Scarica Riassunto Linguistica generale mod. A e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica Generale solo su Docsity! RIASSUNTO DEL CORSO DI LINGUISTICA GENERALE MOD. A (PROF.SSA M. C. GATTI) – CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FILOLOGIA MODERNA, FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA – A.A. 2018/2019 RIASSUNTO E. RIGOTTI, S. CIGADA, LA COMUNICAZIONE VERBALE, PARR. 4-6 E SS. 4 Linguaggio e ragione 4 La natura del significato 4 NUMERO 4 QUALITÀ 5 ORDINE 7 CAMPO DI AZIONE 7 IMPLICAZIONI 7 Non senso e controsenso 8 Principio di non contraddizione 8 Il desiderio 11 Le strutture intermedie 14 La lingua, un sapere non saputo 14 Le strutture intermedie 14 lessico 15 morfologia 15 sintassi 15 ordine delle parole 15 intonazione 15 Caratteristiche delle strutture intermedie 16 polisemia 16 varianza 16 preferenzialità (o naturalità) 17 endolinguisticità 17 Perché intermedie? 17 Lessico 18 Cos’è una parola 19 Le classi del lessico (parti del discorso) 19 Generatore lessicale 20 unità lessicali in entrata (x) 21 unità lessicali in uscita (y) 21 processi di strutturazione del lessico 22 Morfologia 26 Confronto tra lessico e morfologia 27 Tipi di lingue in base alla morfologia 28 Categorie morfematiche, morfemi e morfi 28 Rapporto con le classi del lessico 29 Calcolare le forme di parola 29 Morfi: strategia di manifestazione 30 morfo zero 30 morfo -1 30 amalgama morfematico 30 sincretismo 30 morfo discontinuo 31 suppletivismo 31 allomorfia 31 morfolessema 32 2 Morfemi: funzione 32 fissi e liberi 32 intrinsechi ed estrinsechi 32 semantica: polisemia 33 Le parti del discorso 33 Aspetto morfologico, sintattico e semantico 33 L’avverbio 34 Avverbi di rango enunciativo 35 Avverbi determinanti di enunciato 35 Avverbi orientati al soggetto 35 Avverbi orientati al parlante 36 Avverbi modificatori di aspettativa 36 Avverbi modificatori di un sintagma verbale 36 Avverbi qualificativi 36 Avverbi connettori 37 Sintassi 38 La gerarchia dei predicati 38 Elementi costitutivi della sintassi 38 sintagma ed enunciato 38 parsing dei costituenti 39 dipendenza 40 Strategie di manifestazione della sintassi 41 Ipotassi e paratassi 42 predicati pragmatici e retorici 44 ipotassi 44 paratassi 45 Processi di testualizzazione 45 RIASSUNTO M. C. GATTI, LA NEGAZIONE IN PROSPETTIVA SEMANTICO-PRAGMATICA, CAPP. I-II 49 Facultas loquendi e facultas negandi 49 Che cosa si fa quando si nega 49 Note 51 Primitivo semantico-concettuale 52 Negazione e paradigma 53 Opposizione come principio costitutivo della categorialità 54 Enantiosemia 57 Apollo ovvero un carrefour di ipotesi ermeneutiche: l’alfa privativo e inclusivo 58 La negazione come strumento di sviluppo della categorialità 59 ἀ-, in-, un- e non- 59 Un1 true e un2 do: due omonimi a confronto 61 RIASSUNTO DISPENSA LINGUISTICA GENERALE DI M. C. GATTI: LA SCUOLA DI PRAGA (PP. 29-48). IL GENERATIVISMO SINTATTICO (PP. 80-85, 88-97, 108-109). 62 La scuola di Praga 62 La componente praghese: l’intenzionalità 62 La componente russa: il formalismo 62 La componente occidentale: lo strutturalismo 63 I lavori del circolo linguistico di Praga 63 La teoria fonologica di Trubeckoj 64 La funzione poetica di Jackobson 67 Generativismo sintattico (fonte online: www.filosofico.net) 68 5 *a questo gruppo appartengono molti verbi transitivi, che hanno in x1 il soggetto e in x2 l’oggetto, es. Sara accompagna Eddo. ** sono predicati diadici anche gli aggettivi del tipo adatto, uguale, diverso (es. Sara è uguale a Eddo, dove i due argomenti di «uguale» sono «Sara» e «Eddo»), gli avverbi del tipo davanti, dietro, sopra, sotto, vicino, lontano (es. Sara cammina davanti a Eddo, dove «davanti» vuole che ci siano sia «Sara» che «Eddo») e le congiunzioni (es. Sara non ha fame perché è triste, dove «perché» presuppone come argomento il fatto che Sara non abbia fame e come secondo argomento il motivo per cui si dà che Sara non abbia fame). 6. «dare», es. Sara dà un libro a Eddo P(x1, x2, x3) *a questo gruppo appartengono i verbi del tipo dare, dire, promettere, insegnare, che hanno in x3 il complemento di termine o vantaggio. 7. «vendere», es. Sara vende un libro a Eddo a 5 euro P(x1, x2, x3, x4) *a questo gruppo appartengono i verbi del tipo vendere, comprare, tradurre, che hanno in x4 un complemento di prezzo.1 8. «affittare», es. Sara affitta la casa a Eddo per 1 anno a 9000 euro P(x1, x2, x3, x4, x5) QUALITÀ Parliamo di qualità degli argomenti per dire che ogni predicato ammette certi tipi di argomenti e ne esclude altri. Ad es., il predicato «intelligente» ammette come argomenti solo quelli del tipo essere umano o opera umana, per cui «Sara è intelligente», «questo libro è intelligente», «hai una cucina intelligente», «la sua proposta è intelligente» sono tutti testi congrui, mentre «una montagna intelligente» non ha alcun senso. È interessante fare un confronto tra due coppie di predicati, la prima diadica e la seconda triadica: costruire/distruggere e dare/dire. Nel caso di «costruire», in merito alla qualità degli argomenti esso implica che ci sia un x1 soggetto che costruisce e un x2 oggetto che prima non esisteva e dopo viene fatto esistere perché costruito. Viceversa, «distruggere implica che ci sia un x1 soggetto che distrugge e un x2 oggetto che prima esisteva e dopo viene fatto scomparire perché distrutto. Nel caso di «dare» e «dire», entrambi richiedono come x1 e x3 degli argomenti del tipo essere umano, ma nel primo predicato x2 è del tipo oggetto non umano, mentre nel secondo predicato è del tipo oggetto discorsivo: ad es., «Sara dà un libro a Eddo» e «Sara dice a Eddo cosa è successo». 1 O di trasformazione, es. Sara traduce un libro dall’inglese all’italiano. 6 Molti predicati monadici sono metadiscorsivi, ovvero hanno come x2 un discorso – sono perciò un discorso su un discorso. Ad es., «la tua storia è vera» o «è vero che sono arrivato in ritardo». Un argomento è solitamente un nome, ma in altri casi nominalizza delle strutture non nominali: ad es., «Sara beve il caffè nervosamente», dove l’argomento è il verbo «bere», che diventa “l’atto del bere”. La qualità di un argomento può essere compresa guardando “dentro” l’argomento stesso. Ad es., il predicato «dipingere» è diadico, e si accompagna a due argomenti nominali, ma x2 può avere qualità diverse a seconda del testo: in «Sara dipinge il tavolo», l’azione ha il senso di colorare o verniciare, e x2 è un oggetto fisico che fa da supporto, mentre in «Sara dipinge un Mondrian» l’azione ha il senso di produrre un dipinto, e ha un senso più simile a costruire, dunque x2 è un’idea che deve essere realizzata su un supporto. Insomma, la qualità di un argomento è un plesso di predicati che caratterizzano l’entità che funge da argomento.2 Quindi se dico «un uomo rise», la qualità dell’argomento «uomo» può essere rappresentata nel linguaggio dell’insiemistica: x : Ux ∧ Mx ∧ Ax cioè un entità (x, detta variabile esistenziale) tale che verifica le condizioni (nel loro insieme detti struttura predicativa) “umano” AND “maschio” AND “adulto”. La differenza tra predicati che costituiscono un testo e predicati interni ad un argomento è che i primi dicono il modo di essere di un’entità in una certa situazione, laddove i secondi dicono le condizioni a cui quell’entità esiste. Nel nostro esempio, i predicati interni a «uomo» dicono come deve essere un’entità qualsiasi per essere un uomo. I predicati interni agli argomenti permettono di distinguere in particolare tre categorie di argomenti – indefiniti, definiti e universali – all’interno delle espressioni dette determinanti: 9. Determinanti indefiniti: «un bambino gioca», «qualche bambino gioca», «tre bambini giocano», dicono che esiste almeno una x che partecipa a quella situazione. 10. Determinanti definiti: «il bambino gioca», «quel bambino gioca», «questo bambino gioca», dicono che esistono una x specifica che partecipa a quella situazione (alcuni coincidono con l’articolo il o lo contengono, come quel). 11. Determinanti universali: «qualsiasi bambino gioca», «tutti i bambini giocano», «nessun bambino gioca», dicono che (non) ogni x esistente partecipa a quella situazione («nessun bambino gioca» si rappresenta come ¬ ∃ x : Bx ∧ Gx, cioè non esiste un’entità tale che è un bambino e gioca, mentre nel caso di «qualsiasi» o «tutti i bambini giocano» la parte del “non esiste” viene sostituita da “qualunque” ovvero ∀x. *∃ è un quantificatore esistenziale, mentre ∀ è un quantificatore universale. ** L’espressione «due uomini sollevano un tavolo» può essere intesa sia come due uomini che sollevano un tavolo insieme, oppure con accezione distributiva come due uomini che ognuno per conto suo sollevano un tavolo. 2 Come dire che i predicati interni all’argomento sono condizioni di esistenza. 7 ***L’espressione che abbiamo usato prima, «un uomo rise», può dunque essere rappresentata come ∃ x : Ux ∧ Mx ∧ Ax e questa x ha riso. ORDINE L’ordine degli argomenti fornisce il punto di vista sulla situazione espressa dal predicato. Ne è un esempio la coppia di predicati dare e ricevere, dove «Sara dà un libro a Eddo» e «Eddo riceve un libro da Sara» rappresentano la stessa situazione da due prospettive, rispettivamente quella di Sara e quella di Eddo; a cambiare, oltre al predicato, è solo l’ordine degli argomenti x1 e x2. Per questo dare e ricevere, vendere e comprare, destra e sinistra, sotto e sopra, sono detti conversivi lessicali. Lo stesso accade per marito e moglie, dove i conversivi che esprimono la situazione “matrimonio” sono lo stesso predicato (del tipo «è moglie di…» e «è marito di…») ma da due prospettive diverse. Si chiamano conversivi morfologici le diatesi attiva e passiva dei verbi, per cui si ha «Sara aiuta Eddo» e «Eddo è aiutato da Sara». N.B.: l’ordine degli argomenti è la posizione semantica delle parole (xn), non la posizione delle parole nel testo! «Sara offre un gelato a Eddo» è diverso da «A Eddo Sara offre un gelato» per ordine delle parole nell’enunciato, ma equivalente per ordine degli argomenti! CAMPO DI AZIONE Il campo d’azione è l’insieme degli argomenti xi su cui un predicato ha effetto. Prendiamo ad esempio la frase «non leggo più questo libro per divertirmi»: è un testo ambiguo, perché può voler dire sia “d’ora in avanti leggerò questo libro per scopi altri dal divertimento” sia “smetto di leggere questo libro per andare a divertirmi”. Quello che cambia è il campo di azione del predicato: nel primo caso, il predicato ha effetto su per divertirmi (non leggo più per… ma per…), nel secondo caso su questo libro (non leggo più questo… ma faccio…). IMPLICAZIONI Le implicazioni coincidono col contenuto vero e proprio del predicato, con tutto ciò che ha luogo se il predicato è vero. Ad esempio, in «Sara ha costruito una casa», costruire implica che ci sia un argomento oggetto x2 che prima non esisteva e ora viene fatto esistere. N.B.: se un predicato attiva un’implicazione, nel seguito del testo questa implicazione diventa un presupposto e può essere lesa o confermata da un altro predicato. Ad esempio, in «Sara uccise un passante, che scappò in bicicletta», c’è un controsenso: il predicato uccise implica che il passante x2 prima fosse vivo e ora non lo sia più, dunque 10 credo che quel che dico non è un controsenso; e se risulta che sia un controsenso, se sono disposto a correggerlo e restituire un senso. Ma le obiezioni dello scettico hanno almeno un punto da salvare: il senso ha natura soggettiva. Può accadere che due persone affermino due cose diverse della stessa realtà: questo non vuol dire che il pnc non è valido, ma che le due persone si trovano su due diversi livelli di senso. Ognuno di noi, infatti, legge la realtà secondo il proprio interesse e la propria sensibilità: io posso notare un aspetto del reale che tu non noti, perché io sono più sensibile a quell’aspetto o perché mi interessa di più. Quando osserviamo la comunicazione, dunque, dobbiamo farlo con l’esprit de finesse che diceva Pascal: distinguendo diversi livelli di lettura. Quando io e te comunichiamo, stiamo negoziando per trovare un punto di incontro tra il mio livello di lettura e il tuo: ci spostiamo dalle nostre posizioni (la comunicazione non è statica), muovendo ognuno dei passi per comprenderci reciprocamente (focalizzare il nostro rispettivo interesse su un terreno comune). Può anche accadere che il destinatario non possa confrontare l’informazione che riceve dal mittente con la propria esperienza: è il caso dei mass media, in cui il giornalista di turno è l’unica fonte sui fatti. Ma qui sconfiniamo in un discorso sull’etica della comunicazione… Come conciliamo il pnc con la soggettività del senso? Per rispondere possiamo usare un’analogia: le illusioni ottiche come quella in figura. Poniamo che, guardandola, Sara dica che ci vede un vaso, ed Eddo dica che ci vede due volti. I due però non sono in contraddizione, agli occhi di uno psicologo che conosce la percezione. 1) Quando sperimentiamo la realtà, i nostri organi di senso selezionano solo alcune delle informazioni pertinenti allo stimolo: il cervello riceve queste informazioni, le organizza, le inserisce in un sistema completandole per inferenza. Sara ed Eddo sono individui diversi: le informazioni a cui Sara è più sensibile non sono le stesse di Eddo, dunque i due selezioneranno informazioni diverse e faranno inferenze diverse. 2) Facendo inferenza, il nostro cervello approda ad un percetto: è la nostra interpretazione della realtà, un’immagine mentale dello stimolo/oggetto. Questa immagine contiene non solo le informazioni sensoriali che abbiamo ottenuto sullo stimolo/oggetto, ma anche quelle affettive (che emozioni ho sentito sperimentando quello stimolo), motorie (come devo comportarmi con quell’oggetto), procedurali (cosa posso fare con quell’oggetto). È la percezione, che parte dalla dimensione sensoriale ma arriva a scomodare anche quella affettiva e culturale di ognuno di noi. E anche su questi due aspetti, affettivo e culturale, Sara ed Eddo sono diversi. Avranno perciò una diversa percezione. Quindi chi dice la verità? Sara o Eddo? L’unico modo in cui i due possono scoprirlo è dialogando, con l’obiettivo di ridurre ognuno l’errore in cui può essere indotto a causa della parzialità della sua sensazione e percezione. Aggiungendo altre informazioni sullo 11 stimolo/oggetto, facendo esperienza ulteriore della realtà. Possono farlo dialogando tra di loro, con la comunicazione; o dialogando ciascuno col reale, ponendosi delle domande. Una volta effettuata questa verifica (immaginiamo che Eddo suggerisca a Sara di focalizzarsi sulla parte convessa e nera del disegno, o che Eddo da solo si chieda se lo spazio tra i due volti che vede racchiude qualcosa), scopriamo che entrambi dicono il vero: la figura è sia un vaso sia una coppia di volti, perché è progettata appositamente per essere ambigua. È un problema. Ammettere che la realtà è un problema non vuol dire negare il pnc: vuol dire riconoscere che la verità non è solo razionale, ma anche ragionevole. Dipende cioè anche dal buon senso (arrendersi dicendo “non potrò mai sapere logicamente se questo è o non è un vaso” è schizofrenico, è da persone che usano un solo emisfero cerebrale, e non ci permette di vivere) e dalla fiducia (Eddo riconoscerà che la figura è anche un vaso perché si fida di Sara: non può essere tanto insensata da dirmi che ci vede un vaso, se non lo vede). È il principio del paradosso – una contraddizione apparente, dovuta al confronto tra posizioni non commensurabili –, di cui l’illusione ottica è un’analogia: la razionalità, la logica, ha dei limiti. Il desiderio Spingiamoci quindi oltre la razionalità, partendo da un altro dubbio che può sorgere: se la comunicazione si basa sul pnc, come può essere che esistano la menzogna e la manipolazione? Andare oltre la razionalità vuol dire andare oltre la considerazione del soggetto in termini puramente cognitivi e della comunicazione in termini puramente computazionali (trasmissione di informazioni). Il soggetto che comunica, infatti, mette in gioco non solo la funzione cognitiva, ma anche altre funzioni – emotive e motivazionali – che possiamo rubricare sotto il nome di desiderio. Perché una comunicazione sia efficace – perché un messaggio venga trasmesso – non basta che essa sia congrua e coerente. Deve essere anche interessante. 12 Questo ci riporta alla teoria dell’azione, che avevamo rappresentato con questo schema: Dicevamo prima che la comunicazione non è statica, ma dinamica. Dunque ha anche una direzione e un verso: che dipendono da “che cosa vogliono” i due soggetti in comunicazione. Che cosa desiderano. Notiamo che c’è una sorta di ordine nei movimenti che avvengono all’interno di ogni soggetto: il soggetto (1) conosce la realtà attuale (2) immagina una realtà diversa (3) la desidera (4) compie un atto comunicativo finalizzato (5) mosso dal proprio interesse. Senza conoscenza e immaginazione non c’è desiderio, senza desiderio non c’è (comunic)azione. E senza interesse, la comunicazione è inefficace. Ma cos’è il desiderio? Secondo Aristotele, è “ciò che attrae l’uomo, ciò che egli ritiene essere il suo bene”. Posto di fronte alla scelta tra giusto e sbagliato, vero e falso, buono e cattivo, bello e brutto, l’uomo si rivolge sempre al positivo, indipendentemente dal contenuto che gli attribuisce (cosa è giusto per me non è lo stesso per gli altri, cosa è bello per me non è lo stesso per gli altri, ecc.). Il desiderio inoltre si specifica in tre significati, tutti riferiti alla dimensione affettiva: Articolo I. Emozione: sono moti di attrazione (apertura, euforiche, come la gioia) o di repulsione (chiusura, disforiche, come la paura) del soggetto nei confronti del reale. In termini poco ortodossi, potremmo descriverle come una specie di energia vitale che ci spinge ad agire sul reale, avvicinandoci o allontanandoci da esso. Articolo II. Passione: sono emozioni subìte, nel senso che il soggetto le sente accadere dentro di sé e si sente da esso trascinato all’azione, vuoi in senso negativo (sovrastano la mia razionalità: ho talmente paura dei piccioni che quando ne vedo uno mi metto a correre, anche se un piccione non può certo farmi male), vuoi in senso positivo (mi impegnano intensamente: il canto è la mia passione, cerco sempre di dedicarmici appena ho un attimo di tempo, e ci penso in continuazione). Cliente Conosce La realtà Immagina e desidera Il piacere di bere un caffé Decide di perseguire lo scopo Bere un caffé Attiva Chiede: «mi fa un caffè?» (atto linguistico) Catena di realizzazione Pagamento Barista Attiva Ascolta, interpreta, va a fare il caffé Servizio Decide di perseguire lo scopo Servire il cliente Immagina e desidera Guadagnare dal suo lavoro Conosce La realtà 15 LE SS IC O Lessemi invariabili (a forma unica: «sempre»); Lessemi variabili («can- e, can-i»). In tutte le lingue. Nominare le cose, cioè esibire le loro proprietà. I parlanti lo percepiscono come la componente fondamentale di una lingua (se studio l’inglese, parto dal vocabolario). Inoltre il lessico di una lingua rappresenta le esperienze condivise nel tempo dalla comunità di parlanti. M O RF O LO G IA Morfemi (forme di parola). Solo nelle lingue flessive (italiano, inglese, francese) e non in quelle isolanti (cinese). Le lingue flessive possono comunque presentare dei lessemi non analizzabili morfologicamente (invariabili). Inoltre la morfologia può essere più o meno significativa in una lingua (il tedesco affida gran parte del significato alla morfologia, l’inglese alla sintassi). SI N TA SS I Sintagmi minimi (una parola); Sintagmi complessi (più parole); Frasi. In tutte le lingue (ogni testo è una composizione di elementi argomentativo -predicativi). È l’insieme delle regole con cui combinare i lessemi per esprimere un senso, che però è più della somma dei sensi dei singoli lessemi (pur essendone funzione). O RD IN E D EL LE P AR O LE In tutte le lingue. Può essere più o meno significativo in una lingua (lo è meno in italiano e francese che in inglese: es., «you must love these guys» può benissimo diventare «these guys must love you», dunque l’ordine è significativo, mentre in «devi amare quei ragazzi» basta la morfologia del verbo a decretare il soggetto. IN TO N AZ IO N E Fenomeni sovra- segmentali (prosodici) In tutte le lingue. Manifestare diverse dimensioni del contenuto (es., interrogativa, affermativa, ironica…). Può essere più o meno significativa in una lingua, ma quando usata può dominare sul significato di altre strutture intermedie (come negli enunciati ironici: «certo, non vedo l’ora…» e in realtà non vorrei proprio andare all’appuntamento). 16 Caratteristiche delle strutture intermedie Le strutture intermedie sono delle correlazioni multi-moltivoche tra strategie di manifestazione e valori linguistici. Sono diverse per presenza e significatività da lingua a lingua, ma condividono alcune caratteristiche: polisemia, varianza, preferenzialità ed endolinguisticità. POLISEMIA La polisemia è la molteplicità di funzioni, per cui ad una stessa struttura intermedia («carta») corrispondono più valori linguistici («carta dei diritti dell’uomo, come documento» e «carta di Fabriano, come materiale»). Questo non vale solo per il lessico, ma anche per le altre strutture intermedie. Prendiamo come esempio la morfologia del tempo futuro semplice: «oggi sarò a Milano», «festeggerete, ora che gli esami sono andati bene!», «da qui al centro saranno 2 km», «dopo lo scritto gli studenti sosterranno l’esame orale». Sono tutti verbi al futuro, ma con significati diversi sul piano temporale: un futuro vero e proprio, un futuro congetturale, un futuro di approssimazione, un futuro di comando. Un altro esempio è il lessico del verbo andare: «Sara va a scuola», «il riscaldamento non va», «non mi è andato di entrare a lezione», «la verifica è andata male». Il valore linguistico preferenziale, quello che ci viene più naturale collegare ad andare, è quello del muoversi da un punto ad un altro. Ma notiamo che tutti gli altri valori, per quanto diversi, sono ad esso collegati da una qualche motivazione, una sorta di familiarità: Sara si muove da casa verso scuola, il riscaldamento è fermo e dunque non funziona, non ho trovato la spinta per entrare a lezione, ho svolto la verifica dall’inizio alla fine in modo incerto. È questo che distingue la polisemia dalla omonimia («fiera» intesa come esposizione o come belva): i due significati omonimi non hanno alcuna comunanza tra loro, non hanno alcuna motivazione. Idem si dica per l’omofonia («night» e «knight») e per l’omografia («pesca» frutto e «pesca» attività). N.B.: la motivazione non compromette l’arbitrarietà dei segni, poiché è un rapporto tra segno e segno, non tra segno e realtà! La cosa molto interessante è che, in fondo, ogni segno è polisemico: vuol dire tante cose in assoluto, ma solo quando viene usato in un testo si specifica in un significato. VARIANZA È la molteplicità di strategie di manifestazione, per cui ad una stessa struttura intermedia corrispondono più strategie di manifestazione. Un esempio classico è la morfologia del genitivo latino: ros-ae, lup-i, consul-is, querc-us, diei. Ma anche la morfologia dell’infinito attivo presente italiano: cammin-are, apparten-ére, corr-ere, insegu-ire. Come distinguevamo la polisemia dall’omonimia, dobbiamo distinguere la varianza dalla sinonimia: nella varianza abbiamo un unica struttura intermedia che si manifesta diversamente a seconda dei contesti (go e went sono forme dello stesso lessema, dunque 17 c’è una varianza del lessico) mentre nella sinonimia abbiamo due strutture intermedie differenti che condividono una porzione di significati («ti invio la roba per posta», «ti invio la roba usando la posta»). Il confine in effetti è molto labile: basti vedere frasi come «il ricorso è accettato» e «il ricorso viene accettato», dove in effetti si ha un caso di sinonimia, poiché la prima frase fa riferimento al lessico di essere (risultato) e la seconda al lessico di venire (processo). PREFERENZIALITÀ (O NATURALITÀ) C’è un limite alla polisemia e alla varianza, e cioè il fatto che le strutture intermedie ammettono, rispettivamente, un valore linguistico o una strategia di manifestazione preferenziali, naturali, a cui pensiamo prima di altre perché più immediate. Ad esempio, se pensiamo al verbo prestare, ci verrà in mente preferenzialmente il valore linguistico di “dare qualcosa a qualcuno temporaneamente”, e solo in certi contesti, come «prestare servizio» o «prestare aiuto» ci verrebbe in mente il valore linguistico di “offrire qualcosa a qualcuno”. La preferenzialità serve per indicare al destinatario della comunicazione l’interpretazione più probabile delle strutture intermedie che il mittente impiega. N.B.: non è escluso che il valore preferenziale si attivi in un certo contesto. Ad esempio, «sono andato al ricevimento» verrà interpretato preferenzialmente come “sono andato nell’ufficio del prof” in un contesto universitario, e come “sono stato dal presidente della repubblica» in un contesto parlamentare. ENDOLINGUISTICITÀ Le strutture intermedie hanno una natura endolinguistica perché hanno una conformazione particolare entro ciascuna lingua – e variano profondamente da lingua a lingua. Come esempio, si pensi alla morfologia del tempo passato nelle varie lingue: «I went», «andai» o «sono andato», ecc. O ancora, al sistema dei generi: in italiano abbiamo solo maschile e femminile, in tedesco c’è anche il neutro, in inglese si vede solo dai pronomi. Perché intermedie? Le strutture intermedie sono tali per almeno due aspetti. Il primo è quello del loro ruolo di correlazione tra strategie di manifestazione e valori linguistici, ovvero tra testi e sensi. Il secondo è quello della loro natura multi-multivoca, in quanto componenti di sistemi linguistici flessibili. Nelle lingue storiconaturali, infatti, non esiste una corrispondenza biunivoca tra testo e senso, tra strategia di manifestazione e valore linguistico: un testo può avere più significati, e viceversa un significato può essere espresso da più realizzazioni testuali. È vero che vale la caratteristica della preferenzialità (o naturalità), ma questa comunque si specifica nei vari contesti: il caso estremo è quello dei lessemi di natura deittica, come i pronomi questo, quello, codesto, che hanno senso 20 Osserviamo infine che il lessico si articola in diverse classi, cioè insiemi di parole che condividono alcune proprietà semantiche, sintattiche e morfologiche. Per capirci, sono classi del lessico (dette anche parti del discorso) quelle dei nomi e dei veri – storicamente le prime ad essere state definite nella grammatica. Il numero delle classi del lessico cambia a seconda della lingua: in italiano ce ne sono 9, in latino 8 perché non c’è quella degli articoli, in greco 8 perché non c’è quella delle esclamazioni. Dicevamo che gli elementi di ogni classe del lessico hanno delle proprietà in comune. Quanto alle proprietà semantiche, ogni classe è accomunata da una particolare prospettiva del valore linguistico: la classe dei verbi ha la prospettiva del divenire, la classe dei nomi ha la prospettiva dell’essere, la classe delle congiunzioni quella della relazione. Quanto alle proprietà sintattiche, la classe dei verbi ha elementi che funzionano come predicati, la classe dei nomi ha elementi che funzionano come soggetti o oggetti o complementi indiretti, e così via. Quanto alle proprietà morfologiche, la classe dei verbi è passibile di variazioni di modo, tempo, persona, diatesi, e così via, mentre la classe degli aggettivi è passibile di variazioni di genere e numero. Vediamo ora uno schema delle classi del lessico in italiano, divise tra variabili e invariabili (la classe degli avverbi si colloca all’intersezione perché presenta una variabilità limitata ad alcuni elementi della classe): PARTI DEL DISCORSO VARIABILI PARTI DEL DISCORSO INVARIABILI Articolo Preposizione Nome Congiunzione Aggettivo Interiezione Pronome Verbo Avverbio Generatore lessicale Dicevamo che ogni struttura intermedia funziona come generatore, come comparto di un laboratorio che è la lingua. Il lessico genera lessemi, ma come? Per capire come è fatto “dentro” il generatore lessicale, dobbiamo considerarlo come un insieme. Si tratta di un insieme decidibile, ossia di un insieme di cui siamo in grado di enumerare gli elementi, di stabilire se un elemento appartiene o no a quell’insieme. Per farlo, potremmo elencare tutti i suoi elementi, ma sarebbe uno spreco di tempo; è molto meglio definire dei criteri di appartenenza, e scriverli con i simboli dell’insiemistica. Un esempio con altri insiemi: l’insieme dei numeri pari si può esprimere come 2x = y, mentre l’insieme delle sillabe in italiano si può esprimere come (C3 (C2 (C1)))V(C), dove C vuol dire consonante, V vocale, e le parentesi indicano facoltatività. Per cui se ci si palesa un numero del tipo 2, ponendolo come y nella funzione che esprime l’insieme dei 21 numeri pari, scopriremo che esso appartiene all’insieme, perché esiste un numero x tale che 2x = 2, e quel numero è 1. Se ci si palesa un segmento del tipo ba- nella parola bastone, vediamo che esso è rappresentabile come C1V, e dunque è una sillaba, così come a- in amore, rappresentabile come V, o strap- in strappo, rappresentabile come (C3 (C2 (C1)))V(C). Il generatore lessicale può essere rappresentato come segue: UNITÀ LESSICALI IN ENTRATA (X) In entrata, troviamo diversi tipi di unità lessicali: Articolo I. Lessemi elementari: lessemi non riconducibili ad altri lessemi, come «casa». Il loro opposto sono i lessemi strutturati: lessemi che sono stati ottenuti da altri lessemi, come «accasare». Articolo II. Lessemi latenti: lessemi che non compaiono mai come unità lessicali autonome, ma solo come parte di lessemi strutturati, come *durre in «condurre», «dedurre», «sedurre». Quelli di origine latina sono frequenti in italiano. Articolo III. Formativi lessicali: unità lessicali che non compaiono mai come autonome, ma solo per formare lessemi strutturati. Sono gli affissi: suffissi, prefissi, e in lingue diverse dall’italiano anche infissi – inseriti in mezzo alla parola – e circonfissi – inseriti all’inizio e alla fine della parola. Valgono come formativi lessicali anche lo spostamento dell’accento in inglese («impòrt»/«ìmport») e la modificazione della componente vocalica del lessema («sing»/«song»). UNITÀ LESSICALI IN USCITA (Y) I lessemi elementari e i lessemi strutturati vengono generati come lessemi canonici (o unità lessicali, generati per processi di formazione), contrapposti ai fraseologismi (generati per processi fraseologici). Per arrivarci, però, passano prima attraverso dei processi di strutturazione del lessico: i processi di formazione (derivazione, alterazione, composizione, combinazione) e i processi fraseologici (sintemi, funzioni lessicali). Una volta usciti da lì, i lessemi canonici variabili passano prima attraverso la componete morfologica e poi a quella sintattica, mentre i lessemi canonici invariabili e i fraseologismi vanno direttamente alla componente sintattica. Lessemi latenti Lessemi elementari Formativi lessicali Processi di strutturazione del lessico: à Formazione (derivazione, composizione, combinazione, alterazione) à Fraseologici (sintema, funzioni lessicali) Unità lessicali e fraseologismi Parti del discorso invariabili Parti del discorso variabili Morfologia Sintassi 22 PROCESSI DI STRUTTURAZIONE DEL LESSICO I processi di formazione sono: Derivazione È un procedimento che, applicato ad un lessema (lessema di base), produce un lessema di una classe lessicale diversa (lessema strutturato derivato). È molto produttivo in italiano. Es. «isola» à «isolare» Alterazione È un procedimento che, applicato ad un lessema (lessema di base), ne altera il significato. È molto produttivo in italiano. Es. «posto» brutto à «postaccio» Composizione È un procedimento che, fondendo insieme due lessemi elementari, o fondendo insieme un prefisso e un lessema elementare (lessemi di base), produce un lessema (lessema strutturato composto). Es. «aprire» + «bottiglia» à «apribottiglie» Combinazione È un procedimento che, giustapponendo due lessemi della stessa classe (lessemi di base), crea tra i due un rapporto attributivo. Es. «bambino» + «prodigio» à «bambino prodigio» I processi fraseologici sono: Sintema È un lessema che va in giro travestito da sintagma. Un segmento sintattico che, siccome è stato usato frequentemente, finisce per essere percepito come un’unità lessicale (locuzione). Es. «piede di porco» Funzione lessicale Sono state studiate per la prima volta da Mel’cuk, che ne ha individuate una cinquantina. Noi ne consideriamo solo due. Oper1 esprime il rapporto tra un nome (una situazione) e un verbo (l’azione di chi mette in atto quella situazione). Magn intensifica un aggettivo. Es. oper1(crimine) = commettere Es. magn(ricco) = ricco sfondato Osserviamo ora ciascun processo di strutturazione più da vicino e facciamo delle considerazioni. Prima, una nota generale sui lessemi strutturati che derivano da processi di formazione: a volte i processi di formazione si sommano nel dare origine ad un unico lessema 25 di prestito; viceversa, l’inglese e le lingue romanze preferiscono il prestito. Quel che accade nel prestito composto è che viene persa la trasparenza della composizione (Renaissance in tedesco). Infine, va detto che lo scambio tra due lingue può avvenire secondo due modalità: il bilinguismo – situazione in cui i parlanti sono in grado di servirsi di due lingue, scegliendo di volta in volta quale usare a seconda di chi è il loro destinatario, come per il bilinguismo italiano-tedesco in Alto Adige – e la diglossia – situazione in cui una comunità due lingue a seconda del contesto o della funzione, come per la diglossia volgare-latino nell’Italia medievale, dove il volgare era usato per la comunicazione quotidiana e il latino per la sfera religiosa diplomatica e scientifica. Combinazione Una caratteristica tipica della combinazione – che la differenzia dal sintema – è che in essa le due basi sono ancora percepibili come distinte e dotate del proprio significato originario. Questo si manifesta nella grafia, poiché le due basi sono molto spesso separate da uno spazio bianco o al più unite da un trait d’union. 1) Base (nome) + base (nome) = nome; bambino prodigio. 2) Base (aggettivo) + base (aggettivo) = aggettivo; agrodolce. 3) Base (verbo) + base (verbo) = nome; dormiveglia. Alterazione Articolo I. Diminutivi (piccolezza): libretto, casina Articolo II. Vezzeggiativi (piccolo e caro): orsetto, caruccio Articolo III. Accrescitivi (grandezza): donnone Articolo IV. Peggiorativi o dispregiativi (disprezzato): postaccio, verdastro, avvocatuncolo Gli alterati sono usati spesso nella comunicazione orale, per creare un effetto di atmosfera in cui l’ostensione ha un ruolo significativo: se ad esempio entro nel mio baretto di fiducia e chiedo “un caffettino”, non intendo un caffè piccolo, ma sto esprimendo la mia affezione per quel posto e la confidenza che ho col barista. Non per nulla, essendo così carichi di espressività, gli alterati sono tipici del linguaggio infantile, particolarmente quando gli adulti si rivolgono ai bambini. *Ci sono però numerosi lessemi che sembrano alterati, ma non lo sono, e sono anzi derivati: è il caso di «postino» da «posta». Sintema Diversamente dalla combinazione, il significato delle basi che formano il sintema viene come dimenticato nel tempo, ed è il significato ultimo del risultato quello che ci viene in mente quando lo usiamo. 4. Nominali: piede di porco, cervello di gallina, baci di dama. 5. Verbali: tagliare corto, stare sulle spine, avere la coda di paglia. 6. Avverbiali: come si deve, in men che non si dica. 7. Preposizionali: alla faccia di, a furia di. 26 Come dicevamo, nel sintema il significato attuale dell’espressione tiene conto solo molto indirettamente e in modo opaco del senso originario delle parole, che semmai può essere giustificato risalendo alla motivazione. Ad esempio, se dico che «Luigi ha aperto la cassaforte con un piede di porco» sto usando un sintema (la motivazione è che l’attrezzo piede di porco ha una forma che ricorda quella della zampa di un maiale), mentre se dico che «a Luigi piace il piede di porco con la verza» sto usando tre lessemi e col loro significato originario. Funzione lessicale Una caratteristica della funzione lessicale è che il valore dei diversi elementi lessicali che svolgono la stessa funzione lessicale resta fondamentalmente lo stesso, cioè un generico “fare”, “mettere in atto”. Ad esempio, se uso oper1 (decisione) sarà prendere, ma anche oper1 (danno) è arrecare, e oper1 (domanda) è fare o rivolgere. Insomma, il verbo indica sempre “fare” la cosa x. Le funzioni lessicali sono molto usate nel linguaggio giornalistico, perché permettono, per così dire, di “confezionare una stringa di testo” in poco tempo e meccanicamente. Un’ultima considerazione: è facile distinguere a priori tra il risultato di processi di formazione e il risultato di processi fraseologici, perché il primo sta insieme per composizionalità e le basi hanno un legame semantico trasparente, mentre il secondo sta insieme per motivazione e le basi hanno un legame semantico opaco. Morfologia Compito specifico della morfologia è quello di trasformare un lessema variabile in una forma di parola (che poi diventerà sintagma minimo nella sintassi). In questo senso, la morfologia era considerata già dai medievali come un ars obligatoria della grammatica: un lessema variabile è obbligato a passare dal generatore della morfologia e dotarsi di un componente morfologico per essere usato in un testo. La forma di parola infatti è il lessema così come esso “occorre” nel testo. 27 Nei lessemi variabili, la forma di parola («cane») presenta un componente lessicale (can-) e un componente morfologico (-e). Quest’ultimo si può definire come l’insieme dei morfi presenti in una forma di parola. Come si vede dall’immagine, il lessema variabile (cantare) entra nel reparto della morfologia e, in base alla classe del lessico di cui fa parte, si caratterizza secondo certe categorie morfematiche, che sono degli insiemi chiusi di morfemi alternativi (ad esempio, un verbo potrà caratterizzarsi secondo le categorie morfologiche di modo, tempo, persona, diatesi, genere transitivo o intransitivo; noi mettiamo di voler fare l’indicativo imperfetto, prima persona plurale, attivo e transitivo). All’interno di ognuna di queste categorie morfematiche, il lessema variabile assume uno degli elementi alternativi che sono in esse contenuti, i morfemi, ognuno portatore di una funzione (nel nostro caso, quelli previsti per un verbo della prima coniugazione). I morfemi si manifestano in morfi, che sono appunto le strategie di manifestazione dei morfemi stessi, e che non sono ulteriormente scomponibili (cant-av-amo, due morfi). Il risultato in uscita è una forma di parola. Confronto tra lessico e morfologia Morfologia e lessico hanno alcune caratteristiche in comune: 1. Sono strutture intermedie, e della prima articolazione.6 2. Sono entrambe rappresentabili come reparti di un laboratorio della lingua, con delle unità in entrata e delle unità in uscita. Ma hanno anche delle differenze: 6 Martinet parla di due articolazioni della lingua: la prima, è quella del livello cui sono situati lessemi, morfemi e sintagmi, dunque unità dotate di significato proprio; la seconda, è quella del livello cui sono situati i fonemi, dunque unità non dotate di significato proprio ma dipendenti da altre. MORFOLOGIA Lessema variabile MorfiMorfemi Funzione Strategia di manifestazione • Morfo zero • Morfo -1 • Amalgama morfematico • Sincretismo • Morfo discontinuo (ausiliari) • Suppletivismo • Allomorfia • Morfolessema o Fissi e liberi o Intrinseci ed estrinseci o Morfemi e semantica 30 accusativo, vocativo, ablativo), del numero (2: singolare, plurale) e del genere (3: maschile, femminile, neutro): dunque potrà assumere al limite (6)(2)(3) = 36 forme di parola. Più difficile il caso dei verbi, poiché le forme con ausiliare essere in italiano implicano di prendere posizione rispetto alle categorie morfematiche del genere e del numero (sono stata o siamo stati), e alcuni casi escludono altre categorie (il congiuntivo non ha il futuro): in questo caso, meglio sommare e moltiplicare a seconda della logica del caso. Morfi: strategia di manifestazione Ci sono varie strategie di manifestazione dei morfemi, ovvero varie forme di morfi. MORFO ZERO Manifesta uno o più morfemi attraverso l’assenza di un componente morfologico manifesto. Es. in inglese, boy-Ø (l’assenza di un componente morfologico manifesto è significativa del singolare, e alternativa, nella categoria morfematica del numero, al plurale boy-s). MORFO -1 Manifesta uno o più morfemi attraverso l’assenza di un suono che fa parte del lessema. Es. in francese, vert (la “t” non si pronuncia, divenendo significativa del maschile e alternativa, nella categoria morfematica del genere, al femminile verte, dove invece la “t” si pronuncia). AMALGAMA MORFEMATICO Manifesta più morfemi: è il morfo tipico. Es. egli cant-a. SINCRETISMO Manifesta morfemi diversi ma appartenenti alla stessa categoria morfematica: è una specie di omonimia morfologica. Es. che io cant-i, che tu cant-i, che egli cant-i: si dice che le tre forme sono sincretiche rispetto alla persona. Ma attenzione: egli cant-a e cant-a (tu)! non sono sincretiche, ma semplicemente in omonimia.7 In questi casi, bisogna operare una disambiguazione per capire quali sono i morfemi rappresentati: sia appellandosi ad altre strutture intermedie (ad es., la sintassi mi fa dire che quel verbo sarà alla ennesima persona singolare, poiché il soggetto è singolare), sia risalendo direttamente al livello semantico. N.B.: l’ambiguità (insufficienza di informazioni) è l’opposto della ridondanza (eccesso di informazioni). Le due si 7 Credo di aver capito che per essere sincretiche devono differire solo per una categoria morfematica (la persona, nel nostro esempio, e non anche il modo). 31 compensano a vicenda, ma se una prende il sopravvento si ha, rispettivamente, rischio di fraintendimento e rischio di annoiare (tanto che di fronte a un testo ridondante il destinatario tende a cercarvi sensi ulteriori che giustifichino la ridondanza, come l’intento di comicità). In fonologia, l’equivalente dell’ambiguità in morfologia si chiama neutralizzazione: una sospensione delle opposizioni fonologiche, per cui due suoni, che normalmente in quella lingua danno luogo a due parole diverse, in una certa occasione vengono realizzati allo stesso modo. Ad esempio, in dialetto trentino, i “mesi” dell’anno si chiamano /mezi/, mentre essere stati “messi” in disparte si dice /mesi/, ma al singolare le due forme si somigliano come /mes/ (“mese” o “messo”?). L’equivalente della ridondanza a livelli semantico e pragmatico è la tautologia: “i bambini sono più giovani degli adulti”… ma va? L’informazione è già contenuta nell’argomento “bambino”. MORFO DISCONTINUO Manifesta uno o più morfemi venendo manifestato, come componente morfologico, prima e dopo il lessema. Può manifestarsi come più parole fonologiche. Es., hai cant-ato; era stata cant-ata. Attenzione a non confondere le forme composte con quelle fraseologiche, che appartengono alla dimensione del lessico: stavamo mangiando si alterna liberamente con mangiavamo nel suo valore continuativo, dunque è fraseologica. In inglese invece we were eating ha una precisa determinazione morfologica, che prende il nome di progressive form (past continuous). SUPPLETIVISMO Fenomeno in cui si usano significati lessematici diversi per lo stesso lessema in determinate forme di parola. Es. sono e fui: sono lo stesso verbo, ma non c’è nemmeno un fonema in comune, dunque non paiono forme della stessa parola. ALLOMORFIA Fenomeno in cui lo stesso morfema si manifesta in morfi diversi. Il morfo usato dipende dal lessema. Es. cant-are, légg-ere, vol-ére, dorm-ire: l’infinito presente attivo in italiano è allomorfo, e usa morfi diversi a seconda della coniugazione cui appartiene il verbo. Attenzione: l’allomorfia si può manifestare sia in diverse desinenze, come nel nostro esempio, sia modificando la vocale del lessema in un fenomeno detto apofonia (feci e facemmo in italiano). 32 MORFOLESSEMA È l’ornitorinco della morfologia: un unità all’intersezione tra lessico e morfologia, un po’ lessema e un po’ morfema. È il caso degli articoli, che sono sì parole in quanto dotati di autonomia articolatoria, ma non significano nulla senza il sostantivo cui si riferiscono. Prova ne è il fatto che un articolo è scomponibile in una serie di morfi, tolti i quali non rimane niente della parola: l’articolo la è una manifestazione dei morfemi femminile, singolare e determinato. Solo la determinazione è una funzione intrinseca: il genere femminile e il numero singolare sono estrinseche rispetto al sostantivo cui l’articolo si riferisce. Insomma, la prova del nove è che nei morfolessemi non si possono dividere e riconoscere una componente lessicale e una morfologica. Es. Luigi è biondo: il verbo essere è qui un morfolessema; Luigi è a Napoli: il verbo essere è qui una forma di parola vera e propria, invece, perché ha il significato autonomo di trovarsi. Morfemi: funzione Abbiamo già visto quanto sia forte l’implicazione tra lessico e morfologia: a seconda della classe di lessico cui il lessema variabile appartiene, questo deve obbligatoriamente prendere posizione rispetto ad alcune categorie morfematiche e selezionare al loro interno dei morfemi. Come i lessemi stessi sono portatori di significati – categoriale per casa, deittici per questo – anche i morfemi lo sono. FISSI E LIBERI Un morfema è fisso quando è legato al singolo lessema, viceversa è libero. Per esempio, in italiano, nel nome il morfema del genere è legato al lessema: uom-o è tale perché tra le proprietà del concetto di uomo nominate dal lessema c’è il genere maschile; lo stesso vale per cas-a. Nel nome il morfema del numero invece è libero, tanto che posso avere sia cas-a che cas-e. Nell’aggettivo, il morfema del genere è libero, come in bell-o e bell-a. nel verbo, il morfema del genere transitivo/intransitivo è fisso, tutti gli altri morfemi sono liberi. INTRINSECHI ED ESTRINSECHI I morfemi possono veicolare un significato a due livelli: quello sintattico e quello semantico. Prendiamo come esempio il testo person-a buon-a: il primo morfo -a non è equivalente al secondo morfo -a. Infatti, il primo morfo manifesta che si sta parlando di una singola persona, e non di più persone, laddove il secondo morfo manifesta non una sola bontà bensì il legame attributivo di buona rispetto al sostantivo persona. Il primo morfo ha dunque valore intrinseco – semantico – mentre il secondo ha valore estrinseco – sintattico. 35 dell’informazione sui nessi strutturali.8 In questo essere categorematico, però, l’avverbio si avvicina ai nomi e ai verbi, e si distanzia da altre parti del discorso invariabili. Dal punto di vista sintattico, l’avverbio non esprime esplicitamente i propri nessi sintattici (perché manca di morfemi estrinseci, dunque il nesso sintattico non si manifesta con una connessione tipo concordanza o reggenza). Il nesso sintattico è dunque recuperato per via semantica, attraverso la semplice giustapposizione (ordine delle parole). L’avverbio insomma mette in crisi la sintassi, perché per comprendere a cosa è collegato bisogna risalire alla semantica (soprattutto nelle lingue in cui la posizione dell’avverbio nell’enunciato è libera). Vediamo ora vari tipi di avverbi, distinguendone la funzione predicativo-argomentale (che posto ricopre nella gerarchia predicativo-argomentale) e il suo contenuto (in cui emerge ora una componente predicativa, simile a quella di aggettivi e verbi, ora una componente argomentale, simile a quella dei nomi). AVVERBI DI RANGO ENUNCIATIVO L’avverbio svolge da solo la funzione di tutto un enunciato. Sì e no sono detti anafore, o avverbi deittici, poiché esprimono affermazione e negazione rispetto a un contenuto (problematico) che è stato enunciato immediatamente prima dall’interlocutore. Sì, no, macché, perbacco. Es. “Mi aiuterai?” “Sì”. AVVERBI DETERMINANTI DI ENUNCIATO L’avverbio determina l’enunciato. È il caso di forse, che determina l’enunciato che lo segue nel senso di “è possibile che”. Non a caso in inglese l’equivalente è maybe, “può essere”. Forse. Es. “Verrai a Monaco?” “No, forse partirò per Roma”. AVVERBI ORIENTATI AL SOGGETTO Sono dei predicati a due argomenti, nel senso che predicano un modo di essere sia di un enunciato che del soggetto dell’enunciato. Es. “Astutamente, Ulisse non disse a Polifemo il suo vero nome”. Significa che Ulisse fu astuto in quanto, con astuzia, non disse a Polifemo… 8 Notiamo a questo proposito che le parole sincategorematiche si possono distinguere ulteriormente in parole che hanno un contenuto e parole che fungono da marche sintattiche. La congiunzione “affinché” è sincategorematica, ma ha un contenuto proprio (esprime “allo scopo di…”). La preposizione “di” è sincategorematica, ed è una marca sintattica. 36 AVVERBI ORIENTATI AL PARLANTE Sono dei predicati a due argomenti, nel senso che predicano un modo di essere sia dell’enunciato che del parlante che lo pronuncia. Es. “Francamente, non lo stimo”. Significa che io, ad esser franco, in tutta franchezza non lo stimo. Idem per “purtroppo, Luigi è assente”: significa che è purtroppo sia per noi che per il fatto che Luigi sia assente. AVVERBI MODIFICATORI DI ASPETTATIVA9 Rimanda alla categoria dei deittici, perché l’aspettativa (del destinatario, del mittente, o di entrambi) è legata al common ground, alla situazione comunicativa. Anche, persino, pure. Es. (1) “anche Luigi ieri è andato al mare”; (2) “Luigi è andato anche ieri al mare”; (3) “Luigi ieri è andato anche al mare”. 1. È presupposto che gli altri siano andati al mare. Non ci aspettavamo la partenza di Luigi. 2. È presupposto che Luigi sia andato al mare nei giorni prima. Non ci aspettavamo che andasse al mare quel giorno. 3. È presupposto che Luigi abbia fatto tante cose ieri. Non ci aspettavamo che andasse al mare, tra le tante. AVVERBI MODIFICATORI DI UN SINTAGMA VERBALE Fungono da determinanti di un sintagma verbale, e in questo somigliano a dei complementi, tanto da poter essere analizzati secondo le categorie di luogo, tempo, modo, intensità, quantità. Cfr. tabella sotto. Es. “Questa parola si scrive così” significa in questo modo (complemento di modo). AVVERBI QUALIFICATIVI Contengono un aggettivo qualificativo. Es. “Abito lontano”, “Luigi corre velocemente”, che possono essere riformulati come: la mia abitazione è lontana, Luigi è veloce nel correre. Non 9 Presupposto: è un contenuto che si dà per vero e noto prima di quanto espresso nell’enunciato. Aspettativa: è un contenuto che si dava per probabile e che ora viene confrontato con quanto espresso nell’enunciato. Norma: “oggi ho mangiato troppo” rispetto ad una norma premessa e condivisa. 37 possiamo fare lo stesso con “Luigi fortunatamente è arrivato”, che è avverbio orientato al parlante. AVVERBI CONNETTORI Legano tra loro degli enunciati, ma senza creare ipotassi. Invece, perciò, altrimenti, conseguentemente. Es. “Pietro ha preso dieci in matematica. Invece in storia ha preso sei.” L’avverbio presuppone opposizione tra i due enunciati, cioè tra andare bene e andare male a scuola. Ma i due enunciati, così collegati, restano comunque sintatticamente compiuti e autonomi. *Tabella degli avverbi modificatori di un sintagma verbale: A gg et ti vo Nome Luogo Tempo Modo Quantità Intens ità Ricorre nza Dimostrativo qui ora così tanto, talmente tanto, talmen te lat. totiens Indefinito altrove, dappert utto talvolta, sempre in qualche modo lat. aliquantum alquat o, molto, ingl. very Interrogativo dove, donde quando come quanto quanto , come lat. quotiens Numerale lat. bis Qualificativo lontano, vicino lungame nte, presto, tardi male, bene abbondantem ente spesso, lat. saepe, semel Complement ativo statalmente , sintatticam ente 40 soggetto, un SN oggetto, un SPrep, un SPrep (sostituito con un sintagma nullo), un SV (o SP, come lo si voglia vedere, monadico). SN e SPrep possono essere sostituiti anche da pronomi – che in tal caso si chiamano pro-forme. Un esempio opposto: non posso sostituire professore legge al con una pro-forma, dunque non è un sintagma. Nella permutazione, i costituenti vengono riconosciuti perché si può modificare la loro posizione lasciando intatto l’aspetto sintattico. Ad esempio: il nuovo professore legge un breve saggio in biblioteca à in biblioteca il nuovo professore legge un breve saggio à il nuovo professore legge in biblioteca un breve saggio à il nuovo professore in biblioteca legge un breve saggio. Il SPrep in biblioteca occupa prima la 4°, poi la 1°, poi la 3°, poi la 2° posizione, ma non cambia il suo aspetto sintattico (sintagma preposizionale con funzione di complemento di stato in luogo). DIPENDENZA Così delineati, i costituenti manifestano come l’enunciato sia organizzato gerarchicamente, secondo rapporti di dipendenza: ogni costituente assume senso sintattico in rapporto alla totalità cui è legato. I rapporti di dipendenza sono di diverse tipologie: • Verbo-sintagma (ho preparato un’ottima torta); • Oggetto-apposizione (questa ricetta, eredità di una vecchia zia…); • Nome-modificatore (la mamma mi ha dato un suggerimento utile); • Determinante-modificatore (la farina era un po’ troppa); • Dipendenza retta da preposizione (con del latte però si poteva rimediare). Infine, si noti che la dipendenza può essere segnalata in modi diversi: ordine delle parole, strumenti morfologici quali la concordanza e la reggenza… a seconda delle preferenze della lingua. Una funzione fondamentale nell’enunciato è quella di soggetto che può assumere un SN: il soggetto è il primo argomento del predicato. Di solito è agente (Balotelli ha segnato la rete della vittoria), ma spesso anche strumento (la rete della vittoria è stata segnata da Balotelli). Inoltre, il soggetto è tendenzialmente il tema (ciò di cui si parla: Luigi è arrivato, “cosa ha fatto Luigi?”), ma può diventare rema (cosa viene detto di ciò di cui si parla: è arrivato Luigi!, “chi è arrivato?”). Oltre al soggetto, anche altre parti dell’enunciato dipendono dal verbo. La valenza del verbo, infatti, indica il numero di attanti del verbo stesso – il numero di relazioni di dipendenza che il verbo richiede perché sia rispettata la correttezza sintattica. Il criterio per riconoscere gli attanti è la non omissibilità: se la parte in esame è omissibile nel testo senza violare la correttezza sintattica, allora non è un attante, è un argomento. Predicato/verbo Argomenti Attanti Morire 1 1 Rompere 2 2 Mangiare 2 1 o 2 41 Dare 3 3 Essere dato 3 2 Vendere 4 2 Il verbo mangiare, ad esempio, richiede che venga esplicitato nel testo solo 1 attante, il soggetto (mangia non è corretto sintatticamente, Luigi mangia invece sì). Anche se come predicato mangiare contempla due argomenti: oltre al soggetto x1, anche l’oggetto x2, e questo indipendentemente dal fatto che l’oggetto venga o meno esplicitato nel testo (Luigi mangia un piatto di pasta: anche se non lo scrivo o non lo dico, è ovvio che Luigi sta mangiando qualcosa). Quando uno degli argomenti del predicato non è esplicitato nel testo – è omesso – si dice che una valenza del verbo non è stata saturata. Facciamo un altro esempio: in Luigi ha venduto il suo appartamento a Sara per 200.000 euro, tutte e 4 le valenze di vendere sono state saturate (Luigi è soggetto x1, il suo appartamento è oggetto x2, a Sara è complemento di termine x3, per 200.000 euro è complemento di prezzo x4); in Luigi ha venduto il suo appartamento a Sara, solo 3 valenze sono state saturate; in questo appartamento è stato venduto, solo 1 valenza è stata saturata. La mancata saturazione delle valenze, insomma, non viola la congruità del testo; e la correttezza sintattica non richiede di usare esplicitamente tutti gli argomenti previsti da un predicato. Strategie di manifestazione della sintassi È il sistema linguistico a determinare il modo in cui i nessi sintattici si manifestano: nelle lingue prive di morfologia, il compito è affidato all’ordine delle parole nell’enunciato. Nelle lingue sintetiche, invece, è compito della morfosintassi, un livello a cui morfologia e sintassi sono strettamente collegate – per questo i morfemi estrinseci sono anche chiamati sintattici. Vi sono tuttavia tre modalità in cui il nesso sintattico tendenzialmente si manifesta: • La concordanza: manifesta i nessi sintattici interni al sintagma. Consiste nella presenza obbligatoria di morfemi omologhi nel nucleo e nell’espansione: in una bella giornata, i morfemi del nucleo (giornat-a) e dell’espansione (un-a e bell-a) sono omologhi. • La reggenza: manifesta i nessi sintattici sia interni al sintagma sia tra un sintagma e l’altro. Consiste nella presenza di morfemi, in un sintagma, determinati da un altro sintagma: in amicus amicum iuvat, i morfemi dei due sintagmi nominali (nominativo singolare amic-us e accusativo singolare amic-um) sono determinati dal morfema sintagma verbale (iuv-at, terza persona singolare, determina il soggetto, e transitivo, determina il complemento oggetto). • La giustapposizione: manifesta i nessi sintattici tra un sintagma e l’altro. Consiste nella posizione reciproca dei sintagmi, che permettono di distinguere le relazioni tra le parti: in Luigi ama Maria, la posizione reciproca del sintagma nominale (Luigi) e del sintagma verbale (ama Maria) permette di capire che il primo sintagma nominale è soggetto e il secondo complemento oggetto. In inglese, anche la dipendenza tra 42 nucleo ed espansione si manifesta con la giustapposizione: a red car, perché l’aggettivo va prima del nome, ed è un lessema invariabile. È evidente che, nei casi in cui i nessi sintattici non possono essere espressi che per giustapposizione, l’ordine delle parole assume una funzione determinante nella manifestazione della sintassi, ed è maggiormente vincolato: ad esempio, in italiano posso dire sia parte Carlo sia Carlo parte (nel primo caso Carlo è rema, nel secondo è tema), ma in inglese ho o Carlo is leaving o it is Carlo who is leaving. Anche la sintassi, come tutte le strutture intermedie, è polisemica e variante: 1. un esempio di struttura sintattica polisemica è l’oggetto diretto dei verbi ditransitivi in latino e in inglese, poiché manifesta sia l’argomento x2 che l’argomento x3 con la medesima struttura (come in John gave Mary red wine e magister puerum grammaticam docet; 2. un esempio di struttura sintattica variante è sempre l’oggetto indiretto dei verbi ditransitivi in inglese, poiché l’argomento x3 può essere manifestato in due modi (appunto, John gave Mary red wine e John gave red wine to Mary); 3. un esempio di struttura sintattica variante è quella determinata dai conversivi sintattici del verbo inglese to give, che pone come soggetto ora il fruitore (Mary) ora l’oggetto (red wine): Mary was given red wine by John e red wine was given to Mary by John; 4. un esempio di struttura sintattica polisemica è quella determinata dall’espressione dire di: l’enunciato Luigi dice di studiare molto ha una duplice interpretazione, a seconda che si consideri dice come “afferma”, e allora di studiare molto diventa argomento comunicativo (x1 dice x2 a x3), o come “ordina”, e allora di studiare molto diventa oggetto del comando (x1 ordina x2 a x3). Nel secondo caso, un’implicazione è che x1 abbia un’autorevolezza su x3. Ipotassi e paratassi Avverbi connettori (invece, però, altrimenti), congiunzioni e deittici testuali (anafore: che stavi male, lo sapevo; catafore: lo sapevo che stavi male) servono per costruire enunciati complessi, cioè caratterizzati da ipotassi (subordinazione sintattica) e paratassi (coordinazione sintattica). Ipotassi e paratassi sono equivalenti e complementari. La prima può essere usata solo in una singola mossa testuale (poiché esprime rapporti di dipendenza verticale tra periodi), sottolineando la compattezza del testo, mentre la seconda articola il testo in più mosse testuali (poiché esprime rapporti di successione orizzontale tra periodi), sottolineando l’analiticità del testo. Questo permette di superare la dicotomia tra due visioni opposte sulla natura del testo – una vorrebbe che esso fosse una struttura transfrastica, fatta da una successione di enunciati uniti da nessi eterogenei rispetto a quelli interni al singolo enunciato; l’altra vorrebbe che esso fosse una struttura monofrastica, un grande enunciato di enunciati. Al contrario, la concezione di ipotassi e paratassi permette di inquadrare il testo come il risultato di tanti atti comunicativi, distinguibili ma tra loro connessi. Il nesso, che nell’ipotassi è manifestato immediatamente attraverso la compresenza dei relata (i due enunciati dipendenti l’uno dall’altro) nella paratassi è manifestato attraverso il collegamento di un relatum a un sostituente testuale che riprende o anticipa, in anafora o catafora rispettivamente, un 45 Osserviamo ora più da vicino l’ipotassi. Essa può essere di tre tipi: • Luigi ha detto a Sara che andrà a trovarla lunedì. Il vertice sintattico coincide col predicato dell’enunciato principale. Il verbo dire infatti è un predicato triadico, e l’enunciato subordinato fa da argomento x3, collegato all’enunciato principale dalla congiunzione “vuota” che. L’ipotassi esprime dunque il nesso tra l’enunciato dichiarativo, come argomento, e l’enunciato principale, come predicato. • Luigi è soddisfatto perché ha aggiustato la caffettiera. Il vertice sintattico coincide col predicato che è la congiunzione. La congiunzione perché infatti agisce come predicato diadico, dove il primo enunciato è un argomento “p” e il secondo enunciato è un argomento “q”. Essa ci dice che “q è causa di p”. L’ipotassi esprime dunque il nesso tra l’enunciato causale, come primo argomento, e l’enunciato principale, come secondo argomento. • Luigi studia linguistica, che è la sua materia preferita. Il vertice sintattico coincide con l’argomento in quanto nome di cui si dà un’espansione, poiché la proposizione relativa introdotta da che è accostabile a un aggettivo ora con funzione descrittiva (nel nostro esempio, [linguistica] è la materia preferita di Luigi) ora con funzione individuativa (il libro che sto leggendo è appassionante). L’ipotassi esprime dunque il nesso tra l’enunciato relativo, come espansione, e un elemento dell’enunciato principale, come nome che dall’espansione viene determinato. PARATASSI Osserviamo ora più da vicino la paratassi. Essa può essere di due tipi: • Si può realizzare all’interno di un sintagma. Ad esempio, in Luigi mangia pane e nutella, la paratassi serve a porre la nutella come determinante di pane (semanticamente tra i due c’è ipotassi quindi), all’interno di un unico sintagma nominale con funzione di complemento oggetto. Tanto che non posso invertirli di ordine: Luigi mangia nutella e pane fa ridere o sembra insensato… • Si può realizzare all’interno di un enunciato, tra un sintagma e l’altro. Ad esempio, in Luigi ha visitato Brescia e Verona, la paratassi serve a stabilire una successione temporale tra due sintagmi verbali, di cui uno ha il verbo implicito per non ripeterlo: Luigi ha visitato Brescia e (poi ha visitato) Verona. Proviamo con altri esempi. In Beatrice e Laura sono nate a settembre, la paratassi è tra un sintagma e l’altro, a dire che Beatrice è nata a settembre, e anche Laura è nata a settembre – nascere è predicato monadico. In Chiara e Silvia conversano animatamente, la paratassi è interna al sintagma – conversare è diadico. In piove e c’è il sole, la paratassi è addirittura tra due enunciati autonomi. Processi di testualizzazione Abbiamo detto che il segno linguistico è una struttura intermedia, un’associazione convenzionale di un insieme di strategie di manifestazione a una o più funzioni. Resta da capire il rapporto tra queste funzioni e il senso testuale – la significazione. 46 Questo rapporto è stato definito attraverso i cosiddetti processo di testualizzazione: procedimenti in cui si ricorre al contesto per determinare la funzione di ciascun segno in quella precisa realizzazione testuale, alla luce della finalità del testo. Insomma, è una vera e propria intrusione dell’esperienza del reale nell’astrazione del sistema linguistico. Il luogo in cui inferenza, pragmatica e lingua interagiscono. Vediamo alcuni di questi processi: Sintema È un fraseologismo la cui composizionalità13 risulta sospesa: va ricostruita attraverso un procedimento, diacronico o sincronico a seconda dei casi, che ne recuperi l’origine. La significazione è dell’insieme, pur non essendo composizionale. Costruzioni Sono dei “sintemi sintattici”, strutture enunciative (non lessicali, per questo non si possono chiamare sintemi) non composizionali (come i sintemi). Ad esempio, per studiare, studia; però non impara; oppure, cammina cammina siamo arrivati a casa; oppure, Sara had her hair cut yesterday; oppure Sara vient d’arriver. Anche in questo caso la significazione è dell’insieme, pur non essendo composizionale. Enunciati legati Sono strutture enunciative, che selezionano convenzionalmente una sola inferenza tra quelle possibili. Le altre inferenze però possono essere riattivate in particolari contesti. C’è una barzelletta che gioca con questo processo, usando l’enunciato legato non ci si può lamentare: un esule fuggito dall’Urss e rifugiatosi in Italia viene interrogato da un amico italiano sulla scuola, le tasse, la libertà di stampa nel suo Paese. E gli risponde: “Non ci si può lamentare”. L’amico allora ribatte: “Beh, allora che sei venuto via a fare?”. Come si vede, nella prima risposta del russo, l’enunciato legato seleziona una inferenza (sto benone), ma dopo il fraintendimento se ne attiva un’altra, più composizionale e letterale (nel mio Paese non mi è permesso lamentarmi perché non c’è libertà di opinione). Funzioni lessicali Sono quelle che abbiamo introdotto nel paragrafo sul lessico: sono dei riduttori semantici, in cui il lessema che viene usato per svolgere la funzione lessicale (es. prestare) specializza la sua significazione, selezionando una funzione e sospendendo tutte le altre (prestare aiuto à dare aiuto e non concedere temporaneamente in attesa di una restituzione). 13 Il principio di composizionalità o principio di Frege stabilisce che il significato di una espressione linguistica è determinato solo dal significato delle sue espressioni costituenti e dalle modalità con cui sono combinate. 47 Disambiguazione La composizionalità innesca processi inferenziali che consentono di individuare la significazione richiesta tra le tante possibili. Ad esempio, affittare è ambiguo perché può significare sia “dare in affitto” sia “prendere in affitto”: è il contesto che ci dice cosa significa. “Non è mio l’appartamento in cui vivo, è in affitto”. Oppure “non è in vendita, è in affitto”. Saturazione di predicati nascosti È un processo che opera negli aggettivi predicativo- relazionali, come finanziamento statale (erogato dallo stato), strada statale (gestita dallo stato), impiegato statale (dipendente dello stato). È un processo che permette di “riempire di senso” le preposizioni del tipo: è il libro di Giampiero, che può voler dire sia “scritto da” che “appartenente a”, che “prestatomi da”, ecc. Deittici valutativi Sono aggettivi o avverbi la cui funzione dipende dall’argomento cui sono associati: posso dire buona di una torta, ma anche di una persona, o di una risposta… Specificazione Processo in cui i contenuti categoriali di due predicati si adattano reciprocamente quando vengono uniti in una struttura predicativo-argomentale. Accade soprattutto nell’uso di aggettivi: se dico Pietro è magro e Pietro è intelligente, non specifico solo il valore dell’aggettivo, ma anche la corporatura di Pietro e la sua intelligenza. Lo stesso si dica per occhi verdi e occhio nero. Sono compresi in questa famiglia i processi di pertinentizzazione e di quantizzazione. Figuratica della sintassi Sono gli effetti di senso creati sfruttando il potere veicolato dalle parti del discorso: pensiamo alla descrizione dantesca della campagna bianca di brina (Inf XXIV, vede la campagna biancheggiar tutta) o del rosso pianeta Marte (Pur II, per li grossi vapor Marte rosseggia giù nel ponente sovra ‘l suol marino). Nel primo passo, un contadino si dipera perché, vedendo la campagna bianca di brina, teme che abbia nevicato e che non potrà condurre le pecore al pascolo: il verbo biancheggiare drammatizza la scena, quasi che la campagna fosse un soggetto animato. Nel secondo passo riscontriamo lo stesso fenomeno: Marte rosseggia esprime lo splendore indistinto ma nettamente riconoscibile, e quasi minaccioso, del pianeta. In generale, fenomeni di figuratica si ottengono nominando eventi, qualità o relazioni attraverso sostantivi: l’effetto è quello di realtà tipico del nome, per cui un fenomeno altrimenti astratto o indistinto assume ad un tratto realismo e diventa un’entità. Si pensi a un’espressione come 50 Posso dire di no per asserire la falsità di p (1A), ad esempio dicendo che non piove, opponendomi a piove, dando dunque un giudizio di natura verocondizionale. Posso però anche dire di no per affermare altro da p (1B), ad esempio dicendo che questa rosa non è rossa, per dire che è di un colore diverso dal rosso, dunque per caratterizzare la situazione. Ora, sarebbe riduttivo far coincidere la funzione della negazione totalmente con quella del giudizio, come se non significasse solo è falso che: • È uno sbaglio dovuto a un’applicazione meccanica della logica formale, per la quale la negazione è solamente un operatore proposizionale col valore di “non è vero che”. • Si fa confusione tra due piani distinti, quello linguistico e quello metalinguistico: dire Luigi non mangia è diverso dal dire è falso che Luigi mangi, poiché la prima è un’asserzione (livello linguistico), mentre la seconda è un’asserzione su un’asserzione (livello metalinguistico). Infatti la negazione svolge anche una seconda funzione, quella del rifiutare (2). Per capirlo, pensiamo ad un enunciato come non accetto scuse: non ha senso interpretarlo secondo la prima funzione della negazione, quella del giudizio, come “è falso che io accetti scuse”. Il senso di questo enunciato – come segnala tra l’altro l’uso dell’indicativo presente, prima persona singolare – è quello di un performativo: dicendo non accetto scuse, o non ti prometto di venire, sto compiendo un atto linguistico col quale mi rifiuto di fare una certa cosa (2A).14 Lo faccio “col dirlo”: quindi non posso valutare questo atto linguistico cercando di capire se è vero o falso, ma semmai cercando di capire se è andato o no a buon fine (rispondenza alle attese). Oltre al rifiuto di fare, però, la negazione può anche rivestire la funzione di rifiuto di aderire a p (2B). Ma bisogna procedere con cautela. Ad esempio, di fronte a un enunciato come Luigi non è povero, bisogna chiedersi se asserire che Luigi non è povero equivalga realmente a dire mi rifiuto di dire che Luigi sia povero: • Sono due atti linguistici distinti semanticamente: un conto è asserire un contenuto proposizionale negativo (Luigi non è povero), un conto è rifiutare di asserire un contenuto proposizionale affermativo (mi rifiuto di dire che Luigi sia povero).15 • Non si tiene conto (come rileva Frege) di quei contesti non assertivi in cui pure la negazione può comparire, come nella protasi del periodo ipotetico (se non piove, vado in montagna: non sto asserendo che non piove, quindi non ha nessun senso interpretarla come mi rifiuto di dire che piova, e quindi vado in montagna). 14 Un esempio interessante è quello di non è il caso: è un enunciato legato, dal valore performativo, in cui la negazione ha la funzione di rifiutarsi di fare. Se dico non era il caso, sono sempre di fronte ad un enunciato legato, ma ho perso il valore performativo, e con esso anche quello di rifiuto attraverso la negazione: sto dando un giudizio sulla realtà. 15 La negazione proposizionale lascia immutato il carattere dell’atto illocutivo, perché da luogo a un’altra proposizione, presentata con la stessa forza illocutiva. Al contrario, le negazioni illocutive cambiano il carattere dell’atto illocutivo. Una negazione illocutoria si può distinguere da una negazione proposizionale considerando la differenza tra non prometto di venire e prometto di non venire: la prima è una negazione illocutoria (il non nega la promessa, dando origine a un atto illocutorio a sé), la seconda è una negazione proposizionale (l’atto illocutorio è lo stesso, semplicemente con contenuto negativo). 51 • Nei contesti assertivi, invece, si rischia un fraintendimento quando l’asserire un contenuto proposizionale negativo interagisce con le assunzioni del destinatario, rifiutandole: se dico il Danubio non è blu, diversamente dal corrispettivo contenuto proposizionale affermativo il Danubio è blu, non sto giudicando la realtà, ma sto rifiutando due possibili assunzioni del mio destinatario. Infatti l’enunciato potrebbe continuare o con [il Danubio non è blu,] ma verde o con [il Danubio non è blu,] ma totalmente sporco. È una proposta correttiva delle assunzioni del destinatario, in un caso relativa al colore, nell’altro caso relativa al grado di inquinamento delle acque. Insomma, in presenza di un atto illocutivo assertivo come il Danubio non è blu, che pure implica un rifiuto delle assunzioni del destinatario, non è comunque giusto identificarlo con un atto linguistico di rifiuto (anche perché contravverremmo al postulato per cui la negazione proposizionale, quella di il Danubio non è blu) lascia immutato il carattere dell’atto illocutivo in cui essa occorre. La terza funzione che la negazione può assumere è quella del mentire (3). Quando mentiamo, infatti, stiamo dicendo di no alla realtà: come dice Mephisto di se stesso nel Faust di Goethe, «lo spirito nega sempre». Il diavolo è il mentitore per eccellenza, come rivela l’etimologia del suo nome, dal greco diaballein, «disgiungere». Il diavolo disgiunge ciò che non è realmente disgiunto. Per questo solo l’uomo può mentire: l’animale non ha una lingua per distanziarsi, disgiungersi dalla realtà. Senza soffermarci troppo sul tema della menzogna, basti la spiegazione di Uspenskij, secondo il quale il comportamento linguistico inizia con la capacità di mentire. Quando un neonato viene allattato, la madre lo invita a succhiare producendo un suono con le labbra; di qui, la madre userà lo stesso suono anche quando non deve allattare, ma solo per attirare l’attenzione del bambino. In un certo senso, la madre sta mentendo, usando il suono con un significato disgiunto da quello originario. Il suono, che prima era un segnale, ora è diventato un segno. NOTE Le diverse culture si pongono in modi diversi rispetto al rifiuto: soprattutto per ragioni di cortesia, si tende ad evitare la directness nelle conversazioni, e il rifiuto costituisce una forma un po’ troppo diretta. Mi spiego. Non è difficile immaginare, in italiano, un dialogo del tipo: A: Vieni in piscina? B: Sono un po’ raffreddato… Nella risposta di B non compare linguisticamente una negazione, eppure essa costituisce un rifiuto di fare. Si tratta di un’illocuzione secondaria, ovvero un atto linguistico indiretto che il destinatario deve interpretare per inferenza, risalendo all’illocuzione primaria (no, non vengo). Nella cultura giapponese questo è ancora più evidente: i giapponesi considerano la comunicazione come uno strumento di armonia sociale, dunque stanno sempre molto attenti a non contrariare l’altro; al punto che – approfittando del fatto che nella loro lingua la negazione si pone come suffisso del verbo, e il verbo è sempre a fine frase – quando devono negare qualcosa, iniziano la frase e osservano la reazione del loro interlocutore, riserbandosi la possibilità di omettere la negazione all’ultimo minuto, se le cose si mettono male. Inoltre ogni lingua incarna una sua rappresentazione del mondo: quando asseriscono o dissentono, i parlanti di lingue diverse lo fanno da punti di vista diversi. Immaginiamo 52 di dover dire che there is no table in the room. Un inglese risponderà no, there isn’t (no, non c’è) o yes, there is (sì, c’è): proferendo sì o no, il parlante si riferisce alla cosa. Non così il russo, che risponderà da, ne est’ (sì, non c’è) o net, est’ (no, c’è): proferendo sì o no, il parlante si riferisce all’asserzione dell’interlocutore (sì è vero, non c’è / no non è vero, c’è). Primitivo semantico-concettuale «All human systems of communication contain a representation of negation» (Horn). A qualunque comunità linguistica appartenga, l’uomo dispone sempre di modi per parlare al negativo. L’universalità della negazione è stata studiata in particolare da Anna Wierzbicka, il cui gruppo di ricerca si è imbarcato in un progetto ambizioso: individuare, al di là del particolarismo delle singole lingue storico-naturali, un common core di primitivi concettuali universali. L’ipotesi di partenza è che esista un nucleo culturale relativo all’uomo tout court, indipendentemente dalla comunità linguistica e culturale16 a cui egli appartiene. Non è un’ipotesi nuova, a ben vedere: di questi “cromosomi del pensiero” si è tanto parlato a partire dai pensatori del diciassettesimo secolo, e lo stesso Leibnitz si riferiva a un alphabetum cogitationum humanarum. Bene, il gruppo della Wierzbicka ha individuato ad oggi una sessantina di universali semantici, che sono poi stati testati empiricamente analizzando lingue geneticamente e tipologicamente molto diverse. La negazione è uno di questi universali semantici. Patrizia Violi ha criticato il lavoro della Wierzbicka, mettendo in evidenza un’aporia. La Wierzbicka infatti definisce gli universali semantici che va cercando come «lexically embodied indefinable concepts, or semantic primes, identified as such by trial and error, within one language».17 Secondo la Violi, è possibile che i corrispondenti lessicali degli universali semantici rechino qualche traccia della natura di questi ultimi, ma è un grande fraintendimento pensare che ne siano la trasposizione precisa: un conto sono le entità concettuali, psicologiche ed extralinguistiche, un conto quelle lessicali, formali e linguistiche. Un segno, insomma, non è sovrapponibile al concetto che ne sta alla base. La Wierzbicka vorrebbe, insomma, trovare i concetti umani fondamentali e ricavarne direttamente tutte le possibili determinazioni lessicali in tutte le lingue esistenti. Ma non è andata così: la mossa della Wierzbicka è stata empirica fin dall’inizio: è vero che ricorre all’intuizione per individuare i primitivi semantici, ma non vuole verificare il modo in cui essi sono formulati nel lessico delle varie lingue, bensì dimostrare che essi esistono. Il lessico è solo una modalità del loro esistere, specificamente nelle lingue. La 16 Anche culturale! Basti pensare ai gesti: nemmeno questi sono universali. In Serbia, Macedonia e Bulgaria, il gesto per dire sì e quello per dire no hanno significato opposto a quello che vi attribuiamo noi. Tanto che fra soldati russi e indigeni bulgari si creò un malinteso durante la guerra contro i Turchi negli anni settanta del diciannovesimo secolo. 17 Concetti elementari, incarnati in forme lessicali, chiamati anche universali semantici, identificati per tentativi ed errori all’interno delle singole lingue. 55 contemporaneamente e sotto il medesimo aspetto malato e sano, né malato e non malato. Come dire, le due proposizioni opposte non possono mai essere entrambe vere. Ma le contraddittorie non possono nemmeno essere entrambe false, per il principio appunto del terzo escluso: o Socrate è malato, o non è malato, ma una delle due cose deve pur essere; perché se entrambe non sono, non c’è comunque una terza possibilità. Osserviamo ora che ognuno dei modi di opposizione tra termini e tra proposizioni individuati da Aristotele può rappresentare un tipo di paradigma semantico.19 La cosa da notare, però, è che la quarta tipologia, quella degli opposti per contraddizione, può comprendere i termini di tutte le altre: maggiore/non maggiore, bianco/non bianco, vedente/non vedente. Inoltre gli estremi della quarta tipologia sono coestesi a ciascuno degli altri paradigmi: [bianco/non bianco] = [bianco/grigio/nero], oppure [minore/non minore] = [minore/uguale/maggiore]. Quindi, siccome ogni elemento dei primi tre paradigmi può figurare nel quarto paradigma come opposto antifatico, e gli estremi che vi realizza sono coestensivi a ogni altro paradigma in cui l’elemento figura, concludiamo che la negazione costituisce il fondamento semantico di ogni paradigma. L’opposizione però non opera solo a livello semantico. Opera anche a livello morfologico, dove il paradigma in questione coincide con una categoria morfologica (che, come scrive Saussure, ha un numero di elementi finito). La categoria morfologica è quella morfematica, rispetto alla quale un lessema di una parte variabile del discorso deve prendere posizione: un nome, ad esempio bambino, deve prendere posizione rispetto alla categoria morfologica del genere (maschio/femmina) e del numero (singolare/plurale). L’opposizione opera anche a livello fonologico. Il fonema infatti vive di opposizione: senza opponibilità, un fonema non si differenzierebbe dagli altri, e dunque non sarebbe se stesso. Si chiama teoria delle opposizioni fonologiche di Trubeckoj, secondo la quale l’opposizione fa sì che il fonema sia quello che è non solo per le sue proprietà intrinseche (articolazione, ecc.), ma anche in quanto “non è” tutti gli altri fonemi presenti in quel sistema. Ad esempio, il fonema /ʃ/ nel sistema francese si oppone nell’ambito delle palatali come sordo al fonema /ʒ/ sonoro, come in choix-joie; nel sistema italiano, lo stesso fonema si oppone non al corrispondente sonoro, bensì a /tʃ/ in quanto continuo, come in sciocca-ciocca, e a /dʒ/ in quanto continuo e sordo, come in scialle-gialle. Infine, l’opposizione opera anche a livello testuale. Prendiamo come esempio di testo i seguenti enunciati: a. Luigi non è laureato, ma diplomato. b. Luigi non beve barbera, ma barolo. c. Luigi non è laureato, ma sposato. Notiamo che in (a) e (b) si danno, collegate dall’avversativa ma, due opposizioni: laureato-diplomato e barbera-barolo. Ogni coppia fa parte di un paradigma di elementi, tra loro disgiunti e opposti, ma equivalenti per funzione all’interno del testo. In (c) invece il testo non ha alcun senso, perché laureato e sposato appartengono a due diversi 19 Nella linguistica moderna, un paradigma è un insieme di elementi che contraggono tra loro una relazione virtuale di sostituibilità, potendo sostituirsi gli uni agli altri nella stessa funzione. Nel caso di un paradigma semantico, si tratta di elementi semantici, cioè di “modi di essere”. Se prendiamo come esempio l’opposizione di contrari e il paradigma corrispondente, vediamo che l’enunciato il muro della mia cameretta è x, per la funzione di x possono concorrere bianco/nero/grigio… 56 paradigmi, dunque non sono alternativi l’uno rispetto all’altro: non condividono la stessa base di comparazione. Nel testo, dunque, il paradigma offre un ventaglio di possibilità. Se affermo una di queste possibilità (Luigi beve barolo), seleziono quella ed escludo tutte le altre (Luigi beve solo barolo, e non barbera, né cabernet, né nero d’avola, né…). Se nego una di queste possibilità (Luigi non beve barbera), escludo una sola possibilità, e lascio aperte tutte le altre previste dal paradigma (Luigi potrebbe bere barolo, o cabernet, o nero d’avola, o…). La negazione dunque trasferisce il paradigma nel sintagma. La negazione, Luigi non beve barbera, è un modo di dire che Luigi beve qualcosa di diverso dal barbera. La negazione come apertura all’altro è stata messa a fuoco anche nel Sofista di Platone: qui lo Straniero di Elea, in un dialogo con il matematico Teeto sul rapporto tra essere e non essere, afferma che quando parliamo di non essere non dobbiamo intendere il contrario dell’essere, ma un diverso modo di essere: dire non bello non significa il contrario di bello, ma carino, oppure brutto, oppure… A ben vedere, è il paradigma stesso che vive di opposizione, come spiega Hjelmselv: partendo dalla teoria di Saussure dei rapporti sintagmatici e associativi, questi applicò la nozione di paradigma agli elementi che sono tra loro commutabili in un certo contesto, e in relazione aut (di opposizione).20 Il paradigma è l’ambito in cui avviene la scelta tra elementi commutabili: la possibilità di scegliere è data sia dal fatto che tali elementi sono tra loro equivalenti per funzione, sia dal fatto che sono opposti tra loro semanticamente. Senza differenziazione, non c’è scelta. Un paradigma insomma non è un semplice insieme di elementi: è una disgiunzione di elementi. Estendendo ulteriormente il discorso, possiamo rifarci al discorso che Saussure fa nel suo Cours in merito alla langue. Secondo lui, la langue è fatta di differenze, concettuali e foniche: non è altro che un sistema di differenze di suoni e di differenze di idee. Significante e significato dunque sono fatti puramente differenziali (negativi), ma la loro combinazione è un fatto positivo. La lingua insomma è fatta di forme (significanti e significati), non di sostanze. 20 È il discorso sugli assi del linguaggio, termine con cui si intendono i due piani su cui viene esercitata l’attività mentale degli esseri umani in rapporto al linguaggio. Fu originariamente il fondatore della linguistica moderna, il linguista svizzero Ferdinand de Saussure (1857-1913), ad individuare due tipi fondamentali di relazione tra elementi linguistici, che egli chiamò rapporto sintagmatico e rapporto associativo. Secondo Saussure, l’attività del parlante implica tanto una sequenzialità orizzontale, rappresentata dal susseguirsi dei suoni concretamente emessi, quanto la possibilità di ricorrere ad un repertorio di elementi linguistici virtualmente sostituibili perché in relazione semantica, disposti verticalmente in quanto solo uno viene poi effettivamente immesso nell'enunciato. Si delineano in tal modo un asse sintagmatico, su cui si struttura il rapporto sintagmatico tra elementi linguistici, e un asse paradigmatico, come verrà definito poi dal linguista danese Louis Trolle Hjelmslev (1899-1965), che attiene piuttosto alla semantica degli elementi linguistici coinvolti nel discorso. Sempre nella terminologia di Saussure, i rapporti sintagmatici si svolgono in praesentia, mentre sull'asse paradigmatico, che ha uno sviluppo verticale, gli elementi linguistici in contrasto sono alternativi l'uno all'altro, per cui si danno in absentia. In Hjelmslev l'asse sintagmatico è scandito da relazioni con funzioni et, mentre l'asse paradigmatico da correlazioni con funzioni aut. Il linguista russo Romàn Jakobsòn (1896-1982) parla di un asse della combinazione e di un asse della selezione, corrispondenti approssimativamente ad asse sintagmatico e ad asse paradigmatico. 57 Ora, è un discorso che pone forse troppa enfasi sul principio di opposizione (negazione) come costitutivo del sistema semiotico: • Sembra di assolutizzare questo principio, quando ve ne sono anche altri all’opera nella costituzione di un sistema semiotico. • Negazione e affermazione operano insieme: il negare ha un’implicazione affermativa (non è bianco, allora può essere nero, grigio…), e l’affermare un’implicazione negativa (è bianco, allora non può essere nero, né grigio…). • Trubeckoj sottolinea che due opposti sussistono in ogni caso grazie a un tertium comparationis, che identifica ciascun paradigma oppositivo: finestra e socialismo non sono opponibili, perché non hanno nulla in comune, dunque non appartengono allo stesso paradigma. Forse però l’approccio di Saussure è volto a sottolineare la rilevanza della forma come principio costitutivo essenziale di ogni organizzazione semiotica – è vero che i segni sono forme, e non sostanze, ed è quello che li distingue dai segnali degli animali. ENANTIOSEMIA Un particolare fenomeno in cui il principio di opposizione sembra risolversi nel suo contrario è l’enantiosemia: un fenomeno per cui una stessa parola veicola significati opposti. L’interesse per le parole enantiosemiche è molto antico, ma il primo a trattarlo esaustivamente alla fine del diciannovesimo secolo è stato il glottologo tedesco Abel. I suoi studi si concentrarono sulle lingue arcaiche: nella lingua egizia, ad esempio, egli rilevò che la radice kn designava in origine sia «forza» che «debolezza», e quando veniva usata era sempre accompagnata dal geroglifico di un omino armato, ora eretto e ora accovacciato, con funzione disambiguante. Abel concluse che la mentalità primitiva tendeva a formare i concetti per comparazione e opposizione: il concetto di forza, in effetti, può emergere solo per opposizione a quello di debolezza, e viceversa. Alla base dell’enantiosemia c’è sempre un terreno comune tra i due opposti, un tertium comparationis in realtà primitivo, che viene distinto di volta in volta nell’uso. Freud lesse il lavoro di Abel, trovandovi un’analogia col lavoro onirico: nell’inconscio infatti non esiste la negazione. Se la coscienza nega, vuol dire che ha rimosso, e dunque si può andare a recuperare nell’inconscio l’affermazione di ciò che viene coscientemente negato. Ora, il lavoro di Abel non è privo di errori: propone esempi francamente infondati filologicamente o semanticamente, ma quanto meno la sua è una provocazione che apre nuove questioni semiotiche. Si pensi all’italiano avanzare, che significa sia «procedere» (l’esercito avanzava) sia «rimanere» (sono avanzate delle zucchine). Ma anche al latino fortuna, vox media per buona e cattiva sorte. È evidente che le parole enantiosemiche rientrano tra quelle polisemiche. C’è da chiedersi se non può essere che la loro origine non risalga a coppie di omonimi, in cui i due significati diversi sono collassati in un unico significante. In realtà non è così: un conto è l’omonimia di lama (l’animale, la parte affilata del coltello, il monaco buddista), dove i tre significati non hanno alcun tipo di relazione tra loro. Un conto è la polisemia di promettere (dare la propria parola, far presagire un certo esito), dove i due significati 60 di eliminare dalla lingua naturale le parole considerate superflue, e di sostituirle con la base equivalente preceduta da prefisso negativo. Il termine bad, ad esempio, è del tutto inutile, perché può essere sostituito da ungood. Viene da chiedersi se effettivamente, a livello semantico, ungood sia uguale a bad. Ma in ogni caso interviene un’altra argomentazione a mettere in crisi questa proposta distopica: l’uso dei prefissi negativi non è così libero e indiscriminato nelle lingue storiconaturali. In particolare, il prefisso un- del nostro esempio richiede tendenzialmente che la base sia positiva o semanticamente neutra; e la stessa restrizione riguarda anche il prefisso in-. Si può infatti dire unhappy, ma non *unsad. Una restrizione per spiegare la quale sono state avanzate varie ipotesi: a. Un istinto linguistico dell’uomo, che lo spinge ad evitare spontaneamente e inconsapevolmente il «sophisticated detour» del negare un negativo per ottenere un positivo. b. Una correlazione tra restrizione e produttività del prefisso stesso (nel senso che un prefisso molto produttivo sarebbe molto più libero di unirsi ad una base, anche negativa; un prefisso meno produttivo sarebbe più soggetto alla restrizione). Ma se questo viene confermato dal prefisso un- (molto produttivo in inglese, e dunque capace di unirsi anche a basi negative, come undefeated), viene smentito dal prefisso in- (meno produttivo in inglese, ma comunque capace di unirsi anche a basi negative, come in invulnerable). Forse va interpretata come una correlazione preferenziale, non assoluta. c. La restrizione è meno vincolante quando il prefisso coincide con la particella usata per la negazione di nesso predicativo (si dà solo in russo, dove ne- prefisso coincide con ne particella negativa, e si combina più liberamente con basi anche negative). Insomma, il comportamento dei prefissi è in gran misura indecidibile. Manca da introdurre un quarto prefisso negativo, non etimologicamente associato agli altri: non-. Per comprendere cosa cambia a livello semantico, pensiamo alla coppia di aggettivi usata in un esempio di Jespersen: a Moslem is a non-christian but only a Christian can be unchristian in behaviour. Mentre le forme in un- e in- presentano una connotazione negativa, quelle in non- sono neutre: le prime esprimono una valutazione, le seconde un’alterità, un diverso da quanto designato dalla base. Inoltre gli aggettivi prefissati in non- non sono scalari: posso dire he is very unBritish ma non *he is very non-British. Insomma, per la loro neutralità, gli aggettivi in non- sono molto più simili a quelli in alfa privativo. Infine, vediamo cosa cambia tra in- e un-: prendiamo come esempio sempre una frase di Jespersen, children are neither moral nor immoral, they are naturally unmoral. Il prefisso in- continua ad avere una connotazione negativa, rispetto al quale invece un- assume una valenza neutra. Per riassumere: ἀ- assenza (base), neutro, non scalare it. amorale in- opposto (base), negativo rispetto a un-, scalare it. immorale, ingl. immoral un- opposto (base), negativo ma neutri rispetto a in-, scalare ingl. unmoral, ingl. unchristian 61 non- altro (base), neutro, non scalare ingl. non-christian UN1 TRUE E UN2 DO: DUE OMONIMI A CONFRONTO Osserviamo infine che il prefisso inglese un- delle forme aggettivali che abbiamo preso come esempio (unhappy, untrue) non va confuso con l’omografo un- delle forme verbali (untie, undo). A differenza di un1, prefisso delle forme aggettivali, etimologicamente affine a ἀ- e in-, un2 viene dal prefisso Old English ond-/and-, imparentato etimologicamente col latino ante- e col greco ἀντι-, che ha poi subito la caduta di -d- davanti a consonante e il passaggio della vocale in u per influsso del suffisso un- con cui era sentito connesso. Per intenderci: Old English on(d)tiengan > Middle English untingan > Modern English untie Ora, vi sono due possibilità nella semantica di un2: 1. Come prefisso di verbi causativi, un2 veicola il significato di disfare il risultato del verbo designato dalla base. Ad esempio, tie, “to cause something to be tied”, ha come risultato qualcosa di annodato; untie significa allora disfare il nodo. Untie dunque non significa “not to cause something to be tied”, bensì “to cause something to be no longer tied”. Viene annullato lo stato di tiedness risultato dal verbo di base. 2. Come prefisso di verbi causativi denominali, un2 veicola il significato di privare ciò che viene designato dalla base, “to cause not to have/not to be”. Ad esempio, unvoice significa “non esprimere a voce” (privare della voce, causare di non avere voce) e unman significa “evirare” (privare della mascolinità, causare di non essere uomo). Diversamente, un1 è prefisso di aggettivi, intervenendo sull’estremo di una opposizione scalare (unhappy, cioè non felice, cioè malinconico > triste > depresso > disperato) o binaria (unmarried, cioè non sposato, cioè celibe). In conclusione, la differenza tra un1 privative e un2 reversative sta nella differenza del frame argomentale (quale argomento determinano, verbo o aggettivo, e come, negando o disfacendo) assunto dallo scope (la portata della negazione, cioè l’elemento cui la negazione è riferita).22 Bisogna sempre capire qual è il punto esatto di applicazioe dello scope.23 22 Pensiamo alla frase «non ho preparato la pasta al forno per te». A seconda dello scope che si dà alla negazione, può voler dire che mi son dimenticata di preparare la pasta al forno che dovevo farti / che la pasta al forno che ho preparato non è per te / che non sono stata io a preparare la tua pasta al forno. 23 Immaginiamo l’enunciato I have disarmed the prisoners. È chiaro che to disarm non vuol dire “not to arm”, bensì “to cause someone to come not to have arms”. Lo scope della negazione interviene all’interno del causativo (sull’avere le armi) non all’esterno (sui prigionieri). 62 Riassunto dispensa Linguistica generale di M. C. Gatti: La scuola di Praga (pp. 29-48). Il generativismo sintattico (pp. 80-85, 88-97, 108-109). La scuola di Praga Nel periodo fra le due guerre, Praga svolse un ruolo culturale importante per diverse ragioni: era geograficamente un punto di collegamento tra cultura slava e cultura europea occidentale; costituiva un centro intellettuale molto attivo; e ospitava numerosi esuli russi, del cui contributo si arricchì. La componente praghese: l’intenzionalità Marty, discepolo di Brentano, svolse qui la sua attività. L’eredità di Brentano consisteva nel concetto di intenzionalità, un tratto secondo lui proprio di tutta l’attività psichica, ivi compreso il linguaggio. L’intenzione diventò il perno della concezione linguistica praghese, che smise di interrogarsi sulla causa e cominciò a interrogarsi sul fine del comportamento linguistico. Si parla perciò di concezione funzionalista, dove per funzione si intende non il concetto matematico (descrizione di una relazione tra variabili, all’interno della quale le stesse si determinano), ma il concetto di fine, scopo (faccio una cosa in funzione dell’obiettivo che voglio raggiungere). Questi due punti di vista, del resto, sono complementari: l’adeguatezza della struttura di un oggetto può essere valutata solo in rapporto alla sua funzione. La componente russa: il formalismo Il Circolo di Praga venne fondato nel 1926 da Mathesius, un linguista praghese che già prima della pubblicazione del Cours di Saussure aveva abbracciato la visione sincronica. Intorno a lui, si riunirono presto numerosi studiosi russi, tra cui Jakobson, Trubeckoj e soprattutto Baudouin de Courtenay e Kruszewski. Vediamo quali sono i contributi salienti della componente russa: 1. Una visione della lingua che è parallelo – o addirittura anticipa – quella di Saussure. La lingua è un tutto strutturato, un sistema di elementi che si presuppongono vicendevolmente e si organizzano su un asse paradigmatico e un asse sintagmatico. 2. Un focus sulla funzione letteraria e poetica della lingua. L’opera letteraria viene considerata anch’essa come un tutto strutturato, indipendente dalla sua origine storica e dalla sua eventuale destinazione ideologica – si noti che Jakobson è stato uno dei fondatori della Società per l’analisi della lingua poetica. 65 comportasse necessariamente il ricorso all’introspezione come strumento per studiarlo e indagarlo («io come russo nativo posso assicurare che…», «io come italiano nativo posso dire che s e z sono due fonemi come lo sono p e b). L’esperienza però gli dimostrò che le cose non stavano così: la struttura linguistica non può essere indagata con l’introspezione. È vero che il linguaggio è un’attività della psiche, ma non tutto ciò che è nella psiche può essere visto dal soggetto che guarda dentro se stesso. Qui insomma si sta dicendo che tutti noi abbiamo un sapere saputo e un sapere non saputo: ci sono cose che siamo consapevoli di sapere, e cose che sappiamo pur non essendone consapevoli. La lingua è una di queste. Come nuovo strumento di indagine, perciò, Trubeckoj usa la verifica della pertinenza mediante la prova di commutazione, sintetizzando il contributo praghese, quello russo e quello occidentale. Trubeckoj partì dal contributo di Saussure, secondo il quale nella lingua contano soltanto le differenze. Cominciò quindi considerando le opposizioni foniche: constatò che non tutte le opposizioni tra foni sono significative, e chiamò opposizioni fonologiche solo quelle che sono significative. Le opposizioni fonologiche, cioè, non si lasciano ridurre a semplici differenze foniche (del fatto fisico: s è diverso da z perché “suona” diversamente) ma svolgono una funzione distintiva all’interno della lingua (come elementi di un insieme funzionale). La prova di commutazione consiste in questo procedimento: si cercano delle coppie oppositive foniche, e si verifica se questa differenza fonica comporta anche una differenza di contenuto. Ad esempio, una coppia oppositiva fonica può essere quella tra occlusiva labiale sonora e sorda (b e p): in alcune lingue questa opposizione non è pertinente, cioè non si traduce in una differenza di significati; in italiano invece lo è (bere significa una cosa diversa da pere), dunque si tratta di un’opposizione fonologica, dunque in italiano b e p sono due fonemi. Le opposizioni fonologiche sono di due tipi: dirette e indirette. Si chiama diretta un’opposizione fonologica in cui si dà un segmento di testo tale che, sostituendovi uno degli estremi dell’opposizione considerata con l’altro estremo, si ottiene un testo diverso. Ad esempio, il segmento di testo dare: se sostituisco, nell’opposizione fonologica d/t, la d con la t, ottengo un nuovo testo tare. 66 Si chiama indiretta un’opposizione fonologica in cui i due estremi non superano la prova di commutazione perché non possono comparire nella stessa sede, pur mantenendo il loro carattere distintivo – e dunque fonologico – perché hanno proprietà essenziali diverse. Dimostriamolo con un esempio: Le opposizioni fonologiche, inoltre, si dividono in: costanti e neutralizzabili. Si dice neutralizzabile un’opposizione fonologica che in certe posizioni o contesti27 non è operante, non serve per distinguere segni diversi, poiché in quella sede è possibile l’occorrenza di una realizzazione fonica intermedia fra i due fonemi. Ad esempio, in italiano è neutralizzabile l’opposizione tra e chiusa ed e aperta, in sede atona (in sede tonica, cioè accentata, invece l’opposizione è operativa eccome!). Qui è possibile realizzare un fonema intermedio, vicino alla e chiusa, che viene così a rappresentare sia la chiusa che il suo opposto aperto, ossia diventa un arcifonema. La neutralizzazione può essere determinata esternamente – se dà esito a un suono connesso con il contesto fonologico: ad esempio, in russo la neutralizzazione dell’opposizione tra sorda e sonora nelle continue davanti a consonanti dà luogo a un suono sordo o sonoro a seconda della consonante che segue – e internamente – se dipende dalla posizione e non dai tratti presenti nel contesto: ad esempio, l’opposizione tra e aperta e chiusa in sede atona ha in italiano come esito un suono vicino a e chiusa. La neutralizzazione inoltre può dare come esito un fonema più o meno vicino a un estremo dell’opposizione. Nel caso della neutralizzazione in italiano tra e aperta e chiusa in sede atona, il risultato somiglia molto alla e chiusa, detta fonema non marcato perché priva di un tratto (l’apertura) presente invece nel suo opposto, la e aperta, della fonema marcato. Lo stesso si potrebbe dire per esempio per un fonema sordo e uno sonoro, dove il primo è non marcato (assenza di sonorità), il secondo marcato (sonorità). Osserviamo infine che la neutralizzazione non riguarda tutte le opposizioni fonologiche, ma solo quelle bilaterali – tali che la base comune dei loro estremi non è comune ad alcun altro fonema (il suono e nel caso di e aperta e chiusa). 27 Posizione = posto occupato nella catena, ad esempio a inizio o fine di parola. Contesto = tipo di fonemi che precedono o seguono il fonema in questione. In inglese c’è un’opposizione tra h (fricativa laringale: had) e ŋ (nasale velare: thing). Ma mentre il primo può stare solo all’inizio di parola, il secondo può stare solo in fine di parola; dunque non possono essere reciprocamente sostituiti. Per questo non sono fonemi? No. Ognuno dei due si oppone direttamente a sua volta ad altri suoni: à h si oppone ad esempio a b, m, ecc. (had vs bad, harsh vs marsh, ecc.); ma una delle sue opposizioni più interessanti in questo caso è a n, a cui si oppone tra l’altro per essere orale (mentre n è nasale). à ŋ si oppone n (thing vs thin) per essere velare (mentre n è dentale), e a k per essere nasale (mentre k è orale). Dunque la nasalità è un tratto essenziale di ŋ, mentre la non-nasalità è un tratto essenziale di h. sono dunque opposti per proprietà essenziali, dunque sono in opposizione fonologica e non solo fonica. 67 Per Trubeckoj, infine, i fonemi hanno funzione distintiva, o diacritica, come funzione fondamentale. Ma ne hanno anche altre. Una è la funzione culminativa: l’accento di parola, nella lingua italiana, svolge una tipica funzione culminativa, nel senso che ogni parola ha il suo accento, e deve avere un accento per essere una parola distinguibile dalle altre. Ecco, possiamo avere un accento anche di morfema, di sintagma, di frase… L’accento ci permette insomma di distinguere le unità che compongono una sequenza. Ogni lingua ha accenti diversi per questo – ad esempio in latino è probabile che la funzione culminativa fosse data da un accento più acuto, caratterizzato da un suono più alto. C’è poi una funzione demarcativa: segnalare dove comincia o dove finisce un’unità. A volte uno stesso elemento linguistico può avere sia funzione culminativa che demarcativa – ad esempio, in polacco, la regola è che l’accento, nelle parole con due o più sillabe, è sempre sulla penultima sillaba; ebbene, quell’accento ha al tempo stesso funzione culminativa e demarcativa. Mi dice cioè che quella è una parola, e che lì finisce. La funzione poetica di Jackobson L’interesse per la struttura dell’opera poetica è una costante degli studi di Jackobson, che egli cerca di ricondurre ai nuovi apporti teorici sulla struttura linguistica. Un primo spunto interessante del suo lavoro riprende il concetto di fonema marcato e non marcato sviluppato da Trubeckoj: secondo Jackobson, qualsiasi sistema fonologico può essere descritto basandosi esclusivamente sulla marca di correlazione, cioè su questi tratti la cui presenza/assenza determina delle opposizioni fonologiche binarie. Inoltre, secondo Jackobson, la poetica è una parte della linguistica, in quanto corrisponde a una delle funzioni del linguaggio, ognuna orientata a un fattore della dinamica comunicativa (le funzioni sono accanto ai vari fattori, in corsivo e grassetto): N.B.: le funzioni non sono mai allo stato puro; sono più prevalenti sulle altre con orientamento a un certo fattore della comunicazione. CONTESTO MESSAGGIO CONTATTO CODICE MITTENTE DESTINATARIO emotiva referenziale poetica conativa fatica metalinguistica 70 Riassunto M. C. GATTI, La grammatica del lessico: un’applicazione all’italiano Una delle parole dominanti nel nostro secolo è organizzazione. Un termine caratterizzato da polisemia in molti aspetti: • Nel nomen actionis, che può indicare sia il processo (organizzazione di una festa) sia il risultato (organizzazione aziendale). • Nell’oggetto, che può essere sia obiectum effectum (viene fatto esistere dall’azione: organizzare una festa) sia obiectum affectum (viene modificato dall’azione: organizzazione aziendale). Nel primo caso, l’azione assume la semantica del “realizzare con ordine e razionalità”; nel secondo caso, del “portare ordine e razionalità in qualcosa che già esiste”. • Nell’etimologia, che può essere ricondotta al greco érgon (opera), òrganon apparato), organikòs (insieme di parti capace di vita autonoma), enérgeia (dinamismo). La semantica oscilla dunque tra quella della “attività” e quella della “razionalità, coerenza”. • Nella percezione, poiché l’idea di organizzazione può essere sì positiva (quando crea qualcosa di ordinato e razionale), ma anche negativa (quando si concretizza nella razionalità pura che nega la realtà). Soffermandoci particolarmente su questa duplice interpretazione, consideriamo che di organizzazione si parla in diversi ambiti del mondo umano. In ambito linguistico, essa si realizza nel codice. Ora, anche il codice può diventare uno strumento da positivo a negativo, quando la linguistica asseconda una tentazione codicocentrica. È stato così per lo strutturalismo classico (codice come sistema di segni, lingua ridotta a sistema di regole per il funzionamento degli elementi), per il sintatticismo chomskiano (codice come sistema di regole di combinazione delle parole, lingua ridotta a un comportamento appreso), e infine per le massime conversazionali di Grice (codice come sistema di regole di comportamento, lingua ridotta a uno strumento di conversazione). Tra i vari settori della lingua, il lessico risente non meno degli altri di una forte riduzione codicocentrica. Questo è evidente quando si deve imparare una nuova lingua, e l’apprendimento diventa un addestramento al codice, uno scotto da pagare per imparare a parlare. Ma nel lessico esiste un principio organizzativo ben più profondo di quanto descritto dalla Wortbildung: nel primo capitolo chiariremo in che senso si debba e possa parlare di una grammatica del lessico; nel secondo ci soffermeremo sulla necessità di un continuo riferimento alla situazione extralinguistica per la comprensione di una particolare categoria lessicale, quella dei formativi suffissali dei derivati. Aspetti sistematici del corpus lessicale L’ipotesi che vogliamo verificare è che si possa parlare di una grammatica del lessico. Prenderemo come esempio il lessico italiano, ma con qualche confronto con altre lingue, poiché il lessico è una struttura intermedia propria di tutte le lingue. 71 La prima domanda dunque è se sia pertinente parlare di grammatica nel caso del lessico, che è proprio l’ambito della lingua che sembra il meno sistematico di tutti. La riflessione sul lessico si è da tempo interrogata sulla sistematicità di questo ambito della lingua, identificato con la formazione delle parole. Ma la descrizione di questi processi di Wortbildung non ha esaurito il fenomeno della sistematicità del lessico. Possiamo considerare, per conto nostro, un particolare settore del lessico, quello della fraseologia – che all’interno del lessico sembra essere il meno sistematico. Della fraseologia, però, non stiamo considerando i sintemi (gettare la spugna, piede di porco, che si caratterizzano per essere idiomatici al massimo grado, nel senso che il loro significato non è ricostruibile composizionalmente, almeno in prospettiva sincronica)28, quanto le funzioni lessicali (prendere una decisione, prestare aiuto, porre una domanda). Padroneggiare le funzioni lessicali significa avere una buona competenza linguistica. Risulta evidente un certo parallelismo nei rapporti che ci sono tra prendere e decisione, e prestare e aiuto, e porre e domanda. I verbi prendere, prestare, porre in queste collocazioni hanno tutti lo stesso significato generico: “fare”. E le differenze tra una collocazione e l’altra vanno imputate solamente ai sostantivi con cui questi verbi si combinano. Prestare ha perso il suo significato di “ “dare qualcosa a qualcuno per un possesso temporaneo”, così come gli altri verbi hanno perso il loro: avviene una scissione delle due funzioni della verbalità. La funzione comunicativa (dire la situazione) viene perduta, e rimane solo la funzione di vertice sintattico (verbo come centro della sintassi dell’enunciato). La funzione comunicativa viene assunta invece dai sostantivi cui i verbi si accompagnano, detti parole chiave. Come accade nella morfologia per le varie desinenze con cui si può esprimere il plurale di un sostantivo (tavol-i, cas-e, città), per cui si parla di allomorfi del plurale del sostantivo, anche i verbi del nostro esempio, nelle collocazioni, diventano degli allomorfi del significato “fare”. Varianti allolessicali. Non forme diverse che dicono cose diverse, ma varianti per dire una stessa cosa. Consideriamo ora le funzioni lessicali bagnato come un pulcino e sano come un pesce: anche qui non si tratta che di varianti del medesimo significato di “intensità”. Come un pulcino, cioè molto bagnato, e come un pesce, cioè molto sano. Ecco, nel lessico rapporti di questo tipo sono sistematici: Mel’cuk ha individuato una quarantina di rapporti invarianti nel lessico, che lui chiama appunto funzioni lessicali, e che ha formulato come modelli. Ora, è interessante osservare la natura endolinguistica di queste varianti allolessicali: sono tipiche di ogni lingua, dunque non possono essere tradotte da una lingua all’altra. Ad esempio, la funzione lessicale italiana prestare aiuto non può essere tradotta in inglese con *to borrow help, né prendere una decisione con *to take a decision (interessante in questo caso che l’inglese esprima direttamente il significato generico di “fare”: to make a decision. Ancora, sano come un pesce corrisponde al russo “sano come un toro”, e così via. La variante allolessicale è inoltre convenzionale entro una certa 28 Certo che se guardo piede di porco in prospettiva diacronica posso risalire a un momento in cui l’espressione veniva usata effettivamente col senso di zampone; ma oggi, a meno che non me lo dica il contesto, non sarebbe mai questa la mia prima interpretazione. 72 lingua, anche se non mancano casi in cui se ne possa rintracciare la motivazione nella cultura dei parlanti. In ambito didattico, quando si insegna una lingua straniera, bisognerebbe riflettere proprio sulla natura endolinguistica delle collocazioni: non ha senso chiedere ad un alunno “come si traduce in tedesco prestare aiuto?”. Un percorso più sensato sarebbe: partiamo dalla situazione comunicativa individuata dalla parola chiave, aiuto, e chiediamoci come un tedesco esprimerebbe l’azione svolta rispetto a questa situazione da un agente. Inoltre uno strumento utile, sfruttando la modellizzazione di Mel’cuk, potrebbe essere quello del paradigma. Costruire un corpus di paradigmi lessicali, formati da una rete di rapporti concettuali articolata attorno ad una parola chiave; e usarlo per ampliare la propria conoscenza di una lingua. Un esempio di paradigma per la parola chiave inglese investigation (it. indagine) potrebbe essere: C0: to investigate indagare S0: investigation indagine S1: investigator investigatore S2: subject (of investigation) caso Oper1[S0 (C0)]: to conduct svolgere, condurre Magn(C0): thoroughly, in detail approfondita Dove C0 è il verbo, S0 il nomen actionis, S1 l’agens, S2 il patiens, Oper1 l’azione tipica svolta dall’agens rispetto alla situazione, e Magn è l’elativo (accresce l’intensità). Semantica della grammatica del lessico Possedere una buona padronanza lessicale di una lingua significa non solo conoscerne le parole e le collocazioni, ma anche i procedimenti con cui si formano nuove parole. Per la formazione dei lessemi, ogni sistema linguistico opera a partire da una radice, facendo intervenire procedimenti di diverso tipo. Questi processi usano degli strumenti detti formativi (prefissi, suffissi, ecc.). Anche i processi di formazione dei lessemi sono endolinguistici: per indicare “colui che vende il vino”, in italiano usiamo la derivazione (vinaio), in tedesco si usa la composizione (Weinhändler), in francese si passa a un sintema (marchand de vin). Ancora, in italiano usiamo molto l’alterazione (casetta, omuncolo, successone), in inglese si tende a usare l’aggettivo (little house, short man, great success). Ogni lingua insomma prevede un certo numero di questi processi per formare i lessemi, e ne preferisce uno o più sugli altri: l’italiano ad esempio ne prevede quattro (composizione, combinazione, derivazione, alterazione), con prevalenza della derivazione. Per osservare i derivati del lessico italiano, possiamo partire dal derivato stesso e cercare di farne emergere il significato, facendo attenzione al formativo suffissale che viene usato. Siccome i formativi non sono sistematici, non ha senso chiedersi quale formativo realizzi una certa categoria, perché le eccezioni sarebbero troppe!