Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto "Le politiche sociali" di Maurizio Ferrera (dal cap. 1 al 5), Dispense di Sociologia Politica

Riassunto libro "Le politiche sociali" di Maurizio Ferrera (dal capitolo 1 al capitolo 5) CAPITOLO 1: L'analisi delle politiche sociali e del welfare state CAPITOLO 2: Le politiche pensionistiche CAPITOLO 3: Le politiche del lavoro CAPITOLO 4: Le politiche sanitarie CAPITOLO 5: Le politiche di assistenza sociale

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 29/01/2021

Mulan_47
Mulan_47 🇮🇹

4.7

(23)

15 documenti

1 / 60

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto "Le politiche sociali" di Maurizio Ferrera (dal cap. 1 al 5) e più Dispense in PDF di Sociologia Politica solo su Docsity! PROCESSI CULTURALI E POLITICHE SOCIALI CAPITOLO 1: L’ANALISI DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL WELFARE STATE -DEFINIZIONE DI POLITICHE SOCIALI Le politiche sociali vengono definite come corsi di azioni volti a definire le norme, gli standard e le regole in merito alle risorse e alle opportunità degli individui considerate rilevanti dagli stati e quindi riconosciute dalle autorità, ad esempio il diritto alla sanità. L’analisi delle politiche pubbliche è lo studio di come, perché e con quali effetti i diversi sistemi politici perseguono certi corsi di azione per risolvere problemi di rilevanza collettiva con l’obiettivo di garantire il benessere dei cittadini. Le politiche sociali hanno a che fare con il benessere del cittadino, sono utili a riallineare situazioni di disagio, in quanto si occupano delle condizioni di vita del cittadino e delle risorse ed opportunità nelle varie fasi della sua esistenza. Da questo punto deriva il concetto di cittadinanza sociale, secondo il quale lo stato deve garantire il benessere del cittadino. Essere cittadino vuol dire godere di diritti politici e civili ma anche dei diritti sociali che vengono chiamati diritti-spettanze, che derivano appunto dal diritto sociale di cittadinanza sociale: questi tipi di diritti sono dispositivi che danno titolo a ottenere risorse dallo Stato (ad esempio il diritto alla pensione) e a poter fruire di opportunità che sorreggono la vita del cittadino (ad esempio la perdita di lavoro che permette l’inserimento in cassa integrazione e poi dà modo di ricevere la disoccupazione). La cittadinanza sociale contribuisce così alla concreta realizzazione dei grandi ideali normativi della tradizione occidentale moderna: libertà, eguaglianza, solidarietà e sicurezza. Lo Stato prevede la presenza di politiche passive, ovvero che aiutano il cittadino, ma anche di politiche attive da parte dell’individuo, ad esempio l’impegno a ristabilizzarsi sul lavoro. Le politiche sociali sono anche definite come corsi di azione che organizzano concretamente la produzione e la distribuzione di queste risorse e opportunità. -DEFINIZIONE DI BENESSERE E RUOLO CENTRALE DELLO STATO SUL BENESSERE Cosa si intende per benessere? Il benessere è una situazione che varia in base al periodo e alle fasi esistenziali dell’individuo. Uno dei protagonisti del Welfare State è lo stato. Le politiche sociali nascono in Germania nell’800 e si consolidano dopo la seconda guerra mondiale con la nascita delle moderne democrazie. Lo Stato può agire sul nostro benessere e sulla distribuzione delle risorse in diversi modi: • in modo diretto: pagando ad esempio la pensione, lo Stato può dare supporto economico diretto per garantire il benessere dei suoi cittadini. • In modo indiretto: nel tempo lo Stato si è reso conto che sarebbero potuti essere utili servizi aggiuntivi e non solo soldi in più. Un esempio è l’istituzione delle scuole materne e lo sviluppo del reparto della sanità e la sua strutturazione (ASL, medici di base). La spesa dei vari paesi europei per le prestazioni e i servizi sociali da parte dello Stato è pari al 30% delle spese totali; soldi che derivano dalla ricchezza della nostra economia e dai contributi versati dai lavoratori. Questa spesa viene divisa per i vari ambiti che sono: pagamento delle pensioni, spese per malattia, sostegno di famiglie e minori, spese per la disabilità, pensioni per i superstiti (vedovi), spese amministrative, disoccupazione, l’housing sociale (sul territorio un esempio sono gli affitti agevolati), e per i tentativi di sostegno per esclusione sociale (malattie a lungo termine). Nel mondo esiste variabilità, in base anche alle diverse economie e alle ricchezze interne dei diversi Stati: più aumenta la spesa di protezione sociale più diminuiscono le disuguaglianze e di conseguenza diminuisce il numero di persone a rischio sociale. Ad esempio, l’Italia, che ha un alto tasso di invecchiamento, deve spendere gran parte della spesa sociale nelle pensioni. Questo porta a conseguenze anche legislative, come l’aumento dell’età pensionistica. Questo significa che l’Italia avrà meno ricchezze da poter spendere in altri ambiti, ad esempio per quello del sostegno per le persone anziane non autosufficienti, che in Italia scarseggia. Bisogni e rischi sono altri concetti fondamentali per le politiche sociali e costituiscono sfide al benessere. I bisogni sono carenze o mancanze di qualcosa di necessario per la realizzazione del benessere. Ad esempio, un bisogno sanitario, che nasce da un deficit di salute che crea esigenza di assistenza. L’altro elemento che costituisce una sfida per il benessere è il rischio, ovvero l’esposizione a determinati eventi che possono manifestarsi generando un bisogno, eliminando quindi il benessere. Come si possono affrontare rischi e bisogni? Lo stato è uno dei protagonisti, ma non l’unico. Si possono affrontare infatti anche attraverso il mercato, soprattutto il mercato del lavoro; attraverso la famiglia e le reti amicali; attraverso e associazioni intermedie (terzo settore, ossia le organizzazioni di volontariato che operato senza fini di lucro). Le politiche si collocano nel processo di modernizzazione attraverso le quali lo Stato fornisce protezione sociale contro i rischi e i bisogni. Attraverso il Welfare State si affermano i diritti sociali. Il sistema di welfare si struttura attraverso questi 4 protagonisti. Il welfare viene visto come un diamante. Il sistema di relazioni tra le punte del diamante è a sua volta denominato “welfare mix”. Al vertice c’è lo stato che contiene i processi di produzione del benessere e li regola. Questi attori sono tutti coinvolti nelle politiche sociali più importanti che sono: quelle pensionistiche, quelle sanitarie, quelle del lavoro e quelle di assistenza sociale (perdita dell’autosufficienza, povertà economica). Il Welfare mix si differenzia dal Welfare state. Le politiche sociali implicano la gestione pubblica dei rischi sociali, del sistema delle politiche sociali e di tutto l’apparato organizzativo volto a tutelare i cittadini dai rischi e a garantire benessere e opportunità, si bisogni e rischi prestabiliti che costituiscono delle sfide al raggiungimento del benessere degli individui. I bisogni sono carenze o mancanze di qualcosa di necessario per la realizzazione del benessere. Ad esempio, un bisogno sanitario, che nasce da un deficit di salute che crea esigenza di assistenza I rischi rappresentano l’esposizione a determinati eventi che possono manifestarsi generando un bisogno, eliminando quindi il benessere. La protezione contro i rischi e i bisogni viene garantita, quindi, dallo Stato tramite forme di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo specifici diritti sociali e specifici doveri di contribuzione finanziaria, ma non solo, possono essere affrontati anche attraverso il mercato, soprattutto il mercato del lavoro; attraverso la famiglia e le reti amicali; o attraverso il terzo settore (organizzazioni di volontariato) Il welfare state viene visto come un diamante. - Il diamante del welfare state è uno schema a forma di quadrilatero ai cui vertici sono indicati i 4 attori principali del welfare state (Stato, famiglia, mercato e terzo settore). Al vertice ritroviamo lo Stato Il sistema di relazioni che lega tra loro questi quattro attori definisce il REGIME DI WELFARE o WELFARE-MIX. Nel corso del tempo lo Stato ha assunto un ruolo sempre più rilevante. - I quattro attori principali del welfare affrontano i rischi sociali seguendo principi diversi: a) famiglia e terzo settore reciprocità; b) Stato redistribuzione; c) mercato rapporti monetari - Il welfare state va collocato sullo sfondo di una processo di trasformazioni economiche, sociali e politico-istituzionali che le scienze sociali definiscono processo di modernizzazione. - Questo processo ha interessato, con tempi e modalità differenti, le società occidentali a partire dal XIX secolo, trasformano la loro struttura produttiva ed occupazionale, i loro modelli di organizzazione sociale e i loro sistemi politici ed amministrativi. - Il welfare state nasce come risposta alla nuova configurazione di rischi e bisogni originati dal processo di modernizzazione. - Autori come Marshall, Briggs e Titmuss, definiscono il welfare come intervento dello Stato impegnato a modificare le forze sociali di mercato allo scopo di realizzare una più ampia uguaglianza sociale. -In termini generali, si può affermare che lo studio delle politiche sociali, analizzando ciò che lo Stato fa per i cittadini, evidenzia come vi sia una sovrapposizione tra welfare state e politiche sociali stesse. - Attraverso le politiche di welfare state, lo Stato fornisce protezione contro rischi e bisogni attraverso 3 modalità tipiche (idealtipi), che si differenziano tra loro rispetto alle modalità di accesso, alla natura delle prestazioni offerte e rispetto alle forme e fonti di finanziamento: a. ASSISTENZA; b. ASSICURAZIONE; c. SICUREZZA SOCIALE - ASSISTENZA – è un intervento pubblico a carattere condizionale e discrezionale, volto a rispondere in modo mirato a specifici bisogni individuali o a categorie circoscritte di bisogni. L’assistenza è selettiva (si attiva rispetto alle condizioni di bisogno e di reddito) e residuale (rispetto alla capacità individuale o familiare, se non risponde l’individuo né la famiglia ad un determinato bisogno, interviene lo Stato). Ciò che caratterizza l’assistenza come modalità di protezione sociale, è il fatto che le sue prestazioni sono subordinate all’accertamento, da parte di una qualche autorità pubblica, di 2 condizioni: a. presenza di un bisogno manifesto; b. assenza di risorse adeguate per farvi fronte autonomamente (verificata attraverso la prova dei mezzi). Verificati tramite la cosiddetta prova dei mezzi (valutazione della situazione economica e valutazione del fatto che se ho un problema nessun altro al mio posto lo può risolvere). - ASSICURAZIONE SOCIALE – La nascita dell’assicurazione sociale segna la nascita del Welfare State, è il nucleo centrale del moderno welfare state ed è con questa forma di intervento che nascono i diritti-spettanze, ovvero quei diritti che derivano dal diritto sociale di cittadinanza, questi tipi di diritti sono dispositivi che danno titolo a ottenere risorse dallo stato (ad esempio il diritto alla pensione). L’assicurazione sociale è un intervento pubblico che mira all’erogazione di prestazioni standardizzate, rese in forma automatica ed imparziale sulla base di precisi diritti/doveri contributivi e secondo modalità specializzate e centralizzate. Attualmente gli schemi assicurativi pubblici si basano sull’obbligatorietà dell’adesione e sul finanziamento tramite contributi. L’assicurazione sociale ha potuto coprire rischi difficili come la disoccupazione, inoltre ha consentito di attivare flussi redistributivi non solo in direzione orizzontale (fra non danneggiati e danneggiati), ma anche verticale (dai redditi più elevati a quelli meno elevati). L’obbligatorietà dell’assicurazione sociale ha aumentato le capacità dello Stato di incidere sulle condizioni di vita dei cittadini, redistribuendo risorse ed opportunità in base ai vari criteri di equità. - SICUREZZA SOCIALE – E’ rivolta non solo ai bisognosi ma tutti i cittadini che godono dei diritti di cittadinanza ; il termine nasce negli Stati Uniti inizialmente come schema di assicurazione obbligatoria contro la vecchiaia, l’invalidità e il sostegno ai superstiti introdotti con il social security Act del 1935. Nel 1938 in Nuova Zelanda il termine viene introdotto con il primo servizio sanitario nazionale completamente fiscalizzato (finanziato dal gettito fiscale e non da contributi sociali) rivolto alla popolazione residente. La sicurezza sociale nasce durante la Seconda Guerra Mondiale come nuovo sistema di protezione esteso a tutta la popolazione attiva per quanto riguarda la garanzia del reddito e a tutti i cittadini per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, e volto a fornire prestazioni uniformi, corrispondenti a un minimo nazionale, ritenuto indispensabile per condurre una vita dignitosa e perciò scollegate dai contributi eventualmente versati. La Svezia fu il primo paese ad adottare il nuovo approccio in campo pensionistico nel 1946 istituendo il primo esempio di pensione popolare, non contributiva e a somma fissa (non dipende dal lavoro svolto), fruibile da tutti i cittadini di più di 65 anni, senza prova dei mezzi (CAMBIO RISPETTO A ASSISTENZA E ASSICURAZIONE). Dopo le riforme anglo-scandinave l’accezione prevalente del termine sicurezza sociale è quella di uno schema di protezione obbligatorio caratterizzato da copertura universale e prestazioni uguali per tutti. Rispetto all’assicurazione sociale, la sicurezza sociale si differenzia anche per l’assenza di collegamento fra la fruizione dei benefici e la partecipazione specifica al loro finanziamento da parte dei beneficiari Schematicamente, le caratteristiche delle tre modalità tipiche di intervento pubblico a fini di protezione sociale sono: Assistenza Assicurazione Sicurezza Copertura Universale, ma selettiva (offerta a tutti coloro che hanno certi bisogni) Occupazionale Universale Condizioni D’accesso Stato di bisogno Storia contributiva Cittadinanza Residenza Prestazioni Connesse al bisogno Contributive/retributive Omogenee Finanziamento Fiscale Contributivo Fiscale - Le principali politiche sociali sono: a. le politiche pensionistiche (interessano principalmente la vecchiaia); b. le politiche sanitarie (riguardanti il rischio di malattia); c. le politiche del lavoro (riguardanti il rischio di disoccupazione); d. le politiche di assicurazione sociale (riguardanti vari ambiti del vivere sociale); e. le politiche per la casa f. le politiche educative. UNA PANORAMICA STORICA -L’evoluzione storica del welfare state in Europa può essere suddivisa in 5 fasi: a. instaurazione; b. consolidamento; c. espansione; d. crisi; e. riforma. a) FASE dell’INSTAURAZIONE (1880-1920) Il retroterra storico del moderno welfare state è rintracciabile nelle misure di assistenza ai poveri sviluppatesi in diversi Paesi europei (primo tra tutti l’Inghilterra) a partire dal 1600 e che interessavano situazioni di povertà, indigenza, mendicità, ecc. Il punto di partenza fu l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria, avvenuto in quasi tutti i Paesi europei alla fine del 1800. I trent’anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale individuano un periodo di sviluppo molto intenso ed esteso della spesa sociale. Questo periodo fu pertanto chiamato il “trentennio glorioso”, durante il quale in tutti i Paesi si verifica una costante estensione e un miglioramento della protezione offerta dallo Stato. In questo periodo si ha la massima espansione del modello capitalistico di tipo industriale e l’affermarsi della società salariale. Nei paesi anglo-scandinavi si realizza un estensione della copertura in senso verticale (estesa quindi anche ai non bisognosi). Si diffonde un modello universalistico di welfare, basato su schemi omnicomprensivi, fondato su principi egualitari, prevalentemente finanziato dal gettito fiscale. Nei paesi dell’Europa continentale il welfare si è sviluppato principalmente in senso orizzontale, coprendo quindi gradualmente i buchi dell’assicurazione sociale. In questa area si è consolidato il modello di welfare occupazionale, basato su formule di protezione differenziate, prevalentemente finanziato dai contributi sociali. Durante questi anni, la spesa sociale cresce a ritmo sostenuto, così come la ricchezza dei Paesi, anche grazie alla razionalizzazione delle modalità di estrazione di imposte e contributi e al miglioramento della capacità di governare i flussi redistributivi dal centro e di erogare le prestazioni alle diverse categorie sociali. In particolare, si sviluppa lo schema pensionistico a ripartizione attraverso il quale i contributi versati dalla generazione attiva finanziano immediatamente le prestazioni a favore della generazione non attiva. Si sviluppano anche schemi di natura non assicurativa per l’erogazione di prestazioni e servizi di assistenza sociale e si sviluppano sistemi sanitari pubblici sempre più complessi d. FASE della CRISI (metà anni ’70 – anni ’90) In seguito alle trasformazioni socio-economiche che definiscono la fine del modello di sviluppo capitalistico di tipo industriale e la crisi della società salariale, si verifica la conseguente crisi del welfare state che si sostanzia nella crescente inadeguatezza delle “vecchie” soluzioni di fronte ai “nuovi” problemi delle società post-industriali. Si possono così riassumere alcune questioni connesse alla crisi del welfare: a. sia il modello universalistico che quello occupazionale davano per scontata un’ economia in continua e rapida crescita. Dalla metà degli anni ’70 le economie occidentali entrano in crisi e fanno registrare tragici cali nei loro tassi di crescita con la contemporanea comparsa di deficit e debito pubblico. b. Il welfare state era costruito su modelli societari di tipo industriale dove le logiche fordiste erano predominanti(consumi e produzione di massa e forza lavoro prevalentemente maschile occupata soprattutto nelle fabbriche). A partire dagli anni ’70 prende forma un modello post-industriale e post-fordista basato su nuovi modelli produttivi, crescita dei servizi, decentramento produttivo, flessibilità dei rapporti di lavoro e consumi differenziati. c. Si modificano le strutture familiari e viene meno la stabilità della famiglia e dei matrimoni. Si modifica anche la divisione dei compiti all’interno della famiglia stessa. A partire dagli anni ’70 cominciano a crescere i tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro. d. I differenti modelli di welfare state facevano riferimento a modelli di sviluppo demografico equilibrati. A partire dalla metà degli anni ’70 cala la fertilità e cresce la quota di popolazione anziana. Nel corso del periodo crescono anche i flussi migratori dai Paesi meno sviluppati. e. I modelli di welfare state poggiavano sulla solidità e centralità dello Stato- nazione sia ai fini della redistribuzione sia ai fini della giurisdizione. L’internazionalizzazione economica, la globalizzazione e l’integrazione europee hanno minato le stessa fondamenta politico – istituzionali. e) FASE della RIFORMA (a partire dagli anni ’90) La chiave di volta del processo di riforma del welfare è essenzialmente di tipo finanziario. Il tema della compatibilità economica della spesa sociale è stato al centro delle agende politiche a partire dai primi anni ’90.Questo processo si è ulteriormente intensificato a causa del processo di unificazione europea. Il contenimento dei costi ha interessato principalmente i settori pensionistico e sanitario costantemente influenzati dalle dinamiche demografiche. Per quanto riguarda le pensioni, i principali cambiamenti hanno riguardato l’età pensionabile, mentre nel settore sanitario sono state introdotte misure di contenimento dei costi (ad esempio, misure di compartecipazione finanziaria degli utenti) e misure volte ad ottenere anche un miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia dei servizi. Il termine più adeguato per designare il delicato processo di riadattamento istituzionale del sistema del welfare è quello di ricalibratura. Numerosi furono i termini usati nel dibattito sulla crisi e riforma del welfare: tagli, ridimensionamento, modernizzazione, riconfigurazione, ristrutturazione, razionalizzazione e ricalibratura. Di questi termini, ricalibratura sembra essere il più efficace. Esso è stato proposto da Ferrera, Hemerijck e Rhodes per designare un processo di cambiamento in cui si evidenzia una interdipendenza tra scelte espansive e migliorative e scelte restrittive o sottrattive. Il concetto di ricalibratura può essere scomposto evidenziando tre sottodimensioni: o ricalibratura funzionale: si riferisce agli interventi di cambiamento volti a ribilanciare le diverse funzioni di protezione sociale (esempio: contenimento della tutela della vecchiaia e promozione di nuovi schemi di assistenza all’infanzia); o ricalibratura distributiva: si riferisce a quegli interventi che mirano a ribilanciare il grado di protezione sociale dalle categorie ipergarantite (esempio i dipendenti pubblici) a quelle sottogarantite (esempio persone in cerca di occupazione); o ricalibratura normativa: iniziative di natura simbolica (esempio discorsi pubblici) che forniscono argomentazioni e buone ragioni per trasformare lo status quo. Relativamente alle diverse tipologie di welfare, esse si distinguono sulla base dei seguenti elementi: a. la gamma e la generosità delle prestazioni; b. l’accesso e le caratteristiche dei destinatari; c. le modalità di finanziamento; d. le modalità di differenziazione. Nella descrizione delle principali tappe di sviluppo del welfare state, è già emerso la più importante distinzione tra i modelli di welfare: modelli universalitici o beveridgeani e modelli occupazionali o bismarckiani, che si distinguono principalmente sulla base del diverso “formato di copertura” (cioè in base alle regole di accesso ai principali schemi di protezione sociale). Modello Occupazionale puro Modello Occupazionale misto Modello Universalistico puro Modello Universalistico misto Francia Italia Svezia Inghilterra Belgio Olanda Norvegia Germania Svizzera Danimarca Austria Finlandia I modelli misti emergono durante il “trentennio glorioso”. Essi si caratterizzano per la prevalenza degli elementi del modello citato, ma anche per la parziale presenza di elementi tipici dell’altro tipo di modello. Il primo tentativo di classificazione del welfare state è stato operato da TITMUSS (1974) che identifica tre modelli di politica sociale: 1) MODELLO RESIDUALE – Lo Stato si impegna al minimo, limitandosi ad interventi di carattere temporaneo in risposta a bisogni individuali e solo quando gli altri canali di intervento (esempio famiglia e mercato) non riescono ad attivarsi. Si tratta dei tratti tipici dell’ASSISTENZA. 2) MODELLO ACQUISITIVO-PERFORMATIVO– Lo Stato fornisce protezione ‘completando’ quella fornita dal sistema economico-sociale generale. Essa è legata alla posizione occupazionale dell’individuo. Si tratta dei tratti tipici dell’ASSICURAZIONE. 3) MODELLO ISTITUZIONALE-REDISTRIBUTIVO – Lo Stato pensa a tutto, come avviene tipicamente nell’ambito della SICUREZZA SOCIALE. In seguito alle trasformazioni che hanno caratterizzato i sistemi di welfare state nella loro fase evolutiva fino agli anni ’70, sono diventate centrali specifiche questioni: 1. le formule di computo delle prestazioni; 2. campo e qualità dei servizi; 3. modalità di gestione e finanziamento. Secondo Esping-Andersen (1990)durante il lungo periodo espansivo del capitalismo keynesiano, si sono consolidati tre specifici regimi di welfare. Con l’espressione “regime di welfare”, Esping-Andersen intende riferirsi non solo alle politiche sociali dello Stato, ma al sistema di relazioni tra Stato, famiglie e mercato del lavoro. aspra competizione politica tra destra e sinistra; diffusione di orientamenti ostili al mercato, al capitalismo e al riformismo di stampo socialdemocratico. L’attenzione più recente è rivolta alla cosiddetta quinta Europa sociale che comprende i Paesi ex comunisti dell’Europa centro-orientale entrati a far parte dell’Unione europea. IL WELFARE STATE ITALIANO Il nostro paese è in linea con gli altri Stati, per quanto riguarda la spesa totale, differisce per la composizione interna della spesa. La maggior parte delle nostre uscite riguardano il sistema pensionistico. È presente quindi una distorsione di tipo funzionale ma anche di natura distributiva, perché all'interno delle varie funzioni di spesa, vi è un netto divario di protezione fra le diverse categorie occupazionali. Possiamo individuare tre diversi gruppi sociali: – il gruppo dei garantiti che è composto da lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche e delle grandi imprese. Hanno una protezione elevata. – Il gruppo dei semigarantiti che è composto dai lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi e i lavoratori atipici. Hanno la pensione al minimo e per gli altri rischi le tutele sono limitate o assenti – il gruppo dei non garantiti che è composto dai lavoratori in nero. Il rischio vecchiaia è garantito con la pensione o assegno sociale, per tutti gli altri rischi non sono garantiti (salvo la sanità). Le cause sono da ricondurre alle logiche politiche della Prima Repubblica dal 1948 al 1992, imperniato sul governo dei partiti, bassa statualità, polarizzazione ideologica destra sinistra → partitocrazia distributiva per la cattura del consenso. Il modello italiano ha presentato forti problemi riguardo l'efficienza, l'efficacia e l'equità. Quando un welfare non offre la possibilità ai giovani di acquisire autonomia, la famiglia diviene l'unico ammortizzatore sociale, questo crea un circolo vizioso che frena anche la domanda di cambiamento da un punto di vista politico. Il familismo italiano ha creato problemi sul piano economico, sociale e politico. A partire dal 1992 è iniziata tuttavia una fase di riforma. Con il primo governo Prodi, si individua la distorsione distributiva, come il principale problema, vine nominata la commissione Onofri che individua i due obiettivi da conseguire per il riequilibrio del welfare: – la riduzione delle risorse impiegate per le assicurazioni delle classi medio alte ( passaggio da ipertutelate a sottotutelate) – attenuare la generosità di alcune prestazioni e accrescere la protezione delle classi deboli La commissione Onofri presentò proposte per i settori delle pensioni, degli ammortizzatori sociali, per la sanità, della famiglia, dei servizi sociali e del contrasto alla povertà. Le principali cause della svolta: – pressioni crescenti dalla globalizzazione dei mercati finanziari – i nuovi assetti politici-istituzionali. Il passaggio dalla prima Repubblica alla seconda, Tangentopoli. Le elezioni del 1994 portarono alla scomparsa dei vecchi partiti ( arriva Forza Italia) e ricambio massiccio del personale politico. I governi Amato, Ciampi, Dini e Prodi vararono riforme incisive e il rischio di rimanere fuori dall'Europa creò un'urgenza ulteriore, dove anche i sindacati fecero marcia indietro. Anche se le riforme che si avviarono nel 92 furono tuttavia modeste e la distorsione funzionale è ancora visibile. La crisi del 2008 mise in luce le enormi carenze strutturali del nostro sistema di welfare. CAPITOLO 2 LE POLITICHE PENSIONISTICHE Verso la fine del XIX secolo vennero istituite le prime forme di assicurazione obbligatoria per la tutela dei lavoratori nel caso di infortunio sul lavoro. Iniziarono a diffondersi anche programmi per la tutela della vecchiaia che nel 900 sono stati la prima voce di spesa sociale nella maggior parte delle nazioni europee ed in Italia in particolare. I CONCETTI FONDAMENTALI La pensione è la prestazione pecuniaria vitalizia prevista a fronte dei rischi di vecchiaia e invalidità nonché in relazione al grado di parentela con un assicurato o un pensionato defunto. Le forme della tutela della vecchiaia costituiscono la maggior quota delle pensioni erogate soprattutto in Italia, dove negli ultimi 20 anni la crisi della previdenza ha investito principalmente il settore della protezione della vecchiaia. VECCHIAIA PREMORIENZA INVALIDITA’ Le pensioni che spettano al parente in caso di premorienza sono di due tipi: – se l'assicurato raggiunge i requisiti minimi per il pensionamento, muore prima di essersi ritirato dal lavoro, il coniuge riceve la pensione indiretta – se muore dopo il pensionamento, il coniuge riceve la pensione di reversibilità. Anche in caso di invalidità esistono due tipi: – la pensione di invalidità previdenziale percepita a fronte della perdita di capacità lavorativa dai lavoratori assicurati – la pensione di invalidità civile percepita dagli invalidi civili, ai ciechi e ai sordomuti che si trovano in condizioni di bisogno tramite la prova dei mezzi La politica pensionistica sono le azioni attraverso cui viene tutelata la vecchiaia. In Europa la tutela della vecchiaia può essere affidata al settore pubblico, al settore privato (banche, fondi pensione, assicurazioni..) o a entrambi sottoposti a normativa nazionale. Il finanziamento del sistema è assicurato dal versamento di parte del reddito percepito da lavoratori e/o cittadini. Nei paesi europei si possono individuare quattro tipi di prestazioni a tutela della vecchiaia, che si differenziano in base ai beneficiari, alle condizioni di accesso e per la diversa funzione svolta: previdenziale, di assistenza sociale e di sicurezza sociale. Le pensioni previdenziali di vecchiaia e di anzianità sono rivolte ai lavoratori e sono appunto previdenziali, puntano a mantenere il reddito nel periodo di quiescenza e sono finanziata, in parte dai contributi versati precedentemente. Si differenziano per le condizioni di accesso. La pensione previdenziale di vecchiaia, è la forma tipica, viene erogata al raggiungimento dell'età pensionabile, ed è condizionata dal versamento di contributi minimi, che varia a seconda dei paesi. L'età pensionabile può essere fissa o flessibile, ovvero rientrare fra un'età anagrafica minima e massima. In alcuni paesi è possibile ottenere una pensione anticipata (prima dell'età minima) a fronte di una decurtazione dell'importo della prestazione. Mentre per la pensione previdenziale di anzianità, non è necessario raggiungere un'età pensionabile, ma la prestazione viene garantita se si raggiunge un numero prestabilito di anni di contributi versati (utile per che ha iniziato a lavorare molto presto). La pensione sociale è di tipo assistenziale, vuole garantire un livello minimo di reddito a tutti gli individui che, superata l'età pensionabile, non hanno diritto ad altre pensioni. L'accesso a questa prestazione viene stabilito con la prova dei mezzi. Nel nord Europa esiste anche la pensione di base che garantisce un livello minimo di reddito a tutti i cittadini anziani, una somma fissa per tutti. Le pensioni sociali e quelle di base sono appannaggio dello Stato, quelle previdenziali vengono erogate sia dagli enti pubblici che privati. Le prestazioni pensionistiche sono finanziate dal finanziamento fiscale e dal finanziamento contributivo. Generalmente il primo paga le pensioni assistenziali, il secondo quelle previdenziali. Nel primo caso le tasse confluiscono nel circuito delle finanze pubbliche e poi trasferite a un ente responsabile delle erogazioni. Nel sistema finanziato dai contributi ci sono due alternative: – a capitalizzazione= creazione del risparmio attraverso il versamento, l'accumulo e l'investimento dei contributi sociali. I contributi si versano in conti individuali, poi riconvertiti in rendita al momento della pensione – a ripartizione= si fonda sullo scambio di una quota del proprio reddito da lavoro con il diritto a una porzione di reddito futuro. I contributi versati vengono utilizzati per pagare le pensioni di adesso, ma hanno la garanzia che gli sarà versata la pensione quando si ritireranno dal lavoro. Le prestazioni vengono erogate con tre modalità: – a somma fissa utilizzato per le pensioni di base e sociali – col sistema retributivo viene calcolata in percentuale la media dello stipendio percepito in: tot anni retribuzione pensionabile (generalmente vengono considerati gli ultimi anni della carriera o i migliori). – Col sistema contributivo viene calcolata la prestazione in rapporto alla somma dei contributi versati più il tasso di rendimento. Il sistema contributivo e quello retributivo possono combinarsi con i modelli a capitalizzazione e a ripartizione, generando quattro modelli alternativi di schemi previdenziali – due a ripartizione: retributivo e contributivo – due a capitalizzazione: denominati a prestazione definita e a contribuzione definita. Nei modelli contributivi, i rischi di un andamento sfavorevole sono direttamente assunti dagli assicurati A metà degli anni 90 si parla di pilastro pensionistico in quanto sia divenuto un sistema particolarmente articolato e complesso in tutta Europa. Il primo pilastro in quanto la protezione della vecchiaia viene affidata a schemi pubblici. Al secondo pilastro ci Con la riforma del 1969 si definiscono i tratti fondamentali delle prestazioni, inanzitutto si passa da contributivo a retributivo, la prestazione pensionistica corrisponde all'incirca all'80% della retribuzione, ma soprattutto viene sostituito il sistema a capitalizzazione con quello a ripartizione. Il risultato dei numerosi interventi espansivi è stato un sistema pensionistico estremamente frammentato lungo le linee occupazionali, con molti schemi differenti per le varie categorie e oneroso con l'emergere di ragguardevoli sbilanci nei conti dell'INPS e un forte incremento della spesa pensionistica sul PIL. Bisogna dire che le pensioni divennero uno strumento per i partiti per ricevere consensi favorevoli che provocò quel “welfare state all'italiana”, caratterizzato dallo sbilanciamento funzionale a favore della tutela alla vecchiaia a discapito di altri rischi, come la disoccupazione, i carichi familiari, la povertà, l'esclusione sociale. Dagli anni 80 si cercherà di rimediare seguendo una direzione di tipo previdenziale anche se i partiti giocano ancora alla raccolta dei consensi, dove anche i sindacati avevano molto potere decisionale CAPITOLO 3: LE POLTICHE DEL LAVORO - CONCETTI FONDAMENTALI Per politiche del lavoro si intende quell’insieme di interventi pubblici rivolti alla tutela dell’interesse collettivo all’occupazione. I principali compiti svolti da queste politiche sono: 1. La regolamentazione del mercato del lavoro: disciplina dei rapporti di lavoro, norme sulla sicurezza e sulla salute sul posto di lavoro o sulla non discriminazione sindacale, politica, religiosa, etnica e di genere; la regolazione delle modalità di incontro tra domanda e offerta; definizione di un quadro istituzionale di controllo delle dinamiche retributive. 2. La promozione dell’occupazione. 3. Il mantenimento o la garanzia del reddito contro il rischio di disoccupazione. Possiamo distinguere due tipi generali di politiche del lavoro: 1) POLITICHE PASSIVE; 2) POLITICHE ATTIVE Le politiche passive del lavoro concernono le prestazioni monetarie erogate a favore dei disoccupati. In tutti i paesi europei è presente un sistema di ammortizzatori sociali, cioè strumenti di tutela del reddito dei disoccupati, che si articola generalmente in tre livelli o “pilastri”: • Un pilastro assicurativo, nel quale le prestazioni sono erogate per una durata definitiva e fu creato per primo tra gli anni 10 e gli anni 50; • Un pilastro assistenziale dedicato, che prevede l’elargizione di sussidi di disoccupazione, sulla base di requisiti di reddito. Le crisi occupazionali degli anni 30 e del secondo dopoguerra spinsero molti paesi a istituire il secondo pilastro per fornire assistenza ai disoccupati bisognosi privi della tradizionale tutela previdenziale, • Un pilastro assistenziale generale, dove le prestazioni forniscono un reddito minimo garantito e a differenza degli altri due precedenti costituisce un’acquisizione più recente. Nel primo pilastro, per quel che riguarda le condizioni che determinano la fruizione delle indennità di disoccupazione, possiamo identificare elementi comuni. La disoccupazione deve essere di natura involontaria; il lavoratore deve soddisfare determinati requisiti di anzianità contributiva; il lavoratore ha poi l’onere di assolvere a specifici adempimenti amministrativi. Alcuni paesi hanno introdotto alcuni vincoli di attivazione, ad esempio la disponibilità a frequentare corsi di orientamento e di formazione; il mancato adempimento viene sanzionato con una sospensione dell’erogazione della prestazione che può variare in base al paese. In merito al finanziamento delle indennità di disoccupazione esso avviene sulla base di contributi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro, con una percentuale di contribuzione a carico dell’una o dell’altra categoria che cambia da paese a paese. In caso di mancata copertura interviene di norma lo Stato, attraverso la fiscalità generale. La generosità della prestazione viene definita dall’entità del suo importo e dalla durata di erogazione. Il rapporto tra l’ammontare dell’indennità di disoccupazione e la retribuzione precedentemente percepita individua il cosiddetto tasso di sostituzione, che è una delle misure della generosità economica delle prestazioni di disoccupazione. La durata della prestazione è soggetta a variazioni a seconda delle legislazioni nazionali. Dipende dall’anzianità contributiva e dall’età anagrafica del percettore di sussidio. Esistono anche schemi assistenziali di integrazione del reddito in caso di disoccupazione che consistono nell’elargizione di sussidi sociali a favore di quei lavoratori privati di copertura assicurativa. Il loro importo consiste di norma in un ammontare forfetario finanziato attraverso il fisco e di durata soggetta a verifiche periodiche. 2) POLITICHE ATTIVE Le politiche attive del lavoro comprendono gli interventi volti ad incidere direttamente sulla struttura complessiva del mercato del lavoro creando nuova occupazione o intervenendo sulle possibili cause della disoccupazione. Si dividono in 5 gruppi: 1. Sussidi all’occupazione 2. Creazione diretta temporanea di posti di lavoro 3. Formazione professionale 4. Sostegno finanziario e servizi per la nuova imprenditorialità 5. Servizi per l’orientamento ed il collocamento lavorativo. Le prime due misure riguardano l’elargizione di trattamenti monetari sotto forma di incentivi o l’attivazione diretta di posti di lavoro per favorire l’inserimento di categorie a rischio di emarginazione sociale. La terza misura mette l’accento sul valore del capitale umano. Rientrano nelle politiche attive del lavoro tutte le funzioni svolte dai servizi per l’impiego ed indirizzate ad assistere la persona in cerca di occupazione. LE POLITICHE DEL LAVORO IN ITALIA -le prestazioni di disoccupazione Il sistema italiano di protezione del reddito dei disoccupati si articola in una molteplicità di prestazioni riconducibili a due schemi principali: 1. Uno schema rivolto alla disoccupazione totale, che prevede prestazioni a tutela del rischio della disoccupazione a seguito dell’interruzione involontaria del rapporto di lavoro; Questo schema prevede: 1a) indennità ordinaria di disoccupazione: prevede un importo nella misura del 40% della retribuzione percepita nei tre mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro e viene corrisposta per una durata di 180 giorni. Hanno diritto ad accedervi i lavoratori dipendenti licenziati che possono vantare almeno due anni di assicurazione per la disoccupazione volontaria e un’anzianità contributiva di almeno un anno nel biennio precedente la disoccupazione. L’indennità è finanziata da contributi a carico del datore di lavoro. 1b) indennità di disoccupazione a requisiti ridotti: per coloro che abbiano svolto nell’anno precedente almeno 78 giornate lavorative e abbiano versato almeno un contributo settimanale prima del biennio precedente l’anno della richiesta dell’indennità. L’importo non è superiore al 30% della retribuzione media giornaliera e di durata uguale al numero di giornate lavorative effettivamente prestate nell’anno precedente, per un periodo comunque non superiore a 156 giornate. 1c) indennità ordinaria di disoccupazione per gli operai agricoli : per chi ha versato almeno 102 contributi giornalieri nel biennio precedente la domanda. Prevede un importo pari al 30% della retribuzione percepita, per una durata uguale al numero di giornate lavorate. 1d) trattamento speciale per gli operai agricoli: devono dimostrare di aver lavorato a tempo determinato nell’anno a cui si riferisce la prestazione, di aver prestato 151 giornate lavorative come dipendenti oppure di risultare iscritti negli elenchi nominativi della loro categoria per un numero di giornate compreso tra le 101 e le 150. Il trattamento corrisponde al 66% della retribuzione media. 1e) trattamenti speciali a favore dei lavoratori delle imprese edili: durata di 90 giorni, per coloro che abbiano versato almeno 10 contributi mensili o 43 settimanali per le mansioni prestate. L’importo corrisponde al 100% della Cassa integrazione straordinaria per i primi 12 mesi e dell’80% per i periodi successivi. diminuzione delle uscite per i trattamenti di disoccupazione a fronte di una crescita tendenziale della spesa per le politiche attive del lavoro. Per quanto riguarda la ripartizione interna delle politiche passive del lavoro, la principale voce di spesa risulta essere costituita dall’indennità di disoccupazione ordinaria non agricola, seguita poi dall’indennità di disoccupazione per il settore agricolo e da quella di mobilità. Per quanto riguarda le politiche attive del lavoro, la maggior parte delle uscite è destinata a forme di incentivazione, soprattutto rivolte alle assunzioni, mentre una percentuale minore è riservata alla formazione professionale. IL MODELLO ORIGINARIO DELLA POLITICHE DEL LAVORO -il quadro storico e comparato Le prime forme di protezione del rischio di disoccupazione risalgono all’Ottocento. In Inghilterra nel 1831; nella seconda metà del XIX secolo questa pratica si diffuse in tutta Europa, anche come un primo strumento di politica statale. Negli ultimi decenni del XIX secolo molti paesi europei registrarono prolungate ondate di disoccupazione che misero in crisi le casse sindacali, ai sindacati si affiancarono così i governi locali. Nel 1901 venne introdotto in Belgio il “sistema di Gand”, il quale prevedeva sussidi comunali pari al 50-75% delle prestazioni fornite dalle casse sindacali operanti nell’area. Si trattava di uno schema assicurativo pubblico volontario, con finanziamenti anche da parte del comune. Nel primo trentennio del 900 si svilupparono i programmi di tutela nazionali. Dapprima lo stato intervenne per sovvenzionare i programmi esistenti o per istituire schemi nazionali volontari sovvenzionati: i paesi pionieri di questa direzione furono la Francia, l’Olanda, il Belgio e i paesi nordici; il primo paese ad introdurre l’assicurazione pubblica obbligatoria fu l’Inghilterra nel 1911. Il versamento delle prestazioni iniziava solo dopo un certo lasso di tempo. L’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione si diffuse rapidamente in altri paesi europei dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. L’Italia, introducendo con il governo Nitti nel 1919 l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, fu il primo paese a seguire l’esempio inglese. L’evoluzione istituzionale nei vari paesi ha prodotto diversi modelli di tutela del rischio economico di disoccupazione, articolati lungo un pilastro assicurativo e due pilastri assistenziali, l’uno dedicato e l’altro di carattere generale. Questi modelli sono: • Modello scandinavo: schemi di assicurazione volontari, prestazioni generose. Negli anni più recenti la Svezia e la Finlandia hanno introdotto schemi assicurativi statali per i lavoratori non iscritti al sindacato. I due pilastri assistenziali rimangono sotto la responsabilità dell’amministrazione statale e prevedono trattamenti a somma fissa, a carico della fiscalità generale. • Modello anglosassone: prevede un solo schema, con formula di prestazione a somma fissa: la cosiddetta jobseeker’s allowance. Essa si suddivide in due tipi: un’indennità della durata massima di sei mesi per i lavoratori dipendenti che abbiano versato un certo numero di contributi e un’indennità prevista per tutti gli altri disoccupati soggetta alla prova dei mezzi. Esiste uno schema di protezione di ultima istanza. • Modello continentale: presenta una serie di schemi di protezione riconducibili ai tre pilastri generali. Nel pilastro assicurativo troviamo prestazioni, finanziate prevalentemente da contributi, con tassi di sostituzione e durate che variano. Il pilastro assistenziale dedicato offre tutela economica sia alle persone che hanno esaurito il diritto alla prestazione, sia a persone che non rispondono ai requisiti minimi di accesso al trattamento assicurativo. La gestione del primo e del secondo pilastro è affidata generalmente ad enti che prevedono la rappresentanza tripartita dei lavoratori, mentre gli schemi di garanzia del reddito minimo sono amministrati di norma dagli enti locali. Il secondo ed il terzo pilastro sono finanziati tramite il ricorso alla fiscalità generale. • Modello iberico: presenta tratti simili a quello continentale, differenziandosi per la minore generosità delle prestazioni del primo e del secondo pilastro ed il recente sviluppo del terzo pilastro. Nel corso del XIX secolo tutti i paesi europei hanno introdotto almeno altre due forme di intervento rivolte al mercato del lavoro: norme di regolazione dei rapporti di lavoro e programmi pubblici volti a favorire l’inserimento occupazionale. -L’articolazione e il consolidamento iniziale del sistema italiano di politiche del lavoro In Italia l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria prevedeva l’erogazione di un’indennità giornaliera, limitata ai soli lavoratori del settore industriale, in grado di vantare almeno due anni di anzianità contributiva. La Seconda Guerra Mondiale lascia problemi tra i quali la disoccupazione e inflazione; venne introdotta la Cassa integrazione guadagni (CIG). La CIG prevedeva l’erogazione di integrazioni salariali, per una durata massima di 90 giorni, a compensazione del 75% della retribuzione persa. La CIG, in Italia, a partire dagli anni 70 divenne uno dei principali ammortizzatori sociali. Venne introdotto anche un sussidio straordinario di disoccupazione, come misura a scopo assistenziale per la tutela dei redditi di alcune categorie di disoccupati. Verso la fine degli anni 40 fu adottato il monopolio pubblico sul collocamento. Nel 1949 la legge 264 (legge Fanfani) predisponeva una riforma complessiva del sistema del collocamento. Le principali novità che sono state introdotte sono: 1) La competenza esclusiva del collocamento venne affidata al ministero del lavoro, il quale avrebbe operato attraverso gli Uffici provinciali del lavoro; 2) Venne definito un rigido sistema basato sul controllo degli avvenimenti da parte dello Stato. Il collocamento delle persone in cerca di occupazione poteva avvenire secondo tre canali: quello della richiesta o chiamata numerica; quello della richiesta o chiamata nominativa e quello dell’assunzione diretta. Il sistema del collocamento pubblico finiva con l’arrecare una discriminazione, proprio nei confronti di quelle categorie di persone a cui tale possibilità era preclusa. Nel 1945 e nel 1946 furono siglati due importanti accordi interconfederali che stabilirono dapprima l’uniformazione delle tabelle retributive in tutto il paese e poi l’introduzione di un meccanismo di adeguamento dei salari all’inflazione, la cosiddetta scala mobile. Questa fu istituita prima nel Nord Italia, per poi estendersi l’anno successivo all’intero territorio nazionale. Nel periodo che va dalla metà degli anni 50 ai primi anni 60, l’Italia attraversò una fase di forte crescita economica caratterizzata da una profonda trasformazione del tessuto produttivo. L’unico provvedimento particolarmente significativo di questo periodo fu l’introduzione dell’apprendistato, che prevedeva l’acquisizione diretta di competenze tecnico-professionali e nel 1962 venne disciplinato anche il contratto a tempo determinato. Nei primi anni Sessanta il boom economico raggiunse la sua massima fase espansiva. Ma presto la situazione economica del paese, a causa della crescita delle tensioni inflazionistiche e della crisi della bilancia commerciale, incominciò a peggiorare. Si manifestarono in questo periodo i primi segnali di una segmentazione del mercato del lavoro che andrà a rafforzarsi nel corso degli anni. Tra la fine degli anni 50 e durante tutto il corso degli anni 60 l’importo dell’indennità di disoccupazione ordinaria, venne progressivamente innalzato fino a raggiungere quota 400 lire nel 1966, mentre la durata delle integrazioni salariali venne prolungata ad un massimo di 18 mesi. La cosa più importante è l’introduzione del 1968 della Cassa integrazione guadagni straordinari per gli operai dell’industria. Questa prevedeva inizialmente l’elargizione, per una durata di 3 mesi, prorogabili in casi eccezionali a 6 o 9 mesi, di sussidi che ammontavano all’80% della retribuzione per le ore non prestate. Questa Cassa sopperiva alla mancanza di un’adeguata protezione economica nei casi di licenziamento collettivo. Con la stessa legge fu introdotto il trattamento speciale di disoccupazione nel caso di licenziamento dei dipendenti delle imprese industriali. Il lavoratore operaio o impiegato doveva vantare almeno 13 settimane o un trimestre di lavoro a carattere continuativo alle dipendenze della stessa azienda per godere, per un periodo massimo di 180 giorni, di un trattamento pari a 2/3 della retribuzione percepita. Nell’autunno del 1969 venne rinnovato il contratto nazionale dei metalmeccanici e vennero aboliti i differenziali retributivi per le aree geografiche stabiliti dalla contrattazione collettiva nell’immediato secondo dopoguerra. Dal lato della domanda di lavoro, i processi di ristrutturazione industriale e di ammodernamento tecnologico, portarono a consistenti tagli del personale. Si assiste anche alla crescita della piccola imprenditoria e del lavoro autonomo. Dal lato dell’offerta, la crescita dell’occupazione terziaria e i livelli di istruzione della popolazione sembrano favorire l’aumento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. A fronte di tali difficoltà, i governi europei misero a punto negli anni 80 una serie di iniziative, tra cui politiche macroeconomiche e di carattere restrittivo. Questo per rallentare l’inflazione e la crescita della spesa pubblica. Molti governi promossero misure di riduzione dei trasferimenti monetari per il sostegno del reddito dei lavoratori; vennero introdotti nuovi strumenti di sostegno sociale ai processi di ristrutturazione industriale. In terzo luogo, i vari governi europei perseguirono la strada della deregolamentazione delle condizioni di ingresso e di uscita dal mondo del lavoro. Vennero regolati i primi rapporti di lavoro atipici, ovvero i contratti di lavoro a tempo determinato e i contratti part-time e il lavoro interinale. Infine, assistiamo al rafforzamento dei programmi rivolti alla qualificazione delle risorse umane: la Gran Bretagna inserisce misure di workfare ispirate all’esperienza americana, una serie di provvedimenti rivolti in particolare alla formazione dei giovani disoccupati. -Le politiche del lavoro in Italia negli anni Ottanta Per quanto riguarda la situazione politica, l’Italia apparve profondamente mutata rispetto al decennio precedente. Il PCI assunse un atteggiamento di forte contrapposizione ideologica; protagonista indiscusso fu il Partito socialista di Bettino Craxi che cercava il consenso elettorale. Episodio emblematico che segna un punto di rottura nella storia del movimento sindacale fu la vertenza FIAT del 1980. All’annuncio del licenziamento collettivo di ben 24000 dipendenti, le organizzazioni sindacali risposero con scioperi e il picchettamento dei cancelli della fabbrica. Gli anni 80 sono segnati da tre principali sfide che interessano le politiche del lavoro dei paesi europei: 1- la prima sfida è connessa alla crisi economica degli anni 70 che comportano anche l'aumento dei debiti pubblici nazionali, dovuto anche per la crescita della spesa per le prestazioni sociali. 2- la seconda sfida riguarda la transizione verso economie postindustriali, dove predomina il settore terziario, l'aumento dell'occupazione atipica e soprattutto l'incremento dell'occupazione femminile. 3- la terza sfida è rappresentata dai processi di ristrutturazione industriale e di ammodernamento tecnologico. A queste sfide, i Governi europei rispondono con tre strategie principali. 1) adozione di misure di riduzione della spesa pubblica, di contenimento dell'inflazione e del costo del lavoro, d'ispirazione americana, volti a contrastare il rischio di dipendenza dai sussidi 2) promozione di misure volte a ridurre l'offerta di lavoro, strumenti adottati sono, il prepensionamento, CIG 3) la flessibilizzazione del mercato del lavoro Durante gli anni 80 i governi italiani proseguono sulla strada delle politiche espansive su alcune categorie, che fanno lievitare il debito pubblico. Superata la crisi degli anni 80, i governi sono incapaci di avviare un ripensamento di riforme. Vengono comunque adottati alcuni provvedimenti importanti. In questi anni assistiamo a un declino dei sindacati (frattura decisiva dopo episodio FIAT). Un primo sblocco avviene con l'accordo Scotti, accordo siglato fra il Ministro del lavoro Scotti con le parti sociali, il quale da vita a un modello di scambio politico fra le parti sociali, disponibili a garantire il consenso sulle misure da attuare, e il governo, propenso a concedere benefici a carico della finanza pubblica. Nel 1983 cambiano gli assetti politici, la DC inizia ad arretrare e si forma un governo guidato dal socialista Craxi, il quale non riesce ad accordarsi con le parti sociali e fa ricorso a un decreto legge adottato il 14 febbraio 1984 → decreto san valentino. Comporta uno schieramento, da una parte la CISL, la UIL e la parte socialista della CGIL che sostengono il governo sulla linea di moderazione salariale, dall'altra parte il resto della CGIL non intenzionata a cedere. Per il PCI, che era all'opposizione e la CGIL è una seconda dura sconfitta che segna la profonda crisi del sindacato. In questo spaccato vengono adottati una serie di provvedimenti che modificano il modello originario di politica del lavoro. Dagli anni 80 c'è passaggio dal rigido garantismo a un garantismo flessibile. Nell'83 si introducono i contratti a tempo determinato. Il processo di flessibilizzazione del mercato del lavoro procede con la l. n. 863/1984 che introduce il contratto di lavoro a tempo parziale, il contratto di solidarietà (riduzione dell'orario di lavoro per evitare licenziamento) e il contratto di formazione lavoro. Le misure di sostegno al reddito. Le due novità di rilievo in materia di ammortizzatori sociali riguardano il prepensionamento e alcuni aspetti dell'indennità di disoccupazione. – il prepensionamento introdotto nel 1981, consente a operai e impiegati sopra i 50 anni per donne, e sopra i 55 per gli uomini, con almeno 15 anni di anzianità contributiva, di andare in pensione. – L'indennità di disoccupazione, con la legge del 1988, non viene più erogata in modo forfettario, ma come quota percentuale del precedente reddito da lavoro, ma è a accesso ridotto (almeno 78 giornate lavorative nell'anno precedente), e corrisponde a un risarcimento più che un sostegno economico. Le politiche proattive. Introduzione del contratto di formazione e lavoro, per giovani fra i 15 e i 29 anni, con durata massima di 24 mesi non rinnovabili. La finalità formativa, come nell'apprendistato risulta di scarso valore. Nel 1985 il governo propone un piano decennale di riforme, tra cui la l. n. 44/1986, per favorire l'imprenditoria giovanile del mezzogiorno e la l. n. 56/1987 che riguarda alcune modifiche dell'obbligo della chiamata numerica degli SPI Nella seconda metà degli anni 80 l’Italia attraversò una congiuntura economica più favorevole, invece la disoccupazione non cessò di aumentare. Il ministro del lavoro De Michelis presentò un piano decennale di politiche per l’occupazione, a cui seguirono due importanti provvedimenti legislativi: la legge 44/1986 sull’imprenditoria giovanile nel Mezzogiorno e la legge 56/1987 di riorganizzazione del mercato del lavoro. Il primo intervento pose in essere un sistema di incentivi finanziari per le persone tra 18 e 29 anni, risiedenti nelle regioni meridionali, finalizzato alla costituzione di società o cooperative. Il secondo intervento si pose come obiettivo quello di procedere con un’ulteriore liberalizzazione del collocamento e di ridefinire l’intervento pubblico sul mercato del lavoro. La novità più importante riguardò la creazione in ogni regione delle cosiddette “Agenzie per l’impiego”. Un ultimo provvedimento significativo di questo periodo fu la legge 160/1988 con la quale vennero rivisti gli importi dell’indennità di disoccupazione ordinaria. La prestazione corrisposta fu collegata ad una quota percentuale del precedente reddito da lavoro. La stessa legge introdusse inoltre un’indennità ordinaria di disoccupazione a requisiti ridotti per coloro ai quali era negato l’accesso all’indennità con requisiti normali. ALLA RICERCA DI UN NUOVO MODELLO DI POLITICHE DEL LAVORO -gli anni 90: il decennio della svolta All’inizio degli anni 90 il tasso di disoccupazione ricomincia a crescere. Nel sistema politico italiano l’alleanza tra socialisti e democristiani cominciò a vacillare. In questo periodo assistiamo al crollo dei regimi comunisti e alla fine della guerra fredda. Nell’ottobre 1990 nacque il PDS (Partito democratico della sinistra) che diventò DS (Democratici di sinistra) qualche anno dopo con a capo Prodi. Il culmine della crisi giunse nel 1992 con la “grande slavina” di Manipulite. Andreotti firmò a Maastricht il Trattato dell’Unione Europea, impegnando l’Italia in un processo di risanamento dei conti pubblici e di controllo dell’inflazione. Restava ancora da risolvere l’annosa questione del sistema delle indicizzazioni salariali. Venne sancita una nuova articolazione degli assetti contrattuali sulla base di due livelli non ripetitivi e distinti per materia ed istituti. Il protocollo enunciò una serie di linee guida per la collettivo o non potendone garantire il reimpiego al termine di un provvedimento di sospensione; • La fissazione di norme in materia di riduzione del personale. Tale tentativo di razionalizzazione è stato vanificato. Sul finire del decennio torna il governo Amato, con il collegato alla legge finanziaria del 1999 (legge 144/1999), con la quale si vogliono razionalizzare gli interventi di tutela, estendere le tipologie di beneficiari e rafforzare le misure attive nella gestione degli esuberi strutturali. Un altro elemento di criticità è stato che le riforme hanno mancato di incisività. Il processo di stabilizzazione consensuale avviato nei primi anni del decennio è risultato di fondamentale importanza per il superamento di un periodo di profonde difficoltà per il paese. GLI ANNI 2000 E IL NUOVO CORSO DELLE POLITICHE DEL LAVORO IN ITALIA Nel maggio 1998 l’Italia è ammessa alla terza fase dell’Unione economica e monetaria. L’economia italiana resta comunque fortemente indebolita: è elevato il ritardo nei confronti degli altri paesi occidentali in termini di tasso di occupazione, di crescita economica e produttività. Con l’inizio del nuovo secolo anche il quadro politico muta rapidamente. Nel maggio 2001 la coalizione di centro-destra guidata da Berlusconi esce vittoriosa dal confronto elettorale. Per quanto riguarda le politiche del lavoro assistiamo ad una ridefinizione delle relazioni tra il governo e le parti sociali. Viene pubblicato nell’ottobre 2001, da parte del ministro del welfare Maroni, il Libro bianco sul mercato del lavoro: in questo libro si afferma che il dialogo sociale deve essere considerato uno strumento della politica e non un fine in sé, volto a qualificare i contenuti della politica. Nel Libro bianco emerge l’intento di intervenire in favore dell’innalzamento del tasso di occupazione e dello sviluppo della dimensione qualitativa del lavoro. Tali obiettivi possono essere perseguiti solo spostando il sistema delle tutele dalla garanzia del posto di lavoro, all’assicurazione di un piena occupabilità durante tutta la vita lavorativa. Una terza questione concerne l’accrescimento della flessibilità delle condizioni di inserimento professionale, attraverso la rimozione degli ostacoli normativi all’utilizzo delle forme di rapporto di lavoro flessibili e l’introduzione di nuove tipologie contrattuali. Ma i sindacati, ed in particolare la CGIL, sollevano più di una obiezione alla riforma del governo. Il 15 novembre 2001 il governo approva il d.d.l. 848 che riprende i principali obiettivi del Libro bianco. Si propone di revisionare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con lo scopo di consentire al datore di lavoro la scelta del semplice risarcimento del dipendente licenziato senza giusta causa o giustificazione. È una deroga sperimentale concessa solo alle imprese che superano la soglia dei 15 dipendenti nei casi di: stabilizzazione dei rapporti di lavoro per i dipendenti già assunti con contratti a tempo determinato; assunzione di nuovi lavoratori a tempo indeterminato. Tutto questo creò tensioni. Il governo e la Confindustria vedono nel principio sancito dallo Statuto dei lavoratori il simbolo di quell’insieme di garanzie che intendono espugnare. Dall’altro lato la CGIL considera questa iniziativa come un grave tentativo di ledere i diritti dei lavoratori. La linea di intransigenza seguita dalla CGIL nella vertenza sull’articolo 18 e sul Libro bianco suscita anche malcontenti interni al fronte sindacale. Nel luglio 2002 viene definito il patto per l’Italia, che rappresenta un atto di rottura dell’unità d’azione sindacale. L’intesa del 2002 fa riferimento a tre propositi generali: 1. È riproposta la revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, nel quadro delle misure di promozione dell’occupazione e della crescita dimensionale delle piccole imprese; 2. Vengono ripresi i propositi di riforma della disciplina dei servizi per l’impiego per consentire agli operatori privati lo svolgimento di tutte le tipologie di servizio al mercato del lavoro; 3. È delineata una proposta di riforma del sistema delle tutele attive al fine di incoraggiare il più rapido reinserimento possibile dei beneficiari nel mercato del lavoro. Le proposte contenute nel patto per l’Italia hanno comunque incontrato numerose critiche per la scarsità delle risorse impegnate, giudicate insufficienti a coprire l’innalzamento dei costi dovuti alle nuove indennità di disoccupazione. Una buona parte del patto del lavoro e del d.d.l. 848 ha trovato applicazione nella legge 14 febbrario 2003, n.30, nota come legge Biagi. Essa si muove in due direzioni: approfondisce e amplia il processo di flessibilizzazione in entrata; promuove la liberalizzazione, il rafforzamento e l’ammodernamento dei servizi per l’impiego, attraverso la compartecipazione di attori pubblici e privati. La legge Biagi introduce nuove tipologie contrattuali, allo scopo di favorire l’inserimento nel mondo lavorativo soprattutto dei cosiddetti soggetti deboli. Particolare attenzione è rivolta alle tipologie contrattuali con contenuto formativo attraverso l’istituzione del contratto di inserimento in sostituzione del contratto di formazione e lavoro. Infine, la legge Biagi ribadisce il mantenimento delle competenze regionali e provinciali in materia di collocamento e politica del lavoro. Le novità che vengono introdotte sono: • L’abrogazione del vincolo dell’oggetto sociale esclusivo per le imprese di fornitura di lavoro temporaneo e per tutti gli altri operatori; • La presenza di agenzie per il lavoro; • La costituzione di una Borsa continua nazionale del lavoro che prevede un sistema informatico aperto, basato su una rete di nodi regionali, per la diffusione di informazioni su posti vacanti e occasioni formative, messe a disposizione da operatori pubblici e privati. Con il d.lgs 10 settembre 2003, n,276, modificato dal d.lgs. 6 ottobre 2004, n.251, sono state attuate le deleghe espresse dalla legge Biagi. I sostenitori della legge affermavano che essa avesse portato all’aumento dell’occupazione; i detrattori invece sottolineano la crescita della segmentazione del mercato del lavoro e della precarizzazione delle condizioni di vita del lavoro. Ciò che è sicuro è che non è ancora corrisposto un sufficiente adeguamento delle forme di tutela dei lavoratori coinvolti, soprattutto di quelli che svolgono attività lavorative a carattere discontinuo. CONCLUSIONI: LE POLITICHE DEL LAVORO NEL XXI SECOLO Nel corso degli anni 90 l’orientamento perseguito è quello di rafforzare la capacità di inserimento professionale, ovvero dell’occupabilità delle persone. Le principali direzioni di marcia sono state il rafforzamento delle reti dei servizi per l’impiego; la revisione dei sistemi d’istruzione e di formazione; la promozione della mobilità occupazionale e professionale; la promozione di una maggiore flessibilità delle condizioni di ingresso e di uscita dal mondo lavorativo. La maggior parte dei paesi europei ha promosso l’adozione di politiche di razionalizzazione e ricalibratura della spesa, nell’intento di contrastare i possibili effetti disincentivanti al lavoro ma anche di introdurre nuove forme di sostegno per i lavori atipici. Gli orientamenti di riforma principali sono stati: • La riduzione diretta o indiretta della generosità della protezione; • L’inasprimento delle condizioni per l’accesso ai sussidi o per il mantenimento della loro percezione; • La definizione di forme di attivazione dei percettori di sussidi attraverso l’introduzione di specifici requisiti di condizionalità per l’erogazione dei trattamenti o di percorsi personalizzati per l’inserimento o il re-inserimento nel mercato del lavoro; • L’estensione delle tutele ai rapporti di lavoro atipici e la creazione di nuovi posti di lavoro sussidiati per soggetti deboli; • L’introduzione di trasferimenti integrativi dei bassi salari. L’Italia segue principalmente due strade: da un lato la flessibilizzazione in entrata; dall’altro l’abolizione del regime monopolistico del collocamento pubblico. Il processo di modernizzazione rimane comunque incompleto. Per superare questa situazione ci sono due sfide da affrontare: 1. La riforma del sistema degli ammortizzatori sociali rappresenta il grande assente dallo sforzo di modernizzazione del mercato del lavoro avviato in Italia. 1) Occorre promuovere l’armonizzazione dei diversi schemi definendo un pilastro assicurativo di base con un’unica indennità di disoccupazione, esteso a tutte le categorie di lavoratori in caso di cessazione del rapporto di lavoro; 2) occorre circoscrivere l’ambito di applicazione della Cassa integrazione guadagni; 3) è necessario creare un pilastro assistenziale dedicato sia al fine di tutelare le categorie deboli che non hanno maturato o che hanno esaurito i diritti di accesso al pilastro assicurativo, sia per razionalizzare il ricorso Il sistema sanitario può farsi promotore, presso i decisori pubblici di altri settori, affinchè vengano attuate “politiche sane”: nella produzione dei beni, nei trasporti, nell’energia, nell’alimentazione e nell’agricoltura. Per funzionare il sistema sanitario impiega risorse del sistema economico e li trasforma in prestazioni sanitarie, destinate a migliorare lo stato di salute della popolazione. Per valutare il funzionamento di un sistema sanitario, esso deve essere valutato tenendo conto di 4 parametri: 1) L’efficienza , relativa all’impiego economico delle risorse nel processo produttivo; è misurata dal numero di prestazioni realizzate da un’unità di fattore produttivo impiegato; 2) L’efficacia , misura il contributo dei servizi sanitari al miglioramento dello stato di salute. È misurata dal miglioramento di salute in seguito al consumo di una prestazione sanitaria; 3) I costi, in cui l’indicatore principale è rappresentato dalla spesa sanitaria totale pro capite; 4) L’equità , ovvero l’uguaglianza di accesso alle cure sanitarie. Un sistema ideale deve offrire una giusta combinazione fra tutti questi indicatori. Un sistema ideale deve offrire una giusta combinazione fra tutti questi indicatori. Le risorse impiegate generano redditi per coloro che le prestano. In linea generale i sistemi sanitari dei diversi paesi sviluppati possono essere ricondotti a tre diversi modelli istituzionali, che si differenziano in base al tipo di copertura, al tipo di prestazioni e servizi e al tipo di finanziamento: • Sistema mutualistico; • Servizio sanitario nazionale; • Assicurazioni private di malattia. All’interno dei sistemi di welfare, accanto ai sistemi sanitari, vengono in genere garantite almeno due prestazioni monetarie connesse alla tutela della salute. Esse sono l’indennità di malattia, ovvero una somma che viene pagata in sostituzione della retribuzione ai lavoratori che si ammalano; l’indennità di maternità, a cui hanno diritto le lavoratrici madri e che permette loro di assentarsi per un periodo definito dal posto di lavoro. I sistemi sanitari dei diversi paesi si differenziano dunque sotto il profilo organizzativo, per le dimensioni, l’articolazione istituzionale, le regole di accesso. I principali attori istituzionali di un sistema sanitario sono: • I cittadini, che sono fruitori delle prestazioni e dei servizi sanitari e anche contribuenti; • Gli organi centrali dello Stato e quelli periferici, che svolgono un ruolo centrale nella fase di formulazione e approvazione della normativa sanitaria ed esercitano una presenza rilevante a livello di indirizzo, controllo, oltre che gestione; • Soggetti economico-finanziari che acquistano e vendono le prestazioni sanitarie, sono soggetti pubblici o privati il cui fine istituzionale è l’intermediazione di acquisto e vendita di servizi; • Le strutture di erogazione dei servizi, ovvero ospedali, ambulatori, ecc… IL SISTEMA SANITARIO ITALIANO Il sistema sanitario nazionale è articolato in strutture e gli attori sono divisi in tre livelli di governo. Al livello centrale operano il MINISTERO DELLA SALUTE, IL PARLAMENTO E IL GOVERNO. Il MINISTERO DELLA SALUTE è affiancato da una serie di organismi con funzioni tecniche e di consulenza e ha il compito di mettere a punto il Piano sanitario nazionale che dovrà poi essere approvato dal GOVERNO. Il PARLAMENTO ha il compito di approvare le leggi in materia di sanità e di definire le risorse nazionali a disposizione. Il ministero della salute interagisce anche con la CONFERENZA STATO-REGIONI, che gestisce i rapporti tra il livello centrale ed il livello periferico. La conferenza ha il compito di definire gli accordi sul finanziamento del sistema sanitario. Alle REGIONI tocca il compito di approvare le leggi regionali riguardanti la politica sanitaria e il piano sanitario regionale; nominare i direttori generali a capo delle aziende sanitarie locali e decidere in merito alla ripartizione delle risorse finanziarie alle strutture sanitarie. Le AZIENDE SANITARIE LOCALI intrattengono i rapporti con i medici di base e le aziende ospedaliere. Il risultato è l’erogazione di assistenza medica, ospedaliera e sanitaria ai cittadini i quali concorrono al finanziamento del sistema sanitario nazionale tramite il pagamento delle imposte, o tramite il pagamento dei cosiddetto ticket. Servizi, finanziamento e spesa sanitaria Un sistema sanitario è in genere su tre livelli di assistenza: 1) I SERVIZI MEDICI DI BASE: I quali ruotano intorno al medico di medicina generale, che ha il compito di gestire la salute dei pazienti indirizzandoli verso i servizi di cui necessitano. Il medico di base e il pediatra diventano quindi ordinatori di spesa. 2) LA MEDICINA SPECIALISTICA DI SECONDO LIVELLO: I servizi di secondo livello sono costituiti dagli ospedali e dai servizi specialistici ambulatoriali (ASL. 3) LA MEDICINA DI ALTA SPECIALITA’ O DI TERZO LIVELLO: Tali servizi comprendono malattie o interventi molto rari, o l’impiego di attrezzature costose e per questo motivo riguardano un bacino di utenza esiguo. Va ricordata anche l’assistenza farmaceutica convenzionata che dipende dalle disposizioni dettate ogni anno dalla legge finanziaria. Il personale dipendente del servizio sanitario nazionale è costituito dal personale delle aziende sanitarie locali e dal personale delle aziende ospedaliere (medici, odontoiatri e infermieri). Il finanziamento e la spesa è in gran parte competenza delle regioni. La spesa di divide tra spesa per i servizi a gestione diretta (erogati direttamente dalle strutture pubbliche attraverso soggetti privati) e spesa per assistenza in convenzione/ accreditamento (erogata attraverso soggetti privati). L’EVOLUZIONE STORICA: L’ITALIA IN PROSPETTIVA COMPARATA L’origine dei sistemi sanitari è strettamente connessa ai processi di modernizzazione del XIX secolo, in quanto questi processi hanno aumentato i rischi di epidemia. Il decollo della sanità inizia nel 1832 con lo scoppio dell’epidemia di colera. Anche il peggioramento delle condizioni lavorative ed i maggiori rischi di infortunio sul posto di lavoro hanno favorito l’introduzione di un’assicurazione sociale obbligatoria. Nella fase originaria di sviluppo della sanità hanno avuto un ruolo di rilievo anche le chiese, gli istituti privati di beneficienza e i vari movimenti popolari. Le chiese e gli istituti di beneficienza si dedicarono a garantire assistenza ai meno abbienti, mentre i movimenti politico-religiosi sperimentarono le prime forme di mutualismo sanitario tramite l’istituzione di appositi fondi assicurativi a iscrizione volontaria. Al mutualismo sanitario a carattere volontario ha fatto seguito l’introduzione dell’assicurazione pubblica e obbligatoria contro le malattie. Questo tipo di assicurazione offre prestazioni su base nazionale e non più locale. Tale diritto supponeva un dovere di contribuzione da parte di ogni potenziale beneficiario. Il paese pioniere è stata la Germania con Bismark, che introdusse il primo schema del 1883. Nel periodo che va dall’inizio del XX secolo alla Seconda guerra mondiale il settore sanitario ha registrato una crescita progressiva e lineare del proprio peso istituzionale. Nel secondo dopoguerra si registra un ulteriore e netto rafforzamento della sanità, un indicatore è dato dai tassi di occupazione nel settore sanitario e socio-assistenziale sul totale degli occupati, un altro indicatore è rappresentato dal grado di copertura dell’assistenza sanitaria che è cresciuto progressivamente in tutti i paesi a partire dagli anni 60. La crescente regolazione pubblica della sanità ha originato numerose forme perverse di incentivazione nei confronti dei tre principali protagonisti dell’area sanitaria: i consumatori, i fornitori di prestazioni e i finanziatori. I primi si sono illusi di poter consumare gratis; i secondi sono stati sollevati da ogni vincolo che non fosse quello ippocratico e talora sono stati introdotti all’intensificazione della propria rendita professionale; i terzi si sono riservati pochi poteri di controllo e valutazione e hanno mostrato scarsa efficienza regolativa. La sfida dei costi ha quindi ovunque stimolato la ricerca di nuovi strumenti normativi e organizzativi volti al contenimento dei consumi, al controllo dei fornitori e alla responsabilizzazione dei finanziatori. L’innovazione più rilevante è l’introduzione del servizio sanitario nazionale. Il primo paese ad introdurre un sistema sanitario nazionale nel 1938fu la Nuova Zelanda. Tuttavia l’idea di Le spinte dal versante dell’offerta sono legate alle nuove tecnologie sanitarie, si è verificato un ricorso sempre più intenso a terapie innovative e ad alto contenuto tecnologico, producendo enormi conseguenze sul livello dei costi. I fattori d’offerta influenzano la spesa soprattutto perché vi è un rapporto asimmetrico tra medico e paziente ed è il primo che detiene gli strumenti per influenzare le scelte del secondo. Anche altre dinamiche di ordine economico, politico-istituzionale e culturale hanno giocato un ruolo importante. Il consumo sanitario ha dimostrato di essere correlato al reddito nazionale: la maggior disponibilità economica ha infatti incentivato/consentito un maggior consumo dei beni sanitari. Maggior benessere economico ha però significato anche modernizzazione culturale; l’ultimo quarantennio è caratterizzato dal processo di “medicalizzazione” della salute che ha comportato: una crescita progressiva delle aspettative sanitarie; una progressiva estensione della medicina professionale entro la sfera della salute individuale; una ridefinizione di molti episodi o problemi personali in chiave medica. Questo processo ha comportato un uso sempre più intenso dei diritti sanitarie quindi un onere sempre più gravoso per lo Stato. La crescente regolazione pubblica della sanità ha originato numerose forme perverse di incentivazione nei confronti dei tre principali protagonisti dell’area sanitaria: i consumatori, i fornitori di prestazioni e i finanziatori. I primi si sono illusi di poter consumare gratis; i secondi sono stati sollevati da ogni vincolo che non fosse quello ippocratico e talora sono stati introdotti all’intensificazione della propria rendita professionale; i terzi si sono riservati pochi poteri di controllo e valutazione e hanno mostrato scarsa efficienza regolativa. La sfida dei costi ha quindi ovunque stimolato la ricerca di nuovi strumenti normativi e organizzativi volti al contenimento dei consumi, al controllo dei fornitori e alla responsabilizzazione dei finanziatori. Strategie di contenimento e di realizzazione della spesa sanitaria A dispetto della notevole varietà di provvedimenti, ovvero le strategie di contenimento dei costi e di razionalizzazione della spesa sanitaria dalla fine degli anni 70, le risposte dei principali paesi OCSE, possono essere ricondotte a tre linee principali di intervento: 1. Razionamento dei servizi sanitari: strategia che agisce sul versante della domanda e che mira a ridurre l’insieme dei servizi offerti alla popolazione in condizioni di totale o quasi totale gratuità; 2. Misure di tipo restrittivo sul versante dell’offerta; 3. Managerializzazione della produzione sanitaria: l’obiettivo della riduzione dei costi è perseguito in questo caso attraverso un contenimento delle risorse assorbite, resa possibile da un incremento dei livelli di efficienza del sistema. Conviene distinguere due fasi: gli anni 80, in cui si è cercato di tamponare le falle degli assetti sanitari tradizionali; e gli anni 90, in cui si è avviata la ristrutturazione vera e propria dei sistemi sanitari. 1. In riferimento alla prima linea di riforma è possibile distinguere tre aree principali di intervento: a. L’accesso: ha a che fare con il numero di cittadini che hanno diritto alle prestazioni; significa escludere dal sistema di assicurazione pubblica alcune fasce di popolazione così da ridurre l’impegno statale, si tratta di rimettere in discussione l’universalismo. b. La partecipazione finanziaria: ha avuto diffusione in tutti i pasi occidentali. Si tratta di trasferire a carico degli utenti quote di contribuzione alla spesa in forma fissa o variabile a seconda delle tipologie di servizi e prodotti sanitari. In questo modo il costo delle prestazioni erogate viene in parte trasferito sul cittadino al momento del consumo, riducendo così l’impegno finanziario del sistema pubblico. Il contributo dei cittadini prevede forme di esenzione in base alle caratteristiche dell’utente e alle sue condizioni economiche. c. La comprensività dell’intervento pubblico: fino ad ora sono state adottate prevalentemente forme di razionamento di tipo implicito come il metodo delle liste di attesa. Questa strategia prevede il trasferimento sui cittadini dei costi di quei servizi esclusi dalla copertura pubblica. In Italia, nel 2001 si è arrivati alla definizione dei Livelli essenziali di assistenza, ovvero dei servizi e delle prestazioni garantite dal servizio sanitario nazionale su tutto il territorio. Le prestazioni sono individuate sulla base di principi di effettiva necessità assistenziale, di efficacia e di appropriatezza. 2. a) fissazione di tetti di spesa e di bilanci definiti: i governi hanno iniziato stabilire in anticipo la quantità di risorse finanziarie disponibili annualmente per l’intero settore sanitario. Ad esempio in Germania, dove il governo federale ha promosso un sistema di vera e propria concertazione per il contenimento dei costi, con il coinvolgimento delle casse di malattia e delle associazioni dei medici. La politica dei tetti di spesa e di bilancio a livello nazionale è poco efficace se le strutture decentrate di spesa non hanno incentivi a risparmiare né strumenti di controllo sui prescrittori di spesa. b) riorganizzazione delle strutture e del personale: in molti paesi sono stati introdotti blocchi nelle assunzioni dei dipendenti e limiti alle ammissioni nelle facoltà di medicina o all’abilitazione professionale. Specifici incentivi sono stati introdotti per incoraggiare sistemi di cura alternativi al ricovero, come il day hospital o l’assistenza domiciliare; c) controlli sulle tecnologie e sui prezzi: per limitare l’acquisto di sofisticate attrezzature medicodiagnostiche. Sono stati rafforzati i sistemi di controllo sul prezzo dei farmaci. In Germania, Olanda e Danimarca viene fissato un prezzo di riferimento che viene coperto dall’assicurazione di malattia mentre l’eventuale differenza è a carico dell’utente; d) controlli sul comportamento prescrittivo dei medici: i medici sono diventati bersaglio di numerosi provvedimenti volti ad influenzare il loro comportamento. Sono stati introdotti anche specifici incentivi per favorire la pratica della medicina basata sull’evidenza empirica. 3. Il fatto che i pazienti non abbiano le competenze per valutare la qualità dell’offerta dei servizi sanitari e siano influenzabili da fattori di natura soggettiva, impedisce l’applicabilità del modello di mercato puro al sistema sanitario, è quindi necessaria la presenza dell’operatore pubblico. Questo limita gli spazi di attuabilità di una politica di piena privatizzazione. È emersa una generale consapevolezza dei limiti e delle trappole del tradizionale statalismo open ended. Si è fatta strada così una nuova strategia basata sull’adozione di strumenti di gestione tipica delle organizzazioni private, che ha preso il nome di managerializzazione, termine che ha assunto varie forme e denominazioni: si è parlato di quasi-mercati, di competizione amministrativa e di aziendalizzazione. L’idea comune è quella di introdurre logiche di mercato all’interno di un sistema sanitario pubblico, affinchè i produttori di prestazioni sanitarie possano competere tra loro. L’introduzione di logiche di mercato è legata alla separazione tra la funzione di erogazione e quella di finanziamento. La necessità di tale separazione deriva dalla constatazione che soprattutto nei sistemi sanitari pubblici i due momenti tendono troppo spesso a coincidere, dando luogo ad una serie di distorsioni. Un altro aspetto ha a che fare con l’introduzione di figure e ruoli di tipo manageriale e la conseguente depoliticizzazione degli organi che fino a quel momento avevano svolto compiti amministrativo-gestionali. Si tratta di separare il momento gestionale da quello politico, che tradizionalmente nei sistemi sanitari integrati ha teso a coincidere. Gli anni Ottanta: la crisi della politica sanitaria italiana In primo luogo, troviamo le difficoltà di concertare e attuare provvedimenti di ampio respiro. Un secondo aspetto è rappresentato dalle continue dispute tra i livelli di governo in relazione alla ripartizione delle risorse finanziarie. La legge 833/1978 non aveva chiarito quale livello di governo avesse la priorità nella definizione delle linee di intervento. In terzo luogo, vengono segnalare le forme di inadempienza a livello sub-nazionale. In quarto logo c’è stata una variabile interregionale negli indicatori di funzionamento. A partire dalla metà degli anni 80 il processo di definizione della politica sanitaria italiana è stato influenzato negativamente anche dalle condizioni di emergenza finanziaria connesse all’esigenza di correggere la crescita del debito e del deficit pubblico. A tal proposito sono state attuati una serie di interventi correttivi sia sul lato delle entratrate che sul lato delle uscite: Sul lato delle entrate: nel 1978 nel 1978 vengono introdotti i ticket; i contributi di malattia sono stati oggetto di interventi di vario tipo: aumento delle aliquote, aumento delle categorie soggette a contribuzione, riduzione di sgravi ed agevolazioni, modifica dei meccanismi di determinazione degli oneri fiscali, proroga di alcune fiscalizzazioni in essere. Sul lato delle uscite: interventi riguardanti la spesa per il personale, la spesa farmaceutica, la spesa per l’assistenza ospedaliera, l’organizzazione e la gestione delle USL, misure dirette alla riorganizzazione della rete ospedaliera autonomia finanziaria delle regioni. Nel 2000 si è poi data piena attuazione alle attività connesse al Patto di stabilità interno. Il Patto aveva previsto una serie di misure per tenere sotto controllo la spesa sanitaria. Con il Patto anche l’Italia ha adottato il criterio della corresponsabilizzazione all’indebitamento tra livelli di governo, con la compartecipazione di regioni ed enti locali sia alla riduzione del disavanzo sia all’eventuale sanzione prevista dalla normativa europea nel caso di accertamento di disavanzo eccessivo. Nell’autunno del 2000 ha avuto luogo anche la prima verifica tra Stato e regioni sull’andamento della spesa sanitaria. A seguito tale verifica il governo nel 2000 ha stanziato risorse aggiuntive per i debiti pregressi ma a partire dal 2001 le regioni avrebbero dovuto trovare le risorse necessarie per gli eventuali debiti che sarebbero stati contratti in seguito. 2) Un’altra tappa è rappresentata dal secondo accordo Stato-regioni, siglato l’8 agosto 2001. Da un lato, il governo si è impegnato ad aumentare le risorse nazionali per la sanità; dall’altro è stato dato il via libera alla progressiva delega alle regioni per la gestione della spesa e dell’organizzazione della sanità. Le regioni hanno dovuto accettare un tetto alla spesa farmaceutica, lo slittamento di un anno della prevista abolizione dei ticket sulla diagnostica. Nel 2001 è stata approvata anche la riforma del Titolo V della Costituzione che ha introdotto novità per la ridefinizione dei poteri tra i vari livelli di governo, in particolare tra Stato e regioni. Le materie di intervento pubblico sono state classificate in tre gruppi: a legislazione esecutiva dello Stato; a legislazione concorrente fra Stato e regioni; a legislazione esclusiva delle regioni. La tutela della salute appartiene alle materie a legislazione concorrente. CONCLUSIONI: LE POLITICHE SANITARIE DEL XXI SECOLO Dopo le grandi riforme è possibile individuare 4 dimensioni lungo cui, nei prossimi anni in Italia, gli attori politici sono destinati a confrontarsi per definire e controllare la politica sanitaria. • In primo luogo, nell’agenda di policy gli interessi si troveranno ad oscillare tra questioni di salute e questioni di riorganizzazione del servizio sanitario nazionale. Per quanto riguarda questo punto, la definizione dell’agenzia di politica sanitaria sarà improntata sia alla promozione che alla protezione della salute e alla riorganizzazione del SSN. Si cercherà di intervenire sugli stili di vita delle persone, sulle misure per fronteggiare le emergenze sanitarie. Sul versante della riorganizzazione del servizio sanitario si parlerà di ridefinire la politica ospedaliera e di potenziare le politiche sanitarie e livello territoriale, di procedere alla costituzione di un fondo per la non-autosufficienza. • In secondo luogo, la politica sanitaria sarà condizionata dall’azione di governo di due diversi ministeri: quello della salute ma anche quello dell’economia e delle finanze. Per quanto riguarda il secondo punto si è deciso di ricostruire il ministero della salute che il d.lgs. 300/1999 aveva abolito per ridare ampia visibilità alla politica sanitaria rispetto ad altri settori. In realtà, la sanità è stata schiacciata dal peso della politica di bilancio. Le scelte connesse alla riorganizzazione del SSN dipenderanno dalla disponibilità di risorse. A decidere delle risorse e dell’effettiva portata delle trasformazioni in questo settore continuerà ancora per alcuni anni ad essere il ministero dell’economia e delle finanze. Potranno essere fissati vincoli che spingeranno i paesi membri a tenere sotto controllo la spesa e i conti pubblici. • In terzo luogo, la politica sanitaria sarà decisa o con l’apporto delle regioni o direttamente a livello regionale. La terza dimensione si occupa dei rapporti di forza tra i due livelli di governo, quello centrale e quello regionale. Il baricentro dell’azione governativa si è spostato sempre più dagli interventi diretti all’organizzazione sanitaria, a quelli volti alla promozione e alla tutela della salute dei cittadini. Lo Stato è chiamato a determinare i livelli essenziali delle prestazioni e a garantirne il rispetto su tutto il territorio nazionale. A partire dal 2000 vi sono stati numerosi e rilevanti accordi Stato-regioni, la maggior parte dei quali ha avuto per oggetto la definizione del fabbisogno sanitario delle regioni e l’attribuzione di compiti e responsabilità tra i due livelli di governo. La conferenza Stato-regioni è diventata il luogo deputato a decidere tutte le questioni a rilevanza territoriale e lo strumento con cui le regioni hanno fatto sentire le loro voci. La contrapposizione è stata verso il livello centrale. Ci si aspetta che cresceranno le esigenze di maggiore coordinamento tra i diversi livelli di governo, evidenziate dall’esperienza degli accordi Stato-regioni; è anche auspicabile un rafforzamento della conferenza Stato regioni, come strumento di confronti politico ma anche tecnico per superare il dualismo tra i ministeri della salute e dell’economia e delle finanze. • Infine, molte delle soluzioni dipenderanno dalla cornice europea in campo sanitario. Venendo alla quarta dimensione, altri stimoli a ripensare obiettivi e strategie di riforma verranno sempre più dal livello comunitario. A partire dalla metà degli anni 90 l’UE ha promosso un nuovo dialogo sulle questioni di tutela della salute e sulla sanità. Si è cercato di creare un coordinamento tra paesi e sono state promosse politiche comuni a livello europeo. Anche nel settore delle politiche sanitarie, è andata costituendosi a livello comunitario una comunità epistemica di esperti. L’accumulo, lo scambio e la diffusione di conoscenze e idee a livello europeo avrà in futuro un impatto crescente sulle proposte di riforma dei sistemi sanitari e rappresenterà sempre più un punto di riferimento per i governi nazionali. La Commissione ha deciso di puntare molto sulla promozione della convergenza dei sistemi sanitari dei paesi membri e di intervenire sulla ridefinizione di ruoli e responsabilità nel settore sanitario. Si è anche assunta il compito di rappresentare gli interessi dei cittadini e di rendere le diverse politiche sanitarie compatibili tra loro e con i vincoli imposti dal mercato unico. Nel 2006 ha preso avvio il processo di coordinamento aperto anche nel settore sanitario. CAPITOLO 5: LE POLITICHE DI ASSISTENZA SOCIALE Con il termine assistenza si indicano gli interventi generici di soccorso rivolti ad individui bisognosi che sono incapaci di risolvere in modo autonomo la propria situazione di indigenza. Questi atti sono volontari e si basano sulla generosità di una persona a prestare aiuto a chi ne necessita. L’aspetto che permette di distinguere l’assistenza sociale dall’assistenza in senso generico risiede nella natura degli interventi. La nascita dell’assistenza sociale viene per questo motivo ricondotta a Elisabetta d’Inghilterra che, introducendo la cosiddetta “tassa sui poveri”, imponeva per la prima volta alle comunità locali di farsi carico dei propri membri più disagiati. L’assistenza sociale è andata così configurandosi come un diritto del cittadino che si trova in stato di bisogno ad essere aiutato. L’espressione assistenza sociale si identifica come l’insieme degli interventi rivolti a contrastare e a superare situazioni di indigenza attraverso servizi sociali e prestazioni monetarie tipicamente finanziati tramite la fiscalità generale. Lo stato bisognoso non è però l’unico requisito per accedere alle prestazioni assistenziali; esiste anche una forma di intervento selettiva e residuale, basata sulla “prova dei mezzi”. La prova dei mezzi varia nei diversi paesi: in alcuni paesi il reddito che viene considerato è quello dell’intero nucleo famigliare, mentre in altri casi conta solo quello del richiedente e, talvolta anche il suo patrimonio. Gli interventi selettivi e residuali hanno il vantaggio di permettere un risparmio di spesa. Tuttavia, ci sono anche dei limiti nella selettività: 1) La ‘’trappola della libertà: che si verifica quando per un soggetto diventa svantaggioso accettare un lavoro in quanto l’effetto positivo dell’aumento del reddito non sarebbe sufficiente per compensare la riduzione della prestazione 2) Lo stigma e i costi psicologici: legati al sottoporsi ad una prova dei mezzi 3) Problemi di informazioni: troviamo da un lato i funzionari pubblici e dall’altro i cittadini; può essere complicato e costoso evitare errori sia di inclusione sia di esclusione. 4) Categorialità: che sostanzialmente è un metodo simile alla prova dei mezzi ma più indiretta. Ci si riferisce infatti alle prestazioni assistenziali che possono prevedere un accesso limitato in modo esclusivo a specifiche categorie di cittadini. L’assistenza sociale nell’edificio del welfare state Nelle misure di tipo assistenziale si evidenzia maggiormente la finalità redistributiva, ossia di contrasto alla povertà e di promozione dell’inclusione sociale. Quindi, l’assistenza sociale si struttura attorno a due differenti funzioni sebbene esse siano strettamente legate tra loro: 1. Funzione di risposta alle situazioni di povertà e d’indigenza economiche, tramite trasferimenti monetari che garantiscono un minimo di risorse per soddisfare i bisogni fondamentali. L’accesso alle prestazioni monetarie di assistenza sociale si associa oggi sempre più frequentemente all’attivazione: al richiedente viene chiesto di dichiarare la propria disponibilità ad “attivarsi”. La finalità risiede nella volontà di lavorare dopo il 31 dicembre 1995 non potrà più avere l’integrazione al minimo, la sua rendita pensionistica sarà infatti rapportata ai contributi versati; • L’assegno per i nuclei familiari con almeno tre figli minori, per le famiglie con tre o più figlio con meno di 18 anni • L’assegno di maternità, volto a garantire una forma di tutela alle madri che non lavorano al momento del parto o all’ingresso in famiglia del bambino e che sono quindi sprovviste di copertura previdenziale per la maternità; • Il Fondo per il sostegno all’accesso alle abitazioni in affitto Le principali categorie di intervento attuate da parte dei comuni sono: • Informazione sociale e segretario ai cittadini ed agli utenti dei servizi; • Assistenza economica a persone e famiglie in difficoltà; • Assistenza domiciliare di tipo sociale; • Assistenza abitativa tramite alloggi protetti; • Assistenza ai minori tramite affidamento familiare; • Asili nido; • Centri diurni di tipo socio-educativo per portatori di handicap; • Inserimento sociale e lavorativo delle persone in situazione di svantaggio; • Centri di accoglienza per situazioni di emergenza assistenziale; • Pagamento delle rette nelle residenze sanitarie per anziani con difficoltà. Uno degli interventi più rilevanti è l’assistenza economica alle famiglie, questa forma di prestazione viene chiamata Reddito minimo garantito ed è presente in diverse forme nella maggior parte dei paesi europei. L’EVOLUZIONE STORICA DELL’ASSISTENZA SOCIALE: L’ITALIA IN PROSPETTIVA COMPARATA -dalle leggi sui poveri ai servizi sociali Il sistema delle assicurazioni sociali si articolava fondamentalmente in quattro differenti settori funzionali: infortuni sul lavoro, invalidità e vecchiaia, malattia e maternità, disoccupazione. Per quanto riguarda le strutture assistenziali di tradizione religiosa o municipale, era ancora presente un universo frammentato. A partire dal secondo dopoguerra vengono conformandosi veri e propri diritti soggettivi e dunque esigibili dal cittadino che si trovasse nelle condizioni di bisogno specificate. Le nuove misure rispondevano alla necessità di colmare le lacune di copertura degli schemi di assicurazione sociale obbligatoria. Molti paesi iniziarono a dotarsi di uno schema di reddito minimo garantito; oggi, fra i paesi dell’UE solo la Grecia e l’Italia ne restano sprovviste. Si è passati dall’ottica dell’assistenzialismo a quella dei servizi sociali. Con la nascita dei moderni sistemi di assicurazioni sociali obbligatore, la protezione sociale aveva visto mutare profondamente il suo assetto tradizionale. A partire dagli anni 70, in molti paesi europei si registrò un processo di decentramento, che si concretizzò in una prima ondata di interventi normativi attraverso cui ai livelli regionali vennero riconosciute nuove competenze e funzioni. In questi anni l’Italia, il Belgio e la Spagna diventarono veri e propri Stati regionali, mentre altri, già federali, come l’Austria, la Germania e la Svizzera, svilupparono ulteriormente le interazioni fra il centro e i governi federali. Il decentramento viene percepito come un’opzione vantaggiosa in quanto capace di contribuire al raggiungimento di maggiore efficienza nella gestione dei servizi pubblici ed efficacia nell’implementazione delle politiche nazionali. Il decentramento di funzioni legate alle politiche sociali contribuì al processo di rafforzamento istituzionale dei livelli regionali di governo. Il governo poteva vedere il decentramento come un’opportunità vantaggiosa in quanto permetteva di passare al altri il peso di scelte a volte politicamente costose. I paesi dell’Europa meridionale si trovano ancora oggi in una situazione di arretratezza rispetto alle loro controparti continentali, sia nel campo delle prestazioni minime di garanzia del reddito, sia per quanto concerne lo sviluppo dei servizi sociali. Per spiegare il ritardo dei paesi meridionali bisogna prendere in esame tre fattori : I primi due riguardanti la domanda, per la creazione e lo sviluppo di un sistema integrativo di assistenza sociale e il terzo fattore legato all’offerta, connesso cioè ad aspetti che possono avere avuto un impatto sulla fattibilità di talune scelte. Il primo fattore riguarda il “familismo”, che si concretizza nella capacità/obbligo della famiglia di funzionare come ammortizzatore sociale per i suoi membri, assolvendo una molteplicità di funzioni. Il secondo fattore ha a che fare con il peso dell’economia periferica e di quella informale. La persistenza di settori e tipologie di lavoro tradizionali ha consentito anche a molti lavoratori marginali l’accesso ad occupazioni che rappresentavano un’àncora al sistema di protezione sociale. Il terzo fattore riguarda le misure assistenziali che sono particolarmente onerose in termini amministrativi e gestionali. La debolezza delle istituzioni statuali nei paesi dell’Europa meridionale, in termini di scarsa professionalizzazione e basso grado di autonomia degli apparati amministrativi, le rende fortemente vulnerabili ed esposte a distorsioni. Gli alti tassi di lavoro autonomo, il peso dell’economia informale, dell’evasione fiscale e delle basse capacità amministrative dell’apparato istituzionale sono tutti fattori che hanno contribuito ad ostacolare le possibilità di sviluppo di un sistema organico di assistenza sociale nei paesi dell’Europa meridionale. Il percorso evolutivo dell’assistenza sociale in Italia - dalle origini alla caduta del regime fascista Dall’unificazione nazionale fino agli anni 70 l’assistenza sociale è stato un settore trascurato dalla politica italiana. Il primo passo verso la creazione di un sistema di assistenza sociale corrisponde alla legge 6972/1890 conosciuta come legge Crispi, che provvede al riordino delle Opere Pie, trasformandole in Istituti pubblici di beneficenza. Tra la fine dell’800 e della prima guerra mondiale vennero approvati diversi provvedimenti tra cui quello sull’assicurazione sociale obbligatoria contro gli infortuni nel 1898 e nel 1919 contro la vecchiaia. La politica sociale del regime fascista considerava la famiglia come uno dei suoi simboli. Vennero incentivate la maternità, le famiglie numerose e la costituzione di nuovi nuclei familiari. Nel 1925 venne istituita l’Opera nazionale per la maternità e l’infanzia. Nel 1937 vennero istituiti gli Enti comunali di assistenza ai quali spettava l’assistenza generica. All’indomani della caduta del regime fascista, la Carta costituzionale divenne il nuovo punto di riferimento dell’assistenza sociale. L’articolo 38 prescrive che ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza che spetta allo Stato. Inoltre, alla regione viene attribuito una piena competenza legislativa anche se nell’art. 118 Cost. la regione poteva esercitare solo un ruolo decisionale e di indirizzo, non di gestione diretta degli interventi. Il sistema mutualistico previdenziale rimase così la struttura portante dell’intero edificio del welfare state mentre l’assistenza pubblica continuò a rivestire un ruolo marginale. Dal secondo dopoguerra agli anni Ottanta In Italia in questi anni l’assistenza sociale fu interessata da due importanti provvedimenti: nel 1968 entrò in vigore la legge 132, detta legge Mariotti, che disponeva la separazione tra le attività sanitarie e quelle assistenziali; nel 1969 venne introdotta poi la pensione sociale. Per quanto riguarda l’assistenza pubblica, va notato che la forza del grande partito cattolico minò la possibilità di giungere ad una riforma organica dell’intero settore. Nel 1988 si aprì l’opportunità di riformare il settore fino a quel momento ancora disciplinato dalla legge Crispi del 1890. Con l’istituzione delle regioni a statuto ordinario nel 1970, diventò possibile il decentramento amministrativo. Attraverso i decreti presidenziali del 1972 e 1977, le responsabilità nell’ambito dell’assistenza sociale vennero decentrate a regioni ed enti locali. Solo nel 2000, con il provvedimento istitutivo del Sistema integrato dei servizi sociali (L.328/2000), l’Italia si è dotata di una legge quadro nazionale sull’assistenza sociale. A livello nazionale, nel corso degli anni 80 gli interventi legislativi furono principalmente volti al contenimento della spesa pubblica, mentre a livello locale regioni e comuni strutturarono differenti prestazioni e definirono beneficiari e criteri di accesso sulla base dei propri orientamenti. Si consolidò così un sistema variegato, in cui i provvedimenti di assistenza sociale si presentavano disomogenei a livello locale e stentati a livello nazionale. L’ASSISTENZA SOCIALE DI FRONTE AD UNA SOCIETA’ IN TRASFORMAZIONE Si è assistito ad un progressivo aumento dei bisogni e ad una loro crescente differenziazione. L’allungamento della speranza di vita e l’invecchiamento della popolazione comportano un