordo sul contenuto di un tale regime. ● Occorre che vi partecipino almeno 9 SM ● La disciplina delle cooperazioni rafforzate è applicabile all’intera gamma delle materie rientranti nelle competenze dell’Unione eccetto quelle di competenza esclusiva. Talune varianti sono poi stabilite per la PESC e per materie specifiche. ● Che essa rispetti i Trattati ed il diritto dell’Unione, non rechi pregiudizio né al mercato interno né alla coesione economica, sociale e territoriale, non costituisca un ostacolo né una discriminazione per gli scambi tra gli SM, non provochi distorsioni di concorrenza tra quest’ultimi (art. 326 TFUE) ● Deve rispettare le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati che non vi partecipano. Non è vietato agli SM perseguire una più accelerata o approfondita attuazione degli obbiettivi europei anche al di fuori del quadro dell’Unione (e del meccanismo di cooperazione rafforzata), per esempio, mediante la conclusione di accordi internazionali tra alcuni soltanto di tali Stati. COOPERAZIONE RAFFORZATA E PESC La procedura prevista per l’insaturazione di una cooperazione rafforzata nel quadro della PESC è la seguente: la richiesta è presentata direttamente dagli Stati interessati al Consiglio, il quale delibera all’unanimità, previo parere dell’Alto rappresentante e della Commissione in merito alla coerenza della prevista cooperazione rafforzata, rispettivamente, con la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione e con le altre politiche dell’Unione. Il Parlamento europeo è solo informato della richiesta. Sempre in materia di PESC, sulla domanda di partecipazione a una cooperazione rafforzata si pronuncia il Consiglio, previa consultazione dell' Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Esso può stabilire condizioni di partecipazione e si pronuncia all'unanimità degli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata. LA COOPERAZIONE STRUTTURATA PERMANENTE Una particolare forma di cooperazione rafforzata è prevista in materia di politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC), la quale implica l'impiego anche di mezzi militari. Si tratta della cooperazione strutturata permanente, che può essere instaurata fra gli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari e che hanno sottoscritto impegni più vincolanti ai fini delle missioni militari più impegnative, impegni precisati nel Protocollo n. 10 (art. 42,par. 6, TUE). Essa sembra differenziarsi dalla cooperazione rafforzata proprio perché non "episodica", legata, cioè, a singoli atti da adottare, ma "permanente", volta, quindi, a creare una struttura, anche militare, di carattere stabile e definito. La procedura in proposito è regolata dall’art. 46 TUE, il quale stabilisce che, sulla richiesta degli SM di instaurare una cooperazione strutturata permanente, delibera a maggioranza qualificata il Consiglio, previa consultazione dell'Alto rappresentante. Lo stesso Consiglio, sempre con tale maggioranza, decide su domande di partecipazione successiva alla cooperazione strutturata permanente, ma con il voto dei soli Stati partecipanti a tale cooperazione. Uno Stato membro partecipante può essere sospeso dalla partecipazione ove il Consiglio (con la consueta maggioranza qualificata) ritenga che non soddisfi più i criteri prescritti nel Protocollo n. 10, così come può ritirarsi dalla cooperazione. CAP IV – LA CITTADINANZA EUROPEA L’ATTRIBUZIONE DELLA CITTADINANZA EUROPEA La cittadinanza europea è stata istituita con il Trattato di Maastricht del 1992. Essa consiste in un nuovo status giuridico del quale è titolare chiunque abbia la cittadinanza di un Paese membro dell’Unione. Tale status, enunciato nell’art. 9 TUE, è disciplinato dagli articoli 20-25 TFUE. I diritti dei cittadini trovano ulteriore riconoscimento nella Carta di Nizza dei diritti fondamentali (art. 39-46), riproclamata e adattata il 12 dicembre 2007 (avente lo stesso valore dei Trattati). Riguardo all’attribuzione della cittadinanza europea, essa consegue automaticamente alla cittadinanza di uno Stato membro. Essa rappresenta un arricchimento della cittadinanza nazionale, che, senza in alcun modo sostituire quest’ultima, la potenzia mediante una serie di diritti. Rispetto alla cittadinanza nazionale quella europea costituisce una cittadinanza duale, o derivata (o ancillare). Per quanto concerne gli Stati che aderiscano all’Unione; l’acquisto della cittadinanza europea si determina al momento dell’adesione. L’attribuzione automatica della cittadinanza europea a chiunque sia cittadino di uno Stato membro esclude l’esistenza di criteri di acquisto o di perdita di tale cittadinanza definiti autonomamente dall’Unione: dato che essa consegue automaticamente alla cittadinanza nazionale, gli Stati membri sono liberi, in principio, di determinare anche l’acquisto o la perdita della cittadinanza europea. La libertà di ciascuno Stato membro, per quanto riguarda la propria cittadinanza, non può essere rimessa in discussione né dalle istituzioni europee, né da ciascun altro Stato membro (sentenza Micheletti). Dalla sentenza Micheletti, può desumersi un limite alla rilevanza delle legislazioni nazionali ai fini dell’attribuzione della cittadinanza europea. La Corte, infatti, ha affermato che la competenza degli Stati in materia di cittadinanza deve essere esercitata nel rispetto del diritto dell’Unione: di conseguenza, non produrrebbero effetti sulla cittadinanza europea disposizioni di uno Stato membro che, per esempio, eliminassero la propria cittadinanza per impedire l’esercizio di diritti nascenti da tale diritto; oppure che privassero taluno della cittadinanza in violazione del principio di proporzionalità, o in contrasto con i diritti fondamentali, riconosciuti dai principi generali del diritto dell’Unione o dalla Carta dei diritti fondamentali. LO STATUS DI CITTADINO EUROPEO: IL DIRITTO DI LIBERA CIRCOLAZIONE E DI SOGGIORNO La cittadinanza dell'Unione non consiste, a differenza di quella nazionale, in un vincolo giuridico-politico, caratterizzato, per un verso, da una generale soggezione del cittadino allo Stato, dall'altro, da una sua partecipazione alla vita politica dello stesso. Essa si risolve, invece, in un catalogo di specifici diritti (che possono essere ampliati), esercitabili, di regola, nei confronti degli Stati membri, piuttosto che dell'Unione, e taluni appartenenti non solo ai cittadini, ma anche alle persone fisiche o giuridiche aventi la residenza o la sede sociale in uno Stato membro. Da un punto di vista politico, la creazione della cittadinanza dell'Unione rappresenta un evento di estrema rilevanza: l'individuo, infatti, non viene più in rilievo solo come soggetto economicamente attivo, ma tende a porsi come soggetto politico, partecipe e consapevole protagonista del processo di integrazione europea. La Corte, però, ha confermato che anche i diritti derivanti dalla cittadinanza dell'Unione possono esercitarsi solo in situazioni che non siano esclusivamente interne a uno Stato membro, anche se, in concreto, è stata sempre generosa nel riconoscere un qualche elemento che sottraesse la fattispecie a una configurazione puramente interna e la collocasse nell'ambito del diritto dell'Unione. Nella specie, ha fatto rientrare nel diritto dell'Unione, in particolare nelle norme relative alla libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell'Unione, la materia- pur riservata, di per sé, agli Stati membri- relativa al cognome delle persone. Sempre riguardo a cittadini che avessero esercitato il diritto di circolazione e di soggiorno, anche la giurisprudenza successiva, pur ribadendo che la materia in esame rientra nella competenza degli Stati membri, ha confermato che questi ultimi, nell'esercizio di tale competenza, devono comunque rispettare il diritto dell'Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato relative alla libertà riconosciuta a ciascun cittadino dell'Unione di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri. Si è visto, inoltre, che la Corte di giustizia ha affermato che lo status di cittadino dell'Unione può essere invocato anche nei confronti del proprio Stato di appartenenza; e che la condizione "statica" del cittadino che non abbia mai esercitato la libertà di circolazione non va qualificata, di per sé, come puramente interna al suddetto Stato, potendosi riconoscere, a certe condizioni, i diritti della cittadinanza europea anche a un siffatto cittadino. Generalmente l’applicabilità dei diritti relativi alla cittadinanza europea a cittadini che non abbiano esercitato il diritto di libera circolazione si pone rispetto a domande di soggiorno un uno Stato membro di cittadini di Stati terzi parenti o coniugi del cittadino in questione. IL DIRITTO DI PETIZIONE Collegato alla cittadinanza dell’Unione è Il diritto di petizione, regolato dall’art. 24 TFUE. “Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di petizione dinanzi al Parlamento europeo conformemente all’art. 227”. Quest’ultimo dispone: “Qualsiasi cittadino dell’Unione, nonché ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro, ha il diritto di presentare, individualmente o in associazione con altri cittadini o persone, una petizione al Parlamento europeo su una materia che rientra nel campo di attività dell’Unione e che lo (la) concerne direttamente”. In capo al Parlamento europeo vige l’obbligo di esaminare le petizioni. Dall’ampia prassi in materia si desume che la petizione può avere un contenuto alquanto vario, da richieste di informazioni sulla posizione del Parlamento europeo in merito a date questioni, a suggerimenti relativi alle politiche dell’Unione o alla soluzione di specifici problemi, alla proposizione all’attenzione del Parlamento di questioni di attualità, sino a veri e propri reclami contro asserite violazioni dei diritti del petizionario. In ogni caso la petizione deve rientrare nel campo di attività dell’Unione. N.B. Il diritto di petizione si estende non solo ai cittadini dell’Unione bensì anche a “ogni persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro”, ciò nell’ottica della tutela dei diritti fondamentali. L’art. 227 subordina la presentazione di una petizione alla condizione che la materia oggetto della stessa concerna direttamente il suo autore. Considerato lo scopo della petizione, di sollecitare l’attenzione del Parlamento europeo e sue eventuali iniziative, tale condizione non può essere intesa in senso rigidamente formale, quale necessità che il petizionario sia titolare di un diritto che possa subire un pregiudizio, ma in maniera alquanto elastica, come coinvolgimento del petizionario nella materia in questione, anche semplicemente in quanto, p.es., consumatore, o professionista, o interessato alla protezione ambientale di una certa zona ecc. Per l’esame delle petizioni è istituita una commissione permanente del Parlamento europeo, detta Commissione per le petizioni. Il risultato dell’esame può essere vario, anche in corrispondenza ai diversi contenuti che e stesse petizioni possono presentare. La Commissione delle petizioni può decidere di elaborare relazioni o di pronunciarsi in altro modo, previo parere di un’altra commissione parlamentare. Essa può chiedere al Presidente del Parlamento di trasmettere il suo parere o la sua raccomandazione alla Commissione europea, al Consiglio o all’autorità dello Stato membro in questione al fine di ottenere un intervento o una risposta. Il Parlamento europeo, su proposta della Commissione per le petizioni, può adottare risoluzioni, può formulare interrogazioni alla Commissione europea o al Consiglio; può tentare di raggiungere un regolamento amichevole (di solito tramite la Commissione europea) con lo Stato cui la petizione imputi una violazione del diritto dell’Unione. In quest’ultimo caso, ove non si pervenga a un regolamento amichevole, si apre la possibilità di una procedura d’infrazione su iniziativa della Commissione europea. LA DENUNCIA AL MEDIATORE EUROPEO Allo scopo di avvicinare il cittadino alle istituzioni europee risponde anche l’istituto del Mediatore. In virtù dell’art. 24, 3° comma, TFUE: “Ogni cittadino dell’Unione può rivolgersi al Mediatore istituito conformemente all’art. 228” Il Mediatore è un organo individuale, istituito dal Trattato di Maastricht del 1992, con il compito di promuovere la buona amministrazione nell’Unione intervenendo per riparare i casi di cattiva amministrazione. Egli è nominato dal Parlamento europeo dopo ogni elezione dello stesso Parlamento per la durata della legislatura ed il suo mandato è rinnovabile. Malgrado i stretti rapporti con il Parlamento europeo, il Mediatore non può essere considerato un suo organo, ai sensi dell’art. 228, par. 3, infatti: “Il Mediatore esercita le sue funzioni in piena indipendenza. Nell’adempimento dei suoi doveri, egli non sollecita né accetta istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo. Per tutta la durata del suo mandato, il Mediatore non può esercitare alcuna altra attività professionale, remunerata o meno”. Il Parlamento non può revocare la nomina del Mediatore, ma solo chiedere alla Corte di giustizia di dichiararlo dimissionario (provocandone così la cessazione dalle funzioni). FUNZIONI DEL MEDIATORE EUROPEO (art. 228, par. 1): è abilitato a ricevere le denunce di qualsiasi cittadino dell’Unione o di qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro. Il Mediatore può attivarsi anche d’ufficio o su denuncia presentata da un membro del Parlamento europeo. Inoltre, non si richiede al denunciante un interesse ad agire. Oggetto della denuncia (e dell’indagine del Mediatore) è un caso di cattiva amministrazione nell’azione dell’Unione, con esclusione, quindi, di comportamenti imputabili a Stati membri. E’ esclusa, inoltre, ogni possibilità d’indagine sull’attività giudiziaria europea. L’attività del Mediatore è preclusa anche quando sia in atto, o si sia svolta, una procedura giudiziaria all’interno di uno Stato in merito ai fatti oggetto della denuncia. Il riferimento ai casi di cattiva amministrazione esclude un intervento del Mediatore riguardo all’attività normativa dell’Unione. Qualora il Mediatore constati un caso di cattiva amministrazione, egli ne investe l’istituzione interessata, che dispone di tre mesi per comunicargli il suo parere. Il Mediatore trasmette poi una relazione al Parlamento europeo e all’istituzione, all’organo o all’organismo interessati. Il compito del Mediatore consiste nel cercare, da un lato, di riparare l’eventuale torto subito dal denunziante, dall’altro di risolvere il problema generale sollevato dalla denuncia. Di conseguenza, il Mediatore, oltre a condurre un’indagine, con la collaborazione dell’istituzione, dell’organo o dell’organismo interessati e del denunciante - e, se del caso, di altre istituzioni, organi o organismi e degli Stati membri - svolge un’attività conciliativa con l’istituzione, l’organo o l’organismo in questione al fine di eliminare il caso di cattiva amministrazione e di soddisfare il denunciante. Se ciò non risulta possibile il Mediatore chiude il caso con una valutazione critica relativa all'istituzione, all'organo o all'organismo interessati, oppure, specie se ritiene che il caso abbia implicazioni generali, elabora una relazione con progetti di raccomandazioni e l'invia all'istituzione, all'organo o all'organismo interessati e al denunciante. Se tale istituzione, organo o organismo non fornisce una risposta soddisfacente (quale l'accettazione delle raccomandazioni), il Mediatore invia al Parlamento europeo una relazione speciale sul caso, con eventuali raccomandazioni. Un'adeguata informazione è sempre fornita sia all'istituzione, organo o organismo in questione che al denunciante. GLI ALTRI DIRITTI DEL CITTADINO EUROPEO Ulteriori diritti del cittadino europeo consistono nella facoltà di scrivere alle istituzioni, agli organi o agli organismi europei, nonché al Mediatore europeo, in una delle lingue ufficiali e di ricevere una risposta nella stessa lingua, nonché nel diritto di accesso ai documenti delle istituzioni, organi o organismi dell'Unione, secondo i principi generali e alle condizioni (ivi comprese le limitazioni a tutela di interessi pubblici o privati) stabiliti mediante regolamenti dal Parlamento e dal Consiglio, nonché nei regolamenti interni delle istituzioni, organi e organismi europei. Tale diritto si collega alla esigenza che I'Unione operi nel modo più trasparente possibile "al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile"(art. 15, par. 1, TFUE). Anche la Carta dei diritti fondamentali contiene vari articoli (compresi nel titolo V, intitolato alla cittadinanza) che prevedono i diritti del cittadino europeo. Per la maggior parte tali articoli non fanno che ripetere le disposizioni sin qui ricordate. Merita, però, di essere sottolineato l'art. 41, paragrafi 1 e 2, della Carta, inserito nel titolo V, il quale stabilisce un diritto di primaria importanza, già più volte riconosciuto nella giurisprudenza della Corte di giustizia: il diritto a una buona amministrazione. In virtù di esso: “1. Ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni, organi e organismi dell'Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare: a) il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio; b) il diritto di ogni persona di accedere al fascicolo che la riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale e commerciale; c) l’obbligo per l'amministrazione di motivare le proprie decisioni.” Come risulta dalla stessa formulazione della norma, malgrado la sua collocazione nel titolo della Carta dedicato alla cittadinanza, tale diritto non è una prerogativa dei cittadini dell'Unione, ma di "ogni persona", nell'ottica corretta del riconoscimento dei diritti umani fondamentali. LA TUTELA DIPLOMATICA E CONSOLARE ALL’ESTERO L’art. 23 TFUE attribuisce una proiezione esterna alla cittadinanza dell’Unione, dichiarando al comma 1°: “Ogni cittadino dell’Unione gode, nel territorio di un Paese terzo nel quale lo Stato membro di cui ha la cittadinanza non è rappresentato, della tutela da parte delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Gli Stati membri adottano le disposizioni necessarie e avviano i negoziati internazionali richiesti per garantire detta tutela”. CAP. V – LE ISTITUZIONI DELL’UNIONE EUROPEA L’Unione europea dispone di un’ampia e articolata struttura organizzativa la cui azione è diretta a perseguire i suoi obbiettivi. Alla luce dell’art. 13, par. 1, 2° comma, sono definiti “ istituzioni ” alcuni organi di fondamentale importanza nella vita dell’UE: ● il Parlamento europeo [Una funzione di rappresentanza esterna è svolta anche: ● dall’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ● dal governo (e il suo Capo) che ha la presidenza semestrale del Consiglio, ● dalla Commissione, in particolare, dal suo Presidente.] L’art. 15, par. 3, TUE, dispone che il Consiglio europeo si riunisca due volte a semestre su convocazione del Presidente; quest’ultimo se la situazione lo richiede convoca una riunione straordinaria. L’art. 15, par. 4, TUE dichiara: “Il Consiglio europeo si pronuncia per consenso , salvo nei casi in cui i Trattati dispongano diversamente ”. In quest’ultimi casi votano soltanto gli SM, tramite i rispettivi Capi di Stato o di governo, mentre il Presidente del Consiglio europeo e il Presidente della Commissione non partecipano al voto. [Nel caso di votazione, quando è richiesta l’unanimità, l’astensione di un membro non osta all’adesione della deliberazione. Quando invece è prescritta la maggioranza qualificata trovano applicazione le stesse regole previste per la votazione del Consiglio (art. 235, par. 1, 2° comma, TFUE), in particolare dall’art. 16, par. 4, TUE e dall’art. 238, par. 2, TFUE.] Nei Trattati sono contemplate diverse regole di votazione a seconda dei casi. Poco frequenti sono le ipotesi di maggioranza semplice e di maggioranza qualificata, più spesso è prevista la decisione all’unanimità [vedi esempi a pag. 166-167]. [RICORDA: L’unanimità rappresenta la regola nell’azione esterna dell’Unione e nella PESC, compresa la politica di sicurezza e di difesa comune.] LE FUNZIONI DEL CONSIGLIO EUROPEO Riguardo alle funzioni del Consiglio europeo, oltre quelle concernenti la formazione di altre istituzioni o organi e le modifiche ai Trattati, l’art. 15, par. 1, TUE dichiara: “Il Consiglio europeo dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni legislative”. La natura del Consiglio europeo è eminentemente politica , ciò si riflette anche sugli atti che esso emana i quali non possono avere natura legislativa. Al termine delle sue riunioni, infatti, la Presidenza del Consiglio europeo esprime delle conclusioni , alle quali possono aggiungersi comunicati e dichiarazioni, frutto dell’intesa, in principio unanime, raggiunta nel Consiglio stesso. Atti del genere, in principio, non hanno efficacia giuridica. Sul piano politico, peraltro, possono avere notevole rilevanza; essi, inoltre, possono contenere direttive o orientamenti rivolti alla Commissione e al Consiglio e intesi a promuovere loro iniziative formali, in vista dell’adozione di atti o dello sviluppo di politiche dell’Unione. Non può escludersi, inoltre, che in seno al Consiglio europeo possano realizzarsi degli accordi tra gli SM, sia pure in maniera implicita e in forma semplificata. Il Consiglio europeo svolge un ruolo di primo piano nell’ azione esterna dell’Unione e, in particolare, nell’ambito della PESC (compresa la politica di sicurezza e di difesa comune). In questo contesto il Consiglio europeo adotta anche atti formali, provvisti di effetti giuridici obbligatori. Con particolare riguardo alla PESC l’,art. 26, par. 1, TUE investe il Consiglio europeo del compito di individuare gli interessi strategici dell’Unione , di fissare gli obbiettivi e definire gli orientamenti generali di tale politica, comprese le questioni aventi implicazioni in materia di difesa, e di adottare le necessarie decisioni. Queste determinazioni del Consiglio europeo appaiono giuridicamente obbligatorie, almeno nei confronti del Consiglio . [Art. 26 TUE, par. 2: “Il Consiglio elabora la PESC e prende le decisioni necessarie per la definizione e l’attuazione di tale politica in base agli orientamenti generali e alle linee strategiche definiti dal Consiglio europeo”.] Tuttavia, le posizioni assunte in materia dal Consiglio sono destinate a produrre effetti ulteriori “a cascata”, nei confronti di altri organi e istituzioni e, in definitiva, nei confronti degli SM. Il Consiglio europeo interviene anche in talune materie estranee all’azione esterna dell’Unione: ● L’art. 121, par. 2, TFUE, dichiara che il Consiglio europeo dibatte delle conclusioni in merito agli indirizzi di massima per le politiche economiche degli SM e dell’Unione , sulla base delle quali il Consiglio adotta una raccomandazione che definisce i suddetti indirizzi di massima. ● Analogamente, ai sensi dell’art. 148 TFUE, il Consiglio europeo esamina annualmente la situazione dell’occupazione nell’Unione , sulla base di una relazione annuale comune del Consiglio e della Commissione, e adotta le conclusioni del caso. Sulla base di tali conclusioni il Consiglio elabora annualmente degli orientamenti di cui devono tenere conto gli SM nelle rispettive politiche in materia di occupazione. Esiste oggi un rapporto tra il Consiglio europeo ed il Parlamento, il quale può esercitare sul primo qualche forma di controllo politico. Anteriormente al Trattato di Lisbona non era consentito alcun controllo giudiziario sull’operato del Consiglio europeo. Con il Trattato di Lisbona, per la prima volta, è stata prevista la possibilità di impugnare dinanzi alla CGUE atti del Consiglio europeo ritenuti illegittimi, purché destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. Tuttavia, l’ipotesi di impugnabilità si restringe sensibilmente ove si rammenti che, di regola, è esclusa la competenza della CGUE nell’intera materia della PESC: in definitiva, risultano impugnabili per vizi di legittimità solo atti del Consiglio europeo che, per un verso, siano giuridicamente obbligatori, ma, per altro verso, non riguardino la PESC. IL CONSIGLIO Il Consiglio è un organo tipicamente intergovernativo; esso è composto, infatti, dagli Stati membri rappresentati dai rispettivi esecutivi: “Il Consiglio è composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale , abilitato a impegnare il governo dello SM che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto” (Art. 16, par. 2, TUE). Il Consiglio esprime gli interessi particolari dei singoli Stati membri. Gli atti adottati dal Consiglio vanno considerati quali atti organici, imputabili giuridicamente allo stesso Consiglio, non ai singoli SM. Alle riunioni del Consiglio non devono partecipare necessariamente i ministri del governo centrale di uno Stato; questo può farsi rappresentare anche da componenti di organi di governo di enti locali, purché a essi sia attribuito dal diritto nazionale lo status ministeriale. La COMPOSIZIONE del Consiglio è variabile , poiché esso è formato dai ministri competenti ratione materiae in corrispondenza agli argomenti di volta in volta posti al suo ordine del giorno . L’elenco delle varie formazioni è adottato dal Consiglio europeo, a maggioranza qualificata (attualmente sono 10). L’art. 16, par. 6, TUE prevede due formazioni del Consiglio, precisandone le funzioni: si tratta del Consiglio “Affari generali” e del Consiglio “Affari esteri”. ● Il primo “assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del Consiglio. Esso prepara le riunioni del Consiglio europeo e ne assicura il seguito in collegamento con il Presidente del Consiglio europeo e la Commissione”. ● Il Consiglio “Affari esteri” “elabora l’azione esterna dell’Unione secondo le linee strategiche definite dal Consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’Unione”. Riguardo alla PRESIDENZA DEL CONSIGLIO l’art. 16, par. 9, TUE dichiara che, fatta eccezione per la formazione “Affari esteri”, essa è determinata dal Consiglio europeo con votazione a maggioranza qualificata secondo un sistema di rotazione paritaria , cioè assicurando a tutti gli SM, a turno, tale presidenza. La presidenza è svolta da ogni SM per un periodo di sei mesi . Più precisamente, viene predeterminato un gruppo di tre SM (il c.d. trio) , tenendo conto della loro diversità e degli equilibri geografici dell’Unione, per un periodo di 18 mesi. Ciascun membro di tale gruppo esercita a turno la presidenza di tutte le formazioni del Consiglio (a eccezione di quella “Affari esteri”) per sei mesi; gli altri due membri lo assistono in tutti i suoi compiti sulla base di un programma comune. [Ritorna così il gruppo di tre Stati che, nella prassi, formavano la troika, predeterminati in modo tale da consentire una programmazione dei lavori in tempi relativamente lunghi (18 mesi).] Diversa è la disciplina concernente la presidenza del Consiglio “Affari esteri”, la quale spetta all’ Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Il Consiglio, ai sensi dell’art. 240, par. 2, TFUE, è assistito da un Segretario generale (nominato dal Consiglio a maggioranza qualificata) sotto la responsabilità di un Segretariato generale. Il Consiglio si riunisce, su convocazione del suo Presidente, per iniziativa dello stesso Presidente, di uno SM o della Commissione (art. 237 TFUE). La sua sede è a Bruxelles. Le sue riunioni avvengono in seduta pubblica quando esso delibera e vota su un progetto di atto legislativo; le sessioni del Consiglio sono suddivise, pertanto, in due parti, dedicate, rispettivamente, alle deliberazioni su atti legislativi e alle attività non legislative, per le quali non vige l’obbligo della pubblicità (art. 16, par. 8, TUE). Nel funzionamento del Consiglio un ruolo significativo svolge il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER). Il COREPER è un organo intergovernativo , essendo formato da delegati dei governi degli SM. Esso si articola in due parti: - il COREPER I, costituito dai rappresentanti permanenti aggiunti, - il COREPER II, composto dai rappresentanti permanenti aventi il rango diplomatico, tra i quali si distribuiscono le materie da trattare. Il COREPER svolge un ruolo importante ai fini dell’adozione degli atti da parte del Consiglio: infatti, la proposta della Commissione viene trasmessa dal Consiglio al COREPER e, dopo adeguata istruttoria, è posta in discussione nel COREPER, al fine di raggiungere una posizione unanime . Se si raggiunge tale risultato la questione è iscritta al punto A dell’ordine del giorno del Consiglio , il quale, di ● In dottrina si è rilevato che, in seno al Consiglio, si possono anche realizzare degli accordi tra gli SM : LE FUNZIONI DEL CONSIGLIO Le funzioni del Consiglio sono indicate dall’art. 16, par. 1, TUE: ● “Il Consiglio esercita, congiuntamente al Parlamento europeo, la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita funzioni di definizione delle politiche di coordinamento alle condizioni stabilite nei Trattati ”. La prima parte della disposizione in esame appare speculare rispetto alle funzioni assegnate al Parlamento europeo dall’art. 14, par. 1, TUE. Emerge, così, un ruolo che tende a porsi come paritario tra il Consiglio ed il Parlamento e che ne disegna una posizione condivisa di autorità legislativa e di bilancio. In merito alle funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento, tale espressione è alquanto generica e può specificarsi solo in rapporto alle singole disposizioni dei Trattati. Sul piano generale può dirsi che, nell’esercizio di tali funzioni, il Consiglio non emana solo atti legislativi (se previsti nelle pertinenti disposizioni) ma atti di indirizzo, di assistenza, di consulenza, in definitiva, atti giuridicamente non vincolanti. [Infatti, l’art. 292 TFUE dichiara, in termini generali, che il Consiglio adotta raccomandazioni.] ● Con riguardo a settori specifici gli atti del Consiglio, peraltro, possono acquisire maggiore efficacia giuridica. Per esempio, in materia di occupazione l’art. 148 TFUE prevede che, sulla base delle conclusioni del Consiglio europeo, il Consiglio, su proposta della Commissione, previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale, del Comitato delle regioni e del Comitato per l’occupazione, “elabora annualmente gli orientamenti di cui devono tener conto gli Stati membri nelle rispettive politiche in materia di occupazione”. ● Poteri più specifici e più incisivi risultano dalle disposizioni concernenti la politica economica (articoli 120- 126 TFUE), come l'adozione di una raccomandazione contenente gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri e dell'Unione, un compito di sorveglianza, di assistenza finanziaria, poteri sanzionatori (in specie verso gli Stati membri nei quali esista un disavanzo pubblico eccessivo), poteri normativi (per esempio, al fine di precisare le definizioni per l'applicazione dei divieti previsti dagli articoli 123-125 TFUE). ● Il Consiglio detiene un potere decisionale nella PESC [anche se non si tratta di un potere legislativo perché, in tale materia, è radicalmente esclusa l'adozione di atti legislativi (art. 24, par. 1, 2° comma, e art. 31, par. 1, 1° comma, TUE)]. Il Consiglio - il quale opera sulla base degli orientamenti generali e delle linee strategiche definiti dal Consiglio europeo - adotta decisioni per un intervento operativo, che stabiliscono gli obiettivi, la portata e i mezzi di cui l'Unione deve disporre, le condizioni di attuazione e, se necessario, la durata (art. 28, par. 1, TUE). Tali decisioni vincolano gli Stati membri nelle loro prese di posizione e nella conduzione della loro azione (par. 2). ● Egualmente obbligatorie sono le decisioni con le quali il Consiglio definisce la posizione dell'Unione su una questione particolare di natura geografica e tematica (art. 29 TUE). ● Spetta al Consiglio, inoltre, su proposta dell' Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza o su iniziativa di uno Stato membro, adottare le decisioni relative alla politica di sicurezza e di difesa comune, comprese quelle inerenti all'avvio di una missione operativa avente anche implicazioni militari (art. 42, par. 4, TUE). ● Nei rapporti con la Commissione merita di essere ricordato che, al pari del Parlamento europeo, il Consiglio può chiederle di procedere a tutti gli studi che esso ritiene opportuni ai fini del raggiungimento degli obiettivi comuni e di sottoporgli tutte le proposte del caso. Se la Commissione non ritenga di presentare una proposta deve quanto meno comunicare al Consiglio le proprie motivazioni (art. 241 TFUE). ● Il Consiglio, inoltre, interviene con varie modalità nella nomina di altre istituzioni o organi, come la stessa Commissione (oltre, par. 11), il Comitato esecutivo della Banca centrale europea (art. 283, par. 2, TFUE), la Corte dei conti (art. 286, par. 2, TFUE), il Comitato economico e sociale (articoli 301 e 302 TFUE), il Comitato delle regioni (art. 305 TFUE). ● Esso fissa anche gli stipendi, le indennità e le pensioni di coloro che rivestono le cariche principali nelle istituzioni europee (dal Presidente del Consiglio europeo al Segretario generale del Consiglio)(art. 243 TFUE). ● Interviene, talvolta, nella definizione di atti normativi concernenti l'azione di altre istituzioni. Per esempio, il Regolamento di procedura della Corte di giustizia è stabilito dalla stessa Corte, ma è sottoposto all'approvazione del Consiglio (art. 253, 6° comma, TFUE). ● Come vedremo, quando siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione, di regola tali atti conferiscono alla Commissione la relativa competenza (art. 291, par. 2, TFUE). Tuttavia, lo stesso art. 291, par. 2, prevede una sia pur eccezionale competenza di esecuzione del Consiglio: gli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione conferiscono competenze di esecuzione, in casi specifici debitamente motivati e nelle circostanze previste agli articoli 24 e 26 del Trattato sull'Unione europea, al Consiglio. La possibilità che il Consiglio riceva un potere di esecuzione riguarda (come anche per la Commissione) non solo gli atti legislativi, ma qualsiasi atto obbligatorio dell'Unione. IL PARLAMENTO EUROPEO Il Parlamento europeo è l’istituzione rappresentativa dei cittadini dell’UE, l’organo democratico per eccellenza. L’art. 14, par. 2, TUE dichiara infatti: “Il Parlamento europeo è composto di rappresentanti dei cittadini dell’UE”. Il numero dei parlamentari è mutato varie volte, in corrispondenza ai successivi ampliamenti degli SM. L’art. 14, par. 2, TUE non stabilisce un numero fisso per ciascun Paese, ma solo un numero massimo dell’intero Parlamento, consistente in 750 più il presidente, in sostanza 751. Inoltre, per ogni SM, garantisce una soglia minima di sei parlamentari e fissa un numero massimo di 96 . Ai sensi dell’art. 14, par. 2, 2° comma, TUE, il numero dei componenti del PE e la loro assegnazione a ciascuno SM sono stabiliti dal Consiglio europeo con una decisione votata all’unanimità, su iniziativa del PE e con la sua approvazione. Attualmente, il PE è composto da 705 membri, rappresentanti di tutti i 27 SM dell’UE. L’art. 14, par. 2, 1° comma, TUE, pur non disponendo il numero dei membri del Parlamento assegnato a ciascuno Stato, pone un criterio generale ai fini della sua determinazione: “La rappresentanza dei cittadini è garantita in modo degressivamente proporzionale” Secondo il criterio digressivamente proporzionale, il rapporto tra popolazione e il numero dei seggi di ciascuno SM, prima dell’arrotondamento ai numeri interi, varia in funzione della rispettiva popolazione. Tuttavia, pur rispondendo, grosso modo, alla situazione demografica degli SM, comporta che il numero dei parlamentari di tali Stati non è in rapporto diretto con il numero dei cittadini di ognuno di essi, ma anzi che, mano a mano che la popolazione si riduce, il criterio proporzionale opera in maniera meno decisiva; così che, in definitiva, gli Stati demograficamente maggiori hanno un numero di rappresentanti inferiore a quello che spetterebbe in base a un rigido rapporto proporzionale fra tali parlamentari e la loro popolazione e, al contrario, gli Stati con una più ridotta popolazione hanno un numero di parlamentari più elevato di quello risultante da tale rapporto proporzionale. Nel Parlamento, i parlamentari, configurati come “rappresentanti dei cittadini dell’Unione” (art. 14, par. 2, TUE), si aggregano secondo affinità politiche , non secondo la propria cittadinanza (o in base allo Stato dove sono eletti): la disciplina contenuta nell'art. 33 ss. del Regolamento interno, relativa alla costituzione dei gruppi politici, esclude che tali gruppi possano costituirsi su base nazionale, essendo necessario che i componenti provengano da almeno un quarto degli Stati membri , e prescrive la loro formazione esclusivamente in ragione dell'affinità politica (anche se, in principio, al Parlamento europeo non spetta accertare l'effettiva presenza di tale affinità). La stessa disciplina prescrive che per costituire un gruppo politico occorre un numero di minimo 25 deputati e che un deputato può appartenere ad un solo gruppo politico. Non è ammessa, invece, la costituzione di gruppi misti, per cui i deputati che non appartengono a un gruppo politico restano non iscritto ad alcun gruppo; il che implica l'esclusione da alcune prerogative che sono riservate ai gruppi, anche se essi dispongono comunque di una segreteria. Con l’introduzione della cittadinanza europea il diritto di elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo è sganciato dalla cittadinanza nazionale, ma spetta a chiunque risieda stabilmente nello Stato di votazione. In origine i componenti del Parlamento europeo erano eletti dai parlamenti nazionali tra i propri membri. Tutt’ora, invece, i membri del Parlamento europeo sono eletti a suffragio universale diretto , libero e segreto, per un mandato di 5 anni . Per quanto riguarda il procedimento elettorale, sinora non si è riusciti ad adottare una procedura elettorale uniforme, ma solo taluni principi comuni; per il resto gli Stati membri sono liberi di disciplinare come credono l'elezione al Parlamento europeo. È tuttavia importante che si siano realizzate alcune convergenze sul metodo elettorale e sul regime delle incompatibilità: ● La decisione del Consiglio 2002/772/CE, Euratom ha stabilito che: - le elezioni debbano svolgersi con il metodo proporzionale , consentendo agli Stati membri di adottare lo scrutinio di lista o uninominale preferenziale. - Essa consente agli Stati membri di fissare una soglia minima per l'attribuzione dei seggi , che non può essere superiore al 5% dei suffragi espressi . [Peraltro, gli Stati membri nei quali si utilizza lo scrutinio di lista sono tenuti a prevedere una soglia minima, non inferiore al 2% né superiore al 5% dei voti validamente espressi, per le circoscrizioni elettorali comprendenti più di 35 seggi.] ● Gli atti adottati in materia a livello europeo stabiliscono alcune incompatibilità del mandato parlamentare, per esempio con la partecipazione alla Commissione, alla Corte di giustizia, al governo di uno Stato membro, nonché con il mandato di membro del parlamento nazionale. Ulteriori incompatibilità possono essere stabilite da ciascuno Stato membro, per i parlamentari eletti nello della Commissione (o di singoli commissari), quindi la sua azione politica, anche se, naturalmente rilevanti sono eventuali illeciti o irregolarità presenti nella sua azione. La “caduta” della Commissione implica la nomina di una nuova Commissione, il cui mandato è limitato alla restante durata del mandato di quella censurata. Quest’ultima resta in carica sino alla nomina della nuova Commissione, ma solo per la cura degli “affari di ordinaria amministrazione ” , cioè, in principio, per compiti di carattere meramente amministrativo. Il ruolo della Commissione di naturale interlocutore del Parlamento europeo è confermato dalla norma che consente alla stessa Commissione di assistere a tutte le sedute del Parlamento e di essere ascoltata a sua richiesta. ● Nei confronti del Consiglio: In origine il Parlamento non aveva rapporti con il Consiglio, ma dapprima nella prassi, poi negli stessi Trattati, è stato riconosciuto un diritto d’interrogazione del Parlamento e dei deputati anche nei suoi confronti. Inoltre, il Presidente di turno del Consiglio presenta al Parlamento, nell’assumere la carica, una relazione sul programma di lavoro, nonché, al termine del mandato, una relazione sui risultati raggiunti. Verso il Consiglio non è proponibile alcuna forma di censura analoga a quella nei confronti della Commissione. ● Nei confronti del Consiglio europeo: - Anche con il Consiglio europeo originariamente non esisteva alcun rapporto, ma l’art. 15, par. 6, lett d), TUE prevede la presentazione al PE di una relazione dopo ogni riunione del Consiglio europeo da parte del Presidente di tale Consiglio. - Inoltre l’art. 230, 3° comma, TFUE estende ora al Consiglio europeo la possibilità di essere ascoltato dal Parlamento europeo, secondo le modalità previste dal Regolamento interno del Consiglio europeo. D’altra parte, il Presidente del PE può essere invitato per essere ascoltato dal Consiglio europeo (art. 235, par. 2, TFUE). - Inoltre, l’art. 138 del Regolamento del PE prevede che interrogazioni con richiesta di risposta scritta possono essere rivolte anche al Presidente del Consiglio europeo. ● Nei confronti della BCE: Scarsi sono i rapporti del PE con la BCE, la quale corrisponde ad un modello di piena indipendenza rispetto a organi politici. - Tuttavia, l’art. 284, par. 3, TFUE dispone che il Presidente della BCE presenti al PE una relazione annuale sull’attività del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) e sulla politica monetaria dell’anno precedente e dell’anno in corso; su tale base il Parlamento europeo può procedere a un dibattito generale, così svolgendo una sia pur blanda forma di controllo. - La stessa norma dichiara, inoltre, che il Presidente e gli altri membri del Comitato esecutivo della BCE possono, a richiesta del PE o di propria iniziativa, essere ascoltati dalle commissioni competenti dello stesso Parlamento. - Il Regolamento interno del Parlamento stabilisce, infine, che ciascun deputato può rivolgere interrogazioni con richiesta di risposta scritta alla BCE (art. 140). ● Ai poteri di controllo del PE sulle altre istituzioni e organi, ma anche sugli SM, vanno poi ricollegati gli istituti dell’inchiesta (art. 226 TFUE), della petizione (art. 227 TFUE) e del Mediatore (art. 228 TFUE). [Essi, pur nelle loro differenze, sono accomunati dall’esito non vincolante dei relativi procedimenti; spesso, peraltro, nella prassi risultano idonei a riparare in maniera amichevole, conciliativa, casi di violazione del diritto dell’Unione o di cattiva amministrazione e a promuovere iniziative, di carattere politico, legislativo o anche giudiziario, volte a risolvere i problemi generali che tali casi possono mettere in luce.] Il Parlamento partecipa, a vario titolo, alla formazione di altre istituzioni o organi, come la Corte dei conti e il Comitato esecutivo della BCE; mentre il Mediatore europeo è nominato in via esclusiva dal Parlamento. Di particolare rilevanza è la partecipazione alla nomina della Commissione ai sensi dell’art. 17 TUE. La posizione del Parlamento resta ancora del tutto marginale nel settore della PESC . In questo settore, nel quale sono esclusi atti legislativi, i poteri si concentrano negli organi intergovernativi, cioè il Consiglio europeo e il Consiglio. Le modeste funzioni del PE si limitano alle seguenti: ● esso è consultato regolarmente dall’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della PESC. L’Altro rappresentante provvede, inoltre, affinché le opinioni del Parlamento siano debitamente prese in considerazione. ● Il PE può rivolgere interrogazioni e raccomandazioni al Consiglio e all’Alto rappresentante e procede due volte all’anno a un dibattuto sui progressi compiuti in dette politiche (art. 36 TUE). LA COMMISSIONE Organo tipicamente sovranazionale tenuto a operare nell’ esclusivo interesse dell’Unione , in posizione di piena indipendenza rispetto sia agli SM che a qualsiasi ente o potere. Essa, che rappresenta, dunque, l'interesse generale e unitario dell'Unione, è formata da individui indipendenti, i quali si caratterizzano anche per la loro competenza (governo di “tecnocrati”). La Commissione è composta da un numero di membri, compreso il Presidente e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, pari al numero degli SM . Attualmente è composta da 27 membri. Oltre all’indipendenza ed alla competenza, un altro requisito che caratterizza i membri della Commissione e quest’ultima nel suo insieme è l’impegno europeo. [L'art. 17, par. 3, 2° comma, TUE dichiara infatti: “I membri della Commissione sono scelti in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo e tra personalità che offrono tutte le garanzie di indipendenza”.] Se la competenza e l'impegno europeo sono oggetto di una valutazione inevitabilmente discrezionale da parte dei soggetti che, a vario titolo, intervengono nella loro nomina, l'indipendenza dei commissari è regolata scrupolosamente dallo stesso art. 17 TUE, nonché dall'art. 245 TFUE, ed è garantita da un meccanismo sanzionatorio in caso di violazione : sia il Consiglio che la Commissione possono chiedere alla Corte di giustizia, qualora un commissario violi i propri obblighi (è richiesto che il commissario abbia commesso una "colpa grave"), di pronunciarne le dimissioni d'ufficio o, se il commissario abbia cessato le sue funzioni, la decadenza dal diritto a pensione o da altri vantaggi sostitutivi. L'indipendenza si concretizza in vari obblighi dei membri della Commissione : ● Essi, anzitutto, non possono ricevere né tanto meno richiedere istruzioni da alcun governo (in particolare dello Stato del quale sono cittadini), né da alcun organo o ente pubblico o privato. ● A tale obbligo dei commissari fa riscontro il corrispondente dovere degli Stati membri di rispettare il loro carattere indipendente e di astenersi da qualsiasi tentativo di influenzarli nell'esercizio delle loro funzioni. ● Un ulteriore dovere nel quale si articola l'indipendenza dei commissari consiste nell'astensione da ogni atto incompatibile con il proprio carattere indipendente e nel divieto di esercitare qualsiasi altra attività professionale, anche se non remunerata. LA NOMINA, LA CESSAZIONE E L’ORGANIZZAZIONE DELLA COMMISSIONE LA NOMINA L’art. 17, par. 3, TUE dichiara anzitutto che il mandato della Commissione è di cinque anni (così la durata della Commissione coincide con quella del Parlamento europeo). Il par. 7 stabilisce il procedimento di nomina: 1°) Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di Presidente della Commissione. [In virtù dell’innovazione apportata dal Trattato di Lisbona, la designazione del Presidente non è più espressione di una scelta e di una decisione autonome degli Stati membri presenti nel Consiglio europeo a livello di Capi di Stato o di governo, quanto piuttosto il frutto della individuazione della persona che, alla luce della maggioranza politica formatasi nel Parlamento europeo a seguito delle elezioni, sia in grado di ottenere la "fiducia" dello stesso Parlamento e, su tale base, di costituire una Commissione anch'essa suscettibile di ottenere il voto favorevole del Parlamento. È alla luce di questa disposizione che, in occasione delle elezioni del Parlamento europeo del maggio 2014, i principali raggruppamenti politici si sono presentati ciascuno con un proprio candidato alla Presidenza della Commissione (Spitzenkandidat), dando vita alla prassi dei capilista (Spitzenkandidaten).] 2°) Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono. Se il candidato non ottiene la maggioranza, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone entro un mese un nuovo candidato, che è eletto dal Parlamento europeo secondo la stessa procedura. 3°) II Consiglio, di comune accordo con il Presidente eletto, adotta l'elenco delle altre personalità che propone di nominare membri della Commissione. 4°) Il Presidente, I'Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e gli altri membri della Commissione sono soggetti, collettivamente, ad un voto di approvazione del Parlamento europeo. 5°) In seguito a tale approvazione la Commissione è nominata dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata. Quella attualmente in carica (dal 1° dicembre 2019 al 31 ottobre 2024), presieduta da Ursula von der Leyen, è stata nominata dal Consiglio europeo il 28 novembre 2019 con la decisione (UE) 2019/1989. Quel rapporto di fiducia politica tra il Parlamento e la Commissione, che in passato riguardava la fase della censura e della conseguente "caduta" della Commissione, si estende alla nomina e diventa, così, un rapporto fiduciario di carattere permanente. LA CESSAZIONE La cessazione anticipata dalla carica di commissario può avvenire, oltre che per decesso, per dimissioni volontarie o d'ufficio (art. 246, 1° comma, TFUE). [Le dimissioni d'ufficio, come si è ricordato, sono pronunciate dalla Corte qualora il commissario abbia commesso una colpa grave.] Qualora le dimissioni o il decesso riguardino il Presidente o l'Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza essi sono sostituiti per la restante durata del mandato secondo la normale procedura di nomina. Al contrario, se l'interessato è un altro membro della Commissione, egli è sostituito, per la restante durata del mandato e con un membro della stessa nazionalità, da parte del Consiglio di comune accordo con il dell'Unione. La competenza ad adottare tutte le misure di attuazione di tali atti spetta anzitutto agli Stati membri, che vi provvedono nell'ambito del loro diritto interno; solo quando siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione gli atti in questione conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione (o, eccezionalmente, al Consiglio). Nella sua attività di esecuzione, la Commissione è sottoposta alla vigilanza degli SM. [La distinzione tra atti delegati ed atti esecutivi è stata precisata dalla Corte di Giustizia: “Quando il legislatore dell'Unione conferisce alla Commissione, in un atto legislativo, un potere delegato in virtù dell'art. 290, par. 1, TFUE, quest'ultima è chiamata ad adottare norme che integrano o modificano determinati elementi non essenziali di tale atto. Conformemente al secondo comma di tale disposizione, gli obiettivi, il contenuto, la portata nonché la durata della delega di potere devono essere esplicitamente delimitati dall'atto legislativo che conferisce tale delega. Detto requisito implica che l'attribuzione di un potere delegato mira all'adozione di norme che si inseriscono nel quadro normativo quale definito dall'atto legislativo di base. Quando invece lo stesso legislatore conferisce un potere di esecuzione alla Commissione sulla base dell'art. 291, par. 2, TFUE, quest'ultima è chiamata a precisare il contenuto di un atto legislativo, per garantire la sua attuazione a condizioni uniformi in tutti gli Stati membri. Occorre sottolineare che il legislatore dell'Unione, quando decide di attribuire alla Commissione un potere delegato ai sensi dell'art. 290, par. 1, TFUE o un potere di esecuzione ai sensi dell' art. 291, par. 2, TFUE, dispone di un potere discrezionale”.] 5) Alla Commissione è attribuita anche la rappresentanza esterna dell’Unione (art. 17, par.1, TUE). Tale rappresentanza non è esclusiva: lo stesso art. 17, par. 1, TUE eccettua la materia della PESC (per la quale la rappresentanza esterna è assicurata dal Presidente del Consiglio Europeo, fatte salve, peraltro, le prerogative dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza). [In conformità dell’art. 21, par. 3, TUE, la Commissione, assieme al Consiglio e con l’assistenza dell’Alto rappresentate per gli affari esteri e la politica di sicurezza, deve garantire la coerenza tra i vari settori dell’azione esterna dell’Unione e tra questi settori e le altre politiche. Inoltre, la Commissione e l’Alto rappresentante sono incaricati di attuare ogni utile forma di cooperazione con le Nazioni Unite e i loro istituti specializzati, il Consiglio d’Europa, l’OSCE, l’OCSE, nonché di assicurare gli opportuni collegamenti con altre organizzazioni internazionali.] 6) Alla Commissione è attribuita la rappresentanza generale dell’Unione, anche all’interno degli SM (mentre l’Unione è rappresentata da ciascuna delle istituzioni, in base alla loro autonomia amministrativa, per le questioni connesse al loro rispettivo funzionamento). 7) Potere di iniziativa legislativa (art. 17, par. 2, TUE): “Un atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i Trattati non dispongano diversamente. Gli altri atti sono adottati su proposta della Commissione se i Trattati lo prevedono”. La Commissione detiene quasi il “monopolio” delle proposte di atti legislativi (e, più in generale, di atti dell’Unione), senza le quali non è possibile avviare i procedimenti legislativi, anche se le proposte possono essere sollecitate dal Parlamento europeo, dal Consiglio, o da cittadini dell’Unione. La forza della proposta della Commissione è tale che essa, naturalmente, può essere respinta, ma ove il Consiglio intenda modificarla può farlo, di regola, solo all’unanimità (art. 293, par. 1, TFUE). [Estremamente rari sono i casi nei quali i Trattati consentono l’adozione di atti senza la sua proposta: es. l’art. 76 TFUE, che prevede che gli atti in materia di cooperazione giudiziaria penale e di polizia e le misure di cooperazione amministrativa in tali ambiti possono essere adottati anche su iniziativa di un quarto degli Stati membri (oltre che su proposta della Commissione); o l'art. 132 TFUE, che attribuisce alla Banca centrale europea il potere di adottare, per l'assolvimento dei propri compiti, regolamenti, decisioni, raccomandazioni o pareri.] ● Come di consueto, a parte si colloca la PESC, nella quale il ruolo della Commissione è alquanto modesto e, in particolare, viene attenuato il suo potere d’iniziativa. [Dispone, infatti, l’art. 30, par. 1, TUE: “Ogni SM, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, o l’Alto rappresentante con l’appoggio della Commissione, possono sottoporre al Consiglio questioni relative alla politica estera e di sicurezza comune e possono presentare rispettivamente iniziative o proposte del Consiglio”. Il potere d’iniziativa, comprensivo del potere di sottoporre proposte al Consiglio, è conferito a ciascuno SM e, autonomamente, all’Alto rappresentante, salva la possibilità di un “appoggio” della Commissione, che non costituisce, però, una condizione necessaria per le iniziative dell’Alto rappresentante.] ● Rientrano nel potere di proposta della Commissione anche i numerosi atti atipici, non vincolanti, che essa è solita emettere nella prassi, come comunicazioni, dichiarazioni e programmi [tra questi, particolare importanza presentano i libri bianchi e i libri verdi]. ALTRE COMPETENZE E FUNZIONI: ● Alcune disposizioni attribuiscono alla Commissione il potere di decisione. Talvolta esso è contemplato nel quadro dei suoi poteri di vigilanza; in questa ipotesi la decisione diventa uno strumento di controllo sulla condotta degli SM [Per esempi vedi pag. 203]. ● Non mancano disposizioni che conferiscono alla Commissione un vero e proprio potere normativo primario (derivante, cioè, direttamente dai Trattati) es. art. 45, par. 3, lett. d), TFUE, il quale dispone che la Commissione emani regolamenti concernenti le condizioni alle quali i lavoratori subordinati, nell’esercizio della libertà di circolazione, possano rimanere sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego. ● La Commissione dispone anche di un potere di raccomandazione di carattere generale (art. 292 TFUE), esercitabile ogni qual volta lo ritenga necessario, con il solo limite che riguardi materie rientranti nell’ambito dei Trattati. [Per esempi vedi pag. 203] In ogni caso, le raccomandazioni non sono obbligatorie, anche se possono produrre taluni effetti giuridici. ● In qualche caso è previsto anche che la Commissione, quando non abbia un potere esclusivo di proposta, emani pareri. [Per esempi vedi pag. 203-204] Sul piano generale, con riferimento all’adozione di atti legislativi attraverso la procedura legislativa ordinaria, ma su iniziativa di soggetti o istituzioni diversi dalla Commissione, l’art. 294, par. 15, 2° comma, TFUE prevede una consultazione facoltativa della Commissione, aggiungendo che essa può formulare pareri anche di sua iniziativa. Un particolare valore giuridico ha il parere motivato che la Commissione emette nel quadro della procedura d’infrazione nei confronti di uno SM che essa reputi abbia violato propri obblighi derivanti dal diritto dell’Unione (art. 258 TFUE). ● Art. 249, par. 2, TFUE: “La Commissione pubblica ogni anno, almeno un mese prima dell’apertura della sessione del PE, una relazione generale sull’attività dell’Unione”. Tale relazione, sottoposta all’esame del PE (art. 233 TFUE), costituisce una preziosa fonte di conoscenza sull’attività ed i risultati dell’Unione. L’ALTO RAPPRESENTANTE DELL’UNIONE PER GLI AFFARI ESTERI E LA POLITICA DI SICUREZZA Attualmente è Joseph Borrell. Costituisce un organo ibrido : oltre ad essere Presidente nel Consiglio “Affari esteri”, è anche uno dei vicepresidenti della Commissione. È nominato dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata e con l’accordo del Presidente della Commissione. Attraverso lo stesso procedimento il Consiglio europeo può porre fine al suo mandato. Egli è inoltre qualificato come “mandatario” del Consiglio , soggetto, quindi, alle sue determinazioni. LE FUNZIONI (Art. 18 par. 2, TUE) Guida la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione. Contribuisce con le sue proposte all’elaborazione di detta politica e la attua in qualità di mandatario del Consiglio. Egli agisce allo stesso modo per quanto riguarda la politica di sicurezza e di difesa comune. I RAPPORTI CON LA COMMISSIONE In quanto vicepresidente della Commissione, la sua nomina (e l’eventuale revoca) deve essere deliberata dal Consiglio europeo d’accordo con il Presidente della Commissione. La sua nomina (come per tutti i membri della Commissione) è subordinata all’approvazione del Parlamento Europeo, il quale, nel contesto del rapporto di fiducia che intercorre con la Commissione, ha dunque il potere di impedire la nomina di un candidato ad Alto rappresentante. Egli, inoltre, resta soggetto alla eventualità di una mozione di censura da parte del Parlamento europeo che determina le dimissione collettive dei membri della Commissione. Peraltro, l’art. 234, 2° comma, TFUE ha cura di precisare che, in caso di approvazione della mozione di censura, “l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza si dimette dalle funzioni che esercita in seno alla Commissione”. Alla luce di questa disposizione deve ritenersi che, in caso di mozione di censura, l’Alto rappresentante, pur lasciando la Commissione, resterebbe nelle altre funzioni che gli competono ai sensi dei Trattati, in specie nella qualità di mandatario del Consiglio. Con riguardo alla posizione che ricopre all’interno della Commissione, le sue funzioni sono delineate dall’art. 18, par. 4, TUE: “Vigila sulla coerenza dell’azione esterna dell’Unione. In seno alla Commissione, è incaricato delle responsabilità che incombono a tale istituzione nel settore delle relazioni esterne e del coordinamento degli altri aspetti dell’azione esterna dell’Unione”. Solo nei limiti entro i quali opera in seno alla Commissione egli resta soggetto alle procedure che regolano il funzionamento della Commissione; ma, a differenza degli altri membri della Commissione, l’Alto rappresentante è sottratto al divieto generale, secondo il quale tali membri non sollecitano né accettano L’art. 257 TFUE (introdotto con il Trattato di Nizza) prevede la possibilità di affiancare al Tribunale dei tribunali specializzati: “Il Parlamento europeo ed il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono istituire tribunali specializzati affiancati al Tribunale, e incaricati di conoscere in primo grado talune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche. Il Parlamento europeo e il Consiglio deliberano mediante regolamenti su proposta della Commissione e previa consultazione della Corte di giustizia o su richiesta della Corte di giustizia e previa consultazione della Commissione” L’unico tribunale specializzato creato nel corso della storia dell’Unione è il Tribunale della funzione pubblica (2004), competente a pronunciarsi in primo grado sulle controversie tra l’Unione e i suoi agenti. Contro le sue decisioni poteva essere proposta impugnazione, solo per motivi di diritto, al Tribunale, che nella materia in esame, diventava così giudice di secondo grado. Le decisioni del Tribunale emanate a seguito di impugnazione di una decisione del Tribunale della funzione pubblica, potevano essere eccezionalmente oggetto di riesame da parte della Corte di giustizia. Successivamente, nel 2016, il Tribunale della funzione pubblica fu soppresso e la sua competenza trasferita al Tribunale. I membri dei tribunali specializzati istituiti in forza dell’art. 257 TFUE sono nominati dal Consiglio all’unanimità (art. 257, 4° comma, TFUE). LA BANCA CENTRALE E GLI ALTRI ORGANI MONETARI Nell'ambito dell'unione economica e monetaria un ruolo estremamente importante spetta alla Banca centrale europea, qualificata istituzione dall'art. 13 TUE, e agli organi monetari dell'Unione europea. Le istituzioni dell'Unione, in tale ambito, vedono le loro funzioni e i loro poteri sottoposti a una regolamentazione diversa rispetto a quella generale risultante dai Trattati. Per quanto riguarda la politica economica, infatti, il ruolo più importante è attribuito al Consiglio e al Consiglio europeo, mentre più modesti sono i poteri della Commissione e specialmente del Parlamento europeo. In materia monetaria poteri estremamente incisivi, e pressocché esclusivi, sono attribuiti alle autorità monetarie: queste sono la Banca centrale europea (BCE) ed il Sistema europeo di banche centrali (SEBC). [Le loro competenze sono regolate sia dal TFUE che dallo Statuto, contenuto nel Protocollo n.4] IL SEBC II SEBC ha, quale obiettivo principale, il mantenimento della stabilità dei prezzi , i suoi compiti fondamentali sono: ● definire e attuare la politica monetaria dell'Unione; ● svolgere le operazioni sui cambi, detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri; ● promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento (art. 127, paragrafi 1 e 2, TFUE). II SEBC, peraltro, non è un organo autonomo in quanto è composto dalla BCE, con sede a Francoforte, e dalle banche centrali nazionali ed è retto dagli organi decisionali della BCE (art. 129 TFUE). LA BCE La BCE esercita in concreto, con il suo apparato, le competenze in materia monetaria , a cominciare dall’emissione e dal governo dell’euro . [Essa è dotata di personalità giuridica (da intendersi di diritto interno negli SM] Gli organi della BCE sono: ● il Consiglio direttivo: è composto dai membri del Comitato esecutivo della BCE e dai governatori delle banche centrali nazionali degli Stati partecipanti all'euro. Stabilisce le linee generali della politica monetaria. ● il Comitato esecutivo: comprende il Presidente (attualmente la francese Christine Lagarde), il vicepresidente e quattro altri membri, nominati, tra persone di riconosciuta levatura ed esperienza professionale nel settore monetario o bancario e cittadini di Stati membri [dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata su raccomandazione del Consiglio e previa consultazione del Parlamento europeo e del Consiglio direttivo della BCE]. Svolge funzioni preparatorie ed esecutive; attua la politica monetaria sulla base delle determinazioni del Consiglio direttivo. Il loro mandato, di otto anni, non è rinnovabile (art. 283 TFUE). La BCE si caratterizza per la sua posizione di indipendenza , sia nei confronti degli Stati membri che delle istituzioni politiche europee. [Tale scelta risponde essenzialmente all’intento politico di salvaguardare la stabilità dei prezzi e, quindi, di evitare spinte inflazionistiche. A questo fine le decisioni di politica monetaria vengono sottratte a ogni forma di condizionamento o di pressione politica proveniente da organi o istituzioni politiche (europee come nazionali).] Tale indipendenza, non implica tuttavia “incomunicabilità” fra le autorità monetarie e le istituzioni: ● Ai sensi dell'art. 284 TFUE il Presidente del Consiglio e un membro della Commissione possono partecipare, senza diritto di voto, alle riunioni del Consiglio direttivo della BCE, al quale il Presidente del Consiglio può anche sottoporre una mozione per l'approvazione. ● II Presidente della BCE è invitato a partecipare alle riunioni del Consiglio su argomenti relativi agli obiettivi e ai compiti del SEBC. ● La BCE trasmette una relazione annuale sull'attività del SEBC e sulla politica monetaria al Parlamento europeo, al Consiglio, alla Commissione e al Consiglio europeo e il Parlamento europeo - come si è ricordato - può procedere a un dibattito generale. ● il Presidente della BCE e gli altri membri del Comitato esecutivo, a richiesta del Parlamento o di propria iniziativa, possono essere ascoltati dalle commissioni competenti del Parlamento europeo. La BCE svolge anche funzioni consultive e talvolta essa deve essere obbligatoriamente consultata , come sulle proposte di atti dell'Unione rientranti nelle sue competenze (da parte delle istituzioni europee) e, dalle autorità nazionali, sui progetti di disposizioni legislative che rientrino nelle sue competenze (art. 127,par. 4, TFUE). Di particolare importanza è il potere normativo, che l'art. 132 TFUE conferisce alla BCE per l'assolvimento dei compiti del SEBC; essa, infatti, può emanare regolamenti, decisioni, raccomandazioni e pareri. Ulteriori, importanti compiti sono stati attribuiti alla BCE anche da regolamenti riguardo alla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi, nel quadro dell’istituzione di una unione bancaria. Nel campo dell’unione economica e monetaria va ricordato anche il Comitato economico e finanziario, che svolge compiti consultivi e gli altri compiti indicati nell’art. 134, par. 2, TFUE, nonché il Consiglio generale della BCE, istituito dal Protocollo sullo Statuto del SEBC e della BCE, come terzo organo decisionale della BCE e comprendente il Presidente ed il vicepresidente della BCE e i governatori delle banche centrali nazionali (art. 44). LA CORTE DEI CONTI La Corte dei conti è un organo di individui, a cui è formalmente riconosciuto lo status di istituzione. I suoi membri, un cittadino per ciascun SM , sono nominati per sei anni dal Consiglio a maggioranza qualificata, su proposta di ciascuno SM e previa consultazione del Parlamento europeo, e sono scelti tra personalità che fanno parte, o hanno fatto parte, nei rispettivi Paesi, delle istituzioni di controllo esterno o che posseggono una qualifica specifica per tale funzione e che offrano tutte le garanzie d’indipendenza. I suoi membri esercitano le loro funzioni in piena indipendenza , nell' interesse generale dell’Unione . [I loro obblighi sono precisati dall'art. 286 TFUE, il quale prevede anche le sanzioni in caso di violazione di questi.] La funzione principale della Corte dei conti è di assicurare il controllo finanziario dell'Unione esaminando i conti di tutte le entrate e le spese, compresi quelli degli organismi creati dall'Unione. Si tratta di un controllo c.d esterno, cioè effettuato da un'istituzione, la Corte dei conti, nei confronti di altre istituzioni o organi. Il controllo riguarda la legittimità e la regolarità delle entrate e delle spese e si estende all'accertamento della sana gestione finanziaria. Nell'esercizio della sua funzione la Corte dei conti dispone di incisivi strumenti di indagine, sia controllando i documenti, sia, ove necessario, mediante sopralluoghi. Assiste il Parlamento europeo ed il Consiglio nella loro attività di controllo sull’esecuzione del bilancio (art. 287, par. 4, 4° comma, TFUE). Ha anche una funzione consultiva: essa può dare pareri su richiesta di una delle altre istituzioni dell’Unione (si tratta quindi di pareri facoltativi) o di propria iniziativa. In qualche raro caso il parere è obbligatorio (es. art. 325, TFUE). LA BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI (BEI) Fa parte della struttura dell’Unione sin dalla sua origine. Costituisce un’entità autonoma, i cui membri sono gli SM dell’Unione, dotata di personalità giuridica e regolata in un apposito Statuto oggetto del Protocollo n.5 (art. 308 TFUE). Possiede una propria struttura organizzativa: ● Il Consiglio dei governatori: composto dai ministri designati dagli SM, più uno dalla Commissione europea. ● Il Consiglio di amministrazione: formato da individui che offrono ogni garanzia di indipendenza e competenza ● Comitato direttivo: costituito da personalità indipendenti. Il sistema di finanziamento e il bilancio hanno una loro autonomia: il capitale della BEI è costituito dalle quote, diversificate, sottoscritte dai singoli Stati membri Ruolo: concede prestiti e garanzie, senza finalità di lucro, a favore di SM o di imprese private o pubbliche, per il finanziamento di progetti che contribuiscono a realizzare gli obiettivi dell’UE, sia all’interno che al di fuori dell’Unione. GLI ORGANI AUSILIARI CONSULTIVI ● Regolamenti ● Direttive ● Decisioni Sono atti obbligatori che le istituzioni europee hanno il potere di emanare. Essi danno vita alla c.d. legislazione dell’Unione. Fra i Trattati e le fonti di diritto derivato dell'Unione sussiste un sicuro rapporto gerarchico, nel senso che le seconde sono subordinate ai primi. Il rango subordinato degli atti europei comporta un dovere di interpretarli in armonia con i Trattati e, in particolare, con i diritti fondamentali e i principi generali del diritto dell’Unione. Non esiste una gerarchia tra le fonti di diritto derivato, salvo: ● atti delegati di portata generale (art. 290 TFUE), subordinati all’atto legislativo contenente la delega ● atti che siano esecutivi di un altro (art. 291 TFUE), subordinati all'atto vincolante che attribuisce alla Commissione (o al Consiglio) la competenza di esecuzione Non esiste distinzione, quanto alla loro forza giuridica, tra: ● Atti adottati con la procedura legislativa ordinaria ● Atti adottati con procedure legislative speciali ● Atti emanati dal Consiglio senza l’obbligo di consultare il Parlamento europeo 3) Altre fonti di diritto: ● Accordi conclusi dall’Unione con Stati terzi o organizzazioni internazionali ● Il diritto internazionale generale ● I principi generali del diritto dell’Unione È compito dell'interprete individuare il loro rango all'interno dell'ordinamento dell'Unione. IL TUE ED IL TFUE Dal punto di vista formale, sono accordi internazionali soggetti, in principio, alle regole di diritto internazionale generale. Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, tali Trattati rappresentano la “ costituzione ” dell’Unione : da un punto di vista sostanziale e contenutistico, infatti, nella misura in cui danno vita a un nuovo ente, l’organizzazione internazionale, stabilendo i suoi fini istituzionali, le regole di funzionamento, l’apparato istituzionale, i poteri, tendono a porsi come l’atto costituzionale di base di tale ente. Il loro carattere costituzionale, peraltro, è accentuato perché – come la Corte ha affermato nella sentenza Van Gend en Loos - essi hanno dato vita a un ente sopranazionale a favore del quale gli Stati membri hanno rinunciato, anche se un settori limitati, ai loro poteri sovrani e il cui ordinamento giuridico riconosce come soggetti non soltanto gli SM, ma anche i loro cittadini. Dal punto di vista della loro interpretazione: ● nella giurisprudenza della Corte di giustizia si è imposta un’interpretazione particolarmente ampia per quanto riguarda i poteri dell’Unione; dando luogo alla teoria dei poteri impliciti. ● la Corte ha affermato anche un metodo storico (o evolutivo) d’interpretazione, dichiarando che le norme appartenenti al diritto dell’Unione vanno interpretate tenendo conto dello stadio di evoluzione di tale diritto. ● il diritto dell’Unione deve essere interpretato in maniera uniforme, nell’intera area europea, e autonoma, rispetto al significato che una sua disposizione potrebbe avere nel diritto di uno SM. ● la determinazione del significato e della portata dei termini per i quali il diritto dell’Unione non fornisce alcuna definizione va operata segnatamente tendendo conto del contesto in cui essi sono utilizzati e degli scopi perseguiti dalla normativa di cui fanno parte. Alla luce della giurisprudenza della Corte, vi sono dei principi “supercostituzionali”, i quali sono gerarchicamente sovraordinati rispetto ai Trattati e che non sono modificabili neppure mediante il procedimento di revisione dell’art. 48 TUE: ● i “valori” contenuti all’art. 2 TUE ● i principi sulle competenze della Corte di giustizia dell’Unione europea L’EFFICACIA DIRETTA DELLE DISPOSIZIONI DEI TRATTATI Dalla configurazione, enunciata nella sentenza Van Gend en Loos, dei Trattati come istitutivi di un ordinamento giuridico che riconosce quali soggetti anche gli individui , discende che le loro disposizioni sono idonee ad attribuire a questi ultimi diritti soggettivi . Qualora disposizioni idonee a conferire diritti soggettivi ai singoli abbiano un contenuto chiaro , preciso e incondizionato - e, quindi, la loro applicazione non sia subordinata all'emanazione di ulteriori atti da parte degli Stati membri o delle istituzioni europee - esse sono munite di efficacia diretta (o “effetti diretti”) . Tale efficacia implica che le suddette disposizioni attribuiscono agli individui diritti che essi possono esercitare nell'ambito dell'ordinamento degli Stati membri e per la cui tutela possono agire in via giudiziaria dinanzi ai tribunali statali. L'attribuzione di questi diritti avviene in maniera diretta e automatica , a prescindere dalla volontà dello Stato membro interessato (o persino contro la sua volontà). L'attribuzione diretta e immediata di diritti, esercitabili, se necessario, dinanzi ai giudici nazionali, fu riconosciuta per la prima volta nella citata sentenza Van Gend en Loos. L’efficacia diretta rappresenta non solo un mezzo per rafforzare la tutela dei singoli, ma anche uno strumento ulteriore di garanzia di rispetto del diritto dell’Unione. Il giudice nazionale si pone quale giudice “naturale” dell’applicazione del diritto dell’Unione , tutte le volte in cui questo sia destinato a operare in maniera diretta e immediata negli ordinamenti degli SM, e, in un certo senso, quale primo garante di tale effettiva applicazione. È compito degli SM stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione (art. 19, par. 1, 2° comma, TUE). L’efficacia diretta può essere riconosciuta non solo alle disposizioni dei Trattati, formalmente intesi, ma anche a quelle degli atti a essi equiparati, a cominciare dalla Carta dei diritti fondamentali. L’efficacia diretta va tenuta distinta da un altro concetto giuridico proprio del diritto dell’Unione: quello di applicabilità diretta. Quest'ultima esprime il carattere, proprio di numerose disposizioni dei Trattati (ma anche di atti delle istituzioni, a cominciare dai regolamenti), di essere applicabili all'interno degli Stati membri senza bisogno di alcun atto statale di esecuzione o di adattamento. Anch'essa dipende dal contenuto "autosufficiente" della disposizione, dalla circostanza, cioè, che essa abbia un contenuto chiaro, preciso e incondizionato, ma tende a mettere in luce una qualità della norma (cioè la non-necessità di un provvedimento statale di attuazione). L'efficacia diretta, invece, pone in evidenza il profilo soggettivo , concernente il diritto dei singoli nascente da una norma siffatta e la sua azionabilità immediata dinanzi ai giudici nazionali. Tale distinzione è valida non solo sul piano concettuale bensì è riconoscibile anche da un punto di vista pratico qualora la disposizione, pur essendo applicabile senza necessità di atti di esecuzione (quindi direttamente applicabile), non tenda ad attribuire diritti ai singoli, ma, per esempio, solo obblighi agli Stati, o alle stesse persone fisiche e giuridiche, e non sia, pertanto, produttiva di effetti diretti. L’efficacia diretta di una disposizione dei Trattati opera anzitutto nei rapporti tra i singoli e gli SM , o altri enti pubblici  si parla, in questo caso, di effetti diretti “verticali” (termine che evoca la posizione di soggezione del singolo rispetto alla pubblica autorità). L’effetto diretto verticale va riconosciuto dalle competenti autorità statali e comporta che il diritto derivante dalla norma del Trattato sia fatto valere anzitutto nei confronti nei confronti della pubblica amministrazione. Le disposizioni dei Trattati sono invocabili anche nei rapporti tra privati ; sotto questo profilo esse sono produttive di effetti diretti “orizzontali” (come orizzontali, cioè paritari, sono i rapporti tra i privati). Il riconoscimento di effetti diretti orizzontali comporta che le disposizioni in questione conferiscano non solo diritti ai singoli, ma anche obblighi. I PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA Non ci riferiamo a quei principi che sono contenuti in espresse disposizioni dei Trattati come p.es. il principio di sussidiarietà (art. 5, par. 3, TUE), il principio di libera circolazione delle merci (art. 28 ss. TFUE), o delle persone (art. 45 ss. TFUE), il principio di solidarietà ecc. Hanno un’origine “pretoria”: non derivano da specifiche disposizioni, ma da una giurisprudenza sostanzialmente creativa della Corte di giustizia. Si pongono quali fonti non scritte di diritto dell’Unione e, come tali, integrano il sistema giuridico dell’Unione, completandolo e colmandone le eventuali lacune. Non è agevole individuare le precisa collocazione e il rango dei principi generali nell’ordinamento dell’Unione europea, anche perché la Corte – che è l’artefice del loro riconoscimento – non sembra si sia preoccupata di tale questione. Tuttavia ci sembra che essi tendano a porsi sullo stesso piano dei Trattati , quindi a livello del diritto primario dell’Unione. Costituiscono principi autonomi dell’ordinamento dell’Unione (che, al massimo, si ispirano agli ordinamenti degli SM) e sono destinati ad operare, di regola, nell’ ambito generale del diritto dell’Unione , non già in una materia limitata. Esempi di tali principi: ● Principio dell’effetto diretto (Van Gend en Loos) ● Primato del diritto dell’Unione rispetto a quello interno agli SM (Costa c. ENEL) ● Principio di leale cooperazione ● Diritti fondamentali (sono entrati a far parte del diritto dell’Unione in quanto tutelati da principi generali di tale diritto; essi sono peraltro principi informati alle tradizioni costituzionali comuni degli SM, oltre che alle convenzioni internazionali in materia – sono ora espressamente contemplati nell’art. 6, par. 3, TUE e, in larga parte, trasfusi nella Carta dei diritti fondamentali). ● Principio della certezza del diritto ● Principio del legittimo affidamento: implica la tutela delle aspettative che interessati nutrano ragionevolmente, in quanto suscitate dal comportamento delle stesse istituzioni europee. Per completezza ricordiamo che è possibile che accordi tra gli SM e Stati terzi vengano a concludersi nel contesto del Consiglio europeo. IL DIRITTO INTERNAZIONALE GENERALE Il diritto internazionale generale, consistente nelle norme di natura consuetudinaria, viene in rilievo, anzitutto, nei rapporti tra l’Unione europea e gli Stati terzi e le altre organizzazioni internazionali. L’Unione, essendo un soggetto di diritto internazionale, è tenuta a rispettare gli obblighi e può esercitare i diritti derivanti dal diritto internazionale consuetudinario (nella misura in cui siano applicabili a un ente, quale l’Unione europea, privo di una comunità internazionale). La Corte di giustizia non ha mancato di riferirsi alle norme di diritto internazionale generale quali norme giuridiche da essa applicabili, sempre che, ovviamente, riguardino situazioni di competenza dell’Unione. Dalla giurisprudenza si desume che il diritto internazionale generale fa parte direttamente dell’ordinamento dell’Unione, con la conseguenza che esso rappresenta un parametro giuridico con il quale valutare la legittimità degli atti emanati dalle sue istituzioni. Le norme di diritto internazionale generale possono venire in rilievo anche nelle relazioni interne fra gli SM e, più in generale, fra i soggetti dell’ordinamento dell’Unione: a parte le norme imperative del diritto internazionale generale (ius cogens), le quali sono inderogabili dai trattati (compresi quindi i Trattati dell’Unione ed il diritto derivato) e la cui violazione comporterebbe la nullità delle disposizioni confliggenti, per il resto il diritto generale è derogabile dagli stessi Trattati, i quali sono quindi destinati a prevalere sulle norme consuetudinarie. Nella misura in cui il diritto internazionale generale non sia derogato dai Trattati (o abbia il rango di ius cogens) esso opera anche quale parametro di legittimità degli atti dell’Unione, determinando la loro invalidità se in conflitto con lo stesso diritto internazionale generale. GLI ATTI DELL’UNIONE EUROPEA ED I LORO REQUISITI Per quanto riguarda il diritto derivato, cioè il complesso degli atti emanabili dalle istituzioni dell’Unione, l’art. 288 TFUE elenca e definisce cinque categorie di atti: 1) i regolamenti, 2) le direttive, 3) le decisioni, 4) le raccomandazioni, 5) i pareri. Solo i primi tre (regolamenti, direttive, decisioni) costituiscono propriamente fonti di diritto dell’Unione poiché sono atti obbligatori . Gli altri due (raccomandazioni, pareri) sono invece non vincolanti . Tutti gli atti menzionati dall’articolo sono considerati tipici, poiché tale articolo stabilisce in via generale i loro caratteri ed effetti. Essi non esauriscono l'intera gamma degli atti dell'Unione, che è molto più vasta e variegata, comprendendo una serie di atti che potremmo definire come atipici. Per gli atti tipici, il TFUE stabilisce alcune regole e requisiti generali1, concernenti i tre atti obbligatori, dopo averli definiti, nell’art. 288: 1) Il regolamento ha portata generale . Esso è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri . 2) La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere , salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi . 3) La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi . Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi. L’identificazione dell’atto (cioè la sua appartenenza all’una o all’altra categoria), non va fatta semplicemente in base alla sua denominazione ufficiale (nomen iuris), ma in considerazione del suo contenuto e dei suoi caratteri sostanziali (criterio “sostanzialistico”). Tale identificazione dell’atto non è fine a se stessa ma determina conseguenze pratico-giuridiche di estrema importanza, quali l'accertamento della sua legittimità, la definizione dei suoi effetti obbligatori e la sua impugnabilità da parte di persone fisiche e giuridiche dinanzi al giudice europeo. Ad esempio, qualificare un (apparente) regolamento come, nella sostanza, una decisione ne consente l’impugnazione da parte dei singoli, che sarebbe altrimenti preclusa. Regolamenti, direttive e decisioni possono essere definiti come atti legislativi solo quando sono adottati con la procedura legislativa ordinaria o con una procedura legislativa speciale. Definizione di atto legislativo: “atti giuridici adottati mediante procedura legislativa” (art. 289, par. 3, TUE). 1 REGOLE E REQUISITI GENERALI: ● Gli atti giuridici devono essere motivati . La motivazione è contenuta nei “considerando” dell’atto, cioè nel suo preambolo, ed è una condizione di validità dello stesso (l’assenza della motivazione rappresenta una ipotesi di “violazione delle forme sostanziali”, suscettibile di determinare l’invalidità dell’atto e il suo conseguente annullamento). La motivazione deve riguardare in maniera specifica il rispetto del principio di sussidiarietà. Essa non necessariamente deve indicare gli elementi di fatto o di diritto presi in considerazione ed ha solo valore interpretativo (non normativo). ● Obbligo di indicare la base giuridica dell’atto , cioè la disposizione dei Trattati che conferisce il corrispondente potere di emanare l’atto in questione. L'indicazione può anche non essere espressa qualora la base dell’atto sia desumibile con chiarezza da altri elementi dell’atto stesso. L'indicazione della base giuridica dell'atto consente di stabilire l'efficacia di tale atto e di valutare la sua legittimità, per esempio, in rapporto alla procedura seguita per la sua adozione, o alla possibilità di emanare il tipo di atto in questione, o al rispetto del principio delle competenze di attribuzione dell'Unione. La scelta della base giuridica non è demandata al mero convincimento delle istituzioni interessate, ma deve fondarsi su elementi oggettivi, verificabili in via giudiziaria, quali, in particolare, il contenuto e lo scopo dell'atto in questione. - È possibile, peraltro, che in relazione a tali elementi oggettivi più disposizioni dei Trattati si prestino a costituire il fondamento giuridico di un atto, come nel caso, per esempio, in cui quest'ultimo persegua scopi diversi. In questi casi, in primo luogo, va tenuto conto della possibilità che uno scopo, o un elemento, dell'atto rivestano una posizione principale, rispetto ad altri elementi accessori; va privilegiata, allora, in via esclusiva la base giuridica corrispondente alla componente principale. - Ove non sia possibile individuare una componente principale, quando, cioè I'atto riguardi inscindibilmente due (o più) materie contemplate dai Trattati, occorre che l'atto, in principio, si fondi su tutte le disposizioni rilevanti - applicando in maniera cumulativa tali disposizioni - e abbia, quindi, i requisiti da esse prescritti. - Non sempre, peraltro, tale applicazione cumulativa è possibile: può accadere, infatti, che le disposizioni in questione contemplino differenti procedimenti di adozione dell'atto, uno (per esempio, la consultazione obbligatoria de Parlamento europeo, l'altro, la procedura legislativa ordinaria di codecisione). Il criterio di scelta, in quest'ultima ipotesi, è rappresentato dalla base giuridica che contempla il procedimento che garantisce in misura maggiore le prerogative del Parlamento europeo (nell'esempio precedente, quindi, la base giuridica in virtù della quale il Parlamento partecipa alla codecisione, a preferenza di quella che gli attribuisce il mero potere consultivo). L'individuazione della base giuridica in base alla quale emanare un atto vale anche a stabilire quale tipo di atto (regolamento, direttiva, decisione) può essere adottato dalle istituzioni nel settore contemplato dalla predetta disposizione. Spesso le norme dei Trattati prevedono, infatti, gli atti che possono essere adottati e, in questi casi, non può essere emanato un atto differente da quelli previsti. - Può accadere, peraltro, che la disposizione applicabile non rechi alcuna indicazione sul tipo di atto da adottare: in queste ipotesi solo le istituzioni possono stabilire quale atto adottare. Tuttavia, la scelta delle istituzioni non è del tutto libera: esse, anzitutto, devono rispettare la procedura prevista dalla disposizione in questione; inoltre, devono attenersi al principio di proporzionalità; pertanto, nella scelta dell’atto, dovranno preferire un tipo di atto il meno intrusivo possibile, per esempio una direttiva piuttosto che un regolamento, o una raccomandazione, a preferenza di un atto giuridicamente obbligatorio. Scelta della base giuridica e PESC: il problema consistente nella individuazione della base giuridica dell' atto da emanare si pone in termini particolarmente acuti nei rapporti tra le disposizioni di carattere, per così dire, generale concernenti i poteri, le procedure e gli atti adottabili e quelle "specifiche", relative alla PESC. Non solo tali disposizioni specifiche contemplano atti aventi denominazioni e caratteri profondamente diversi da quelli definiti nell'art. 288 TFUE; ma nella materia della PESC il carattere fortemente intergovernativo dell'azione dell'Unione implica una ripartizione tra le competenze delle istituzioni europee e la previsione di procedimenti decisionali profondamente diversi rispetto al quadro generale risultante dalle altre disposizioni dei Trattati. Di conseguenza, l'individuazione della base giuridica di un atto all'interno del settore della PESC, in luogo di disposizioni collocate negli altri settori dell'azione dell'Unione, determina l'adozione di atti differenti da quelli tipici dell'Unione (regolamenti, direttive, decisioni), l'impiego di procedure non legislative, con decisioni prese (solitamente all'unanimità) dal Consiglio europeo o dal Consiglio, un ruolo modesto e marginale del Parlamento europeo, l'esclusione, di regola, del controllo della Corte di giustizia. L'art. 40 TUE pone sullo stesso piano le competenze dell'Unione previste dalle disposizioni di carattere "generale" e quelle contemplate dalle disposizioni “specifiche" relative alla PESC. I rapporti fra tali competenze sono delineati come rapporti di reciproco rispetto: la PESC non può invadere il campo delle competenze "generali" dell'Unione, così come l'esercizio di queste ultime non può invadere l'ambito proprio della PESC. - Di fronte a questo rapporto tra le competenze generali e le competenze in materia di PESC riteniamo che debba applicarsi, anzitutto, il criterio, risultante dalla precedente giurisprudenza, della individuazione di una componente principale dell'atto ai fini della sua collocazione su una determinata base giuridica nell'ambito, rispettivamente, della PESC o delle comparenze generali dell'Unione. - Al contrario, quando sia impossibile rinvenire nell'atto da emanare una componente principale (e una accessoria), la previsione di un rapporto di reciproco e pari rispetto tra le competenze "generali" dell'Unione e la PESC non consente di affermare alcuna preferenza per l'applicazione delle disposizioni, relative, rispettivamente, alle competenze "generali" o alla PESC. Né, d'altra parte, come è evidente, può ipotizzarsi un'applicazione cumulativa di tali disposizioni, date le differenze inconciliabili concernenti i tipi di atti, il ruolo delle istituzioni, le procedure decisionali. Essa ha un'efficacia parzialmente obbligatoria, poiché (a differenza dei regolamenti e delle decisioni) vincola gli Stati destinatari solo per i risultati da raggiungere, mentre riconosce una sfera di libertà di tali Stati in merito alla scelta dei mezzi e delle forme necessarie per conseguire il risultato prescritto . La direttiva, sotto questo profilo, appare l'atto meno intrusivo nella realtà giuridica degli Stati membri e, pertanto, più conforme sia al principio di sussidiarietà, in quanto implica un intervento dell'Unione solo nella misura (corrispondente alla prescrizione dell'obiettivo) nella quale gli scopi dei Trattati non siano raggiungibili dai singoli Stati, sia a quello di proporzionalità, poiché si limita a porre un obbligo che non va al di là di quanto le istituzioni europee ritengano necessario per il raggiungimento degli obiettivi dei Trattati. A differenza del regolamento, la direttiva non è direttamente applicabile , ma acquista efficacia all'interno degli Stati destinatari in via mediata, grazie ad atti statali che provvedono a dare attuazione alla direttiva e a integrare il suo contenuto normativo (dato che, di regola, questo è "incompleto", limitandosi la direttiva a prescrivere l'obiettivo, non anche la forma e i mezzi). Nella prassi non sono mancati esempi di direttive che forniscono una disciplina esaustiva e completa della materia, finendo per sottrarre agli Stati destinatari ogni sfera di libertà sui mezzi di attuazione, Tali direttive sono denominate direttive dettagliate (o particolareggiate). Le direttive stabiliscono il termine entro il quale gli Stati debbono darvi attuazione . Non può escludersi che la direttiva stabilisca un termine differente di attuazione per i diversi Stati membri, in ragione della natura del loro sistema giuridico e della portata delle modifiche da introdurre nella loro legislazione. Prima della scadenza del termine non deve credersi che la direttiva sia priva di effetti giuridici; essa, invero, è già in vigore e determina un obbligo a carico degli Stati destinatari: l’obbligo in questione, denominato stand-still, consiste nel divieto di adottare misure (in particolare legislative) che abbiano il risultato di rendere più difficile l’attuazione della direttiva. Entro il termine prescritto nella direttiva gli Stati destinatari hanno l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per dare esecuzione alla direttiva nel proprio ordinamento; eventuali difficoltà che uno Stato incontrasse non lo esimono dall’adempimento di tale obbligo, ma gli consentono, al massimo, di chiedere una proroga. Le misure adottate dagli Stati destinatari in esecuzione della direttiva vanno comunicate alla Commissione. Gli Stati non hanno libertà assoluta nella scelta della forme delle misure: esigenze di certezza del diritto impongono agli Stati di emanare atti normativi che siano idonei, nel quadro del diritto statale, a garantire pienamente il risultato prescritto dalla direttiva e, in particolare, l’esercizio dei diritti da essa eventualmente previsti. Pertanto, sono necessari provvedimenti idonei a modificare l’eventuale legislazione esistente nello Stato per adeguarla all’obbiettivo posto dalla direttiva: a tal fine sono insufficienti semplici prassi o circolari amministrative. Una volta che il termine sia scaduto senza che lo Stato abbia attuato correttamente la direttiva, esso è responsabile della violazione dell'art. 288 TFUE. Nei suoi confronti, pertanto, può essere esperita una procedura di infrazione; inoltre, a certe condizioni, è possibile richiedere il risarcimento dei danni che i singoli abbiano subito a seguito di tale inadempimento. DIRETTIVE CON EFFICACIA DIRETTA Sebbene la direttiva abbia, per sua natura, un'efficacia "mediata" negli Stati membri, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha da tempo affermato che, a date condizioni ed entro certi limiti, essa, pur non attuata dallo Stato membro destinatario, può produrre effetti diretti per i singoli all'interno di tale Stato. Le CONDIZIONI affinché una direttiva abbia efficacia diretta sono: 1) che abbia un contenuto sufficientemente chiaro e preciso (autosufficiente o self-executing: tale da essere praticamente applicabile dal giudice nazionale in assenza di una legge statale di attuazione), 2) preveda per gli Stati destinatari un obbligo incondizionato, 3) sia diretta a conferire ai singoli un diritto. Tale efficacia diretta può riguardare l’intera direttiva o anche sue singole disposizioni. In merito al requisito dell’obbligo incondizionato, ciò significa che il termine per l’attuazione della direttiva sia scaduto e lo Stato non l’abbia trasposta nel proprio ordinamento, o l’abbia trasposta in modo inadeguato. Solo allora, infatti, l’obbligo derivante dalla direttiva può dirsi incondizionato; prima della scadenza, dunque, la possibilità che la direttiva produca effetti diretti per i singoli va senz’altro esclusa. L’efficacia diretta delle disposizioni di una direttiva comporta pure che il giudice nazionale debba disapplicare le proprie leggi se siano in contrasto con tali disposizioni. Ratio dell’efficacia diretta delle direttive: anzitutto, essa costituisce una forma di tutela per i singoli, i cui diritti, nascenti dalla direttiva, sarebbero pregiudicati dalla mancanza di attuazione da parte dello Stato e che invece, grazie al riconoscimento di effetti diretti, possono egualmente essere esercitati e tutelati in via giudiziaria; in secondo luogo, l’efficacia diretta rappresenta una sanzione per lo Stato inadempiente, il quale non può valersi del suo inadempimento per sottrarsi agli obblighi prescritti dalla direttiva. Le direttive possono avere solo un’efficacia diretta “verticale” , cioè nei rapporti tra privati e lo Stato (o, in generale, la pubblica autorità), non anche “orizzontale”, nelle relazioni tra privati. Occorre precisare che l’effetto diretto “verticale” di una direttiva è anche “unilaterale”, nel senso, cioè che opera esclusivamente a favore del singolo, il quale può rivendicare il diritto da essa nascente nei confronti dello Stato, mentre quest’ultimo non può vantare alcuna pretesa nei riguardi del cittadino, in forza della direttiva che esso stesso non ha eseguito. La negazione di effetti diretti orizzontali produce talune conseguenze insoddisfacenti, determinando una disparità di trattamento a seconda che il singolo abbia come controparte lo Stato o un altro privato. La Corte ha affermato che i giudici nazionali, in base all’obbligo di leale cooperazione, devono interpretare il diritto interno in maniera conforme all’obbligo prescritto dalla direttiva (obbligo di interpretazione conforme). Tale obbligo (che vale anche quando lo Stato abbia emanato norme di attuazione della direttiva) acquista una notevole rilevanza pratica quando la direttiva – non trasposta (o non correttamente trasposta) nell’ordinamento interno – sia inidonea a produrre effetti diretti o non sia comunque invocabile riguardo ai rapporti tra privati. L’interpretazione conforme del diritto nazionale conduce, infatti, a piegare tale diritto, così da adattarlo (nei limiti del possibile) alle prescrizioni della direttiva; formalmente, peraltro, il giudice non applica la direttiva, ma il diritto interno e questo, evidentemente, crea diritti e obblighi corrispondenti nei rapporti tra privati, a prescindere dal contenuto più o meno “completo” della direttiva e dall’esistenza di un obbligo incondizionato. L’obbligo di interpretazione conforme esiste solamente a partire dalla scadenza del termine prescritto per dare attuazione alla direttiva. L’obbligo di interpretazione conforme incontra dei limiti: qualora vi sia un’insanabile contraddizione tra la direttiva non attuata e le norme interne che l’interprete non può correggere, tale obbligo non sussiste. LE DECISIONI La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Può essere priva di destinatari oppure designare destinatari specifici . Se designa destinatari, la decisione è obbligatoria solo nei confronti di questi. In merito alle forme di pubblicità: ● se adottate con una procedura legislativa, le decisioni vanno sempre pubblicate nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea ed entrano in vigore a seguito di tale pubblicazione; ● le decisioni non legislative prive di destinatari sono pubblicate anch’esse nella Gazzetta ufficiale; ● quelle che designano i destinatari, al contrario, sono notificate a quest’ultimi e acquistano efficacia in virtù di tale notificazione. Specifici destinatari di una decisione possono essere sia Stati membri, sia persone fisiche o giuridiche. Le decisioni indirizzate a persone fisiche o giuridiche che comportano un obbligo pecuniario hanno efficacia di titolo esecutivo nell’ordinamento degli SM. Riguardo alle decisioni particolari, è proprio la presenza di destinatari specifici che consente di distinguere tali decisioni dai regolamenti, che hanno invece portata generale, rivolgendosi ad una serie indefinita di destinatari. Più incerta è la precisa individuazione della categoria delle decisioni che si possono indicare come decisioni che non designano destinatari. Esempi di decisioni contenute in questa categoria: ● Quelle che hanno come oggetto la composizione di date istituzioni o altri organi (esempio smentito dall’autore del libro) ● Decisioni sostanzialmente normative di portata generale (esempio non condiviso da tutti gli autori, ma non smentito dall’autore del libro) ● Decisioni in materia di PESC (esempio smentito dal libro) Resta, tuttavia, la difficoltà di trovare un carattere (che non sia meramente nominalistico) idoneo a distinguere questo tipo di decisione generale dai regolamenti. In merito all’efficacia diretta delle decisioni, qualora essa sia indirizzata a Stati dipenderà dal contenuto della decisione stessa stabilire se essa richieda o meno l’emanazione di atti statali di esecuzione. Ma, in principio, dato il suo carattere tendenzialmente completo (derivante dalla obbligatorietà in tutti i suoi elementi), deve presumersi che la decisione sia direttamente applicabile all’interno dello Stato destinatario. Applicabili senza bisogno di atti statali sono poi le decisioni indirizzate a persone fisiche o giuridiche. Riguardo al carattere solo “verticale” o anche “orizzontale” dell’effetto diretto, a nostro parere è da ritenere che, in principio, la decisione sia invocabile nei rapporti sia con i poteri pubblici che tra i privati. LE RACCOMANDAZIONI E I PARERI Sono atti non vincolanti. LE RACCOMANDAZIONI La raccomandazione è una manifestazione di volontà (o almeno, di desiderio), con la quale l’istituzione che la emana chiede al destinatario, sia pure in maniera esortativa e non vincolante, di tenere la condotta raccomandata. carattere vincolante”. Gli accordi interistituzionali sono atti con cui il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione europea convengono in determinate occasioni su obblighi reciproci intesi a organizzare i loro rapporti in uno spirito di collaborazione. In altri termini, un accordo interistituzionale è uno strumento di dialogo tra le istituzioni responsabili del processo decisionale dell’Unione europea. Essi hanno lo scopo di regolare le modalità di esercizio delle rispettive funzioni in settori diversi di tale processo, evitando così potenziali situazioni di conflitto. È pertanto, possibile che, in considerazione degli interessi in gioco, vi partecipino solo due delle suddette istituzioni. Questi possono comprendere ad esempio la disciplina di un certo aspetto delle loro relazioni oppure l’esternazione di una comune posizione su una data questione di rilievo politico o su determinati principi generali. Gli accordi interistituzionali sono subordinati alle disposizioni dei Trattati, per cui, in principio, dovrebbero limitarsi a dare esecuzione a tali disposizioni (o, al massimo, a interpretarle). Per quanto concerne gli effetti di tali accordi, è da ritenere che l’accordo interistituzionale sia suscettibile di produrre effetti obbligatori (assumere carattere vincolante) quando ciò corrisponda alla volontà delle istituzioni che lo hanno concluso. 3) La terza categoria comprende: ● Per quanto riguarda gli atti a rilevanza esterna, diretti cioè a soggetti diversi dalle istituzioni europee, possono considerarsi p.es. le numerose risoluzioni che tali istituzioni sono solite emanare in varie materie e che, di regola, hanno un valore solo politico, così come le conclusioni sovente adottate dal Consiglio. Non è da escludere, tuttavia, che, in certi casi, atti del genere possano produrre effetti giuridici es. le decisioni con le quali il Consiglio autorizza gli SM a ratificare nell’interesse dell’unione convenzioni internazionali, aperte alla ratifica dei soli Stati, ma rientranti nella competenza dell’Unione. Vari e numerosi sono gli atti a rilevanza esterna della Commissione, quali libri verdi, libri bianchi, conclusioni, lettere, comunicazioni (talvolta denominate linee-guida, orientamenti, codici di condotta ecc.). Le comunicazioni in materie quali le regole di concorrenza applicabili alle imprese e gli aiuti di Stato, nelle quali la Commissione gode di poteri decisionali e di ampia discrezionalità, tendono ad assumere una funzione interpretativa autorevole, o addirittura un ruolo normativo. La precisa definizione degli eventuali effetti giuridici degli atti atipici risultanti dalla prassi è fatta dal giudice europeo, il quale, a questo fine, tiene conto della volontà dell’istituzione che emana l’atto, ma anche del potere del quale è espressione e dei principi giuridici sui quali si fonda. La giurisprudenza mostra che la Corte, in ogni caso, attribuisce valore preminente, per l’identificazione degli effetti dell’atto, ai suoi caratteri sostanziali, a prescindere dalla sua denominazione. Si tratta di un orientamento estremamente importante, specie ai fini della tutela giurisdizionale degli interessati: non può affatto escludersi, infatti, che l’impiego di un atto atipico celi la reale natura dell’atto, produttivo di effetti pregiudizievoli per i destinatari (o, in generale, per gli interessati), i quali sono posti in una situazione di difficoltà nel riconoscerne gli effetti, e quindi, nel ricorrere ai rimedi giudiziari eventualmente disponibili. Il riferimento all’idoneità dell’atto a produrre effetti giuridici consente, invece, di impugnarlo, quale che sia la sua forma e la sua denominazione. GLI ATTI IN MATERIA DI PESC L’eliminazione della struttura in “pilastri” dell’UE, effettuata dal Trattato di Lisbona, non ha fatto venire meno la peculiarità dell’azione dell’Unione in materia di PESC (comprensiva della politica di sicurezza e di difesa comune), che si riflettono anche sui tipi di atti che le istituzioni possono adottare. N.B. di tali ci siamo già occupati trattando delle funzioni del Consiglio e specialmente del Consiglio europeo. Tali atti non possono avere carattere di atti legislativi. Va esclusa anche la possibilità di una loro efficacia diretta verso i singoli ma non l’obbligatorietà di tali atti nei confronti degli SM o delle istituzioni. Ai sensi dell’art. 25 TUE: “L’Unione conduce la politica estera e di sicurezza comune: a) definendo gli orientamenti generali, b) adottando decisioni che definiscono: i) le azioni che l’Unione deve intraprendere ii) le posizioni che l’Unione deve assumere iii) le modalità di attuazione delle decisioni di cui ai punti i) e ii) e c) rafforzando la cooperazione sistematica tra gli SM per la conduzione della loro politica.” Al vertice degli atti dell’Unione nella materia della PESC si pongono le determinazioni del Consiglio europeo il quale individua gli interessi strategici dell’Unione, fissa gli obbiettivi e definisce gli orientamenti generali nella PESC, ivi comprese le questioni che hanno implicazioni in materia di difesa; adotta le decisioni necessarie. Inoltre, in base al 2° comma di tale disposizione, il Consiglio europeo definisce le linee strategiche della politica dell’Unione dinanzi a eventuali sviluppi internazionali. Atti del genere del Consiglio europeo possono avere valore politico, come di solito le conclusioni emanate a seguito delle sue riunioni. Essi però possono produrre anche effetti obbligatori: l’art. 22 TUE dichiara che le decisioni del Consiglio europeo sugli interessi e gli obbiettivi strategici dell’Unione fissano la rispettiva durata e i mezzi che l’Unione e gli SM devono mettere a disposizione. Alle determinazioni del Consiglio europeo sono subordinate le decisioni del Consiglio previste dall’art. 26, par. 2, 1° comma, TUE, il quale dichiara che: il Consiglio prende le decisioni per la definizione e l’attuazione della PESC in base agli orientamenti generali e alle linee strategiche definite dal Consiglio europeo (il Consiglio ne è giuridicamente vincolato). Sono altresì subordinate alle determinazioni del Consiglio europeo le decisioni del Consiglio previste dal citato art. 25 TUE (specificate ulteriormente in altri articoli relativi alla PESC come p.es. l’art. 43, in materia di sicurezza e di difesa comune): vengono in rilievo, anzitutto, le decisioni che definiscono le azioni che l’Unione deve prendere (art. 25, lett. b, i, TUE) e che, ai sensi dell’art. 28, par. 1, TUE, hanno un carattere spiccatamente specifico e operativo: “Quando una situazione internazionale richiede un intervento operativo dell’Unione, il Consiglio adotta le decisioni necessarie. Esse definiscono gli obbiettivi, la portata e i mezzi di cui l’Unione deve disporre, le condizioni di attuazione e, se necessario, la durata”. Decisioni di azioni operative sono quelle adottate nell’ambito delle operazioni di disarmo, umanitarie e di soccorso, di missioni di prevenzione dei conflitti, di mantenimento e di ristabilimento della pace, le missioni di unità di combattimento per la gestione della crisi, nonché la lotta al terrorismo, nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune. Le decisioni di azioni operative sono obbligatorie per gli SM. Tali decisioni, inoltre, vanno rispettate e attuate anche da parte delle missioni diplomatiche e consolari degli SM e delle delegazioni dell’Unione nei Paesi terzi e nelle conferenze internazionali, nonché dalle loro rappresentanze presso le organizzazioni internazionali. Le decisioni del Consiglio definiscono anche le posizioni che l’Unione deve assumere su una questione particolare di natura geografica o tematica. [Frequentemente tali decisioni, adottate a seguito di analoghe decisioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o in maniera autonoma dall’Unione, comportano misure sanzionatorie contro Stati terzi, dirigenti statali (politici o militari), o anche individui (p.es. persone fisiche o giuridiche coinvolte in attività terroristiche). La possibilità di adottare misure restrittive verso individui è oggi riconosciuta espressamente dall’art. 215 TFUE, anche se resta aperta la questione se, e a quali condizioni, dette misure siano legittime in base al diritto internazionale. Il par. 3 dell’art. 215 prescrive che gli atti in questione (nonché quelli verso Paesi terzi) contengano le necessarie disposizioni sulle garanzie giuridiche. Specie riguardo a misure di congelamento di risorse finanziarie a carico di individui sospettati di terrorismo, è infatti indispensabile assicurare un rigoroso rispetto dei diritti fondamentali di tali individui, anzitutto del diritto di difesa e di tutela giudiziaria. A questo scopo tende anche l’attribuzione alla Corte di giustizia di una competenza – del tutto eccezionale in materia di PESC (art. 24, par. 1, 2° comma, TUE) – a controllare la legittimità di atti del genere nei confronti di persone fisiche o giuridiche (art. 275, 2° comma, TFUE).] Anche queste decisioni sono obbligatorie per gli SM, i quali devono provvedere affinché le loro politiche nazionali siano conformi ad esse. (…) pag. 341 CAPITOLO VI – I PROCEDIMENTI INTERISTITUZIONALI IL FINANZIAMENTO DELL’UNIONE EUROPEA La materia del bilancio è regolata, oltre che dagli art. 310-324 del TFUE, dal regolamento UE, Euratom 2018/1046 del Parlamento europeo e del Consiglio e dal regolamento UE, Euratom n.1311/2013 del Consiglio. Il bilancio dell’Unione è composto dalle entrate e le spese . In base al principio di equilibrio, nel bilancio, entrate e spese devono risultare in pareggio . Diversa è la disciplina relativa alle determinazioni sulle entrate e a quelle sulle spese: ● mentre sulle seconde, significativi sono i poteri acquistati progressivamente dal Parlamento europeo, il quale, con il Trattato di Lisbona, ha raggiunto pari potere di decisione con il Consiglio; ● le entrate sfuggono ai suoi poteri e sono sostanzialmente decise dai governi degli SM. “Il bilancio, fatte salve le altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie ” (Art. 311, 2° comma, TFUE). Originariamente il finanziamento della CEE e della CEEA proveniva, come di solito accade per le organizzazioni internazionali, da contributi obbligatori degli Stati membri, che questi erano tenuti a versare secondo parametri fondati sulla loro rispettiva importanza politica ed economica. Solo la CECA disponeva di un vero potere impositivo, poiché al suo finanziamento contribuivano i prelievi sulla produzione carbosiderurgica delle imprese, i quali rappresentavano sostanzialmente delle imposte, determinate autonomamente dalla CECA e consentivano un certo grado di indipendenza finanziaria di quest'ultima nei confronti degli Stati membri. Con la decisione del 21 aprile 1970 il Consiglio decise il passaggio a un sistema di risorse proprie per la CEE e la CEEA; sono l'Unione europea e la CEEA, quindi, oggi, che decidono in maniera autonoma le fonti di finanziamento senza dipendere più dai pagamenti dei contributi degli Stati membri. E’ stabilito per un periodo di almeno 5 anni . Il bilancio annuale dell’Unione è stabilito nel rispetto del quadro finanziario pluriennale”. L’art. 312 stabilisce che esso è determinato mediante un regolamento, adottato (secondo una procedura legislativa speciale) dal Consiglio all'unanimità, previa approvazione del Parlamento europeo, a maggioranza dei suoi membri (salva la possibilità che il Consiglio europeo, all'unanimità, decida di consentire al Consiglio di deliberare a maggioranza qualificata). L'approvazione del bilancio annuale, che avviene a opera del Parlamento europeo e del Consiglio secondo una procedura legislativa speciale, si svolge secondo il seguente procedimento: 1°) Entro il 1° luglio di ogni anno, ciascuna istituzione (a eccezione della Banca centrale europea) elabora uno stato di previsione delle spese per il successivo anno finanziario. 2°) La Commissione raggruppa tali previsioni in un progetto di bilancio, comprendente una previsione delle entrate e delle spese, nel quale può fare anche previsioni divergenti rispetto a quelle elaborate dalle varie istituzioni. Tale progetto viene proposto entro il 1° settembre (dell’anno precedente a quello di esecuzione del bilancio) al Parlamento europeo e al Consiglio da parte della Commissione, che può modificarlo fino all’eventuale convocazione di un comitato di conciliazione ai sensi del par. 5. 3°) Il primo esame del progetto di bilancio è fatto dal Consiglio che, entro il 1° ottobre, comunica la sua posizione al Parlamento europeo, motivandola esaurientemente. 4°) Entro i successivi 42 giorni il Parlamento europeo può approvare la posizione del Consiglio, nel qual caso il bilancio è adottato. L'adozione avviene anche nell'ipotesi in cui, entro tale termine di 42 giorni, il Parlamento non abbia deliberato alcunché (par. 4: c.d. silenzio assenso). ● Entro il termine di 42 giorni può emergere, al contrario, un dissenso del Parlamento rispetto al progetto inviatogli dal Consiglio, che si manifesta con l'adozione di emendamenti (alla maggioranza dei componenti dello stesso Parlamento europeo). In questo caso il progetto emendato è trasmesso al Consiglio, il quale, entro 10 giorni, può approvare tutti gli emendamenti del Parlamento. In caso contrario si apre una fase dinanzi a un comitato di conciliazione, formato dai membri del Consiglio o dai loro rappresentanti e da altrettanti rappresentanti del Parlamento europeo e con la partecipazione della Commissione, che prende ogni iniziativa necessaria per favorire un ravvicinamento tra le posizioni del Parlamento e del Consiglio. Compito del comitato di conciliazione è di giungere, entro 21 giorni dalla sua convocazione, a un accordo su un progetto comune, a maggioranza qualificata dei membri (o rappresentanti) del Consiglio e a maggioranza dei rappresentanti del Parlamento. Qualora il comitato di conciliazione non pervenga a tale accordo il progetto va considerato respinto e la Commissione deve sottoporre un nuovo progetto di bilancio. Se, invece, entro i 21 giorni si raggiunge nel comitato di conciliazione un accordo, il Parlamento europeo e il Consiglio dispongono di 14 giorni per approvare il progetto comune. Entro il suddetto termine di 14 giorni possono verificarsi varie possibilità. - Può accadere anzitutto (ed è questa l'ipotesi più probabile) che sia il Parlamento che il Consiglio approvino espressamente il progetto comune: in questo caso (al quale è equiparata la mancata delibera, entro i 14 giorni, di una o entrambe le istituzioni) il bilancio è definitivamente adottato. - Se, al contrario, il progetto comune è respinto sia dal Parlamento (a maggioranza dei suoi membri) che dal Consiglio, oppure se una delle due istituzioni respinge il progetto mentre l'altra non riesce a deliberare, il progetto è respinto e la Commissione deve presentarne uno nuovo. Il progetto è bocciato anche se è approvato dal Consiglio, ma respinto dal Parlamento. Nell’ipotesi opposta, di rigetto del Consiglio e di approvazione del Parlamento, la posizione di eguale autorità delle due istituzioni viene alterata a favore del Parlamento. Quest'ultimo, entro ulteriori 14 giorni dal rigetto del Consiglio e deliberando a maggioranza dei suoi membri e dei tre quinti dei voti espressi, può decidere di confermare tutti gli emendamenti originariamente adottati rispetto alla posizione del Consiglio, oppure solo alcuni di tali emendamenti; il bilancio è definitivamente adottato secondo le determinazioni del Parlamento, cioè nel testo della posizione espressa dal Consiglio, come emendata dal Parlamento (se questo abbia confermato tutti i suoi emendamenti), oppure nel testo risultante dal comitato di conciliazione come emendato dal Parlamento (nel caso di conferma solo parziale degli originari emendamenti). 5°) Una volta che il bilancio sia definitivamente adottato (quale che sia la procedura che abbia condotto a questo risultato), è formalmente il Presidente del Parlamento europeo che constata tale adozione. ● Ove il bilancio sia respinto, o, in ogni caso, se all'inizio dell'anno finanziario (cioè il 1° gennaio) esso non sia stato ancora approvato, le spese vengono erogate secondo il regime dei dodicesimi. In base a questo regime, disposto dall'art. 315 TFUE, di norma le spese effettuate mensilmente non possono superare un dodicesimo dei crediti aperti nel bilancio dell'esercizio precedente, né un dodicesimo di quelli previsti nel progetto di bilancio non adottato. Quando il bilancio sia stato approvato la sua esecuzione , cioè la riscossione delle entrate e l'erogazione delle spese, è di competenza della Commissione (art. 317 TFUE). Essa è largamente coadiuvata dagli Stati membri , ai quali è in buona parte delegata l'esecuzione del bilancio (tuttavia, la responsabilità della esecuzione del bilancio resta in capo alla Commissione). La Commissione esegue il bilancio sotto il controllo finanziario della Corte dei conti , la quale svolge le sue funzioni sia sulla base dei documenti, sia, se necessario, in loco, presso le istituzioni o organismi dell'Unione, negli Stati membri e anche nei locali di persone fisiche e giuridiche che ricevano contributi a carico del bilancio (art. 287 TFUE). La Corte dei conti presenta al Parlamento europeo e al Consiglio una dichiarazione di affidabilità dei conti e della legittimità e regolarità delle relative operazioni. Il suo controllo non è solo di carattere formale, ma investe il merito della gestione del bilancio: esso, infatti, non si limita ai profili di regolarità e legittimità, ma riguarda anche l'accertamento della sana gestione finanziaria, il che implica una valutazione di merito concernente l'economicità e l'efficacia della stessa gestione. La Corte dei conti redige anche una relazione annuale, accompagnata dalle risposte delle istituzioni alle osservazioni della stessa Corte. II controllo "politico" sulla complessiva attività di amministrazione della Commissione è affidato invece al Parlamento europeo, il quale lo effettua sulla base di un esame dei conti e delle suddette relazione annuale e dichiarazione di affidabilità della Corte dei conti. La delibera del Parlamento è chiamata “ decisione di scarico ” ; essa esprime l’approvazione dell’operato della Commissione. La decisione di scarico può essere accompagnata da osservazioni, la Commissione compie tutti i passi necessari per darvi seguito. L’ADOZIONE DEGLI ATTI DELL’UNIONE EUROPEA I Trattati prevedono una pluralità di procedimenti decisionali, in ciascuno dei quali possono variare il ruolo delle istituzioni (in particolare quello del Parlamento e del Consiglio) e le regole di votazione (in specie nel Consiglio, chiamato alle volte a deliberare all’unanimità o, molto spesso, a maggioranza qualificata). Inoltre, può essere prescritta la consultazione di organi ausiliari, quali il Comitato economico e sociale o il Comitato delle regioni. Il ricorso all'uno o all'altro procedimento dipende dalla prescrizione della specifica disposizione sulla base della quale I'atto in questione deve essere adottato. La procedura prevista dalle singole disposizioni del TFUE va obbligatoriamente applicata solo agli atti che contengono gli elementi essenziali della disciplina da emanare in forza delle stesse disposizioni. È ben possibile che tali atti, detti atti di base , prevedano l'adozione di una ulteriore normativa integrativa, o persino modificativa di elementi non essenziali ( atti delegati ), da parte della Commissione, oppure l'emanazione di atti di esecuzione della Commissione o, eccezionalmente, del Consiglio . Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, atti del genere non sono soggetti alla procedura prevista dalla specifica disposizione del TFUE, ma possono essere adottati secondo una procedura semplificata , nella quale intervenga solo il Consiglio o solo la Commissione, in caso di delega di quest’ultima. La possibilità di adottare atti di attuazione con una procedura semplificata rispetto a quella prescritta dalla norma del Trattato per l’atto di base è stata riaffermata sia per i singoli regolamenti che per le direttive, volti ad attuare, rispettivamente, un regolamento o una direttiva di base. Le istituzioni che possono considerarsi autorità legislative sono il Parlamento europeo ed il Consiglio . L’esercizio della funzione legislativa è subordinato a una proposta formale presentata dalla Commissione , la quale partecipa anch’essa alla funzione legislativa. II Trattato sul funzionamento dell'Unione europea stabilisce una procedura legislativa ordinaria. Ai sensi dell'art. 289, par.1: “La procedura legislativa ordinaria consiste nell'adozione congiunta di un regolamento, di una direttiva o di una decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su proposta della Commissione. Tale procedura è definita all'articolo 294”. Accanto a questa procedura, comunemente denominata "codecisione" e che oggi può considerarsi di applicazione generale, esistono delle procedure legislative speciali, nelle quali viene meno quella perfetta simmetria di poteri tra Parlamento europeo e Consiglio che si realizza nella procedura ordinaria di codecisione. Nella larga maggioranza dei casi in queste procedure speciali, infatti, il Consiglio riprende una posizione prioritaria sul Parlamento europeo, il quale partecipa all'adozione dell'atto del Consiglio con il suo parere o con una approvazione. La procedura legislativa (sia essa ordinaria o speciale) va a qualificare un atto dell’Unione come legislativo . La Corte ha sottolineato che la distinzione tra atti legislativi e non legislativi riveste importanza dal momento in cui soltanto l’adozione di atti legislativi è assoggettata al : ● rispetto di alcuni obblighi attinenti alla partecipazione dei parlamenti nazionali ● al requisito secondo cui il Consiglio si riunisce in seduta pubblica quando delibera e vota su un progetto di atto legislativo. LA PROPOSTA DELLA COMMISSIONE La procedura legislativa ordinaria e le procedure legislative speciali hanno inizio, di regola, con la proposta della Commissione (solitamente, tale regola vale anche per le procedure non qualificate come legislative, concernenti l’adozione degli atti). Art. 17, par. 2, TUE: “Un atto legislativo può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i Trattati non dispongano diversamente. Gli altri atti sono adottati su proposta della Commissione se i Trattati lo prevedono”. b. Se, invece, il Consiglio non approva tutti gli emendamenti, il Presidente del Consiglio, d'intesa con il Presidente del Parlamento, convoca entro sei settimane un comitato di conciliazione, composto dai membri del Consiglio o dai loro rappresentanti e da altrettanti rappresentanti del Parlamento. Si noti che, in conformità della regola generale enunciata nel menzionato art. 293, par.1, TFUE, in questa fase il Consiglio può approvare emendamenti sui quali la Commissione abbia espresso parere negativo solo all'unanimità. Tale comitato deve cercare di giungere a un accordo su un testo comune, approvato a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio e a maggioranza dei rappresentanti del Parlamento. Alla ricerca dell'accordo contribuisce, in veste di conciliatore, la Commissione, che cerca di favorire un ravvicinamento fra le posizioni delle altre due istituzioni. Si noti che in questa fase (come in quella successiva di eventuale adozione dell'atto) viene meno la regola secondo la quale solo all'unanimità il Consiglio può modificare la proposta della Commissione, posto che il Consiglio vota alla maggioranza qualificata. Se entro sei settimane dalla sua convocazione il comitato di conciliazione non approva un progetto comune, I'atto in questione si considera non adottato e la procedura si chiude definitivamente. 4°) Se un progetto comune è approvato si apre la fase della "Terza lettura". Entro ulteriori sei settimane il Parlamento europeo (a maggioranza dei voti espressi) e il Consiglio (a maggioranza qualificata) possono adottare l'atto in questione in base al progetto comune del comitato di conciliazione: l'atto, quindi, è definitivamente adottato. In mancanza di decisione (anche di una sola di tali istituzioni) l'atto si considera non approvato. [Si tenga presente che i termini di tre mesi e di sei settimane previsti dall'art.294 possono essere prorogati, rispettivamente, di un mese e di due settimane, al massimo, su iniziativa del Parlamento europeo o del Consiglio.] Disposizioni particolari sono previste per l'ipotesi in cui l'iniziativa non parta dalla Commissione (art. 294, par. 15): va sottolineato che, in questo caso, la Commissione non è esclusa dalla procedura, perché il Parlamento e il Consiglio le trasmettono il progetto, accompagnato dalle loro posizioni in prima e in seconda lettura. Inoltre, la Commissione può formulare durante tutta la procedura un parere, su richiesta del Parlamento, del Consiglio, o di propria iniziativa e, se lo reputa necessario, può partecipare al comitato di conciliazione, svolgendo in esso le proprie funzioni conciliative. Nella prassi, sono frequenti negoziati del tutto informali e riservati, denominati triloghi, che si svolgono tra rappresentanti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione alla ricerca di orientamenti e posizioni comuni, che possano poi essere adottati formalmente nelle sedi istituzionali della procedura legislativa. LE PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI Sono regolate dall’art. 289, par. 2, TFUE. Nelle procedure legislative speciali il rapporto (paritario nella codecisione) tra Parlamento europeo e Consiglio viene a sbilanciarsi a favore dell’una o dell’altra istituzione (un caso a parte si ha nell'approvazione del bilancio, nel quale il rapporto tra le due istituzioni resta paritario). In realtà, in queste procedure legislative speciali è il Consiglio che, di norma, assume il potere decisionale, mentre si affievolisce la posizione del Parlamento europeo, il cui intervento (a seconda della disciplina prevista dalle norme dei Trattati) si esprime con un parere 1 o con un atto di approvazione 2 . Estremamente rara è l'ipotesi opposta, di adozione di un atto da parte del Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio es. I'art. 223, par. 2, TFUE, il quale prevede che il Parlamento europeo stabilisca, mediante regolamenti, lo statuto e le condizioni generali per l'esercizio delle funzioni dei suoi membri. Peraltro (a parte la necessaria consultazione della Commissione) la deliberazione del Parlamento è subordinata all'approvazione del Consiglio, il quale, pertanto, può impedire l'adozione di un regolamento del Parlamento che non condivida. Nelle procedure legislative speciali, spesso è previsto che il Consiglio deliberi all' unanimità . 1 In tale ipotesi rientrano numerose disposizioni del TFUE, quali l’art. 21, par. 3, in materia di sicurezza sociale e di protezione sociale dei cittadini europei che circolino o soggiornino nel territorio degli Stati membri; l’art. 22 sulle modalità di voto nelle elezioni comunali e al Parlamento europeo dei cittadini europei in Paesi diversi dal proprio; l’art. 23, 2° comma, per l’adozione di direttive in materia di tutela dei cittadini all’estero; l’art. 64, par. 3, in materia di movimenti di capitali nei riguardi Paesi terzi; l’art. 77, par. 3, sui passaporti, carte d’identità, titoli di soggiorno o documenti analoghi; l’art. 81, par. 3, sulle misure relative al diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali, ecc. Va sottolineato che la consultazione del Parlamento è prescritta come obbligatoria , ciò comporta che: ● il Consiglio è giuridicamente vincolato a chiedere al Parlamento il parere sul progetto di atto (presentato dalla Commissione) prima di assumere la propria decisione. Tuttavia, poiché l’obbligo riguarda solo la consultazione del Parlamento, il Consiglio resta poi del tutto libero di accettare o meno il parere dello stesso Parlamento. Talvolta la consultazione obbligatoria del Parlamento europeo è prevista anche al di fuori dell'adozione di atti legislativi (es. procedure semplificate di revisione dei Trattati). ● in caso di mancata consultazione, I'atto eventualmente emanato dal Consiglio sia illegittimo per "violazione delle forme sostanziali", esso potrà quindi essere dichiarato nullo dalla Corte di giustizia ai sensi degli articoli 263 e 264 TFUE. ● il Parlamento europeo venga consultato nuovamente se l'originaria proposta, sulla quale esso aveva già espresso il suo parere, sia stata modificata a livello sostanziale (dalla Commissione o dallo stesso Consiglio). ● eccezionalmente, il Consiglio può emanare l'atto in assenza del parere del Parlamento qualora quest'ultimo ritardi eccessivamente nel darlo. 2 Fra le ipotesi più significative possiamo ricordare l'adozione dei provvedimenti contro le discriminazioni (art. 19, par. 1, TFUE), il completamento dei diritti dei cittadini dell'Unione (art. 25, 2° comma, TFUE), la definizione delle disposizioni relative all'elezione del Parlamento europeo (art. 223, par. 1,TFUE), l'adozione delle misure di esecuzione del sistema delle risorse proprie dell'Unione (art. 311,4° comma, TFUE), l'adozione del regolamento che fissa il quadro finanziario pluriennale (art. 312, par. 2, TFUE). Alquanto frequente è la prescrizione dell'approvazione del Parlamento europeo al di fuori dell'adozione di atti legislativi, per esempio nella constatazione di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art. 2TUE (art. 7 TUE), per certe ipotesi di revisione dei Trattati ai sensi dell’art. 48 TUE (Cap. II, par. 6), per l'ammissione di nuovi membri (art. 49 TUE: Cap. II, par. 7),in materia di recesso (art. 50 TUE: Cap. II, par. 8), per la conclusione di vari tipi di accordi dell'Unione (oltre, par. 11). L'approvazione comporta un potere determinante del Parlamento, il quale può impedire l'adozione dell'atto esercitando una sorta di diritto di "veto". Essendo il Parlamento formalmente estraneo all’elaborazione del contenuto dell’atto, il potere di approvazione ha una natura esclusivamente negativa, potendo essere esercitato solo al fine di impedire che l'atto in questione sia adottato (a differenza della procedura legislativa ordinaria, nella quale il Parlamento può incidere in senso propositivo sul contenuto dell’atto). LA CONCLUSIONE DI ACCORDI INTERNAZIONALI E LA COMPETENZA DELL’UNIONE EUROPEA La materia, di per sé, ricade sotto la regolamentazione del diritto internazionale generale . Accanto a questa, i Trattati pongono una propria disciplina concernente la competenza a stipulare dell’Unione, il procedimento di stipulazione e il ruolo che in esso hanno le diverse istituzioni, gli effetti giuridici degli accordi nell'ordinamento dell'Unione. Tale normativa, profondamente innovativa rispetto a quella vigente anteriormente al Trattato di Lisbona, rappresenta in larga misura il riconoscimento normativo della giurisprudenza della Corte di giustizia. L’art. 216, par. 1, TFUE dichiara: L’Unione può concludere un accordo con uno o più Paesi terzi o organizzazioni internazionali qualora i Trattati lo prevedano o qualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare, nell’ambito della politiche dell’Unione, uno degli obbiettivi fissati dai Trattati, o sia prevista in un atto giuridico vincolante dell’Unione, oppure possa incidere su norme comuni o alterarne la portata. Questo articolo rinvia, anzitutto, alle disposizioni dei Trattati che espressamente prevedono la conclusione di accordi: l'art. 207 TFUE, in materia di politica commerciale, ivi compreso il settore dei trasporti; I'art. 217 TFUE, per gli accordi di associazione, l'art. 209 TFUE, in materia di cooperazione allo sviluppo; I'art. 212 TFUE, in materia di cooperazione economica, finanziaria e tecnica; l'art. 186 TFUE, in materia di cooperazione in tema di ricerca e sviluppo tecnologico; l'art. 191 TFUE, in materia di politica ambientale; l'art. 219 TFUE, relativo ai tassi di cambio dell'euro con valute di Stati terzi e alla materia monetaria e valutaria. Poi la norma in esame mostra di accogliere la teoria giurisprudenziale del parallelismo delle competenze: essa, infatti, dispone che I'Unione può concludere un accordo quando ciò è necessario per raggiungere un obiettivo fissato dai Trattati nell'ambito delle politiche dell'Unione, quindi in tutte le materie nelle quali I'Unione ha il potere di emanare la propria normativa interna , nonché quando la conclusione di un accordo è idonea a incidere o modificare norme comuni già emanate dall'Unione. [Per chiarimenti sul principio del parallelismo delle competenze vedere DUE24 – Libro] LA COMPETENZA ESCLUSIVA O CONCORRENTE DELL’UNIONE EUROPEA Art. 3, par. 2, TFUE: L’Unione ha competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione: a) è prevista in un atto legislativo dell’Unione b) è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno c) nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata. Tale articolo non implica che la competenza dell’Unione a concludere accordi sia sempre esclusiva (con definitiva perdita di tale competenza degli Stati membri): ● in primo luogo, spesso le norme del TFUE, nel prevedere la possibilità di concludere accordi, dichiarano espressamente che la competenza dell'Unione non esclude quella degli Stati membri (per esempio in materia di politica ambientale, di cooperazione allo sviluppo, di cooperazione economica, finanziaria e tecnica e persino in materia di regime monetario o valutario; si veda anche la Dichiarazione n. 36 sulla conclusione da parte degli Stati membri di accordi internazionali relativi allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia)  in questi casi previsti dai Trattati la competenza a concludere accordi non appartiene in via esclusiva all' Unione, ma ha natura concorrente con quella degli Stati membri .
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