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Riassunto libro Sociologia generale, Rita Bichi, Sintesi del corso di Sociologia

Riassunto libro Sociologia generale, Rita Bichi

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 01/03/2023

annacalbini
annacalbini 🇮🇹

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Scarica Riassunto libro Sociologia generale, Rita Bichi e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia solo su Docsity! PARTE I = Le idee sulla società Lo stato nascente Londra, il primo maggio 1851, ospita l’Esposizione Universale. Si svolge in un grandioso palazzo di cristallo, il Crystal Palace, simbolo di una città in pieno sviluppo tecnologico e industriale. Non a caso, l’Inghilterra espone locomotive, impianti per la tessitura e macchine a vapore confermandosi un punto di riferimento mondiale. Ma accanto al grande progresso, a est della città, nasce anche una nuova classe operaia formata da immigrati arrivati in città in cerca di lavoro. In un anno (dal 1850 al 1851) la popolazione di Londra raddoppia, portando con se enormi disagi, come la mancanza di case, di infrastrutture e di mezzi di trasporto, insieme a disuguaglianze sociali. Nascono perciò nuove visioni della città come del lavoro e nuovi interrogativi e problemi che l’uomo si pone. 1.2 La sociologia assume la relazione tra persone e società come proprio oggetto fondamentale di studio. Sono state molte le condizioni storiche, filosofiche e politiche che hanno contribuito allo sviluppo di questa nuova scienza: - La Grande Rivoluzione dal 1789 al 1848 : la sociologia è figlia di una grande rottura storica con le tradizioni in quanto le società tradizionali erano fondate su costumi ed usi consolidati nei secoli che non avevano bisogno della sociologia, che nasce per rispondere a problemi e bisogni nuovi della società moderna. Lo storico inglese Eric Hobsbawn ha parlato di duplice rivoluzione per definire due processi storici come un’unica grande rivoluzione riferendosi alla Rivoluzione francese e a quella industriale capitalista. La Rivoluzione francese del 1789 afferma la nascita della società borghese e di nuove ideologie come il liberalismo, la democrazia e il socialismo. Infatti, l’approvazione della Carta dei diritti dell’uomo e del cittadino pone le basi dei diritti fondamentali delle future società democratiche. Contemporaneamente in Inghilterra avviene la Rivoluzione Industriale. Con essa l’economia non è più fondata su un sistema di produzione prevalentemente agricolo, bensì le fabbriche diventano i nuovi luoghi del lavoro (spinte anche dalle nuove tecnologie come macchine utensili, elettricità e telefoni). Per la prima volta nasce la società civile resa possibile dal riconoscimento del libero mercato. La dinamica del libero mercato rende a sua volta possibile la nascita del ceto medio che diffonderà poi le nuove ideologie democratiche e liberali. 1.2.1 Con l’esplosione della popolazione mondiale la città a fine Ottocento diventa il simbolo della società moderna. Da un lato è il centro industriale, commerciale ed amministrativo, ma dall’altro è il luogo di nuove forme estreme di povertà e degrado sociale. Nel 19esimo secolo alcuni centri urbani iniziano a espandersi, ma all’espansione non corrisponde un adeguato sviluppo delle infrastrutture e dei servizi sociali. In più, a causa della migrazione di massa di famiglie contadine verso le città in cerca di lavoro, molte di queste famiglie sprofondarono in condizioni di povertà e disagio estreme. 1.3 L’illuminismo e la reazione conservatrice costituiscono una snodo decisivo per la successiva evoluzione della sociologia. L’illuminismo è il periodo storico in Europa compreso tra la rivoluzione inglese del 1688 e la rivoluzione francese del 1789. È un periodo di risveglio del pensiero filosofico e di cambiamenti culturali, di cui i principali esponenti furono Charles Montesquieu, Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant. La sociologia francese avrà un’influenza notevole, in quanto profondamente condizionata da idee che sono contrapposte a quelle dell’illuminismo. I principali fondamenti dell’illuminismo sono raccolti nell’” Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri” e alcuni di questi sono: la fiducia nella ragione, la liberazione dell’uomo dalla tradizione e dall’ignoranza, una nuova concezione di società in cui vengono garantiti i diritti naturali e una nuova religione deista basata su principi razionali e naturali. I pensatori illuministi pongono quindi le basi per l’applicazione del metodo scientifico alle questioni sociali, scoprendo le leggi che regolano il mondo sociale per scovarne uno migliore. L’opposizione più estrema all’illuminismo è la filosofia controrivoluzionaria del cattolicesimo francese che rigetta il razionalismo illuminista e che invece pone l’attenzione sugli aspetti irrazionali della vita come la religione o l’immaginazione. Se per gli illuministi l’individuo era l’unità di analisi più importante, per i conservatori la società e la somma dei suoi individui era fondamentale; per gli illuministi il progresso conduce a trasformazioni volte al continuo miglioramento mentre per gli studiosi conservatori rappresentava una minaccia dagli effetti distruttivi. La reazione conservatrice da importanza a piccole unità come la famiglia e gruppi religiosi o lavorativi ma soprattutto su fattori irrazionali. 1.4 Adam Smith elabora una teoria di economia politica nella sua opera “Teoria dei sentimenti morali”. In questa opera egli auspica la realizzazione di una scienza sociale unitaria e autonoma sulla base di due presupposti: l’esistenza di un ordine naturale e la natura sociale dell’antropologia umana. Per questo filosofo la ricchezza economica è fondata sul lavoro poiché ciascun individuo è guidato da una mano invisibile che lo spinge a promuovere un fine che va a beneficio di un più ampio interesse comune. La metafora della mano invisibile che guida i comportamenti dei singoli in direzione del bene comune esprime una totale fiducia nelle leggi naturali del mercato e dell’economia che possono garantire una armonia sociale positiva. Il mercato infatti è visto come una realtà autonoma e indipendente, tuttavia già alla fine del secolo risulta irrealistico e problematico poiché lo sviluppo economico non genera un equilibrio tra felicità e ricchezza diffusa ma al contrario impoverimento, sradicamento sociale, conflitti etnici e sociali tra lavoratori e datori di lavoro. Thomas Malthus e David Riccardo intendo non spiegare il tormentato processo di transizione alla società industriale capitalista. Thomas Malthus sosteneva che la popolazione tende a crescere in misura più che proporzionale alla produzione dei mezzi di sussistenza, egli riteneva che la popolazione crescesse in progressione geometrica (2, 4, 8, 16, 32) mentre le risorse alimentari in progressione aritmetica (2, 4, 6, 8). Questo divario è considerato naturale nell’evoluzione della specie umana e la natura riequilibra la crescita demografica grazie a due tipi di interventi correttivi: repressivi (carestie, guerre) e preventivi (povertà e vizio). L’opera di David Ricardo registra i molteplici problemi che accompagnano l’affermazione del capitalismo industriale. Se Adam Smith si era concentrato sulla formulazione della ricchezza Riccardo si concentra sul rapporto tra accumulazione e distribuzione. Ricardo è consapevole che la possibilità di riuscita del futuro sviluppo economico e nel profitto industriale e non nella rendita terriera, ritenuta parassitaria e controproducente nello sviluppo economico di un paese. Tuttavia, i problemi e le crisi della nascente economia capitalista rendono incontrollabili le transizioni. Emerge sempre più l’esigenza di una disciplina, la sociologia, chiamata a elaborare una teoria della società in grado di comprendere il legame tra le molteplici sfere della vita sociale. 1.5 Il primo ad utilizzare il termine sociologia fu August Comte. Nella sua opera “Corso di filosofia positiva” elaborò un sistema teorico, il “positivismo” o “filosofia positiva”, in contrapposizione alla filosofia negativa dell’illuminismo. L’uso del termine sociologia indica per Comte di seguire il modello delle scienze naturali. Secondo lui questa nuova scienza si deve occupare della statica sociale (le istituzioni sociali esistenti) e della dinamica sociale (il cambiamento) per individuare delle costanti della vita sociale. Comte si interessa maggiormente della dinamica sociale e individua la “legge dei tre stadi” che afferma che esistono tre fasi culturali di trasformazione storica della società: 2.1.3 Nel “Manifesto del Partito Comunista” il tema principale è quello delle classi. Per classe si intende un insieme di persone accomunate da una medesima posizione nei rapporti di produzione. Una classe, però, per essere pienamente tale deve possedere una coscienza di classe: tutti i suoi appartenenti devono sapere di farne parte e devono agire insieme per modificare la loro condizione, difendere i propri interessi collettivi e modificare l’ordine della società). Marx distingue tra classe in sé (soggetti che condividono la medesima condizione ma sono privi di una coscienza di classe) e classe per sé (soggetti che oltre a trovarsi nella stessa condizione possiedono una coscienza di classe e sono capaci di rivoluzionare la società esistente). I contadini, per esempio, non sono una classe vera e propria in quanto sparpagliati nel territorio e avendo tra loro poche relazioni non si rendono conto del loro numero e dei loro interessi comuni. Mentre gli operai, o proletariato, si trovano concentrati nelle fabbriche e nelle città e riescono ad avere consapevolezza della propria condizione comune e quindi sviluppare una coscienza di classe. I capitalisti, invece, acquistano una coscienza di classe nel momento in cui si sentono minacciati dalla crescente forza e organizzazione del proletariato. Nella società capitalista esistono dunque due classi principali in conflitto: la borghesia e il proletariato. Esiste infine il sottoproletariato, ovvero persone disoccupate o vagabondi che non sono state ancora assorbite dal sistema economico capitalista. 2.1.4 La società capitalista si basa sul sistema di produzione capitalista. I capitalisti cioè investono denaro per produrre merce vendendo la quale ottengono più denaro rispetto a quello investito in partenza. D M D+ La differenza tra il denaro investito e quello ottenuto è detta profitto. Marx fa riferimento alla teoria del valore-lavoro: il valore di scambio di una merce, ovvero la possibilità che essa ha di essere scambiata con altre merci, è dato unicamente dalla quantità di lavoro umano necessario per produrre quella merce. Se dunque, per esempio, un lavoratore impiega quattro ore per produrre una sedia, quella sedia avrà un valore pari a quattro ore. Se, con l’innovazione tecnologica, un lavoratore arriva nelle quattro ore a produrre due sedie invece che una, non verrà raddoppiato il valore del prodotto, ma sarà dimezzato il valore di ogni singola sedia. Da dove nasce il profitto? Il profitto nasce essenzialmente dal lavoro umano. In quanto merce, anche il lavoro umano ha un costo che è legato al tempo necessario per la sua produzione. Quindi i lavoratori ricevono una paga pari a quanto necessario per la propria sussistenza. Un operaio, però, lavora per un numero di ore superiore a quello necessario per produrre il valore che gli viene restituito in salario. Queste ore in più di lavoro generano un plusvalore che viene trattenuto dal capitalista e che dà origine al profitto. Il fatto che l’operaio produca un valore che viene trattenuto dal capitalista si traduce in un rapporto di sfruttamento. Tutto ciò è dovuto dall’esistenza del sottoproletariato, cioè disoccupati che, nel caso un operaio si rifiutasse di lavorare alle condizioni proposte dal capitalista e che lui è libero di accettare o meno, sarebbero pronti a lavorare al suo posto. Il sistema capitalista presenta una contraddizione secondo Marx. L’obbiettivo di questa società è quello di massimizzare il saggio di profitto che è dato da una frazione: Pv (V +C) Pv= plusvalore V= capitale variabile (salario degli operai) C= capitale costante (investimenti in macchinari) Per aumentare il saggio di profitto bisognerebbe aumentare Pv o diminuire V o C. Tuttavia, Pv non può aumentare perché per farlo bisognerebbe aumentare le ore di lavoro che sono già al massimo, oppure ridurre i salari che sono già minimi. V e C a loro volta non possono diminuire perché non è possibile né ridurre i salari né gli investimenti in macchinari. Anzi, la concorrenza agguerrita tra capitalisti porterà ad aumentare C, mentre al tempo stesso, la migliore organizzazione dei lavoratori potrà portare a un innalzamento dei salari, cioè di V, che a sua volta porterà a una riduzione di Pv. Incrementando il proprio profitto individuale, i capitalisti aumenteranno la produzione, causando così periodiche crisi di sovrapproduzione. Queste crisi hanno un duplice effetto: aumentano la consapevolezza di classe da parte del proletariato e portano al fallimento di molte imprese e alla progressiva concentrazione del capitale nelle mani di quelle che sopravvivono. Tutto ciò condurrà a un numero sempre più piccolo di capitalisti che dovrà fronteggiare un numero sempre maggiore di proletari sempre meglio organizzati, fino a quando sarà tale da rendere impossibile per i primi difendere la propria posizione. A quel punto, il proletariato, attraverso un atto rivoluzionario, prenderà il potere dando vita alla nuova società comunista. 2.2 L’opera di Marx ha ispirato numerosi autori che hanno rielaborato e modificato le sue idee e i suoi concetti. Durkheim, per esempio, pensa come Marx che lo studio della società debba servire alla trasformazione e al miglioramento della società stessa. Tuttavia, secondo lui, la rivoluzione comunista non porterebbe alla risoluzione del problema centrale della società che è l’anomia. Durkheim ritiene che alla base delle ingiustizie sociali non ci sia la divisione del lavoro, ma il modo in cui questa viene realizzata. Infine, ritiene che la rivoluzione comunista e l’accentramento del potere politico ed economico nelle mani dello Stato darebbe vita ad una tirannia burocratica. Weber è invece accumunato a Marx dall’interesse per gli stessi oggetti di studio, che però interpreta in maniera differente. Marx offre una spiegazione semplice del funzionamento della società, mentre Weber sottolinea la complessità del sociale che agiscono e retroagiscono reciprocamente. Infine, Weber pensa che sia paradossale l’idea di superare privilegi individuali con l’accentramento dei poteri nelle mani di un numero stretto di persone. Nella società comunista, infatti, nel tentativo di abolire le classi, si darebbe solo origine a una nuova classe di iperprivilegiati. Florence Kelley e l’analisi sociale Un punto fermo dell’attività di Florence Kelley fu la tradizione socialista, maturata in Europa nel rapporto con Karl Marx e Engels. 3.1.1 Florence Kelley riconosceva l’importanza che informazione e conoscenza della realtà potevano avere nel determinare una trasformazione sociale che riducesse le condizioni di sfruttamento presenti. La Kelley fece riferimento al suo periodo di studi in Europa che le aveva fatto conoscere il valore della ricerca empirica e del lavoro sul campo. Le mappe della Hull-House fecero rendere conto del troppo livello di disattenzione e disinformazione verso quelle realtà. Quelle mappe (una sulle nazionalità e una sugli introiti del salario) evidenziarono una solidarietà tra etnie simili, salari tendenzialmente omologati e situazioni di povertà. Furono una conferma di una interpretazione della realtà tramite la ricerca mediante interviste casa per casa con gli abitanti di quel territorio. Kelley chiese agli intervistati di indicare l’area geografica dove si svolgevano le loro principali attività, il numero di persone che abitavano in casa, il reddito guadagnato e il numero massimo di occupazione nell’intero anno. Queste analisi contribuirono alla critica dello sweating- system e del lavoro dei minori. Per Kelley la povertà era il frutto della politica del profitto a spese dei lavoratori. Nell’industria moderna si determinavano nuove disuguaglianze sociali, nuove malattie e conflitti tra lavoratori, consumatori e produttori. Per quanto riguarda la salute, per esempio, uno degli scopi era arricchire le istituzioni mediche e le industrie del farmaco per dare risposte nuove a malattie e a morti evitabili. Tuttavia, l’organizzazione industriale, se da un lato tutelava la condizione delle lavoratrici, dall’altro apriva contraddizioni tra i lavoratori. Gli uomini erano consapevoli che la tutela legislativa delle lavoratrici avrebbe giovato anche a loro impedendo di essere sostituiti nelle loro mansioni dalle donne. Allo stesso tempo, temevano che una legge a tutela delle lavoratrici li avrebbe potuti danneggiare provocando la perdita di privilegi. Questo conflitto tra lavoratori e lavoratrici contribuiva ad accrescere situazioni di sfruttamento e povertà. 3.1.2 Il suo femminismo accentuò valori ed interessi, aderendo ad un’idea che esaltava la democrazia e la trasformazione sociale che potevano derivare dalla sua realizzazione. Gli strumenti teorici ereditati dal pragmatismo classico offrirono alla Kelley il potenziale per informare un solido lavoro empirico in sociologia. Il suo interesse fu pertanto di rafforzare le basi empiriche del pragmatismo come modo alternativo di intendere l’azione sociale, i suoi scopi e i suoi effetti. Per lei il pragmatismo era il processo conoscitivo nel quale si devono privilegiare i rapporti tra pensiero e azione in un’attività che favorisca la risposta alla realtà e la soluzione dei problemi. La specificità e l’utilità del metodo pragmatico sono perciò concentrare nel loro indirizzare a una conoscenza reale del mondo sostenuta dall’esperienza che il soggetto, o i soggetti, compiono. Kelley sostenne inoltre che se si desiderano vantaggi sociali si devono compiere azioni che posseggano l’adeguata moralità sociale. 3.2 Secondo la Kelley sono gli individui a produrre e influenzare le azioni reciproche, le persone controllano azione e comportamento umano e il meccanismo primario sta nei significati costruiti socialmente. Il processo di analisi sociale intrapreso dalla Kelley fu insieme a un gruppo di donne che contribuirono a modifiche organizzative di interesse pubblico. Si parla infatti di femminismo sociale, che si concentra su come le donne differiscano dagli uomini e su come questo fattore divenga parte della ricerca. Émile Durkheim e il problema dell’ordine sociale Émile Durkheim è l’autore che più di tutti ha contribuito a definire i contorni della sociologia come scienza. 4.1.1 La Francia di Durkheim è un periodo di esperimenti sociali, politici e di rivolgimenti economici: la sconfitta nella guerra franco-prussiana, la caduta del Secondo Impero, la Comune di Parigi e la nascita della Terza Repubblica. In sintesi, ci furono tre grandi processi rivoluzionari che stavano trasformando il mondo sociale dando l’avvio alla modernità: la rivoluzione politica, quella industriale e quella scientifica. A differenza del passato infatti, le spiegazioni offerte dalla scienza moderna sono interne ai fenomeni stessi e non più causate da fenomeni esterni. Le domande che Durkheim si pone sono: come è possibile la società? Che cosa fonda l’ordine sociale? Che cosa permette alla realtà sociale di funzionare come un tutto ordinato? Che rapporto esiste tra individuo e società? La spiegazione che egli cerca è interna alla società e ai suoi meccanismi di funzionamento, cioè alle relazioni tra le parti che la compongono. Questo è proprio l’argomento della sua prima grande opera “De la division du travail social” in cui l’autore riassume il tema centrale del rapporto tra società e individuo con il problema dell’ordine sociale. Durkheim arriva a teorizzare la preesistenza della società rispetto agli individui. Per lui l’ordine sociale sarà disceso dalle relazioni tra le parti che compongono la società e dalle forze che tengono uniti gli individui gli uni agli altri che si può definire solidarietà sociale. - L’azione tradizionale si rifà a comportamenti abituali come mangiare il pandoro a Natale. - L’azione affettiva è quella mossa da stati dell’animo come la passione. Probabilmente il punto più debole della teoria weberiana dell’agire sta nel considerare di rilevanza sociale solo le azioni razionali e non anche quelle tradizionali e affettive, che per lui sono appunto a-razionali. Per esempio, l’azione tradizionale di una persona che nell’arco di una giornata si ritira più volte per pregare, non solo è comprensibile da parte degli altri, ma possiede anche una valenza sociale, poiché messa in atto grazie a norme di ordine sociale. La differenza tra la tradizione oggettivistico-positiva e la tradizione soggettivistico-comprendente nelle scienze sociali è che nella prima senso e significato coincidono. Per la tradizione comprendente, di cui Weber fu l’esponente più illustre, questo è impossibile e comunque non sufficiente. L’originalità e l’utilità del suo approccio metodologico alla sociologia è che studiare l’azione umana comporta alcuni vantaggi e alcuni svantaggi. I vantaggi sono dati dal fatto che studiare l’essere umano da parte dell’essere umano mette questo nella condizione non solo di dare un significato ma anche di dare un senso. Lo scienziato sociale dispone quindi di un vantaggio iniziale che è quello di poter intuire e comprendere la motivazione alla base di determinato comportamenti. Tuttavia, il ricercatore non si può distaccare del tutto dall’oggetto di studio, perché è inevitabilmente influenzato dal suo specifico punto di osservazione. Per Weber è necessario, che il ricercatore sia consapevole di questo limite, che può diventare una possibilità di motivazione e guida alla ricerca. Essere orientati da valori, significa infatti procedere nei percorsi di ricerca che più ci interessano, questo non significa però che possiamo esprimere giudizi riguardanti quell’ambito specifico, perché toglierebbe credibilità ai risultati della nostra ricerca. Altra importante conseguenza del metodo comprendente weberiano sta nel fatto che anche quando ci ritroviamo di fronte a dati numerici e statistici, dobbiamo essere consapevoli del fatto che non esiste una e una sola interpretazione e quindi spiegazione di quei dati. Le statistiche e i numeri vanno infatti compresi e ciò può avvenire grazie a due elementi fondamentali: il punto di vista dell’osservatore e il poter disporre di strumenti teorici in grado di interpretare e comprendere quei numeri. Egli introdusse il concetto teorico di idealtipo, se per esempio mi riferisco a un’organizzazione politica ed economica storicamente determinata, come per esempio il feudalesimo, individuandone i caratteri principali, potrò definire come rispondente a caratteristiche feudali anche altre possibili realtà storiche comparse non necessariamente nell’Europa dell’Alto Medioevo. 5.2 Il secondo asse tematico che percorre tutta l’opera di Weber è costituito dal problema del capitalismo e della produzione dei suoi effetti sulla società moderna. Per Weber il capitalismo è un modello di produzione che porta con sé uno spirito, egli infatti distingue tra capitalismo e spirito del capitalismo. Mentre il primo è stato presente nell’antichità romana come in quella greca in forme e modi diversi, il secondo è quello che nasce con la modernità. Il primo fu un modo di produzione e di distribuzione presente in alcuni spazi sociali nei quali la politica lasciò al mercato la possibilità di svilupparsi. Il secondo costituisce prima di tutto una cultura che tede a piegare a sé anche le altre sfere, non economiche, del vivere associato. Weber vedeva chiaramente l’ambivalenza di un fenomeno pervasivo come il capitalismo e di portata universale e inimmaginabile per il genere umano fino a quel momento. Da un lato migliorava le condizioni e le aspettative di vita, aumentava l’istruzione e diminuiva la disuguaglianze, ma dall’altro il sistema capitalistico stava conquistando tutto, piegandolo alle proprie esigenze e al proprio spirito. Weber si soffermò in particolare su un prodotto specifico del capitalismo, ovvero il fenomeno della burocratizzazione, da cui elaborò la teoria della burocrazia weberiana (una delle prima teorie dell’organizzazione formulata dalla sociologia). In questa teoria si possono individuare 4 caratteristiche principali: - La spersonalizzazione dell’ufficio e il primato della legge . Colui che occupa una carica amministrativa risponde innanzitutto alla legge e non ai propri o altrui interessi. - Il criterio della competenza , per il quale il personale viene reclutato attraverso concorsi pubblici. - Il criterio gerarchico , che fa sì che ogni decisione e ogni esecuzione di tale decisione avvenga secondo una preordinata e precisa scala di attribuzioni definite. - La specializzazione , grazie alla quale i diversi compiti spettanti a una amministrazione sono ripartiti secondo i diversi saperi specialistici attraverso i quali il personale è stato inizialmente reclutato. Questi criteri costituiscono il fondamento di un potere statale che è legittimato su una base legale- razionale. Storicamente si sono avuti altri due tipi di legittimazione del potere politico: la legittimazione su base carismatica e la legittimazione su base tradizionale. Il fenomeno della burocratizzazione, però, catturando spazi sociali sempre maggiori, prosciuga l’inventiva e la creatività che fornisce all’essere umano la capacità di rispondere alle sfide che il corso degli eventi presenta. Da un lato quindi, mobilita e indirizza le risorse creative della società al solo scopo di potenziare i mezzi tecnici per la produzione di beni materiali ed immateriali; dall’altro però costringe la civiltà in uno spazio di autodeterminazione sempre più ristretto. Weber parlò inoltre di leader carismatico. Individua in questa figura una figura in grado di catalizzare su di sé le aspettative insoddisfatte delle società occidentali. Il leader carismatico emerge a seguito di crisi economiche e politiche e ha la possibilità di contrastare le tendenze all’inaridimento sociale e politico. L’idealtipo di Weber poteva essere un uomo come Winston Churchill, un uomo politico che pur restando saldamente nell’alveo dei principi costituzionali delle democrazie rappresentative, seppe interpretare con successo i bisogni e le nuove sfide cui le rispettive società furono poste di fronte. A oltre un secolo di distanza, nella teoria weberiana del leader carismatico, è possibile rilevare attualità e limiti. La prima ci viene confermata dalla disponibilità delle masse a delegare e riporre in uomini dotati di particolari capacità una fiducia che altrimenti non troverebbe altrettanta intensità nelle istituzioni. I secondi consistono nel fatto che è oggi quantomeno problematico assistere all’emergere di figure di capi politici che inseguono gli umori e la pulsioni dei cittadini già in partenza condizionati da modelli culturali dominanti. Il concetto di carisma assume una rilevanza in relazione al potere politico o economico, sociale o culturale. Il potere carismatico emerge in periodi di crisi di un precedente modello sociale, economico o politico e riesce a ricompattare una società grazie alla forza politica di cui sono portatori il leader e l’élite. Georg Simmel e le forme dell’interazione Georg Simmel nasce a Berlino nel 1858. Ha vissuto per gran parte della sua vita a Berlino, assiste alla trasformazione della città nel centro culturale e politico tedesco e vive al centro della vita mondana. Le origini ebraiche e la frequentazione dei circoli socialisti all’inizio della carriera universitaria, condizioneranno negativamente il giudizio accademico sulla produzione scientifica di Simmel. La politica del Kaiser insieme al potere della borghesia guglielmina crea forti ostacoli all’ingresso degli ebrei negli organi decisionali e culturali. A ciò si associa il progressivo incremento del sentimento nazionalistico nel popolo (volk) tedesco che si riconosce pienamente nei valori della supremazia della propria tradizione culturale. 6.1.1 Il tratto distintivo del pensiero scientifico simmeliano è rintracciabile nella lettura filosofica e sociologica della modernità. Simmel è l’autore frammentario e irrequieto come la realtà sociale moderna di cui si fa interprete. Simmel è cosciente che il capitale intellettuale trasmesso ai propri allievi è prezioso, ma sa che sarà anche utilizzato per criticarlo e allontanarsi dalle sue posizioni scientifiche. Non lascia una scuola, ma un’immensa eredità spirituale e culturale che ancora oggi circola e di cui tutti possiamo godere. 6.2 La sociologia è per Simmel eclettica, capace di offrire un nuovo punto di vista. La società nel suo complesso non coincide con la somma degli individui sociali, ma è il prodotto di molteplici fattori, i quali si differenziano per qualità e funzionalità delle loro singole parti costitutive. 6.2.1 Simmel concentra il proprio interesse sulla costruzione dei legami sociali. Così nell’introduzione a “Sociologia”, a cura di Alessandro Cavalli, viene esaminato il superamento della Gesellschaft (società) verso la Vergesellschaftung (socievolezza). Dal macro-sociale si passa quindi al micro-sociale, in cui gli individui sono considerati come singoli atomi del sistema sociale. L’attenzione si sposta verso l’individuo dalla cui capacità di stabilire rapporti di reciprocità nascono le relazioni sociali. La sociologia di Simmel è riconosciuta come la scienza delle forme associative e relazionali, in cui si compone l’individuale e il collettivo, come metro di misura sociale. La società esiste solo in presenza di una razionalità reciproca e dinamica tra le parti, tanto che le stesse, che noi consideriamo come singoli non è detto che siano degli individui, possono essere anche istituzioni, come la famiglia. Per l’autore tedesco la relazionalità sociale è la capacità di creare l’interazione sociale, in quanto la società esiste nella vitalità e nell’energia di ogni individuo, formando così una nuova sociologia, quella relazionale. 6.2.2 Lo studio sulla “Differenziazione sociale” è uno dei lavori più apprezzati, in particolare il concetto di cerchie sociali. Ogni cerchia si distingue in base alle azioni reciproche che i soggetti del gruppo realizzano sulla spinta motivazionale e dei loro interessi personali. Su questa base Simmel teorizza il concetto di intersecazione delle cerchie sociali, ossia la capacità di sviluppare un processo di comunicazione relazionale tra le diverse organizzazioni sociali. In questo modo si crea il movimento delle cerchie che permette la comunicazione e l’instaurarsi della relazionalità sociale. La linea di tendenza che porta alla modernità conduce ogni individuo a stabilire relazioni sociali diverse e a partecipare a molte cerchie sociali ben definite. Nella complessità del contesto sociale, l’autore introduce il problema del condizionamento sociale, riconducibile alla responsabilità del singolo. L’individuo, in questo tipo di organizzazione sociale unitaria, non gode di una propria responsabilità, la sua formazione dipende dalle colpe e dal bene che la società è in grado di creare. Con il superamento delle teorie sociali positiviste, il singolo è visto come artefice del proprio agire. L’appartenenza a diversi gruppi sociali genera la differenziazione sociale, che contribuisce alla definizione della complessità sociale moderna e postmoderna. Ogni singola cerchia per Simmel è una forma con confini mobili, di cui ogni individuo che ne fa parte influenza le relazioni interne e il sistema d’azione reciproca (sono gli scopi e i fini che identificano i membri della sfera). L’ultimo elelmento che caratterizza il livello statico delle cerchie sociali è dato dalla possibilità per ogni individuo di appartenere a più di una sfera sociale. Si può far parte di una cerchia centrale e anche di una cerchia minore, occupando al suo interno ruoli diversi per grado e importanza. 6.3 In questo costante movimento delle cerchie sociali, si è determinata una struttura della società complessa e diversificata. Una realtà post-moderna in cui il tempo di riferimento è il presente e il futuro un tempo lontano e pieno di incognite. Simmel, a suo discapito, diviene il referente teorico dell’interdipendenza relazionale della società moderna, il fondatore delle network analysis. 7.2.2 Nel corso del tempo si creò uno scenario che Gauchet definisce come fine del dominio maschile. Se da un lato, le donne generano figli e sono le sole che possiedono questo potere che riguarda l’intera condizione umana, dall’altro la riproduzione biologica è necessaria ma non sufficiente a perpetuare l’esistenza collettiva. Questo privilegio è stato nel tempo il meccanismo che le ha mantenute in una condizione di subordinamento. Il crollo di un ordinamento centrato sul dominio maschile, con individui che si caratterizzano per gli stessi diritti, indipendentemente dal sesso, porterebbe secondo Gauchet, all’estinzione di una società fondata sul predominio maschile. Vilfredo Pareto e la bivalenza dell’azione 8.1 Il metodo di ricerca è alla base dell’opera paretiana che riteneva che solo i nudi fatti possono essere oggetto dell’osservazione scientifica e, nel caso di quelli relativi alle azioni umane, solo la scienza sociologica può fornire il necessario approccio interdisciplinare. La sociologia, infatti, non fornisce verità assolute, ma parte dell’esperienza. Proprio lo studio sociologico, incentrato sul comportamento umano nei vari contesti sociali, mostra come l’azione umana sia bivalente, ossia logica, ma più spesso non logica, perché non segue uno scopo chiaramente definito o lo fa con mezzi non adeguati. 8.1.1 Pareto definisce come non logiche la gran parte delle azioni umane. Il sociologo sottolinea, infatti, come le persone seguano più spesso il loro istinto e criteri soggettivi nei propri comportamenti. Per esempio, le proteste dei lavoratori contro gli imprenditori in crisi per ottenere aumenti salariali, in realtà hanno accelerato la chiusura delle aziende che ne sono coinvolte, creando così un aumento della disoccupazione. Gli individui, infatti, agiscono senza seguire un ragionamento che colleghi in modo adeguato i fini con i mezzi e producono risultati cui essi stessi attribuiscono significati che sono ben diversi dall’effettiva realtà. Per questo motivo, Pareto conduce l’analisi sociologica guardando alle credenze associate alle azioni individuandone un numero limitato di tipo “logico/sperimentale” che dimostrano le azioni logiche, e un numero decisamente maggiore di tipo “non logico/sperimentale”. 8.1.2 La struttura delle azioni non logiche si basa sulla componente psichica dell’individuo, quella da cui partono le emozioni, gli istinti e i sentimenti. Egli definisce come residuo la parte irrazionale costituiva dell’azione non logica che è costante nell’azione umana ed è considerata come connaturata nel comportamento degli individui. Lo studioso classifica i residui in 6 classi: - L’istinto delle combinazioni : la caratteristica umana di agire creando connessioni - La persistenza degli aggregati : la tendenza umana a conservare e rendere stabili le connessioni - Il bisogno di manifestare i sentimenti con atti esterni : la propensione umana a manifestare i propri moti interiori all’esterno - I residui in relazione alla società : gli individui portati a relazionarsi con gli altri e creare la società - L’integrità dell’individuo e delle sue dipendenze : il mantenimento di una condizione favorevole all’individuo - I residui sessuali : atti finalizzati all’accoppiamento che soddisfano gli impulsi sessuali. Le azioni non logiche che derivano da queste classi di residui sono oggetto di un’attività altrettanto costante che gli individui compiono al fine di dare senso ad azioni che ne sono prive. Queste attività mentali sono definite da Pareto derivazioni. I residui più frequenti con le connesse derivazioni sono l’istinto delle combinazioni e la persistenza degli aggregati, poiché rappresentano la complessità della realtà sociale con le loro opposte tendenze alla generazione di novità l’una e di stabilità l’altra. 8.1.3 Una delle esemplificazioni di residui e derivazioni nelle organizzazioni umane è contenuta nella teoria delle élites, ovvero un gruppo di individui nella società che sono i più capaci di raggiungere gli obbiettivi. Pareto evidenzia come sia una costante nella società quella della composizione in una classe eletta, che detiene il potere e che domina i vari ambiti sociali, e una classe inferiore che viene dominata dalla prima. Periodicamente, gli individui dotati di capacità superiori si affermano come una nuova élite che si sostituisce alla precedente perché è più abile. Le élites emergenti mettono in atto azioni riferibili al residuo dell’istinto delle combinazioni, portando l’innovazione richiesta dalla società in quel momento al punto di affermarsi sulla precedente classe eletta. Successivamente, però, anche il loro apporto innovativo si ridurrà di fronte alle trasformazioni che seguiranno e saranno destinate a muoversi in modo conservativo e difensivo rispetto alle istanze rappresentate da nuove élites. 8.1.4 L’equilibrio sociale per Pareto si sorregge sulla combinazione degli aspetti individuali e collettivi colti nel loro insieme. Lo dimostra la stessa composizione della società rispetto alla gestione del potere che non può che spettare ai più capaci che costituiscono il gruppo che detiene la leadership. L’equilibrio della società però, è anche assicurato dalla loro sostituzione nel momento in cui emergono capacità migliori e più adeguate a quel preciso momento storico. La base dell’equilibrio è quella del conflitto fra le due classi che Pareto presenta attraverso i residui della conservazione e dell’innovazione, che si alternano in una condizione che alla fine risulta instabile. 8.2 La sociologia scientifica di Pareto risente evidentemente degli studi da lui compiuti di altre discipline. Per esempio, c’è un prevalente modello del razionalismo economico che Pareto adotta nella determinazione di tutti i suoi schemi teorici. Un altro elemento che influenza la sua produzione è il contesto storico-culturale che vive: inizialmente sembra accogliere l’approccio positivista, ma col passare del tempo smuoverà dirette critiche al positivismo, accusandolo di essere un sistema metafisico, perché non basato su un rigoroso metodo logico-sperimentale. Anche quando Pareto si è soffermato con i suoi studi sugli elementi non razionali della società, il metodo logico-sperimentale applicato ha suscitato forti perplessità. In particolare, lo è stato il suo ricorrere a modelli analitici scientifici di tipo psicologico che tendevano a classificare come non logico tutto ciò che si ispirava a una razionalità diversa da quella del modello prevalente. Il concetto paretiano di equilibrio rischia di presentare lo stesso limite che con la sua definizione Pareto voleva evitare: quello di essere soggettivo, cioè relativo a una specifica visione della realtà, quella della classe eletta, e non alla realtà reale. Herbert Blumer e l’interazione simbolica Blumer dà particolare attenzione al metodo della ricerca sociale, basato sull’esperienza diretta del ricercatore sul campo. Blumer, però, viene principalmente ricordato come il fondatore dell’interazionismo simbolico, corrente di pensiero così da lui denominata, che ritiene che la società consista di persone che interagiscono e che esamina le interazioni tra individui e gruppi di individui assumendo che il comportamento umano non nasca da una serie di risposte a stimoli ma dall’interpretazione dei significati attribuiti soggettivamente alle sollecitazioni provenienti dalle interazioni umane. Questo approccio pone le sue radici nel pensiero di autori come Max Weber, Georg Simmel. In particolare, la connessione tra l’Europa di Weber e di Simmel e l’America dell’università di Chicago si instaura quando Robert Park (esponente della sociologia di questa università) diventa allievo di Simmel, così la concezione simmeliana della società vista come una somma di interazioni entra e viene diffusa da Park a Chicago, dove l’interazionismo simbolico nascerà. A sua volta, Charles Horton Cooley contribuisce allo sviluppo dell’IS attraverso il concetto di “io riflesso”, ossia l’io percepito come risultato dell’informazione che arriva come riflesso del giudizio di cihi interagisce con la persona. 9.1.1 Concetto fondamentale dell’interazionismo simbolico di Blumer è il Sé, elaborato da Mead, dove viene definito come un processo che si svolge nell’interazione tra le persone. L’interazione infatti, viene considerata fondamentale nello sviluppo del sé (self) come anche del pensiero (mind) e dell’organizzazione sociale (society). Il sé dell’individuo, nel pensiero di Mead si costruisce attraverso l’interiorizzazione dell’altro, dapprima nel processo dell’imitazione, poi nella fase del gioco libero, e infine nella fase del gioco strutturato, fase nella quale si interiorizza l’altro generalizzato. Queste fasi implicano necessariamente un lavoro di interpretazione soggettiva, nel quale sono presenti due componenti: l’Io e il Me. L’io è la risposta non organizzata dell’organismo di fronte agli atteggiamenti degli altri: la disposizione o l’impulso ad agire. L’altra componente è il me, che guida il comportamento della persona socializzata, un insieme di atteggiamenti organizzati di altri, in altre parole quelle prospettive del proprio essere che la persona impara agli altri. Affermando che la persona ha un sé, Mead intende che la persona è un oggetto per se stessa. Può percepirsi, comunicare con se stessa e agire nei propri confronti. Per Mead, dunque, il sé è un processo sociale, un processo di auto-interazione nel quale l’attore umano segnala a se stesso le questioni che si trova di fronte nella situazione nella quale agisce e organizza la sua azione secondo l’interpretazione che dà di tali questioni. La concezione di Blumer è che l’essere umano che si impegna nell’autointerazione non è solo un organismo che risponde, ma uno che agisce. 9.1.2 Blumer conia l’espressione “interazionismo simbolico”. Il suo approccio vede la società umana fatta di persone impegnate a vivere in un processo di attività in corso, all’interno delle quali i partecipanti sviluppano direttrici di azione legate alle molteplici situazioni incontrate. Le persone sono dunque implicate in interazioni, e in queste adattano reciprocamente lo sviluppo delle proprie azioni. L’idea di “interazione sociale” è quella di Mead, che identifica nella società umana due forme di interazione sociale: la “conversazione dei gesti” (interazione non simbolica, cioè quando si risponde senza interpretazione) e l’” uso di simboli significanti” (interazione simbolica, quando è coinvolta l’interpretazione). Per esempio, un’azione istintiva è quando si para un colpo del pugile, mentre quella dettata dall’interpretazione è interpretare il colpo d’arrivo del pugile come una finta e comportarsi di conseguenza. Questo processo di attività in corso consiste nel dare indicazioni agli altri su cosa fare e nell’interpretare le indicazioni avanzate degli altri. In altre parole, le persone costruiscono il proprio sé e le proprie azioni in relazione con gli altri, in un continuo processo di significazione e adeguamento a tale significazione. Per Blumer l’interazionismo poggia su tre premesse: - Gli individui agiscono verso le cose in base al significato che esse hanno per loro - Il significato delle cose è derivato dall’interazione sociale di ciascuna persona con le altre persone - Questi significati sono trattati e modificati lungo un processo interpretativo usato dalla persona nel rapporto con le cose che incontra. Cosa intende Blumer per “cose” e “oggetti”? Blumer include tutto quello che le persone notano tra gli oggetti del loro mondo fisico, come alberi o stelle, amici o nemici, istituzioni, ideali guida come la l’onestà. Tutto ciò che circonda un essere umano intrattiene con questo relazioni significative che vengono costruite nella reciproca interazione. Blumer infatti precisa che l’interazionismo simbolico sorge dal processo di interazione tra le persone. Per cui il significato di una cosa, per una persona, nasce dal modo in cui le altre persone agiscono nei suoi confronti rispetto a quella cosa. comprende la comunità del vicinato, le reti di parenti e amici. È caratterizzato da un senso di comunanza tra conoscenti e vicini coinvolti in reti interpersonali che si trovano dentro le comunità. Per Lofland i realm non sono solo spazi, ma qualcosa che non ha radici e presentano confini volubili. Evidenzia come la città preindustriale, con una realtà rurale comunitaria, lasciando il posto alla città industriale, consenta l’emersione di nuove possibilità per ampliare non solo gli spazi pubblici ma anche quelli privati e di quartiere della città. Questo cambiamento è dovuto per Lofland da due fattori principali: le innovazioni nelle forme di trasporto e le innovazioni nella costruzione e nelle comunicazioni. In altre parole, due caratteristiche della città industriale, l’ampliamento e la recinzione, hanno reso possibile la separazione del luogo di lavoro da quello di residenza, lo sviluppo di luoghi di lavoro altamente specializzati e di grandi dimensioni, hanno permesso lo sviluppo di aree di residenza omogenee e ampie, per esempio quartieri operai. 10.2 Il pensiero di Lyn Lofland ha avuto un considerevole impatto nel dibattito sociologico e negli studi di urbanisti e architetti. Non sfugge la modernità con la quale lei ha contrastato ogni sentimento antiurbano, per cogliere la progressiva trasformazione delle città e dei suoi abitanti. La vita urbana può apparire più eccitante di quella rurale, ma esposta a maggiori imprevedibilità, soggetta a continui adattamenti e nuovi assetti. Charles Wright Mills e le élites del potere Charles Wright nasce in Texas nel 1916. Affronta la Grande Depressione economica del 1929 e il New Deal adottato da Roosevelt. 11.1 Charles Wright Mills è un critico della società e della sociologia americana del suo tempo. Analizza tre principali argomenti: - Il primo riguarda la disconnessione tra persona e società, in quanto la modernità ha garantito agli uomini una progressiva dignità, fino al riconoscimento della libertà e dell’uguaglianza di ciascun individuo. Tuttavia, si è sviluppata anche una crescente alienazione dell’individuo dal suo contesto storico, culturale e sociale. - La seconda critica tocca la democrazia. Ai suoi occhi la società americana è solo un apparente democrazia. Nell’ordine democratico i capi politici e l’opinione pubblica sono uniti e ogni persona è in grado di influenzare il corso della storia con la propria azione razionale. Negli anni ’50 in America però, gli individui, convinti di agire e pensare liberamente, sono invece manipolati e indirizzati da un gruppo molto ristretto, l’élite del potere. - Nel terzo attacco, egli critica l’irresponsabilità degli intellettuali, in particolare degli accademici e dei sociologi. La rinuncia di questi al loro dovere pubblico di stimolo alla formazione libera e razionale delle opinioni è condannata senza appello. 11.1.1 L’elaborazione teorica più importante avviene in collaborazione con Hans H. Gerth e insieme approfondiscono i rapporti tra psicologia sociale e sociologia. L’obiettivo è superare la visione statica del dualismo individuo-società. Il concetto di ruolo definisce il raccordo dinamico tra i due lemmi del binomio. I ruoli sono la sintesi tra la componente psichica (sensazioni e impulsi) e la componente sociale (percezioni e intenzioni) dell’individuo. La persona, ovvero l’individuo, li ricopre adottando modalità di comportamento orientate verso il comportamento degli altri e le altrui aspettative. Questa considerazione conferisce autonomia al soggetto nella scelta della propria condotta e autorità alla società nell’orientarla. I ruoli presentano differenti gradi di autorità: quando si stabilizzano intorno a un ruolo “capo” si configura un’istituzione che denota un’organizzazione di ruoli. Le istituzioni sono raggruppabili a seconda della similarità delle funzioni che svolgono, costituendo ordini istituzionali. Nelle società occidentali gli Autori ne individuano 5: - L’ordine economico - L’ordine politico - L’ordine militare - L’ordine familiare - L’ordine religioso Per completare il quadro viene introdotto anche il concetto di sfera: comprende i comportamenti sociali che servono al raggiungimento delle finalità degli ordini istituzionali e sono: - I simboli - La tecnologia - Lo status - L’istruzione La struttura sociale è quindi l’insieme di ordini istituzionali e sfere, la cui unità è definita dalle relazioni che si instaurano tra queste. Gli autori individuano 4 principi su cui può articolarsi una struttura sociale: - Corrispondenza : quando tutti gli ordini istituzionali presentano lo stesso principio integrativo - Coincidenza : quando questo è differente per ciascun ordine - Coordinazione : quando c’è una relazione di autorità di alcuni ordini sugli altri - Convergenza : quando c’è poca distinzione tra gli ordini La struttura sociale impostata sulla coordinazione è riscontrabile negli Stati totalitari del XX secolo. 11.1.2 Wright Mills mostra come nella società americana del Secondo dopoguerra gli ordini economico, politico e militare abbiano attenuto maggiore autorità rispetto agli altri. La società di massa è dunque solo apparentemente democratica poiché un élite prende tutte le decisioni davvero importanti. L’autore si chiede quale sia il ruolo della leadership nell’orientare il mutamento della struttura sociale e quale possa essere la figura all’interno della società americana in grado di rimodularla in chiave socialista. I sindacati e nello specifico i loro leader sono il primo ambito interpellato. Purtroppo la ricerca empirica condotta sulla loro origine, carriera e opinioni conduce a risultati deludenti: i sindacalisti ai vertici delle associazioni, invece di riportare nelle alte sfere le istanze che sono alle loro basi, diventano impegnati nel far integrare i propri associati, in cambio di concessioni da parte dei gruppi economici o dello Stato. Il secondo gruppo su cui l’autore nutre speranze è la classe media. Tuttavia, nel ‘900 si era formata la grande corporation spersonalizzata che, al posto della vecchia classe media indipendente di piccoli uomini d’affari, agricoltori e liberi professionisti, genera un’ampia classe media dipendente di professionisti stipendiati e addetti alle vendite. Le classi medie quindi sono incapaci di azione politica autonoma, sono infatti molto più disunite del movimento anche operaio, sono inoltre attratte dagli orientamenti del big business. In sintesi sono scarsamente vitali e per nulla promettenti, soprattutto non candidati al ruolo di guida del cambiamento. L’Autore vede aumentare lo spazio degli outsiders nei ruoli politici più elevati; non si tratta di professionisti della politica ma dei vertici di grandi gruppi economici e di forze armate. Questa élite è dunque formata da capi militari, capi politici, grandi ricchi e top manager. In conclusione gli interessi della power élite sono convergenti e le decisioni si concentrano all’apice degli ordini istituzionali economico, politico e militare. Mentre questo gruppo assume decisioni importanti, la massa è totalmente ininfluente sui grandi cambiamenti, manipolata da quelli al comando. 11.1.3 “The Sociological Imagination” diventò nel tempo il più celebre teso di Mills. In questo libro pone una critica alla sociologia mainstream, che sarebbe viziata da due consolidati orientamenti divergenti: - La “grande teorizzazione”: l’uso di un livello di riflessione talmente generale da non poter essere applicato a contesti storici concreti e quindi si allontana dall’osservazione empirica. A ciò si aggiunge la ricerca che promuove una lettura tendenzialmente conservatrice dello status quo. - Il secondo orientamento riguarda l’” empirismo astratto”, ovvero la tendenza di alcuni sociologi ad adoperarsi per sviluppare tecniche di ricerca indipendenti dal problema in oggetto. Ciò deriverebbe dagli elevati costi della ricerca: questa situazione richiede infatti che la ricerca si orienti su temi “saltuari e dispersi” nell’interesse dei gruppi che la finanziano (grandi imprese). In particolare critica due sociologi: Talcott Parsons e Morris Rosenberg. Essi allontanano dalla comprensione della realtà disattendendo la finalità della sociologia: cogliere la relazione tra la biografia della persona e la struttura sociale in cui agisce. Si tratta di mettere in contatto le difficoltà personali (troubles) con le questioni pubbliche (issues). Il lavoro e la disoccupazione, la pace e la guerra, il matrimonio e il divorzio, sono esempi che Wright Mills usa per chiarire in quale modo l’esperienza soggettiva sia connessa al fenomeno e possa essere letta in prospettiva istituzionale quale sintesi dei due piani. L’intellettuale, il giornalista, lo scienziato ma soprattutto il sociologo hanno il compito di riconfermare la ragione e la libertà degli individui offuscate dall’apatia politica. 11.2 Le critiche rivolte a Mills riguardano soprattutto la scarsa considerazione della struttura capitalistica della società americana, la debole autonomia dei tre ordini istituzionali prevalenti e l’assenza delle analisi delle decisioni assunte dalla power élite così come le modalità con cui questa si coordinerebbe. Si ritiene però che le critiche maggiori che gli sono state rivolte riguardino la sua non esauriente base di dati empirici e il suo impreciso apparato teorico. Si ipotizza, però, che il suo essere sintetico e il suo usare un linguaggio colloquiale rispondano alla volontà di essere più accessibile al lettore. Charles Wright Mills si è scagliato contro il conservatorismo della sociologia e della società americana. La ricerca delle tracce per il suo superamento fra le forze politiche e culturali da lui esplorate lo ha lasciato profondamente deluso. Ritrovò, forse solo nelle giovani menti, non omologate, l’interlocutore verso il quale nutrire speranza. Alfred Schütz e il mondo della vita quotidiana Nasce a Vienna nel 1899. È un austriaco ebreo costretto negli anni Trenta a emigrare negli Stati Uniti a seguito del nazismo. Schutz è un filosofo che vuole essere anche sociologo, descrivendo analiticamente come utilizziamo i 5 sensi per orientarci nel quotidiano risulta addirittura un testimone della vocazione empirica della sociologia. 12.1 Schutz lavora nell’alveo della sociologia comprendente fondata da Weber, di cui accoglie e trasforma non poche categorie. Il senso in Weber è sempre soggettivo perché è il soggetto agente che attribuisce senso alla sua azione ed è l’osservatore che coglie tale senso. Secondo Schutz il problema del senso è più complicato: per lui il senso soggettivo del vissuto non è percepito nemmeno dal soggetto agente quanto questi è preso dal flusso degli accadimenti; il vissuto diventa significativo quando è passato, ed è perciò oggetto di uno sguardo riflessivo che lo inserisce nel contesto dell’esperienza complessiva. Weber non riteneva che l’azione razionale rispetto allo scopo fosse un’azione comune nella vita di tutti i giorni, ma un’azione da una parte centrale per lo sviluppo della modernità e dall’altra l’unica veramente dotata di senso. Schutz dichiara che nella nostra vita solo molto raramente agiamo in modo razionale e 13.1 Dopo i dibattiti condotti nell’Europa dell’800, soprattutto da parte di autori come Marx, Weber, Durkheim e Simmel, e l’impegno profuso dalla sociologia nordamericana, i tempi sembrano maturi per arrivare a una sintesi e a una strutturazione del grande sforzo conoscitivo. Il giovane Parsons pare essere il predestinato a svolgere questo compito, tanto che la sua produzione può essere considerata come una raccolta del pensiero sociologico precedente. Già nella sua prima opera “La struttura dell’azione sociale”, affronta con determinazione la domanda istitutiva della disciplina: “come è possibile l’ordine sociale?”. Egli cerca di comporre un quadro teorico unitario, capace di mostrare come sia possibile vivere in una società in grado di concedere agli uomini la facoltà di agire liberamente senza per questo dover rinunciare a un certo grado di coordinamento dei comportamenti individuali. Riconoscere che l’individuo ha un valore in sé, come oggetto autonomo e che il suo valore non dipende dalle sue appartenenze sociali (familiari e culturali) è ciò che distingue l’epoca moderna. Conoscere con quali istituzioni si possa garantire l’esercizio di tale autonomia individuale è il problema della sociologia con cui Parsons decide di confrontarsi. 13.1.1 Parsons muove verso l’elaborazione di una teoria dell’azione sociale intesa come l’unità minima di cui è costituito il sociale e, dunque, come unità d’analisi della sociologia. Razionalismo, utilitarismo e comportamentismo sono tre correnti di pensiero che, nell’intenzione di fornire una spiegazione razionale del comportamento umano, rischiano di presentarci quest’ultimo come la conseguenza necessaria di una serie di variabili. Un ottimo esempio di ciò è la soluzione data da Thomas Hobbes al problema dell’ordine sociale: sostiene che l’uomo non ha altra ragionevole scelta che cedere una quota della sua libertà d’azione e del suo potere a un’istituzione politica come il moderno stato di diritto. Quest’ultimo deve garantire l’ordine sociale e si incarica di usare il complessivo ammontare di potere ottenuto per stabilire il limite entro il quale si può spingere la libertà d’azione del singolo, senza invadere la legittima sfera di libertà di altri individui. Parsons rigetta una tale prospettiva poiché ci consegnerebbe un’idea determinista dell’attore sociale, il quale, non può che scegliere di intraprendere un determinato corso di azione. Così Parsons individua una teoria dell’agire individuale che definisce volontarista, perché in grado di rappresentare la libera volontà dell’individuo senza trascurare la possibilità dell’ordine sociale. Ne scaturisce inizialmente la seguente teoria: perché vi sia un’azione occorre che un soggetto (l’attore sociale) sia orientato verso il raggiungimento di un fine, cioè verso la realizzazione di uno scopo in una situazione futura. La situazione di partenza consta di elementi modificabili e utilizzabili dall’attore per il suo obiettivo (mezzi) e di condizioni non modificabili. La scelta di mezzi alternativi per un determinato fine non è affidato al caso, essa è soggetta a una serie di influenze che concorrono a integrare l’agire individuale con quello degli altri attori sociali. In sostanza, per Parsons perché vi sia un’azione umana occorre che un soggetto individui un fine del proprio agire e selezioni i mezzi da utilizzare per realizzare tale fine. La libera selezione dei fini avviene sulla base di influenze indicate dalle norme sociali e dai valori della cultura dominante. La combinazione di mezzi, fini, norme e valori divengono gli elementi costitutivi dello schema generale dell’azione. 13.1.2 Parsons affronta lo studio della emergente teoria generale dei sistemi. Sorta partire dai progressi delle scienze biologiche, la teoria concepisce il sistema come un tutto composto di parti in interazione le une con le altre. Parsons utilizza la teoria generale dei sistemi ed elabora uno schema analitico dell’azione. Essa viene così concepita come un sistema, cioè come un tutto composto di parti (sottosistemi) in interazioni coordinate tra di loro. Le parti costituenti sono: - Il sottosistema comportamentale o organismo agente - Il sottosistema della personalità - Il sottosistema sociale - Il sottosistema culturale L’intreccio delle relazioni tra i vari sottosistemi è regolato sulla base di due criteri d’ordine: Una gerarchia dell’energia e una gerarchia cibernetica (cioè dell’informazione). Nello specifico la gerarchia dell’energia vede l’organismo agente in cima alla scala gerarchica, seguito dalla personalità, dalla società e dalla cultura. In effetti, è l’organismo biologico a fornire al sistema psichico energia per realizzare i propri scopi. Così come il sistema psichico, attraverso la realizzazione delle proprie motivazioni, fornisce al sistema sociale le energie necessarie affinché la struttura sociale degli status-ruoli possa funzionare. Così come le azioni realizzate in conformità alle aspettative e alle norme sociali consentono ai sistemi di valore e ai simboli del sistema culturale di riprodursi all’interno della società. Il medesimo processo osservato dal punto di vista della gerarchia dell’informazione ordina i sottosistemi nel modo seguente: culturale, sociale, della personalità e dell’organismo agente. Secondo la gerarchia dell’informazione la cultura fornisce informazioni agli elementi del sistema sociale, cioè alle norme, agli status-ruoli, ai sistemi di aspettative reciproche. Una testimonianza del fatto che il sottosistema culturale informi gli elementi del sottosistema sociale la si ritrova osservando i testi di legge che vedono i primi articoli esplicitare i valori e i principi che ispirano le norme contenute nella legge. A sua volta il sottosistema sociale, attraverso le norme e i ruoli sociali, contribuisce a fornire informazioni al sottosistema della personalità. La personalità è dove il soggetto, a partire dall’interiorizzazione dei contenuti simbolici della cultura e dalle norme e ruoli messi a disposizione dalla società, elabora progetti, motivazioni e percorsi d’azione. L’esperienza di uno studente universitario per esempio può essere utile per comprendere meglio l’intreccio tra i vari sottosistemi. Lo studente è infatti una persona che sulla base di un complesso di valori, offerte dal sistema culturale, ha scelto un percorso di studi con il quale ottenere un titolo che gli consenta di esercitare una determinata professione il cui profilo è stabilito attraverso una serie di norme del sistema sociale. A seguito di una tale scelta il giovane nel suo ruolo di studente si conforma a una serie di regole sociali fissate dal sistema universitario mobilitando le risorse del suo organismo. In particolare le risorse bio-psichiche dell’organismo saranno mobilitate dalla spinta della personalità per faticare sui libri e studiare i contenuti per poi ottenere un titolo che gli consenta di esercitare il suo ruolo sociale e, attraverso quest’ultimo, agire nella sfera pubblica per realizzare quei valori culturali dai quali aveva preso forma la sua scelta del percorso di studi. 13.1.3 Agli inizi degli anni 50, Parsons procede a elaborare la sua teoria ha un’ulteriore livello d’astrazione. Egli analizza i sistemi concentrando la sua attenzione sulle funzioni che debbono necessariamente essere svolte per garantire la sussistenza e ne individua quattro. Queste vanno a costituire il cosiddetto schema AGIL, dall’acronimo delle 4 funzioni fondamentali: adaptation, goal attainment, integration, latent pattern maintenance. Perché un qualsiasi sistema possa perdurare nel suo funzionamento è necessario che: - A. Svolga la funzione di adattamento - G. individui delle mete e operi per la loro realizzazione - I. si occupi del mantenimento di una coerenza e di un coordinamento tra gli elementi interni. - L. sia in grado di riprodurre nel tempo l’insieme di informazioni che ne costituiscono il modello latente d’identità (come la cellula deve preoccuparsi di riprodurre nel tempo l’insieme di informazioni contenute nel DNA così e dei sistemi socioculturali o psichici che debbono riprodurre nel tempo l’insieme di informazioni che ne contraddistinguono l’identità). Si può dire che con l’elaborazione di questo schema Parsons abbia in parte raggiunto gli obiettivi che si era posto agli inizi della sua carriera intellettuale. Egli prosegue la sua produzione scientifica applicando ripetutamente lo schema AGIL al sistema ad azione al modo delle scatole cinesi, producendo schemi di analisi molto articolati. 13.1.4 Il sistema sociale: in una società la funzione di reperimento di risorse ed energia la occupa il sottosistema economico. Il sottosistema che svolge la funzione di selezione e perseguimento degli scopi è invece la politica. La funzione di collegare tra loro in un tutto unitario le parti della società e della comunità societaria, cioè di quel complesso di relazioni di solidarietà tra i membri della società. Il particolarismo dei gruppi viene superato attraverso la costruzione di una comunità civile che assicura la sua solidarietà al singolo individuo sulla base del rispetto reciproco dei diritti individuali, indipendentemente dall’origine e dall’appartenenza a gruppi particolari. Infine si affida la funzione di mantenimento del modello latente all’insieme delle agenzie di socializzazione, come la famiglia, che si occupano di mantenere e trasmettere i contenuti simbolici come la cultura, che caratterizzano l’identità di una specifica società. 13.1.5 Parsons offre alla sociologia una serie di strumenti interpretativi delle cose umane sociali caratterizzati da un’articolazione e al tempo stesso da una sintesi di eccezionale potenza. Per via delle sue caratteristiche, la sociologia parsonsiana è nota nella storia del pensiero sociologico con l’etichetta di struttural- funzionalismo. Parsons aggiunge ha elaborare una teoria della società volta a identificare la struttura di fondo della società e a definire le funzioni svolte dalle varie componenti del sistema, ai fini del buon funzionamento dello stesso. 13.2 La sua teoria è stata considerata etnocentrica, ideologica, conservatrice, troppo attenta all’integrazione sociale e incapace di considerare il conflitto, perché nel suo esito finale la sofisticata articolazione del sistema risulta incapace di vedere il soggetto e le dimensioni micro del sociale. 13.2.1 Robert Merton Per rilevare i punti ciechi e le criticità della teoria parsonsiana è utile fare riferimento a Robert Merton. Egli elabora un’analisi critica sostenendo che nell’impianto teorico del funzionalismo sono presenti tre postulati che presentano delle criticità. Si tratta dei postulati: - Dell’unità funzionale - Del funzionalismo universale - Dell’indispensabilità dell’esercizio di alcune funzioni pena il decadimento e la fine del sistema Nel dettaglio: scienza nel suo concreto esistenziale e nel suo svolgimento storico. Se la soprannaturalità è un fatto storico e sociale, essa può formare oggetto di indagini sociologiche. Non ci troviamo di fronte a una sociologia della religione “accademica” che pone il fatto religioso come suo particolare oggetto di indagine, ma ci troviamo di fronte a una sociologia integrale, quale scienza della società nella sua concreta esistenza e nel suo processo temporale. Luigi Sturzo prende anche posizione nei confronti del positivismo: “La sociologia è nata positivista e ancora oggi non si riesce a svincolarla dal positivismo. La sociologia è una branca della filosofia e si appoggia su tutte le indagini che sono fornite dalle scienze positive. Secondo Sturzo, il metodo positivista ha dato studi interessanti e ha fatto fare progressi alla conoscenza della struttura sociale, ma tutto questo materiale non può trovare una sintesi scientifica, che è quella che cercava. In altri termini, l’organicismo positivista non tiene conto del mutamento e del concreto processo storico delle interazioni individuali. Sturzo crede che l’ordine sociale come entità obiettiva non esiste in sé ma nella razionalità vissuta e attuata dagli individui, nella mente e nel cuore di quegl’individui che lottano per attuarlo. Dall’altro lato, tutto quel che di idealità è stato attuato nel passato fino ad oggi esiste nel condizionamento storico-sociale presente, che intanto è utilizzato in quanto gli individui viventi lo fanno proprio con la loro accettazione. Due sono gli errori che Sturzo imputa al sistema positivista che derivano dal considerare la sociologia come scienza sperimentale del fatto esterno. Un errore è quello di eliminare o minimizzare la libertà dell’individuo, l’altro è quello di abbandonare ogni idea del soprannaturale. Il tentativo di Sturzo era quello di superare il determinismo naturalista. La sociologia del soprannaturale si presenta infatti come una sociologia che pretende sì di studiare scientificamente la società nella sua concretezza storica, ma è anche un’analisi che si sforza di riconoscere e comprendere storicamente la vita dello spirito nel suo più alto stadio ovvero la vita soprannaturale. Compito della sociologia, allora, è quello di aprirci al soprannaturale quale momento essenziale della nostra vita storica e concreta e di superare la nostra condizione naturale; proprio perché la nostra condizione esistenziale e sociale è già aperta alla dimensione del trascendente e della soprannaturalità. “La sociologia non studia la società in astratto come un’entità metafisica, né dal punto di vista morale, per stabilire quale dovrebbe essere la società nel campo politico ed economico o in altri campi, ma studia la società quale essa in concreto. Per questo la sociologia è una scienza.” Il metodo storico, secondo le intenzioni di Sturzo, privilegia l’analisi dei fenomeni sociali nella loro processualità, dentro la dimensione del tempo storico virgola e attraverso le periodiche sintesi culturali prodotte nell’interscambio delle generazioni e nelle interazioni degli individui. Il problema della società può essere allora soltanto affrontato sul doppio piano della sua formazione interiore e del suo sviluppo storico, analizzando le varie forme sociali, primarie e secondarie e rilevando le sintesi concrete delle relazioni umane nei loro raggruppamenti e nel loro dinamismo. Occorre sempre l’impiego di sintesi concrete quali risultati della processualità storica. Per questo, secondo la linea seguita da Sturzo, studiare il soprannaturale nei suoi valori sociologici non vuol dire fare della teologia ma autentica sociologia. Poiché il soprannaturale abbraccia e supera il naturale, pur nella stretta coesistenza delle due sfere, lo studio sociologico del soprannaturale e quello che approda a una sociologia più integrale e concreta, in quanto presuppone esso stesso il naturale e giunge a darne un’interpretazione di sintesi che per se stessa non può essere che completiva e definitiva. Il soprannaturale, nella sociologia di Sturzo, e dunque una dimensione trascendente e originaria, operante nella storia e costitutiva dell’essere umano. Di qui si apre una riflessione sulla soggettività in quanto il soggetto dell’agire sociale è persona partecipe della vita sia naturale che soprannaturale e si pone al margine della vita sociale poiché ne è al fondamento ma neanche al di là. La persona è al contempo trascendente e immanente i rapporti sociali oggettivi; la sua soggettività è posta al margine, fuori e dentro le relazioni societarie. La sociologia di Luigi Sturzo cerca in fondo di cogliere l’essenza dell’uomo ma soprattutto dal lato della sua finitezza esistenziale, relazionale, della sua condizione naturale, del suo essere storico, sociale concreto. Proprio in tal senso l’essere umano non è mai individuo isolato, ma persona sociale è soggetto coinvolto in un comune processo di vita. Sturzo scrive: L’uomo non è isolato, ma in società. La stessa società inventa e centuplica animali come la schiavitù e le guerre e da mezzi per superarli come la famiglia, l’economia, le leggi e l’ordine pubblico. Senza società non c’è vita. Neanche l’esperienza e il superamento del dolore sono talmente personali che non siano allo stesso tempo esperienza e superamento collettivi. La società virgola in quanto vita al contempo naturale e soprannaturale, si dà come superamento della mera naturalità. A tale società non può pertanto adattarsi una sociologia positivista, ma una sociologia rivolta alla storicità, al concreto e capaci di comprendere l’esperienza sociale del soprannaturale. Sturzo dunque forniva un’indicazione preziosa per lo sviluppo degli studi sociologici rilevando proprio alla base dell’esperienza storica l’elemento di trascendenza spirituale non riducibile al piano dei meri rapporti fattuali. La sua indagine infatti non si limitava allo studio oggettivo dei dati costruiti statisticamente eh numericamente elaborati, ma aveva bisogno di cogliere comprendere il vissuto sociale attraverso forme di concettualizzazione spirituale che possono spiegare il modo in cui gli uomini storicamente organizzano la loro vita in società. In tal modo Sturzo riconduceva i suoi studi verso una sociologia incline ad assumere i concetti come forme dell’esperienza sociale. Nel suo caso tali concetti affioravano dall’esperienza religiosa ed è proprio in tal senso che il soprannaturale poteva manifestarsi ai suoi occhi come una condizione fondamentale, collettiva individuale, dell’agire sociale. Con questo non si vuole dire che una sociologia costruita su dati numerici non sia altrettanto valida è in grado di produrre ottimi risultati, ma si vuole affermare la possibilità di ripercorrere altre strade, capaci di aprire il campo della ricerca sociale a nuovi sviluppi della conoscenza sociologica. Antonio Gramsci e l’egemonia culturale Antonio Gramsci nasce a Ales nel 1891. La sua attualità è legata a un’idea di rivoluzione maturata durante gli anni della sua prigionia e in un rapporto continuo e stringente con le vicende internazionali del movimento operaio e in particolare la realtà italiana, le sue tradizioni, la sua composizione culturale e politica. Il tema centrale di Gramsci è sempre lo stesso ed è il tema del presente e delle forme di organizzazione della società e dello Stato e l’elaborazione di una ricerca storica capace di aiutare nel presente le forze in sviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive. Per Gramsci conoscere il folklore significava conoscere quali altre concezioni del mondo lavorano di fatto alla formazione intellettuale delle generazioni più giovani. Fu un’attivista politico, collaboratore del giornale il “Grido del popolo”, fu componente del partito socialista italiano e fondatore dell’” Ordine nuovo”, ovvero un giornale legato in particolare alle fabbriche e all’ambiente operaio di Torino. Per le sue idee cospirative e proponenti lo scontro di classe fu arrestato nel 1926 e nel 1928, incriminato per insurrezione, cospirazione, incitamento all’odio di classe e alla guerra civile. Fu condannato a 20 anni di carcere finché il progressivo aggravarsi delle condizioni di salute non ne determinò il trasferimento in una critica a Formia, liberato poi nel 1934 per un’ulteriore peggioramento della sua malattia. Morì poi nel 1937 a 46 anni. 15.1 Il pensiero di Antonio Gramsci è influenzato da un lato dal marxismo e dall’altro dall’idealismo italiano, e dal concetto di egemonia di Lenin. Inoltre, il suo pensiero si distingue tra quello elaborato nel periodo in cui visse prima di entrare in carcere che lo vide distinguersi per la sua attività politica e l’impegno rivoluzionario, e quello sviluppato durante la prigionia, utilizzando due stili di scrittura diversi. Come altri grandi teorici, acquisì la consapevolezza che l’organizzazione statale non era un’espressione di forza cui contrapporre un’eventuale consistente violenza, ma una istituzione in rapporto con una società sempre più regolata, nella quale era necessario ridurre progressivamente gli interventi autoritari. Questo modificava la gestione della “guerra” contro il nemico, al processo coercitivo si sostituiva una “rivoluzione passiva” per cui con l’intervento legislativo ed economico dello Stato, si determinavano modifiche per accentuare il “piano di produzione”. Da qui il concetto gramsciano di rivoluzione passiva che deve essere dedotto rigorosamente da due principi fondamentali di scienza politica: - Che nessuna formazione sociale scompare fino a quando le forza produttive che si sono sviluppate in essa trovano ancora posto per un loro movimento progressivo - Che la società non si pone compiti per la cui soluzione non siano già state covate le condizioni necessarie. 15.1.1 Per Antonio Gramsci il potere è basato sulla presenza contemporanea di forza e consenso: se prevale la forza si ha dominio, mentre se prevale il consenso si ha l’egemonia. L’egemonia è un’espressione di potere basata sul consenso, agita tramite la persuasione e l’adesione a un determinato progetto politico e culturale. Essa non ha solo la funzione di formare una volontà collettiva, capace di trasformare la società, ma è anche in grado di diffondere e attuare una nuova concezione del mondo: la costruzione di una egemonia civile. Si trattò di una riflessione politica e intellettuale senza precedenti, tesa a sostituire il senso comune e le vecchie concezioni, basata: - Sul non stancarsi mai di ripetere i propri argomenti - Lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, ciò significa lavorare a suscitare le élites di intellettuali di un tipo nuovo, che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa. Questa seconda necessità, se soddisfatta, è quella che modifica il panorama ideologico di un’epoca. L’adesione a un programma di questo tipo deve essere legata a un’ideologia specifica che Gramsci definisce l’egemonia di un gruppo sociale sull’intera società nazionale. Per egemonia del gruppo sociale, Gramsci intende un gruppo sociale subalterno, senza iniziativa storica, che si amplia continuamente. L’egemonia del gruppo sociale doveva essere agita da intellettuali e altre istituzioni come la scuola e la chiesa, i giornali, le riviste, l’attività libraria, da rendere attivi per dare un fondamento culturale con un suo funzionamento. 15.1.2 Per Gramsci lo Stato è composto da società politica e società civile. La capacità di direzione dello Stato, le sue qualità egemoniche dovevano essere contrastate con strumenti adeguati, in grado di entrare in rapporto con le sue caratteristiche e capacità di intervento. Tale operazione presuppone un’azione condotta da figure rivoluzionarie particolari, in grado di superare la premessa che tutti gli uomini sono intellettuali. E Gramsci evidenzia l’atto di incalcolabile portata storica che compiono quegli intellettuali che si staccano dal raggruppamento sociale al quale avevano finora dato forma, sanzionando la crisi statale nella sua forma decisiva. In altre parole, l’egemonia costituisce il dominio culturale di un gruppo o di una classe sociale, capace di imporre ad altri gruppi, con pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla legittimazione di un complesso sistema di controllo. Il ruolo degli intellettuali nella società civile è proprio quello di mantenere un consenso all’ideologia dei gruppi dominanti. Gramsci fece una distinzione tra intellettuali organici, appartenenti a una determinata classe sociale, di cui sono i portavoce e gli intellettuali tradizionali che formando un ceto a sé stante influenzano tutta la società e la loro conquista ideologica è fondamentale per ogni gruppo sociale emergente che voglia imporsi come dominante. dallo stigma sia nell’atteggiamento del “normale” che adotta comportamenti screditanti, di derisione o di esclusione, sia in quello dello screditato, per il quale lo stigma produce senso di disadattamento o di vergogna. 16.2 Goffman viene inquadrato nella prospettiva dell’interazionismo simbolico considerando l’importanza dell’ordine dell’interazione e gli elementi di distanza dall’approccio struttural-funzionalista di Parsons. Secondo la lettura interazionista l’attore sociale è interprete ma anche autore della situazione nella misura in cui la definisce con gli altri attori in scena e il sé è frutto dell’interazione, quindi non preesiste a essa. Inoltre, sono comuni all’interazionismo l’interesse per la sfera microsociologica e l’osservazione attenta di meccanismi che si sviluppano attraverso mosse, vincoli, obblighi, condizioni e cause di imbarazzo ecc. nelle situazioni familiari, lavorative o amicali della vita quotidiana. Diversamente, le interpretazioni durkheimiane del lavoro di Goffman evidenziano la priorità riconosciuta alla società sull’individuo e la concezione della società come realtà preesistente, esterna nei riguardi dell’attore sociale. Quest’ultimo non pare avere margine per definire e negoziare la situazione e non esprime soggettività in quanto il self non è né autonomo né creativo, ma dissolto in un effetto di struttura. 16.2.1 Goffman si presentava come un “umile esecutore di analisi empiriche di aspetti secondari della vita sociale” secondo la definizione riportata da Collins. Da un lato si dispongono le critiche mosse all’assenza di ipotesi sottostanti lo studio di fenomeni che riguardano la vita quotidiana, dall’altro si riconosce al sociologo canadese la capacità di produrre teorie su una base empirica forte e quindi proporre una microsociologia con un metodo empiricamente fondato. Jurgen Habermas e il mondo vitale Nato a Gummersbach nel 1929. Ha iniziato la propria attività scientifica nell’ambito della scuola di Francoforte. La sua produzione spazia dalla filosofia alla sociologia, dalla storia alla politica, dalla metafisica alla scienza, dalla teologia all’etica. 17.1 In Habermas c’è il più grande tentativo di elaborazione di una teoria generale della società e dell’agire sociale (inteso come agire comunicativo) e il più robusto tentativo di riunire etica e momento conoscitivo. Habermas recupera la tradizione illuminista riabilitando il formalismo Kantiano, tradotto nei termini di una intersoggettività comunicativa. Ritenendo possibile una fondazione oggettiva della razionalità, Habermas ridefinisce così il concetto di ideologia come comunicazione distorta, nel tentativo di elaborare una teoria globale e universalista dei fenomeni sociali. Habermas riprende pacificamente le tematiche presenti nella teoria weberiana dell’agire, nel materialismo storico e nel funzionalismo rielaborando soprattutto i contributi della filosofia analitica del linguaggio e dell’internazionalismo simbolico. Gli anni 80 diventano una svolta radicale, nella quale egli si avvicina a delineare in maniera sempre più precisa e penetrante, il tema principale lungo l’intero arco della sua produzione ovvero il tema della ragione comunicativa. L’opera habermasiana può essere scomposta in 5 nuclei teorici fondamentali: - La sociologia del sapere quale critica delle ideologie - La teoria consensuale della verità - La teoria della ragione o dell’agire comunicativo - L’etica del discorso - La teoria discorsiva del diritto e della democrazia Si tratta di nuclei del tutto interconnessi, al cui interno si delinea un pensiero complesso. 17.2 Nell’opera “Conoscenza e interesse”, Habermas mette in evidenza la relazione tra l’elemento sociale e la sfera del sapere, sviluppando una critica al razionalismo scientista di tipo positivistico, il quale non riconoscerebbe il vincolo che lega la conoscenza all’interesse che la muove. L’atteggiamento epistemologico del positivismo attribuisce agli enunciati scientifici una consistenza oggettiva e autonoma, nascondendo così la dimensione all’interno della quale si viene invece formando il significato di quegli stessi enunciati. Tuttavia, se i presupposti che costituiscono il quadro di riferimento di tali formulazioni vengono esplicitati e valutati criticamente, allora l’apparenza oggettivistica viene meno e si rende visibile la presenza dell’interesse particolare che orienta ogni forma concreta di conoscenza. Per il primo Habermas, gli enunciati scientifici risultano essere il risultato dell’organizzazione della nostra esperienza nell’ambito funzionale dell’agire strumentale. I cosiddetti “fatti” sarebbero perciò sempre il prodotto del rapporto tra la cosa e la sua interpretazione, nel quadro di un contesto storico e sociale già dato. Habermas scrive: “si può indicare una connessione tra regole logico-metodiche e interessi-guida della conoscenza per tre categorie di processi di ricerca. Questo è il compito di una teoria critica della scienza che sfugge alle trappole del positivismo. All’approccio delle scienze empirico-analitiche inerisce un interesse conoscitivo teorico, a quello delle scienze storico-ermeneutiche uno pratico e a quello delle scienze orientate criticamente l’interesse conoscitivo emancipativo. Le prime mirano all’agire strumentale, le seconde all’intesa comunicativa e le ultime all’emancipazione. Queste ultima infatti intendono porsi come pratiche di sapere demistificanti, che sulla base dell’autoriflessione liberano il soggetto e suscitano una progressiva presa di coscienza, alla quale corrisponde una altrettanto progressiva liberazione dalle forme di alienazione. 17.3 Il primo Habermas si confronta poi con i termini della tradizione ermeneutica. Egli cerca di mostrare come una rivisitazione del marxismo e il definitivo superamento di una impostazione positivista del conoscere, debbano passare attraverso la rielaborazione della nozione ermeneutica di “appartenenza”. Agli occhi di Hbermas, la prospettiva ermeneutica sembra chiudersi in uno sterile relativismo. Rinunciando a concepire la verità come il risultato di un processo oggettivo di comprensione, l’ermeneutica finirebbe infatti con l’indebolire qualsiasi attività critica. Ma ciò significherebbe non riconoscere la possibilità che si dia il falso e quindi significherebbe ammettere che sia vero tutto e il contrario di tutto. Nella teoria critica, invece, risulta ben evidente come esistano trappole, inganni che determinano l’assoggettamento di individui e di gruppi sociali ai sistemi dominanti. Esistono le ideologie ovvero configurazioni di pensiero per cui il linguaggio agisce sui rapporti sociali in difesa di certi interessi. Per opporsi a tale deriva, Habermas ricorre all’elaborazione di una meta-ermeneutica o ermeneutica del profondo, nella quale il pensiero critico non deformato possa emergere come orizzonte del discorso razionale. Ciò significa che il problema della comprensione non debba più essere affrontato nei termini della sua genesi trascendentale, bensì in quelli dell’analisi logica dei modi di produzione dei significati. In altri termini si tratta di sostituire il paradigma coscienzialistico della tradizione filosofica con quello linguistico pragmatico. Con Ludwig Wittgenstein, la dimensione del linguaggio era in effetti diventata un oggetto di indagine autonomo, non più connesso allo spazio della dimensione della coscienza. L’azione è considerata nei termini di un’interazione caratterizzata esclusivamente dalle regole della comunicazione linguistica. Il vincolo tra comportamento e motivazione viene a cadere e il soggetto, inteso come centro razionale di decisione, si dissolve nelle pratiche di identificazione che l’orizzonte intersoggettivo del linguaggio rende possibili. Le forme di vita vengono colte in base a regole grammaticali relative a giochi linguistici. Il linguaggio non indica semplicemente relazioni tra segni, bensì relazioni tra azioni. Il rapporto tra linguaggio e realtà non può essere compreso se si prescinde dall’incidenza che le forme di vita esercitano sui fatti linguistici. Habermas individua un nuovo criterio della distinzione tra scienze sociali e scienze naturali: “Una norma può essere infranta, ma non per principio una legge naturale. Relativamente alla norma che la guida, un’azione può essere corretta o errata; mentre una legge sì non è confutata da prognosi errate”. 17.4 Da ciò si deduce che il linguaggio nella sua forma e nel suo sviluppo non va pensato nei termini di stimolo risposta, anzi si dovrà dire che le regole grammaticali non si manifestano direttamente nel comportamento verbale osservabile. In questa prospettiva, Habermas mette in rilievo la natura specifica del processo di apprendimento del sistema linguistico, il quale si sviluppa solo in connessione con l’interiorizzazione delle regole grammaticali. L’analisi del linguaggio si rivela essere così determinante nella nuova impostazione del problema di una Fondazione razionale della dimensione sociale dell’agire umano. Tuttavia, Habermas mette altresì in evidenza come non si debba cadere in una sorta di riduzionismo linguistico, dal momento che il cosiddetto linguistic turn porne in ogni caso una serie di questioni ancora del tutto aperte, evidenziando una molteplicità di limiti. Tali limiti sarebbero rintracciabili nella pretesa che il linguaggio si dia in una dimensione metastorica e nella tendenza ha esaurire la complessità del rapporto tra linguaggio e prassi nel rilevamento dell’intersoggettività delle regole linguistiche. Tenendo fermi tali limiti, Habermas ha elaborato una teoria dell’agire comunicativo volta hai includere sia una teoria consensuale della verità, sia una teoria dell’evoluzione dei sistemi sociali. L’unità di azione e linguaggio per la quale il dire e un fare e ripresa da habermas per dimostrare come alla base di ogni relazione comunicativa vi siano presupposti non trascendibili di verità e irrazionalità, i quali, possono fornire un parametro generale di riferimento per riconoscere le forme distorte di comunicazione. Alla luce di tali presupposti, l’agire e comunicativo viene specificando così in relazione al concetto di situazione della comunicazione ideale; Questo concetto si ricollega alla teoria dell’a priori della comunicazione di Karl Otto Apel per il quale l’a priori kantiano anziché essere una struttura fondante della ragione, sarebbe intrinseco al linguaggio stesso. L’adesione dei parlanti a regole comuni e la stessa intenzione di verità del parlante non possono essere confutate senza contraddizioni. Riconoscere tali regole significa riconoscere l’eguale diritto di tutti alla comunicazione, senza interventi esterni di manipolazione di costrizione. Per questa ragione, la logica del discorso non respinge l’etica, ma anzi la include offrendo al contempo hai parlanti la possibilità di oltrepassare la propria finitezza nella comunità illimitata della comunicazione. Analogamente habermas ritiene che l’insieme possibile di atti linguistici si basi necessariamente su pretese di validità, configurate come ragioni in grado di legittimare le proprie argomentazioni. Secondo Habermas ci sono tre tipi di pretese di verità: - Una pretesa di verità volta soddisfare esigenze di tipo esistenziale è corrispondente al mondo oggettivo - Una pretesa di correttezza volta alla legittimazione dell’ambito normativo del discorso in rapporto al mondo sociale - Una pretesa di verità quale sincerità, riferita alle intenzionalità soggettive del parlante è corrispondente al dispiegarsi del mondo soggettivo. Per Habermas, l’agire sociale se da un lato si concretizza nelle forme dell’agire comunicativo (agire orientato alla comprensione) dall’altro dà luogo anche ad azioni di tipo strumentale e strategico (agire orientato al successo). Il vantaggio personale che si vuole conseguire passa attraverso un’interazione con l’altro, nel tentativo di orientarne le decisioni. Nell’agire strategico vi è cooperazione solo se esso si inscrive in situazioni di interesse in grado di accomunare i soggetti che vi partecipano. Invece nella razionalità comunicativa hanno luogo l’oltrepassamento degli interessi egocentrici e il recupero di uno spazio di comprensione in grado di contenere la tendenza all’isolamento da parte dell’individuo. Il concetto di razionalità comunicativa costituisce pertanto il criterio universale di riferimento della situazione linguistica e aspettative di comportamento che condizionano le interazioni quotidiane e l’agire delle persone nei contesti. Un esperimento è diventato particolarmente famoso: Il sociologo americano chiedeva agli studenti di modificare il proprio comportamento nelle routine domestiche con i familiari per un’ora al giorno. L’esperimento consisteva nell’assumere con i propri familiari atteggiamento distaccato ed efferente che abitualmente si ha tra sconosciuti. Usavano per esempio la forma di cortesia lei anziché il colloquiale tu con i propri familiari oppure chiedevano il permesso per svolgere attività comuni come prendere un bicchiere d’acqua o andare in bagno. Le reazioni più comuni dei genitori erano la messa in discussione della salute dei figli oppure l’accusa di essere presa in giro e derisi. L’effetto della rottura era talmente evidente che bastavano poche interazioni per destabilizzare l’ordine sociale familiare. Diventava così faticoso protrarlo ulteriormente poiché la rottura della routine familiare si accompagnava con sentimenti di preoccupazione o aggressività nei confronti del trasgressore. Un altro tipo di esperimenti riguardava la rottura delle convenzioni comunicative nelle conversazioni tutti i giorni. Nella vita di tutti i giorni nessuno si aspetta che l’espressione verbale “come stai?” sia un’effettiva richiesta di informazioni, quando si incontra una persona. Si è abituati a ricambiare il saluto e a procedere con la conversazione. La linguistica ha elaborato il concetto di comunicazione fàtica per indicare i messaggi che hanno il solo scopo di stabilire, mantenere, verificare o interrompere il contatto tra mittente e destinatario. Prendere alla lettera l’espressione, interpretarla come una richiesta informativa mette in crisi le aspettative date per scontate, proietta le persone in un territorio comunicativo inedito, al di fuori delle rassicuranti abitudini convenzionali con conseguenti smarrimento e irritazione. L’ordine preesistente, le aspettative date per scontate, non vengono mai messe in discussione. Gli esperimenti di rottura sono particolarmente importanti perché aiutano Garfinkel a mostrare due aspetti centrali nella sua teoria sociologica: - Il grado di coercizione che governa le interazioni sociali e come questo sia incorporato nella conoscenza di senso comune e nei repertori comportamentali cui si attinge abitualmente nella vita quotidiana - La centralità delle interazioni comunicative, delle conversazioni quotidiane e dei racconti condivisi che costituiscono il terreno comune dell’ordine sociale. 18.1.3 Un altro filone di ricerca, nato grazie a Harvey Sacks e i suoi collaboratori, è l’analisi della conversazione. Questo approccio circoscrive il proprio oggetto di studio all’interazione comunicativa (la conversazione) e sostiene che attraverso l’analisi delle trascrizioni delle conversazioni sia possibile rintracciare la struttura dell’ordine sociale nel modo in cui le persone parlano, nella scelta delle parole, nell’ordine con cui si svolge la conversazione, anche nei suoi aspetti non verbali e paraverbali. Attraverso l’analisi dettagliata del linguaggio e delle interazioni comunicative, gli studiosi di analisi della conversazione hanno prodotto una vasta mole di repertori comunicativi in cui hanno indagato le regole sociali che sottendono i turni di parola (l’ordine con cui le persone intervengono in una conversazione), l’organizzazione delle sequenze (sezioni della conversazione caratterizzate da una finalità o da un senso preciso, come il saluto, l’accordo o la rottura) e le coppie di adiacenza (forme ricorrenti della comunicazione che sono di norma collegate in coppia, come ricambiarsi il saluto a vicenda, domandare e rispondere, accusare e difendersi). Il concetto teorico chiave per chi si occupa di analisi della conversazione è l’indicalità ovvero l’idea che ogni azione comunicativa possa essere compresa in relazione al più ampio svolgimento della conversazione. Si prenda l’espressione “fai questa cosa”: il termine “cosa” possiede proprietà indicali poiché implica un significato condiviso tra chi parla, e questa condivisione rappresenta a sua volta un legame sociale, un legame che deve essere ulteriormente indagato considerando la risposta per scoprire se sussistono rapporti di potere, gerarchie di comando, o altre forme di coordinamento che stabilizzano l’interazione. L’individualità è centrale nell’analisi della conversazione perché, da un lato, attraverso lo studio di questi termini è possibile desumere il significato dell’azione comunicativa rispetto al contesto e ai parlanti e, dall’altro, perché è proprio mediante questi termini che il contesto si riproduce e l’ordine sociale si mantiene stabile. L’etnometodologia e l’analisi della conversazione si differenziano soprattutto per due aspetti: gli obiettivi conoscitivi e gli strumenti utilizzati. Rispetto al primo, mentre l’etnometodologia nell’accezione di Garfinkel si interessa di come le regole sociali siano messe in atto nelle specifiche situazioni e di come le pratiche ordinarie e i resoconti dei membri costruiscano la percezione di naturalità che pervade la quotidianità, l’analisi della conversazione cerca ricorrenze e regolarità tra le pieghe del linguaggio per identificare regole universali che possono essere estrapolate e codificate come elementi invariabili dell’interazione sociale, a prescindere dal contesto storico culturale e dalla situazione sociale. Anche i metodi utilizzati dagli studiosi sono differenti: Gli etnometodologi privilegiano strumenti di tipo etnografico, come l’osservazione partecipante e le interviste per cogliere l’attività ordinaria nel suo svolgersi concreto; chi invece pratica l’analisi della conversazione si a vale unicamente della registrazione, tramite audio o video, di interazioni comunicative che sono poi trascritte minuziosamente e analizzate seguendo un approccio induttivo per ricavare leggi universali a partire dalle regolarità individuate nel materiale empirico. 18.2 Gli scritti che ha lasciato sono complessi e caratterizzati da una prosa di difficile comprensione, a tratti quasi ermetica, e da un rigore concettuale formidabile, nello sforzo continuo di giungere alla comprensione profonda e più ampia possibile delle proprietà univoche e irripetibili che caratterizzano la vita quotidiana. Anche il suo atteggiamento critico verso la sociologia convenzionale, a cui rimproverava di non problematizzare gli oggetti stessi del proprio lavoro, non ha certo giovato ha la diffusione del suo pensiero e dei suoi lavori. Una delle voci più critiche e Lewis Coser, che proprio durante un’assemblea si scaglierà contro Garfinkel, accusandolo di perdere tempo in descrizioni prolisse di fenomeni insignificanti e di rinchiudere gli individui dentro gabbie cognitive, prospettiva di nessun interesse sociologico. Facendo però un balzo in avanti fino ai giorni nostri, la gran parte degli studi sociali sulla scienza e sulla tecnologia che indagano le pratiche concrete attraverso le quali si realizzano l’innovazione scientifica e lo sviluppo tecnologico si rifà direttamente al paradigma etnometodologico e sta tuttora contribuendo a mostrare come anche centri di ricerca e laboratori scientifici non siano esenti dai condizionamenti tipici della conoscenza di senso comune e dalla pervasività dell’ordine sociale. Achille Ardigò tra mondi vitali e sistema sociale Nasce a San Daniele del Friuli nel 1921. È un protagonista di primo piano della ripresa della sociologia in Italia una volta finita la seconda guerra mondiale e caduto il fascismo che ne aveva impedito lo sviluppo. E attivamente presente in quella ristretta cerchia di intellettuali che intendono affrontare la realtà sociale con nuove chiavi di lettura scientificamente fondate. 19.1 Nel 1943 entra nella resistenza, iniziando a svolgere attività partigiana e partecipando a diverse azioni belliche anche fuori dall’area bolognese. Con la liberazione, Ardigò per la prima volta sperimenta pienamente la possibilità di integrare impegno religioso, azione politica ed elaborazione scientifica e culturale avendo già aderito negli, anni 30, all’azione cattolica e successivamente alla Federazione universitaria cattolica italiana. Nell’immediato dopoguerra inizia la collaborazione con il quotidiano “Avvenire d’Italia”, mentre sul piano politico interviene nei più importanti convegni della Democrazia Cristiana (DC). Studio e impegno politico divengono ancora più marcati con l’incontro con Giuseppe Dossetti, vice segretario della dc nell’immediato dopoguerra. In questo periodo matura in lui un profondo interesse per le trasformazioni della realtà sociale del paese. In risposta alle lotte contadine il governo De Gasperi aveva favorito l’approvazione 1950 della cosiddetta “legge stralcio” e della “legge Sila”, parzialmente finanziate con i fondi del piano Marshall e tese alla distribuzione di ferri ai contadini. Nel 1951 egli diventa capo ufficio stampa dell’ente Maremma e fucino, e successivamente passò al ministero dell’agricoltura con compiti di studio. In questi anni Ardigò effetto uno dei primi studi di comunità italiano a Cerveteri, oggetto di uno dei principali espropri di terre da secoli proprietà quasi esclusiva di poche famiglie del grande patriziato romano. Raccontato diretto con le condizioni delle popolazioni rurali il sociologo trae una spinta per approfondire scientificamente la complessa stratificazione sociale allora tipica di una parte rilevante del nostro paese e i differenziati percorsi dell’innovazione sociale tecnologica in boccati con la costruzione e modernizzazione del paese. Alcune sue prime opere in argomento sono disseminate di considerazioni illuminanti sulla epocalità delle trasformazioni sociali in corso e sulla insostenibilità delle disuguaglianze sociali. In quegli anni la divisione del lavoro scientifico anche in campo sociologico, è incredibilmente meno sviluppata di oggi, tuttavia il suo coinvolgimento nelle problematiche della riforma agraria sono tali da caratterizzarne il percorso intellettuale iniziale. Sempre nei primi anni 50, svolge per alcune annualità un corso di sociologia presso l’università Pro Deo di Roma. Sarà solo entrando in contatto con il Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale di Milano che Ardigò potrà affacciarsi direttamente sul mondo della ricerca sociologica internazionale, potendo partecipare al quarto Congresso dell’international Sociological Association. Nel 1955 Ardigò è richiamato a Bologna per partecipare alla campagna elettorale di Dossetti, che aveva accettato di sfidare Giuseppe Dozza, sindaco comunista della città. Dossetti avvia una campagna elettorale innovativa sulla base di un articolato programma condensato in un testo, il Libro bianco su Bologna, a cui si deve ad Ardigò il contributo della sua stesura. Per la redazione del Libro bianco, Ardigò aveva promosso a Bologna la costituzione di un gruppo di ricerca, strutturato così nel 1958 come centro studi sociali ed amministrati finalizzato allo svolgimento di una serie di ricerche sociologiche. Con i primi anni 60 la riflessione artigiana si allarga progressivamente ad altri ambiti di ricerca: è il caso della sociologia della famiglia e della sociologia dell’educazione. Sul finire degli anni 50, con un cambio di clima politico nel paese, iniziano a maturare i tempi per una svolta con governi di centrosinistra. Con la nuova stagione di riformismo democratico Ardigò acquisisce via via una posizione politica di rilievo. Gli anni 60 vedono il suo inserimento progressivo nell’ateneo bolognese, dove arrivo riceve finalmente l’incarico di un insegnamento di sociologia nell’ambito della facoltà di Magistero, alcuni interno nascerà un istituto di sociologia. Nei primi anni 70 il sociologo si distacca progressivamente dalla DC e nel 1973 si dimette dal consiglio nazionale del partito. Negli stessi anni, Ardigò prosegue il suo forte impegno sul piano istituzionale, Contribuendo con le proprie competenze alla realizzazione delle importanti riforme del periodo. L’approvazione della riforma sanitaria nel 1978 e per Ardigò l’occasione per intrecciare in maniera sinergica il suo impegno riformatore in una qualificata sede istituzionale e i suoi interessi scientifici. Nel suo pensiero la riforma sanitaria è considerata un grande esperimento sociologico. Il suo interesse per le problematiche della salute è parte integrante di uno più generale verso l’analisi sociologica del welfare e delle politiche sociali. Nel corso degli anni 70, Ardigò matura via via la convinzione secondo cui qualunque prospettiva di sviluppo delle società contemporanee richieda una crescente autonomia del sociale. Ai suoi occhi si stanno verificando le condizioni per l’emergere di nuovi modi di combinare autonomia della persona, protagonismo dei corpi intermedi e forme avanzate di amministrazione e di governo. I suoi interessi teorici caratterizzati da una stessa tensione scientifica ed etica politica si posizionano su due dimensioni La sua analisi a proposito del funzionamento delle società contemporanee e in particolare di quella italiana mostra ancora a distanza di 40 anni una sua solidità. La strada indicata è quella di riaprire il confronto tra soggettività di mondi vitali e le singole maggiori istituzioni e i singoli sottosistemi sociali: economico, politico-statuale, socio-culturale. 19.2.2 Gli autori con i quali si confronta criticamente sono soprattutto Raymond Boudon e Niklas Luhmann, rappresentanti rispettivamente dell’individualismo metodologico e dell’illuminismo sociologico, ritenuti entrambi incapaci di superare i limiti del pensiero postmoderno. Occorre a suo parere distanziarsi dalla nozione di soggetto inviata da queste due teorie sociologiche, giudicata riduttiva nel caso di Boudon e non tematizzata nel caso di Luhmann. Con “Crisi di governabilità” ha messo in luce l’idea di mondo vitale, dimostratasi capace di fruttuose elaborazioni, con “Per una sociologia oltre il postmoderno” Ardigò irrompe con il concetto di empatia e il suo indubbio carico di sollecitazioni provenienti dalla fucina fenomenologica. L’elaborazione ardigoiana riesce a rintracciare alcune illuminazioni in grado di giungere a una fondazione antropologica del sapere sociale. Si tratta di una vita che nasce dall’empatia, dalla scoperta dell’altro me come Alter Ego, dalla comunicazione e interazione intersoggettiva nel mondo-della-vita, verso la comprensione reciproca, malgrado la presenza di relazioni asimmetriche impersonali. Il recupero di argomentazioni husserliane diviene più esplicito e al contempo si allarga a comprendere e a valorizzare il contributo di Edith Stein (allieva di Husserl), giudicato di maggiore realismo ed efficacia. Il modello proposto da Ardigò per tale percorso, ripreso da Husserl e dalla Stein, è il seguente: - L’empatia come genesi di ogni socializzazione, che si affianca ad altri due processi fondamentali della coscienza del soggetto persona: da un lato l’introspezione e dall’altro la motivazione. - La corporeità considerata sia come natura oggetto di studio delle scienze naturali sia come corpo vivente già indissolubile connessione di senso con la coscienza. - Il mondo della vita: regno di evidenze originarie - L’oggettività intersoggettiva: come avvenuta rifondazione del sociale da parte di consapevoli soggettività L’insieme dei 4 temi fonda il nucleo della fenomenologia come scienza della soggettività intenzionale della coscienza proiettata verso l’esperire vivente dell’altro da sé verso una oggettivazione intersoggettiva e sociale del conoscere. Il suo intento è quello di farsi promotore di una fondazione del discorso sociologico ambivalente, capace di concepire una intenzionalità soggettiva della coscienza in grado di giungere alla comprensione di dinamiche macro-societarie anche oggettivate astrattamente. Attraverso la concettualizzazione dell’empatia identifica una via d’uscita teorica non senza nascondersi le difficoltà della propria proposta. Si tratta a suo avviso di una piccola porta attraverso la quale si gioca una sfida più grande. La proposta teorica avanzata in “Per una sociologia oltre il postmoderno”, da intendersi soprattutto come una nuova pista di ricerca ricavata in larga misura da uno stretto confronto con le posizioni emergenti nel dibattito sociologico, risulta di particolare complessità per via della molteplicità di riferimenti ad autori o scuole sociologiche e filosofiche che in questo contesto non è possibile riportare. Si può forse riassumere sottolineando che la valenza più distintiva della sua proposta consista nel fare entrare in campo una capacità di esperire soggetti altri da noi in grado di costruire una prospettiva sociologica il cui attore conservi in modo pregnante le caratteristiche esistenziali dell’uomo concreto. 19.2.3 Sono stati molti gli ambiti in cui si è cimentato il suo operato scientifico, ma la tematica maggiormente connessa al cantiere di idee aperto con “Crisi di governabilità” senza dubbio quella del welfare delle politiche sociali. Per affrontare tale problematica, ancora poco frequentata dalla sociologia italiana, ritiene si debba individuare sì alla genesi dei diversi modelli di welfare sia le condizioni con le quali l’espansione degli interventi dello Stato può continuare in modo sostenibile e al tempo stesso legittimato, perseguendo l’umanizzazione degli interventi rivolti alla persona con le sue specificità fragilità. La sua attenzione si è rivolta poi a una molteplicità di altre problematiche specifiche come quelle del mix pubblico-privato, del volontariato, del terzo settore e della povertà, testimoniando la prolificità del proprio approccio. Intimamente connessa a questa problematica l’altra nella quale Ardigò ha concentrato tante sue energie e rispetto alla quale ha dato vita a una sorta di scuola di pensiero è quella della sociologia della salute e dell’organizzazione delle cure e degli interventi connessi. Il nuovo paradigma è formulato da Ardigò facendo riferimento a quattro coordinate concettuali tra loro connesse: - Aa. La natura esterna, l’ambiente fisico - Ab. Il sistema sociale come trama di relazioni sociali e istituzioni - Ac. La natura interna delle persone, la loro base psichica e i loro corpi - Ad. Le persona coscienti e capaci di intersoggettive relazioni di mondo vitale quotidiano. Questa coordinata può essere scomposta in due: il soggetto capace di consapevolezza (self) e le relazioni di mondi vitali quotidiani. Su queste basi si sviluppa la sua posizione sui fenomeni di salute/malattia e del complesso sanitario, visti come una delle tante forme del nesso tra sistema sociale e attore sociale. Negli anni 80 Ardigò si avvicina anche ad un’altra tematica che lo appassiona: l’intelligenza artificiale (IA), intesa come snodo concettuale ed epistemologico che non si limita alla scienze dure, ma offre stimoli a tutta la riflessione sociologica e anche filosofica ed epistemologica sul senso della vita umana. Le sue riflessioni a questo proposito prendono le mosse, innanzitutto dall’” ambiguità epistemologica” connessa a tale concetto, per sciogliere la quale occorre capire come si formi e si organizzi la coscienza umana. In termini più generali la sociologia è sempre più chiamata ad occuparsi dei molteplici impatti sociali delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, partendo dalla constatazione che si sarebbe verificata una trasformazione della comunicazione sociale in tre diverse direzioni: macro-macro, micro-macro e micro-micro. Si tratta non solo di ricondurre le potenzialità derivanti dall’uso delle nuove tecnologie al merito delle prestazioni dei singoli prodotti o delle singole nuove infrastrutture, ma di indagare attentamente le relazioni che caratterizzano rispettivamente: - I sistemi di nuove tecnologie interfaccianti livelli macro, attraverso relazioni intersistemiche tra due o più sistemi sociali complessi - I sistemi di nuove tecnologie per comunicazioni tra livelli macro e micro, attraverso relazioni tra sistemi sociali e persone singole o piccoli gruppi di mondo vitale. Esempi di tal genere di relazioni macro-micro sono le esperienze di usi telematici nei rapporti tra pubbliche amministrazioni e servizi di welfare pubblico e i singoli cittadini utenti, dall’altro le esperienze di networks elettronici metropolitani, di centri civici di informazioni e le applicazioni di telemedicina, teleassistenza, telesoccorso, teleconsultazione ma anche operazioni bancarie tramite posta elettronica, teleconferenze e telelavoro. - I sistemi di nuove tecnologie interfaccianti livelli micro, ovvero piccoli sistemi interposti nelle relazioni tra persone o tra piccoli gruppi di ambiente umano. Solo le ultime due dimensioni a interessare in modo particolare Ardigò perché presentano le maggiori novità in termini di impatto del nesso uomo-macchina intelligente di tipo qualitativo nella terza delle suddette dimensioni e di tipo quantitativo nella seconda. Inoltre, tra gli innumerevoli interessi che hanno animato Ardigò come persona, prima ancora che some sociologo, vi è il tema degli ultimi, delle fasce sociali più deboli, degli emarginati, degli handicappati, dei portatori di nuove identità deboli. È forse il primo scopritore di tutto il mondo del non profit, dell’associazionismo, del volontariato quale sistema di relazioni e di non risorse fondamentali anche all’interno delle moderne società complesse. 19.3 Il suo apporto al dibattito sociologico italiano è quasi unanimemente considerato di rilievo e di qualità e ha ricevuto soprattutto da parte dei suoi allievi e di non pochi colleghi in una certa assonanza con il suo approccio, profonde riflessioni che hanno approfondito e riletto criticamente i suoi molti lavori. In occasione poi del centenario della sua nascita, si sono aggiunti altri interventi che completano il quadro utilizzabile per un inquadramento di questa figura della sociologia italiana. Non c’è dubbio che egli sia stato tra i primi a introdurre nel nostro Paese e nelle aule delle nostre università italiane alcune branche specialistiche della disciplina. Di rilievo è anche la sua attenzione all’aspetto empirico della nostra disciplina, all’esigenza di collegarne gli impianti analitici alla raccolta e all’analisi del dato. Ralf Gustav Dahrendorf e il mutamento delle classi sociali Ralf Dahrendorf nasce ad Amburgo nel 1929. È un intellettuale pubblico tra coloro che hanno come imperativo della loro professione il prendere parte ai discorsi pubblici dominanti nel tempo in cui vivono. Il padre Gustav era una figura pubblica e aveva 28 anni quando, per la festa del lavoro, nacque Ralf. I socialdemocratici nel 1933 votarono contro la legge delega che attribuiva a Hitler poteri illimitati. Allora, come altri oppositori, Gustav fu arrestato una prima volta e poi di nuovo nel 1944, dopo il fallito attentato a Hitler. Questa volta, per mancanza di prova, scontò 7 anni. Ralf Dahrendorf è diretto testimone di momenti chiave del ‘900. L’arresto improvviso nel dicembre del 1944, all’età di 15 anni, l’esperienza del carcere, e poi quella del lager segnano un punto di svolta rilevante nella sua vita. Nel campo vive nel gelo e nel terrore, assiste alla morte di molti detenuti per motivi di pubblica sicurezza, ex funzionari di partiti di sinistra e delle relative organizzazioni, omosessuali. Ma nel lager fa esperienza del “Natale più indimenticabile” grazie all’amicizia tra i detenuti tedeschi che si sentono parte di una comunità basata su vincoli semplici. Dopo la caduta del regime nazista, a Berlino un nuovo totalitarismo si evidenzia sin dalle prime ordinanze dell’amministrazione militare sovietica, segnando l’inizio di un nuovo ordine. Quando il padre si rifiutò di rinunciare al partito socialdemocratico per farlo convergere in quello comunista, la situazione si inasprì, così decisero di fuggire con l’aiuto delle forze d’occupazione americane e britanniche. Un punto di svolta che pone fine all’incubo della dittatura e alla scoperta della democrazia. L’incontro con Karl Popper costituisce un faro teorico e metodologico che illuminerà l’intera sua produzione scientifica. L’incontro confermò e approfondì il suo desiderio di esercitare la sociologia, inclusa l’analisi della società nel suo complesso, come scienza dell’esperienza. I contributi di Dahrendorf hanno animato il dibattito accademico e con le sue dichiarazioni, interviste ed articoli, sono stati al centro di una più vasta agenda pubblica, grazie al tentativo di spiegare il mutamento sociale partendo dai conflitti. Dalla sua produzione, ci sono alcuni elementi sui quali l’autore pone molta attenzione: - Il conflitto e il mutamento sociale nella società industriale e preindustriale - La quadratura del cerchio: come coniugare benessere economico e coesione sociale in condizioni di libertà politica? - Rivoluzioni, liberalismo e democrazia contro vecchie e nuove forme di libertà - Il rapporto tra teoria e prassi e il ruolo degli intellettuali opzioni umane è la mobilità, cioè la possibilità di spostarsi da un posto di lavoro ad un altro, o da una classe sociale all’altra, e da un partito politico ad un altro. La modernità porta numerosi vantaggi come la diminuzione dei dolori grazie alla moderna medicina o il godimento dell’arte aperto a molti dai moderni metodi di riproduzione. Questi vantaggi si possono dividere in due gruppi: i diritti civili e il benessere. Messi insieme costituiscono quello che egli chiamava chances di vita. Il “Primo mondo”, quello occidentale, si distingue dal “Secondo mondo”, dell’oppressione comunista, e dal “Terzo mondo”, della miseria, della malattia e della prostrazione. Nella sua epoca migliore, il primo mondo univa tre aspetti della vita sociale: le economie che offrivano una vita decente a molti e opportunità per chi non era ancora arrivato alla prosperità; l’avvenuto passaggio dello status al contratto; e infine programmi politici che combinavano partecipazione politica, rispetto dello Stato di diritto e possibilità di ricambio dei governi senza l’uso della violenza (democrazia). La perfezione del primo mondo nella stagione del suo apice aveva una pecca: tutti i suoi membri escludevano gli altri dai benefici delle loro conquiste e persino delle loro opportunità. Per esempio, negli Stati Uniti ci sono state numerose battaglie per l’inclusione: dalla guerra civile, alle campagne per i diritti civili, fino alle vicende del sottoproletariato di oggi. L’universalizzazione dei benefici del Primo mondo e ciò che viene definito sviluppo, ma si è venuta a creare una situazione paradossale e drammatica per cui i paesi OCSE, per mantenere le opportunità economiche dei propri cittadini e restare competitivi nel mercato mondiale, adottano misure che danneggiano irrevocabilmente la coesione delle proprie società civili. In alcuni casi persino ricorrendo a nuove forme di autoritarismo che restringono libertà civili e partecipazione politica. Da qui il dilemma sulle strategie da utilizzare per far quadrare il cerchio tra creazione della ricchezza, coesione sociale e libertà politica. La quadratura del cerchio è impossibile ma ci si può forse avvicinare. Le Tigri asiatiche (Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Hong Kong) sono alla ricerca di una rapida crescita economica e hanno una robusta coesione sociale, ma non si preoccupano di promuovere la democrazia e lo stato di diritto. La globalizzazione impone vincoli e scelte: flessibilità, deregulation e minore interferenza dello Stato rischiano di non far quadrare il cerchio. Occorre scegliere tra economie a basse retribuzioni o economie ad alta specializzazione, tra contenimento della spesa fiscale e contributiva e alti guadagni o tra una sostenuta pressione fiscale e contributiva abbinata a una bassa distribuzione dei profitti, tra natura privata o pubblica dei costi dell’assistenza. Anche la società civile è sotto pressione poiché paura, violenza e fondamentalismi la minacciano. La globalizzazione economica è associata a nuove forme di esclusione sociale, aumentano le disuguaglianze di reddito e c’è una sistematica divergenza delle prospettive di vita per ampi strati della popolazione: ad alcuni si spiana la strada verso le vette, ad altri si cerca di intralciare il cammino. I redditi delle fasce più benestanti della popolazione stanno crescendo in maniera significativa, mentre i redditi delle persone appartenenti alle fasce più povere vanno calando. Il sottoproletariato (underclass) sembra aver perso contatto con la sfera della cittadinanza, gli emarginati sociali non costituiscono una classe, ma spesso attuano forme di disordine attivo. Nelle società aperte vivono presunti cittadini che di fatto sono non-cittadini, i criteri scelti per la loro esclusione diventano una scusante della discriminazione, della xenofobia e spesso della violenza. Alcuni tra gli esclusi non sono più considerati utili alla crescita economica e sono ritenuti un costo per la società. Povertà e disoccupazione minacciano la stessa struttura portante della società. Si assiste alla distruzione di elementi rilevanti della vita comunitaria e allo stesso tempo ha una maggiore insicurezza personale. La libertà fiorisce solo in un clima di fiducia: fiducia in sé stessi e nelle opportunità offerte dal proprio ambiente, ma anche nella capacità del gruppo sociale in cui si vive di garantire certe regole fondamentali, lo stato di diritto. Quando la fiducia comincia a incrinarsi, anche la libertà arretra su una posizione meno articolata, quella caratterizzata dalla guerra di tutti contro tutti. In questo stato di anomia prosperano le richieste di uomini forti al comando, di legge e ordine, verso nuove forme di autoritarismo. La tentazione dell’autoritarismo asiatico seduce anche l’occidente. Le modeste proposte di Dahrendorf suggeriscono di: 1. Cambiare linguaggio dell’economia pubblica, abbandonando l’o feconomicismo 2. Riconoscere che la natura del lavoro sta cambiando e che la carriera lavorativa unica per la vita sarà l’eccezione, promuovendo la formazione e il riaddestramento 3. Intervenire recuperando gli esclusi, prima che il sottoproletariato diventi un problema insuperabile 4. Contrastare i processi di individualizzazione e centralizzazione, innescati dalla globalizzazione, valorizzando il potere locale 5. Coinvolgere gli stakeholder 6. Riconoscere le fondamentali responsabilità nella sfera pubblica dei governi e delle istituzioni. Queste sei proposte mirano a rafforzare la coesione sociale, intervenendo su quei vincoli che definisce legature: gli uomini hanno bisogno di qualcosa di più dei diritti e del denaro per vivere una vita piena e soddisfacente. Tutti noi abbiamo bisogno di vincoli e rapporti che ci impediscano di scivolare in una condizione di anomia, di disorientamento di mancanza di norme. Se i vincoli vengono sostituiti ampiamente da opzioni individuali, il fondamento normativo della società è minacciato. E reciprocamente, si sfaldano i vincoli se la ricerca di maggior benessere diventa motivo supremo di vita degli uomini. Nuove legature nella società postmoderna, per esempio nella riconquista delle città come ambiente vitale per gli uomini e la creazione di reti sociali diverse da quelle del passato e l’estensione universale dei diritti, possono fornire quei vincoli grazie ai quali le chances di vita ottengono il loro senso umano. Libertà e indipendenza di pensiero significheranno nel ventunesimo secolo chances di vita fondate in una riflessiva cultura di vincoli umani e in un contratto sociale di istituzioni vive. La democrazia è indispensabile così come il conflitto regolato tra interessi divergenti, in una costante disponibilità al cambiamento virgola in una tensione umana che procede per prove ed errori. Questo per arrivare ad un nuovo liberalismo che non è affare di un partito ma una questione di politica costituzionale, di “regole del gioco” che fondando le società libere. Quando delle classi diventano troppo sicure della loro posizione, non si limitano a difendere lo status quo, ma lo rendono rigido. Vengono tracciati i confini per far sì che i nuovi arrivati o gli attardati non minaccino quelli che sono all’interno. Persino istituzioni che hanno il compito di rendere possibili mutamenti come parlamenti ed elezioni, diventano strumenti per frenare il mutamento e tutelare quelli che si sono ben assestati contro nuovi rischi e possibilità. Questo processo che viene definito sclerosi della società aperta non era stato previsto all’epoca delle costituzioni, Dahrendorf ne propone un rinnovamento liberale. Secondo lui, l’Europa finisce laddove l’ordine liberale cessa di affermarsi. L’ordine liberale si può definire come il dominio della legge. Un minimo di regole efficaci e affidabili è la condizione di una politica democratica, ma anche di un’efficiente economia di mercato nonché di una vitale società civile. Raymond Boudon e l’individuo Nasce a Parigi nel 1934. Raymond Boudon non ritiene affatto che la sociologia abbia per oggetto principale lo studio della società nel suo insieme. Per quanto la sociologia presenti delle trasformazioni, delle crisi che reclamano l’urgenza di una rappresentazione della società nel suo insieme, per Raimondo qualsiasi tentativo in questa direzione non può andare al di là di intuizioni generali tanto brillanti quanto non dimostrate. Egli critica il marxismo, lo strutturalismo e il feudalismo nella misura in cui costruiscono tante “scatole nere” alla fine delle quali il soggetto non ha nessuna autonomia ma è vittima dei rapporti di classe, della struttura sociale o dell’inconscio. I risultati scientificamente rilevanti sono invece raggiunti solo quando la sociologia si impegna nell’analisi dei fenomeni specifici, rispondendo a dei perché da un lato e ricostruendo le logiche degli individui dall’altro. I risultati più consistenti dell’analisi sociologica nascono non quando si passano in rassegna e si denunciano i diversi condizionamenti sociali, ma quando si analizzano le reazioni dei soggetti alle situazioni esterne che li condizionano. 21.1 Il punto di partenza per Boudon e l’individuo e, più precisamente, l’azione individuale socialmente orientata, cioè quella forma di agire che il soggetto intraprende tenendo conto dell’agire degli altri. Non si tratta di una agire per gli altri, ma consiste solamente nel prendere in considerazione l’agire possibile di questi ultimi a garanzia di una maggiore efficacia dei propri obiettivi. Quindi l’individuo non solo non è affatto chiuso in se stesso, ma per agire in modo socialmente efficace gli è necessario possedere un sapere minimo sugli altri. 21.1.1 Tuttavia, affinché l’azione sociale abbia successo, non basta possedere un sapere minimo sugli altri e sul contesto nel quale si agisce. Quasi sempre esercitiamo la nostra azione dentro una realtà già strutturata da uno specifico insieme di relazioni che possono prendere la forma di veri e propri sistemi di interdipendenza (la fabbrica, la scuola) così come possono attivarsi in contesti di interazione più generali ma comunque definenti posizioni sufficientemente visibili. All’interno dei diversi contesti, gli individui partono sempre dal loro particolare angolo di osservazione. L’occupare un particolare angolo di osservazione, l’essere cioè situato in una posizione non costituisce solo una situazione fisica, spesso è anche una condizione esistenziale. Per esempio chi si trova in un commissariato per depositare una denuncia di furto e chi invece ci è stato condotto in stato di fermo in attesa dell’interrogatorio percepiscono e osservano il luogo in due modi profondamente diversi. Ogni sociologo che faccia ricerca sul campo deve necessariamente avere empatia. Con questo termine si indica la capacità di mettersi immediatamente nella posizione dell’altro, condividendone lo stato d’animo. La posizione occupata può riguardare non solo i singoli individui ma anche interi gruppi sociali ed è decisiva per poterne comprendere l’atteggiamento d’insieme che gli caratterizza. 21.2 Raymond Boudon negli anni 70 segue i lavori dello staff di ricerca europeo che studia i problemi della disuguaglianza scolastica in Europa. La scuola in Europa continuava a registrare una meccanica riproduzione delle disuguaglianze sociali poiché i figli provenienti da famiglie economicamente modeste finivano per essere in netta minoranza nelle scuole superiori e nelle università. La mobilità sociale, cioè il poter transitare da un ceto economicamente sfavorito a uno più agiato, finiva con l’essere un’opportunità per pochi. Un tale fenomeno andava in netta contraddizione con uno dei principali obiettivi di ogni società democratica, ovvero quello di conferire un’uguaglianza delle opportunità che sfociasse in una promozione reale dei singoli individui indipendentemente dalle condizioni socio economiche delle famiglie di origine. Contro questa difficoltà a realizzare una parità effettiva non erano mancate delle teorizzazioni che mettevano sotto accusa tanto i criteri di selezione quanto i contenuti stessi dell’apprendimento scolastico. La struttura del lavoro è inevitabilmente piramidale e selettiva. I posti sono pertanto assegnati in ragione delle competenze e delle qualifiche oggettive di quanti si propongono di occuparli. Qualsiasi criterio di selezione diverso dall’accertamento delle competenze comporta dei disastri strutturali incompatibili con qualsiasi buon funzionamento di ogni struttura produttrice di beni o servizi. Tuttavia, ripercorrendo i risultati delle diverse ricerche, Boudon osserva anche la presenza di un’attitudine razionale da parte degli attori sociali. Studenti e famiglie tendono a valutare in modo differenziato i costi indiretti dell’istruzione superiore, causati dal prolungamento del periodo di studio e dal conseguente rinvio dell’ingresso nel mondo del lavoro, senza che possa essere comunque garantita la certezza di occupare la posizione professionale desiderata una volta terminato il percorso. Gli attori sociali provenienti da ceti consente all’intera sociologia di andare al di là della semplice illustrazione dei condizionamenti sociali provenienti tanto dalle condizioni immateriali d’esistenza, quanto dai rapporti di potere e dai costumi di gruppo. Il fatto di poter incorrere in errori, dovuti alla posizione sociale occupata o allo stato delle conoscenze dell’epoca, inclusi i luoghi comuni, non toglie nulla alla dimensione razionale che detengono tanto lo scienziato nel suo laboratorio quanto l’uomo comune nella sua vita ordinaria. Pierre Bourdieu e le pratiche sociali Pierre Bordieu è considerato uno dei massimi sociologi dell’era contemporanea. Rappresenta l’esempio di intellettuale francese che coniuga un’intensa vita di ricerca e con una altrettanto intensa presenza nel dibattito pubblico riguardante questioni controverse. Nasce in una famiglia non agiata in un piccolo centro della Francia meridionale nel 1930. Le ricerche in Algeria, soprattutto quelle sullo sradicamento dei contadini algerini e la nascita del sottoproletariato urbano di quel paese, segneranno profondamente il percorso intellettuale di Bordieu che si definiva un colonizzato dall’interno in quanto meridionale distante dal centro della Francia è impregnato di cultura contadina. Il tema del dominio e di come si articola nelle forme concrete e simboliche dell’agire sociale producendo e riproducendo strutture gerarchizzate dell’organizzazione sociale, costruirà una costante della sua domanda conoscitiva sulla dinamica sociale. Sono state rilevate diverse ragioni per cui il suo intero progetto culturale rimane fondamentale per la comprensione della sociologia come scienza sociale. In primo luogo, il contributo che ha fornito al dibattito sul rapporto tra struttura e azione, in secondo luogo il fatto che questo contributo al dibattito non ha riguardato solamente questioni teoriche ma ha tenuto insieme questioni che riguardano la ricerca empirica e l’impianto teorico. In terzo luogo, perché a posto questioni epistemologiche riguardanti la natura che deve avere un’adeguata conoscenza sociologica e in merito a quali debbano essere le condizioni in cui questa conoscenza diventa possibile. 22.1 La sua idea è quella di comprendere la società attraverso la comprensione delle pratiche sociali. Intende superare la visione che vede la realtà sociale come la semplice sommatoria delle azioni individuali svincolate dalle condizioni sociali in cui gli individui si trovano a vivere, quindi utilizza il concetto di pratica per spiegare quella parte dell’incomprensibilità dell’agire sociale che sfugge al primo approccio, nonché la possibilità di modificazione delle strutture, considerata non realizzabile dal secondo approccio. Più specificatamente, la distribuzione delle risorse, per esempio, determina la condizione strutturale nello spazio sociale in cui si trova ad agire un individuo. Ma la percezione, rappresentazione e riproduzione dei criteri che sono utilizzati dall’individuo nella conoscenza del mondo sono prodotti a partire da quello specifico punto di vista risultato di quelle condizioni strutturali. In breve, egli introduce il concetto di pratica, intesa sia come non teorica, sia come conveniente, nel significato di pragmatica, considerandola allora come l’articolazione di azioni routinarie incorporate dentro quelli che egli definisce campi sociali. Con campo sociale egli intende universi o microcosmi in cui attori e istituzioni sono integrati e interagiscono tra loro in base a regole specifiche che valgono per quello specifico campo. Dentro il campo la conflittualità si delinea proprio in ragione della volontà di ciascun gruppo dotato di potere di disposizione, di imporre la propria come modalità legittima di articolazione della pratica. La logica pratica è quella che gli esseri umani utilizzano nella vita quotidiana, nelle azioni e nei giudizi che vengono espressi sul mondo. È attraverso questo senso pratico che il mondo è classificato, come esplicitato nelle ricerche etnologiche da lui stesso condotte. E la ritualità, che caratterizzerebbe le pratiche delle società oggetto di studio di antropologia ed etnologia, è individuabile anche nelle pratiche che caratterizzano le società contemporanee oggetto di studio della sociologia. In breve, secondo Bourdieu, la conoscenza è sempre pratica nel senso che un’attività ma è anche il risultato di un’attività. Le parole di Bordieu: - I sistemi di classificazione hanno in comune il fatto che dimenticano che questi strumenti di conoscenza svolgono funzioni che non sono pura conoscenza: si può ammettere che la pratica implica sempre un’operazione di conoscenza, cioè un’operazione più o meno complessa di classificazione che non ha nulla in comune con una registrazione passiva; la conoscenza pratica è un’operazione di decostruzione pratica che attua sistemi di classificazione (tassonomie) che organizzano la percezione e l’apprezzamento e strutturano la pratica. Questi schemi di percezione, apprezzamento e azione che si acquisiscono attraverso la pratica e sfiatano nello stato pratico senza accedere alla rappresentazione esplicita, funzionano come operatori pratici attraverso i quali le strutture oggettive di cui sono il prodotto tendono a riprodursi nelle pratiche. Le tassonomie pratiche, strumenti di conoscenza e di comunicazione che sono la condizione per l’istituzione del significato e del consenso sul significato, esercitano la loro efficacia strutturante solo nella misura in cui sono esse stesse strutturate. Dunque, con la pratica si struttura, nel senso che se oggettivizza, la relazione tra il soggetto che conosce e le proprietà dell’oggetto/soggetto conosciuto. Per spiegare la dinamica sociale bisogna ricostruire i processi di attribuzione delle proprietà degli oggetti che costituiscono il mondo sociale in cui si muovono gli individui. Questi processi di attribuzione si costruiscono sia sulla base di opposizioni strutturate, si mette in atto una pratica articolandola in una certa modalità perché si è interiorizzato che è la modalità adeguata per quella occasione e lo si ritiene perché vi è stata una genesi di quella pratica che rimanda alle strutture oggettive che ne spiegano l’esistenza e che il sociologo deve ricostruire sulla base di una unitarietà dell’universo semantico cui ci si riferisce. Ma la pratica si articola anche secondo una volontà oppositiva, sulla base della quale si vuole marcare una differenza dal mondo sociale cui quella pratica rimanda, cioè come pratica che si oppone ad altre pratiche riconosciute come appartenenti ha un altro mondo sociale che viene riconosciuto come distante dal proprio. Egli introduce due concetti, quello di habitus è quello di campo. L’habitus, principio generatore di pratiche e contemporaneamente sistema di classificazione di queste stesse pratiche, risulta essere un sistema di disposizioni interiorizzate e incorporate dall’individuo, con una funzione di mediazione tra le strutture sociali e le pratiche dell’individuo. Con le sue parole si tratta di un sistema durevole e trasferibile di schemi di percezione, di valutazione e di azione, prodotto dal sociale che si istituisce nei corpi. È una struttura strutturata poiché possiede un legame di dipendenza dal mondo sociale, ma è anche una struttura strutturante perché organizza le pratiche e la percezione delle pratiche. In breve, l’habitus costituisce il sistema organizzativo delle percezioni della realtà, delle classificazioni che gli individui mettono in atto quando conoscono e del modo in cui si articolano le pratiche. Questo sistema organizzativo è riconducibile alle condizioni di esistenza oggettivamente classificabili (per esempio essere maschio o femmina) E alla posizione occupata nella struttura delle condizioni di esistenza (essere maschio o essere femmina in una società patriarcale determina una diversa posizione sociale e dunque una diversa possibilità di disposizione). Per esempio, il giudizio che diamo di un oggetto, così come di una persona o il linguaggio e le forme comunicative che usiamo sono il risultato dell’articolarsi di questo sistema organizzativo che abbiamo acquisito durante la socializzazione, che è socialmente e storicamente strutturato e che diventa il nostro modo di vedere o classificare o fare in una realtà anche questa socialmente è storicamente strutturata. Ciascuna di queste modalità dello stare nel mondo è una pratica che viene appresa ma che si declina anche sulla base delle inclinazioni naturali individuali, delle caratteristiche corporee personali e in base ai significati che queste caratteristiche corporee assumono, con le proprie preferenze che sono sicuramente il risultato di un processo di apprendimento e di un processo di selezione che è riconducibile alle strutture sociali che hanno contribuito a produrre il nostro criterio di selezione. E per quanto l’habitus abbia una connotazione individuale, habitus prodotti da condizioni di esistenza simili, sono essi stessi simili, dando vita a habitus di classe, un criterio di omogeneizzazione dei gruppi sociali. L’habitus varia dunque in funzione del tempo, dei luoghi e della distribuzione del potere. Gli individui possono comunque modificare il mondo sociale in cui vivono percependo, classificando e facendo le cose a modo loro, pur utilizzando quel sistema organizzativo appreso. Le pratiche sono inoltre considerate da Bourdieu come collocabili su un piano quasi subcosciente, articolate sulla base di una sorta di routine corporea rispetto alla quale non ci si chiede “perché si fa così”. I significati che assumono le pratiche sono dunque ascrivibili alla habitus che è certamente funzione della posizione occupata nello spazio sociale. La posizione occupata nello spazio sociale è il risultato della quantità di tre diversi tipi di capitale a disposizione degli individui: - Il capitale economico, costituito dalla ricchezza posseduta, dai beni materiali. - Il capitale culturale, costituito sia dal “capitale scolastico”, ovvero dal titolo di studio e dalle conoscenza acquisite durante la formazione scolastica, sia dal “capitale ereditato”, ovvero le competenze acquisite grazie al processo di socializzazione familiare. - Il capitale sociale, costituito dalle reti di relazione sociale di cui dispone un individuo, anche in questo caso sia ereditabile dalla famiglia, sia acquisibile individualmente nel corso della propria vita. A questi Bourdieu affianca anche il capitale simbolico, che può essere definito come il risultato degli effetti che i tre tipi di capitale determinano quando sono esercitati come strumenti di potere, per esempio quando il loro valore è riconosciuto socialmente come tale, ma non è percepito come in azione in una certa situazione specifica. Per esempio la professione di un influencer, in cui il valore delle pratiche messe in atto da queste figure è soprattutto di tipo simbolico e costituisce dunque una risorsa che può essere da questi investita per diversi obiettivi. È la dotazione complessiva di capitale, nonché la combinazione che si struttura tra i diversi tipi di capitale posseduti in quantità differnti o nella stessa quantità, a determinare la collocazione dell’individuo nello spazio sociale: questo spazio risulta essere dunque gerarchizzato proprio in funzione della diversa distribuzione di capitale. Infine, i tre tipi di capitale possono essere “convertiti” ciascuno nell’altro, dinamica frequente in presenza di elevata dotazione di almeno uno di questi: chi ha una rete di relazioni ampia (capitale sociale) può utilizzarla, per esempio, per incrementare la dotazione di capitale economico (incrementando il giro di affari o la clientela) come altrettanto può fare chi ha una dotazione elevata di capitale culturale. Ancora, chi ha una dotazione elevata di capitale economico può utilizzarla per incrementare il capitale sociale e culturale e così via. Lo spazio sociale in cui si articolano le pratiche e in cui si distribuiscono i tre tipi di capitale è definito da Bourdieu campo. Con le parole di Bourdieu: il campo può essere definito come una rete o una configurazione di relazioni oggettive tra posizioni. Queste posizioni sono definite oggettivamente nella loro esistenza e nei condizionamenti che impongono a chi le occupa, agenti o istituzioni, dalla loro situazione attuale o potenziale all’interno della struttura distributiva delle diverse specie di potere il cui possesso governa l’accesso a profitti specifici in gioco nel campo e contemporaneamente delle relazioni oggettive che hanno con altre posizioni. Le relazioni sono oggettive nel senso che dunque esistono. Alla struttura delle diverse posizioni si affianca però la struttura delle disposizioni, cioè le modalità di declinare le pratiche nel campo. Ciò produce e riproduce l’equilibrio fra le forze nel campo e ne genera il mutamento nel corso del tempo. E la declinazione delle disposizioni è sempre riconducibile all’habitus. Nel campo vigono logiche e necessità specifiche che sono valide solo per quel campo. Per esempio, nell’ambiente artistico, le relazioni tra artisti, produttori, mercanti eccetera sono dinamicamente intrecciate sulla base di relazioni oggettive, determinate dalla posizione risultante dalla quantità di capitale economico, culturale e sociale a disposizione degli agenti in quella posizione, ma anche dalla posizione che ciascun tipo di capitale ha in quel campo virgola che è sempre organizzato secondo gerarchie differenti. Nel “campo dell’arte”, per esempio, il capitale culturale è in una posizione gerarchica superiore rispetto al capitale 23.1.1 La prima fase della produzione scientifica di Giddens prende forma all’inizio degli anni 70 del ventesimo secolo, quando avvia il confronto con autori come Marx, Durkheim e Weber e si estende sino alla fine degli anni 80. La riflessione di Giddens nasce da un senso di inadeguatezza verso la teoria sociale di derivazione ottocentesca e novecentesca, in rapporto alle problematiche poste alle scienze sociali della vita contemporanea. Egli ritiene che occorra superare il dualismo attore sistema che caratterizza tale tradizione, trattenendone le acquisizioni che ancora possono informare la teoria sociale, ma dopo tanto l’analisi sociologica di una più appropriata ontologia sociale in cui teoria dell’azione, analisi istituzionale e osservazione del cambiamento, concettualizzazione della rilevanza di tempo e spazio nella vita quotidiana si combinino per dare conto del modo in cui l’azione individuale si lega alle strutture sociali in un rapporto reciprocamente costitutivo. Giddens da un lato rifiuta ogni concezione evoluzionistica e finalistica dei sistemi sociali, dall’altro intende evitare opposti riduzionismi che oscillano tra oggettivismo e soggettivismo. Nella teoria della strutturazione occupano un posto centrale alcuni concetti, tra loro connessi, che vanno richiamati: azione, intenzionalità e riflessività; pratiche, routine e strutture. Giddens ritiene non si possa ammettere dualismo tra dimensione dell’agire e dimensione strutturale, ma piuttosto una dualità che poggia su correlazioni necessarie tra i due elementi costitutivi della vita sociale. Nel corso della vita quotidiana ciascun individuo esprime un’intenzionalità e una competenza che traducono una delle sue caratteristiche fondamentali: la riflessività. Essa costituisce la peculiarità degli attori sociali che mettono in campo una gire interpretativo-cognitivo sulla base del quale vi è un costante monitoraggio del comportamento e della situazione entro la quale esso si dispiega. L’intenzionalità si dispone su diversi livelli: Giddens parla di coscienza pratica, coscienza discorsiva e inconscio. Intendendo per coscienza la conoscenza delle regole e delle pratiche che organizzano la vita sociale, si avrà coscienza pratica quando un individuo mostra un saper fare in un dato contesto, senza tuttavia riuscire a fornire una spiegazione consapevole e articolata delle ragioni, cosa che pertiene invece alla conoscenza discorsiva. L’inconscio rappresenta una sorta di memoria di aspetti significativi che per motivi traumatici rimangono a uno studio di latenza rispetto all’esercizio del monitoraggio riflessivo. La capacità soggettiva di monitoraggio su di sé e sugli altri con cui interagiamo si esercita attraverso le pratiche che quotidianamente ogni attore produce e riproduce. Tali pratiche danno luogo a routine, che occupano un posto di rilievo nella teorizzazione di Giddens. Da un lato esse lavorano nel senso della continuità della personalità dell’attore come elemento di rassicurazione psicologica, dall’altro danno consistenza e continuità alla dimensione socio-organizzativa della vita quotidiana, traducendo e riproducendo modelli standardizzati di azione e dunque modelli istituzionali. L’attuazione e riproposizione delle pratiche e la reiterazione delle routine corrispondono alla riproduzione delle strutture sociali. Le strutture sono al contempo esito e mezzo delle pratiche di interazione sociale, repertorio cui attinge l’azione, ma anche nuova regola come effetto di nuova pratica. I processi di strutturazione, dunque, ammettono il cambiamento e nell’azione si manifesta il potere di generarlo. 23.1.2 Lo sforzo teorico sfociato nella teoria della strutturazione crea le basi per un’analisi applicata della modernità. I testi principali in cui Giddens si cimenta in questa lettura della modernità sono: “The Consequences of Modernity”, “Modernity and Self-Identity”, “The Trasformation of Intimacy”, “Runaway World”. Un primo passaggio fondamentale concerne la natura della società contemporanea: essa è figlia della modernità di segno illuminista che si è dispiegata tra 800 e 900 sulla base di suoi principi costitutivi quali la razionalizzazione, la differenziazione e l’individualizzazione della vita sociale. Tali principi portano dunque non già a discontinuità che diano luogo a una postmodernità, bensì a una radicalizzazione della modernità, che dunque contraddistingue la sua fase matura. La radicalizzazione si manifesta attraverso dinamiche di de-tradizionalizzazione delle scelte e di perdita di rilevanza nelle convenzioni sociali e procede in termini di un riordinamento riflessivo dei rapporti sociali: nella quotidianità ciò si traduce in un esercizio intenso e costante della scelta, che viene esteso ad ogni aspetto della vita e diviene espressione del progetto riflessivo del sé (da cui l’espressione di modernità riflessiva), che per l’individuo contemporaneo diviene una sorta di destino. Con questo sforzo riflessivo ciascun soggetto cerca di legare passato, presente e futuro in un’identità almeno provvisoriamente stabile, per far fronte alla pluralizzazione delle opzioni e degli stili di vita, all’incremento di forme di esperienza mediata, alla sostituzione dei meccanismi di legittimazione e autorità tradizionali, alla ridefinizione del tempo e dello spazio. Di dance ritiene che i concetti di tempo e spazio debbano essere assunti come costitutivi dell’esperienza umana e dunque che una loro variazione influenzi la vita sociale: la progressiva disgiunzione fra spazio e luogo, il progressivo allontanamento del vincolo reciproco fra spazio e tempo, la progressiva standardizzazione del tempo che lo rende insieme più universale, più funzionale e più neutrale sono tratti peculiari della modernità radicale. Il progressivo svincolamento da rigidi confini di spazio e tempo si combina con due ulteriori processi. L’aumento della presenza e pervasività del denaro come emblema simbolico e medium della vita quotidiana e l’espansione dei sistemi esperti (sistemi a elevata tecnologia e codificazione). E si richiamano un’ulteriore elemento che Giddens rinviene come tipica espressione della tarda modernità il necessario. Sono qui evidenti gli echi della riflessione che Weber propone in termini di razionalizzazione e intellettualizzazione del mondo nel dispiegarsi della modernità, riproposti da ultimo nella sua conferenza “la scienza come professione”. E richiami alle implicazioni di tale tarda modernità sottolineano come la disgiunzione fra spazio e luogo neutralizzi radici, convenzioni, assetti tradizionali, aprendo non solo a 9 regolazioni ma anche a nuove modalità di regolazione. Nella vita quotidiana questo si associa a una maggiore autonomia come liberazione da repertori ingiuntivi, ma anche a maggior incertezza, secondo una lettura condivisa con diversi analisti della modernità globalizzata. A fronte di ciò, si sviluppa quell’orientamento a una maggiore riflessività che diviene una caratteristica dell’esperienza quotidiana e che ricomprende una maggior ricerca di interazioni sensate e di rapporti personali. Una riflessività in certo senso obbligata e costantemente messa alla prova per guidare gli individui in un contesto di vita sociale cambiato e in continuo mutamento. La modernità radicale comporta dunque un distanziamento da modelli di comportamento, strategie decisionali e aspettative consolidatisi nel corso delle fasi storiche precedenti e Giddens vi si riferisce in termini di processi di disaggregazione. Agli scenari della vita contemporanea gli individui reagiscono non solo con disorientamento e ansia identitaria, ma anche con una disposizione a sperimentare nuove soluzioni e strategie. I tentativi di fronteggiare le sfide e i rischi di portata sia personale sia sistematica che si producono entro lo scenario della modernità radicale e le relative difficoltà di orientamento e posizionamento degli individui portano Giddens ad assegnare grande rilevanza tanto a come vanno delineandosi le logiche della vita quotidiana, quanto all’esigenza di mettere a punto politiche di democratizzazione che supportino le persone in termini di diritti di cittadinanza e di qualità della vita. 23.2 La riflessione da egli sviluppata ha avuto un considerevole impatto sia nel dibattito sociologico, contribuendo all’analisi della modernità globalizzata e ponendosi come termine di riferimento, anche critico, della sociologia contemporanea sia al suo esterno, nel più vasto ambito politico-culturale. Tali aspetti che possono essere evidenziati come maggiormente significativi ci si può senza dubbio riferire alla sfida del sovraindividuale, ovvero come spiegare la relazione fra azione e strutture. Giddens si propone di superare riduzionismi di tipo dualistico, ma da un lato pone enfasi sul lato della vita quotidiana degli individui, che sono considerati sempre competenti e generativi tramite il loro agire pratico, dall’altro delinea la struttura come insieme di regole e risorse che precedano l’agire pratico nel tempo e nello spazio. Rimane dunque inevasa la spiegazione di come azione struttura si generino entro una reciproca implicazione di tipo duale. In altre parole, come si produrrà la dimensione collettiva rimane per Giddens un vero e proprio rompicapo. Sempre in termini di ontologia sociale, la critica del volontarismo parsonsiano porta Giddens a mantenersi a una certa distanza dalla questione dei valori e dei fini e a optare per una linea analitica in cui maggior rilevanza viene assegnata allo monitoraggio riflessivo del contesto e dell’azione. Per altri versi, le pratiche che attualizzano le potenzialità della struttura giungono ad assumere la forza di verificare la realtà, con il rischio di assolutizzare la capacità performativa di percezioni, disposizioni ed emozioni e di mettere così in secondo piano regole, obbligazioni, risorse, condizioni che precedono l’azione. Se nella fase teorica Giddens sembra mettere la questione delle disuguaglianze socioeconomiche sullo sfondo, egli però ne recupera la rilevanza quando si applica allo studio della fenomenologia della modernità radicale. La rilettura della modernità lo porta a prendere sul serio le traiettorie esistenziali degli individui, mai considerati passivi esecutori o recettori di condizioni strutturali. Essi sperimentano la riflessività come un destino e con questa si gettano nell’ambivalenza tra costante esercizio della necessità di scegliere in modo autonomo e incertezza di una realtà cangiante e complessa. Patricia Hill Collins e il femminismo nero Patricia Hill Collins nasce a Philadelphia nel 1948. Nel 2009 è stata la centesima presidente dell’American Sociological Association e la prima donna afroamericana eletta per questa carica. Collins si inserisce nel filone denominato femminismo nero ma tocca anche i temi del razzismo, delle diseguaglianze sociali, della sessualità e della sociologia della conoscenza. 24.1 Patricia Hill Collins e tra le sociologhe più importanti che hanno sottolineato l’esigenza di un approccio capace di tener conto della complessità della condizione femminile e della varietà della donna come categoria analitica. Per questa sociologa le varie declinazioni del femminismo non possono essere applicate senza distinzione a tutte le donne a prescindere dal colore della loro pelle, dalle differenti condizioni sociali e dalle diverse appartenenze etniche. In altre parole, esplorare le relazioni sociali che danno forma all’esperienza delle donne, significa occuparsi delle specificità virgola non degeneri in astratto, non come un concetto unico, ma come relazioni multiple e talvolta contraddittorie. Collins è una sociologa impegnata eh attenta all’analisi dei sistemi di potere. In particolare, coniuga la sociologia professionale e la sociologia pubblica e, oltre ad essere un’autorevole esponente del femminismo nero, ha fornito un personale contributo nel definire una categoria analitica: la donna nera. E come era caduto per il primo femminismo che ha creato un nuovo pubblico disposto a recepire le istanze politico-sociali connesse alla nuova categoria analitica (donna), il femminismo nero e l’attivismo delle sue principali esponenti hanno contribuito a creare un nuovo pubblico attento all’analisi prodotta intorno a questa nuova categoria sociale. La teoria sociale femminista ha prodotto numerosi contributi teorici, nonché numerosi e differenti ambiti di ricerca. Tutti questi filoni di studio sono riusciti a tematizzare la diseguaglianza di genere come problema sociale e come tema sociologico. I vari filoni di riflessione e ricerca, che hanno contribuito alla tematizzazione della condizione femminile in quanto problema sociale, hanno complessivamente preso il nome di femminismo. Le teorie femministe hanno messo al centro della propria analisi le cause e le conseguenze sociali della subordinazione della donna all’uomo. Nel tentativo di spiegarne le cause sociali, il femminismo si è spinto spesso fino alla formulazione di programmi per il loro superamento, divenendo spesso femminismo engagé. Esempio emblematico è rappresentato da quei femminismi raggruppati nel femminismo definito Gender Revolution femminism di cui fanno parte il femminismo nero, il femminismo Per Collins tuttavia, l’epistemologia dei punti di vista si configura come posizione privilegiata che accompagna qualsiasi posizione di subordinazione e marginalizzazione. I processi di marginalizzazione e di subordinazione non sono soltanto semplici fatti di oppressione di cui si fa esperienza, ma assumono la natura di indici di resistenza. La posizione privilegiata interna dei gruppi subordinati consente, a partire dalla conoscenza acquisita e dalle esperienze vissute, la produzione di sistemi di valori e di premesse d’azione per la promozione di un discorso pubblico contro le egemonie dei gruppi privilegiati. Il privilegio del punto di vista si costituisce intorno non tanto alla semplice posizione di marginalizzazione, quanto piuttosto all’azione di resistenza contro la marginalizzazione. 24.2.2 L’altro principale contributo della Collins è quello di aver posto l’accento sulla necessità di studiare una situazione di dominio come un fenomeno sociale collocato all’interno di un più ampio intreccio di strutture di dominio e di discriminazione. Collins riprende e utilizza un concetto la cui denominazione è stata introdotta dalla giurista e femminista statunitense Kimberlé Crenshaw: intersezionalità. Tuttavia, il pensiero femminista è quello che ha utilizzato con maggiore frequenza il concetto di intersezionalità come categoria centrale di analisi. La subordinazione femminile deve essere studiata, secondo questo approccio, all’interno delle relazioni tra la gerarchia di potere basata sul genere e le altre gerarchie di potere (classe, etnia). Collins sottolinea che qualsiasi disuguaglianza deve essere studiata a partire dalla analisi dell’intersezionalità tra genere, etnia e classe sociale. La diseguaglianza sociale si realizza sempre all’interno di contesti sociali in cui sono presenti altre forme di diseguaglianza sociale. Le diseguaglianze creano così un intreccio in cui ogni diseguaglianza è influenzata dalle altre. I contesti reali in cui gli individui si trovano ad agire sono quindi caratterizzati dall’intersezionalità dei sistemi di diseguaglianza. In questi contesti reali l’individuo fa esperienza dei processi attraverso cui prendono forma marginalizzazione e subordinazione. Questa impostazione teorica implica che l’esperienza personale della diseguaglianza avviene all’interno di un più ampio sistema di rapporti in cui le diseguaglianze diventano concrete e reali. L’esperienza di subordinazione vissuta da una donna nera, proletaria, islamica in un paese di religione cristiana sarà verosimilmente molto diversa da quella vissuta da una donna bianca, dell’alta borghesia, cristiana in un paese di religione cattolica. Il concetto di intersezionalità mette in primo piano l’esigenza di analizzare la diseguaglianza come il prodotto di un sistema complesso di relazioni tra differenti gruppi egemoni e i relativi gruppi subordinati. Questo approccio teorico consente di evidenziare almeno tre aspetti importanti: - L’importanza dei contesti sociali e dei sistemi di relazione - L’attenzione dedicata all’individuo in quanto soggetto che sperimenta identità sociali plurime, differenti appartenenze sociali e l’interconnessione tra diversi sistemi di potere e di subordinazione - L’idea che non esiste una categoria unica di donna, anzi comprendere le donne all’interno di un’unica categoria vuol dire teorizzarla piuttosto che studiarle, vuol dire ridurle al silenzio. Per questo motivo per Collins l’intersezionalità ha una dimensione etica e politica. L’intersezionalità non è solo un insieme di idee, né soltanto un nuovo approccio scientifico allo studio dei problemi sociali. Piuttosto, poiché informano l’azione sociale, le idee dell’intersezionalità hanno conseguenze nel mondo sociale e assumono la valenza di idee politiche capaci di produrre e avviare percorsi di cambiamento sociale. Zygmunt Bauman e la liquidità Bauman nasce nel 1925 a Poznan. La sua produzione scientifica si contraddistingue per la vastità dei temi di cui si è occupato. Probabilmente è proprio il suo modo di scrivere, ricco di metafore e di immagini, interdisciplinare e colto, paradossalmente assertivo e argomentativo a un tempo, che ha avuto questo successo, non solo come scienziato sociale, ma come intellettuale a tutto tondo e come figura pubblica. 25.1 Liquidità, società liquida o fluida, modernità liquida sono le etichette che Bauman ha utilizzato per leggere e interpretare la società che si è venuta a produrre a seguito dei processi di globalizzazione e che l’autore legge come ulteriore fase del processo di modernizzazione. Parlare quindi della società contemporanea come di epoca della liquidità significa instaurare da subito un confronto dialettico con una prima modernità che per contrapposizione non può che essere solida. Il processo di liquefazione comporta la transizione di una sostanza da una configurazione ordinata, statica e stabile, capace di avere un volume, instabile e mutevole, dotata di una maggiore capacità di circolare e assumere forme diverse e potenzialmente sempre mutevoli quindi difficilmente localizzabile, controllabile e gestibile. Se si scomoda il concetto di legami, il senso sociologico della metafora diviene chiaro. Il passaggio da una modernità solida a una liquida ha a che fare con le trasformazioni dei legami sociali e conseguentemente della loro capacità di dare origine a configurazioni sociali più o meno ordinate e consistenti. Se la prima modernità aveva un carattere solido, ciò era dovuto al fatto che i legami sociali tra gli individui erano mediati istituzionalmente. Le istituzioni politiche, sociali, economiche e culturali degli stati-nazione fornivano alla vita sociale norme e regole, sia morali che giuridiche e fornivano le risorse culturali, valoriali e simboliche che consentivano ai soggetti di sviluppare un senso di identità comune e di sentirsi parte di un tutto che trascendeva le singole individualità. Entro la cornice degli Stati nazione moderni, il singolo individuo poteva trovare il proprio radicamento in un mondo che percepiva come stabile e ordinato e poteva concepire la propria esistenza come dotata di senso. La società moderna svolgeva nei confronti dell’individuo un vero e proprio ruolo salvifico, termine che per Bauman ha una triplice declinazione: - Sicurezza esistenziale : radicamento, stabilità, fiducia di vivere in un mondo ordinato - Sicurezza come certezza : riguarda la dimensione epistemica; è la fiducia nella stabilità e nella validità delle nostre conoscenze razionali e della loro capacità di rendere comprensibile il mondo - Sicurezza personale : sicurezza come incolumità fisica In cambio, però, la società chiedeva all’individuo di sacrificare buona parte della sua libertà. 25.2 Il trade off tra libertà e sicurezza non portava al totale annichilimento della prima, ma richiedeva piuttosto il suo esercizio entro i limiti dell’interesse generale pubblico. Gli interessi individuali potevano trovare espressione a patto che riuscissero a comportarsi e a tradursi in interesse pubblico, perché solo sotto questa specie potevano essere presi in considerazione dalle istituzioni. È proprio questo dialogo che lo orienta e lo apre al pubblico che fa dell’individuo un cittadino, inserendolo in un sistema in cui ai doveri si accompagnano i diritti. Il prototipo di questo modello societario fortemente sostenuto da una processualità politica che ha nella negoziazione pubblico-privato il suo fulcro, è per Bauman la polis così come descritta da Aristotele, organizzata sui tre livelli dell’ecclesia (il potere pubblico, le istituzioni politiche), dell’oikos (la sfera domestica degli interessi privati) e dell’agora (la piazza). L’agorà è quella che svolge il ruolo più importante perché costituiva il luogo in cui l’ecclesia, ovvero il potere pubblico, incontrava i privati cittadini in forma assembleare per renderli parte delle decisioni più rilevanti per la vita della città. L’agorà rappresenta per antonomasia quello spazio in cui le istanze private possono essere tradotte in pubbliche e, come tali, avere la possibilità di sortire i cambiamenti attesi o desiderati dall’oikos. E, così facendo comporre e ricomporre, rigenerandola ogni volta, la stessa dimensione collettiva della vita sociale, il noi collettivo. Un altro grande dominio collettivamente organizzato è per l’autore il lavoro, che ha come sua sede la fabbrica del capitalismo industriale, la quale trova la sua massima e più coerente espressione nella fabbrica automobilistica di Henry Ford. Bauman è anzi convinto che proprio l’organizzazione sociale dell’industria fordista rappresenti in modo evidente l’ordine solido della prima modernità. La capacità dello Stato nazione di offrire sicurezza ai propri cittadini era fortemente legata anche alla sua possibilità di esercitare un controllo sul sistema economico, a protezione delle basi materiali sulle quali si regge la vita di ciascun individuo. Il welfare state rappresentava forse la più evidente espressione del modo in cui le istituzioni si prendevano cura dei propri cittadini affinché potessero essere appunto tali, partendo dal presupposto che non può esserci inclusione sociale senza la basilare garanzia di una inclusione economica. 25.3 Per quali ragioni le istituzioni politiche e in parte anche economiche si sono prese cura dei propri cittadini lavoratori? Bauman crede che la risposta sia da ricercarsi nelle modalità attraverso le quali, durante la prima modernità, era possibile esercitare il potere. Controllare e amministrare richiedeva un necessario lavoro in termini di presidio fisico dello spazio e del territorio. Il potere pubblico istituzionale non aveva altra possibilità che marcare territorialmente l’ambito sul quale si estendeva la sua giurisdizione, erigendo rigidi confini spaziali che andavano necessariamente presidiati. Bauman afferma che parlare di stati sovrani o territorialmente sovrani era la stessa cosa perché non poteva esistere sovranità se non come controllo del territorio. Dominare significava insomma recintare, controllare voleva dire rendere relativamente immobili e stanziali i controllati. Sul fronte della fabbrica, i macchinari pesanti degli stabilimenti imponevano di fissarvi anche la forza lavoro. Questa necessità finiva così per vincolare amministratori e amministrati alla simultanea presenza entro lo stesso spazio. Accomunate da un medesimo destino, entrambe le parti in gioco avevano interesse a rendere questa convivenza accettabile, stabilendo così le condizioni per un costante dialogo e confronto. La modernità solida era l’epoca dell’impegno o del reciproco coinvolgimento di governatori e governanti, amministratori e amministrati; un’epoca che ha reso necessario barattare il potere e il controllo con la cura dei controllati e ha progressivamente condotto alla nascita di quelle riforme, quei diritti, quei sistemi di tutela e di garanzia che hanno trasformato gli individui in cittadini. È proprio da questo rapporto con lo spazio fisico e con il territorio che dobbiamo partire per comprendere in che modo la modernità avanzata ha potuto configurarsi come scioglimento dei solidi moderni e produrre la società liquida. 25.4 La globalizzazione nasce in seguito a quello che Bauman definisce scisma tra il sistema economico e il sistema di norme, tutele e garanzie che vigeva entro lo stato-nazione e che durante la modernità solida riusciva a imbrigliare capitale e lavoro. In virtù dei progressi tecnologici che hanno portato alla società dell’informazione e della digitalizzazione, il rapporto con lo spazio si è notevolmente trasformato e ad avvantaggiarsi di queste nuove possibilità è stato in primis il capitalismo. Grazie alla leggerezza di una economia sempre più centrata sulla finanza e sulle risorse soft dell’informazione e dei bit, liberi di circolare agilmente nelle reti digitali planetarie, le imprese hanno intuito che il loro campo di azione, il mercato, poteva ora estendersi ben oltre la dimensione nazionale. Per via di questa sua conquistata mobilità, il capitalismo è ora in grado di recidere la propria dipendenza dallo spazio, che ne aveva definito la fase solida, con due fondamentali conseguenze: da un lato conquista un rapporto decisamente più disimpegnato con la forza-lavoro, dall’altro può invece estendere le sue reti ben oltre i confini dello spazio nazionale che però era anche uno spazio normato dalle istituzioni nazional-statali. In questo modo, il potere reale migra dalla politica, che rimane ancorata alle logiche territoriali, all’economia, con significative conseguenze per le persone che sono sempre più in balia di un capitalismo capriccioso e fuori controllo, che trova più conveniente la flessibilità, la precarizzazione, la delocalizzazione, i contratti a tempo determinato rispetto alla costruzione di rapporti di lunga durata con la forza-lavoro e alla presa in carico sei suoi bisogno in termini di welfare. dimensioni che per il Bauman della liquidità rimarrebbero significativamente disgiunte. Infine, sempre con riferimento alla sfera dei consumi, il prosumerismo, anche se allo stato attuale delle cose deve ancora esprimere tutte le sue potenzialità, potrebbe generare soggetti che saranno consumatori di ciò che essi stessi produrranno. Ulrich Beck e la società globale Le sue riflessioni sulla società del rischio e sulla globalizzazione sono state indispensabili per favorire l’elaborazione di quel pensiero critico che ha fatto dell’analisi della crisi della società moderna il suo centro nevralgico. Nasce a Stolp, in Polonia nel 1944. La sua carriera è stata costellata da numerosi riconoscimenti, come la sua partecipazione nel 2010 al “Gruppo Spinelli”, gruppo di intellettuali nato con l’intento di sostenere e rilanciare il problematico processo di integrazione europea. 26.1 La distinzione che Beck propone tra modernità lineare (quella industriale) e modernità riflessiva (quella legata secondo il Nostro alla diffusione globale del rischio) ripropongono in modo nuovo ed originale il tema weberiano del dominio moderno della cosiddetta razionalità formale: da un lato, risorsa indispensabile per la costruzione di una nuova civiltà e dall’altro, drammatico annichilimento dell’agire sociale dentro le pratiche burocratizzate della gabbia d’acciaio. Non è un caso che la nozione di rischio deve moltissimo all’importante riflessione filosofica francofortese sulla tecnica. Per quanto riguarda, infine, l’influenza habermasiana, due sono quelle fondamentali da sottolineare: la ripresa critica del tema della razionalizzazione strumentale e il destino della modernità. Beck si allinea con Habermas nel prendere distanza dalle teorie catastrofiche sul futuro della modernità. Quest’ultima sarebbe, infatti, un’esperienza tutt’altro che conclusa e ancora aperta nei suoi futuri svolgimenti, e proprio per questa ragione gravida tanto di incertezze che di opportunità. 26.1.1 La sua opera più celebre fu “La società del rischio”. In questo testo il sociologo tedesco descrive le forti discontinuità che a partire dagli anni 80 del ventesimo secolo vengono a determinarsi in tutte le sfere della società. Per raggiungere il suo obiettivo argomentativo Beck si affida quindi alla prospettiva concettuale del rischio. In primo luogo, egli si riferisce al formarsi di una nuova fase della modernità, dove tutti i termini tradizionali della prassi sociale sono messi in discussione. In questo contesto, i rischi sono individuabili come l’esito del radicalizzarsi del processo di modernizzazione. La società del rischio riguarda la crisi di tutte le realtà istituzionali che fungevano da regolatori della vita sociale moderna: il lavoro, la famiglia, la politica, la razionalità scientifica ecc. L’opera in questione rappresenta il tentativo di descrivere attraverso un nuovo modello concettuale i diversi punti di crisi della società industriale e di focalizzare l’innovativo comporsi di una costellazione sociale emergente. Possiamo affermare con Beck che la società moderna facendosi riflessiva, cioè ponendosi come oggetto della sua stessa riflessione, evidenzia il fatto che nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va di pari passo con la produzione sociale dei rischi. I rischi a cui si riferisce Beck sono in primo luogo quelli che mettono in seria discussione la stessa sopravvivenza del pianeta, e che quindi coinvolgono tutti gli abitanti del pianeta. In secondo luogo, i rischi cui si riferisce Beck sono quelli che si distribuiscono in maniera differenziata sulle diverse aree della società, inaugurando una nuova logica di stratificazione sociale che solamente in parte si sovrappone a quella precedente, basata sulla distribuzione della ricchezza è tipica della società industriale. La società del rischio può essere descritta attraverso 5 principali tesi introduttive: - I rischi prodotti nella tarda modernità comportano conseguenze spesso irreversibili, rimangono spesso indecifrabili causando una competizione tra saperi esperti e i nuovi saperi sociali diffusi. - Con il diffondersi dei rischi si formano nuove situazioni sociali di esposizione al rischio e quindi nuove fasce deboli che in parte rafforzano le tradizionali logiche di distribuzione della ricchezza ma in parte anche le sovvertono. - I rischi sono funzionali allo sviluppo capitalistico, sono dei big business. Fin quando non si svilupperà un nuovo spazio politico capace di ostacolare questo processo, il sistema economico trarrà proprio dalla creazione di nuovi rischi un potenziale di espansione della domanda aggregata post-fordista. - All’interno della società del rischio il sapere acquista una nuova rilevanza che deve essere sviluppata e impiegata per creare una nuova consapevolezza critica dei rischi. - Nascerebbe così un nuovo potenziale politico delle catastrofi. La necessità di contrastare i nuovi rischi, per Beck, è il miglior stimolo possibile per una riorganizzazione dei poteri e delle competenze sociali. La società del rischio è dunque per Beck una realtà a due facce, da un lato si caratterizza per l’autoproduzione di inediti pericoli, ma dall’altro nasconde l’opportunità della creazione di un nuovo paradigma del mondo sociale che faccia della sua riflessività e della libertà crescente degli individui, il cuore della sua prassi politica. Le cinque argomentazioni però non sono sufficienti a fornire una descrizione chiara della nuova fase della modernità. Per comprendere le potenzialità analitiche della sua proposta occorre approfondire i termini del processo che accompagna il formarsi della nuova società: il processo di individualizzazione. 26.1.2 Il processo di individualizzazione è il fenomeno sociale fondamentale attraverso il quale prende forma la società del rischio. Questo fenomeno è inquadrato da Beck attraverso 3 diverse dimensioni: la prima è quella della individualizzazione intesa come affrancamento dalle forme sociali storicamente precostituite (dimensione dell’affrancamento), la seconda quella della perdita delle sicurezze tradizionali rispetto alla conoscenza pratica, alla fede e alle norme sociali (dimensione del disincanto), la terza quella che prevede la ricostruzione su nuove basi di una logica di legame sociale basata su dipendenze collegate alla sfera del mercato (dimensione del controllo o della reintegrazione). Il comporsi delle tre dimensioni determina una profonda ristrutturazione del rapporto tra individuo e società. La conseguenza sulla vita dell’individuo è allora quella della necessità di concepire se stesso come centro dell’azione, come ufficio-pianificazione in merito alla propria biografia, alle proprie capacità, ai propri orientamenti, alle proprie relazioni… in queste condizioni il soggetto deve farsi artefice unico del suo percorso di integrazione sociale. A riguardo, la variabile fondamentale è la capacità di autoprogettare il proprio percorso di inserimento sociale: la povertà si frammenta, esce dai rigidi ambiti di classe per ridistribuirsi in modo biograficamente trasversale. La biografia normale si trasforma così nella biografia della scelta che è per definizione anche una biografia a rischio. Beck ci mette anche in guardia dal rischio di considerare come effetto del processo di individualizzazione, il formarsi di uno spazio sociale vuoto in cui è possibile operare scelte in modo totalmente libero e autonomo. Egli riconosce al contrario che l’individualizzazione è una dinamica sociale che non si basa sulla libera decisione degli individui. Essa si configura invece come un dovere di creare non solo il proprio iter biografico ma anche i legami e le relazioni che lo coinvolgono. Il processo di individualizzazione così come è stato descritto da Beck pone dunque l’emergenza di nuove norme sociali che fanno dell’imperativo soggettivo a progettare da sé il proprio inserimento sociale uno dei suoi elementi distintivi. Per comprendere pienamente la portata del concetto di individualizzazione di Beck, è doveroso, infine, chiamare in causa la funziona destabilizzatrice che il regime del rischio imporrebbe alla società. Egli, infatti, alterna, dibattendo della società del rischio e delle sue dimensioni, la descrizione di un futuro incerto e sull’orlo della catastrofe alla speranza per un nuovo ordine costruito politicamente sulle ceneri della società industriale. Questo si spiega con il fatto che da un lato il rischio può essere inteso come principio attivatore che esalta l’avventura della civiltà, ma all’estremo opposto, rischio significa la messa in pericolo di se stessa da parte della civilizzazione e della civiltà umana, la catastrofica eventualità che il progresso si rovesci in barbarie. 26.1.3 Nelle sue ultime opere, Beck tenta di risolvere la questione. La riflessione intorno al concetto di cosmopolitismo sembra dargli una piccola via da percorrere. Per evitare che il processo di modernizzazione conduca l’umanità alla catastrofe secondo Beck occorre ripensare le fondamenta della politica. La velocità con cui le trasformazioni si susseguono nel comporsi dello scenario della globalizzazione sembrano mettere fuori gioco le tradizionali prassi di regolazione delle società industriali. La sede delle decisioni politiche sembra essere perturbata dalle innovazioni scientifiche e dalle sue nuove applicazioni tecniche. Per rispondere a queste emergenza, egli considera necessaria una nuova cultura politica, che definisce con il termine di sub-politica. Essa si costituisce da un processo di dislocazione delle pratiche decisionali in seno alla società civile e alle sue emergenti articolazioni. In questo modo l’individualizzazione troverebbe una strada per canalizzarsi in un nuovo impegno politico di respiro universalistico, capace di sfuggire alla frammentazione politica prodotta a causa dei processi di individualizzazione. La globalizzazione metterebbe così a dura prova il funzionamento dello Stato nella sua configurazione nazionale, ma contemporaneamente chiamerebbe a una sua urgente riformulazione politica. La globalizzazione chiama in causa l apolitica come processo di governo dei processi economici che il capitalismo neoliberale sembra voler organizzare a prescindere, e al di là di ogni vincolo regolativo. La soluzione per Beck è legata al cosmopolitismo. Il nuovo regime cosmopolitico favorirebbe la progettazione di una inedita sovranità, fondata su principi morali che non posso essere rintracciati e quindi legittimati nello spazio dei singoli Stati nazionali. Il manifesto cosmopolitico che Beck scrive sull’idea dell’atteggiamento che potrebbe gettare le basi di un nuovo cosmopolitismo deve partire dal riconoscimento del fatto che l’individualizzazione, la diversità e lo scetticismo sono iscritti nella nostra cultura. I nuovi soggetti politici sono molteplici e plurali: movimenti, organizzazioni non governative, circoli, associazioni di volontariato.. che possono innescare un nuovo processo di democratizzazione avente lo scopo di rincorporare il tema dei diritti umani al configurarsi di una inedita forma societaria, organizzata su scala planetaria. 26.2 Le riflessioni di Beck sulla crisi della modernità hanno influenzato a fondo la riflessione sociologica della fine del ventesimo secolo. L’analisi della profonda crisi del moderno proposta da Beck non arrivava a prefigurare il suo definitivo cambiamento. Il concetto di seconda modernità testimonia questa prospettiva che si può denominare continuista. Tale direzione interpretativa si appoggiava sulla convinzione che la razionalità moderna mostrava sì delle profonde problematicità, ma non a causa di alcune contraddizioni destinate a scoppiare, bensì a causa degli stessi effetti sociali dei suoi successi, in altre parole a causa degli effetti collaterali che la modernizzazione portava con sé. Beck sembra incastrato in un ambivalenza che non riuscirà mai a risolvere, ovvero quella che si produce nella tensione tutta moderna tra opportunità e pericolo. La nuova condizione sociale investita e attraversata dalla propagazione dei rischi globali appartiene al moderno, non perché costituisce l’esito dei suoi stessi successi, ma soprattutto perché essa richiede con forza una più complessa determinazione dei principi normativi tipici della modernità. A proposito, il politico acquisisce in Beck una rilevanza decisiva, che invade in modo trasversale la sua intera elaborazione teorica. Margaret S. Archer e la morfogenesi della società meccanismi che è possibile spiegare i fatti sociali, la loro stabilità e cambiamento, cioè quel processo che chiama morfogenesi. La formula della spiegazione sociologica si articola in tre momenti: - Per spiegare un fenomeno sociale bisogna torna indietro nel tempo e ricostruire il contesto delle strutture e culture presenti in un determinato momento (T1): il ricercatore identifica quali parti della società stessero in quali relazioni tra loro, e quali condizionamenti ne risultassero. È necessario comprendere che in un certo momento storico alcuni Paesi possono essere legati economicamente a certi altri, dipendere gli uni dagli altri, essere più o meno forti e avere strutture politiche diverse. Queste condizioni mettono le popolazioni, i governi, i gruppi sociali in posizioni diverse, creano interessi divergenti o convergenti tra loro. La situazione che si crea può implicare relazioni necessarie oppure contingenti: due Paesi possono non avere bisogno gli uni egli altri, o viceversa possono avere legami di forte dipendenza reciproca e possono trovarsi in posizioni d’interesse compatibili o contrapposte. Le molteplici e complesse combinazioni di queste relazioni si chiamano configurazioni istituzionali e generano una logica situazionale, cioè dei condizionamenti che spingono ad agire in una certa direzione, con cui tutti gli attori sociali che si trovano in quel contesto devono fare i conti. - Ciò spiega le strategie che gli agenti mettono in atto nelle fasi successive (T2-T3), anche se il condizionamento strutturale non è mai assoluto, perché anche l’agire ha le sue proprietà e poteri. L’interazione si svolge tendendo a modificare la situazione precedente oppure a riprodurla. - Nel momento finale (T4) si assiste al risultato delle interazioni, degli scontri, delle concessioni e dei compromessi che si sono svolti. Strutture e culture vengono trasformate, oppure si riproducono in modo eguale. L’insieme di queste tre fasi è quello che Archer chiama un ciclo morfogenetico/morfostatico. In esso, l’ultimo momento è al tempo stesso il primo del ciclo successivo, in una dinamica che finisce solo con l’estinzione di una società. 27.1.5 Un punto importante riguarda il ruolo della persona nel modello archeriano. Seguendo la sua argomentazione, essa respinge sia le visioni che fanno dell’essere umano un prodotto della società, sia quelle che sottovalutano il ruolo della socializzazione. Anche qui, la sociologa si muove in una prospettiva realista, il cui punto di partenza è l’idea che la natura della realtà faccia una qualche differenza rispetto a che tipo di persone diventiamo, o rispetto al fatto stesso che diventiamo persone. La sua proposta è fondata sulla nozione di esperienza della realtà. Gli esseri umani vivono necessariamente in relazione con tre ordini di realtà: la natura, la pratica e la società. Dalle esperienze con le varie dimensioni della realtà emergono inevitabilmente premure, perché tutti dobbiamo affrontare le sfide che la realtà ci pone e definire cosa ci sta a cuore, in quali ambiti e ruoli vogliamo investire noi stessi. La costellazione di premure che caratterizza ciascuno costituisce la sua identità e si concretizza in progetti di vita, in cui le persone definiscono ciò per cui vale la pena impegnarsi. Le strutture della realtà presentano sia vincoli sia opportunità rispetto a tali progetti. Perciò, secondo Archer, l’identità personale e sociale si sviluppa attraverso un continuo processo riflessivo: le persone riflettono continuamente su se stesse in relazione al mondo. Questo continuo processo, di cui la riflessività è l’operatore chiave, orienta l’esistenza, il modo in cui cerchiamo di fare la nostra strada nel mondo. 27.2 In linea generale, le critiche mosse a Archer provengono dalle tre prospettive teoriche che essa ha inteso superare: - Alcuni autori hanno criticato il dualismo analitico, ribadendo l’inseparabilità di struttura e agire - Il concetto archeriano di struttura è stato criticato da lato individualista, cioè sostenendo che l’unica realtà che costituisce il sociale sarebbero gli individui - Infine, il tema della riflessività e della persona ha attratto due tipi di critica. Da un lato, è stato ribadito che la società sarebbe costitutiva della persona, mentre Archer sembra immaginare un soggetto umano la cui riflessività sia eccessivamente libera da condizionamenti interni. Ma soprattutto alcuni autori hanno criticato la sua visione troppo riflessiva della persone, sostenendo che essa comporta un livello di consapevolezza troppo elevato. Archer avrebbe un’idea troppo ambiziosa della capacità umana di progettare la propria vita. Richard Sennett e le conseguenze della flessibilità Richard Sennett nasce a Chicago nel 1943. È un intellettuale che ha mostrato come i temi che costituiscono tradizionalmente l’oggetto di studio della sociologia siano diventati più intrecciati, sia in quanto oggetti di studio, sia in quanto fenomeni sociali che caratterizzano la complessità sociale contemporanea. Il percorso di Sennett è esplicitare le modalità attraverso cui la dimensione personale si intrecci con la dimensione sociale nella sua modalità altrettanto determinante in quanto forma storica. La sua stessa biografia è un intreccio di eventi che riguardano la sua esperienza personale: giovane talentuoso violoncellista costretto a rinunciare alla carriera concertistica per via di un problema articolare e a cominciarne un’altra in ambito accademico. Nel anni 60 comincia la carriera di sociologo engaged, che unisce all’attività di ricerca e didattica quella di intellettuale pubblico. Il suo oggetto di studio diventa quindi la città e i modi in cui la classe sociale, le dinamiche economiche e la vita familiare si intrecciano nella vita delle comunità urbane. 28.1 Sennett avvia i suoi studi sulla città a partire dagli anni 70 con la pubblicazione “Nineteenth century cities”. È in questo primo volume che analizza il rapporto esistente tra le famiglie della classe media di Chicago e la violenza. Sennett si interroga anche sulla relazione tra ordine, violenza, modalità di produzione delle regole sociali, appartenenza comunitaria e modalità in cui si produce lo spazio urbano. Il tema della ghettizzazione sarà da lui affrontato più volte e lo riprenderà successivamente anche in “The use of Disorder”. L’idea che sta alla base di questo lavoro nasce da una visione controintuitiva del concetto stesso di disordine. Il disordine è ciò da cui rifuggono i progetti urbanistici su cui si fondano le realtà metropolitane nordamericane e che generano forme di comunità caratterizzate da omogeneità sociali negli stili di vita e nei modelli di comportamento. In realtà può essere visto come modalità di risposta differente alla complessità sociale che la realtà consegna agli individui e ai gruppi sociali. Egli sostiene che l’ideale accettato dell’ordine genera, tra le classi medie urbane, modelli di comportamento vincolati e spesso violenti. Propone così un modello di città che può anche incorporare il disordine, in forma di diversità, per far crescere individui in grado di rispondere alle sfide della vita e a saperle affrontare attraverso l’apprendimento della diversità sociale. La forma del vivere urbano torna a costituire l’oggetto di analisi nel lavoro sulla Chicago degli anni successivi alla Guerra di Secessione, il periodo in cui le città industriali americane cominciavano a prendere quella connotazione urbana di metropoli che avrebbero avuto negli anni successivi. Nel lavoro “Family against the City. Middle-class homes of industrial Chicago”, Sennett analizza la storia della relazione che esiste fra la forma della città, il modo in cui le famiglie della classe media costruiscono il loro stile di vita e il modo in cui queste costruiscono la propria identità sociale attraverso la loro professione. Inoltre Sennett si domanda come l’avversione dell’alterità si traduca in forme dello spazio urbano progettato e costruito. In breve, il design urbano rifletterebbe la paura diffusa dall’esposizione all’ignoto. È per sfuggire all’ignoto che si progettano e costruiscono divisioni tra spazi interni ed esterni in cui si vive quotidianamente. L’idea di Sennett è quella di sovvertire la narrazione rispetto a ciò che fa differenza attraverso l’esperienza dei diversi modi di abitare e di guardare gli spazi urbani. Il differente modo in cui le diverse fasce di popolazione urbana percepiscono la città va visto come una leva per potere arricchire l’esperienza che ciascuno può fare della vita cittadina. In “Building and Dwelling. Ethic for the city”, l’idea stessa di riconfigurare un’”etica aperta” per la città diventa il resoconto di anni di studio ed esperienze a conclusione di una ricerca della forza del disordine come elemento essenziale per consentire una convivenza sociale fondata sulla curiosità per ciò che risulta differente, spazi urbani e comunità, etniche, sociali, culturali, singole persone. Apertura e chiusura dei sistemi urbani sono dunque le prime parole chiave che costituiscono principi per interpretare lo stile progettuale del costruire che si contrappone al modo dell’abitare la città da parte di persone e gruppi sociali. Sennett distingue fra ville e cité connotando la diversa matrice semantica attribuita allo spazio costruito – ciò che costituisce la morfologia concreta della città in uno spazio definito la ville – e alla concentrazione della vita sociale, relazionale, comunitaria con modi specifici che si differenziano fra i diversi insediamenti urbani – la cité. La distinzione nel tempo si è sempre più dilatata dando vita, da una parte, al progetto urbano come disegno del costruibile e, dall’altra, come controprogetto spontaneo, come realizzazione del modo espressivo di abitare lo spazio. Più le città sono immaginate come sistemi urbani chiusi in spazi protetti e omogenei, più la distanza fra ville e cité genera problemi sociali di gestione. In breve i tecnici della ville hanno tendenzialmente ignorato la cité ovvero le modalità di vita dello spazio che le comunità producono come narrazioni soggettive ma condivise della città stessa. Sennett indica 5 forme che possono essere progettate e che rendono la città un sistema aperto: - La progettazione di spazi sincronici , ovvero spazi in cui si articolano attività e azioni diverse nello stesso tempo (come una piazza) e che si contrappongono a spazi sequenziali, cioè spazi in cui tutti si recano per svolgere la medesima attività. Questi sono gli spazi che consentono di apprendere le voci della città, l’intreccio dei discorsi di chi li frequenta. - La progettazione di spazi punteggiati. In breve in un sistema aperto i luoghi devono essere ben distinti, senza reiterazione di uno spazio sempre uguale che si ripetono nello spazio, vanno introdotti dei segni di interruzione come degli angoli. - La progettazione di spazi porosi e membrane: la porosità consente di connettere le parti della città così come lo è la membrana, ciò che distingue un confine da un bordo. Nel primo caso, si tratta di un segnale di delimitazione come i confini nazionali, nel secondo, di una linea di scambio fra i due sistemi come una costa lo è fra mare e terra. - La progettazione di spazi incompleti, cioè gusci e forme-tipo: Spazi incompleti quali i gusci che possono essere usati in modo diverso in differenti. Si tratta di spazi non finiti perché aperti ad assumere funzioni e significati differenti nel tempo. Sono dunque oggetti urbani progettati con l’idea che potranno essere utilizzati per funzioni diverse. - La progettazione di spazi multipli: sono spazi ibridi che possono assumere diversi identità, per esempio il mercato. Razionalità e pianificazione rischiano dunque di trasformarsi in forme di radicalismo ottuso le cui derive sono già visibili come conseguenze nella vita delle persone stesse. Persone che proprio nella società locale costruiscono la loro identità sociale e personale. E lo fanno a partire dal ruolo che svolgono e dal modo in cui costruiscono la loro vita professionale. 28.3 Il terzo filone riguarda lo studio del rapporto che esiste fra individuo e società nella modalità in cui si delinea e nelle modalità in cui gli individui o gruppi sociali possono elevarsi alla condizione di soggettività politiche. Egli ritiene che la modernità abbia fatto emergere la tirannia dell’intimità. Dal periodo successivo alla diffusione delle idee illuministiche, cioè con il processo di modernizzazione che dà vita alla sfera pubblica, la domanda di autenticità, sincerità e personalità contrapposta all’impersonalità dell’anonimato urbano rende le relazioni nella sfera pubblica esclusivamente distaccate. Nell’analizzare il rapporto individuo società e gli evidenzia come la nozione stessa di individualità cambi attraverso la storia. L’evoluzione dei concetti di carattere e personalità sviluppatisi in psicologia, dimostra la rilevanza di questa tirannia dell’intimità a discapito dell’importanza della partecipazione alla sfera pubblica, cioè il luogo del confronto di idee politiche, economiche e sociali. Considerando il malessere psicologico come qualcosa che si connota in sé, come un male uguale per tutti e che dipende dalle condizioni individuali legate alla personalità o allo stato emotivo, la psicologia contemporanea ha alimentato la tendenza degli individui a preoccuparsi della propria vita intima che si è rivelata come una trappola piuttosto che come una liberazione. La ricerca di appagamento emotivo, che non può essere trovato nella sfera pubblica, poiché impersonale, riduce la stessa rilevanza dello spazio sociale, confinando il benessere esclusivamente alla dimensione personale e intima. I problemi che riguardano la sfera pubblica sono percepiti come inutili e irrilevanti almeno fino a quando non diventano direttamente collegati all’interesse personale. In realtà, molti dei problemi che riguardano la sfera pubblica vanno trattati a partire dalla impersonalità che li caratterizza ma non per questo meno rilevanti. Il narcisismo, che egli identifica come tratto del periodo, sarebbe alimentato da una cultura che privilegia l’attenzione esclusivamente su se stessi e sui propri interessi piuttosto che sulla dimensione collettiva, generando piuttosto disinteresse e ignoranza rispetto alle questioni sociali. La sfera pubblica dunque appare contrapposta a quella privata soprattutto perché fredda e impersonale rispetto a quella personale, di per sé calda e intima. In questa visione, il rapporto fra individuo e società si esaurisce nelle relazioni personali intime. Tutto ciò fa scomparire la possibilità di percepirsi come soggettività politiche e di percepire la sfera pubblica come un’area di interesse per se stessi anche se al di là dell’interesse personale. L’incapacità di preoccuparsi di noi se non perché sia direttamente coinvolti determina la scomparsa della rilevanza della sfera pubblica. In breve, solo i simboli del vero sé rendono autentico il modo di essere di un individuo. E dunque nella contemporaneità ci si affida alle azioni pubbliche delle persone solo se riferibili alla loro personalità, di un candidato politico vogliamo sapere chi è veramente ovvero sapere quali sono i suoi sentimenti autentici. Ciò dà vita a una finzione pubblica che danneggia del tutto la sfera pubblica stessa. In sintesi, la vita pubblica è ammalata di vita privata. Il tema del rapporto individuo società torna nel secondo lavoro della trilogia di Sennett, “Together the Rituals, Pleasures and Politics of Cooperation”. Anche in questo caso la critica di Sennett è rivolta, in primo luogo, al trend culturale innescato dal tipo di organizzazione economico-produttiva che caratterizza la società contemporanea, il tratto non cooperativo. L’io non cooperativo è tipico di quel tipo di persona che tende a ridurre le ansie generate dalla differenza, sia che si tratti di differenze di tipo politico, razziale, religioso o etnico. Una persona che vuole solo ridurre le ansie non vuole abbandonare la comfort zone come luogo dell’omogeneità e dell’omologazione. Eppure è proprio dalla cooperazione con la diversità come forma di tecnologia sociale che è possibile ottenere risultati che migliorino la qualità della convivenza. La domanda che Sennett pone riguarda come le istituzioni possano formare, indebolire o rafforzare la cooperazione fra individui e gruppi. La cooperazione si sviluppa solo praticandola e lo si fa a partire dalla riduzione dell’uso di asserti comunicativi aggressivi che auto centrati, come quelli del mondo dei media, i discorsi politici, i discorsi delle persone nella vita quotidiana. Al contrario, è importante partire dal dialogo cercando di essere un buon ascoltatore, poiché un buon ascoltatore individua un terreno comune più in ciò che si suppone che in ciò che si dice. Si può avere reale cooperazione solamente empatizzando piuttosto che simpatizzando, scambiando informazioni e incuriosendosi dell’altro e del suo punto di vista. Se tutto ciò è esportato dal luogo di lavoro alle comunità urbane in cui convivono gruppi sociali eterogenei, è evidente che si formeranno delle identità che, soprattutto in condizioni di competizione per la sopravvivenza, tenderanno a considerare la cooperazione un costo piuttosto che un vantaggio. Ma la collaborazione è una competenza che può svilupparsi spontaneamente nella vita sociale, qualora si trovino condizioni che consentono alle persone di riconoscere abilità proprie e degli altri. In definitiva Sennett immagina la comunità come un processo durante il quale le persone imparano sia il valore delle relazioni faccia a faccia, sia i limiti di queste relazioni. Ma secondo lui la capacità spontanea di fare società degli esseri umani è maggiore di quanto non obblighi lo stesso ordine sociale. Arlie Russell Hochschild e la commercializzazione delle emozioni Arlie Russell, di nazionalità americana, nasce il 15 gennaio 1940 a Boston. È cresciuta in una famiglia tradizionale, che vedeva il padre impegnato nel suo lavoro extra-familiare e la madre dedita allla cura e all’allevamento dei figli. 29.1 Il suo pensiero si inserisce pienamente nella tradizione dell’internazionalismo simbolico i cui massimi esponenti sono Blumer, Mead e Goffman. Per questi autori non esiste una società astrattamente intesa che si impone agli individui, ma esistono solo soggetti in interazione e la società altro non sarebbe che il risultato di interazioni sociali. In questa prospettiva di analisi, sono centrali i concetti di realtà di vita quotidiana e di conoscenza di senso comune. Per Berger e Luckmann la realtà sociale è tutto ciò che esiste intorno a me che io do per scontato e che accetto in maniera irriflessa e che continua a esistere anche se io chiudo gli occhi o mi addormento. La conoscenza di senso comune è data da quell’insieme di conoscenze che acquisisco nel corso della mia vita, sia informali (acquisiste tramite la socializzazione primaria) sia formali (apprese con istruzione e formazione). Comprende non solo la conoscenza della scienza, ma anche la conoscenza che deriva dalla tradizione, usi e costumi, dalle credenze popolari ecc cui faccio riferimento per vivere nella quotidianità. Hochschild assume come unità di analisi il soggetto in interazione con altri nelle due sfere sociali più importanti, come impegno richiesto in termini di ore di lavoro e di investimento affettivo e relazionale, ovvero la casa e il lavoro extra-familiare. Per molti aspetti Hochschield recupera la lezione di Wright Mills, per il quale le burocrazie hanno sopraffatto i lavoratori della classe media, privandoli di ogni pensiero indipendente, oppressi ma allegri e soddisfatti della vita che conducono. Mills ritiene che la società occidentale sia intrappolata all’interno della gabbia d’acciaio della razionalità burocratica, che porterebbe alla diffusione della razionalità come modello di riferimento per l’azione e non più la ragione. Per effetto di tale crescente diffusività, per la sociologa le due sfere di vita, quella privata dominata dalle ragioni del cuore di quella pubblica dominata dalle ragioni del denaro, un tempo separate e distinte, tendono a convergere, nel senso che anche la sfera privata cade sotto il dominio del principio dell’utilità e della ragione strumentale. Per Hochschield, la commercializzazione della vita intima diventa un concetto chiave per comprendere cosa sta succedendo nella vita privata degli americani e come stanno cambiando le strategie di bilanciamento tra lavoro familiare e lavoro extra-familiare. La commercializzazione si diffonde facendo leva sulla gestione e controllo delle emozioni, intese come elementi costitutivi dell’azione umana. 29.1.1 Le emozioni pervadono la nostra vita e sono centrali per comprendere il comportamento umano e i valori collettivi della società. L’emozione è un moto dell’animo che viene dal di dentro del nostro corpo e si manifesta nel nostro corpo, come il rossore quando si prova vergogna o il pianto quando si sente dolore. L’emozione è immediata, di breve durata e non controllabile nella sua manifestazione fisica, a differenza del sentimento che è un moto dell’animo di più lunga durata, che può essere intenzionalmente coltivato. Di emozioni hanno parlato anche i primi sociologi come Durkheim, Weber e Simmel, ma è prevalsa l’idea che le emozioni costituissero una categoria del pensiero in riflesso umano, quindi del pensiero non razionale e che l’uomo dovesse cercare di controllarle, secondo le regole sociali condivise. Nella seconda metà del secolo scorso iniziò negli Stati Uniti lo studio delle emozioni, intese non più come componente irrazionale dell’azione umana, ma come componente essenziale accanto alla ragione, dell’azione umana. In questo nuovo filone di studi è stato fondamentale il suo contributo che istituì l’insegnamento di sociologia delle emozioni. Nell’appendice A al suo primo contributo sistematico sul ruolo delle emozioni nell’azione umana, essa presenta criticamente il modello organicistico di emozione e quello interazionista e introduce una nuova teoria sociale delle emozioni. Nell’appendice B dello stesso volume essa esamina i termini in base ai quali battezziamo i nostri sentimenti: dare nome a un sentimento significa dare un nome al nostro modo di sentire qualcosa, etichettare una nostra percezione. Fa alcuni esempi per mostrare le diverse connotazioni culturali che i sentimenti possono assumere: se per esempio, si immagina la perdita di alcuni amici vittime di un incidente e non li consideriamo nostri pari, noi proviamo con passione, ma se li consideriamo inferiori a noi, proviamo pietà. Quando si è tristi, ci focalizziamo su ciò che amiamo, ci piace o vogliamo ma al momento non è disponibile. Non ci focalizziamo sulla causa della nostra tristezza o sulla relazione con la causa della mancanza. Invece, nella nostalgia la nostra tristezza è dovuta alla mancanza o lontananza di un luogo o di una persona. La frustrazione si focalizza non su ciò che la provoca, ma sul sé che si vive nella situazione del non avere. Invece rabbia, risentimento, indignazione, disprezzo, colpa e angoscia corrispondono a differenti modelli di focus sulla causa della frustrazione. Se chi induce in me frustrazione è un soggetto che ha potere, io ho paura; se ha ciò che io non ho, provo invidia; se ha ciò che prima era mio, io provo gelosia; se in un contesto sociale, qualcuno a me pare riceve più considerazioni di me, provo rabbia; se la causa della mia frustrazione è qualcosa di immorale, esprimo indignazione; se una persona ottiene potere, successo adottando strategie immorali, io provo disprezzo. Noi chiamiamo amore quel sentimento che si basa sulle qualità desiderabili di una persona o di una cosa e sul nostro desiderio di starle vicino o di averla. Se con la persona che ha queste caratteristiche per noi importanti abbiamo una relazione caratterizzata da una certa distanza sociale, noi sentiamo ammirazione, se la distanza è molto grande si può sentire soggezione. Se ci comportiamo male o si comporta male una persona a noi vicina proviamo vergogna. Se ci sentiamo appagati e soddisfatti di ciò che facciamo proviamo orgoglio. Le emozioni, nelle loro diverse sfumature, assunte come componenti centrali, al pari della ragione, dell’azione umana diventano per la sociologa parte integrante e costitutiva della realtà di vita quotidiana. Costituiscono il veicolo della commercializzazione della vita intima. 29.1.2 La diffusione della razionalità strumentale nella vita quotidiana è un processo ampiamente dibattuto nella sociologia. La diffusione della razionalità strumentale è diventata un tema centrale della sociologia critica e a partire dagli anni 70 del secolo scorso è stata al centro di tutti gli studi che hanno criticato il modello di sviluppo sociale ed economico delle società avanzate occidentali. Esso però concentra la sua analisi a livello micro, portando alla luce i silenziosi e spesso non percepiti effetti che la diffusione della razionalità strumentale sta avendo sulla nostra vita quotidiana, quella lavorativa e quella familiare. divisa. Nel ventesimo secolo Martin Buber è stato colui che più ha evidenziato il primato della relazione. Si avventò a tradurre in tedesco la Bibbia ebraica. Quello che vale la pena considerare è che la Bibbia ebraica chiama i singoli libri usando il versetto con cui incominciano; Breshit che vuol dire in “principio”. Quindi, quando Buber scrive che in principio è la relazione, usa la stessa formula che sceglie per tradurre la Bibbia. In principio non significa solo un primato temporale, come a dire all’inizio, ma significa soprattutto una priorità ontologica. La relazione viene prima perché è già prima che si formi il singolo. Quando usiamo il termine persona in sociologia dobbiamo considerare questa genesi di relazione. 30.1.1 Il passaggio da un livello generale a un livello più specificatamente sociologico si ha quando si intende la relazione non più come un dialogo a due, ma come esperienza collettiva. Ciò è possibile quando si passa dalla diade al gruppo. Georg Simmel è l’autore che per primo ha messo in luce questo aspetto della vita sociale. Nel considerare ciò che egli chiama la parte geometrica della società, ossia la configurazione nello spazio dei membri del gruppo, Simmel si concentra su un punto decisivo: la differenza tra il rapporto fra due individui e quello fra tre o più individui. La diade è l’unica forma di aggregazione per la quale l’uscita di un singolo membro comporta la dissoluzione dell’aggregazione stessa. Questa caratteristica fa sì che il coinvolgimento delle parti coinvolte sia emotivamente molto carico. Nei rapporti di coppia, la tenuta del rapporto è interamente nelle mani di ciascuno dei due membri ed è sufficiente che uno venga meno perché la coppia non esista più; cosa che non avviene nel caso di altre unioni, dove qualsiasi membro sa che continueranno a esistere dopo il suo abbandono o la sua morte. Il tema dell’abbandono e quello della morte consente a Simmel di individuare un livello di relazione specifico dell’esperienza umana. La commissione tra il tragico (l’abbandono di un membro che sfalda la diade) e l’elegiaco (la fusione dei membri l’uno nell’altro) costituisce la base di quella che Simmel chiama intimità, tale per cui gli individui coinvolti nella diade conoscono le proprie reciproche debolezze, meschinità, fragilità, vizi… che tendono a nascondere all’esterno della diade. La relazione a due è chiusa in se stessa: la sua dinamica richiede l’irruzione di un terzo, che ne realizzi l’espressione più genuina, ma che perciò rischia di infrangere l’armonia e di sfaldare il legame. Che un terzo elemento, come nel caso di un figlio nato da un matrimonio, porti a interrompere il loro senso più intimo è caratteristico dei raggruppamenti a due. Il punto decisivo è che per quanto due individui isolati solitamente “facciano di meno”, di due individui in relazione, in quest’ultimo caso ciascun membro della diade è in un certo senso costretto a fare qualcosa e se omette di farla, rimane soltanto l’altro. Quando sopraggiunge il terzo, l’armonia tra i due si interrompe. Tuttavia, è soltanto con il terzo che si può contemplare la relazione tra i due. In altri termini, il terzo apre la possibilità di un’esperienza di libertà, perché è solo dinnanzi al terzo che la relazione diviene effettiva e oggettiva. Il terzo contempla dall’esterno la diade e la rende reale; la diade, rispondendo alla considerazione del terzo, rinuncia alla dimensione esclusiva e si dispone a una configurazione ulteriore, aperta verso il futuro. Dal punto di vista sociologico il terzo costituisce il nucleo generativo dell’esperienza collettiva e della relazione di gruppo. Funge da cerniera tra queste due dimensioni- quella psicologica del bambino che si stacca dal legame fusionale con la madre e affronta il mondo, e quella sociologica della costruzione di rapporti comunitari. 30.2 La ricerca e le riflessioni di Mead nella sua opera “Mente, sé e società” consentono di descrivere l’essere in relazione come modalità di assunzione del terzo. Il protagonista di questo processo è il gioco. 30.2.1 Ci sono moltissimi modi di giocare: il gioco è un’esperienza che tutti gli esseri umani conoscono fin dai primi anni di vita e che attraversa tutte le sfumature dell’espressione emotiva, dalla gioia alla delusione, dalla rabbia alla tristezza, dall’eccitazione alla noia. Giocando impariamo a vivere con gli altri e con noi stessi. Il gioco è un’apertura all’altro nella sperimentazione di possibilità alterantive a quelle offerte dalla realtà ordinaria che si va ad assumere durante l’infanzia e l’adolescenza come luogo della normalità. Il gioco invece è l’area della sfida, delle opportunità infinite che offre l’immaginazione. Mead distingue due tipi di gioco: il play e il game. - Il play è il gioco spontaneo. Mead fa l’esempio di una bambina che gioca a fare la mamma, la maestra, la poliziotta… nel ricoprire questi ruoli la bambina interiorizza i modi di parlare e di agire che i vari personaggi mettono in atto nella vita quotidiana. In questo modo, i bambini hanno la possibilità di interagire con ruoli sociali e schemi di comportamento. Tuttavia, il play non basta a costruire un’identità oggettiva: il sé come lo definisce Mead, è infatti non solo un punto focale su cui si orientano le azioni, ma anche l’oggettivazione di tale punto, ovvero la consapevolezza di occupare una posizione, di realizzare un compito, di corrispondere a un’aspettativa. - Il gioco inteso come game contribuisce a sviluppare proprio questa caratteristica. Il game è il gioco strutturato e competitivo, potremmo dire il gioco di squadra. In termini calcistici che gioca come portiere deve attenersi al compito che quel ruolo implica, ci si aspetta che fermi i tiri indirizzati alla propria porta usando le mani e che rinvii il pallone ai compagni nei modi e nei tempi opportuni. Entrare a far parte di una squadra e giocare una partita significa non soltanto attivare l’immaginazione, ma soprattutto riconoscere una struttura sociale nella quale inserirsi e alla quale partecipare. Questa struttura, che è la squadra di appartenenza ma anche le regole del gioco, gli avversari, le aspettative che si creano intorno al proprio contributo, corrisponde a quello che Mead chiama l’altro generalizzato. Ciò rimanda al terzo che arricchisce la relazione, la rende complessa e perciò stesso condivisibile, in una parola reale. La relazione è sia un’apertura verso un tu concreto (nel dialogo) o interiorizzato (nel gioco simbolico) all’interno di strutture molteplici e sempre più complesse. 30.2.2 Secondo Norbert Elias non si può comprendere la natura se si considerano come punti di partenza le azioni individuali. Dunque per comprendere la relazione occorre pensare in termini relazionali. Nell’ultima parte della sua vita egli dedicò molte energie nel trovare esempi e oggetti di studio che mettessero in luce la necessità di un approccio relazionale alle scienze in generale e alla sociologia in particolare. Il campo più idoneo per questo progetto è quello del linguaggio. L’intento di Elias è quello di criticare un atteggiamento scientifico che gli considera egemone e avanzare un’ipotesi che ritiene non soltanto alternativa, ma anche migliore per spiegare e descrivere i processi sociali. Elias, fin dai primi tempi della sua dissertazione di dottorato, si rivolge contro un approccio alla realtà definito trascendentalismo, a partire dalla filosofia di Kant. Cant considera le connessioni causali come costruite a priori nell’intelletto umano. Esse pertanto non sono al di là dell’esperienza, ma sono condizioni universali di tutte le esperienze umane possibili, cioè trascendentali. Ciò che Elias rimprovera alla rivoluzione copernicana di Kant è il fatto che il suo approccio implichi l’incapacità degli esseri umani di sapere se il mondo in quanto tale avesse tutte le caratteristiche che sembra avere passando attraverso la coscienza o la ragione, ciò significa che il destino di questo modo di affrontare i problemi è quello di abbandonarsi a un relativismo filosofico. Il trascendentalismo è l’esito della tendenza a cercare soluzioni individuali e puntuali a problemi che sorgono da esperienze collettive di un intero gruppo nel corso di molte generazioni. Trattare la questione del linguaggio e della comunicazione simbolica per Elias è il modo migliore per suggerire una risposta sociale al problema sorto nella cultura trascendentalista. Il linguaggio infatti è il fatto sociale per eccellenza, perché non soltanto stimola, ma richiede necessariamente un certo grado di integrazione di gruppo. In quanto fatto sociale, la lingua non può essere ridotta ad azioni individuali: essa è il prototipo di un processo privo di inizio. La difficoltà dell’approccio individualista è dovuta alla ricerca di inizi assoluti, per cui se non si vuole cadere nel dogmatismo creazionista, ci si arrovella in uno scetticismo relativistico. A queste due derive, Elias contrappone il metodo processuale, per cui non conta tanto risalire a una causa, un principio, quanto rilevare la dimensione sociale che consente l’acquisizione di quella causa o di quel principio. Inoltre Elias sottolinea come a differenza degli animali che hanno un verso specifico e innato, gli esseri umani non hanno una lingua naturale. Essi sono predisposti all’apprendimento di una o più lingue e ciò significa che per natura gli esseri umani sono forniti non solo della possibilità, bensì anche della necessità di acquisire da altri, tramite l’apprendimento, una lingua come fondamentale mezzo di comunicazione. La relazione in altre parole è il fondamento del processo che consente l’apprendimento di una lingua. 30.2.3 Il contributo di Elias alla riflessione sulla relazione da l’opportunità di effettuare un passaggio decisivo per l’epistemologia delle scienze sociali: la relazione infatti non è soltanto il fondamento del vivere comune, dell’esperienza concreta, ma è il fondamento delle scienze stesse che studiano il vivere comune e i legami sociali. Anche i sociologi sono esseri in relazione e anche le loro domande, come le loro risposte sono pratiche linguistiche e dunque tappe di un processo che implica esperienze collettive di un intero gruppo nel corso di molte generazioni. Tuttavia, dire relazione non significa sempre dire eguaglianza. Simmel osserva le metamorfosi della relazione quando si passa dalla diade al gruppo. Un esempio che egli propone è il rapporto confidenziale che si instaura tra un domestico e il suo padrone: se il domestico è solo, gli scambi comunicativi tra lui e il suo padrone possono arrivare ad assumere toni di complicità, finanche di amicizia. La parità tra i due, impossibilitata dalla differenza di ceto e di ruolo, viene in parte recuperata dagli scambi comunicativi e dalla tonalità affettiva. Tuttavia la situazione sociologica che si instaura tra il sovraordinato e il subordinato cambia non appena si aggiunge il terzo elemento. In luogo della solidarietà è ora molto più facile la formazione di partiti, in luogo dell’accettazione di ciò che unisce il servitore al padrone, è più facile quella che divide, perché i legami di comunanza vengono ora cercati dal lato del compagno e vengono naturalmente trovati proprio in ciò che costituisce l’antitesi di entrambi con il loro comune sovraordinato. Lo stesso nei rapporti tra i sessi o in tutte le situazioni in cui un equilibrio apparentemente stabile viene turbato da uno sbilanciamento quantitativo, che mette in risalto la differenza tra le persone coinvolte nella relazione. La relazione, in quanto fondamento, non è una dimensione neutrale: essere in relazione significa immediatamente prendere una posizione. Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza. Gli assiomi della comunicazione sono il tentativo compiuto dall’equipe del Mental Research Institute di Palo Alto, alla fine degli anni 60, di fissare le proprietà elementari delle interazioni umane. Il termine assioma rimanda a un principio non dimostrabile ma assunto per vero: in questo senso la relazione c’è da sempre, la sua presenza è senza inizio, come dice Elias. Il primo celeberrimo assioma della comunicazione recita: “Non si può non comunicare”, il che significa che anche quando non vogliamo aver niente a che fare con gli altri, stiamo tessendo trame di relazione. Studiare la società implica pertanto, anche a prescindere dalle motivazioni che spingono il singolo a intraprendere questo percorso, assumere un imperativo etico che riguarda l’impegno, da parte degli esseri umani, a prendersi cura delle relazioni grazie alle quali sono in vita. Numerose ricerche hanno dimostrato infatti che l’essere umano a cui viene impedito di crescere in un ambiente sociale che se ne prenda cura in maniera adeguata tende solitamente a manifestare uno sviluppo carente da un punto di vista relazionale, affettivo, cognitivo e motorio. Tuttavia, il legame tra individuo e società è reciproco e bidirezionale. Come il giovane individuo ha bisogno di una società accogliente e di riferimento per crescere, svilupparsi, diventare un soggetto socievole e al contempo autonomo, la società necessità di accogliere nuovi giovani membri per dare continuità a se stessa. I più giovani, entrando a far parte della società, realizzano un processo importante per il benessere della società stessa, ossia garantiscono il ricambio generazionale. I giovani assicurano la continuità perché si fanno carico di apprendere ciò che caratterizza la propria cultura di appartenenza tralasciando i dettagli più marginali, al contempo portando elementi importanti di innovazione culturale e sociale. Il passaggio del delle generazioni comporta anche l’introduzione di nuovi stili di vita, di nuovi valori, che il più delle volte coesistono con quelli già in essere. Da ultimo, nella società contemporanea sempre più multietnica e multiculturale, le nuove generazioni con background migratorio hanno contribuito in maniera significativa negli ultimi decenni al ricambio generazionale, riducendo la drastica riduzione delle nascite. Questi giovani devono fare i conti con una duplice sfida, derivante dal loro essere multi appartenenti: da un lato dare continuità alla propria cultura di origine, preservandone usi e tradizioni, e dall’altro integrarsi in una nuova cultura, imparandone le regole, i codici linguistici eccetera. 31.2.2 La socializzazione è dunque un processo che dura tutta la vita in quanto nelle diverse fasi del ciclo della vita continuammo ad apprendere dai contesti e dalle persone con cui entriamo in relazione. Di qui due riflessioni: - Nelle società complesse e contemporanee i più giovani presentano delle multi-appartenenze, ossia hanno la necessità di essere socializzati a mondi sociali differenti. La moltiplicazione delle appartenenze in una società sempre più frammentata e meno ordinata rispetto al passato richiede al giovane lo sforzo di tenere insieme relazioni, esperienze e messaggi anche molto diversi tra loro e a volte in conflitto. Invece nella società moderna, che era ordinata e omogenea, i più giovani venivano socializzati da poche agenzie (famiglia e scuola obbligatoria) allineate tra loro per quanto riguardava la missione educativa ed appartenevano sicuramente a meno gruppi rispetto a quanto assistiamo oggi. - Se la socializzazione è un processo continuo significa che non avviene una volta per tutte, quindi non si conclude durante la prima giovinezza. A volte è necessario anche risocializzarsi. Per esempio, gli adulti sono sempre più spesso chiamati a risocializzarsi a nuovi contesti, nuovi lavori, a nuove tecnologie digitali. La mutevolezza e precarietà del mercato del lavoro sta riguardando anche gli adulti. Una persona adulta che perde il proprio posto di lavoro dopo tanti anni, avrà la necessità di risocializzarsi al mercato del lavoro, aggiornare le proprie competenze in base alla mansione e al settore in cui andrà a reinserirsi. La socializzazione ma ancora di più la risocializzazione non sono processi semplici, lineari e a costo zero per la persona e per il sistema sociale, ma sono l’essenza delle identità multiplex e della società complessa. Ci sono inoltre casi estremi di risocializzazione, che coinvolgono quegli individui che si trovano a dover accedere a istituzioni totali come le carceri, gli ospedali psichiatrici, le case di cura per anziani. In tutti questi ambienti le persone vengono spogliate delle loro abitudini, delle loro routine e dei loro affetti e devono reinventarsi e adattarsi a un nuovo contesto di vita. Anche nel tempo del lockdown a maggio 2020 il Covid ha costretto le persone a un insolito esperimento di risocializzazione di massa dove abbiamo acquisito nuove abitudini e ne abbiamo perse altre, che forse recupereremo ma non necessariamente. Durante le diverse fasi del corso della vita, gli individui hanno molteplici occasioni di socializzazione ed è necessario distinguere due tipi di socializzazione, quella primaria e quella secondaria. - La socializzazione primaria è la prima forma di socializzazione con cui l’individuo fa i conti e anche la più importante. Nei primi anni di vita si gettano le basi dello stare in società, si creano le fondamenta della propria identità personale e sociale, si apprendono le regole dello stare insieme. Nel contesto familiare il bambino viene socializzato dai genitori ai valori, alle regole, alle norme sociali ma anche ai linguaggi e alle modalità comunicative della cultura a cui appartengono. Tra le tante cose, la famiglia spesso attua anche una socializzazione anticipatoria, ossia prepara i figli ai ruoli sociali futuri, quali cambiamenti e quali ruoli dovranno affrontare nelle diverse fasi della vita, a partire dalla pubertà, età dei cambiamenti per definizione. - La socializzazione secondaria segue temporalmente quella primaria e coinvolge agenti socializzanti formali (scuola, lavoro) e informali (gruppo dei media), che forniscono le competenze specifiche per operare all’interno di contesti particolari e per svolgere determinati ruoli all’interno del sistema sociale. I processi di socializzazione secondaria avvengono prevalentemente al di fuori della famiglia, a partire dall’età scolare e proseguono per tutta la vita prevalentemente in maniera graduale, provvisoria, informale e soprattutto volontaria. Le giovani generazioni dei paesi mediterranei come l’Italia, rispetto a quelli del Nord Europa, presentano delle transizioni all’età adulta più rallentate, talvolta incomplete e soprattutto più lunghe. Si diventa adulti ossia autonomi da un punto di vista economico ed abitativo ben oltre la maggiore età. La famiglia è l’agente di socializzazione primaria. Alla famiglia è affidato il compito della prima socializzazione delle nuove generazioni. Un compito impegnativo, ancora di più in questi ultimi decenni, in cui la stessa famiglia ha subito trasformazioni nella sua forma e composizione. Prima col passaggio dalla famiglia allargata a quella nucleare formata soltanto da genitori e figli, che ha consegnato nelle mani quasi esclusive dei genitori questa funzione, potendo far sempre meno conto sulle reti parentali di prossimità come i nonni. A ciò dobbiamo aggiungere una seconda trasformazione che ha riguardato in tempi più recenti la stessa famiglia nucleare, ovvero la doppia carriera, quando entrambe le figure genitoriali svolgono un’attività lavorativa extradomestica. Inoltre, i legami di coppia sempre più fragili hanno portato in molti casi alla formazione di famiglie monoparentali e a famiglie ricomposte, dove separati o divorziati con figli da novità a nuove famiglie allargate. Ci sono poi le famiglie scomposte per motivi migratori oppure famiglie in cui, per motivi lavorativi, la copia coabita sotto lo stesso tetto solo per alcuni periodi durante l’anno. È evidente che la famiglia svolge un ruolo importante rispetto alla socializzazione primaria, senza nascondere che la complessità che la caratterizza spesso rende il processo più faticoso sia per i genitori sia per i figli. Nella famiglia lunga che è anche una famiglia nido, il conflitto tra le generazioni si è sensibilmente ridotto. La famiglia, per preservare un buon clima intra-familiare, ha concesso ai figli sempre più libertà e meno regole, venendo meno così al suo ruolo educativo tradizionale. La socializzazione secondaria ha inizio con la scuola; quest’ultima è la gente socializzante formale. La scuola è il luogo in cui si apprendono i saperi e si cresce nelle relazioni tra pari e con gli adulti. A partire dal secondo dopoguerra, le giovani generazioni nel nostro paese hanno potuto accedere gratuitamente all’istruzione scolastica senza restrizioni e limitazioni. La scuola si è accreditata nel tempo come luogo fondamentale per la formazione integrale dei giovani, in cui essi apprendono i diversi saperi ma imparano anche a relazionarsi con pari e adulti diversi dai fratelli e genitori. La scuola è considerata potenzialmente un agente socializzante positivo, accompagna i ragazzi per un periodo di tempo prolungato e impegna buona parte delle loro giornate e delle loro attività. Un altro agente di socializzazione secondario è il gruppo dei pari. Durante l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza il gruppo dei pari è di fondamentale importanza per fare esperienza, anche in chiave anticipatoria. Le relazioni tra compagni di classe sono spesso competitive tanto che solo alcuni di loro entrano a far parte della compagnia di amici veri. Un’altra possibilità di frequentazione dei pari passa attraverso le attività sportive. Società sportive, centri di aggregazione giovanili, oratori sono importanti agenti di socializzazione, poiché educano i più giovani al gioco di squadra, al rispetto delle regole e degli altri attraverso il gioco. Tra gli agenti di socializzazione secondaria, i media tradizionali e nuovi, svolgono un importante ruolo di socializzazione informale. Tra i social network più utilizzati dai bambini troviamo youtube ma anche videogiochi in rete, mentre gli adolescenti prediligono social di messaggistica in cui sia possibile condividere immagini e contenuti soprattutto personali. Le rappresentazioni dei nuovi media e il loro utilizzo negli ultimi anni sono enormemente cambiati, soprattutto per i più giovani che trovano naturale stare connessi online oltre che incontrarsi offline. Nei social network ci si incontra e si interagisce one to one ma anche in gruppo a seconda delle esigenze e delle finalità. La rete e i social network hanno ampliato enormemente la possibilità per tutti di accedere e far parte contemporaneamente a molti gruppi diversi più o meno ampi. 31.2.3 Le socializzazioni possono avere esiti diversi, in quanto all’interno di questi processi pesano il differenze di classe, etniche e culturali. Numerosi studi empirici hanno sottolineato che i genitori appartenenti alla classe operaia erano solitamente più preoccupati di socializzare i figli alle regole, all’obbedienza e al conformismo, mentre la classe media adottava generalmente uno stile diverso, più attento a promuovere nei figli l’autonomia. Studi più recenti invece, ci dicono che i figli delle classi meno agiate tentano di raggiungere più in fretta possibile l’indipendenza economica, mentre chi può contare sul sostegno della famiglia tende a rimandare la propria autonomia, investendo più a lungo in formazione. Ogni religione, etnia e cultura adotta i suoi modelli di socializzazione. A essere considerate problematiche non sono tanto le differenze nei diversi processi di socializzazione, ma le diseguaglianze in cui spesso si traducono queste differenze. Per far sì che le differenze pesino sempre meno e non si traducano in diseguaglianze sarebbe necessario adottare un nuovo paradigma che consideri la socializzazione come un processo collettivo e non individuale, in cui siamo chiamati a camminare insieme al giovane e alla famiglia portatori delle differenze di classe/culturali/economiche tutti gli agenti socializzanti, in una sorta di lavoro di squadra, per il bene comune. Ri-produrre le culture 32.1 La parola cultura deriva dal latino colere, traducibile con il termine “coltivare”. Nel mondo romano il riferimento principale era alla coltivazione della terra, ma il termine era largamente usato anche per riferirsi alla coltivazione del sapere. Cultura indicava più in particolare il processo attraverso il quale l’individuo sviluppa e persegue le proprie potenzialità, conquistando appieno la propria stessa umanità. Questo modo di intendere la cultura caratterizza per secoli il pensiero occidentale e rimane dominante fino al ‘600. Dal ‘600 comincia a cambiare qualcosa, con l’accumularsi delle narrazioni di viaggio di esploratori e missionari che rendono evidente la varietà di usi e costumi che caratterizzano le diverse popolazioni. Fino a quel momento la cultura era stata una sola, quella occidentale e la questione era al massimo definire quali tratti ne caratterizzavano il possesso, per distinguere così chi li aveva (i colti) da chi non li aveva o li aveva in minor grado. Con l’apparizione degli “altri” si delineano due modi differenti di pensare la cultura: - Il primo sarà efficacemente sintetizzato da Arnold: la cultura è lo studio della perfezione, ovvero la conoscenza di ciò che di meglio è stato pensato e conosciuto nel mondo. - Il secondo sarà ben riassunto da Tylor: la cultura è l’insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume ed ogni altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società. Se ci si pone sul primo versante, la parola chiave è “meglio” che significa adottare un approccio valutativo, legato a precisi criteri di giudizio, in questa prospettiva, tutte quelle società che rientrano in determinati Le credenze sono forme di assenso a rappresentazioni della realtà: credere qualcosa significa fare propria una descrizione di quella porzione di realtà. Le ragioni per le quali l’individuo adotta una certa credenza possono essere differenti. Si può credere per abitudine o perché si riconosce autorevolezza a chi la propone, o perché la si è analizzata e giudicata valida. La sociologia si occupa essenzialmente di credenze collettivamente condivise, ma bisogna ricordare che la condivisione di una credenza da parte di più individui non implica che ciascuno di essi l’abbia adottata per la medesima ragione. Infine i simboli sono elementi sensorialmente percepibili come un’immagine, un gesto, un suono, che sono in grado di evocare nella mente di chi li percepisce un contenuto che va al di là del loro aspetto più immediato. Per esempio una sirena è un simbolo in quanto non è intesa solo come un suono acuto e oscillante bensì come un allarme. Mentre per Peterson indagare la cultura implica una distinzione tra quattro elementi diversi, secondo Griswold quando ci occupiamo di cultura con uno sguardo sociologico, la nostra unità minima di riferimento sono in generale gli oggetti culturali, definiti come significati incorporati in forme, dove un significato è un qualsiasi contenuto cognitivo e una forma è una qualsiasi entità senza realmente percepibile. Per avere un oggetto culturale non è però sufficiente che un attore attribuisca un significato a una forma, tale attribuzione deve essere socialmente condivisa. Inoltre i singoli oggetti culturali non esistono ciascuno in modo autonomo e indipendente da tutti gli altri, ma sono invece sempre inseriti all’interno di un più ampio sistema culturale. Il diamante ha quattro vertici. Analizziamone il funzionamento con un esempio: il riso gettato da un ragazzo verso una coppia di sposi all’uscita della chiesa. Il creatore è colui il quale produce, usa, attiva l’oggetto, che nel nostro esempio è la persona che getta quel riso. Il ricevitore è colui il quale, percependo sensorialmente la forma, vi attribuisce a sua volta un contenuto: nel nostro esempio potrebbe essere rappresentato sia dagli sposi che ricevono il riso, sia dal pubblico che vede quel gesto. Nella maggior parte dei casi il contenuto attribuito alla forma da parte del creatore e da parte del ricevitore coincide: è questa coincidenza che permette l’interazione sociale e la comunicazione. Tra forma e contenuto non esiste un legame intrinseco, bensì solo socialmente attribuito, ovvero culturale, dunque è sempre possibile che una forma non venga riconosciuta come tale (vedo il riso gettato ma non capisco il perché) o vi sia attribuito un diverso contenuto (interpreto il gesto come una forma di disprezzo). Il quarto vertice rappresenta il contesto in cui creatore, ricevitore e oggetto agiscono e si collocano, ovvero l’insieme degli attori, delle relazioni sociali e degli altri oggetti culturali rilevanti per la comprensione dell’oggetto in esame: nel nostro esempio il mondo sociale di riferimento è quel contesto in cui esiste il rito matrimoniale come forma di istituzionalizzazione di una relazione di coppia, in cui quel rito è collettivamente celebrato. Nell’analisi di un oggetto culturale tutti e quattro gli elementi del diamante devono essere tenuti in considerazione, perché ciascuno è influenzato e definito nelle proprie caratteristiche da tutti gli altri. Dunque una comprensione completa di un oggetto culturale richiede la comprensione dei quattro vertici e dei sei legami che li connettono. 32.3.2 Nel capitolo 31 si è parlato dei processi di socializzazione, i processi fondamentali con cui la società trasmette i modelli culturali agli individui, e come si è visto gli attori coinvolti e le dinamiche in atto sono molteplici e complesse. Qui di seguito si descriverà il processo di produzione e trasmissione culturale facendo riferimento a due casi più specifici: quello dell’industria culturale e quello dei piccoli gruppi. L’industria culturale, seguendo il modello di Hirsch, è l’insieme delle organizzazioni che mettono sul mercato prodotti culturali di massa, per esempio libri, film, album musicali, i quali sono caratterizzati da tre tratti principali: incertezza della domanda (quante copie si venderanno di un album), tecnologia di produzione relativamente economica (per ogni album vengono prodotte tante copie e il costo di produzione di ciascuna copia è limitato) e eccedenza di aspiranti creatori (il numero di musicisti che vorrebbero pubblicare un album è superiore al numero di album che il mercato di consumatori è in grado di assorbire). Per analizzare il funzionamento del sistema, ci riferiamo a un esempio, quello della pubblicazione di un romanzo. Il sottosistema tecnico è composto dai cosiddetti artisti creativi, ovvero da quegli individui che vorrebbero vedere una propria opera prodotta e distribuita dall’industria culturale. Il primo problema è che il numero di autori che vorrebbero pubblicare un proprio manoscritto è eccedente rispetto al numero di romanzi che è ipotizzabile siano venduti. Ogni editore deve quindi scegliere quali manoscritti siano più convenienti da pubblicare. Tra scrittore e editore si inseriscono così due filtri: il primo rappresentato dai selezionatori, che valutano per conto dell’editore quale tra le molteplici proposte ricevute potrebbe trovare maggiore favore da parte del pubblico; il secondo è rappresentato dagli agenti, i quali promuovo per conto dell’autore il manoscritto presso gli editori interessati. Nel momento in cui un manoscritto viene selezionato dall’editore, questo entra nel cosiddetto sottosistema manageriale, costituito dall’organizzazione che realizza il prodotto, ovvero nell’esempio considerato, la casa editrice. Una volta che il prodotto è realizzato e messo sul mercato, il passo successivo per il sottosistema manageriale è pubblicizzarlo ed entro in gioco il cosiddetto sottosistema istituzionale, ovvero i media. Tuttavia, non tutti i romanzi pubblicati sono pubblicizzati sui media, dunque anche in questo caso si inseriscono dei filtri, i gatekeepers mediali: figure come giornalisti, presentatori di programmi televisivi, recensori di libri che scelgono alcuni prodotti di cui parleranno al pubblico. È attraverso questo filtro che il pubblico viene a conoscenza dell’esistenza di un prodotto sul mercato. L’acquisto del prodotto da parte dei consumatori non è tuttavia l’ultima tappa del percorso. Ogni organizzatore dell’industria culturale, nel momento in cui deve decidere su quale nuovo prodotto puntare non ne conosce a priori le vendite. E tuttavia informazioni importanti in merito le può derivare da due fonti: nella risposta dei media, quindi le recensioni che ha avuto il libro e nella risposta dei consumatori, dunque nelle vendite dei libri che sono già stati pubblicati. Con questi due ultimi elementi si completa lo schema. Non tutti gli oggetti culturali derivano però dalla produzione dell’industria culturale. Molto di quanto compone la cultura esistente in una società è prodotto e diffuso attraverso le interazioni quotidiane degli individui. Un interessante modello per comprendere come tale produzione avvenga è quello proposto da Fine. Secondo questo modello, ogni individuo, nel suo agire e interagire quotidiano, produce continuamente parole e gesti, discorsi e azioni, dotati di significato e che potrebbero potenzialmente diventare oggetti culturali socialmente condivisi. La proposta di Fine è di osservare come avviene l’emergere di un nuovo elemento culturale all’interno di un piccolo gruppo di individui e la sua interpretazione è che questo nuovo elemento entrerà a far parte della cultura di quel gruppo se ha 5 caratteristiche, ovvero se è conosciuto, utilizzabile, funzionale, appropriato e consolidato da un elemento scatenante. Seguiamo il processo attraverso l’esempio di un gruppo di colleghi di lavoro in cui esiste il rito dell’aperitivo del venerdì sera per festeggiare nuovi contratti. L’emergere di questo elemento della loro cultura di gruppo è radicato nella cultura conosciuta di quegli individui. Per almeno alcuni di loro l’idea dell’aperitivo come momento conviviale in cui ci si incontra in modo informale era già acquisita. Se nessuno avesse in memoria questo tipo di pratica essa non avrebbe potuto diventare una componente culturale condivisa. Secondo, è utilizzabile, ovvero non confligge con la morale di quegli individui. Sei l’aperitivo implicasse necessariamente il consumo di alcol e se quel gruppo fosse composto da ex alcolisti, per i quali quel consumo viola le proprie norme etiche, quel rito non potrebbe far parte della loro cultura di gruppo. Terzo, è funzionale, non confligge cioè con gli obiettivi del gruppo, anzi li sostiene. Se l’aperitivo implicasse il fatto di rientrare a casa piuttosto tardi e la serata dedicata forse il giovedì anziché il venerdì, quel rito non potrebbe essere adottato, confliggendo con il fatto che il venerdì mattina quegli individui devono lavorare ed essere nelle condizioni di farlo in modo efficiente. Quarto, è appropriato, ovvero non confligge con la struttura sociale del gruppo, se all’aperitivo partecipassero anche i dirigenti, e questo comportasse poi per loro una difficoltà nell’imporre decisioni sgradite agli altri colleghi per via delle relazioni amicali sviluppatesi durante gli aperitivi, questo rito non potrebbe perdurare. Quinto, un elemento entra a far parte della cultura di un gruppo e vi permane se il suo comparire è accompagnato da un evento scatenante che lo rende degno di essere ricordato e ripetuto: ogni giorno, in quel gruppo di colleghi, nel loro interagire, compare un’infinità di parole, gesti, attività e eventi ma ovviamente non tutti diventato componenti distintive della loro cultura di gruppo. Se l’aperitivo fosse avvenuto la prima volta in un giorno qualsiasi e non fosse stato rilevante, difficilmente si sarebbe ripetuto. Se quell’aperitivo invece deriva dal festeggiamento per la chiusura di un contratto importante, quindi una situazione entusiasmante per i partecipanti, con buona probabilità diventerà un rito ricorrente. Come risultato dei processi di socializzazione a opera di istituzioni giuridicamente normate, dei mass media, dell’industria culturale stessa, e come conseguenza delle dinamiche di istituzionalizzazione e tradizionalizzazione, all’interno di una singola società tende nel tempo a emergere un sistema di elementi culturali condiviso dalla maggioranza della sua popolazione. Questa è la cosiddetta cultura mainstream. Una componente molto ampia di questa cultura è oggi prodotta da industria culturale e mass media, ed è solitamente indicata come cultura di massa. Viceversa il modello culturale che all’interno di una società possiede maggiore potere, maggiori possibilità di imporsi sugli individui è detto cultura dominante. Spesso
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