Scarica Riassunto lezioni di Medicina di Laboratorio. Prof.M.Ciaccio e più Dispense in PDF di Medicina solo su Docsity! Medicina di Laboratorio Biochimica DIABETE. (MALATTIA DIABETICA.) Per malattia diabetica si intende un gruppo di condizioni legate ad un’alterazione dell’omeostasi glucidica a patogenesi diversa, che ha come elemento fondamentale l’iperglicemia. Definizione: il diabete mellito è una malattia: cronica (quindi dal diabete non si guarisce) eterogenea, perché colpisce tutti gli organi (non c’è un organo che non sia colpito dalla malattia diabetica non compensata) caratterizzata: da un alterato metabolismo glucidico, primariamente, ma anche di tutti gli altri substrati energetici, perché vi è anche una compromissione anche delle proteine e lipidi1; dallo sviluppo di complicanze vascolari e neuropatiche: questo è estremamente importante perché è una malattia cronica ed eterogenea, dove tutti gli organi sono colpiti perché c’è l’alterazione vascolare dei piccoli e dei grossi vasi (micro e magroangiopatia) che porta ad un difetto di irrorazione dei diversi organi, quindi inizialmente c’è un danno solo funzionale dell’organo irrorato in maniera anomala, poi dal danno funzionale si crea il danno strutturale. Per questo si parla si dermopatia diabetica, neuropatia diabetica, cerebropatia diabetica, cardiopatia diabetica, retinopatia diabetica, nefropatia diabetica, perchè tutti gli organi irrorati sono colpiti da questa alterazione micro o macrovascolare e quindi si ha un’alterazione che si riflette sull’organo irrorato lì dove c’è l'alterazione vascolare. Quindi le alterazioni vascolari si hanno a carico dei piccoli vasi (microangiopatia) e dei grossi, circolo periferico e coronariche (macroangiopatia), con formazione precoce di lesioni aterosclerotiche.2 da un punto di vista biochimico dall’iperglicemia dovuta ad un deficit relativo o assoluto di insulina3. Classificazione L’elemento biochimico centrale delle diverse forme di malattia diabetica è sempre l’iperglicemia, che però può avere cause differenti, sempre legate ad un deficit di azione insulinica. Diciamo "deficit di azione insulinica" perché dobbiamo distinguere le due principali forme di diabete: diabete di tipo 1: il deficit di azione insulinica è legato ad un fatto quantitativo, il soggetto con diabete di tipo 1 non produce insulina, quindi l’azione iperglicemizzante è legata ad un deficit della quantità di insulina secreta dalle beta cellule; diabete di tipo 2: il deficit di azione insulinica è legato ad un fatto qualitativo e non quantitativo, anzi ha più insulina del normale e spesso ha un iperinsulinismo, ma è legata al fatto che l’insulina non può svolgere la sua azione a livello delle cellule periferiche insulino-dipendenti, che sono gli adipociti e i miociti, cioè gli elementi cellulari che, affinchè il glucosio possa entrare, necessitano dell’insulina e di trasportatori specifici per il glucosio. Negli altri elementi cellulari, come negli epatociti, nei neuroni o negli eritrociti, il glucosio passa senza bisogno di questi intermediari proteici. Quando si parla dell’insulina, una cosa importante è che l’insulina: non ha solo funzione ipoglicemizzante4 1 2 3 4 ma è anche la più potente molecola ad azione biosintetica che abbiamo nel nostro organismo, perché promuove tutti i processi biosintetici e deprime tutti i processi catabolici, quindi tra esaltazione dei processi biosintetici e depressione dei processi catabolici, il risultato finale è un’esaltazione della biosintesi. Ecco perché: il diabetico di tipo 1 è un soggetto magro perché non ha insulina, quindi non ha un’azione anabolizzante. Il diabete di tipo 2, invece, in genere è un soggetto in sovrappeso o francamente obeso. Quindi il diabete di tipo 2 è un diabete grasso perché il soggetto ha più insulina, quindi l’azione anabolizzante viene esaltata maggiormente. Classificazione (completa) Diabete di tipo 1, in cui le beta cellule non secernono insulina per una disregolazione immunologica Diabete di tipo 2, in cui c’è un problema di azione periferica dell’insulina sulle due cellule bersaglio, adipociti e miociti. Diabete gestazionale, molto importante perché condizionata la morbilità a livello fetale e materno Iperglicemie secondarie ad altre patologie A differenziare le due principali forme di malattia diabetica, che hanno una patogenesi differente, abbiamo principalmente: l’epoca di prestazione, che nel diabete di tipo 1 è durante la vita adolescenziale, mentre nell’età adulta il diabete di tipo 2 La presenza, quantità di insulina che è sempre minore del diabete di tipo 1 e spesso aumentata nel diabete di tipo 2 La presenza di autoanticorpi, cioè l’autoimmunità nel diabetico di tipo 1, che non si ritrova la nel diabete di tipo 2 La terapia, che è insulinica (con insulina esogena) nel diabete di tipo 1, mentre nel diabete di tipo 2 si somministrano farmaci che stimolano l’ingresso del glucosio nelle cellule (metformina) La chetosi nel diabete di tipo 1 scompensato, una complicanza importate, l’acidosi dovuta all’aumento dei corpi chetonici che è in casi molto rari nel diabete di tipo 2 DIAGNOSI DI MALATTIA DIABETICA (DIAGNOSI DI DIABETE) si fanno due esami che sono: GLICEMIA: Nei valori normali della glicemia dobbiamo distinguere: se facciamo la glicemia in un momento qualunque della giornata, anche subito dopo l’introduzione di alimenti contenuto di carboidrati, il valore normale deve essere al di sotto di 180 mg/dl; se facciamo il dosaggio della glicemia dopo il riposo notturno, quindi nella fase post-assorbitiva, dopo 10-12 ore dall’assunzione di carboidrati, il valore deve essere sotto i 100 mg/dl. Quindi i cut off sono 100 mg/dl nella fase post assorbitiva, 180 mg/dl nella valutazione su campione estemporaneo di sangue. Si fa diagnosi di malattia diabetica quando il valore della glicemia è: sul campione estemporaneo superiore a 180 mg/dl dopo la fase post assorbitiva superiore a 126 mg/dl Allora vediamo che nella valutazione nella fase post assorbitiva abbiamo: valore normale fino a 100 mg/dl: valore patologico da 126 mg/dl in su una finestra che va da 100 mg/dl a 126 mg/dl, in cui il soggetto non è normale e neanche classificabile come diabetico. REGOLAZIONE DELLA GLICEMIA La regolazione della glicemia è molto complessa e vede non solo ormoni con azione opposta all’insulina (ipoglicemizzante) quindi iperglicemizzanti come il glucagone, i glucocorticoidi, catecolamine, il GH, ma è anche una regolazione che inizia a livello delle isole del Langerhans dove per meccanismi di tipo paracrino i tre tipi cellulari presenti nelle isole del Langerhans: Alfa, che secernono Glucagone Beta, che secernono Insulina Delta, che secernono Somatostatina Queste si influenzano tra di loro con input positivi o negativi, quindi la regolazione già inizia a livello paracrino negli stessi isolotti del Langerhans e poi a livello della circolazione viene regolata da questi ormoni. INSULINA. La sintesi dell’insulina è molto lunga, necessita di parecchie ore e il nostro organismo è ben organizzato, per cui abbiamo la possibilità di sintetizzarla e conservarla in dei vacuoli, all’interno delle beta cellule, che costituiscono la quota di deposito dell’insulina. Per cui quando c’è lo stimolo glicemico, vi è una pronta risposta del pancreas che libera insulina preformata prontamente, rilasciandola da queste vescicole. Quindi abbiamo un primo picco molto alto e temporalmente molto precoce di risposta allo stimolo glicemico. Chiaramente il pancreas poi deve biosintetizzare nuova insulina; siccome è una sintesi che richiede parecchio tempo, passa del tempo se lo stimolo iperglicemico perdura ancora, per cui c’è una fase in cui l’insulina non è secreta e la seconda fase che è quella neoformata che chiaramente sarà un picco inferiore e più ritardato. Questa è la cosiddetta secrezione bifasica dell’insulina in cui La prima fase è dovuta all’insulina preformata e depositata nei vacuoli la seconda fase rappresentata dall’insulina di neoformazione. Lo stimolo più importante per la secrezione di insulina è l’aumento della glicemia che determina, tramite sensori posti sulle beta cellule, l’induzione della sintesi e la secrezione di insulina. Vi sono anche degli amminoacidi, il sistema simpatico con effetto diversi se tramite legame con alfa o beta recettori. Il recettore per l’insulina è molto complesso strutturalmente e quindi è sede di alterazioni con una maggiore frequenza. L’insulina si lega al recettore, ci sono degli effetti post recettoriali e mediati dalla parte intracellulare del recettore che danno luogo ad una serie di eventi per cui si aprono dei canali mediati da proteine particolari, i cosiddetti GLUT. A livello delle cellule insulino dipendenti (miociti e adipociti) abbiamo il GLUT4 che permette l’ingresso del glucosio all’interno delle cellule. Dire che l’insulina ha un’azione ipoglicemizzante è corretto ma non è una risposta completa perché l’insulina ha un’azione anabolizzante, è la più potente molecola a capacità biosintetica che abbiamo nel nostro organismo, promuove tutti i processi biosintetici e inibisce quelli catabolici, quindi il risultato finale è un’esaltazione dei processi biosintetici. Tutto questo avviene a livello dei tre organi target dell’insulina: Tessuto adiposo Tessuto muscolare dove l’insulina è necessario perché entri all’interno delle cellule Tessuto epatico E questo ci spiega il perché nelle vecchie definizioni e nei fenotipi clinici il diabete di tipo 1 è diverso dal diabete di tipo 2. Il diabete di tipo 2, prima chiamato diabete “grasso”, perché i pazienti erano in sovrappeso perché lì l’insulina c’è non riesce a svolgere l’azione ipoglicemizzante ma continua a svolgere l’azione anabolizzante per cui il soggetto sarà florido, in sovrappeso. Mentre quello con diabete di tipo 1 non ha insulina per cui viene meno l’azione ipoglicemizzante ma anche quella anabolizzante per cui dal punto di vista fenotipico è magro in genere e questo è spiegato dall’azione anabolizzante a anticatabolica dell’insulina. La metabolizzazione dell’insulina avviene soprattutto a livello epatico e in misura minore a livello renale. GLUCAGONE. Il glucagone è il più importante ormone controregolatore ed è l’ormone delle emergenze energetiche, quello che biosintetizziamo in quantità maggiori quando in carenza di substrati energetici per cui viene sintetizzato in quantità maggiore promuove l’aumento dei livelli di glucosio. Gli altri ormoni controregolatori sono l’adrenalina e noradrenalina, ormone della crescita, glucocorticoidi che agiscono tutti su cicli metabolici (soprattutto gluconeogenesi e glicogenolisi) che portano tutti a maggiore produzione di glucosio. Sono i cosiddetti ormoni della emergenza energetica perché soprattutto il SNC non può andare in carenza di glucosio, che rimane il substrato energetico più importante, logicamente in una situazione di emergenza, non potendo i neuroni fare a meno del glucosio, c’è un aumento di sintesi di questi ormoni con maggiore disponibilità per il SNC di glucosio. DIABETE DI TIPO 1. (DIABETE 1.) Per quanto riguarda il diabete di tipo 1 e 2, necessitano di esami diversi soprattutto nel monitoraggio (non tanto per la diagnosi). “Quali sono gli esami che si fanno nel diabete di tipo 1 e non nel diabetico di tipo 2?” Questo differenziazione sussiste perché hanno patogenesi differente: il diabete di tipo 1 ha eziopatogenesi autoimmunitaria, una disregolazione immunologica che si presenta semplicemente nei soggetti che hanno predisposizione genetica, quindi soggetti con produzione di alleli predisponenti alla malattia possono sviluppare la malattia. In questi soggetti dovremo fare, oltre agli esami diagnostici di inquadramento generale, cioè glicemia e emoglobina glicata, dobbiamo fare poi uno studio genetico e immunologico. Gli elementi coinvolti nell’eziopatogenesi sono la genetica, il sistema immunitario e gli stimoli ambientali, che integrati portano al manifestarsi clinicamente della malattia. La predisposizione genetica è estremamente importante e correlata all’HLA nelle due forme alleliche e DR3 e DR4 che sono predisponenti alla malattia. Solo questi soggetti avranno la malattia. Vi sono anche degli alleli per cui possiamo anche determinare il rischio che, in una famiglia con un soggetto diabetico di tipo 1, hanno fratelli e cugini di andare incontro alla malattia, facendo una valutazione globale degli alleli predisponenti di e di quelli protettivi. L’analisi molecolare è quindi estremamente importante. Ma perché alcuni soggetti lo sviluppano e altri no? È necessario un fattore esterno, ambientale, che fa sì che in questi soggetti predisposti, la disregolazione immunologica possa da luogo alle alterazioni metaboliche. Quali sono gli stimoli ambientali più frequenti? Sono dei virus, in particolare Coxsakie, Citomegalovirus possono in particolare fungere da stimoli in soggetti geneticamente predisposti affinché si crei una alterazione infiammatoria inizialmente, quindi una insulite, una flogosi, cui segue la disregolazione immunologica, cioè queste componenti delle beta cellule non vengono più riconosciute come proprie e c’è la produzione di anticorpi contro questi elementi self. Quindi inizia la distruzione per formazione di complessi antigene-anticorpo che porta al danno a carico delle beta-cellule. La predisposizione genetica è fondamentale, poi c’è uno stimolo, un trigger, in genere virale, c’è l’insulite, il danno alle beta-cellule e c’è questa insufficienza delle beta-cellule che porta all’inizio a situazioni di compenso dell’omeostasi glucidica e poi a mano a mano che il danno diventa di grado elevato, porta alla malattia e al diabete fenotipicamente e clinicamente manifesto. Il rischio di sviluppare Diabete di tipo 1 nei parenti è il 10-15% di tutti i casi, nella popolazione generale l’85-90%. In base alla genotipizzazione che possiamo fare in alleli predisponenti e alleli protettivi, possiamo calcolare il rischio nei parenti di primo grado, rapportandolo alla popolazione generale e vediamo come possiamo quantificare il rischio che può essere da molto alto ad essere addirittura protettivo. È possibile ben stabilire il rischio con cui un familiare di un soggetto affetto da diabete di tipo 1 possa svilupparlo anche lui. Autoanticorpi nel diabete di tipo 1 Gli autoanticorpi importanti, che noi conosciamo, vanno ricercati soltanto nel diabete di tipo 1, mai nel diabetico di tipo 2. Gli esami genetici e gli esami immunologici non si fanno mai nel diabetico di tipo 2, si fanno sempre nel diabetico di tipo 1. ICA, anticorpi diretti contro le insulse pancreatiche. Questi oggi hanno perso di importanza, hanno un uso limitato nella pratica clinica, a causa della complessità dell’analisi non rappresentano più un esame di riferimento; GADA, anticorpi anti-decarbossilasi dell’acido glutammico. Questi sono molto importanti, rappresentano il marcatore più frequentemente riscontrato nelle diagnosi di diabete di tipo 1 ed è un marker molto precoce (anche se l’anticorpo ZnT8 sembrerebbe più precoce) IA-2A, diretti contro la tirosina-fosfatasi2. È una pt transmembrana localizzata nei granuli secretori delle cellule endocrine dove sembra essere coinvolto nella secrezione dell’insulina; IAA, anti-insulina. L’insulina è l’unico antigene ritenuto altamente specifico per le cellule beta. Un limite è che non distingue tra ab anti insulina endogena e ab anti insulina esogena; ZnT8, anticorpi anti trasportatore dello zinco di tipo 8, molto importanti. Questo è molto precoce e molto specifico. La ZnT8 è una proteina di membrana presente nei granuli secretori contenenti insulina. Si è visto che i soggetti con diabete di tipo 1, avendo una degradazione, un danno, una morte delle beta cellule, il pancreas di questi soggetti ha un volume molto minore non solo ai controlli ma anche in rapporto alla presenza di autoanticorpi. Quelli che hanno uno solo o due anticorpi, rispetto ai soggetti anticorpo negativo, hanno un volume pancreatico minore e questo è significativamente indicativo nei soggetti con la malattia. DIABETE DI TIPO 2. (DIABETE 2.) In questa malattina la predisposizione genetica non è associata al sistema HLA. Sono molto importanti lo stile di vita e il sovrappeso, quindi l’obesità. Gli adipociti ipertrofici e maggiormente presenti nel soggetto in sovrappeso portano ad una maggiore resistenza all’azione dell’insulina. L’insulina viene normalmente secreta, anzi solitamente ne abbiamo in concentrazione maggiore che nel soggetto normale. L’algoritmo prevede: predisposizione genetica non-HLA associata e fattori ambientali, l’obesità. All’inizio c’è un’ipertrofia compensatoria delle beta-cellule con condizione di euglicemia. Man mano che si va avanti c’è un’insufficienza delle beta-cellule che peggiore progressivamente. Per cui nella fase finali, oltre agli antidiabetici orali, può essere utile la somministrazione dell’insulina esogena. Insulino resistenza l’insulino resistenza può essere legata a: Ridotta captazione di glucosio insulino-mediata nel muscolo striato Ridotta inibizione insulino-mediata della produzione di glucosio da parte del fegato Significativa riduzione della capacità dell’insulina di inibire la lipolisi del tessuto adiposo Diciamo che la cosa più importante è l’alterazione della formazione del complesso insulina-recettore per cui si bloccano tutte le tappe post recettoriali che portano all’internalizzazione del glucosio nei miociti e negli adipociti. CURVA DA CARICO ORALE DI GLUCOSIO (OGTT.) La curva da carico orale di glucosio si fa in diverse condizioni, ma la condizione più importante si ha quando il soggetto ha una glicemia basale tra 100 mg/dl e 126 mg/dl. Questa è l’utilizzazione più importante della curva da carico orale di glucosio e si fa solo in soggetti che hanno una glicemia tra 100 mg/dl e 126 mg/dl, se un soggetto ha 130 mg/dl non si fa la curva perché già si diagnostica come diabetico. Descrizione della curva: questa curva è un esame dinamico, un test dinamico, che non dà nessun effetto collaterale, quindi è di facile esecuzione, che si fa dando al paziente 75 grammi di glucosio sciolti in 300 ml di acqua. Dunque: 1. si invita il paziente a venire digiuno, dopo un digiuno di 10-12 ore, 2. si fa un prelievo basale e si vede quanto è la glicemia, che sarà 105/110 mg/dl (quindi un valore tra 100 mg/dl e 126 mg/dl), 3. si danno i 75 grammi di glucosio sciolti in 300 ml di acqua per via orale 4. e poi si valuta la glicemia nuovamente a 30 e a 120 minuti. A 30 minuti il valore deve essere inferiore a 180 mg/dl; A 120 minuti, quindi a 2 ore, il valore deve essere inferiore a 140 mg/dl; Il valore più importante è quello a 120 minuti. Una glicemia che si discosta da questi valori è una curva patologica, ma come è patologica? Se il valore a 2 ore è superiore a 180 mg/dl si fa diagnosi di diabete, quindi il soggetto è diabetico, anche se ha una glicemia basale che non è superiore a 126 mg/dl. Se invece ha una glicemia a 2 ore tra 140 mg/dl e 180 mg/dl, non è un soggetto normale, ma lo classifichiamo come un soggetto con ridotta tolleranza ai carboidrati, quindi a rischio di sviluppare una forma tipica di diabete di tipo 2. Se invece a 2 ore ha valori al di sotto di 140 mg/dl è un soggetto normale, magari sarà un soggetto obeso o in sovrappeso e allora si fa dimagrire e tutto si normalizza. Produzione e utilizzazione del glucosio È molto importante nella malattia diabetica, dove la nutrizione e l’alimentazione hanno un ruolo fondamentale, sapere distinguere la produzione e l’utilizzazione del glucosio da parte dei diversi organi, Iniziale modesta riduzione della velocità secretoria delle cellule; Frequenza relativamente alta con circa il 20 % dei pazienti giovani adulti tra i 25 e i 44 anni che hanno avuto diagnosticato un diabete di tipo 2 e che invece presentano questa forma di diabete di tipo 1 cosiddetta LADA. Diagnosi Per fare diagnosi di LADA facciamo la determinazione degli autoanticorpi GADA, anticorpi anti- decarbossilasi dell’acido glutammico e degli autoanticorpi ZnT8, anticorpi anti-trasportatore 8 dello zinco. Quest’ultimi sembrano anche più importanti degli stessi GADA, perché sono più precoci rispetto a ai GADA. Quindi, facciamo la ricerca dei GADA e ZnT8, mentre non si ricercano più gli anticorpi I-2A, anticorpi anti-tirosinfosfatasi. La positività di questi due autoanticorpi o di anche uno solo di essi ci permette di fare diagnosi di LADA. Terapia del LADA La terapia che viene somministrata ai soggetti con questa forma di diabete è una terapia insulinica man mano che questa malattia procede nel tempo, rispetto alla terapia con anti- diabetici orali. EMOGLOBINA GLICATA. Per quando riguarda la malattia diabetica, i parametri importanti per la diagnosi sono fondamentalmente due: Glicemia Emoglobina glicata, parametro che permette di valutare retrospettivamente in un periodo compreso tra 30 e 40 giorni l’omeostasi glucidica, quindi in un periodo abbastanza lungo che precede il momento in cui effettuiamo il prelievo. È un parametro importante per la diagnosi e per il monitoraggio (nasce come parametro per il monitoraggio, ma oggi viene considerato importante anche per la diagnosi). La differenza è che per la diagnosi e il monitoraggio si utilizzano dei valori di riferimento, dei cut-off differenti. L’emoglobina glicata è un parametro attendibile e importante perché il processo di glicazione delle proteine è un processo fisiologico, che riguarda tutte le proteine, che vede la reazione tra un residuo amminoacidico e una molecola di glucosio. Perché scegliamo la glicazione della globina e non di un’altra proteina? Perché come sapete il globulo rosso è permeabile al glucosio quindi, tanto glucosio sarà in circolo, tanto penetrerà all’interno dei globuli rossi e innescherà questo processo di glicazione. Perché la glicazione è importante e attendibile da questo punto di vista? Perché è un processo che avviene in assenza di enzimi, quindi spontaneamente, in assenza di catalizzatori biologici ed è un processo che nell’ultima sua tappa è irreversibile. Tanto prodotto glicato si formerà, tanto noi ne potremo andare a determinare. Le caratteristiche biochimiche che rendono questo parametro importante: 1. Avviene spontaneamente, in assenza di enzimi 2. La globina si trova all’interno dei globuli rossi che sono permeabili al glucosio 3. È una reazione irreversibile nella sua ultima tappa, quindi tanto se ne formerà, tanto ne andremo a ritrovare Quindi l’emoglobina glicata è un parametro importante, forse più importante del glucosio stesso perché questo ci informa sulla situazione glucidica in questo momento (il soggetto potrebbe non avere una situazione di iperglicemia al momento del prelievo ma potrebbe averla avuta un’ora prima o il giorno prima), mentre l’emoglobina glicata copre un momento molto lungo, ci dà un quadro dell’omeostasi glucidica per un periodo lungo e con grande attendibilità. L’emoglobina glicata non sempre può essere utilizzata nella diagnosi e nel monitoraggio, ci sono casi isolati in cui perde di attendibilità. Parliamo di 30-40 giorni perché se facciamo una media tra i globuli rossi nativi e quelli al termine del loro ciclo vitale, facendo una media e avendo una vita i gr di 120 giorni, noi consideriamo un periodo che va dai 30 ai 40 giorni. Una emoglobina glicata non può essere prescritta prima di 40 giorni dalla prescrizione della prima. L’emoglobina glicata si fa solo in HPLC, Cromatografia Liquida ad Alta Prestazione e non con altre metodiche. L’emoglobina glicata, invece, è un valore retrospettivo: ci dà il valore dell’omeostasi glucidica in un periodo pari a circa 40 giorni antecedenti rispetto al momento in cui effettuo il prelievo. Quindi ci dice se il soggetto, nei 40 giorni precedenti, ha avuto dei picchi di glicemia così elevati da avere determinato un aumento della glicazione. Quindi è un parametro molto più corretto e veritiero sull’andamento e sull’omeostasi glucidica del soggetto in studio. L’emoglobina glicata ha però dei limiti, dei valori diversi per la diagnosi e per il monitoraggio. Per la diagnosi sono inferiori rispetto ai cut-off che abbiamo per il monitoraggio. Il valore dell’emoglobina glicata si può esprimere o in % rispetto alla concentrazione di emoglobina presente nel soggetto ma oggi non si utilizza più. Oppure in millimole/mole che è il parametro più utilizzato. - Tra 20 e 42 diciamo che il soggetto è normale. - Fino a 53 il soggetto è diabetico ma in buon compenso metabolico, quindi è l’obiettivo terapeutico nel pz con malattia diabetica. - Al di sotto di 48 non è a rischio di complicanze, c’è un ottimo compenso metabolico. - Al di sopra di 64 la situazione è di grave scompenso metabolico e bisogna prendere degli accorgimenti terapeuti (cambiare o modificare la terapia in modo che i valori ritornino al di sotto dei cut-off). Questo è estremamente importante perché oggi l’unico parametro per il monitoraggio è questo, non è neanche la glicemia perché l’emoglobina dandoci una situazione per un lungo periodo ci permette di stabilire con esattezza il compenso metabolico del soggetto in un periodo molto lungo. Però l’emoglobina glicata ha dei limiti, non è attendibile in tutte le condizioni. Non è attendibile nel soggetto con: Emoglobinopatie, ad esempio talassemia e altre patologie che colpiscono il GR Altre condizioni Ipertriglicidermia, che sovrastima Farmaci Nel diabete di tipo 1 dobbiamo fare lo studio immunologico degli autoanticorpi e anche lo studio genetico soprattutto nei familiari di 1° e 2° grado del soggetto effetto. Per il monitoraggio invece l’emoglobina glicata è il parametro più importante sia nel diabete 1 che 2. I valori di emoglobina glicata per diagnosi e monitoraggio sono differenti, perché oggi diciamo che il soggetto diabetico non possiamo sperare che abbia valori di glicemia all’interno della normalità, ma che deve avere, per non avere un danno cellulare e un danno d’organo, una glicemia inferiore a quella che dà glicosuria, quindi mai superiore a 180mg/dL. Quindi non possiamo mai sperare che abbia valori di glicemia normali e non deve superare i 180. Sarà ben compensato un diabetico con valori di glicemia basali di 110, 120 mg/dL. ALBUMINA GLICATA. - Questa ha il vantaggio di non avere limiti anche nei soggetti con emoglobinopatie. Ha un utilizzo sostitutivo nei casi in cui non possiamo utilizzare l’emoglobina glicata, ma è aggiuntivo quando possiamo utilizzare l’emoglobina glicata perché ha un’emivita molto più breve rispetto al globulo rosso, di circa 15-20 giorni quindi ci dà informazioni sull’omeostasi glucidica in un periodo più ristretto. - La dobbiamo utilizzare quando iniziamo la terapia antidiabetica perché ci dice prima dell’emoglobina glicata se quella terapia è efficace. Si deve utilizzare anche quando cambiamo la terapia nel soggetto affetto da diabete. - è predittiva di pre-diabete. Ci dice se un soggetto può andare in contro a malattia diabetica perché oggi sappiamo che le complicanze del diabete non sono legate alle condizioni di iperglicemia costante ma ai picchi di iperglicemia che producono più danno rispetto ad una glicemia costantemente aumentata. Questo lo vediamo grazie all’albumina glicata che avendo un’emivita più breve ci permette di vedere eventuali picchi di glicemia. FRUTTOSAMINA. la FRUTTOSAMINA non va confusa con l’albumina glicata che è la glicazione di più proteine tra cui è compresa anche l’albumina, non sono la stessa cosa. - L’albumina glicata è molto utilizzabile nella donna in gravidanza perché la glicemia deve essere valutata per periodi brevi per cui è più utile dell’emoglobina glicata. Diversi metodi sono stati sviluppati per la valutazione della fruttosamina nel siero e plasma. I piu diffusi e meglio standardizzati sono i test colorimetrici che tipicamente sfruttano la proprieta della fruttosamina di essere un agente riducente in condizioni alcaline. La prima tecnica era basata sulla riduzione del colorante nitroblu di tetrazolio (NBT) a formazano. La velocita di formazione del formazano, direttamente proporzionale alla concentrazione di fruttosamina, veniva monitorata con metodo spettro-fotometrico. In seguito, e stato aggiunto un detergente non ionico contenente uricasi che ha eliminato l’interferenza da acido urico e poli-lisina, permettendo cosi una misurazione più accurata e sensibile. Il saggio cosi modificato e attualmente disponibile e ampiamente usato nei laboratori clinici. Sebbene sia rapido, tecnicamente semplice, poco costoso e disponibile per l’automazione, il metodo e pero influenzato da variazioni della temperatura ambientale e rimane poco standardizzato. Inoltre, molte molecole con attivita riducente, quali bilirubina e vitamine, possono interferire nella misurazione. I valori di fruttosamina presentano una modesta diminuzione con l’eta gestazionale e un modesto incremento con l’età materna e correlano inversamente con il fumo. Valori piu alti si riscontrano nel sesso maschile e sono state riportate differenze nelle diverse razze. Per quanto riguarda la scelta della matrice biologica da utilizzare per il dosaggio di questi marcatori, possono essere utilizzati sia siero sia plasma. Tuttavia, per quanto riguarda la fruttosamina, e stato riportato che i valori riscontrati su plasma risultano piu bassi rispetto a quelli ottenuti su siero. Per quanto riguarda la fruttosamina, e stata dimostrata una stabilita fino a 2 settimane con siero conservato a 4 °C e fino a 5 settimane se conservato a 20 °C. DIABETE GESTAZIONALE. Il diabete mellito gestazionale è una forma di malattia diabetica molto importante perché, quando presente, può dare con elevata frequenza delle conseguenze sia nel feto che nella madre. Si definisce diabete gestazionale quella situazione in cui l’omeostasi glucidica (in gravidanza) è alterata anche se non è alterata rispetto a dei parametri. Il parametro, il valore normale della glicemia che dobbiamo considerare in gravidanza non è più 100 mg/dl ma si abbassa a 92 mg/dl. Facciamo diagnosi di diabete gestazionale, quindi, quando la donna ha una glicemia basale superiore a 92 mg/dl. Se la donna(gravida) ha più di 126 mg/dl di glicemia non ha un diabete gestazionale, ma un diabete vero e proprio, probabilmente un diabete mellito di tipo 2. Se, invece, la donna ha più di 92 mg/dl di glicemia, ma meno di 126 mg/dl ha un diabete gestazionale. Il diabete gestazionale è una forma che bisogna riconoscere non solo per le complicanze in termini di morbilità che può dare sia al feto che alla madre ma, soprattutto, per le complicanze a distanza che dopo il parto può dare al feto. Diagnosi di diabete gestazionale Procediamo valutando la glicemia basale che deve essere al di sotto di 92 mg/dl; Però, anche al di sotto di questo valore le linee guida oggi dicono che la donna deve sottoporsi, tra la 24 e la 28 settimana di gravidanza, ad un carico orale di glucosio. Quindi, ad una curva da carico orale di glucosio o OGTT per vedere come viene metabolizzato il glucosio dopo somministrazione di un carico di glucosio. Nel diabete gestazionale si danno sempre 75 grammi di glucosio, ma la determinazione viene fatta a 60 e a 120 minuti, non più a 30 e 120 minuti, con valori che risultano differenti. Nella curva da carico di glucosio nel diabete abbiamo a 30 minuti 180 mg/dl, mentre qui abbiamo 180 mg/dl a 60 minuti e a 120 minuti non è più 140 mg/dl, ma 152. Se abbiamo una curva che si presenta al di sotto di questi valori, il soggetto non ha il diabete gestazionale; mentre se i valori si discostano in uno o più di questi tetti ai valori normali, il soggetto ha il diabete gestazionale. È bene fare in donne a rischio ossia donne obese, con diabete gestazionale o preeclampsia in gravidanze precedenti, una curva da carico orale di glucosio in maniera anticipata, non più alla tra la 24 e la 28 settimana ma tra la 14 e la 16 settimana di gravidanza. Nello screening per il diabete manifesto con più di 126 mg/dl o glicemia random più di 180 mg/dl ed emoglobina glicata 6,5% si fa diagnosi di diabete mellito manifesto o di tipo 2; mentre, se il soggetto non ha fattori di rischio o ha bassi fattori di rischio si fa una OGTT tra la 24 e la 28 settimana di gravidanza per valutare la presenza di un diabete gestazionale. Nelle donne, però,che hanno un diabete gestazionale pregresso, che sono obese o che hanno una glicemia tra 100 e 120 mg/dl (quindi già da diabete gestazionale), o che hanno avuto una preeclampsia in una gravidanza precedente, bisogna fare tra la 14 e la 16 una curva da carico di glucosio con le stesse modalità della curva precedente. volemia, un aumento delle gamma-globuline (alcune malattie croniche come la cirrosi epatica o alla presenza di proteine abnormi). Più frequentemente si osserva una riduzione delle proteine totali durante una gravidanza, o per una ridotta sintesi proteica, per insufficiente apporto proteico alimentare o ancora per aumentata perdita proteica, per esempio a causa di una dieta povera di proteine. L’elettroforesi è una tecnica separativa basata sulla diversa velocità di migrazione di particelle dotate di carica elettrica attraverso una soluzione e sotto l’influenza di un campo elettrico applicato. Consente lo studio delle macromolecole al fine di ottenere la loro separazione qualitativa e la loro analisi quantitativa. La velocità di migrazione di una proteina dipende da: massa molecolare, dimensione, forma, carica della particella. A seconda del tipo di strumentazione che si possiede, avremo una piccola banda prima che è quella della pre-albumina, segue l’albumina e poi ci sono le globuline. A seconda della sensibilità della strumentazione elettroforesica, possiamo distinguere le alfa 1, le alfa 2, le beta 1, le beta 2, le gamma 1 e la gamma 2. In una strumentazione elettroforesica distinguiamo l’albumina, le alfa 1 e le alfa 2, le beta 1 e le beta 2 e le gamma. Mentre l’albumina è solo una proteina, le altre sono gruppi di proteine e in queste bande esse sono raggruppate e mentre alcune sono molto rilevanti altre lo sono meno. Nelle alfa1 vi sono due proteine che sono molto importanti in quanto esse siano proteine di fase acuta positiva, ovvero, che si innalzano e aumentano durante i processi acuti che sono l’ 1-antitripsina e l’ 1 Glicoproteina acida. Nell’alfa due vi è un’altra proteina in fase acuta che è l’ 2- macroglobulina e l’aptoglobina (proteina che lega l’emoglobina all’emolisi). La banda beta contiene più proteine, le più importanti sono la transferrina che è quella proteina che lega il ferro a livello ematico) e poi la gamma che contiene le diverse immunoglobuline (a, d, e, g, n). La prima proteina che però non sempre si vede è la pre-albumina. Essa ha un ruolo molto importante nella valutazione dello status nutrizionale di un soggetto. È una proteina che avendo un’emivita di due/tre giorni rispetto all’albumina che ha un’emivita di venti giorni, ci permette di valutare le variazioni dello status nutrizionale con una buona attendibilità. È una proteina sintetizzata a livello epatico. La concentrazione sierica come per l’albumina è molto bassa durante la vita fetale. Può essere riprodotta durante la vita neonatale e del lattante e poi torna in concentrazione più alta nella vita adulta. PROTEINE SIERICHE. (PROTEINE DI FASE ACUTA.) (vedi marker sepsi) La prealbumina come l’albumina sono proteine di fase acuta negativa, quindi diminuiscono nei processi patologici. Esse diminuiscono perché essendo proteine ben presenti nel nostro sangue. E’ un indicatore dello stato proteico nutrizionale. La concentrazione della prealbumina (chiamata anche trans-tiretina o TTR) piò essere influenzata da diversi fattori. Le concentrazioni della TTR possono aumentare a causa di corticosteroidi esogeni o steroidi anabolizzanti; da farmaci antiinfiammatori non steroidei, fattori di crescita insulino-simile 1 (insulin-like growth factor 1, IGF 1) esogeno o endogeno. Inoltre le concentrazioni aumentate della TTR possono essere dovute ad un ridotto catabolismo da insufficienza renale cronica o da danno tubulare renale. Le concentrazioni diminuite della prealbumina invece sono influenzate dal fatto che il paziente sia un infante o al contrario, in età avanzata; o ancora, per una ridotta sintesi (proteina in fase acuta negativa); somministrazione di IL-6, estrogeni esogeni o endogeni, tireopatia, specialmente gozzo endemico. Le concentrazioni diminuite possono anche essere dovute ad un’alterata distribuzione: aumentata permeabilità vascolare, ascite o versamento pleurico, posizione clinostatica prima del prelievo ematico (es. nei pazienti allettati), emo-diluizione acuta. PROTEINE DI FASE ACUTA. Gli indicatori più spesso utilizzati nella pratica clinica sono la PCR e la velocità di eritrosedimentazione (VES). PROTEINA C REATTIVA. (PCR.) La proteina C reattiva (PCR) é una proteina (alfa-globulina) che appartiene alla famiglia delle pentraxine, proteine leganti il calcio costituite da cinque subunità identiche che si aggregano a formare una molecola pentamerica a forma di anello; prende il nome grazie alla sua capacità di legare e precipitare il polisaccaride C del pneumococco. Tale fenomeno é dovuto alla reazione calcio-dipendente che avviene tra i residui di fosfatidilcolina presenti nel polisaccaride C della parete batterica e la PCR. La PCR può legare anche altre molecole che contengono residui di fosfatidilcolina, come i fosfolipidi, le lipoproteine plasmatiche o le membrane cellulari danneggiate. Infine, la PCR é in grado di attivare la via classica del Complemento e di legarsi alla cromatina, agli istoni e a piccole particelle riboproteiche; il legame della PCR a cellule o a detriti nucleari, contribuisce a eliminare materiale che potrebbe far persistere l’infiammazione e produrre reazioni specifiche autoimmunitarie contro antigeni nucleari. La PCR agisce, quindi, come una opsonina, in grado di legarsi a un elevato numero di sostanze, sia esogene sia endogene, e facilitarne la rimozione dal circolo favorendone la fagocitosi da parte dei leucociti (opsonizzazione). La PCR aumenta, in maniera piú marcata rispetto ad altre proteine di fase acuta, in caso di infiammazione, infezioni batteriche e traumi. Le infezioni virali generalmente non causano un significativo aumento della PCR e pertanto, in assenza di traumi, un aumento della PCR é indicativo di infezione batterica. In realtà, se l’infezione virale é molto "flogistica" come nella tonsillite da adenovirus o nella mononucleosi, anche la risposta di laboratorio in termini di VES e CRP, é importante. La PCR é sintetizzata dal fegato principalmente in risposta all’IL-6; i suoi livelli aumentano entro 4-8 ore dalla comparsa di un processo infiammatorio, raggiungendo il picco entro 48 ore e diminuendo rapidamente una volta risolto lo stato infiammatorio, grazie alla sua breve emivita (circa 24h). L’incremento dei valori di PCR é indicativo d’infiammazione acuta o cronica, malattia autoimmunitaria o da complessi immuni, necrosi tissutale e neoplasie; valori normali non escludono però la presenza di piccoli focolai infiammatori, oppure di lupus eritematoso sistemico (LES), sclerosi sistemica progressiva, dermatomiosite e colite ulcerosa, in cui la risposta della fase acuta é minima. L’incremento di PCR, sebbene indichi la presenza di uno stato infiammatorio, non da alcuna informazione sull’eziologia e, pertanto, la determinazione della sua concentrazione plasmatica non é utile ai fini diagnostici. Il dosaggio della PCR é, invece, utile per: • Valutare l’andamento e la gravità del processo infiammatorio (infezioni, IMA, trombosi venose profonde, malattie reumatiche, neoplasie); • Determinare l’efficacia di una terapia antinfiammatoria; • Verificare il processo di guarigione delle ferite chirurgiche, delle ustioni o del trapianto d’organo; • Diagnosticare e/o monitorare un’infezione, nei casi in cui occorre avere tale informazione precocemente, prima dei risultati delle indagini microbiologiche (complicazioni infettive post-operatorie, terapia intensiva, neonatologia, infezioni per neutropenia da chemioterapici o post-trapianto, monitorare la risposta alla terapia antibiotica). Valori normali di PCR VES. (VELOCITÀ DI ERITROSEDIMENTAZIONE) La velocità di eritrosedimentazione (VES) rappresenta la velocità (spazio/tempo) con cui i globuli rossi sedimentano nel campione di sangue dopo il prelievo in provetta con anticoagulante ed é espresso in millimetri di sedimento prodotto in un’ora. In condizioni fisiologiche, i globuli rossi in sospensione sedimentano poco se restano separati gli uni dagli altri, mentre se si aggregano e costituiscono ammassi cellulari sedimentano molto piú velocemente. Questo fenomeno é maggiore in rapporto con le dimensioni degli aggregati. L’aggregazione dei globuli rossi é ostacolata dalle cariche elettriche delle loro membrane e favorita dalle proteine dell’infiammazione. La carica negativa della superficie dei globuli rossi fa sí che gli eritrociti si respingano tra loro; tuttavia tale negatività potrebbe essere neutralizzata in presenza di proteine plasmatiche con carica positiva che favoriscono perciò l’aggregazione degli eritrociti. La VES, pertanto, é regolata dall’equilibrio tra i fattori pro-sedimentazione (proteine ed in particolare il fibrinogeno, la proteina C reattiva, le IgM e l’alfa 1-macroglobulina) e anti-sedimentazione (carica negativa di membrana degli eritrociti). Gli aggregati che si formano sono detti rouleaux e sono costituiti da eritrociti impilati gli uni sugli altri. La sedimentazione può essere suddivisa in tre fasi: o Formazione dei rouleaux; o Aggregazione dei rouleaux tra di loro che tendono a sedimentare; o Accelerazione della sedimentazione con accumulo dei rouleaux sul fondo della provetta. La VES é un test che determina indirettamente il grado d’infiammazione presente nell’organismo. Per eseguire il test, il sangue intero non coagulato veniva tradizionalmente trasferito in un tubo verticale di piccolo calibro e la velocità con cui i globuli rossi si separavano dal plasma veniva misurata e riportata in millimetri di fluido (plasma) presenti nella porzione superiore del tubo dopo un’ora (mm/h). Due erano i principali metodi di esecuzione della VES, il metodo Wintrobe ed il metodo Westergren che é il piú diffuso. La differenza tra i due é data dal diametro e dalla lunghezza del capillare utilizzato; per entrambi i metodi, la VES si valuta a un’ora. Nel passato si utilizzava anche la VES a 2 ore ed il cosí detto indice di Katz dato dalla media della VES ad 1 ora e quella a 2 ore, ma sono indagini ormai obsolete. Attualmente, l’introduzione di analizzatori automatici nei laboratori clinici, consente di determinare la VES mediante fotometria capillare quantitativa secondo cui il valore della VES non é piú rilevato con un’unica lettura dopo un intervallo di tempo, ma risulta dalla misurazione dinamica del processo di formazione degli agglomerati di eritrociti. Tale tecnica consente di ottenere il risultato in tempi piú brevi, superando tutte le variabili e le limitazioni del metodo a sedimentazione. La VES é un esame di laboratorio che viene comunemente richiesto nella pratica clincia ma é altamente aspecifico. Infatti, la VES può incrementare in numerose condizioni patologiche di natura completamente diversa, inoltre il valore della VES non é proporzionato in alcun modo all’entità e alla gravità della malattia ed al suo andamento. Inoltre, un risultato negativo della VES non consente di escludere alcuna patologia. La VES é molto richiesta nella pratica clinica e rappresenta un test di I livello perché la sua determinazione é di facile esecuzione, poco costosa e fornisce un’indicazione generica sulla presenza di una condizione di alterazione, di natura infiammatoria, che potrà essere individuata mediante l’esecuzione di indagini piú specifiche. Quindi, il riscontro di elevati valori di VES rappresenta una "spia di allarme" che deve indurre a indagini piú approfondite. Le donne e gli anziani presentano tendenzialmente valori piú elevati di VES, questi devono essere differenziati in base all’età e al sesso. La diminuzione può inoltre essere dovuta ad un aumento di perdite (emorragia, sindrome nefrosica). Per quanto riguarda l’Albumina, l’unica variazione clinicamente significativa è la sua riduzione. Le cause sono diminuita sintesi (disfunzione epatica o ridotto apporto proteico), alterata distribuzione tra il compartimento ematico e gli spazi extra-vascolari, perdita del “terzo spazio” in seguito a edema o ascite, perdita verso l’esterno (la perdita urinaria è una caratteristica patognomica della sindrome nefrosica) processo infiammatorio, gravidanza, rari disordini congeniti. Poi abbiamo la banda delle alfa1 globuline. Tale frazione elettrostatica esprime principalmente il comportamento delle proteine di fase acuta alfa1-glicoproteina, alfa1-antitripsina e dell’alfa1-lipoproteina. Cause di alterazione di questa frazione proteica sono per l’aumento della concentrazione gravidanza, malattie infettive, malattie infiammatorie croniche, IMA e neoplasie. Per la sua riduzione di concentrazione le cause possono essere sclerodermia, sindrome nefrosica o la carenza congenita di alfa1 anti-tripsina. L’alfa1-antitripsina è una glicoproteina che appartiene alle famiglie delle serpine. E’ un importante inibitore di proteasi seriniche extracellulari (come la collagenasi, l’elastasi) che sono liberate localmente nel corso dei processi infiammatori dei leucociti, del fegato, del pancreas. E’ una proteina di fase acuta positiva, valori normali tra 0,9-2 g/L. Il deficit di AAT può derivare da un disordine autosomico recessivo associato ad un aumentato rischio di sviluppare patologie epatiche (fibrosi epatica, cirrosi, carcinoma epatico) e polmonari (enfisema, broncopneumopatia cronica ostruttiva). La banda successiva è quelle delle alfa2 globuline. Una delle più importanti è l’aptoglobina. E’una gliproteina di trasporto sintetizzata nel fegato che lega in modo irreversibile l’emoglobina libera, rilasciata in seguito al turn-over eritrocitario fisiologico o in seguito a processi emolitici. Il complesso aptoglobina- emoglobina viene rapidamente eliminato dal circolo dai macrofagi nel fegato e nella milza. È una proteina di fase acuta positiva. Valori normali 0,3-2 g/L. Ha un’emivita di circa 8 minuti. Le cause di alterazione dei livelli posso essere in caso di diminuzione un’emolisi intravasale e in caso di aumento citochine pro- infiammatorie. Un’altra importante proteina è l’alfa2-macrobulina sintetizzata dal fegato e dai macrofagi. E’ un potente inibitore delle proteasi (come la tripsina, la callicreina plasmatica, la trombina, la plasmina). E’ una proteina di fase acuta negativa. Le cause di alterazione dei livelli sono in caso di diminuzione dovuta alla fase acuta dell’infiammazione, per le pancreatiti, per il carcinoma della prostata perché si lega al PSA. Nel caso di aumento della concentrazione dovuta ad una sindrome nefrosica per la ritenzione selettiva legata alla dimensione della proteina e per l’aumento della sintesi, in caso di gravidanza, in età senile. Valori normali di VES tre semplicissimi parametri: frequenza respiratoria 22 atti/minuto; alterazione mentale; pressione arteriosa 100 mmHg. Se il paziente presenta almeno due dei sopra citati parametri, vi è un’alta probabilità di sepsi. Rispetto al SOFA score, il qSOFA si basa solamente su criteri clinici e non richiede test di laboratorio, fornendo così una valutazione più semplice e rapida del paziente con sospetto di sepsi (Figura 35.2). Si deve comunque sottolineare che qualsiasi sia lo strumento utilizzato in fase di valutazione iniziale del paziente, nessuno dei sistemi di score, semplici o complessi che siano, consente di porre una diagnosi di certezza di sepsi, risultando piuttosto funzionali a una sorta di screening, per indirizzare il clinico verso un work-up diagnostico mirato [5,6]. Ciò risulta particolarmente importante anche alla luce del fatto che i segni e sintomi di sepsi sono condivisi da varie altre patologie, quali politraumi, pancreatite acuta, e tromboembolismo venoso [5]. MARCATORI DI SEPSI. (MARKER DI SEPSI.) Nell’ambito della diagnosi di sepsi, così come in altri ambiti della medicina, il ruolo dei biomarcatori può divenire determinante. Il termine biomarcatore è convenzionalmente utilizzato per identificare un analita misurabile con tecniche di laboratorio, il cui ruolo essenziale è quello di aumentare l’efficienza diagnostica, migliorando quindi la decisione clinica nel suo complesso [14]. Nei pazienti con sepsi, un biomarcatore ideale dovrebbe, quindi, soddisfare il maggior numero di criteri esposti in precedenza, e cioè favorire lo screening, facilitare la diagnosi precoce, dare utili indicazioni in merito alla prognosi e, se possibile, essere di ausilio per la scelta e la modulazione della terapia antibiotica. Nel corso degli anni la ricerca nell’ambito dei marcatori diagnostici di sepsi ha ricevuto un considerevole impulso, come testimoniato dal considerevole numero di pubblicazioni apparse sui motori di ricerca scientifici più validi e utilizzati (Medline, Scopus, Web of Science) [15]. Una ricerca e analisi di queste pubblicazioni ha recentemente portato due Società Scientifiche di Medicina di Laboratorio e Medicina d’urgenza (SIBioC, Società Italiana di Biochimica Clinica e Medicina di Laboratorio e AcEMC, Academy of Emergency Medicine and Care) a formulare una serie di raccomandazioni sulla base del consenso e, quindi, in accordo al Programma Nazionale per le Linee Guida (PNLG) [16], in merito all’utilizzo dei potenziali biomarcatori di sepsi nella pratica clinica. I documenti utilizzati per la stesura del documento sono disponibili come voci bibliografiche e possono essere consultati per eventuali approfondimenti [17-49]. Pur con eterogeneità analitica gli studi in oggetto attribuiscono le migliori performance diagnostiche a tre di questi biomarcatori: proteina C reattiva (PCR), procalcitonina (PCT) e presepsina [52]. Inoltre, un altro biomarcatore che sembra essere promettente è l’adrenomedullina (ADM). Per quanto, invece, concerne le performance per guidare la terapia antibiotica (soprattutto per determinare il momento ottimale per la sospensione della stessa), a oggi le evidenze più solide sono in favore dell’utilizzo della PCT, seppur con qualche dubbio residuo. Non esistono attualmente solide evidenze per suggerire l’utilizzo di altri biomarcatori, quali interleuchina-6 (IL-6), proteina legante il lipopolisaccaride (Lipopolysaccharide-Binding Protein, LBP), nCD64 (neutrophil CD64), sTREM-1 (soluble Triggering Receptor Expressed on Myeloid cells-1) e suPAR (soluble urokinase-type Plasminogen Activator Receptor). Si ritiene che la PCT debba costituire, allo stato attuale delle conoscenze, il biomarcatore di prima scelta, eventualmente affiancato dalla PCR, al fine di aumentarne la sensibilità diagnostica. Sulla base di dati ancora preliminari, si ritiene che, in una prospettiva futura, la presepsina potrebbe sostituire la PCT, anche se al momento i dati sono insufficienti. Qualsiasi sia il marcatore o i marcatori prescelti, essi dovrebbero essere richiedibili al laboratorio sia in routine sia in emergenza, secondo modalità generalmente valide per altri più diffusi biomarcatori (es. troponina o peptidi natriuretici). Per quanto concerne la soglia diagnostica, è preferibile utilizzarne una che privilegi la sensibilità diagnostica (es. 0,5 ng/mL per PCT), piuttosto che una più elevata che ne privilegi la specificità. Indipendentemente dalle sue performance diagnostiche, il valore del biomarcatore deve sempre essere interpretato in accordo con i dati clinici del paziente, onde ottimizzarne l’efficienza diagnostica. Anche il timing di richiesta del biomarcatore deve seguire un approccio razionale, basandosi sulla cinetica in vivo e sull’emivita. Pertanto, per la PCT (aumento 2-4 ore dalla comparsa dei sintomi, picco a 6-8 ore ed emivita di 20-24 ore) e la PCR (aumento 12-24 ore dalla comparsa dei sintomi, picco a 48-72 ore ed emivita di 20 ore), l’intervallo temporale tra una determinazione e la successiva non deve essere inferiore a 24 ore, che si riducono a 5 ore per la presepsina (la quale manifesta un aumento a 2 ore dalla comparsa dei sintomi, con picco a 3-4 ore ed emivita di 4-6 ore). Per quanto concerne la terapia antibiotica, l’utilizzo della PCT sembra oggi un buon ausilio al fine di identificare precocemente la possibilità di sospenderla, riducendo in tal modo sia effetti indesiderati, sia il potenziale sviluppo di antibiotico-resistenza. Anche in questo caso, il monitoraggio della PCT dovrebbe prevedere un intervallo tra due determinazioni successive non inferiore a 18-24 ore. PROTEINA C REATTIVA. (PCR.) La proteina C reattiva appartiene alla famiglia delle pentraxine, proteine così chiamate perché formano un pentamero ciclico costituito da 5 subunità identiche non glicosilate, non covalentemente legate e organizzate in una struttura discoidale altamente stabile. La PCR è una proteina di fase acuta positiva sintetizzata nel fegato in risposta a uno stimolo infettivo e/o infiammatorio. In condizioni fisiologiche, la concentrazione plasmatica di PCR è <5 mg/L ma può aumentare fino a 1000 volte in corso di infezione/infiammazione. La sintesi epatica comincia dopo 6-8 ore dall’inizio dello stimolo infettivo/infiammatorio e i suoi livelli raggiungono il picco tra 48-72 ore dall’inizio dello stimolo. Ha un’emivita di circa 20 ore e viene eliminata a livello epatico. Questo biomarcatore è comunemente utilizzato nella pratica clinica per identificare la presenza di processi infiammatori e infettivi, ma la sua specificità per la diagnosi di sepsi è piuttosto bassa. Infatti, la sintesi di PCR potrebbe essere sostanzialmente potenziata da numerosi stimoli diversi dalla sepsi (es. un trauma). Inoltre, i livelli di PCR non correlano sufficientemente con la severità del processo; pazienti con sepsi severa potrebbero presentare solo un moderato incremento di PCR (circa 50-100 mg/L). Infine, la PCR non è considerata un biomarcatore ideale di sepsi perché i suoi valori raggiungono il picco lentamente e il loro decremento richiede diversi giorni di trattamento, quindi la PCR non è utile per la diagnosi precoce di sepsi. Tuttavia, poiché è ampiamente disponibile, ha una buona riproducibilità e bassi costi, la PCR è spesso utilizzata nella pratica clinica. PROCALCITONINA. la PCT appare oggi come il biomarcatore più efficiente nei pazienti con sepsi, così come in pazienti con gravi infezioni localizzate, in particolare la polmonite. In termini biochimici, la PCT deve essere considerata un precursore dell’ormone calcitonina, quest’ultimo coinvolto nell’omeostasi del calcio. In condizioni fisiologiche, la PCT ha una concentrazione ematica molto bassa (solitamente <0,05 ng/mL), poiché è originariamente prodotta come pre-procalcitonina (141 amminoacidi) dalle cellule C della tiroide, convertita quindi a PCT (116 amminoacidi) e, successivamente, in ormone attivo calcitonina (32 amminoacidi), PCT N-terminale (N- PCT; 57 amminoacidi) e catacalcina (21 amminoacidi). A seguito di gravi infezioni batteriche (soprattutto se generalizzate come la sepsi), la sintesi di PCT diviene prevalentemente extra-tiroidea (soprattutto a opera di fegato, polmoni, pancreas, rene, intestino, leucociti) e la sua concentrazione aumenta da 100 a oltre 10.000 volte quella presente in condizioni fisiologiche. In soggetti con sepsi non è quindi raro osservare concentrazioni che superano i 10-100 ng/mL, con l’entità di aumento sommariamente correlabile alla gravità delle infezioni e alla prognosi. In termini biologici, questa eterogeneità di produzione si giustifica con il fatto che l’espressione del gene che codifica per la calcitonina (CALC-1) è limitata alle cellule C della tiroide in condizioni fisiologiche. Per effetto, tuttavia, di stimoli batterici (sia direttamente, per effetto di endotossina e altre tossine batteriche, sia indirettamente a causa di reazioni metaboliche dell’organismo in risposta all’infezione), l’espressione del gene CALC-1 è considerevolmente amplificata nei tessuti extra-tiroidei. In associazione all’aumentata sintesi extra-tiroidea, il processo di degradazione di PCT generata in risposta a infezione batterica in calcitonina, N-PCT e catacalcina viene considerevolmente soppresso, il che giustifica le concentrazioni elevatissime di PCT che si riscontrano in pazienti con infezioni gravi locali e, soprattutto, sistemiche [54] (Figura 35.5). La sepsi e l’infiammazione sistemica possono essere escluse se la concentrazione plasmatica di PCT è 0,2 ng/mL, mentre livelli plasmatici 0,5 ng/mL sono suggestivi di sepsi. La secrezione di PCT inizia entro 2-4 ore dall’inizio della sepsi e i suoi livelli raggiungono il picco a 6-8 ore. Sebbene livelli normali di PCT abbiano un elevato valore predittivo negativo, questo biomarcatore non può sostituire la valutazione clinica. Pertanto, se in un paziente con sospetto di sepsi i livelli di PCT sono bassi, il paziente deve essere comunque trattato per sepsi. La cinetica della PCT fornisce informazioni più utili rispetto al valore assoluto. Infatti, l’incremento dei valori di PCT nel tempo è associato a un outcome peggiore, mentre la riduzione nel tempo dei livelli di PCT sono associati a una minore mortalità, anche se i valori di PCT in assoluto sono alti. Il monitoraggio dei livelli di PCT in pazienti settici potrebbe fornire, inoltre, indicazioni sull’appropriatezza della riduzione della terapia antimicrobica. In letteratura, sono stati proposti vari algoritmi basati sui livelli di PCT per ridurre la durata della terapia antibiotica in pazienti settici e, sebbene i loro cut-off varino, quasi tutti gli algoritmi supportano l’interruzione della terapia se la concentrazione di PCT è <0,5 ng/mL. Come dimostrato da vari trial randomizzati, l’applicazione dei protocolli di PCT potrebbe ridurre la lunghezza del trattamento antimicrobico, portando quindi a diversi benefici per i pazienti (ridotta esposizione agli antibiotici) e per il sistema sanitario (ridotto consumo di risorse). Tuttavia, evidenze contrastanti derivano da un grosso studio di coorte retrospettivo che non ha riscontrato alcuna associazione tra l’uso delle strategie basate sulla PCT e un migliore impiego della terapia antibiotica o una ridotta mortalità. Pertanto, ulteriori studi sono necessari per supportare l’efficacia degli algoritmi basati sui livelli di PCT. A prescindere dal ruolo che si va consolidando nell’ambito del monitoraggio terapeutico della sepsi, un aspetto emergente della PCT riguarda la sua utilità nell’ambito delle infezioni gravi localizzate, come, per esempio, la polmonite batterica. In questo ambito, è stato suggerito che l’utilizzo di cut-off diversificati, sempre in combinazione con la clinica, possa essere di ausilio per la diagnosi e per iniziare la terapia antibiotica (nel caso della polmonite il cut-off andrebbe posto a 0,25 ng/mL, quindi inferiore al valore di 0,5 ng/mL utilizzato nella diagnosi di sepsi). PRESEPSINA. Il sCD14-ST (soluble Cluster of Differentiation 14-Sub-Type), noto anche come presepsina, è un frammento solubile del CD14 (Cluster of Differentiation 14). Il CD14 è un recettore per complessi formati da lipopolisaccaride (LPS) e proteina legante il lipopolisaccaride, presente sulla membrana dei fagociti, la cui principale funzione è l’attivazione della cascata infiammatoria nell’immunità innata, così come avviene nei pazienti con la sepsi. I livelli di presepsina in soggetti sani sono <6 g /L, ma in corso di sepsi aumentano significativamente e tale incremento è legato alla gravità della patologia. Da studi clinici è emerso che la presepsina presenta una migliore sensibilità e specificità rispetto ad altri biomarcatori di sepsi. Per esempio, rispetto alla PCT, i livelli di presepsina incrementano più rapidamente, entro 2 ore, raggiungono il picco a 3 ore e si riducono a 4-8 ore. La presepsina rappresenta, quindi, un biomarcatore precoce di diagnosi. Ha però una specificità relativamente bassa perché i suoi livelli incrementano significativamente non solo nella sepsi, ma anche in altre condizioni patologiche quali malattie coronariche, scompenso cardiaco, cirrosi epatica e diabete mellito scompensato. Pertanto, questo biomarcatore dovrebbe essere utilizzato sempre in associazione con i dati clinici. I livelli di presepsina, inoltre, correlano con la gravità della sepsi e il rischio di mortalità. Dunque, la presepsina rappresenta un utile biomarcatore per la gestione dei pazienti settici consentendo sia una diagnosi precoce sia la valutazione della severità. Tuttavia, ulteriori studi sono necessari per validarne l’uso nella pratica clinica. ● Quando i valori sono intermedi, cioè compresi fra 2,6 e 21,4 pcmol/L, in questo caso quando: o La copeptina < 4,9 pmol/L parliamo di diabete insipido centrale ipolatamico parziale, di minore gravità, cioè l’ipotalamo ancora ne secerne una piccola quota (sens. E spec. Molto elevate). o La copeptina > 4,9 pmol/L parliamo di polidispia primaria, quindi potomania. Si ripetono i valori una seconda volta per esserne certi, e in base a questi con un’estrema facilità con un prelievo venoso giungiamo alla diagnosi e anche alla diagnosi differenziale. Poi c’è l’altro algoritmo, quello di Fenske che però tranne qualche piccola variazione, tiene sempre conto dei valori basali della copeptina. Nel caso del diabete insipido oggi abbiamo una nuova molecola, la copeptina, attraverso cui facciamo diagnosi di diabete insipido e diagnosi differenziale tra diabete insipido ipotalamico, nefrogenico, mentre prima si faceva una prova dinamica che era quella della deprivazione idrica (osservando come cambiava l’osmolarità nelle urine) che comunque si continua a fare. TEST DI DEPRIVAZIONE IDRICA. Come facevamo con il test della deprivazione idrica a distinguere un diabete insipido ipotalamico da un nefrogenico? Si può somministrare un analogo dell’ADH che è la desmopressina: ✔ Se somministrandola il paziente riprende la funzionalità e ricomincia ad assorbire acqua a livello del tubulo distale, vuol dire che si tratta di un DI centrale, legato a una ridotta concentrazione dell’ormone; ✔ Se invece somministrando la desmopressina si mantiene l’alterazione vuol dire che è un problema a livello del tubulo renale, recettoriale e allora si tratta di DI nefrogenico. In questo modo, qualora non si possa valutare la copeptina si fa diagnosi differenziale tra diabete insipido nefrogenico e ipotalamico. Non sono infrequenti nei soggetti che hanno delle psicosi, che fanno uso di farmaci particolari, casi in cui si possono avere quadri di potomania. I pazienti bevono molta acqua e ciò può causare una condizione di iposodiemia. Iposodiemia Iperpotassiemia e iposodiemia sono due condizioni che danno delle urgenze mediche, si manifestano con sintomi differenti a carico di organi diversi. L’Iperpotassiemia si manifesta soprattutto con alterazione della frequenza cardiaca, con fibrillazione. L’iposodiemia causa alterazione osmotica, con passaggio di acqua livello soprattutto della barriera ematoencefalica, e quindi edema cerebrale, complicanza da non sottovalutare dal punto di vista prognostico. DIABETE INSIPIDO. Il diabete insipido in passato si diagnosticava con il test da deprivazione idrica, indagine che può dare talvolta degli effetti collaterali che portano ad interromperne l’esecuzione. Con questo test si priva il soggetto dell’assunzione di acqua e liquidi e si va a valutare la raccolta di urina e la variazione di alcuni parametri urinari in corso di deprivazione. È un’indagine che non dà rischi collaterali, ma la deprivazione può indurre disidratazione cellulare che in alcuni casi può dare una sintomatologia che deve comportare l’interruzione dell’esame diagnostico. I pazienti affetti da diabete insipido dal punto di vista sintomatologico presentano: ● Poliuria; ● Polidispia, molto importanti. Si eliminano 3-4-5 litri di urine a seconda della gravità. “In alcuni romanzi è riportato come i pazienti provino addirittura a bere la propria urina spinti dall’eccessivo bisogno di bere”. Quindi non è una polidispia o una poliuria simile a quella dei pazienti con diabete mellito, bensì è di molto più importante e di grado elevato. Ci sono casi in cui si arriva a 10-15 litri di urine al giorno. Distinguiamo fondamentalmente due7 tipi di diabete insipido: ● Diabete insipido Ipotalamico, con carente biosintesi e secrezione di ADH; ● Diabete insipido Nefrogenico, che non è legato ad un problema quantitativo dell’ormone secreto, ma vede un’alterazione a livello recettoriale nel tubulo renale; ● Diabete insipido Gestazionale (inserito da poco nelle nuove classificazioni, non è frequente) dovuto ad un’aumentata degradazione dell’ADH durante la gravidanza; ● Polidispia primitiva, soppressa secrezione di ADH che si verifica nei potomani per un’eccessiva assunzione di acqua. Tale forma di diabete insipido ha un effetto collaterale molto grave in quanto all’aumentare dei liquidi assunti si determina una riduzione della sodiemia, che causa, per un effetto osmotico, l’edema cerebrale. Le iposodiemie conseguenti a questa situazione possono portare a questa conseguenza grave, è una patologia che va attenzionata e dal punto di vista terapeutico si interviene infondendo soluzioni saline, a goccia molto lenta, non si può fare con boli altrimenti si crea l’effetto rebound. Diagnosi differenziale ● Un tempo si faceva con la deprivazione idrica osservando come cambiava l’osmolarità nelle urine. ● Oggi invece abbiamo la possibilità di dosare la copeptina. “La copeptina è una glicoproteina che origina dal pre-pro-ormone pre-provasopressina, costituito da ADH, neurofisina II e copeptina”. La copeptina più facilmente e con maggiori caratteristiche di validità ai fini del dato ci permette di valutare e differenziare i vari tipi di diabete insipido. Esistono degli algoritmi, delle flowchart, oggi applicate, in particolare due. L’algoritmo maggiormente utilizzato è quello di Timper. Nell’algoritmo di Timper si parte dalla copeptina e in base alle concentrazioni di questa, si dipartono dei bracci che ci portano ad identificare quella che è la forma di patologia che determina quella sintomatologia. ● Se la copeptina ha una concentrazione inferiore a 2,6 pmol/L, possiamo con una sensibilità e specificità estremamente alte del 95% e 100% (noi consideriamo un buon parametro quando un biomarcatore ha una sensibilità e specificità superiore all’85%) fare diagnosi di diabete insipido centrale completo, ipotalamico legato a carenza. ● per valori superiori a 21,4 pmol/L si tratta di Diabete insipido nefrogenico con sensibilità e specificità del 100%. ● Quando i valori sono intermedi, cioè compresi fra 2,6 e 21,4 pmol/L, in questo caso quando: o La copeptina < 4,9 pmol/L parliamo di diabete insipido centrale ipolatamico parziale, di minore gravità, cioè l’ipotalamo ancora ne secerne una piccola quota. o La copeptina > 4,9 pmol/L parliamo di polidispia primaria, quindi potomania. Si ripetono i valori una seconda volta per esserne certi, e in base a questi con un’estrema facilità con un prelievo venoso giungiamo alla diagnosi e anche alla diagnosi differenziale. Poi c’è l’altro algoritmo, quello di Fenske che però tranne qualche piccola variazione, tiene sempre conto dei valori basali della copeptina. SINDROME DA INAPPROPRIATA SECREZIONE DI ADH (IPONATRIEMIA.) La situazione opposta al Diabete Insipido è la Sindrome da inappropriata secrezione di ADH; in passato si valutava se fosse più o meno opportuno cambiare questa denominazione poiché il termine “inappropriata” fa sembrare che sia una patologia da scarsa produzione, quando, invece, accade l’opposto. La diagnosi è clinica, ma soprattutto di laboratorio. 7 Nel passato si distinguevano solamente DI ipotalamico e nefrogenico, oggi se ne distinguono 4. In pazienti con iponatriemia ipotonica, si ha iposodiema, qualora tali pazienti siano soggetti normali, che non hanno problemi di assunzione di farmaci, o non assumono in maggiori quantità liquidi, si deve sempre immaginare che vi possa essere tale sindrome. In pazienti con iponatriemia ipotonica associata ad euvolemia, definita come assenza dei segni legati all’ipovolemia, si deve sospettare la SIADH, tale condizione patologica non è molto frequente. L’iponatriemia è una condizione clinica grave da attenzionare, e la terapia non può essere fatta in bolo, ma si fa in pura infusione salina molto lentamente per ricreare una situazione di equilibrio. Tra gli esami che si fanno è principalmente la sodiemia quella che guida: ● A livello sierologico valori < 135 mmol/L (valore normale è 145-150) che si collega ad una ipo- smolarità <285 mmol/L, con tutti gli altri parametri che possono alterare la sodiemia normali, quindi, il potassio, ormoni tiroidei, i glucocorticoidi, l’aldosterone, devono fare porre il sospetto. ● A livello delle urine avremo una osmolarità che sarà superiore a quella plasmatica, sodiemia superiore ai 40 mmol/L, l’escrezione frazionata superiore al 12% (ma questo non si fa sempre, di più difficile ricerca). HDL. Le HDL sono le lipoproteine “spazzine”, protettive. In queste lipoproteine i trigliceridi sono molto diminuiti, quasi scomparsi (3-6%). Esse presentano una componente proteica molto aumentata. La loro quota di colesterolo totale è inferiore rispetto alle LDL, ma il colesterolo esterificato è presente in quantità maggiori. Nelle HDL è presente un'apoproteina importante: l’Apo-A1. L’Apo-A1 svolge il ruolo di induttore della LCAT (lecitina-colesterolo aciltransferasi): quest'ultima permette l’esterificazione del colesterolo (cioè la trasformazione da colesterolo libero a esterificato). Le HDL hanno un’emivita molto lunga, di 15-20 giorni. Se funzionano correttamente sia il meccanismo di demolizione delle LDL che il meccanismo di pulizia da parte delle HDL, il soggetto risulta protetto dal rischio aterosclerotico. Metabolismo delle HDL Le HDL sono protettive in quanto incorporano il colesterolo presente in circolo. Le HDL nascenti (le HDL3) hanno una forma discoidale, perché sono povere di colesterolo. Man mano che esse vengono veicolate nel circolo sistemico assumono colesterolo libero, le loro dimensioni aumentano e prendono il nome di HDL2. Il colesterolo incorporato viene progressivamente esterificato dalla proteina LCAT, indotta dall’Apo A1: esso si pone nella parte più centrale della molecola. Grazie alla CETP il colesterolo esterificato viene successivamente trasferito dalle HDL2 alle forme secondarie delle altre lipoproteine, ovvero le VLDL, IDL e chilomicroni, che a loro volta lo trasportano al fegato. Riassumendo, le tappe importanti di questo processo risultano essere due: l’incorporazione iniziale di colesterolo da parte delle HDL e il trasferimento di colesterolo dalle HDL alle altre forme di lipoproteine. Una volta trasferito il colesterolo dalle HDL2 alle forme secondarie dei chilomicroni tramite la CETP, le HDL2 ritornano allo stadio di HDL3 e viene ripristinata la loro attività “spazzina”. Poiché l’HDL ha un’emivita di circa 20 giorni, questo processo viene svolto per un periodo molto lungo. Se funziona bene il meccanismo di rimozione delle LDL, insieme a quest’ultimo processo, un soggetto è protetto dal rischio trombotico. Per tale ragione è opportuno avere alti livelli di HDL e bassi livelli di LDL. Infatti tra i parametri di valutazione non è importante soltanto la colesterolemia totale, ma anche il rapporto HDL/LDL. Ad esempio è preferibile la condizione di un soggetto con colesterolemia totale pari a 220 mg/dl e con un alto rapporto HDL/LDL, piuttosto che quella di un soggetto con colesterolemia totale pari a 180 mg/dl ma con un rapporto HDL/LDL tendente verso le LDL. LIPOPROTEINA a (detta “lipoproteina a minuscolo”) La Lp(a) è una lipoproteina che al giorno d'oggi ha assunto una particolare importanza. Essa infatti, in un profilo lipidico di rischio, dovrebbe essere presa in considerazione poiché se le sue concentrazioni superano i 30 mg/dl essa promuove l’aggregazione e la formazione trombotica. La Lp(a) è diversa dalle precedenti in quanto presenta una proteina in più, denominata “proteina a minuscolo”, la quale forma legami con la Apo-B100 tramite ponti disolfuro. La Lp(a), legata all'Apo-B100, acquisisce una conformazione strutturale tipica, molto simile a quella del plasminogeno, con un ruolo pro-trombotico. detto, presentano un rapporto colesterolo esterificato-colesterolo libero maggiore rispetto alle LDL perché LCAT è anche nelle LDL, ma in esse manca l’APO-A1, ovvero l’induttore. L’APO-B48 è una proteina molto importante per i Chilomicroni perché non solo svolge un ruolo strutturale e di identificazione del Chilomicrone, ma svolge anche un ruolo funzionale molto importante negli stessi. L’APO-B100, estremamente importante, come si vedrà nelle ipercolesterolemie e come l’alterazione del gene che codifica per tale APO-B100 determina un’alterazione del complesso LDL- recettore con lo Stop di quel meccanismo di protezione, di demolizione delle LDL fisiologico. L’APO-C2, che è un cofattore della lipoproteina lipasi (anche detta lipasi endoteliale). Io allo studente spesso richiedo quali siano le lipasi presenti nel nostro organismo, che sono molte: 1) La lipasi salivare, 2) La lipasi gastrica, 3) La lipasi epatica, 4) La lipasi pancreatica, 5) La lipasi intra-adipocitaria, ormone-sensibile, 6) La lipasi endoteliale, presente nell’endotelio dei vasi. Esse svolgono un ruolo importante anche nel metabolismo delle lipoproteine e queste, soprattutto quella endoteliale presente nell’endotelio dei vasi ha la necessità di avere l’APO-C2, la quale ne risulta l’induttore, collegata o co-adiuvata anche dall’eparan-solfato, che è un altro induttore sempre della stessa lipasi. I Chilomicroni sono la prima classe di Lipoproteine che hanno un ruolo importante perché incorporano i trigliceridi che provengono dalla dieta e li trasportano al fegato. Il ruolo dell’APO-B48 è quello di permettere l’esocitosi del Chilomicrone dall’enterocita. VLDL. Le VLDL trasportano i trigliceridi di origine endogena, prodotti a livello epatico. In queste lipoproteine troviamo l’Apo-B100, apoproteina con un peso molecolare maggiore rispetto all'Apo-B48 (“l'Apo-B48 è un pezzo dell’Apo-B100”). L’emivita delle VLDL è di 6-12 ore. Nell’endotelio dei vasi è espressa la lipasi endoteliale che idrolizza i trigliceridi contenuti nelle VLDL. La lipoproteina risultante è l'IDL, una forma di transizione delle VLDL in LDL. Le IDL continuano a subire questo processo idrolitico da parte delle lipasi endoteliali, formando le LDL. IPERTENSIONE. (Diagnosi di ipertensione) A livello di: Apparato urinario:Esame delle urine, proteinuria, azoto ureico e/o creatinina Apparato endocrino: Sodio, potassio, calcio, Ormone tireostimolante (TSH). Metabolico: Test del glucosio, colesterolo totale, colesterolo HDL e LDL, trigliceridi E poi l’Ematocrito. Se l'analisi delle urine rileva albuminuria (proteinuria), cilindruria o microematuria, o se la creatinina sierica è elevata ( 1,4 mg/dL [124 micromol/L] negli uomini; 1,2 mg/dL [106 micromol/L] nelle donne), l'ecografia renale per valutare le dimensioni renali può fornire informazioni utili. I pazienti con ipokaliemia non legata all'uso di diuretici vengono ulteriormente studiati alla ricerca di un iperaldosteronismo primario e di un elevato apporto di sale. - Nel soggetto sano, che non ha avuto patologie cardiovascolari e non ha fattori di rischio cardiovascolare (obesità, diabete, ipertensione, stress, sedentarietà, iperomocisteinemia e molti altri) il valore normale è <115 mg/dl. - Nel soggetto con fattori di rischio cardiovascolare il valore normale è <100 mg/dl. - Nel soggetto che ha già avuto un evento cardiovascolare (ictus, infarto) il valore normale è <70 mg/dl. DANNO RENALE ACUTO (AKI.) (INSUFFICIENZA RENALE ACUTA.) (MALATTIA RENALE ACUTA.) Il termine AKI include sia un possibile danno renale strutturale, sia una possibile compromissione acuta della funzione renale, il che significa che anche qui possiamo avere: un danno renale acuto legato ad un’alterazione strutturale del rene, per una patologia che colpisce il rene così come possiamo avere invece un danno della funzione dato da altre cause, da altre patologie che hanno come effetto collaterale conseguente un’alterata funzione renale. Il termine è stato proposto per racchiudere l’intero spettro della sindrome che va da lievi modifiche dei marker di funzione renale alla necessità di terapia renale sostitutiva (RRT). Criteri RIFLE (Classificazione RIFLE) I criteri RIFLE definiscono l'insufficienza renale acuta in base a due variabili ovvero i livelli sierici di creatinina e la diuresi. RIFLE è l'acronimo inglese di: Risk (rischio [di IRA]): aumento della creatinina di 1,5 volte, riduzione della velocità di filtrazione glomerulare (VFG) del 25% o della diuresi a meno di 0,5 mL/kg/hr per oltre 6 ore; Injury (danno [renale]): raddoppio della creatinina, riduzione del VFG del 50% o della diuresi a meno di 0,5 mL/kg/hr per oltre 12 ore; Failure (malfunzionamento [dei reni]): aumento di tre volte della creatinina, riduzione del VFG del 75% o della diuresi a meno di 0,3 mL/kg/hr per oltre 24 ore (oliguria) o anuria per 12 ore; Loss (perdita [di funzione renale]): perdita completa della funzione renale che richiede terapia sostitutiva (emodialisi) per più di quattro settimane; End-stage kidney disease (insufficienza renale terminale): uremia, cioè perdita completa della funzione renale che richiede terapia sostitutiva (emodialisi) per più di tre mesi. Questo criterio si è dimostrato valido per definire il rischio morte dei pazienti con IRA (più alto il RIFLE più alto il rischio morte dei pazienti).[3] Nel caso in cui la creatininemia e la diuresi indichino due diversi livelli di gravità, lo stadio è indicato dalla funzione maggiormente compromessa.[4] Criteri AKIN (Classificazione AKIN) Il criterio stabilito dal gruppo di studio denominato Acute Kidney Injury Network (AKIN) stabilisce che si parla di insufficienza renale acuta quando in 48 ore la creatininemia sale di 0,3 mg/dL, o di oltre il 50% o vi è una riduzione della diuresi al di sotto di 0,5 mL/kg per più di sei ore (questi ultimi due criteri sono identici a quelli del RIFLE).[5][6] L'ultimo criterio non si applica se vi è un'ostruzione delle vie urinarie. La stadiazione prevede tre livelli di crescente gravità: Stadio 1 corrisponde al rischio del criterio RIFLE: aumento della creatinina di 0,3 mg/dl rispetto al valore basale o del 150% - 200% rispetto al valore basale. Calo della diuresi < 0,5 ml/kg/hr per oltre 6 ore. Stadio 2 corrisponde al danno renale del RIFLE: aumento della creatinina del 200% - 300% rispetto al valore basale. Calo della diuresi < 0,5 ml/kg/hr per oltre 12 ore. Stadio 3, corrisponde al malfunzionamento renale del RIFLE: aumento della creatinina maggiore del 300% rispetto al valore basale. Calo della diuresi < 0,3ml/kg/hr per oltre 24 ore o anuria per oltre 12 ore. Gli stadi successivi del RIFLE non vengono presi in considerazione in quanto di eccessiva gravità. Sebbene gli studi epidemiologici al riguardo siano ancora pochi, appare evidente la correlazione tra lo stadio di malattia e la mortalità o la perdita permanente della funzione renale. Classificazione eziopatogenetica Prima le classificazioni del danno renale acuto erano tante, ora si sono ridotte e semplificate. Quella più importante si basa sulla causa e in base ad essa distinguiamo un danno renale acuto da causa: pre-renale renale (intrinseca al parenchima) post-renale Cause pre-renali Le cause pre-renali sono quelle più importanti, ma sono tutte collegate da un punto di vista fisiopatologico ad una condizione di ipossia, di ipovolemia, dunque: disidratazione emorragia diuresi aumentata ustioni crisi emoglobinuriche shock cardiogeno Sono tutte cause che da un punto di vista dei meccanismi patogenetici si riconducono all'ipovolemia, quindi qualunque causa si ricolleghi ad ipovolemia porta ad insufficienza renale acuta. Anche in questi casi si guarisce perché se si elimina la causa che ha determinato ipovolemia chiaramente vi è un ripristino della funzione renale. Una delle cause più frequenti oggi11 che prima era sottovalutata: perché meno frequente o perché non riconosciuta è il danno renale acuto in seguito a sepsi. La sepsi oggi è una condizione grave con un danno d’organo, condizione oggi frequente che comporta un danno renale acuto. Essa rappresenta la causa di danno renale acuto nel 70% dei casi, quindi proporzionalmente sono le cause di maggiore entità. Cause renali Le cause intrinseche (renali) sono patologie che colpiscono il rene, quindi: danno glomerulare (5% delle cause) malattie vascolari renali nefriti, glomerulonefriti, da farmaci, post-infettive, legate a malattie granulomatose malattie tubulari NECROSI TUBULARE ACUTA. (NTA.) NTA ISCHEMICA Nella necrosi tubulare su base ischemica l’ischemia può derivare da varie condizioni cliniche, ma la patogenesi più comune è questa riduzione del flusso ematico a livello renale con una progressione del danno renale acuto pre-renale che porta a necrosi tubulare ischemica. 11 Negli AKI post-renali è logico che la prognosi sia in relazione alla diagnosi ed alla tempestività del trattamento chirurgico. Fattori di crescita I fattori di crescita implicati nella tubulogenesi sono estremamente importanti e di cui oggi conosciamo un elenco estremamente lungo, perchè sono implicati nella genesi dei tubuli e quindi nel recupero funzionale del danno renale. Quindi anche l’interferenza chiaramente con l’increzione più o meno maggiore di questi fattori di crescita rappresenta un parametro importante nella riparazione del danno e nella ripresa funzionale del parenchima renale. Diagnosi Facciamo diagnosi di danno renale acuto seguendo un po' questi parametri: aumento entro le 24h della creatinina al di sopra di 0,3 mg rispetto al valore normale; aumento della creatinina plasmatica superiore di 1,5 volte rispetto al valore basale misurato nei 7 giorni precedenti; oliguria definita con volume urinario inferiore a 0.5 ml/kg/h (500 mL)13 che duri almeno 6 ore Esami di laboratorio Il primo esame da fare è un esame standard delle urine: calcolando il volume e andando a guardare il sedimento, attenzionando in modo particolare la presenza di questi cilindri brunastri che sono proprio tipici e patognomonici della necrosi tubulare acuta. Determinazione di albuminuria o dell'eventuale proteinuria Determinazione della creatinina plasmatica Calcolo della stima del filtrato glomerulare Sedimento urinario L’esame del sedimento è importante perché: a parte la valutazione della presenza dei cilindri brunastri, che sono patognomonici della NTA (necrosi tubulare acuta) si evince come tutta una serie di vari elementi cellulari presenti a livello del sedimento ci possono indicare le alterazioni, ad esempio: l’eosinofiluria può essere indicatrice: o di una nefrite interstiziale allergica (voi sapete che gli eosinofili si alterano classicamente in corso di intolleranza o allergia), causata dall'utilizzo di farmaci antiflogistici di tipo non steroideo o di una embolia da colesterolo la cristallinuria Quindi vedete come lo studio del sedimento (che oggi viene fatto dalle macchine con estrema precisione) è estremamente importante perchè cerca di indirizzare sulla causa del danno renale acuto. Creatinina La creatinina plasmatica è vero che è certamente il parametro più utilizzato perché, ripetiamo, è facilmente eseguibile e dal costo estremamente basso, però la creatinina soffre di un limite estremamente importante: 13 oltre al fatto che è legata alla massa muscolare, quindi diciamo che le variazioni sono anche in relazione alla massa muscolare: ecco perchè il valore normale nell'uomo è un po' minore, è diverso rispetto a quello della donna ma soprattutto la creatinina si muove quando il danno renale è superiore al 50%, quindi quando il danno renale è di una certa entità. Ciò significa che nei danni lievi si può non avere un’alterazione della creatinina. Dal grafico in figura si vede come la creatinina: o per danni nefronici, inferiori al 50% si muove pochissimo quindi può essere a valori normali o borderline (molto vicini alla normalità) o quando invece il danno nefrosico è superiore al 50%, "schizza", quindi aumenta. In questo caso però ci interessa poco, a noi invece interessa potere avere un parametro sensibile che ci permetta, anche per danni lievi, di poter mettere in evidenza una ridotta funzione. Questo è il grande limite della creatinina, ecco perché la creatinina in alcune situazioni logicamente perde di significato. Quindi il concetto più importante è che i livelli sierici di creatinina aumentano quando il danno renale è superiore al 50%, quindi non è un buon marcatore nelle variazioni acute della funzione renale, per cui noi è un marcatore che utilizziamo, ma di cui bisogna saperne e conoscerne i limiti per non avere false indicazioni. La concentrazione di creatinina, come abbiamo detto, dipende da vari fattori: volume della massa muscolare, che a sua volta dipende da: o sesso o età o esercizio fisico regolare etnia dieta eliminazione della creatinina intestinale secrezione tubulare Inoltre può alterarsi in altre condizioni come in presenza di: febbre in cui aumenta14 trauma in cui aumenta15 ipertiroidismo in cui aumenta età avanzata in cui diminuisce. Quindi è un parametro che soffre di molte condizioni che possono alternarne il suo valore e quindi il suo significato. 14 15 GFR Non c’è dubbio che la clearance rappresenti un parametro migliore, che dà delle informazioni maggiori, rispetto alla creatinina. è una formula che noi adottiamo tramite la quale evidenziamo la capacità del rene di depurare nell’unità di tempo il sangue da una certa sostanza. La formula che noi utilizziamo e che bisogna utilizzare oggi è la formula che non tiene conto, a differenza della classica formula della clearance che avete studiato in fisiologia, della quantità di urine escrete nelle 24h in quanto, dal momento che questo è un parametro misurabile con difficoltà (non si può determinare con precisione), oggi nelle formule più moderne, che quindi sono più attendibili e più performanti, il valore della quantità di urine escrete nelle 24h è stato tolto e si fa riferimento a 2 formule che noi utilizziamo: la MDRD la CKD-EPI (ckd epi), evoluzione della MDRD con qualche piccola modifica ed è la formula oggi più utilizzata e maggiormente attendibile, infatti, come è scritto nella slide, rappresenta la formula più accurata per la stima della filtrazione glomerulare. Tiene conto: non solo della differenza di razza ma anche del sesso Quindi, considerando la differenza di razza e di sesso, ci fornisce un valore, escludendo la quantità di urine escreta nelle 24h, assolutamente attendibile e dunque assolutamente da prendere in considerazione. BIOMARCATORI DI DANNO RENALE (BIOMARCATORI DI MALATTIA RENALE) L’esame delle urine, che è il primo esame che dobbiamo fare per quantificare il volume di urine escreto nelle 24h con determinazione della condizione di oliguria o anuria e studio del sedimento, abbiamo sottolineato i limiti della creatinina, adesso vediamo quali sono i biomarcatori oggi maggiormente utili dal punto di vista dell'attendibilità. Tra le caratteristiche del biomarcatore ideale abbiamo: biosintesi costante facilmente diffusibile nello spazio extracellulare non legato a proteine a livello ematico metabolicamente inerte e non in grado di influenzare la funzione renale catabolizzato esclusivamente a livello renale liberamente filtrato a livello del glomerulo non assorbito nè secreto a livello tubulare misurato in laboratorio con metodi semplici, accurati, riproducibili e non costosi. Tra i biomarcatori che rispondono a parecchie di queste caratteristiche abbiamo: la cistatina C rappresenta oggi il parametro di filtrazione glomerulare più importante, superiore alla creatinina e ora vedremo il perchè; Quindi la matrice urinaria è certamente preferibile alla matrice ematica. I vantaggi del NGAL rispetto agli altri biomarcatori: Un incremento molto precoce (entro le 2h) in corso di danno renale acuto (è stata definita “la troponina del rene” per sensibilità e precocità di alterazione); Incrementa 48h prima della creatinina; Dosaggio sia nelle urine (meglio) sia nel sangue Gli svantaggi del NGAL rispetto agli altri biomarcatori: Non è rene specifica (è espressa da vari tessuti ed organi); Può incrementare anche in patologie extra-renali; Può incrementare in condizioni cliniche associate ad iperattività dei neutrofili (dalla slide: quali infezioni sistemiche e sepsi), perché viene rilasciata dai neutrofili, infatti abbiamo detto che nasce18 come parametro di flogosi; La sua espressione renale aumenta in caso di condizioni cliniche diverse da AKI, come possono essere le neoplasie renali. KIM1. Un altro parametro importante perché è espressione di un danno tubulare è la KIM1 E' una glicoproteina espressa principalmente sulle membrane delle cellule dell’epitelio del tubulo prossimale; In condizioni fisiologiche i suoi livelli sono molto bassi, quasi assenti, mentre incrementano significativamente in risposta ad un danno tubulare. Quindi questo parametro è importante soprattutto nelle tubulopatie, quando c’è un’alterazione del tubulo, soprattutto quello prossimale, ma devo dire di tutta la parte tubulare Nessun altro organo produce KIM-1 in quantità significative, quindi questa molecola risulta altamente specifica di danno renale, ma in particolare tubulare. Dunque, è estremamente importante I vantaggi di questo biomarcatore sono: Incremento precoce in corso di AKI, prima della creatinina: perché paragoniamo sempre i parametri alla creatinina? Perché la creatinina è in questo momento il parametro più utilizzato, quindi dobbiamo mettere a confronto quella che è la molecola più utilizzata con i biomarcatori di nuovo utilizzo. Il frammento urinario è altamente specifico di danno renale; Appare nelle urine dopo un insulto ischemico, entro 12h e prima che appaiano i cilindri; Fattore prognostico indipendente per predire il rigetto di trapianto; I suoi livelli non sono influenzati da infezioni del tratto urinario. Gli svantaggi sono: Essendo una molecola nuova ancora i costi per la sua determinazione sono elevati quindi non possiamo certamente utilizzarlo in tutti i pz, ma solo in alcuni casi specifici; 18 I suoi livelli incrementano non solo in caso di danno renale acuto, ma anche in presenza di carcinoma renale, CKD e nefropatia da cellule falciformi. Confronto NGAL e KIM1 NGAL e KIM1 dobbiamo valutarli soprattutto nelle urine NGAL anche nel sangue, anche se questa misurazione ha una valenza della performance minore perché è presente in minore concentrazione Cistatina C si valuta invece solo su sangue Questi sono i nuovi biomarcatori e analizzando la tempistica, la cronobiologia del danno renale acuto di questi biomarcatori, si può vedere come ogni biomarcatore sia importante per sensibilità e precocità di sua alterazione: 1. NGAL è il primo che si altera (nelle primissime ore) perché inizialmente subisce le maggiori variazioni 2. Poi aumenta il KIM1, limitatamente però alle alterazioni tubulari 3. Seguito dalla Cistatina C 4. Per ultima aumenta la creatinina, che rappresenta dopo qualche giorno un parametro che comunque può dare delle informazioni. ESCREZIONE FRAZIONATA DEL SODIO. Un parametro importante è l'indice di escrezione frazionata del sodio perché non è un parametro diagnostico, ma ci permette di differenziare un danno renale acuto di natura pre-renale, da un danno renale acuto di origine renale. È un calcolo molto semplice che si fa dividendo le concentrazioni urinarie del sodio fratto le concentrazioni plasmatiche di sodio (sodiemia), il tutto rapportato alle concentrazioni urinarie di creatinina (creatininuria) fratto le concentrazioni plasmatiche di creatinina. Se il rapporto è <1 allora il danno renale acuto sarà di origine pre-renale Se invece il rapporto è >2 sarà di origine renale. Tra l’altro questo parametro è tipico della necrosi tubulare acuta, quindi vediamo come per la NTA abbiamo più parametri che ci possono permettere di diagnosticare questa complicanza e questa evoluzione, comunque reversibile, di danno renale acuto. AZOTEMIA. È un parametro che si deve eliminare dalla corretta e appropriata richiesta di esami per lo studio del danno renale. Dunque l’azotemia non serve e non si deve più richiedere tranne in una situazione: la disidratazione. Nelle situazioni di disidratazione l’azotemia è un parametro importante che ci dà indicazioni sul livello di disidratazione, ma questa è l’unica indicazione alla richiesta di azotemia. I medici ancora purtroppo continuano a prescriverla in caso di sospetto danno renale ma non si deve assolutamente valutare un danno renale acuto o cronico in base all’azotemia. COMPLICANZE DANNO RENALE ACUTO Abbiamo detto che il danno renale acuto è regredibile, quindi si può guarire con una ripresa della funzione renale completa, ma, se non si guarisce o si sviluppa un danno renale acuto di una certa gravità, la compromissione dell’organismo: sia per l’alterazione dei cicli metabolici, sia per la compromissione dei vari organi può essere anche di una particolare gravità, quindi chiaramente è una condizione da attenzionare e cercare di risolvere in tempi brevi rimuovendo quella che è la causa che determina il danno renale acuto. NEFROCHECK. Il nephrocheck e lo studio contemporaneo di due molecole che sono un inibitore tissutale della metalloproteinasi 2 (TIMP-2) e una proteina insulin-like, la proteina 7, che lega il fattore di crescita insulino- simile (IGFBP-7). Lo studio associato di queste due proteine e molto importante nella diagnosi di insufficienza renale acuta. Questo meccanismo, coinvolto nell'arresto del ciclo cellulare nella fase G1, sembrerebbe dotato di altissima sensibilita e specificita . Anche in questo caso i livelli di Nephrocheck si associano a uno score del rischio nell’AKI: >2 e alto rischio; 2- 3 e rischio moderato e >3 e a rischio molto basso; quindi ci permette di fare una valutazione circa il possibile rischio. Si puo fare anche in questo caso sia sulle urine che sul sangue. AKIRisk SCORE= [TIMP-2]x[IGFBP-7] Rispetto a tutti gli altri marcatori ha performance nettamente piu elevate. Si usa nel soggetto con insufficienza renale acuta grave pero non e detto che non si possa usare nell’insufficienza renale cronica. Permette non solo di predire ma anche di valutare il livello di gravita dell’insufficienza renale cronica verso cui si puo andare incontro. Chiaramente non e un marcatore che puo essere utilizzato in tutti i pazienti con IRA, e un parametro piu sofisticato, di 2° livello, quindi sarebbe piu indicato utilizzarlo nei soggetti con situazioni particolari, come i soggetti trapiantati o in soggetti con delle patologie complesse. MALATTIA RENALE Per quanto riguarda la malattia renale oggi non si parla più di insufficienza ma si preferisce parlare di malattia renale acuta e malattia renale cronica . La malattia renale è un termine generico che indica la presenza di un danno a carico dei reni che possiamo classificare come: 1)Forma primitiva quando il danno è strutturale ,morfologico e funzionale a livello dei reni per esempio nel caso delle glomerulonefriti, delle nefropatie vascolari, dei tumori del rene ecc… . Quindi un’alterazione della funzione dovuta ad una patologia che colpisce il rene . 2)Forma sistemica con coinvolgimento dell’emuntorio renale, incluse le condizioni di stress emodinamico come interventi chirurgici; quindi tutte quelle condizioni che portano ad un’alterata funzione non dovute ad una patologia del parenchima renale ma dovuta ad una situazione che come conseguenza ha un’alterazione della funzione renale . Vedremo nel danno renale acuto come quelle dovute ad una causa prerenale sono tutte dovute ad un’alterazione dell’emodinamica quindi una situazione in cui c’è un’ipovolemia, un ipoafflusso di sangue a livello delle arteriole afferenti. Come distinguiamo la malattia renale? La distinguiamo in una forma acuta e una cronica; la forma acuta comprende condizioni di insufficienza che datano meno di tre mesi, la cronica quelle che durano più di tre mesi. Questa è una separazione importante perché mentre la malattia renale acuta è spesso reversibile , le forme croniche non guariscono e sono più o meno velocemente evolutive verso un danno di entità sempre maggiore. Una tempistica differente che può variare in quanto dipendente dalla causa di insufficienza renale, dalle comorbidità e da altre possibili patologie associate etc . Distinguiamo: ● un danno renale acuto, le cosiddette AKI, che sono reversibili; ● la malattia renale cronica, che invece suddividiamo in 5 stadi, con alterazioni cliniche, manifestazioni sintomatologiche e del quadro biochimico-clinico; ● la malattia renale acuta, che è un po' sovrapponibile al danno renale acuto; ● la malattia renale, per fortuna più rara, da cause non conosciute. MALATTIA RENALE CRONICA. (INSUFFICIENZA RENALE CRONICA.) La malattia renale cronica è definita come un’alterazione della struttura o della funzione renale evidenziabile per un periodo superiore ai 3 mesi, con implicazioni e ricadute sullo stato generale della ● altre patologie che prevedono una compromissione del rene nella loro patogenesi (es. il LES). Patogenesi delle alterazioni ossee Qui c’è la patogenesi delle alterazioni ossee, la ipocalcemia, questo algoritmo ci spiega bene come si arriva all’ipocalcemia. Imaging Qui si vedono molto bene i reni piccoli, siamo in una situazione di danno renale di quarto o quinto stadio, in questi casi l’unica terapia è la dialisi o il trapianto. Nella malattia renale cronica il medico cosa deve fare? Deve diagnosticarla precocemente con clearance della creatinina, della cistatina o meglio ancora se tutte e due insieme e con l’albuminuria; in base a questi parametri e all’esame delle urine con studio del sedimento, uniti alla creatinina studiata non come parametro isolato ma come cinetica di come si muove la creatinina nel tempo, questi sono i parametri di base. Nel soggetto al quarto e al quinto stadio poi associamo una serie di altri esami: ● l’equilibrio acido/base ● l’EGA ● il quadro dello scompenso cardiaco con l’NT-pro-BNP; poi a questi soggetti si associano tutti quegli esami che sono utili alla valutazione complessiva di quell’organismo e che sono correlati ad una compromissione di altri organi. ALZHEIMER. (ALZAIMER.) (MALATTIE NEURODEGENERATIVE.) La malattia di Alzheimer e una patologia neurodegenerativa cronica caratterizzata da una lunga fase clinicamente asintomatica, nella quale avvengono modificazioni silenti all’interno del cervello, e una fase sintomatica con deterioramento cognitivo che evolve inevitabilmente in demenza. Le modificazioni strutturali che avvengono nel sistema nervoso centrale sono la formazione di placche extracellulari di amiloide, composte principalmente da proteina - amiloide 1-42 e di grovigli intracellulari neurofibrillari di tau e p-tau. Placche di amiloide e grovigli di tau rappresentano i marcatori istologici distintivi della AD, associati al processo di degenerazione che porta al deterioramento cognitivo. Identificare questi meccanismi precocemente, quando ancora le funzionalita cognitive non sono compromesse in modo grave, permette di migliorare il decorso clinico e, soprattutto, la ricerca di nuove terapie personalizzate. Clinicamente, l’esordio clinico dell’AD puo avvenire con la manifestazione di sintomi amnestici, come il classico disturbo di memoria, mentre nelle forme atipiche prevalgono alterazioni di altri domini cognitivi, ovvero del linguaggio, del comportamento o del movimento. Biomarcatori di neurodegenerazione. (MARKER DI NEURODEGENERAZIONE.) Numerose evidenze hanno dimostrato che l’utilizzo dei biomarcatori di neurodegenerazione, la - amiloide 1-42 (A 42), la - amiloide 1-40 (A 40), la proteina T-tau e p-tau, offre un notevole valore aggiunto alla diagnosi di AD. Infatti, i livelli liquorali di queste proteine permettono di investigare in vivo i processi patologici che caratterizzano la malattia e supportano il percorso decisionale aumentando il livello di certezza nella diagnosi clinica. Secondo l’ipotesi dell’amiloide, nell’AD l’alterazione del metabolismo della A 42 provoca l’aumento del contenuto di questa proteina, a causa dello sbilanciamento tra la sua produzione e la corretta rimozione. La A 42 forma intermedi solubili, i cosiddetti “oligomeri”, altamente tossici per i neuroni e le sinapsi, che progressivamente aggregano a formare protofibrille e fibrille insolubili, che precipitano nelle placche. Questo processo di sequestramento si riflette nel liquor con la riduzione del contenuto di A 42 tipica della patologia di AD. I livelli di A 42 nei pazienti con AD sono generalmente inferiori a 550-500 pg/mL, con un’ampia variabilita nei valori adottati tra i vari centri [1- 7]. Tuttavia, esiste una notevole variabilita interindividuale nei livelli fisiologici di - amiloide totale, con soggetti che possono essere iper- o ipoproduttori di - amiloide. Queste differenze nei livelli globali di - amiloide possono inficiare l’accuratezza diagnostica della A 42, con risultati falsamente positivi (bassi livelli di A 42) in individui non AD o falsamente negativi (normali livelli di A 42) in soggetti affetti da AD. La valutazione del contenuto di A 40, i cui livelli non variano in corso di AD, permette di investigare quindi se la riduzione di A 42 sia dovuta a un reale accumulo nel tessuto o se un’iperproduzione fisiologica di A totale puo nascondere la riduzione di A 42 dovuta al sequestramento nelle placche. Infatti, l’utilizzo della ratio A 42/A 40 migliora l’accuratezza della A 42, soprattutto negli individui con contenuto elevato di A totale. Valori di A 42/A 40 inferiori a 0,055 distinguono i pazienti con AD, mentre valori normali possono escludere la probabilita di un deterioramento cognitivo dovuto a una demenza di tipo AD. La tau e una proteina associata ai microtubuli ed e coinvolta nel mantenimento della stabilita del citoscheletro. Nell’AD, la formazione di grovigli neurofibrillari composti da tau e una delle caratteristiche istologiche della malattia, insieme all’iperfosforilazione di tau in corrispondenza dei numerosi siti di fosforilazione. In seguito alla morte neuronale, la tau viene rilasciata nel liquor, con un aumento dei livelli misurabili. L’aumento di tau e di p-tau e un indice di neurodegenerazione caratteristico della patologia di AD e rappresenta un utile strumento per valutare la diffusione del danno neuronale e dello stato di fosforilazione. Nei pazienti con patologia di AD, i livelli di T-tau nel liquor sono aumentati, con valori superiori a 350-400 pg/mL; parallelamente, il contenuto di tau fosforilata supera il cutoff di 61- 70 pg/mL (vedi Tabella 27.1). Variazioni dei livelli di tau possono essere aspecifici e si osservano anche in altre forme di demenza o in patologie dovute a danno neuronale acuto (es. le ischemie). Invece, il processo di iperfosforilazione di tau rappresenta un meccanismo peculiare dell’Alzheimer, per cui la valutazione del contenuto di p-tau rappresenta un utile parametro biochimico per la diagnosi differenziale, con un’alta specificita soprattutto nei casi di diagnosi differenziale tra Alzheimer e demenza a corpi di Lewy. Recentemente, numerosi studi hanno dimostrato l’utilita diagnostica dei biomarcatori liquorali anche negli stadi precoci della malattia, quando iniziano le modificazioni patologiche silenti nel cervello. In queste fasi, asintomatiche o caratterizzate da sintomi lievi, la valutazione di eventuali variazioni dei biomarcatori misurabili nel liquor permette di identificare soggetti a rischio di sviluppare una demenza di tipo Alzheimer. La ridefinizione del concetto di malattia di Alzheimer e del deterioramento cognitivo lieve (MCI) ha infatti modificato in modo considerevole i criteri diagnostici delle demenze, includendo la valutazione dei biomarcatori come indice precoce in vivo di AD. La riduzione di A 42 costituisce il primo marcatore che si modifica per effetto della formazione di aggregati, mentre la combinazione con T-tau e p-tau181 permette di predire la progressione di un deterioramento cognitivo lieve verso una demenza di tipo AD (AD prodromico) [8-13]. Inoltre, anche in individui asintomatici senza alterazioni cognitive, i biomarcatori possono identificare stadi preclinici di un processo neurodegenerativo che puo evolvere in deterioramento cognitivo e demenza. Infine, i biomarcatori hanno un alto valore predittivo negativo e nella popolazione anziana possono essere impiegati per escludere una forma di demenza di tipo AD. Recentemente, il pannello completo di marcatori liquorali, composto da A 42, A 40, T-tau e p-tau, e stato incluso nelle raccomandazioni Alzheimer’s Association e National Institute on Aging (NIA), una agenzia dell’U.S. National Institutes of Health (NIH) per la diagnosi di AD e del lieve deterioramento cognitivo, insieme alla valutazione dei marcatori topografici attraverso in neuroimaging (PET e risonanza magnetica). Infatti, l’analisi dei marcatori permette di valutare la probabilita di una patologia di AD, attraverso degli indicatori associati ai meccanismi patogenetici della malattia. In Italia il loro impiego nella pratica clinica e limitato a pochi centri, principalmente specializzati nei disturbi della memoria, ma e auspicabile una diffusione maggiore per favorire la diagnosi precoce. Esame liquorale L’analisi dei fluidi non standard, come il liquor, comporta una serie di punti critici da risolvere, tra cui la variabilita , l’instabilita , la standardizzazione delle procedure analitiche e preanalitiche e l’armonizzazione dei valori di normalita . Diversi studi hanno mostrato come vengono prodotti risultati altamente variabili nella concentrazione dei biomarcatori, e in particolare di A , anche usando lo stesso ELISA per il dosaggio, portando a un’alta variabilita anche nei valori di cutoff e complicando l’interpretazione dei risultati tra i centri. Numerose iniziative internazionali operano con lo scopo comune di sviluppare metodi e procedure di riferimento per l’analisi dei marcatori liquorali, per raggiungere uniformita e riproducibilita analitica tra diversi laboratori. L’Alzheimer’s Biomarkers Standardization Initiative (ABSI) ha stilato delle standard operating procedures (SOP) che riguardano tutti gli aspetti preanalitici e che regolamentano la corretta processazione del campione dalla raccolta all’analisi [20]. Le norme da adottare prevedono la raccolta del liquor in provette sterili di polipropilene, materiale necessario per ridurre l’interazione tra peptidi e tubo, senza additivi. Poiche il materiale delle provette puo alterare la misurazione dei biomarcatori, e importante standardizzare i dosaggi, adottando un tipo di tubi comune (marca, dimensione ecc.) per evitare differenze nei risultati; la stessa attenzione deve essere rivolta sia per le provette utilizzate per la raccolta sia per quelle per la conservazione. Nel caso di prelievi traumatici, poiche la presenza di eritrociti puo interferire con il saggio, e necessario scartare i primi 1-2 mL di liquor e procedere con un nuovo tubo. Le provette devono essere trasportate in ghiaccio e centrifugate a 2000 rpm per 10 minuti a 4 °C entro 2 ore; il supernatante deve essere trasferito in nuovi tubi sempre di polipropilene e conservato a 20 °C, se utilizzato entro 2 mesi, o a 80 °C per periodi piu lunghi. Per evitare un’alterazione del contenuto dei marcatori, e importante evitare diversi cicli di congelamento/scongelamento che possono interferire con l’accuratezza del dosaggio. L’esecuzione dell’esame liquorale dei biomarcatori spesso avviene in laboratori centralizzati, con la spedizione di campioni raccolti presso ospedali diversi nelle zone limitrofe. Questo richiede l’attenta osservazione delle procedure preanalitiche, per evitare di inficiare la validita del test. Per questo, infatti, e necessario utilizzare provette compatibili con quelle adottate dal laboratorio dove viene effettuata l’analisi. Qualora non sia possibile trasportare il campione immediatamente dopo la raccolta, e possibile centrifugare e congelare il liquor dividendolo in aliquote ed effettuare il trasporto in ghiaccio secco. L’obiettivo finale da conseguire e la standardizzazione e l’armonizzazione nei laboratori clinici non solo delle procedure operative adottate nei laboratori, ma anche delle unita di misura utilizzate, degli intervalli di riferimento e dei criteri decisionali, per ridurre le differenze tra i laboratori, che limitano e compromettono il valore delle linee guida, dell’interpretazione dei risultati e della diffusione su larga scala della diagnostica liquorale nel campo delle demenze neurodegenerative. SPETTROSCOPIA DI RISONANZA MAGNETICA La tecnica di elezione per lo studio della biochimica clinica in vivo è la spettroscopia di risonanza magnetica (Magnetic Resonance Spectroscopy, MRS) per le sue caratteristiche di non invasività e capacità di rivelare parametri di interesse biochimico attraverso la quantificazione diretta in organi, tessuti o cellule, di molteplici molecole di interesse biomedico. La MRS si basa sul fenomeno della risonanza magnetica nucleare (RM), che si osserva quando i nuclei di atomi con uno spin nucleare diverso da zero sono immersi in un campo magnetico statico (B 0 ) e sono eccitati da un campo elettromagnetico oscillante. Nuclei con spin uguale a zero come il 12C e 16O non possono generare segnali di RM. Nuclei dotati di spin come il 31P, 1H, 19F e gli isotopi meno abbondanti in natura come 13C e 17O hanno invece la proprietà di orientarsi parallelamente o antiparallelamente a un campo magnetico statico applicato esternamente, mantenendo un moto di precessione intorno all’asse del campo magnetico con una specifica frequenza di risonanza, detta frequenza di Larmour ( = B0). Il lieve eccesso di spin orientati in modo concorde al campo magnetico – situazione caratterizzata da minore energia di stato e dipendente dalla specie nucleare, dall’intensità del campo magnetico e dalla temperatura del sistema – determina la sensibilità della RM, che è inferiore rispetto ad altre tecniche diagnostiche, basate sull’interazione radiazione/materia e sui fenomeni nucleari, quali, per esempio, spettrofotometria, fluorimetria, tomografia computerizzata (TC) e tomografia a emissione di positroni (PET). Se il sistema viene perturbato con un campo elettromagnetico oscillante, con una frequenza pari a quella di Larmour, dell’ordine dei MHz, ossia delle radiofrequenze, il cui campo magnetico associato (B1) sia perpendicolare a quello statico, è possibile indurre una variazione dell’orientamento degli spin. Il sistema di spin reagisce dipendentemente dall’intorno chimico-fisico di ogni spin nucleare, per la coesistenza di diverse interazioni fra spin nucleari, campo magnetico ed elettroni che circondano i nuclei. Di conseguenza, la frequenza del segnale ottenuto da uno stesso nucleo, per esempio del protone (1H) o del fosforo (31P), sarà diversa a seconda della molecola e/o del gruppo chimico di cui fa parte all’interno della molecola. Sulla base di questi principi, nello spettro RM è possibile rilevare, in maniera distinta, gruppi chimici diversi all’interno della stessa molecola (Figura 30.1) e/o molecole diverse contenenti lo stesso nucleo quali fosfocreatina, fosfato inorganico e adenosina trifosfato (ATP) nello spettro del 31P (Figura 30.2). Tale proprietà, alla base della spettroscopia RM, è definita chemical shift (spostamento chimico). Il segnale emesso dal campione, definito FID (Free Induction Decay), è costituito da una sovrapposizione di radiofrequenze, ossia di segnali sinusoidali che decadono in funzione del tempo, ognuno alla frequenza di risonanza del nucleo che lo produce. Applicando un’operazione matematica, la trasformata di Fourier, il FID, andamento del segnale in funzione del tempo, è trasformato ● Strie rubre addominali Tutti questi sono sintomi dell’ipercotisolismo. La diagnosi nelle forme gravi è clinica. Il laboratorio quindi qui ci serve per distinguere l’ipercortisurrenalismo di natura surrenalica o ipofisaria. CATECOLAMMINE. (feocromocitoma) Le catecolammine vengono utilizzate soprattutto per poter diagnosticare o differenziare una ipertensione essenziale, quindi da causa non nota, da una ipertensione secondaria in cui certamente la maggiore sintesi delle catecolammine è una delle situazioni più comuni. In genere come si procede? Prima, in epoca pre-dosaggio adrenalina/noradrenalina/metanefrina si faceva il dosaggio nelle urine di alcuni metaboliti delle catecolammine, tra cui l’acido vanilmandelico; oggi possiamo dosare tranquillamente l’adrenalina, la noradrenalina e le metanefrine, e la diagnosi è diventata molto più semplice. La patologia tumorale che determina un aumento della sintesi delle catecolammine va sotto il nome di feocromocitoma. FEOCROMOCITOMA. Il feocromocitoma e il paraganglioma sono rari tumori neuroendrocrini che derivano dalle cellule cromaffini. Queste ultime originano dalla cresta neurale e, migrando, si localizzano nella midollare surrenale e nei gangli delle catene simpatiche del torace e dell’addome, dove possono dare origine a tumori. Nell’85% dei casi il tumore origina nella midollare surrenale, dove si trova la maggior parte delle cellule cromaffini del nostro organismo, e viene definito feocromocitoma; nel restante 15% dei casi si può trovare in sede extra-surrenale, nei paragangli simpatici dove prende il nome di paraganglioma. Indagini di laboratorio Le indagini di laboratorio, sia basali sia dinamiche, includono il dosaggio delle catecolamine libere e dei loro metaboliti nel plasma e nelle urine delle 24 ore. Indagini basali Dosaggio plasmatico e urinario di catecolamine, metanefrine e acido vanilmandelico Le catecolamine hanno una breve emivita e, pertanto, la loro determinazione, sia plasmatica sia urinaria, rende difficile discriminare tra una sovrapproduzione patologica e un picco di secrezione durante il prelievo. Inoltre, la loro secrezione è intermittente e indipendente dalle dimensioni del tumore. Le metanefrine (metadrenalina e normetadrenalina) all’interno del tumore sono prodotte in modo costante attraverso un processo indipendente dal rilascio di catecolamine; inoltre, in circolo hanno un’emivita maggiore rispetto alle catecolamine. Pertanto, il dosaggio delle metanefrine ha una sensibilità e specificità maggiori rispetto al dosaggio delle catecolamine; inoltre, la concentrazione plasmatica e urinaria delle metanefrine è correlata alle dimensioni e all’attività del tumore. Poiché alcuni tumori producono solo un tipo di catecolamina, è preferibile misurare separatamente la metadrenalina e la normetadrenalina; in tal caso, si parla di metanefrine frazionate. Infine, il riscontro di una concentrazione incrementata di adrenalina o metadrenalina, indirizza l’indagine di localizzazione verso il surrene, essendo sede esclusiva di produzione dell’adrenalina e contribuendo alla metadrenalina circolante per il 90% e solo per il 35% alla normetadrenalina circolante. Poiché alcuni farmaci, stress psicologico, esercizio fisico intenso, pasto iperproteico e alcuni cibi ricchi di catecolamine (banana, caffè, agrumi, cacao, noci, vaniglia, ananas) possono alterare i livelli di catecolamine e dei loro metaboliti, il prelievo di sangue deve essere eseguito al mattino, dopo il digiuno notturno (8-12 ore) e in clinostatismo, per minimizzare l’effetto del sistema nervoso simpatico. Analogamente, per la determinazione delle catecolamine e dei loro metaboliti nelle urine delle 24 ore, dovrebbero essere evitati nelle 48 ore precedenti e durante la raccolta del campione alcuni alimenti (vedi sopra) e alcuni farmaci che potrebbero interferire, inoltre dovrebbero essere minimizzati gli stress emotivi e fisici e l’esercizio intenso prima e durante la raccolta. Le catecolamine urinarie sono instabili, pertanto le urine raccolte devono essere conservate in acido e al riparo dalla luce; le metanefrine urinarie, invece, sono stabili a temperatura ambiente fino a 3 giorni o per un tempo maggiore se conservate a 4 °C, senza la necessità di aggiungere acidi. Si dovrebbe sempre valutare la creatinina per verificare l’adeguatezza della raccolta delle urine delle 24 ore. Il dosaggio, sia plasmatico sia urinario, delle catecolammine e delle metanefrine è eseguito in cromatografia ad alta pressione (HPLC). L’acido vanilmandelico, il prodotto finale del metabolismo delle catecolamine (adrenalina e noradrenalina), analogamente alle catecolamine è dosato su un campione di urine delle 24 ore, previa dieta, astensione da esercizio fisico intenso e stress nelle 48 ore precedenti la raccolta; nel contenitore deve essere presente un acido, quale l’acido cloridrico o muriatico. Cromogranina A (cromogranina a.) La cromogranina A è una glicoproteina secreta dalle cellule della midollare del surrene e del sistema nervoso simpatico. Il dosaggio è eseguito con metodo immunoradiometrico (IRMA). In caso di feocromocitoma, sebbene i suoi livelli correlino con la massa tumorale, il dosaggio plasmatico della cromogranina A presenta una bassa sensibilità (85%) e, pertanto, il suo uso nella pratica clinica è limitato. Elevati livelli di cromogranina A si possono riscontrare anche nel carcinoma midollare della tiroide, nel carcinoma polmonare a piccole cellule e nei carcinomi epiteliali con differenziazione neuroendocrina (prostata, mammella, ovaio, pancreas, colon). Diagnosi e terapia I pazienti con segni e sintomi clinici sospetti o a elevato rischio di sviluppare un feocromocitoma/paraganglioma devono essere sottoposti a indagini di laboratorio finalizzate a dimostrare l’eccessiva produzione di catecolamine. Poiché le catecolamine sono metabolizzate all’interno delle cellule cromaffini a metanefrine, un processo intratumorale che avviene indipendentemente dal rilascio di catecolamine, il dosaggio delle metanefrine libere nel plasma rappresenta l’esame di scelta, con la più alta sensibilità e specificità (99% e 89% rispettivamente), per confermare o escludere la diagnosi di feocromocitoma. In alternativa, è possibile dosare le metanefrine frazionate nelle urine che, però, presentano una sensibilità e specificità leggermente inferiore (97% e 67% rispettivamente). La sensibilità e la specificità del dosaggio delle catecolamine plasmatiche e urinarie sono 84% e 81%, 86% e 88% rispettivamente. Il dosaggio dell’acido vanilmandelico urinario ha una sensibilità molto bassa (68%), sebbene la specificità sia elevata (95%); la bassa sensibilità di questo test lo rende meno utile nella pratica clinica. IPERFENILALANINEMIA. Le patologie più emblematiche e frequenti di queste questo sono le patologie caratterizzate dall’alterazione del metabolismo della fenilalanina. La fenilalanina è un amminoacido essenziale, non siamo in grado di sintetizzarlo quindi bisogna introdurlo con la dieta. La patologia è caratterizzata da una alterazione del metabolismo di questo amminoacido, nei casi più frequenti per un’alterazione che si trasmette con modalità autosomica recessiva dell’enzima fenilalanina idrossilasi, che è quell’enzima che converte la fenilalanina in tirosina. Quindi lo stop del ciclo è nella conversione della fenilalanina in tirosina, quindi in questi soggetti avremo accumulo della fenilalanina e diminuzione dei livelli di tirosina. Ha una frequenza di 1 ogni 10.000 neonati. Per legge è fondamentale ed obbligatorio fare lo screening alla nascita con un test semiquantitativo che quando positivo poi necessita di ulteriori accertamenti per la conferma diagnostica. Questo screening neonatale oggi prevede lo studio di 40 malattie metaboliche. FENILCHETONURIA. (PKU) Le iperfenilalaninemie (dette anche fenilchetonuria PKU) sono caratterizzate da un deficit dell’idrossilazione della fenilalanina. La diagnostica in tale ambito consiste nel potere valutare quelle che sono le molecole che aumentano a monte dello stop e che sono diminuite a valle dello stop. In questi soggetti facciamo una amminoacidogramma, che mette in evidenza tutta una serie di amminoacidi, in questo caso avremo un picco maggiore della fenilalanina e una riduzione dalla tirosina. Però le vie della metabolizzazione della fenilalanina nel nostro organismo non sono solo legate a questa via (fenilalanina idrossilasi), ma esistono altre 4 vie di degradazione della fenilalanina, che quando è funzionante la via della fenilalanina idrossilasi esse non sono funzionanti, ma quando però questa via è bloccata allora si attivano e vengono attivate con produzione di metaboliti terminali. Questi metaboliti che usualmente non troviamo sono i fenilchetoni: fenilpiruvato e fenilacetato. Quindi il quadro biochimico-clinico classico dei soggetti affetti da PKU vede un aumento della fenilalanina, riduzione della tirosina, ed aumento dei fenilchetoni. Ma non bisogna fermasi a questo punto, è importante conoscere le precise concentrazioni di fenilalanina perché le concentrazioni condizionano il quadro clinico. Quindi noi diciamo che esistono diverse forme di fenilchetonuria che differenziano in base alle concentrazioni di fenilalanina. Abbiamo le forme classiche quando i livelli di fenilalanina sono superiori a 1200 micromoli/L o 20mg/dl , fenilchetonuria moderata tra 600 e 1200 micromoli/L, forme lievi tra 120 e 600 micromoli/L. Questa differenziazione è importante perché la terapia di queste patologie è una terapia esclusivamente da restrizione proteica, quindi definire se ridurre o abolire, a secondo dei livelli della concentrazione della fenilalanina, l’assunzione di proteine contenti questo amminoacido. Se la restrizione è completa questi soggetti vanno in carenza proteica importante, quindi a questi soggetti poi si associano una serie di disturbi carenziali dovuti alla forte restrizione nutrizionale. I soggetti che invece hanno una parziale funzionalità di queste vie degradative, la restrizione proteica è di entità minore, quindi i problemi carenziali sono di minore entità. Fenilchetonuria materna (PKU materna) È quella condizione di alterazione metabolica che è presente nella madre, che se non riconosciuta e trattata porta ad un danno nel feto non affetto dalla malattia. Allora in questi casi bisogna saper riconoscere la malattia e far sì che durante la gravidanza i livelli di fenilalanina siano sempre inferiori al livello che non produce danno cerebrale al livello fetale; allora bisogna monitorare le concentrazioni di fenilalanina nella madre con dosaggi anche bi-settimanali, che non devono essere mai superiori ai 6 mg/dl (i livelli normali sono 2 mg/dl). Non possiamo aspettarci di avere valori nel range di normalità, ma già valori inferiori ai 6 mg permette di ridurre il rischio di danno fetale. TIROIDE. La tiroide è una ghiandola che si trova alla base del collo, di forma a farfalla, formata da due lobi e un istmo che li collega, spesso c’è un lobo accessorio. La cosa importante è che le situazioni di iper o ipo funzione sono caratterizzate da un’ampia morbilità e da una sintomatologia che interessa un po’ tutti gli organi e apparati. Facendo l’esempio del cuore: l’ipertiroidismo causa tachicardia, l’ipotiroidismo causa bradicardia. Come si fa la diagnosi delle diverse patologie che possono colpire la tiroide? ● La clinica è il primo elemento di sospetto in base alle caratteristiche fenotipiche del soggetto (es. l’ipertiroideo è un soggetto magro, l’ipotiroideo è in sovrappeso); ● L’indagine radiologica e l’ecografia sono d’aiuto, come anche la scintigrafia; ● Non c’è dubbio che la diagnostica più importante soprattutto anche nel monitoraggio della patologia e dell’efficacia della terapia, è il laboratorio clinico. Oggi il bravo medico deve sapere che l’ormone principale e unico che si deve dosare è il TSH, poi come secondo livello con una metodica che si chiama Reflex, in base al valore basale si decide se procedere con la valutazione dell’fT4 e in casi numericamente minori anche dell’fT320. Ormoni tiroidei Un’altra differenza importante che si collega alla sintomatologia clinica soprattutto da iperfunzione, è la differenza di attività biologica tra T4 (tiroxina) e T3: ● L’ormone T4 è espressione della funzionalità della ghiandola, quindi di quanto la ghiandola riesce a biosintetizzare e secernere; ● L’ormone T3, invece, è di produzione principalmente periferica ed è dotato di maggiore potenza biologica. La tireotossicosi (che non è ipertiroidismo ma una situazione ancora più grave) è legata ad una maggiore conversione periferica di T4 in T3. La tiroide produce un 80% di T4, quindi la forma biologicamente inattiva che deve essere convertita in T3, il 20% è invece rappresentato da T3; poi c’è una forma di difesa dell’organismo quando c’è un’aumentata produzione di T4 e di conseguenza di T3, che è la reverse T3, una forma inattiva di T3 con scarsa o nulla attività biologica. Questa la ritroviamo nelle situazioni di ipersecrezione da T4 o di conversione periferica di T4 a T3, regola l’eccesso di ormoni tiroidei e la secrezione ghiandolare mediante inibizione delle deiodasi I e II. 20 Si parla sempre delle frazioni libere, mai quelle legate alle proteine, perché la quota di ormone attivo biologicamente è quella libera, ed è anche quella che regola i feedback a livello ipofisario e ipotalamico L’ipertiroidismo è legato ad un’aumentata secrezione di FT4, invece la tireotossicosi si correla ad una maggiore produzione di FT3 (ormone dotato di maggiore attività biologica). La cosa più facile è far dimagrire dando ormoni tiroidei ma si rovina l’equilibrio endocrino del soggetto. Le forme più comune di ipertiroidismo sono: ● il gozzo tossico diffuso (Basedow Graves), che è quella forma d’ipertiroidismo legata ad una disregolazione immunitaria ● il gozzo tossico multinodulare, che non è una patologia autoimmunitaria ma consiste nella formazione di noduli ipersecernenti di ormoni tiroidei. ● l’adenoma tossico MORBO DI GRAVES. (BASEDOW.) La forma di ipertiroidismo più frequente è legata ad un’alterazione del sistema immunitario che non riconosce più come propria alcune componenti della tiroide, dovuta alla presenza di autoanticorpi, i cosiddetti TRAb, che si formano contro il recettore del TSH, che è il regolatore della funzione tiroidea. Il TSH è l’ormone che dobbiamo richiedere quando vogliamo valutare la funzione della tiroide (sia in senso ipo- che iper-). Questo recettore è accoppiato alle proteine G e il legame dell’anticorpo al recettore stimola la sintesi della secrezione degli ormoni tiroidei nonché la crescita della tiroide. Da qui appunto la crescita di volume e l’aumentata secrezione. Diagnosticare un Basedow è facile, con evidenti segni clinici: esoftalmo, eccitabilità neuropsichica, tachiaritmia, sudorazione, dimagrimento. La diagnosi si fa richiedendo in primo assetto la valutazione del TSH, poi in base alla sua concentrazione, si procede: - Se il TSH è normale bisogna fermarsi (la ghiandola funziona bene, non c’è alterazione neanche a livello di ipotalamo o ipofisi) - se basso ci sarà un feedback negativo indotto da una maggiore concentrazione di ormone tiroideo, quindi di FT4. Se l’FT4 è elevato vi sarà una forma di ipertiroidismo, chiaramente poi dobbiamo capirne la causa di quest’ultimo, attraverso uno studio immunologico di TRAb e anticorpi antiperossisomiali, così in base alla combinazione di questi due autoanticorpi, si fa diagnosi differenziata. Se invece troviamo un TSH basso, con un FT4 che si presenta normale, allora procediamo andando a fare l’FT3, se l’FT3 è elevato allora facciamo diagnosi di ipertiroidismo, che potrebbe essere la T3, nonostante siano rari, o magari abbiamo una tireotossicosi. Se invece il T3 è normale, dobbiamo stare attenti e monitorare il paziente perché potrebbe esserci una situazione di ipertiroidismo sub-clinico, ovvero che ancora non ha dato un’alterazione degli ormoni periferici ma che comunque è già in grado di dare una certa inibizione del TSH. - Se invece il TSH è aumentato e l’FT4 è diminuito, ci sarà un ipertiroidismo classico; è comunque necessario effettuare uno studio immunologico, se si tratta di un Hashimoto e quindi andare a fare TPO. Quindi se sono positivi la diagnosi è T. di Hashimoto, se negativi devo pensare a qualche causa farmacologica. Se invece FT4 è normale, anche qui devo monitorare il paziente perché dovrebbe essere un caso subclinico. C’è un test che può svelare anticipatamente un ipotiroidismo sub-clinico, un test dinamico di induzione con TRH: somministrando quest’ultimo, si osservano come reagiscono ipofisi e tiroide. L’ormone che regola il monitoraggio e l’efficacia della terapia è esclusivamente il TSH. Nel monitoraggio ed efficacia della terapia da malattia sia da iper- che da ipofunzione, l’ormone che regola è esclusivamente il TSH (che deve essere a concentrazioni normali). Metodo Reflex: in autonomia un laboratorio decide, sulla base del parametro di base, come procedere, se fare altre analisi o meno (questo è tipico del TSH). Mai richiedere gli ormoni totali (T3 e T4) perché non servono. TEST REFLEX Il Reflex test è quell’esame che viene fatto in automatico dal laboratorio quando l’esame di primo livello risulta alterato e può essere effettuato per qualsiasi parametro, quale il PSA, nel campo dell’autoimmunità, con l’ANA-Reflex. Il Reflex test consiste nel procedere per tappe in automatico senza che si ritorni al clinico, il quale richiederà poi un altro esame. Si procede in automatico facendo tutte quelle analisi che sono necessarie dopo che un primo livello di analiti non ha dato delle indicazioni sufficienti a dirimere il tutto. Per la tiroide oggi si deve prescrivere solo il TSH e non l’FT4 e l’FT3 e poi in automatico con un sistema informatizzato, quando il TSH è alterato in difetto o in eccesso, procediamo con una determinazione prima dell’FT4 e poi, se necessario, dell’FT3. Questo tipo di test si usa anche per ANA, PSA, bilirubina. PARATIROIDI (PARATIROIDE) (METABOLISMO DEL CALCIO.) Le paratiroidi sono importanti nella regolazione del metabolismo calcio-fosfato, i quali sono correlati e interdipendenti tra di loro. Aggiungo il magnesio, anche se non è strettamente legato a questi due. Calcio e fosfato, sono regolati da due ormoni, che sono: ● Il Paratormone, che è un ormone iper-calcemizzante ● Vitamina D, che nella sua forma attiva è il Calcitriolo, anch’esso ipercalcemizzante Hanno un ruolo diverso Paratormone e Vitamina D3: il paratormone è l’ormone dell’emergenza e dell’equilibrio del calcio, invece la vitamina D è l’ormone della regolazione lenta e cronica dei livelli di calcio. Il calcio è un catione molto importante, perché svolge tantissime azioni. Il valore normale della calcemia totale è da 8-10 mg/dl. Se aumenta la concentrazione del calcio ione, diminuisce la secrezione del PTH. Sistema ad elevato guadagno: piccole variazioni della calcemia, determinano alte modificazioni di paratormone. Noi sappiamo che il calcio nel nostro organismo si trova sotto diverse forme (calcio legato all’albumina, calcio complessato con carbonato, solfato e calcio libero). La quota più importante che regola la secrezione e la sintesi di paratormone è la quota libera, quindi lo ione calcio, dotata di maggiore attività biologica. Quello che serve sapere non è la concentrazione totale del calcio, ma è la quota di ione calcio, perché questa è quella dotata di attività biologica. L’organo bersaglio del paratormone è certamente il rene. A livello del rene il paratormone complessandosi con recettori specifici, determina il riassorbimento di calcio (soprattutto nel tubulo contorno distale) e l’eliminazione di fosfato. Un evento della secrezione di paratormone causa iperfosfaturia, che avranno anche effetti indiretti sull’intestino (molto più importante qui la vitamina D3 rispetto al paratormone) e sull’osso. Su quest’ultimo agisce regolando l’attività degli osteoblasti, promuovendo la formazione di quello che noi chiamiamo macrolisosoma, quindi si crea una macrostruttura caratterizzati da un PH molto basso che determina la liberazione di sali di calcio. L’azione del paratormone non è diretta verso l’osso, ma è mediata da altre molecole che poi vanno ad agire sugli osteoblasti promuovendo la liberazione di sali di calcio. E’ bene citare la calcitonina, la quale non è un ormone che regola i livelli di calcio, perché agisce in condizioni patologiche. Quindi in caso di ipercalcemia la calcitonina agisce, ma in condizioni fisiologiche non ha nessuna azione. Noi filtriamo a livello del glomerulo circa 7-10 grammi al giorno di calcio e poi la parte che eliminiamo, in un sistema fisiologicamente funzionante, è di 1-2% di questa quantità. VITAMINA D. Ha un metabolismo che inizia al livello della cute; tramite radiazioni solari, si formano i primi elementi, per arrivare poi alle forme più importanti di Vitamina D, ovvero la forma epatica e la forma renale. La forma epatica rappresenta la forma di deposito della vitamina D, ma non è dotata di attività biologica. La forma renale, invece, è dotata di attività biologica, il cosiddetto calcitriolo (1,25-diidrossicolecalciferolo). Un’altra differenza è che il calcitriolo lo troviamo in concentrazioni basse (picogrammi), invece la forma di deposito la troviamo in concentrazioni molto più alte, per cui noi, tranne che in alcuni casi, dosiamo sempre la Vitamina D3 epatica. La vitamina D, oltre alle funzioni calcemiche, ha le cosiddette funzioni non calcemiche che vanno dagli effetti anti-neoplastici a quelli anti-aterogenici; queste sono solo alcune delle funzioni non calcemiche della vitamina D. La vitamina D3 agisce principalmente a livello dell’enterocita, promuovendo un aumento delle concentrazioni di calcio, non perché ha un’azione sull’assorbimento di quest’ultimo, perché il calcio passa tranquillamente la parete dell’enterocita, però per trasferirsi dal polo intestinale a quello vascolare, deve legarsi a delle proteine intracellulari (proteine calcio leganti: calbindine), le quali sono indotte dalla vitamina D3 (quindi non ha un’azione diretta). Quindi la vitamina D3 promuove a livello genico la sintesi di calbindine che legano il calcio a livello dell’enterocita, che lo trasportano dal polo intestinale al polo vascolare, dunque il paratormone e la vitamina D3 agendo su questi organi diversi (rene, ossa, intestino) regolano la concentrazione di calcio nel nostro organismo. Noi oggi parliamo di deficienza, quando la forma epatica di vitamina D3 è inferiore a 20 ng/ml, parliamo di insufficienza al di sotto di 30 ng/ml, sufficienza tra 30 e 100 ng/ml e infine tossicità al di sopra di 150 ng/ml. Le vitamine non sono sostanze innocue, alcune sono dotate di un’elevata tossicità e certamente la vitamina A, Vitamina E e Vitamina D, sono molte tossiche ad elevate concentrazioni. Le vitamine A e D sono molto tossiche per il fegato. Ad oggi si discute molto sui valori che rispecchiano un’insufficienza o di vera carenza. IPERCALCEMIA. Quando noi sospettiamo una situazione di ipercalcemia, prima di tutto bisogna fare il dosaggio dell’albumina perché la quota che a noi interessa determinare, non è la calcemia totale bensì la quota di calcio ione, dotato di attività biologica. Se ho una ridotta concentrazione di albumina, avrò una maggiore concentrazione di calcio ione libero e quindi avrò segni di ipercalcemia non legati ad un reale aumento della secrezione di paratormone, ma legata ad una minore produzione della proteina legante. Quindi se l’albumina è diminuita, chiaramente si daranno proteine e albumina sostitutiva, se invece l’albumina è normale si farà il PTH. Nel caso in cui questo è aumentato la diagnosi sarà fatta perché si tratterà di un iperparatiroidismo; se invece il PTH è normale o addirittura diminuito, dovrò controllare i livelli di vitamina D3, la forma di deposito in modo particolare, se questa è elevata si tratterà di un ipercalcemia dovuta da un intossicazione da vitamina D. Se la vitamina D3 epatica è normale allora in questo caso dobbiamo fare il calcitriolo, ovvero la forma attiva della vitamina D3, se questa è normale probabilmente sarà un tumore, soprattutto neoplasie che danno metastasi ossee, perché la formazione di metastasi ossee determina la lisi dell’osso e liberazione di sali di calcio. Se invece la forma renale di vitamina D è aumentata, bisognerà pensare ad un’altra patologia, la sarcoidosi, in cui i macrofagi sono in grado di idrossilare la vitamina D determinando l’attivazione della forma attiva e da qui si risale alla causa che determina l’ipercalcemia. IPOCALCEMIA. Anche nell’ipocalcemia controlleremo probabili alterazioni dell’albumina, anche se nelle ipocalcemie devo considerare la funzionalità renale (tramite creatinina ecc..). Se la funzionalità renale è normale allora si deve considerare il magnesio, se questo è basso avremo ipomagnesemia (terapia sostitutiva), invece se normale si farà il paratormone. Se il paratormone è basso si tratterà di un ipoparatiroidismo. Gli ipoparatiroidismi tempo fa erano molto frequenti, perché quando il chirurgo toglieva la tiroide, toglieva anche le paratiroidi, adesso ovviamente non più. Quindi se il paratormone è basso avremo ipoparatiroidismo, se invece è alto bisognerà fare i fosfati. Se i fosfati sono alti, si parla di una forma particolare di pseudoparatiroidismo, condizione dovuta a più cause in cui vi è una resistenza all’azione del paratormone, legate alla formazione del complesso recettore-paratormone. Se invece i fosfati sono bassi, allora dobbiamo considerare la vitamina D3 epatica e a basse concentrazioni ci sarà una carenza di vitamina D; in caso contrario andremo a fare il calcitriolo. Questo è importante soprattutto nei bambini, perché ci permette di distinguere le forme di rachitismo vitamina D dipendente, dalle forme di rachitismo di vitamina D indipendente. Chiaramente se il calcitriolo sarà basso si tratterà di rachitismo vitamina D dipendente. MAGNESIO Il magnesio non è strettamente correlato come il calcio al fosfato, è indipendente, però indirettamente prende parte alla regolazione dei livelli di calcio e di fosfato. Infatti l’ipomagnesemia determina una ridotta secrezione di PTH e quindi ipocalcemia. Il magnesio è un co-fattore importante delle reazioni dove avvengono formazioni di substrati energetici. A volte l’ipomagnesemia è causa di astenia, basta dare una compressa di magnesio e si risolve il problema. RIASSORBIMENTO OSSEO. (RIMODELLAMENTO OSSEO.) Nuovi marcatori Il rilevante numero di studi che negli anni più recenti sono stati condotti sulla biologia dell’osso ha consentito di conoscere e identificare in maniera dettagliata i processi fisiopatologici e i meccanismi biochimici che stanno alla base del complesso processo di rimodellamento che interessa il tessuto scheletrico. In particolare, la descrizione dei meccanismi molecolari che rendono accoppiati i processi di formazione e di riassorbimento ha aperto ambiti nuovi di conoscenze e di applicazioni biochimiche e terapeutiche. È in questo contesto e da queste scoperte che può derivare la proposta per nuovi marcatori biochimici di rimodellamento osseo. RANK-RANKL-OPG (rank) È un complesso che deriva dall’interazione tra un peptide di 317 aa, membro della superfamiglia del fattore di necrosi tumorale (Tumor Necrosis Factor, TNF) ed espresso sulle cellule progenitrici degli osteoblasti (RANK), e il suo recettore (RANKL) espresso sui precursori degli osteoclasti. L’interazione RANKL/RANK comporta l’attivazione, la diidrossivitamina D (1,25(OH)2D), e dell’incremento delle concentrazioni di PTH, determinando l’insorgenza di una patologia minerale ossea tipicamente conseguente all’insufficienza renale cronica (Chronic Kidney Disease-Mineral Bone Disease, CDK-MBD). In questa popolazione sarebbe molto importante disporre di marcatori biochimici che consentano di identificare precocemente il rischio di fratture poiché i tradizionali parametri utilizzati nel monitoraggio (Ca, P, PTH eGFR) non presentano una sensibilità diagnostica sufficiente. Studi recenti [75] hanno dimostrato che nei pazienti con IRC i livelli circolanti di FGF23 aumentano precocemente rispetto ai livelli di PTH e fosforo e che la loro progressione è parallela a quella della patologia. Inoltre, l’evidenza che la concentrazione di FGF23 è direttamente associata al rischio di frattura, correlata alla diminuzione della funzionalità renale (minore eGFR), all’aumento dei livelli di PTH e alla diminuzione di quelli di 1,25(OH)2D, candida questo parametro al ruolo di nuovo marcatore biochimico, poiché riflette la progressione della malattia ossea conseguente all’insufficienza renale, può essere facilmente monitorato fin dalle fasi inziali della malattia e può predirne l’outcome. Per la misura delle concentrazioni circolanti esistono in commercio metodi immunometrici che valutano i livelli della molecola intatta, le cui prestazioni analitiche rispondono allo stato dell’arte attuale e sono quindi proponibili per l’utilizzo routinario. LDH. (LATTATO DEIDROGENASI.) La lattato deidrogenasi (LDH) è un enzima che attraverso il trasferimento di idrogeno catalizza l’ossidazione di L-lattato a piruvato con la mediazione del NAD+ come accettore di idrogeno. L’enzima ha un peso molecolare di 134 kDa ed è composto da 4 catene peptidiche di 2 tipi (M e H), ciascuno sotto separato controllo genetico. Le strutture di LDH-M e LDH-H sono determinate, rispettivamente, da loci sui cromosomi 11 e 12. Le composizioni in subunità dei 5 isoenzimi, in ordine decrescente di mobilità anodica in un mezzo alcalino, sono LDH-1 (HHHH; H 4 ), LDH-2 (HHHM; H 3 M), LDH-3 (HHMM; H 2 M 2 ), LDH-4 (HMMM; HM 3 ) e LDH-5 (MMMM; M 4 ). Un sesto differente isoenzima del LDH, LDH-X, composto da 4 subunità X, è presente nei testicoli umani in età postpuberale. Una settima LDH, denominata LDH-6, è stata identificata nei sieri di pazienti gravemente malati [43]. L’attività dell’LDH è presente in molte cellule e tessuti umani. La concentrazione di enzima nei tessuti varia da 1500 a 5000 volte rispetto a quella trovata fisiologicamente nel siero. Quindi, la fuoriuscita dell’enzima anche da una piccola quantità di tessuto danneggiato aumenta in misura significativa l’attività di LDH osservata del siero. Tessuti differenti mostrano diversa composizione isoenzimatica. Nel cuore, reni ed eritrociti predominano gli isoenzimi LDH-1 e LDH-2; nel fegato e nel muscolo scheletrico predominano gli isoenzimi LDH-4 e LDH-5. Significato clinico A causa della sua ampia distribuzione tissutale, aumenti di LDH nel siero si verificano in una varietà di condizioni cliniche, inclusi infarto del miocardio, epatite ed emolisi. Tuttavia, la misura di LDH nel siero è rilevante solo in ematologia e oncologia [44]. L’anemia emolitica aumenta significativamente le concentrazioni di LDH nel siero. Marcati aumenti di attività della LDH, fino a 50 volte il LSR, si osservano nelle anemie megaloblastiche. Queste anemie, solitamente derivanti dalla carenza di acido folico o vitamina B 12 , portano la cellula precursore degli eritrociti nel midollo osseo a indebolirsi (eritropoiesi inefficace), provocando il rilascio di grandi quantità di LDH. Questi aumenti tornano rapidamente ai valori basali dopo un trattamento appropriato. Per scopi di monitoraggio, la LDH è rilevante nel predire l’attività della malattia nelle leucemie e la probabilità di sopravvivenza nel morbo di Hodgkin e nei linfomi non-Hodgkin. Pazienti con malattia maligna mostrano spesso aumenti di LDH nel siero; fino al 70% dei pazienti con metastasi epatiche e dal 20 al 60% dei pazienti con altre metastasi (es. linfonodali) presentano aumentata attività della LDH. In particolare, un aumento di LDH-1 si osserva nei tumori a cellule germinali (~60% dei casi), come teratoma, seminoma del testicolo e disgerminoma dell’ovaio [45]. La percentuale di pazienti con aumentata LDH dipende dallo stadio della malattia. LDH sembra anche essere un utile strumento di previsione dell’esito nei pazienti con tumori a cellule germinali non seminomatosi del testicolo, melanoma e microcitoma polmonare. Aumenti di LDH sono osservati nelle epatopatie, ma il loro uso clinico in un profilo epatico appare molto limitato perché non aggiunge informazioni significative alla determinazione delle transaminasi. Infine, la misura di LDH nel liquido pleurico (meglio se in combinazione con la LDH sierica) aiuta a distinguere tra versamenti essudativi (LDH liquido pleurico/LDH siero >0,6) e trasudativi (rapporto <0,6) [46]. La presenza di macro-LDH, a causa della formazione di un complesso autoanticorpo-enzima che conduce a un persistente aumento della quantità di enzima circolante, è stimata verificarsi in <1 persona su 10.000. La sua presenza dovrebbe essere verificata in individui sospetti per evitare ulteriori indagini di approfondimento o trattamenti inutili. IPOGLICEMIA. (IPOGLICEMIE.) Le iperglicemie, per quanto siano situazioni gravi che comportano un danno cellulare e metabolico, non sono situazioni che in genere necessitano di un’emergenza terapeutica. Un soggetto può avere anche 300 di glicemia senza che abbia un pericolo di vita, produrrà un danno a livello cellulare, ma non c’è una situazione di pericolo di vita dove è necessario un intervento terapeutico immediato. Ben diverso è il discorso, invece, per quello che riguarda le ipoglicemie che determinano una situazione di urgenza terapeutica in cui , se i livelli di glucosio scendono al di sotto di certi valori, i danni cerebrali e la prognosi possono essere particolarmente gravi. L’ipoglicemia può essere definita come una condizione metabolica caratterizzata da una riduzione dei livelli plasmatici di glucosio tale da indurre segni e/o sintomi, quali l’alterazione dello stato mentale, soprattutto, dato che il glucosio è l’unico carboidrato, l’unico substrato energetico per i nostri neuroni, e la stimolazione del sistema nervoso simpatico. L’ipoglicemia si manifesta quando la concentrazione plasmatica di glucosio è inferiore a 55 mg/dl, quindi al di sotto di questo valore si fa diagnosi di ipoglicemia. L’ipoglicemia è caratterizzata da segni e/o sintomi come le alterazioni pupillari, la sudorazione, l’alterazione del sensorio, bassa concentrazione plasmatica di glucosio; abbiamo la riduzione dei segni e/o sintomi clinici con la somministrazione di glucosio esogeno. La storia dell’ipoglicemia non ha tantissimi anni e il report del Diabetes Care oggi ha fissato il limite tra 50 e 55 mg/dl di glicemia. C’è un altro parametro importante da considerare: abbiamo detto che il valore normale della glicemia è tra 70 e 100 mg/dl al di sotto di 70mg/dl di glicemia, non facciamo diagnosi di ipoglicemia. Questa, però, è una situazione da attenzionare, perché il soggetto è a rischio di andare in ipoglicemia. Quindi, con un valore di 55mg/dl, quindi, parliamo di ipoglicemia; mentre con un valore al di sotto di 70mg/dl o al limite di 70mg/dl bisogna stare attenti perché il soggetto non vada in ipoglicemia ed è un livello allerta da tenere sotto controllo, anche se ha scarsa evidenza sull’impatto della qualità vita (cioè il soggetto continua la sua normale attività). Parliamo di diversi gradi di ipoglicemia, al di sotto dei 70mg/dl non abbiamo un’alterazione cognitiva né una presenza di sintomi indicativi di una ipoglicemia ma, comunque, è una situazione di allerta. Se scendiamo al di sotto di 54 – 55 mg/dl di glicemia c’è già una clinica rilevante. se scendiamo al di sotto di 20mg/dl, la situazione è di estrema gravità con severa ipoglicemia, grave coinvolgimento delle funzioni cognitive, richiede assistenza esterna, coma e si può giungere anche alla morte. Il cosiddetto termometro ipoglicemico, dove al diminuire della concentrazione di glucosio vi è un aumento della gravità dei sintomi neurologici sino ad arrivare alla letargia, al coma, alle convulsioni, al danno cerebrale permanente e alla morte. La condizione di ipoglicemia, ovviamente, è una condizione da attenzionare da parte del medico per sapere come agire. La soluzione è semplice, basta fare delle infusioni di glucosata al 5, al 10 o al 20% a seconda della gravità del caso. Il paziente in ipoglicemia presenta una sintomatologia caratteristica, suda, ha alterazioni pupillari,è ipoteso e la diagnosi risulta estremamente facile. Pseudoipoglicemie Dobbiamo, però, prestare attenzione alle pseudoipoglicemie, cioè alla non correlazione tra dato di laboratorio e situazione clinica. La determinazione della glicemia, infatti, deve essere effettuata in tempi brevi rispetto a quando si fa il prelievo, perché il glucosio posto all’interno della provetta viene degradato. Possiamo avere,pertanto, una situazione di concentrazione minore, perché il glucosio è stato alterato da un cattivo trasporto o un trasporto durato più del dovuto ma, in questo caso, è facile poterlo sospettare perché non c’è una correlazione tra le concentrazioni di glucosio determinate e la presenza di segni clinici. I segni dell’ipoglicemia, come già detto, sono la sudorazione, l’ipotensione, la tachicardia, il tremore, il pallore e le alterazioni cognitive. Cause di ipoglicemia La causa più frequente di ipoglicemia è la terapia insulinica del soggetto con diabete di tipo 1 o di tipo 2. L’insulina esogena si basa sull’alimentazione che ha il soggetto, per cui basta che il soggetto fa la dose di insulina ma si alimenta meno, introduce meno carboidrati o assorbe meno carboidrati, e c’è la possibilità che si verifichi una situazione di ipoglicemia. Le ipoglicemie più pericolose sono le ipoglicemie notturne, quelle ipoglicemie che seguono ad una assunzione di insulina la sera, quando il soggetto che potrebbe avere mangiato meno si addormenta. E’ bene avere una concentrazione di glucosio maggiore durante la notte per evitare una ipoglicemia notturna. Perché l’insulina e non gli antidiabetici orali? La metformina, un antidiabetico orale che viene utilizzato nel diabete di tipo 2, nella sindrome metabolica e nei soggetti obesi, non determina ipoglicemia, per cui non abbiamo ipoglicemia da metformina. Possiamo avere ipoglicemia da altri antidiabetici orali, ma non da metformina. Altre cause di ipoglicemia possono essere malattie croniche epatiche o alcuni ormoni, ma non c’è dubbio che la causa più frequente di ipoglicemia è l’insulina. I soggetti con insulinoma in cui c’è una curva alta, piatta dell’insulina vanno incontro a crisi ipoglicemiche così come i soggetti con by-pass gastrico o i soggetti affetti da ipoglicemie autoimmuni molto rare.24 Cause di ipoglicemia in pazienti con malattie concomitanti: Farmaci: -Insulina -Alcol Malattie croniche e acute: -Insufficienza epatica, renale e cardiaca -Sepsi e malaria Deficit ormonali: -Cortisolo -Glucagone -Adrenalina Tumori non insulari Cause di ipoglicemie in soggetti apparentemente sani: Iperinsulinismo endogeno: -Insulinoma -Sindrome ipoglicemica di origine pancreatica non secondaria ad insulinoma -Ipoglicemia dopo bypass gastrico -Ipoglicemia autoimmune Ipoglicemia accidentale, volontaria o factitia TROMBOFILIA. Nella trombofilia congenita sono note effettivamente le basi molecolari in grado di spiegarci la presenza della trombofilia ereditaria. Il concetto di trombofilia è associato ad una tendenza, che può essere determinata da cause congenite ma anche da cause acquisite (entrambe quasi sempre convivono), al tromboembolismo venoso o arterioso, ma più frequentemente quello venoso. La diatesi trombofilica è quindi una condizione di aumentato rischio: il soggetto è maggiormente esposto a rischio di eventi trombotici nel distretto venoso. 24 efficace tra i fattori acquisiti e quelli congeniti che poi è quella che determina l’evento trombotico, l’evento patologico in sé e per sé. IPEROMOCISTEINEMIA L’iperomocisteinemia è inserita sia tra i fattori trombofilici congeniti sia tra quelli acquisiti perché l’aumento della omocisteina plasmatica(che oggi è nota per essere un fattore di rischio protrombotico) può riconoscere sia delle cause acquisite che delle cause congenite, date da difetti del patrimonio genetico legati ad un alterato metabolismo. Quindi le basi molecolari della trombofilia congenita posso comprendere sia delle alterazioni di tipo qualitativo che quantitativo (dalla slide: alterazioni di proteine della cascata coagulativa, del pathway fibrinolitico…). Noi possiamo avere la sintesi di fattori alterati, dotati di una funzionalità alterata o una abnorme o ridotta sintesi di alcuni questi fattori. Possiamo avere quindi sia delle alterazioni di aumentata sintesi che di alterata funzionalità. Per esempio, in relazione agli anticoagulanti naturali, il deficit di antitrombina III, di proteina S e proteina C è tra le condizioni più fortemente associata al rischio di eventi trombotici. Sono dei fattori anticoagulanti, perché il complesso della proteina C attivata ha, tra le tante funzioni, anche quella di andare a degradare alcuni fattori della coagulazione attivi. Sapete che il processo della cascata coagulativa è dotato in maniera intrinseca di elementi di “spegnimento”, di contenimento del processo coagulativo, che è un processo altamente regolato e che porta alla fisiologica regolazione dell’emostasi. L’iperomocisteinemia riconosce sia delle cause congenite da deficit enzimatico di alcuni enzimi che sono importanti nel metabolismo dell’omocisteinemia stessa ma può riconoscere anche delle cause acquisite come per esempio carenze vitaminiche da vit. B12 e i folati che sono essenziali per la rimozione dell’omocisteina in eccesso. L’omocisteina è un aminoacido solforato che viene metabolizzato tramite due vie: via della transulfurazione ciclo della SAM Sono due vie metaboliche che portano alla conversione o all’eliminazione dell’omocisteina per via urinaria o alla conversione dell’omocisteina in metionina. Questa omocisteina è un aminoacido che viene metilato (viene aggiunto un gruppo metile), viene così convertito in metionina che verrà poi utilizzata variamente per le funzioni metaboliche in cui essa è richiesta. Il blocco del ciclo della SAM (S-adenosil-metionina) porterà ad un accumulo del substrato precursore che è l’omocisteina e ad una limitata sintesi di metionina. L’iperomocisteinemia, qualunque sia la causa che l’ha generata, congenita o acquisita, agisce determinando un aumento del rischio protrombotico sia mediante una interazione con fattori della coagulazione, portando ad uno squilibrio emostatico con il rischio di trombosi, ma anche una forte azione pro-ossidante. Determina quindi un danno endoteliale che si associa ad un aumento del rischio trombotico. OMOCISTEINA Aminoacido solforato essenziale per la sintesi di metionina (aa essenziale per i processi di metilazione). L’omocisteina viene smaltita e degradata nel nostro organismo tramite due vie metaboliche: - il ciclo della SAM (S-adenosil metionina) - via della transulfurazione (che porterà alla sintesi di cisteina e all’eliminazione per via renale) L’accumulo di omocisteina si ha nel momento in cui una di queste vie si blocca o rallenta per un motivo qualsiasi, che può essere o di natura congenita (perché ci sono degli enzimi carenti in queste vie di metabolizzazione), o per cause acquisite (deficit B12 e folati). Queste due vitamine agiscono da cofattori per una reazione essenziale che è la conversione di omocisteina a metionina (quindi la metilazione dell’omocisteina) che avviene a carico della metionina-sintasi che richiede la presenza di B12 e di metil- tetraidofolato. Il metil-tetraidofolato viene sintetizzato per riduzione del metilen tetraidofolato. Questa reazione è catalizzata dall’ MTHFR (Metilentetraidrofolatoreduttasi). Una alterazione o un deficit di MTHFR o B12 e folati, causano un rallentamento nella reazione di conversione da omocisteina a metionina e quindi un accumulo di omocisteina. Ciò spiega l’iperomocisteinemia che è associata anch’essa a rischio protrombotico. La presenza di varianti trombofiliche quando si associa a fattori acquisiti e transitori, determina un aumento esponenziale del rischio di trombosi. Tutto questo detto finora riguarda soprattutto le trombosi del distretto venoso, perché è più note per essere associate a difetti trombofilici, tuttavia dobbiamo considerare anche che la t. venosa rispetto la arteriosa, riconosce solo limitate analogie. Sono condizioni molto diverse tra di loro, tuttavia ci sono degli elementi comuni. Per quanto riguarda le trombosi del distretto arterioso, le associazioni sono più deboli e blande, per cui la manifestazione clinica più frequente della t. ereditaria rimane la trombosi del distretto venoso. Come dobbiamo usare l’esito di uno screening trombofilico? Considerando i familiari asintomatici è difficile identificare il soggetto asintomatico, perché chiaramente lo screening è limitato. Frequentemente lo screening viene effettuato su un soggetto con precedenti tromboembolici e da un aumentato rischio di recidive. Basi congenite della trombofilia I principali stati trombofilici congeniti sono quelli rappresentati in tabella: deficit antitrombina III deficit proteina C deficit proteina S E due mutazioni: mutazione a carico del fattore V mutazione del fattore II (o protrombina) Nel primo caso si tratta della sintesi di un fattore V anomalo, che è il fattore V Leiden, nel secondo caso invece si tratta di un’alterazione che ricade nel promotore del gene, a monte rispetto al sito di inizio della traduzione della proteina e che non ha un significato di tipo qualitativo perché non altera la protrombina nella sua funzionalità ma si associa ad un aumentata sintesi della protrombina. C’è quindi un aumento nella sintesi di messaggero e poi di proteina, un aumento dei livelli circolanti di protrombina che come sappiamo è il precursore della trombina: la tappa terminale in cui culmina la cascata coagulativa. L’aumento di protrombina porterà ad un aumento nella generazione di trombina portando a uno stato protrombotico. La frequenza di queste alterazioni nella popolazione generale è piuttosto bassa soprattutto se ci rivolgiamo all’antitrombina III alla proteina C ed S; prevalenza che aumenta quando noi consideriamo i pazienti con trombosi venosa profonda selezionati. Cioè se noi ci limitiamo a considerare i pazienti che hanno già avuto un episodio trombotico, questi sono soggetti in cui c’è una maggiore probabilità che siano portatori di queste mutazioni. Si fa riferimento ad esempio all’età di insorgenza, all’età di esordio del primo evento trombotico poiché se questo si presenta in età giovanile aumenta la probabilità che si tratti di una forma congenita. La prevalenza invece del fattore V Leiden e della protrombina è più alta, sono più frequenti nella popolazione ma è vero anche che si associano ad un rischio minore di eventi trombotici. Sono una condizione più frequente ma il rischio trombotico che questi determinano è minore rispetto a quello determinato dal deficit di proteina C e la proteina S. Due sono le considerazioni importanti da fare: La prevalenza è bassa nella popolazione generale il che significa che uno screening per trombofilia ereditaria non è giustificabile su larga scala o sulla popolazione generale ma lo è invece se noi consideriamo dei criteri di selezione ed applichiamo questo tipo di test solo a quei soggetti per i quali c’è una maggiore probabilità pre-test di avere questa condizione. La penetranza clinica è variabile: la penetranza indica quel grado di associazione tra l’alterazione molecolare ed il fenotipo patologico. Ci sono delle situazioni in cui c’è una penetranza completa dove possiamo dire che la presenza della mutazione determina con elevatissima probabilità il fenotipo patologico. La penetranza clinica è maggiore per il deficit di antitrombina III, di proteina C e di proteina S, ciò significa dire che i portatori di questa alterazione molecolare hanno un maggiore rischio di eventi trombotici rispetto ai portatori di mutazione del fattore V e del fattore II. La penetranza quindi è massima per questi 3 deficit (proteina C, S, antitrombina III) ed è decrescente per le altre condizioni fino al 8-10 % di eventi trombotici nei portatori di fattore V di Leiden in cui l’associazione genotipo-fenotipo è sicuramente molto più blanda. Screening trombofilico Questo tipo di screening non è applicabile su larga scala perché la prevalenza di trombofilia è molto bassa per cui non giustifica l’applicazione così generale. I soggetti che devono essere avviati a questo tipo di diagnostica sono quelli che presentano una o più condizioni come: Età giovanile di comparsa dell’evento trombotico (prima dei 45 anni); Tromboembolismo venoso idiopatico; Tromboembolismo venoso dopo stimoli di entità trascurabile; Tromboembolismo venoso che tende a recidivare (ricorrente); Trombosi venose che si presentano in sedi non usuali; Storia familiare positiva per tromboembolie venose, depone infatti per una forma congenita; Familiari di primo grado rispetto al portatore di trombofilia ereditaria. Queste rappresentano sicuramente le condizioni principali o quanto meno i criteri di selezione dei pazienti da avviare allo screening trombofilico. La presenza dell’alterazione molecolare si associa molto spesso a dei fattori ambientali transitori. Abbiamo un algoritmo diagnostico che dovrebbe essere eseguito nell’indirizzare i pazienti allo screening trombofilico: partendo da un soggetto che ha un tromboembolismo venoso sulla base della storia familiare e personale e dell’esame obiettivo bisogna considerare una serie di fattori: l’età giovanile (al di sotto dei 45-50 anni) trombosi ricorrente storia familiare positiva per eventi trombotici eventi trombotici in siti inusuali sono delle condizioni che depongono a favore di una trombofilia ereditaria. Dobbiamo considerare anche la presenza di fattori transitori ambientali: chirurgia stato post operatorio traumi gravidanze immobilizzazione prolungata terapia estrogenica Se sono presenti solo fattori transitori questo non sarà un soggetto candidato all’esecuzione dello screening trombofilico perché non ci sono elementi a supporto di una componente ereditaria. Viceversa se sono presenti le prime quattro condizioni da sole o anche in associazione con fattori transitori, allora questi soggetti sono quelli che devono essere avviati allo screening trombofilico. Seguendo questo tipo di ragionamento possiamo orientarci su quali pazienti sottoporre questo tipo di test. Lo screening trombofilico si compone non solo di test genetici ma anche di una parte importante di biochimica clinica. Ci sono quindi una serie di test, che partono da test funzionali della coagulazione, partendo da uno studio di base della coagulazione: PT e INR (tempo di protrombina e rapporto internazionale normalizzato) aPTT (tempo di tromboplastina parziale attivata) fibrinogeno dosaggio di antitrombina, di proteina C e di proteina S studio immunologico che riguarda la presenza di autoanticorpi che sono tipicamente associati alla sindrome da anticorpi anti-fosfolipidi che è anch’essa una condizione patologica che Variante di Leiden e protrombina G20210A La variante di Leiden è una forma del fattore V dotata di intatta capacità coagulativa (funzionalità integra), ma di una resistenza alla sua attivazione. Sappiamo che il sistema della cascata della coagulazione è un sistema complesso, fatto di fattori umorali ma soprattutto che contiene in sé l’autospegnimento: questi fattori che agiscono da proteasi sono in grado di degradare e spegnere e inibire lo stimolo protrombotico che viene attivato da una serie di insulti che conosciamo. Quindi anche fisiologicamente il fattore V viene degradato per taglio proteolitico, nella fattispecie ci sono tre siti che vengono coinvolti nella degradazione che sono 3 residui di arginina. Quindi il fattore V attivato, viene degradato e inattivato per taglio proteolitico dal complesso della proteina C attivata, che insieme alla proteina S determina tre tagli proteolitici sul fattore V attivato e così facendo lo inattiva. La variante di Leiden è una variante del fattore V in cui, a causa di una mutazione della sequenza codificante, si ha una sostituzione di questo residuo di arginina con un acido glutammico. Ciò comporta la perdita di uno dei siti di degradazione perché il taglio proteolitico che viene esercitato da questi fattori, implica il riconoscimento con il proprio substrato, riconoscimento dato da una specifica sequenza primaria della proteina (in questo caso è proprio il fatto V attivato). Se la proteina perde la sua sequenza primaria, viene meno anche il sito di riconoscimento tra il fattore proteolitico ed il suo substrato. Venendo meno questo riconoscimento, la proteina C attivata taglia due siti, ma un terzo non riesce a tagliarlo e ciò comporta che il fattore V rimane parzialmente attivo e non verrà completamente inattivato come in condizioni fisiologiche. Si tratta di una mutazione di singolo nucleotide che determina la sostituzione di una tripletta con un’altra e la sostituzione di un aa con un altro, causando alterazioni fenotipiche. L’altra variante rilevante quando parliamo di trombofilia ereditaria, la mutazione è a carico del Fattore II, la protrombina, e la mutazione nello specifico è la G20210A. Questa è una mutazione che non cade nella sequenza codificante e non ha ripercussioni sull’attività del fattore II: i portatori della mutazione sintetizzano un fattore II del tutto attivo, ma la mutazione agisce perché ricadendo nel promotore determina una aumentata trascrizione del genere e quindi aumentati livelli di protrombina (i portatori quindi hanno livelli circolanti di protrombina elevanti, causando così uno stato protrombotico. La protrombina è precursore della trombina e quindi aumento della possibilità di coaguli) CHILOMICRONI. I chilomicroni sono la prima classe di lipoproteine. Essi hanno l'importante ruolo di incorporare i trigliceridi provenienti dalla dieta e di trasportarli al fegato. L’Apo-B48 permette l’esocitosi del chilomicrone dall’enterocita. Il chilomicrone si forma nell’enterocita e da questa cellula viene esocitato per poi giungere al fegato. I metaboliti presenti nell'enterocita, o più generalmente nell'area splancnica, giungono al fegato tramite il sistema portale: un sistema di connessione vascolare diretto tra intestino e fegato (bypassando la grande circolazione). Tuttavia, i chilomicroni seguono la via linfatica anziché la via portale. Se seguissero la via portale al fegato giungerebbe un quantitativo di trigliceridi del 90%, valore che il fegato non sarebbe in grado di smaltire (esso andrebbe incontro a steatosi, con abnorme presenza di trigliceridi a livello epatico). La via linfatica, tramite il dotto toracico, confluisce nella grande circolazione. A questo livello è presente la lipasi endoteliale, indotta dall’Apo-C2, che inizia a degradare i trigliceridi presenti nel chilomicrone. Il quantitativo di trigliceridi nel chilomicrone viene dimezzato e quest'ultimo prende il nome di chilomicrone secondario, o chilomicrone remnant (con un contenuto di trigliceridi di circa 40-45%). Attraverso la grande circolazione, il chilomicrone giunge al fegato che ha le capacità di metabolizzare questo contenuto di trigliceridi. Altra caratteristica del chilomicrone è la sua emivita brevissima: 5-10 minuti. Se ad esempio si dovesse eseguire un prelievo ematico 30 minuti dopo che un soggetto ha assunto un pasto ricco di trigliceridi, non si troverebbero chilomicroni nel sangue (sempre che questo soggetto abbia un corretto metabolismo). Quando si esegue un prelievo di sangue, anche dopo breve tempo dall’assunzione di alimenti ricchi di grassi, non si trovano chilomicroni. Oltre all'Apo-B48, un’altra proteina importante è la MTP (Proteina di Trasferimento Microsomiale) che trasferisce i lipidi su Apo-B48. IPERCHILOMICRONEMIE. Per parlare di iperchilomicronemie facciamo riferimento alla classificazione di Fredrickson che inquadra diversi tipi di dislipidemie: Tipo I: caratterizzato da aumento dei chilomicroni e da colesterolemia normale. In genere è raro ed è dovuto ad alterazione soprattutto della Apo-C2, induttore della lipasi endoteliale. Tipo IIa: caratterizzato da un eccessivo aumento del colesterolo e da trigliceridi normali. È la forma più frequente e corrisponde alla cosiddetta ipercolesterolemia familiare. Tipo IIb: è una forma mista, caratterizzata sia da ipercolesterolemia che ipertrigliceridemia, con aumento delle LDL e delle VLDL. Tipo III: con aumento delle IDL, anche definite nelle vecchie classificazioni come forme remnant delle VLDL. Tipo IV: caratterizzato da un aumento dei trigliceridi, corrisponde alla ipertrigliceridemia familiare nelle altre classificazioni. Tipo V: ipertrigliceridemia molto grave, con alterazione sia dei chilomicroni che delle VLDL. Le concentrazioni sono molto diverse a seconda della tipologia (in una dislipidemia di tipo V è possibile avere valori di trigliceridi superiori a 1000 mg/dl). Questo disordine metabolico dei trigliceridi si trasmette dai genitori ai figli e determina un deficit in un enzima chiamato lipoproteina lipasi. Gli eterozigoti sono asintomatici o hanno una sintomatologia molto lieve, senza pancreatiti acute, mentre nel caso della patologia di tipo omozigote si ha un aumento importante dei trigliceridi, solitamente superiori a 1000 mg/dl, ma che possono raggiungere anche i 5- 6.000 mg/dl. Fino ad arrivare ai 12.000 mg/dl. La malattia si manifesta dai primi anni di vita, con coliche addominali ed episodi ricorrenti di pancreatite acuta. Altri sintomi sono l’epatosplenomegalia, la steatosi epatica e gli xantomi eruttivi. Anche l’analisi del fondo dell’occhio può evidenziare delle arterie rosacee, la cosiddetta lipemia retinalis. Diagnosi Per avere la conferma si procede alla misurazione dei trigliceridi a digiuno: se il plasma, al prelievo, si presenta lattescente, si può già ipotizzare che ciò sia dovuto a un’eccessiva concentrazione di chilomicroni. Occorre però escludere le cause secondarie di ipertrigliceridemia: l’abuso di alcool, il diabete e l’uso di alcuni farmaci come gli steroidi, le terapie estrogeniche o lo Zoloft. Un altro metodo è la misurazione dell’attività della lipoproteina lipasi, che si effettua iniettando eparina per separarla dai vasi: se l’enzima non risulta misurabile oppure è ridottissimo, si tratta di iperchilomicronemia. DISLIPIDEMIE Le dislipidemie sono alterazioni nel metabolismo delle lipoproteine. Classificazioni Esistono tantissime classificazioni delle dislipidemie. La classificazione più importante, da un punto di vista pratico, è quella che prende in considerazione la patogenesi della dislipidemia e la tipologia del lipide alterato. Tenendo in considerazione la patogenesi della dislipidemia, distinguiamo la dislipidemia primaria da quella secondaria. Si parla di dislipidemia primaria quando l’alterazione risiede primariamente nel contesto di quel metabolismo, mentre di dislipidemia secondaria quando la patogenesi è secondaria ad un’altra condizione patologica. Questo aspetto è importante perché, ad esempio, in un paziente ipotiroideo con ipercolesterolemia non va corretta l’ipercolesterolemia, bensì la funzione tiroidea. Correggendo la funzione tiroidea si regolarizza anche la situazione lipidica. Nel trattamento della dislipidemia primaria vengono usati i farmaci specifici, mentre per le forme secondarie farmaci che vadano a correggere la patologia alla base della dislipidemia. Sulla base della tipologia di lipide alterato è possibile distinguere forme di dislipidemie con alterazione del colesterolo, da forme con alterazioni dei trigliceridi, da altre forme in cui risultano alterati sia colesterolo che trigliceridi. È inoltre possibile classificare le dislipidemie in base ad altri criteri: 1. alterazione lipidica di base; 2. aspetto fenotipico (ovvero la classificazione di Fredrickson, nonché la più vecchia tra tutte); 3. difetto genetico; 4. aspetto patogenetico. CLASSIFICAZIONE DI FREDRICKSON. La classificazione di Fredrickson non tiene conto della diversa eziologia alla base della dislipidemia. Si distinguono diversi tipi di dislipidemie: Tipo I: caratterizzato da aumento dei chilomicroni e da colesterolemia normale. In genere è raro ed è dovuto ad alterazione soprattutto della Apo-C2, induttore della lipasi endoteliale. Tipo IIa: caratterizzato da un eccessivo aumento del colesterolo e da trigliceridi normali. È la forma più frequente e corrisponde alla cosiddetta ipercolesterolemia familiare. Tipo IIb: è una forma mista, caratterizzata sia da ipercolesterolemia che ipertrigliceridemia, con aumento delle LDL e delle VLDL. Tipo III: con aumento delle IDL, anche definite nelle vecchie classificazioni come forme remnant delle VLDL. Tipo IV: caratterizzato da un aumento dei trigliceridi, corrisponde alla ipertrigliceridemia familiare nelle altre classificazioni. Tipo V: ipertrigliceridemia molto grave, con alterazione sia dei chilomicroni che delle VLDL. Le concentrazioni sono molto diverse a seconda della tipologia (in una dislipidemia di tipo V è possibile avere valori di trigliceridi superiori a 1000 mg/dl). Classificazione patogenetica La classificazione più importante tiene conto di una differenziazione tra forme primarie e secondarie e della tipologia di lipide alterato: solo colesterolo, solo trigliceridi o ambedue, considerando tutta una serie di condizioni patologiche che possono determinare queste alterazioni. Le forme secondarie possono essere legate a diabete, etilismo, ipotiroidismo, sindrome nefrosica, farmaci. Un’ulteriore classificazione è quella patogenetica, che tiene conto soprattutto del gene mutato, della modalità di trasmissione, dell’incidenza, del corrispondente fenotipo e della correlazione con il rischio cardiovascolare. IPERCOLESTEROLEMIA FAMILIARE. (IPERTRIGLI) È una forma di dislipidemia frequentissima. Secondo i dati epidemiologici più recenti, una persona su 200 è affetta da ipercolesterolemia. La trasmissione è autosomica dominante. Ha un’incidenza di 1/200 nella forma eterozigote, 1/800.000-1.000.000 nella forma omozigote, che è anche molto più grave. L'ipercolesterolemia familiare è caratterizzata da un aumento delle LDL in circolo: nella forma eterozigote la colesterolemia è intorno ai 300-400 mg/dl; nella forma omozigote la colesterolemia raggiunge anche 600-700 mg/dl. La forma omozigote è chiaramente molto più grave: in genere i pazienti affetti da questa forma di ipercolesterolemia familiare sviluppano un infarto a 20 anni e, verosimilmente, la diagnosi della patologia di base viene raggiunta dopo l’evento acuto o dopo l’exitus. La forma eterozigote è dunque meno grave (ad esempio con infarto a 45-50 anni). In generale l'incremento delle LDL ematiche costituisce un fattore di rischio indipendente per le malattie cardiovascolari (in particolare: infarto del miocardio, ictus cerebrale e arteriopatia periferica). In sintesi, le proteine associate ad ipercolesterolemia familiare sono tre a trasmissione autosomica dominante e una a trasmissione autosomica recessiva: il recettore per le LDL, l'enzima PCSK9, l'APO- B100 e la proteina ARH. Diagnosi La diagnosi è di laboratorio; anche per il monitoraggio della patologia servono i dati di laboratorio. La clinica spesso è assente; è presente soltanto se i livelli di colesterolo sono molto elevati. I segni dell’ipercolesterolemia sono gli xantomi e gli xantelasmi: essi sono rispettivamente depositi di colesterolo a livello di tendini, articolazioni o cute e placche giallastre sulle palpebre o sull’arco corneale. Questi segni sono presenti nelle ipercolesterolemie di maggiore gravità. Poiché la clinica è assente, la semeiotica aiuta poco nel poter diagnosticare precocemente una tale dislipidemia. Ipercolesterolemie eterozigoti Le ipercolesterolemie eterozigoti sono legate a mutazioni di geni che codificano per tre proteine: il recettore delle LDL, la Apo-B100 (cioè la proteina riconosciuta dal recettore) e la PCSK9 (ovvero la proteina che regola la degradazione del recettore delle LDL). Terapia La terapia dell’ipercolesterolemia si basa su: 1) statine: bloccano la HMG-CoA reduttasi, unico enzima regolabile dai livelli di colesterolo (in altri termini è come se venisse somministrato al paziente colesterolo endocellulare); 2) inibitori intestinali di colesterolo: Ezetimibe e altri farmaci che inibiscono l’assorbimento intestinale di colesterolo; Quindi quante più LDL ci sono, quante più LDL subiscono il processo di ossidazione, quante più LDL si trasformano in cellula schiumosa. Le cellule schiumose poi si organizzeranno in maniera più completa e complessa dando luogo alla formazione della placca ateromasica. Alla formazione della placca ateromasica, che segue alla formazione della cellula schiumosa, compartecipano tutta una serie di altri fattori, come vari fattori di crescita, la proliferazione di cellule muscolari lisce, il collagene, l’aggregazione piastrinica maggiore, fattori pro-infiammatori che aumentano la loro azione, per cui poi alla fine si forma questa placca ateromasica, che man mano va organizzandosi sempre meglio e sempre maggiormente, occlude sempre di più il lume vasale, determinando prima una situazione di ipossia, fino all’occlusione completa del lume vasale, e quindi alla corrispondente anossia a valle della sede dell’ateroma. Chiaramente i vasi più piccoli si occludono più facilmente, più precocemente, rispetto ai vasi di grosse dimensioni, come l’aorta, in cui i problemi di flusso sono in una fase maggiormente tardiva. Questa è l’importanza delle LDL nel processo di formazione dell’ateroma. Quindi si danno gli antiossidanti perché diminuiscono l’ossidazione di tante cose, tra cui anche delle LDL; le LDL che non subiscono il processo di ossidazione non vengono fagocitate, quindi la tappa di fagocitosi da parte dei macrofagi non si realizza e si blocca. L’aterosclerosi è un processo molto lungo: ha una storia naturale di decenni. Oggi sappiamo dai combattenti in Vietnam americani, che già a 20 anni ci sono delle lesioni aterosclerotiche, soprattutto nei grossi vasi; chiaramente l’epifenomeno clinico25 si realizza dopo decenni, ma il processo aterosclerotico è un processo che inizia più o meno abbastanza precocemente. Il danno si ha quando poi il flusso diventa insufficiente rispetto alla richiesta dell’organo irrorato dai vasi dove hanno sede gli ateromi (a livello cerebrale, cardiaco, periferico e renale). L’arteriosclerosi è la perdita di elasticità delle arterie; l’aterosclerosi è un processo patologico di formazione dell’ateroma, in cui le arterie perdono in tutti gli strati, sia nella parte intimale, fino alla parte più esterna tutta una serie di alterazioni, per cui alla fine nelle forme di aterosclerosi severe non solo ci sono le placche, ma c’è una completa alterazione morfo-strutturale dell’arteria in tutto il suo spessore. Un’altra caratteristica estremamente grave che poi spiega una parte degli epifenomeni clinici, è che le placche ateromasiche vanno incontro a ulcerazione, ovvero l’instabilità di placca, per cui da una placca ateromasica si distaccano dei trombi, che vanno a occludere il vaso a valle dell’ateroma. Quindi l’instabilità di placca è un’altra caratteristica estremamente importante degli ateromi; noi abbiamo oggi dei biomarcatori che ci danno indicazioni precise sulla instabilità di placca, quindi sulla capacità di una placca di ulcerarsi, rompersi e di far sì che trombi partano e vadano a occludere vasi a distanza. Dislipidemie e aterosclerosi Il grado di patogenicità delle diverse classi lipoproteiche è diverso a seconda della classe lipoproteica: le LDL e la apoproteina a hanno un maggiore grado di patogenicità, mentre le HDL sono protettive. Le HDL promuovono delle azioni che hanno un’azione anti-aterogena estremamente importante: Attività antiossidante (antiaterogeno inibiscono i macrofagi, cosicché non possano fagocitare le LDL ossidate) Attività antitrombotica Attività antiapoptotica Attività antinfiammatoria, tramite le molecole di adesione endoteliale Attività vasodilatatoria, attivando l’ossido nitrico sintetasi, attivando alcune prostaglandine, come la prostaciclina Attività antinfettiva FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARI I fattori di rischio della malattia cardiovascolare sono tantissimi. Le dislipidemie sono uno dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari. Alcuni sono non modificabili: età, sesso e fattori genetici Stili di vita: fumo, inattività fisica, stress Alcuni patologici: sovrappeso, obesità, dislipidemie, pressione arteriosa, malattia diabetica, omocisteina (un aminoacido che è un fattore di rischio indipendente per le trombosi sia venose che arteriose) Alcuni microrganismi capaci di determinare un’alterazione flogistica in alcuni tratti arteriosi, come le coronarie: clamidie 25 Può essere l’infarto, l’ictus, l’arteropatia periferica. Quando si fa il profilo di un soggetto e il rischio di un soggetto da un punto di vista della predizione di una patologia cardiovascolare, bisogna tenere in considerazione tutti questi fattori. I parametri di laboratorio appropriati sono: La colesterolemia totale, ma soprattutto il colesterolo HDL (protettivo), il colesterolo LDL (aterogeno), il rapporto LDL/HDL La trigliceridemia che oggi è un fattore di rischio indipendente di malattia cardiovascolare La lipoproteina a Le apoproteine che hanno un ruolo funzionale più importante, quindi: a. la ApoA1 (induttore della LCA, cioè dell’attività enzimatica che esterifica il colesterolo nelle HDL) b. l’ApoB100 (apoproteina riconosciuta dal recettore per le LDL, che quindi permette la formazione del complesso LDL + recettore) c. ApoC1 e ApoC2 (apoproteine che hanno un ruolo importante nell’indurre l’attività della lipasi lipoproteica a livello endoteliale) d. ApoE (ha un ruolo importante nella cooperazione del riconoscimento dell’ApoB100 con il recettore delle LDL) L’omocisteina, che è un aminoacido derivante dalla metionina, e che è un fattore di rischio indipendente sia per le trombosi arteriose, ma soprattutto delle trombosi venose Alcuni fattori della coagulazione, come il fibrinogeno e il D-dimero Le proteine di fase acuta, di cui la più importante è la proteina c reattiva, che oggi è considerata un marcatore predittivo di flogosi a livello coronarico L’inibitore del plasminogeno Alcuni polimorfismi genici, di cui quelli importanti sono soprattutto due: il fattore V di Leiden e il fattore II (protrombina) “Prima si faceva anche l’idrofolato-reduttasi, oggi sappiamo che i polimorfismi di questa attività enzimatica importante nel ciclo della SAM (S-adenosil metionina), cioè il ciclo che coinvolge il metabolismo dell’omocisteina, è molto frequente. Quando un polimorfismo è molto frequente nella popolazione è considerato parafisiologico e quindi perde di importanza nella patogenesi delle patologie”. BIOMARCATORI PRE ISCHEMICI E POST ISCHEMICI (scompenso cardiaco) BIOMARCATORI ISCHEMIA. (MARKER ISCHEMIA.) È estremamente importante che il medico conosca e sappia differenziare quali sono i biomarcatori e che indicazioni danno. Quindi dobbiamo distinguere i biomarcatori di eventi pre-ischemici dai biomarcatori di eventi post-ischemici. BIOMARCATORI PRE ISCHEMICI Citochine pro-infiammatorie: IL-6, IL-10, fattore di necrosi tissutale alfa, CD40-ligand Molecole di adesione: ICAM, VCAM Enzimi del complesso sistema delle metalloproteinasi: metalloproteinasi 9 BIOMARCATORI POST ISCHEMICI La più importante è la Troponina, il biomarcatore che dà le informazioni più importanti, più precoci e che può essere utilizzata nella diagnosi di infarto del miocardio, nella diagnosi differenziale di diverse forme di sindrome coronarica acuta Albumina modificata dall’ischemia, che nella pratica clinica non facciamo (il medico non la richiede), però è importante sapere che quando c’è un’ischemia l’albumina viene modificata dal processo ischemico, dall’ipossia, alterando la sua struttura La proteina legante gli acidi grassi (FABP) che è una proteina che sembrerebbe essere ancora più precoce rispetto alla stessa troponina, quindi in grado di dare indicazioni più precocemente di una necrosi rispetto alla stessa ischemia. Ne conosciamo due isoforme, che sono la forma cardiaca e la forma intestinale, che è estremamente importante ad esempio negli infarti intestinali (frequenti soprattutto nei soggetti che subiscono interventi a livello cardiaco) NT-proBNP (vedi sotto) Galectina 3: è un parametro di scompenso cardiaco importante, diverso dal Pro NT-BNP; ci dà informazioni diverse perché è legato a una fisiologia diversa, ci permette di selezionare alcuni pazienti, e ci permette nei pazienti Galectina 3 positivi di instaurare una terapia specifica per quei soggetti per lo scompenso: per ora gli scompensi vengono trattati tutti con la digitale; oggi invece abbiamo la possibilità, facendo anche la Galectina 3, di selezionare un gruppo di pazienti che hanno degli effetti terapeutici positivi con il trattamento con altri farmaci. NT probnp (NT-Probnp) (nt pro bnp) (BNP.) È un biomarcatore di scompenso cardiaco, un biomarcatore di insufficienza ventricolare sinistra, anzi più correttamente è un biomarcatore che ci permette di escludere che una dispnea sia di origine cardiaca (questa è la definizione corretta). Quindi per capire se una dispnea è di origine cardiaca o di origine bronchiale si fa il BNP: o se il BNP è normale l’origine è bronchiale o se il BNP è alterato l’origine è cardiaca Quindi è un parametro di esclusione che una dispnea sia di origine cardiaca. Viene utilizzato come biomarcatore di eventi post-ischemici perché ha un ruolo importante: non è un parametro di necrosi, è un parametro di insufficienza funzionale del ventricolo sinistro, che perde la sua capacità contrattile normale. Lo facciamo nell’infarto per 2 motivi: 1. ci dà indicazioni prognostiche importanti: la valutazione dell’NT-proBNP è un parametro che dà indicazione della gravità della necrosi, perché tanto più estesa è la necrosi, quanto maggiore è il danno funzionale ventricolare; quindi un BNP aumentato nel momento dell’infarto è un indicatore prognostico importante 2. permette di monitorare l’andamento della malattia: un BNP che è aumentato al momento in cui il soggetto fa l’infarto e poi migliora nei giorni successivi, indica che l’infarto tende a regredire, la zona necrotica tende a riorganizzarsi meglio, e quindi è un parametro di monitoraggio importante. È importante non solo il BNP alterato al momento della diagnosi di infarto: anche un BNP normale al momento dell’infarto è importante perché: 1) dice che la necrosi non è di grado elevato 2) permette di seguire sempre l’andamento della malattia, nel senso che un BNP che è normale al momento dell’infarto e dopo 5 giorni si altera, indica che il ventricolo sx di quel soggetto funziona male; quindi anche se il danno ipossico-anossico non è di grado elevato, quel cuore subisce un danno funzionale, e quindi è un parametro di funzionalità del cuore estremamente importante. Quindi il medico dopo avere fatto la diagnosi di infarto, deve chiedere anche l’NT-proBNP, non perché è un marcatore di necrosi (non è un marcatore diagnostico di infarto), ma perché ci dà queste altre informazioni che nel soggetto infartuato sono importanti. Inoltre il BNP o NT-proBNP non è un biomarcatore di necrosi, occlusione o ipossia dell’infarto però tanto più la necrosi è di maggiore estensione quanto più compromessa sarà la contrattilità del ventricolo sinistro. Negli infarti di maggiore gravità vi è un’insufficienza ventricolare sinistra, con aumento del NT proBNP. Il suo dosaggio è necessario non per la diagnosi (usiamo la troponina), ma lo utilizziamo come biomarcatore del grado di scompenso legato all’infarto. Ha un ruolo prognostico importante: un paziente con infarto ed aumento di questo biomarker indica un infarto esteso con compromissione della capacità contrattile del ventricolo. Altra utilità è quella di monitoraggio dell’infarto in termini di miglioramento o peggioramento della contrattilità nel tempo. Esempio: valore normale al momento della diagnosi di infarto che aumenta nei giorni successivi, significa che il cuore del paziente, che magari sarà un soggetto anziani con altre patologie concomitanti, ha un'insufficienza ventricolare. Dunque, nella diagnosi di infarto oggi si eseguono: Troponina al tempo 0 poi ad 1h o 3 h in seguito NT proBNP. FUNZIONE DEI PEPTIDI NATRIURETICI Emivita: BNP emivita> 15-20minuti NT proBNP > 60 minuti Funzioni:- diuretica, natriuretica, vasodilatante, interazione col sistema neuro ormonale e con il sistema immunologico. Sono secreti dal miocardio come parte di una risposta sistemica allo stress. Sono dei biomarcatori di funzione ventricolare sinistra e non di danno cardiaco. Sono considerati biomarcatori di prima linea per la diagnosi di scompenso cardiaco (HF), acuto e cronico, e per la stratificazione del rischio mortalità/mobilità, non solo nei pazienti con HF, ma anche in pazienti con SCA e in tutte le malattie cardiovascolari (come l’angina instabile). È un parametro che viene utilizzato anche nello scompenso cardiaco. I pazienti con bassi livelli di peptidi natriuretici hanno bassa probabilità di avere lo scompenso. Definizione di scompenso cardiaco Lo scompenso cardiaco è una sindrome clinica caratterizzata da sintomi tipici (astenia, dispnea…) causati da un’alterazione cardiaca strutturale e/o funzionale, che determina un ridotto ouput cardiaco e/o incrementata pressione intracardiaca a riposo e durante stress. Le più importanti società internazionali di cardiologia nella definizione di infarto del miocardio mettono al centro il biomarcatore (che a oggi è la troponina): il riscontro di un aumento e/o di una diminuzione dei marcatori biochimici cardiaci (preferibilmente delle troponine ad alta sensibilità) con almeno un valore al di sopra del 99° percentile del limite superiore di riferimento, associata ad almeno uno dei seguenti permette di fare diagnosi di infarto del miocardio: 1. sintomi di ischemia; 2. anomalie del tratto ST-T; 3. comparsa di onde Q patologiche all’ECG; 4. riscontro alle indagini di imaging, soprattutto l’ecocardiografia o il rilievo angiografico autoptico di trombosi coronarica (nell’imagine è scritto: riscontro alle indagini di imaging di una nuova perdita di miocardio vitale o di nuove alterazioni della cinesi parietale regionale..) I cardiologi hanno riconosciuto l’importanza del biomarcatore, inserendolo al centro della definizione, e poi lo hanno correlato ad uno delle altre caratteristiche che associate all’alterato biomarcatore ci permettono di fare diagnosi. Il marcatore più importante nella diagnosi d’infarto in fase acuta è la troponina. La troponina ad oggi è il biomarcatore che gode delle caratteristiche di maggiore sensibilità, specificità e della precocità della sua alterazione in corso di infarto. Sono cambiati i criteri di diagnosi di infarto. Gli enzimi cardiaci non devono essere più richiesti per nessun motivo, soltanto un caso in cui dobbiamo richiedere la CK-MB, ma non per la diagnosi di infarto. Nei nuovi criteri rientra solo la troponina associata a sintomi ischemici e ad alterazioni elettrocardiografiche. Per l’interpretazione corretta della troponina dobbiamo introdurre la sua cinetica; non la troponina basale o un solo valore di troponina ma la cinetica della troponina. La troponina è un ottimo biomarcatore ma ha un ilimite. Il limite della troponina è che non ci permette di fare diagnosi di reinfarto perché ha un tempo di metabolizzazione lento, quindi permane aumentata a lungo. Se il soggetto dovesse avere un reinfarto dopo quattro giorni dal primo, non riusciremmo a capirlo dai soli valori della troponina che sarebbero già alterati dal primo infarto. Soltanto in questo caso è utile valutare la CK-MB, l’isoforma cardiaca della creatinchinasi, perchè ha un tempo di metabolizzazione molto più rapido. Se dovesse essere aumentata potremmo fare diagnosi di reinfarto. le caratteristiche cliniche sono estremamente importanti: la troponina ci permette di escludere un infarto. Possiede quindi valore predittivo del test negativo. La troponina ha un ruolo importante nella contrazione del miocardiocita ed è principalmente presente a livello della componente strutturale del miocardiocita. La quota di troponina presente nel citoplasma è una quota minima. Quando c’è una necrosi solo la quota citoplasmatica viene rilasciata; quando ci sono necrosi di grado maggiore allora abbiamo l’alterazione strutturale del miocardiocita con la liberazione di tutta la troponina. Il fatto che se ne trovi poca nel citosol è un difetto di questo marcatore, perché se si trovasse in gran quantità, alla minima necrosi avremmo un grande aumento nel sangue di troponina. Ne abbiamo tre isoforme, T, I e C. Quelle che dosiamo, perché più importanti dal punto di vista diagnostico, sono la T e la I. Estremamente importante è la cinetica della troponina. L’emività è di 2-4 ore. L’incremento è abbastanza precoce (2-3 ore dall’infarto), con un picco tra le 12 e le 24 ore. I tempi di normalizzazione sono molto lunghi; questo ci impedisce di utilizzarla nella diagnosi del reinfarto. Non tutti gli aumenti della troponina però sono indicativi di necrosi cardiaca, non c’è una grandissima specificità. Ci sono altre cause cardiovascolari che possono determinare un aumento della troponina tra le quali le tachiaritmie, l’insufficienza ventricolare sinistra, le crisi ipertensive, alcune situazioni di shock, le miocarditi, le pericarditi, la cardiomiopatia tako-tsubo; può aumentare anche per situazioni non cardiache, situazioni si sepsi, di shock settico o anafilattico, situazioni di ipossia, avvelenamento da monossido di carbonio, malattia renale cronica, la rabdomiolisi, ictus, ustioni, esercizio fisico molto intenso, alcuni tumori. Storia dei biomarcatori: negli anni ’70 si utilizzavano CK-MB, LDH, negli anni 90/2000 si utilizzava la troponina di prima generazione che non aveva una grande sensibilità, poteva avere solo un valore normale o un valore patologico; sfuggivano quindi tutti quegli infarti di piccole dimensioni che non determinavano un aumento notevole della troponina. Con le troponine moderne ad alta sensibilità si è superata questa problematica, però se ne è creata un’altra, ovvero la possibilità di diagnosticare per infarto altre condizioni patologiche. Oggi però con la valutazione della cinetica della troponina questo problema è stato superato. Per poter correttamente valutare la troponina non si misura il valore basale della troponina, quindi al tempo 0, ovvero all’arrivo del paziente all’ospedale, che non corrisponderà al tempo 0 in senso assoluto, perché sarà già passato un certo quantitativo di tempo dal momento in cui il paziente ha avuto l’infarto. Con la prima misurazione al tempo 0 il valore che si ottiene non è importante. Se ne fa un’altra dopo; prima si faceva dopo 6 ore, oggi siamo arrivati a dopo 3 ore e anzi noi oggi facciamo dopo un’ora (tempo 1). Se vi è un aumento, un delta (ovvero la differenza tra la misurazione al tempo 1 e la misurazione al tempo 0), maggiore del 50% allora si fa diagnosi di infarto, altrimenti si esclude l’infarto . Quindi non è importante il valore basale, al tempo 0, in sé ma la sua cinetica; io potrei avere un valore basale anche patologico, alterato, che se a tre ore o anche un’ora non si modifica allora posso escludere l’infarto. Oggi si discute molto su quanto dovrebbe essere il delta tra il tempo 0 e il tempo 1. Ci sono scuole di pensiero che invece reputano che basti un delta del 30% per diagnosticare l’infarto. Uno si regola anche in base a quella che è la clinica, la situazione del paziente, la presenza di comorbidità, l’età e varie cose. Dopo aver fatto diagnosi, la terapia si deve fare immediatamente. La tempistica è importante perché la terapia rivascolarizzante per essere efficace deve essere eseguita entro 6 ore da quando si è instaurato l’infarto. Se la troponina dovesse essere molto aumentata come valore basale ma senza variazioni dopo un’ora o tre ore allora non si potrà fare diagnosi di infarto ma il paziente dovrà essere tenuto sotto osservazione. Interpretazione troponina Una troponina indosabile al tempo 0 ha valore diagnostico negativo ed è possibile escludere la presenza di infarto, se al tempo 0 invece la troponina è dosabile indipendentemente dal fatto che si mantenga entro il range di normalità o no, viene eseguita la cinetica, ovvero si valuta dopo 1 h e 3h come varia il valore della troponina, se incrementa e di quanto. Se l’incremento a 3h o 1 h, è superiore al 50 % rispetto al valore del tempo 0, si fa diagnosi di infarto. Quindi si considera come Cut-off differenziale il 50 % tra il valore al tempo 0 e tempo 1 rispetto al valore basale. Ovviamente i valori ottenuti vengono rapportati alla clinica e alle alterazione di esami strumentali come ECG qualora dimostrasse alterazioni patologiche. Quanto più alto è l’incremento o il valore basale tanto più grave è l’infarto, poiché correlato all’estensione della necrosi. Oggi le troponina di nuova generazione si è in grado di individuare anche infarti minimi, che hanno dato una necrosi inferiore ai 4 mg di tessuto miocardico. In conclusione il valore della troponina possiede: - valore prognostico negativo quando negativa al tempo (t0): esclusione dell'infarto e ricerca di altre condizioni che hanno determinato sintomatologia; - un valore prognostico positivo quando è dosabile e indipendentemente dal valore si fa la cinetica a 1h o 3 h. Vantaggi Rispetto agli altri enzimi cardiaci (la creatinchinasi, l’isoforma MB, mioglobina che oggi non vengono presi più in considerazione), le troponine sono utili anche per la prognosi a breve e lungo termine nei pazienti con Sindrome Coronaria Acuta. I pazienti con infarto STEMI ed alti livelli di troponina, hanno una prognosi peggiore rispetto a chi presenta valori più bassi di troponina all’ingresso in P.S. Quindi la troponina è sia un valore diagnostico che prognostico. Diagnosi differenziale L’elevata sensibilità della troponina pone il problema della diagnosi differenziale con altre condizioni che sono caratterizzate anch'esse da innalzamento dei valori. La presenza di livelli plasmatici bassi ma misurabili di hs-cTn nei soggetti normali può essere legata a: Patologie subcliniche I p ertrofia ventricolare sinistra IVSx , ischemia silente , disfunzione ventricolare, insufficienza renale lieve; Processi fisiologici turnover cellulare, apoptosi. Per questo motivo è essenziale seguire la cinetica per differenziare le varie condizioni che possono determinare incremento della troponina, diverse dall’infarto miocardico acuto. In conclusione, la troponina è un predittore indipendente di morte cardiovascolare in prevenzione primaria. Nei soggetti senza malattia cardiovascolare, un incremento di hs-cTn è legato a un incrementato rischio di andare incontro ad un evento cardiovascolare. Quindi i soggetti che presentano una troponina dosabile che non è significativa di infarto ma rimane un fattore predittivo importante di rischio di evento cardiovascolare. Ruoli della troponina: 1) diagnostico 2) prognostico 3) predittivo Ruoli maggiori e variegati rispetto a due anni fa, il cui ruolo era confinato all’essere un biomarcatore diagnostico. CKMB (CK-MB) (CK MB.) La CK-MB ha un ruolo nella diagnosi di re-infarto. La troponina non è utile in questo caso perché ha una emivita (un tempo di dimezzamento) che è più lungo rispetto alla CK-MB. Esempio: il paziente in quarta o quinta giornata ha un re-infarto, non potrà essere evidenziato con la troponina perché già patologica. Invece, la CK- MB con un’emivita di 24- 48 h, presenterà un rialzo in caso di infarto in quarta o quinta giornata. L’unica utilità clinica della CK-MB isoforma cardiaca è nella diagnosi di re-infarto. GALECTINA 3. Le Galectine sono gruppo di proteine (lectine) che si legano ad un gruppo di carboidrati noti come beta- galattosidi di cui se ne conoscono ben 14 forme, ma di maggiore interesse come biomarcatore cardiaco è la Galectina-3. Ruolo della Galectina-3 nell’ infarto del miocardio La Galectine 3 ha diverse funzioni fisiologiche alcune sconosciute e spesso contrapposte, tra cui: azione nell’apoptosi, regolazione dell’infiammazione e tante altre. Può essere espressa in tutta una serie di patologie ma soprattutto ha un ruolo importante nell’infarto del miocardio. Nell'infarto del miocardio presenta un duplice effetto: - Nella prima fase (precoce) ovvero nelle prime ore dall’infarto, ha un ruolo positivo protettivo; aumentando, aiuta i miocardiociti necrotici a sopravvivere e nel rimodellamento della zona cardiaca necrotica. - Nella seconda fase, dopo un certo tempo che si è istaurato l'infarto ha un ruolo negativo. Con il passare delle ore l’aumento della Galectine sarà di maggiore entità. Questo si verifica sia perché viene immesso in circolo la Galactica 3 ma soprattutto perché i macrofagi reclutati nella zona di necrosi che è andata incontro a flogosi secernono a loro volta la Galectina–3. Tutto ciò ha un ruolo negativo in quanto sbilancia la formazione di fattori pro e antinfiammatori con lo spostamento verso le citochine pro-infiammatorie che comporterà una flogosi di maggior entità che tende a cronicizzare, il deposito di miocardiociti necrotici e il consecutivo istaurarsi dei processi di fibrosi. Quindi la Galectina–3 è un marcatore di alterata morfologia in senso fibrotico del tessuto cardiaco, non di funzione come il NT pro BNP. Altra cosa importante è che la Galectina-3 aumenta solo nelle forme di scompenso cardiaco sinistro a differenza del NT pro BNP che aumenta in tutti i soggetti con scompenso cardiaco (non esclusivamente di tipo sinistro). La Galactina-3 ci permette di distinguere: pazienti Galectina-3 positivi da quelli negativi in quanto quest'ultimi hanno una prognosi migliore perché non presenteranno fibrosi a differenza di quelli che risultano positivi; ma anche di personalizzare la terapia. Il paziente con scompenso sinistro positivi alla Galectina-3 rispondono a determinate molecole che vanno a bloccare l'azione negativa della Galectina-3. Le terapie personalizzate nascono dagli epatologici, in cui le diverse forme cliniche di epatite (A-B-C) hanno un diverso trattamento terapeutico. In passato, lo scompenso cardiaco si trattava allo stesso modo qualunque fosse la causa che l’avesse generato. Oggi non si tratta sempre alla stessa maniera: Il paziente con scompenso sinistro positivi alla Galectina 3 vengono trattati con determinate molecole come aldosteronici o Pectine (inibitori della Galectina-3). La Galectina-3 ha un ruolo prognostico importante nel trattamento. È utile anche nel valutare il rischio di sviluppo di scompenso cardiaco (ruolo predittivo) sia nella popolazione generale che nei pazienti con IMA. I livelli plasmatici di Galectina-3 rappresentano un valore predittivo negativo indipendente dall’outcome nei pazienti con scompenso cardiaco. Dalle linee guida più recenti della Società europea di cardiologia del 2017 si riconoscono due marker di fibrosi cardiaca: - Recettore della proteina solubile ST2: marker tutt’ora non sufficientemente validato; - Galectina-3. Entrambi predittivi per ospedalizzazione e morte e quindi utili per fare prognosi più precisa rispetto a quei pazienti con scompenso cardiaco in cui si valuta solo il peptide natriuretico. ogni 6 mesi o agni anno, a secondo dei casi, l’alfa-fetoproteina, può essere utile per monitorare e screenare in maniera precoce un’eventuale degenerazione neoplastica in soggetti HCV positivi. L’AFP è utilizzato anche come mercatore in altre condizioni per esempio come indicatore non biodiagnostico ma come indicatore di alert per quelle che possono essere per esempio le alterazioni dello sviluppo del tubo neuronale, come una spina bifida o un meningocele. L’AFP è una proteina che per funzioni è assimilabile all’albumina che nel periodo fetale è prodotta in piccole quantità e quindi l’AFP svolge le funzioni che svolgerà l’albumina nel periodo post-fetale e neonatale. A mano a mano che il neonato comincia a produrre l’albumina l’AFP non è più necessaria e quindi non è più sintetizzata, se non in casi di patologia. CEA. (ANTIGENE CARCINO-EMBRIONALE) Tale biomarcatore non è dotato di alta specificità perché lo si ritrova aumentato in più forme tumorali; però una maggiore specificità l’ha per il carcinoma del colon. Quindi il CEA aumenta soprattutto nei carcinomi del colon. Per quanto riguarda il carcinoma delle vie biliari non abbiamo un marcatore così preciso e sensibile come l’AFP; abbiamo due marcatori il CEA o il CA 19.9 che aumentano in molti tumori addominali e che quindi non sono specifici. Occorre subito fugare un dubbio e affermare che i biomarcatori di neoplasie non sono mai diagnostici: anche se positivi noi non possiamo mai fare diagnosi in base alla positività del biomarcatore, così come un biomarcatore negativo non ci può fare escludere che ci sia la presenza della neoplasia. Hanno comunque un’utilità giacché il biomarcatore è comunque una spia, un alert, e quindi se un soggetto ha il PSA aumentato non è detto che abbia il tumore alla prostata, ma potrebbe averlo, e quindi devo fare altre indagini che me lo confermano o me lo escludono; inoltre sono utili nel monitoraggio della malattia e quindi, dopo che è stata fatta la diagnosi con altri mezzi (e quindi si ha certezza di una neoplasia), bisogna monitorarla dopo il primo intervento terapeutico, chirurgico, radioterapico, per verificare la radicalità dell’intervento chirurgico - se il biomarcatore si normalizza dopo l’intervento significa che c’è stata una radicalità -, o nel monitorare l’eventuale ripresa della malattia o la metastatizzazione della malattia prima che abbia dato segni clinici. Il monitoraggio della malattia è possibile a condizione che il biomarcatore al momento della diagnosi sia già alterato, perché un biomarcatore di uno stesso tumore in soggetti diversi può comportarsi in maniera diversa. Quindi il biomarcatore ha una sua utilità nel monitoraggio della malattia e della terapia solo se è aumentato al momento della diagnosi, ma se al momento della diagnosi è normale non lo devo più utilizzare perché vuol dire che quella neoplasia non è capace di esprimere quella molecola e quindi diventa dannosa perché mi fuorvia da quella che è l’esatta condizione di quella patologia. MARCATORI OVARICI (CA125) (HE4.) (ca 125) (he 4.) Nel tumore ovarico abbiamo 2 biomarcatori dotati di una discreta sensibilità e specificità. In tale patologia fino a pochi anni fa avevamo solo un biomarcatore, il CA125 , che aumenta soprattutto nelle forme di carcinoma ovarico, ma anche in tutte le patologie che danno una flogosi del peritoneo viscerale ( domanda d’esame ), perché tutte le patologie dell’area splancnica, un’appendicite acuta o un’endometriosi o una pancreatite, che danno una flogosi del peritoneo viscerale, possono dare un aumento del CA125. Questo inoltre può essere aumentato in condizioni fisiologiche come il ciclo mestruale. Quindi il CA125 non è dotato di elevato di elevata specificità. Ma da alcuni anni abbiamo un altro biomarcatore che è HE4 (Human Epididymis protein 4), proteina sintetizzata dall’epididimo nel soggetto maschile, ma che viene sintetizzata anche nei tumori dell’ovaio. Oggi tale tumore si studia studiando questi due biomarcatori in associazione: il CA125 e HE4. Si è visto che tra i due biomarcatori HE4 è più sensibile e specifico di un tumore ovarico, quindi meno legato ad alterazioni correlate ad altre patologie non neoplastiche, cosa che accade invece per il CA125. Studiandoli insieme questi biomarcatori, se sono entrambi aumentati con diversi cut-off in fase premenopausa nella donna ancora con ovaie attive rispetto alla fase in epoca post menopausale, si calcola un rischio: - Se sono entrambi aumentati il rischio che vi sia un tumore dell’ovaio è molto elevato; - Se sono entrambi normali il rischio è estremamente basso; - Se è aumentato il CA125 ma è normale HE4 il rischio è basso; - Se è aumentato HE4 e normale il CA125 il rischio è maggiore. Questa valutazione contemporanea viene fatta da algoritmi che fanno tutto in automatico; si mettono i valori di questi biomarcatori, e in automatico ci viene dato un indice di rischio che si chiama ROMA INDEX, che in base alla fase pre o post menopausa ci dà un rischio maggiore o minore. Questi sono due biomarcatori che funzionano abbastanza bene, e quindi si è superata quella problematica legata alla possibilità di aumenti extraneoplastici del CA125. Il Roma Index, che nasce appunto dai valori delle concentrazioni dei biomarcatori, in pre-menopausa indica alto rischio quando superiore a 7%, al di sotto di 7% basso rischio. Invece in post-menopasusa il Roma Index deve essere superiore a 25% per indicare un alto rischio. CA19.9 (CA 19.9) (CA 19 9) Per il pancreas abbiamo un biomarcatore, però purtroppo non è dotato di elevata specificità, che è il CA19.9. Esso aumenta nel tumore del pancreas, ma anche nel tumore dello stomaco. Ha un’attendibilità certamente inferiore rispetto ai biomarcatori visti prima. CA15.3 (CA 15 3) (CA 15.3) I tumori della mammella possono essere divisi in tumori endocrino dipendenti da tumori endocrino indipendenti. La dipendenza dei tumori della mammella dagli ormoni è legata alla dipendenza del tumore dagli stimoli ormonali, per cui nei tumori della mammella a secondo della dipendenza o meno si fanno terapie diverse, si fa anche lo studio dei recettori per gli estrogeni e per i progestinici. Le valutazioni di tali ormoni non sono diagnostiche, ma ci servono a caratterizzare la tipologia di tumore e poi avviare la terapia che è strettamente correlata alla dipendenza o meno. Quando il tumore è ancora sensibile all’azione degli estrogeni vuol dire che il tumore è ancora abbastanza differenziato e quindi una terapia ormonale può dare dei benefici, nei tumori invece endocrino indipendenti dove non c’è più questa dipendenza dagli ormoni, in genere sono dei tumori più anaplastici, maggiormente indifferenziati, naturalmente l’approccio terapeutico sarà diverso. S100. marcatore per melanoma. ENOLASI NEURONE SPECIFICA (ENOLASI.) Marker specifico per microcitoma, tumore del polmone molto aggressivo, a piccole cellule. BRCA1. BRCA2. La mutazione di questi geni induce un rischio sia per il tumore della mammella che per il tumore dell’ovaio. Si stima che circa il 5-10% dei tumori della mammella e il 10-20% dei tumori dell’ovaio riconoscono una base di predisposizione ereditaria in cui i geni BRCA rappresentano la frazione più rilevante. Questo è importante in una famiglia in cui c’è la presenza di una neoplasia della mammella BRCA1/2 positivi, lo studio genetico va auspicabilmente fatto anche nei parenti di primo grado. CALPROTECTINA. La calprotectina è una proteina appartenente alla famiglia delle S100 ed è presente in grande quantità nei granulociti neutrofili, dove rappresenta il 5% delle proteine totali e il 60% di quelle citoplasmatiche. In minore quantità, la calprotectina è stata riscontrata anche nei monociti e nei macrofagi attivati. La struttura della calprotectina è costituita da una catena polipeptidica leggera e da due catene polipeptidiche pesanti e ha un peso molecolare totale di 36,5 kDa. Si tratta di una proteina con attività batteriostatica e micostatica paragonabile a quella degli antibiotici: per questo l'abbondanza di calprotectina nei granulociti neutrofili e la sua attività antimicrobica ne suggeriscono un ruolo rilevante nelle funzioni difensive dell'organismo. La presenza di calprotectina è stata riscontrata in diversi materiali biologici umani: nel siero, nella saliva, nel liquido cerebrospinale e nelle urine. E' tuttavia il dosaggio della calprotectina presente nelle feci a offrire i maggiori vantaggi nella valutazione del grado di infiammazione dell'intestino: la calprotectina infatti è una proteina estremamente stabile nelle feci, dove rimane inalterata anche per più di 7 giorni. In presenza di processi infiammatori, la calprotectina viene rilasciata a seguito della granulazione dei granulociti neutrofili. Nel caso di un'infiammazione dell'intestino, la calprotectina può essere rilevata nelle feci. Il dosaggio fecale è l'unico che può fornire indicazioni dirette sulla localizzazione dell'infiammazione, mentre il dosaggio nel siero o nel plasma evidenzia uno stato di infiammazione che può essere localizzato ovunque. L'aumento della concentrazione della calprotectina nelle feci è una conseguenza diretta della granulazione dei neutrofili a seguito di un danno della mucosa. Il dosaggio della calprotectina nelle feci offre notevoli vantaggi nella valutazione dell'infiammazione dell'intestino. Nei pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali, che sono indicate internazionalmente con IBD(Inflammatory Bowel Disease) e comprendono la colite ulcerosa, il morbo di Crohn e le cosiddette "coliti indeterminate", il livello di calprotectina è infatti generalmente molto elevato. Nei soggetti affetti da Sindrome dell'Intestino Irritabile, indicata internazionalmente con IBS (Inflammatory Bowel Syndrome), il livello di calprotectina è invece decisamente inferiore a quello riscontrato nei pazienti con malattia attiva, talvolta superiore al limite di riferimento ma, in ogni caso, sempre superiore a quello riscontrato nei soggetti sani. GLICOGENOSI. Le glicogenosi dal punto di vista clinico è importante poterle differenziare. Classificate in 8 tipi (trovate nei testi), dal punto di vista pratico è importante distinguerle in: muscolari ed epatiche. Dal punto di vista della praticità clinica, e quindi dell’approccio alla malattia, il poter identificare dove sta il danno, se a livello epatico o muscolare è importante. La glicogenosi epatica dà un’alterazione della omeostasi glucidica, quindi daràipoglicemia. Mentre la glicogenosi muscolare dà un’alterazione di metaboliti coinvolti nel metabolismo energetico muscolare, in particolar modo della creatinchinasi. FEGATO. Il fegato ha delle caratteristiche particolari rispetto agli altri organi, caratteristiche che lo differenziano dagli altri organi. La prima caratteristica che un po’ lo associa al rene è che, come nel rene abbiamo i nefroni che rappresentano le unità anatomo-funzionali, cioè ogni nefrone svolge le funzioni che il rene svolge nella sua totalità, nel fegato abbiamo l’acino che rappresenta l’unità anatomo- funzionale. L’acino, costituito da due lobuli, svolge tutte le funzioni che il fegato svolge nella sua interezza. La seconda caratteristica importante è che il fegato è un organo dotato di capacità autorigenerativa, cioè è un organo che si rigenera quando è distrutto per patologia o per intervento chirurgico. Questa autorigenerazione è un’autorigenerazione intelligente perché la parte di fegato andata distrutta si rigenera, ricostituendo la massa da cui era partito. La autorigenerazione, quindi, non è illimitata, ma è limitata sino a ricostruire il peso del parenchima epatico prima della distruzione. Un’altra caratteristica importante del fegato è che, per aversi alterazioni funzionali a carico dell’organismo ed avere delle alterazioni biochimicamente evidenziabili, la distruzione del fegato deve essere superiore ai . La parte di fegato non più funzionante, quindi, deve essere superiore di rispetto alla sua totalità. Questo ci fa capire come si hanno alterazioni a carico degli organi le cui funzioni sono regolate da processi svolti a livello epatico con la presenza di segni biochimici e parametri alterati, quando il fegato è distrutto per la sua gran parte. Le piccole alterazioni epatiche non danno alterazioni biochimiche e non danno segni funzionali e clinici di alterata funzionalità epatica. Dal punto di vista del laboratorio,evidenziamo alterazioni quando il fegato ha subito una patologia che ne ha compromesso le funzioni per la gran parte o nei stadi avanzati di una malattia. Il fegato occupa una posizione prominente nel metabolismo generale, infatti, è considerato la ‘centrale metabolica’, il centro del metabolismo più importante del nostro organismo. Esso controlla la distribuzione dei metaboliti provenienti dall’intestino e dai tessuti extraepatici: vi è un collegamento diretto tra l’intestino, l’area splancnica e il fegato tramite il sistema portale che collega direttamente l’area splancnica al fegato, bypassando la grande circolazione. Il fegato, inoltre, sintetizza molecole di interesse generale Svolge un ruolo importante nella detossificazione di sostanze endogene ed esogene: i farmaci vengono metabolizzati a livello epatico, la bilirubina indiretta viene glicuroconiugata e resa non tossica a livello epatico, l’alcol viene metabolizzato a livello epatico Un’altra caratteristica importante è che il fegato non è costituito solo da cellule che maggiormente conosciamo ossia gli epatociti, le cosiddette cellule parenchimali, ma anche da tutta una serie di cellule non parenchimali che svolgono un ruolo molto importante soprattutto dal punto di vista delle difese del nostro organismo, quando viene aggredito da BILIRUBINA. E’ un parametro molto importante nello studio delle alterazioni epatiche ed è importante il potere distinguere le due forme cioè di bilirubina indiretta, preepatica e liposolubile, dalla forma coniugata o diretta o post-epatica, perché ha caratteristiche che non solo sono differenti dal punto di vista fisico- chimico, la solubilità nei lipidi o in solventi acquosi ma è anche indicatrice di danni a livelli differenti: chiaramente un aumento della bilirubina indiretta è determinato da un’alterazione pre epatica, e quindi prima che questa bilirubina possa essere incorporata all’interno degli epatociti e lì coniugata e poi espulsa; un aumento della bilirubina diretta invece è indicatore di un danno post-epatico dopo che la bilirubina indiretta è stata internalizzata all’interno degli epatociti, coniugata ed espulsa; un aumento di tutte e due le forme è indicatore di un’alterazione della cellula epatica, dell’epatocita, come in tutte le situazioni di epatite da qualunque virus (tutte le anemie emolitiche danno un aumento della bilirubina indiretta). Chiaramente il potere distinguere dal punto di vista delle concentrazioni queste due forme di bilirubina ci aiuta nell’orientarci verso una serie di patologie; ci sono poi altri parametri che ci aiutano come la clinica, la storia e quindi logicamente l’interazione di una serie di dati fisici, anamnestici, strumentali, di imaging e di laboratorio ci permettono di giungere a quella che è la diagnosi specifica. Quindi la bilirubina è molto importante ed è soprattutto importante il potere determinare quando è aumentata e noi oggi anche per la bilirubina utilizziamo il sistema REFLEX che è quel sistema utilizzato dal laboratorio e che dà autonomia al laboratorio su come procedere seguendo una prima determinazione di un parametro e a seconda di questo parametro, se è normale o alterato e che tipo di alterazione ha, decideremo come procedere. Anche qui noi oggi facciamo a proposito della bilirubina il richiamo al Reflex, cioè valutiamo la bilirubina totale: se questa è aumentata poi procediamo con la differenziazione, altrimenti ci fermiamo senza bisogno di andare a determinare le due frazioni. Alcune cause di bilirubina indiretta sono considerate oggi parafisiologiche perché molto frequenti nella popolazione come la sindrome di Gilbert, l’anemia emolitica, e altre più rare come la Sindrome di Crigler Najjar. La bilirubina diretta e indiretta aumenta in tutte le condizioni in cui vi è un danno dell’epatocita, come in una cirrosi, in cui tale aumento è indicatore chiaramente di un danno dell’epatocita. Un aumento della bilirubina diretta è indicatore di un ostacolo per cause per lo più extraepatiche; per cause meccaniche; in genere la risoluzione è chirurgica. La bilirubinuria è il sintomo più precoce che però è di difficilissima individuazione, perché in genere sospetto che c’è un aumento della bilirubina quando vedo un subittero o un ittero franco e quindi mi serve poco; però il primo parametro che ci dà un’indicazione sull’aumento della bilirubina è la bilirubinuria, perché quando abbiamo una bilirubina totale con una frazione diretta > di 1mg/dl, anche solo un piccolissimo aumento rispetto al valore normale, noi troviamo bilirubina nelle urine. Chiaramente questo può essere il riscontro occasionale di un esame di urine magari fatto per altra indagine e quindi di scarso aiuto nella pratica clinica, ma è la prima alterazione di questo pigmento a livello della matrice urinaria. ALBUMINA. L’Albumina è una tra le proteine più importanti, non solo per le azioni che svolge, ma anche per la sua elevata concentrazione (è infatti la proteina più presente nel sangue). Svolge essenzialmente tre importanti funzioni: a) E’ un trasportatore aspecifico di molecole diverse, perché lega e porta nel sangue molecole diverse che sono esogene (esterne, come per esempio farmaci come l’acetilsalicilico e molti antibiotici) ed endogene come gli acidi biliari, la bilirubina indiretta coniugata, che non si potrebbe portare nel sangue se non collegata a una molecola idrofila che ne rende possibile il veicolarsi nel sangue come appunto l’albumina, che lega molte sostanze endogene ma anche esogene. Questo essere una molecola aspecifica è una caratteristica dell’albumina che è importante che il medico sappia e valuti in tutta una serie di condizioni, come per esempio nell’anziano, in cui c’è una fisiologica riduzione dell’albumina, il determinare prima della somministrazione di un farmaco, e quindi nello stabilire la dose di un farmaco da somministrare, bisogna prima valutare l’albumina, perché una sua ridotta presenza equivale a un ridotto legame con il farmaco che è somministrato e quindi a una maggiore quantità di molecola non legata e siccome, come noi sappiamo, che è la quota libera quella che determina l’azione biologica, dare in un anziano che ha una ipoalbuminemia fisiologica una dose del farmaco che diamo al giovane o al soggetto con una normale azione di albumina, determinerà un’azione maggiore. b) Altra caratteristica è che è il più importante determinante la pressione oncotica; è quindi quel determinante di quella pressione che, con la pressione idrostatica, determina il flusso bidirezionale, che avviene a livello del capillare arteriolare e venulare, e quindi lo scambio di fluidi e nutrenti che nel capillare arteriolare va verso l’interstizio e verso le cellule e nel capillare venulare nel percorso inverso, dalle cellule all’interstizio e da qui all’interno del capillare venulare. Tutto questo è regolato da due forze pressorie una che tende a spingere verso fuori che è la pressione idrostatica (che non è altro che la pressione con cui il ventricolo sinistro contraendosi espelle un quantitativo di sangue che nell’aorta misuriamo nella sua origine di 120-125 mmhg che chiaramente arrivati al capillare arteriolare misura circa 25-30 mmhg). La pressione oncotica determinata soprattutto dall’albumina, questa è costante perché è legata alla concentrazione di proteine e quindi, logicamente, sia nel capillare arteriolare sia in quello venulare il valore di questa forza pressoria sarà la stessa, in genere intorno a 15-20 mmhg. Quindi nel capillare arteriolare c’è una forza positiva perché la pressione idrostatica è maggiore della pressione oncotica, e quindi vi è passaggio dal capillare verso l’interstizio e da qua all’interno delle cellule; nel capillare venulare la pressione idrostatica è ulteriormente diminuita, in genere intorno a 10-15 mmhg, la pressione oncotica è rimasta la stessa e quindi c’è il richiamo di sostanze e di acqua dall’interstizio all’interno delle cellule. Se diminuisce l’albumina diminuisce la pressione oncotica, quindi nel capillare arteriolare vi sarà una differenza ancor maggiore tra la pressione idrostatica e quella oncotica, e quindi un maggiore passaggio di acqua e nutrienti dal capillare verso l’interstizio, nel capillare venulare la pressione idrostatica sarà maggiore rispetto a quella oncotica che è diminuita in relazione alla diminuzione dell’albumina e quindi anche in questo capillare non ci sarà drenaggio ma ci sarà filtraggio e quindi fluidi e nutrienti che escono: questo determina quel sintomo che chiamiamo edema, la cui genesi è sempre questa, qualunque sia la causa dell’ipoalbulinemia epatica, renale, flogistica, intestinale, la causa che poi determina l’edema è sempre legata all’ipoalbuminemia. c) Un’altra azione importante, fondamentale in alcune situazioni di emergenza in cui si può trovare il nostro organismo, è quella che essendo molto presente nel nostro sangue ha un quantitativo di aminoacidi, soprattutto di quelli essenziali, in grado di sintetizzare, e che noi introduciamo con gli alimenti. Il nostro organismo quando si trova in situazioni di emergenza, se ha bisogno di utilizzare aminoacidi per la sintesi di enzimi in quel momento necessari, degrada l’albumina e utilizza gli aminoacidi che provengono da tale degradazione per la sintesi di proteine che in quel momento gli sono necessari. L’albumina ha quindi un’azione di riserva estremamente importante, tanto è vero che essa è una proteina di fase acuta negativa: nei processi flogistici importanti, di grado elevato , questa albumina è degradata in quantità maggiore e quindi diventa una proteina di fase acuta negativa contrariamente a ciò che avviene nelle proteina di fase acuta che durante i processi flogistici sono positive, cioè aumentano durante i processi flogistici. Quando la concentrazione di albumina, che normalmente si aggira intorno ai 50 g/l scende al di sotto dei 32 g/l ci possono essere delle alterazioni a livello del ricambio arteriolare e venulare: capiamo come noi possiamo perdere molta albumina senza avere complicazioni o sofferenze nell’organismo. La sintesi è regolata da alcuni fattori come l’apporto di proteine con la dieta, alcuni ormoni che ne aumentano la sintesi, patologie come le malattie acute o croniche del fegato che determinano un’ipoalbuminemia di grado molto elevato, proprio perché il fegato non è in grado di svolgere la sua attività biosintetica (l’ascite del cirrotico o addome globoso non è altro che una sorta di edema a livello della cavità splancnica dovuta a un’ipoalbuminemia del soggetto cirrotico in fase ascitica), alcuni tossici come l’etanolo, oppure la malnutrizione. A tal proposito, una cosa importante da ricordare è che l’albumina, che ha un’emivita media di circa 20 gg , è un buon parametro, anche se non il migliore, nella valutazione dello status nutrizionale di un soggetto: il miglior parametro è la prealbumina, perché ha un’emivita ancora più breve e quindi risente in maniera più rilevante delle variazioni. Non esistono cause d’iperalbuminemia legate a patologia: l’unica causa è l’emoconcentrazione, e quindi si tratta d’iperalbuminemia relative che accadono in tutti i casi in cui ci sia una diminuzione della volemia, per una sudorazione profusa, un’emorragia, in genere tutte le cause che determinano disidratazione, ipovolemia, sono caratterizzate da un’iperalbuminemia che non è reale, dovuta a una maggiore sintesi, ma è legata alla ridotta presenza del solvente. Le variazioni della concentrazione di albumina sono dovute a una ridotta sintesi di natura epatica, quindi un’eccessiva perdita come il danno renale e la sindrome nefrosica, aumentato catabolismo, flogosi, e in genere tutte quelle situazioni che determinano un maggiore catabolismo. FOSFATASI ALCALINA. (ALP) Come l’albumina, un aumento della fosfatasi alcalina non è sempre detto che sia segno di un’alterazione del parenchima epatico, potrebbe essere segno di un’alterazione ossea e in genere la comunità medica segue un algoritmo: se c’è un aumento dell’ALP e noi non abbiamo altri indizi anamnestici, semeiotici, di indagine strumentale, basta fare un dosaggio della gamma gt, che è un parametro molto sensibile a un eventuale alterazione funzionale dell’epatocita: se questa è aumentata chiaramente l’attività dell’ALP è di origine epatica, se è normale dobbiamo pensare che ci sia un problema di maggiore rilascio a livello del tessuto osseo e quindi orientarci verso una patologia ossea. Questo è importante saperlo anche se nella pratica clinica è superato dalle notizie anamnestiche, dalla clinica del soggetto, e altre indagini che il soggetto ha già fatto, e quindi la diagnosi e la distinzione dell’origine dell’aumento dell’ALP non è di difficile interpretazione. Valori normali della fosfatasi alcalina: Bambini fino ad 1 anno: da 110 a 700 unità per litro di sangue (U/L); Bambini da 1 a 10 anni: da 110 a 550 U/L; Bambini da 10 a 15 anni: da 130 e 700 U/L; Adulti: da 50 a 220 U/L. Valori elevati di fosfatasi alcalina si registrano in diverse condizioni patologiche, specie in presenza di patologie ad elevato turn-over osseo, come: Morbo di Paget; Osteomalacia (ipovitaminosi D); Osteomielite; Iperparatiroidismo; Metastasi ossee; Osteoporosi. I valori di fosfatasi alcalina sono particolarmente elevati anche in due condizioni fisiologiche: Nel bambino, soprattutto nei periodi di rapida crescita; Durante la seconda metà della gravidanza. I valori di fosfatasi alcalina aumentano notevolmente anche in alcune malattie del fegato, come in presenza di: Ittero da stasi epato-biliare; Calcoli; Cirrosi; Epatiti acute; Neoplasie primitive e secondarie. aumenti della fosfatasi alcalina sierica si possono registrare anche in presenza di malattie intestinali, come: Rettocolite emorragica; Diarrea cronica. Una fosfatasi alcalina bassa potrebbe essere registrata in pazienti in età avanzata o che soffrono di: Anemia; Stati di malnutrizione; Carenza di proteine; Carenza di zinco; Menopausa; Dopo una trasfusione di sangue o un intervento di bypass cardiaco; ITTERO (IPERBILIRUBINEMIA.) Parliamo di sub ittero franco quando i valori della bilirubina sono superiori a 3mg/dl e di una condizione di sub ittero, che colpisce solo le sclere, quando siamo tra 2 e 3 e quindi è importante valutare le condizioni di sub ittero perché proprio con l’ittero franco è un problema di concentrazione, di quantità ma non di poter determinare o validare una situazione di iperbilirubinemia. Gli itteri li possiamo classificare in tante maniere. Possono essere itteri pre-epatici, epatici o post-epatici a seconda della causa che determina l’ittero; possiamo classificarli itteri a bilirubina diretta, indiretta o di ambedue le forme; oppure come itteri congeniti o acquisiti. L’importante è sapere l’aumento delle due forme di bilirubina verso cosa ci deve orientare, e cosa deve pensare il medico quando si trova davanti ad un aumento della bilirubina o di una delle due forme e quali indagini anche di imaging deve fare per arrivare a una diagnosi di precisione. L’ittero fisiologico del neonato, come dice il termine stesso, è una condizione fisiologica in cui il neonato nella prima settimana di vita ha fisiologicamente un aumento della bilirubina indiretta perché ancora l’epatocita del neonato non è in grado o non ha i sistemi enzimatici sufficientemente sviluppati a coniugare tutta la bilirubina indiretta e quindi c’è un aumento della bilirubina indiretta, il che è fisiologico. In genere entro la prima settimana di vita il fegato del neonato comincia a produrre una quantità di glicuronil transferasi, che sono in grado di coniugare tutta la bilirubina indiretta e quindi l’ittero passa da solo; se questo non si dovesse verificare, siccome la bilirubina indiretta è liposolubile, passa la barriera ematoencefalica e quindi c’è tutto un danno a livello neuronale importante, un deficit spesso irreversibile e bisogna mettere il neonato in fototerapia, per cui questa bilirubina indiretta viene metabolizzata. Itteri a bilirubina coniugata sono la Dubin-Johnson che è comunque poco frequente, si trasmette con caratteristiche di trasmissione autosomica recessiva, così come la Rotor, abbastanza rara e con un’ottima prognosi, e poi ci sono le forme di Colestasi, di cui abbiamo già parlato. Svariate sono le cause che possono determinare una colestasi, la stasi al flusso di bile, che possiamo considerare intraepatiche, che non sono forme che perdurano perché poi guariscono con l’evoluzione di quella che è l’evoluzione della malattia stessa, come l’epatite da farmaci e l’epatite autoimmune. Ci sono poi cause extraepatiche, tutte quelle da cause meccaniche, per cui c’è un ostacolo meccanico al flusso di bile, o sindromi su base genetica, molto rare, infettive, calcolosi intraepatica, neoplastica o sindrome da post trapianto di fegato, ma non c’è dubbio che la grande maggioranza sono costituite da cause meccaniche che determinano questo flusso ostacolato. Chiaramente, avendo questi parametri di cui abbiamo parlato (albumina, fosfatasi alcalina, soprattutto l’Alanina aminotransferasi e le due forme di bilirubina), ci orientiamo verso quella che è l’origine del danno pre-epatico, epatico e post-epatico, e quindi lo studio a pacchetti di più parametri ci permette con più facilità, presumibilmente e auspicabilmente, di attingere quella che è se non una diagnosi più specifica un gruppo di patologie che possono determinare un danno epatico. EPATITE. (EPATITI.) Oggi si utilizza di più la biologia molecolare, la possibilità di mettere in evidenza l’RNA virale che mi dice, anche nelle fasi in cui il virus è in quiescenza dal punto di vista della sua patogenicità e virulenza, se il virus è ancora presente, e quindi per le indagini di monitoraggio, e anche per le indagini per stabilire se il soggetto è guarito oppure no. Il laboratorio di biochimica clinica nel monitoraggio della malattia ci può servire nel seguire e a capire, a distanza di sei mesi, di un anno o con tempistiche più lunghe, come si muove la malattia dal punto di vista della patogenicità e dell’attività del virus. Chiaramente, soprattutto nelle fasi iniziali di un’epatite, quanto più alti sono i livelli di ALT tanto maggiore è il grado di compromissione epatica; anche se ci sono forme di virus come l’HCV, una delle forme di virus epatotropici maggiormente aggressive, che evolvono verso la cronicità e la degenerazione neoplastica che clinicamente sono spesso silenti: il soggetto si accorge di avere quest’infezione perché fa un esame per altre motivazioni e si accorge di avere questo microrganismo nel corpo. La sierologia ci permette di capire la situazione in base ai differenti virus. Ogni sei mesi o un anno si possono fare tutta una serie di esami che sono indicativi di una precedente epatite virale e poi bisogna distinguere tra i vari ceppi. L’epatite acuta guarisce nel giro di sei mesi, se dura di più evolve verso la forma cronica che se non curata può diventare attiva e aggressiva, con un danno epatico sempre maggiore e progressivo, che porta alla cirrosi e alla degenerazione neoplastica; o cronica persistente, che non è evolutiva, non dà un danno epatico che evolve. Epatiti autoimmuni Le epatiti autoimmuni racchiudono un gruppo di patologie emergenti oggi: ne diagnostichiamo di più rispetto al passato e questo non solo perché ce ne sono di più poiché la disregolazione del sistema immunitario legata a tante cause e concause probabilmente ha determinato un aumento delle patologie autoimmuni. Le epatiti autoimmuni sono un gruppo di patologie consistenti, tant’è che gli epatologi non sono più interessati alle epatiti virali di cui si sa molto e si sa anche come trattarle e come guarire, mentre sono orientati verso le epatiti autoimmuni che sono ancora un campo di patologie del parenchima epatico per molti versi poco conosciuto. E’ una malattia infiammatoria cronica del fegato, a eziologia sconosciuta, caratterizzato da un’infiltrazione perifocale, con la presenza di tutta una serie di autoanticorpi circolanti, la quale nella maggior parte dei casi risponde a trattamenti immunosoppressivi cronici, e quindi una terapia che non si fa per poco tempo ma a lungo termine. Gli esami utili nell’identificazione non sono specifici, ma facciamo riferimento sempre a quei parametri biochimici che noi oggi utilizziamo nello studio di tutte le patologie autoimmuni e per primi gli autoanticorpi antinucleo o ANA, che rappresentano gli autoanticorpi più comuni nelle epatiti autoimmuni, e che in alcuni casi possono essere gli unici autoanticorpi presenti, ma che però non sono specifici di una patologia autoimmunitaria del fegato (perché anche il LES è caratterizzato da un’ aumento degli ANA). E’ il primo screening che viene fatto quando si sospetta una patologia autoimmune, non è indicatore di un danno di uno specifico organo o di una specifica patologia autoimmune e quindi per una valutazione clinica è opportuno considerare gli indici di alterazione di citolisi epatica, di una globulinemia policlonale IgG e la presenza degli autoanticorpi circolanti non-organo specifici. Noi oggi abbiamo un profilo epatologico che ci consente di definire e arrivare a capire, con un pannello di autoanticorpi molto diverso e variegato e con un’elevata probabilità diagnostica, la patologia autoimmune; oltre agli ANA, altri autoanticorpi sono gli ASMA, anticorpi anti-muscolo liscio, gli anti-LKM, anticorpi anti microsomi epato-renali, gli antiLC1, autoanticorpi anti-citosol epatico di tipo 1, gli anti-SLA, gli anti- ASGPR, anti-recettore dell’asialoglicoproteina e gli ANCA, anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili, prevalentemente del tipo IgG. Non sono ovviamente tutti: ne esistono altri che si potrebbero aggiungere a questo profilo. In ogni caso se ne abbiamo uno o più di uno positivi e con un certo livello di positività siamo orientati verso una diagnosi di epatite autoimmune. Cirrosi epatica La cirrosi epatica è una condizione che, qualunque sia la causa che la determina, comunque conduce a un’evoluzione delle alterazioni funzionali e morfologiche-strutturali, un’alterazione totale della struttura e della morfologia dell’epatocita, e quindi un’evoluzione nella sua totalità; per cui il quadro è così evidente che ci sono tutti i parametri alterati in una forma varia per entità di variazione e di alterazione, ma è un quadro in cui c’è una compromissione totale di tutto l’organismo. Tutti i parametri sono da valutare per monitorare la cinetica di un determinato parametro per vedere come evolve la malattia, in che tempi evolve, se è stazionaria o se evolve velocemente o più lentamente, ma non ci può certo dare indicazioni di tipo diagnostico. La principale complicanza è l’ascite e consiste nell’accumulo di liquido nell’addome provocata da due diverse cause, soprattutto l’ipoalbuminemia di cui abbiamo già parlato. Con la biochimica clinica valutiamo in tal caso: ALT, AST, gammaglobuline, l’elettroforesi sieroproteica etc... La diagnosi di cirrosi epatica è semplicissima perché l’elettroforesi ha un pattern che è assolutamente patognomonico e assolutamente indicativo di una cirrosi, al di là che il soggetto cirrotico abbia una sintomatologia molto presente, molto facilmente evidenziabile con l’imaging. Epatopatia alcolica (epatite alcolica) Con il termine epatopatia alcolica si intende un processo infiammatorio a carico del fegato, legato al consumo eccessivo di alcool, oltre la capacità di metabolizzazione propria del fegato. Tale capacità ha una cinetica costante in funzione del tempo. Il fegato, è l’unico organo capace di metabolizzare, di ossidare l’etanolo. Tale capacità varia da sesso a sesso e l’uomo ha capacità doppia rispetto alla donna di metabolizzare etanolo. Quando vi è un eccesso nel consumo di alcool, il metabolita acetaldeide che determina la tossicità a livello epatico ed extraepatico, inizia a produrre un danno. Si distinguono tre stadi progressivi di epatopatia alcolica: -Steatosi epatica: non è caratteristica esclusivamente dell’epatopatia alcolica ma è una condizione che può verificarsi in numerose considerazioni. Essa è caratterizzata da una dislipidemia, da un accumulo di trigliceridi nell’epatocita. È una condizione reversibile qualora il medico riesca a diagnosticarla in tempo e il paziente effettui le cure adeguate. L’ipertrigliceridemia ha una genesi ben precisa, L’eccesso di etanolo, essendo metabolizzato, esclusivamente a livello epatico, tramite l’ossidazione dell’etanolo, (la quale ha la precedenza su tutte le altre ossidazioni). Il fegato dunque per prima cosa metabolizza l’etanolo con produzione iniziale di acetaldeide, a scapito dell’ossidazione di altre molecole, soprattutto della - ossidazione degli acidi grassi, da cui ne deriva un accumulo di trigliceridi. È un’alterazione morfologica reversibile, potrebbe essere presente un’alterazione della gamma GT. È molto visibile più che con gli esami di laboratorio, mediante ecografia nella quale è ben visibile l’aumento di volume del fegato. -Epatite Alcolica: è una lesione infiammatoria con infiltrazione di granulociti neutrofili negli spazi portali e necrosi epatocellulari. In tale stadio vi può essere un aumento dell’ALT e anche dell’AST, entrambi parametrici di citolisi epatica, aumento della gamma glutamiltransferasi (gamma GT) e della lattato deidrogenasi (LDH). -Cirrosi epatica: è irreversibile e può avere diverse fasi che ne determinano la gravità. È uno stadio grave nel quale sia le caratteristiche morfologiche che quelle biochimiche sono evidenti. La fibrosi epatica è causata da proliferazione di fibroblasti nella sede della necrosi e iperproduzione di collagene. Nelle fasi avanzate può degenerare verso la cirrosi e dalla cirrosi può diventare un carcinoma epato-cellulare. E’ opportuno ricordare che esistono due tipi di fibrosi: - fibrosi alcolica - fibrosi non alcolica Nella steatosi è possibile avere un aumento di trigliceridi, ma soprattutto un aumento del primo parametro di sofferenza dell’epatocita che è la gamma-GT e si potrebbero avere, anche se meno frequentemente, parametri di citolisi. Nell’epatite invece vi è una classica situazioni di necrosi; vi è dunque un aumento sia dell’ALT che dell’AST, una diminuzione dell’albumina e delle proteine bio- sintetizzate. In caso di necrosi il quadro purtroppo diventa molto più facile da diagnosticare. ORMONE GH (GH.) La medicina di laboratorio ha una grandissima importanza anche a livello del sistema endocrino, in quanto la capacità di conoscere le quantità dei diversi ormoni ha permesso di conoscerne la fisiologia, la fisiopatologia e le aletrazioni, di definirne i sistemi di regolazione. La medicina di laboratorio ci permette inoltre di valutare l’andamento della patologie endocrine o di monitorare o meno l’efficacia di una terapia per una data patologia. Ad esempio le tireopatie, la loro diagnosi e il loro andamento vengono effetuati solo ed sclusivamente con esame di TSH. E’ bene partire dall’ipofisi. L’ipofisi è una ghiandola ndocrina localizzata al centro della base cranica, costituita da due lobi, una parte, quella anteriore (80%c.a.) che secerne ormoni e una parte, quella posteriore, la neuroipofisi che invece non è produttrice di ormoni ma è il luogo di deposito di due ormoni, prodotti a livello ipotalamico, l’ossitocina e la vasopressina. GH è l’ormone della crescita ed è il primo ormone che tratteremo. Il suo aumento e le sue conseguenze variano a seconda dalle fasi di vita in cui è il paziente, per esempio un aumento di GH in un adulto ha dei sintomi macroscopici, facilmente visibili e intuibili, aumentando la biosintesi abbiamo la macroglossia, agisce sulla componente tissutale. Invece nell’adolescente il GH incide e provoca un rallentamento più o meno marcato della crescita saturale. Il GH è un ormone che ha una cronobiologia di secrezione, è un ormone che viene secreto nella prima fase del sonno rem. Dunque l’esame dovrebbe essere effettuato sul paziente in questa fase di sonno ma da un punto di vista logistico sarebbe davvero difficile allora il prelievo non viene fatto alle 8 del mattino come la maggior parte degli esami. Il GH si studia tramite dei test dinamici, ovvero dei test di stimolo, quindi somministrando molecole che determinano la stimolazione di tale ghiandola. Il GH è un ormone iperglicemizzante quindi un importante stimolo è l’ipoglicemia insulinica, il determinare un ipoglicemia è però un esame dinamico molto rischioso perché dovrebbe essere un ipoglicemia di grado molto marcato, è rischiosa. Vi sono invece altre biomolecole che facilitano questo esame e diminuiscono le complicazioni sono l’arginina e soprattutto il glucagone. Il somministrare il glucagone non da alcun effetto collaterale, si somministra e poi si esame il paziente a 30, 60 e 90 minuti; a seconda di come si muove la curva capiamo se sia patologica o meno. Una curva viene definita patologica se il delta incrementale nel tempo rispetto al valore iniziale di GH è inferiore a 8/10 nanogrammi. Per essere una curva non patologica dunque se il valore basale fosse stato 2 a sessanta minuti devo avere minimo un valore di 10. Dunque minore è l’incremento, maggiore è la gravita. Non sempre è sufficiente il valore dinamico di GF, spesso è necessario infatti anche il valore IGF-1 (insulin growth factor 1) soprattuttto negli ipostaturalismi come il nanismo. IGF1 è sintetizzato principalmente a livello del fegato ed esplica la sua azione attraverso l’interazione con il suo recettore. I livelli aumentano durante la pubertà con un picco tra i 14 e i 16 anni e diminuiscono progessivamente. Nello studio degli ipostaturalismi non ci si deve fermare a questo, può anche essere dovuto ad altri fattori endocrini come l’ipotiroidismo. Anche se per esempio è bene ricordare che il nanismo ipofisario è un nanismo armonico mentre quello tiroideo è disarmonico, dunque anche morfologicamente è visibile la differenza. Inoltre nel caso di nanismo tiroideo spesso è presente anche un’alterazione cognitiva ecco perché subito alla nascita ne viene effettuato il dosaggio ormonale tiroideo. Altra condizione da considerare possibile per gli ipostaturalismi è ,se vengono escluse cause ipofisarie o tiroidee, una ausa psicosomatica, componente sempre da valutare. Deficit di GH L’ormone della crescita ha una sua crono-biologia, infatti, il picco di secrezione avviene nella prima fase del sonno REM. Per tale motivo valutare un deficit staturale o una normale biosintesi o secrezione al di