Scarica riassunto manuale archeologia greca pt 1 e più Sintesi del corso in PDF di Archeologia solo su Docsity! La statua di Zeus di Ugento, presso Taranto, alta 71,8 cm, era posta sulla colonna della quale resta il capitello dorico, di calcare e decorato a rosetta. Il dio è colto nell’atto di incedere impetuosamente, la gamba sx avanzata, la mano dx alzata per lanciare il fulmine, la sx protesa a mostrare un attributo, forse l’aquila opera di notevole impegno dimostrato dalla accoratissima acconciatura cinta da un diadema e da una corona di foglie con la doppia file di riccioli sulla fronte, i capelli e la barba finemente cesellati, tutti i particolari che lo scultore ha realizzato nella cera, prima della colata. Date le dimensioni, la statua è stata realizzata in più parti, elementi modellati e colati a parte e successivamente saldati (es. corona). Rispetto allo scultore del kouros di Olimpia, l’ignoto scultore di questa statua, tarantino, padroneggia molto meglio le possibilità offerte dal bronzo. Il problema del movimento però è ancora risolto in modo schematico; nonostante il tallone dx sia alzato, il peso del corpo appare ugualmente ripartito su entrambe le gambe in uno schema rigido e formale; la statua non si muove autonomamente ma vuole rappresentare solo l’idea del movimento. Lo zeus è stato rinvenuto insieme al capitello all’interno di un ripostiglio; in assenza di dati di contesto, l’analisi stilistica ci suggerisce una datazione tra 530-520 aC: le membra muscolose, cosce rigonfie, attenzione ai muscoli addominali, ancora ripartiti geometricamente, la cura dell’acconciatura richiamano il confronto cone la statua di Kroisos ecc. La fusione a cera persa si applica anche nella produzione di raffinate opere di artigianato, come vasi da mensa e l’instrumentum, destinato alle abluzioni e alla cura del corpo. Emblematico di questa categoria di oggetti di lusso è il Cratere di Vix, il più grande vaso di bronzo a noi pervenuto alto 1,63 m e del peso di 208,6 kg. Il corpo del vaso è stato realizzato in un unico pezzo partendo da un abbozzo colato di getto prossimo alla forma dell’oggetto finito, ma più piccolo e più spesso; da questo modello approssimativo, per progressiva martellatura, si ottiene un grande recipiente, cui sono stati poi aggiunti il piede e tutti gli elementi decorativi. Sul collo del cratere corre una lunga teoria di quadrighe e di opliti, con elmo corinzio, corazza anatomica e scudo rotondo; le anse a volute sono ornate alla base da due busti di gorgoni con terminazioni anguiformi e da leoni rampanti; la presa del coperchio è una figura femminile velata. Il grande vaso, rinvenuto nel 1953, è stato oggetto, in tempi recenti, di una nuova rilettura tecnica, iconografica e stilistica che individua una serie di confronti con vasi di bronzo magnogreci, legati a modelli di tradizione laconica e corinzia: il cratere è databile 530-520 aC e appare prodotto in una bottega attiva tra 540 e 520 tra Sibari e Poseidonia, la complessità dell’apparato decorativo e la raffinata esecuzione dei motivi figurati e ornamentali evocano grandi vasi di bronzo e d’argento che venivano dedicati nei santuari panellenici dai tiranni e dai dinasti orientali. Questo cratere è stato ritrovato nel cuore della Francia, in una tomba principesca di Vix, in Borgogna, e ciò evidenza che questi vasi di lusso viaggiavano molto fino a diventare elementi che stabilivano lo status sociale delle famiglie aristocratiche, la tomba di Vix si data attorno al 500 ac. Avorio: in epoca arcaica vengono prodotti con l’avorio, importato tramite la Fenicia e la Ionia, piccoli oggetti da cosmesi, statuette, placchette decorative di mobili ma anche statue di grandezza naturale, chiamate statue crisoelefantine. Queste, realizzate con alcune parti in oro e altre in avorio, applicate su una armatura interna di legno e di metallo, potevano raggiungere anche dimensioni colossali come l’Atena del Partenone (Fidia). Data l’estrema delicatezza delle componenti queste statue sono quasi del tutto scomparse; alcuni preziosi esemplari sono stati rinvenuti nel santuario di Delfi, all’interno di due fosse scavate verso la fine del V secolo ac, per seppellire ritualmente una parte degli ex voto del santuario, in particolare quelli rovinati o distrutti per varie cause. Lo scavo moderno risale al 1939 e proviene da questo ritrovamento una statua, un tempo di grandezza naturale ricostruita come divinità, probabilmente Apollo, seduta in trono: le parti nude erano in avorio, i capelli, la veste e gli attribuiti erano in lamina d’oro decorata a sbalzo. Una altra testa, probabilmente femminile, era adorna di corona e orecchini: si notano le sopracciglia incavate che dovevano essere riempite di materiale differente. Per entrambe le statue lo stile rimanda alla produzione ionica dei decenni centrali del VI secolo, come suggeriscono i volumi lisci e arrotondati del volto, il taglio a mandorla degli occhi e nelle lamine auree la scelta dei motivi tratti dal repertorio orientalizzante. Più aderenti allo stile dorico per la persistenza di stilemi dedalici sono i piccoli rilievi lavorati a giorno, provenienti sempre dalle fosse di Delfi, raffiguranti un episodio del mito di Fineo, il vecchio re della Tracia cui le Arpie insozzavano i cibi, salvato dai Boreadi, figli del vento del nord. Il fregio doveva ornare una cassa o un mobile di legno. Santuario di Delfi: si trova nella Focide, sulle pendici meridionali del monte Parnaso, sacro alle Muse, a circa 600m di altezza; il paesaggio è alpestre e dominato dalle rocce Fedriadi (splendenti). Secondo la tradizione fu Gaia ad assumere per prima il ruolo di profetessa e a regnare sul santuario insieme a suo figlio, il serpente Pitone, quest’ultimo fu ucciso da Apollo. Il dio dopo essersi purificato in Tessaglia, divenuto padrone del santuario, ne assunse la caratteristiche oracolari e fondò gli agoni musicali, componendo per primo un canti citaredico, accompagnato da cetra per commemorare la morte di Pitone. Sulla base dell’evidenza archeologica i primi oggetti, interpretabili come offerte (indicativi dell’esistenza di una forma di culto), risalgono alla fine del IX secolo aC. Su tutta l’area del temenos di Apollo, come sulla vicina terrazza di Marmarià, sono stati ritrovati anche vasi, terrecotte, resti di edifici e di tombe del tardo elladico ma non vi è alcuna prova di una continuità di culto tra l’età micenea e l’età geometrica. La quantità e la qualità delle offerte del periodo orientalizzante testimoniano l’importanza assunta dal santuario nel corso del VII secolo; è in questo periodo che l’amministrazione incomincia ad essere gestita da un’Anfizionia (lega di stati vicini) della quale fanno parte Focide, Tessaglia, Beozia e Doride. I conflitti tra gli interessi dell’Anfizionia e quelli dei Focidesi e poi tra le varie poleis, che attirate dal prestigio e dall’autorità religiosa del santuario, tenteranno di imporre la propria egemonia sul luogo sacro , porteranno a guerre “sacre”. Dopo la prima guerra sacra 600-590 ac che vede sconfitta la Focide, lAnfizionia fonda i giochi Pitici (586 aC) che affiancano alle competizioni citarediche le gare atletiche sul modello di Olimpia; solo nel 582 viene introdotto il certame coronario gare di musica e atletica con l’aggiunta della corsa di cavalli dove i vincitori erano premiati con corone di alloro. Il santuario diventa ora panellenico perché si apre alla partecipazione di tutti i Greci e delle potenze straniere, quali gli Etruschi e i Lidi. Risale all’inizio del V secolo il primo muro di cinta in opera poligonale, come hanno dimostrato gli scavi archeologici condotti recentemente nella zona del grande altare dell’Apollonion. Sono di questo periodo anche i primi donari, tra i quali il gruppo di Kleobis e Biton, la sfinge di Nassii e incominciano a essere costruiti i primi tesori. Il santuario di Delfi, centro religioso, politico per eccellenza, si articola fino al VII secolo in due distinti settori che si sviluppano ai lati della fonte Castalia. Anche la fonte, che verrà sistemata con un prospetto architettonico era un antichissimo luogo di culto; con la sua acqua parlante la Pizia, somma sacerdotessa di Apollo, si bagnava i capelli prima di dare i fatidici responsi; con la stessa acqua si purificavano i pellegrini prima di accedere ai luoghi sacri. Venendo dalla Beozia per prima cosa si incontra il santuario di Atena Pronaia (colei che viene prima del naos) situato sulla terrazza di Marmaià. Come lo vediamo adesso, il temenos presenta le rovine di una serie di edifici sacri e di tesori, tra i quali spicca la tholos costruita da Theodoros di Focea (no t. di Samo?) tra 380 e 370 aC. Proseguendo sul cammino verso occidente si incontra il vasto complesso del ginnasio, con le piste per gli allenamenti, le terme e la palestra, costruito nel IV secolo aC su due terrazze sovrapposte. Si arriva infine al temenos di Apollo che si inerpica sul pendio della montagna. L’ingresso attuale, fiancheggiato da edifici di età romana, immette direttamente nella via sacra, che sale fino alla terrazza del tempio fiancheggiata da una serie continua di donari e tesori. Sono le più importanti città della Grecia e dell’occidente che fanno a gara per comparire e per offrire al dio un monumento degno della sua potenza. A sx dell’entrata il monumento dei Navarchi spartano, vincitori a Egospotami nel 405 aC contro Atene, si affianca al donario che celebra la vittoria ateniese a Maratone del 490ac; in mezzo il cavallo di Troia donato da Argo per una vittoria sui spartani nel 414 aC; di fronte il Donario degli Arcadi, finalmente liberi dal dominio di Sparta dopo le battaglie di Leuttra e di Mantinea nella prima metà del IV seoclo. E ancora le esedre con i donari di Argo che celebrano i miti e gli eroi della città, il donario dei Tarantini dopo una vittoria sui Messapi nel 473 ac per il quale fu chiamato il notissimo Agheladas di Argo. Incomincia poi la serie dei tesori, edifici di modeste dimensioni a pianta semplice, a oikos rettangolare con due colonne tra le ante, costruiti con le decime dei bottini di guerra; la funzione di questi edifici era quella di rappresentare le poleis della Grecia e delle colonie d’occidente nei santuari panellenici e di custodire i doni che le città offrivano agli dei. Sotto la terrazza che sostiene il tempio di Apollo era l’antico santuario che Gaia e il luogo in cui il dio uccise il serpente; una sola roccia ha ricevuto la monumentalizzazione con l’erezione della colonna dedicata dagli abitanti dell’isola di Nasso nel primo quarto del VI secolo. La colonna di ordine ionico era sormontata da una sfinge con il volto di donna e il corpo di felino; il mostro, di solito ha la funzione di segnacolo funerario, indicava il luogo della mitica uccisione di Pitone e la sua tomba. Davanti alla sfinge, di area circolare, denominata “aia” nella quale sostavano le processioni per assistere alla sacra rappresentazione della lotta tra Apollo e il serpente. Sull’halos si affaccia il portico degli Ateniesi, di ordine ionico, manifesto della potenza navale di Atene. Il tempio di Apollo è stato ricostruito più volte; il tempo arcaico fu distrutto nel 548 aC da un incendio; nel 510-505 l’edificio fu rifatto con il contributo della potente famiglia ateniese degli Alcmeonidi, mandata in esilio da Pisistrato, e l’intervento dello scultore Antenore che realizza i frontoni: quello est in marmo di Paro raffigurava l’arrivo di Apollo a Delfi; quello ovest in calcare raffigurava una gigantomachia. Il tempio attualmente visibile è quello costruito dopo il disastroso terremoto del 373 aC; qui in una sala sotterranea sul fondo della cella, l’adyton o manteion, vaticinava la Pizia, ispirata dai vapori che provenivano dalla terra e masticando foglie di alloro. Di fronte al tempio di Apollo, preceduto, ad est, dal grande altare dedicato agli inizi del V secolo aC dagli abitanti dell’isola di Chio, si apre una area affollata di monumenti e di donari che ricordano le fasi più salienti della storia del mondo greco, dal tripode di Platea (per commemorare la vittoria del 479 ac sui persiani), ai donari dei spesso legati al ciclo tebano e troiano. più antico cratere a colonnette a noi noto proveniente da Cerveteri (ET); si tratta di una forma vascolare che compare ora, derivata forse dai manufatti in metallo. Le iscrizioni dipinte in alfabeto corinzio rilevano che i convitati, sdraiati a banchetto sui letti secondo la moda orientale, sono Eracle ed Eurito con i figlio Ifito e Iole; apparentemente convenuti a una occasione di festa cui segue però lo scatenarsi del dramma con l’uccisione da parte di Eracle di Eurito e dei suoi figli. Sulle larghe superfici del cratere, libere da riempitivi, le figure sono dipinte dal pittore con grande padronanza di tratto e colore: i dettagli dei letti tricliniari e dei tavoli, i particolari anatomici dei personaggi e dei cani sono resi ora a contorno dipinto di nero, sovraddipinti in bianco e paonazzo, rivelando schemi pittorici già definiti come la scelta dell’incarnato bianco per le figure femminili e nero per quelle maschili che diventerà costante. Di tono ornamentale sono gli altri fregi figurati: combattimenti di opliti sul lato opposto del cratere e una cavalcata su quello inferiore. Il vaso mostra tali elementi di novità rispetto alla comune produzione del Corinzio Antico che ne fa proporre una datazione più bassa di quella indicata generalmente (600 ac). Sui contenitori da profumo compare nel corso del CA una iconografia nuova: i comasti cioè figure maschili di danzatori con sedere e pancia visibilmente imbottiti, raffigurati in gruppi di danze rituali. Il tema è di significato ancora poco chiaro ma ebbe grande successo tanto che fu adottato anche in Attica. - Stile Corincio Medio 590-570 ac: inizia nel CM la produzione di unguentari monumentali, forse defunzionalizzati e trasformati in oggetti di prestigio: si tratta di alabastra alti fino a 30 cm e di aryballoi ora dotati di un piede ad anello alti fino a 20 cm; la decorazione, spesso raffinata, si estende in altezza disponendosi entro filetti, con la tendenza a occupare tutta la superficie a disposizione. A simile gusto per figure monumentali disegnate con talento e disciplina corrispondono anche i maestri riuniti sotto il Gruppo della Chimera (dal Pittore della Chimera); essi dipinsero, con tratto deciso e ricca policromia, composizioni singole o gruppi araldici nei tondi centrali di coppe e piatti, o sulle superfici di grandi aryballoi a fondo piatto. A un gruppo di fini decoratori di crateri e coppe (gruppo diverso dal primo) appartiene Timonidas, che decorò le placchette in terracotta come mostra il fine disegno con cacciatore e cane sul frammento di Pinax da Penteskouphia. Nella bottiglia conservata ad Atene il pittore rivela una buona capacità compositiva, disponendo le figure secondo un rudimentale principio prospettico e inserendo nella scena elementi ambientali. A una fase iniziale del CM, in stretta relazione con gli ornati e le forme del CA, si iscrive l’aryballos di Polyterpos, dedicato nell’Apollonion di Corinto come premio per una gara musicale. Raffigura un soggetto inconsueto, esplicitato dalle iscrizioni: mentre l’auleta suona il doppio flauto, il maestro del coro spicca un gran balzo avanti a coppie di coreuti. La circostanza che il vasetto, da noi definito aryballos, citi se stesso come olpe nell’iscrizione, ci permette di toccare la delicata questione sulle funzioni dei vasi e le loro forme: mentre per comodità e chiarezza il mondo scientifico ha adottato definizioni convenzionali e fisse per le forme ceramiche, i nomi usati dagli antichi erano più flessibili. - Stile corinzio Tardo 570-550 ac: nel secondo quarto del VI secolo i pittori corinzi fanno fatica ad affrancarsi dalla tradizione del fregio animalistico; così i meno dotati si limitano a riproporre con poca convinzione ed evidente sciatteria composizioni di animali singoli o gruppi araldici, i più bravi compiono estremi tentativi di svecchiamento: si concentrano nella decorazione di vasi di grandi dimensioni che possano rivaleggiare per monumentalità delle scene figurate con i vasi attici; talvolta in una sorta di imitazione del prodotto ateniese, sulla superficie giallina del vaso corinzio viene steso un ingobbio rosso che si avvicina al colore del corpo ceramico attico. In questa fase è interessante la produzione di crateri a colonnette, spesso destinati ad acquirenti etruschi e decorati con fregi di cavalieri, duelli di opliti, scene di armamento e di partenza, di cortei nuziali e banchetti; spesso anonimi. Ceramiche Attiche: - Prima metà del VI secolo ac: tra gli ultimi decenni del VII secolo e il principio del VI i ceramografi ateniesi acquistano progressivamente familiarità con la tecnica pittorica a figure nere, si esercitano nel graffito e nei ritocchi in paonazzo, mostrandosi molto sensibili alla moda corinzia. Dalle fonti sappiamo che Solone incoraggiò l’immigrazione ad Atene di artigiani provenienti da altre località quindi è probabile che alcuni ceramisti corinzi siano immigrati ad Atene, fornendo alla ceramica attica uno stimolo in più. La produzione PAttica Tarda (630-600 ac) è rappresentata dal Pittore di Nesso, continuamente alla ricerca di formule nuove, ma capace di scene complesse e attivo in questo periodo. anfora di Atene; esempio di monumentalità sia nelle dimensioni e nella tettonica del vaso che nella composizione figurata; essa mostra la distanza tra i primi vasi attici e le ceramiche corinzie. I cigni e le civette che il Pittore di Nesso traccia sulle anse plastiche e sull’orlo dell’anfora sono infatti di esplicita derivazione corinzia, così come il fregio di loti e palmette sulla spalla del vaso; le rosette a punti distribuite uniformemente sulla superficie sono riempitivi di tradizione PC; questo pittore dimostra una grande sensibilità per i mutamenti stilistici e formali nel passaggio da PC a C. Altro fregio di questo vaso è con terribili gorgoni in corsa sulla pancia dell’anfora: il tema è quello dell’uccisione da parte di Perseo di Medusa, di cui è dipinto il corpo agonizzante decapitato; le gorgoni hanno qui assunto la loro iconografia canonica di mostri alati raffigurati nella schema della corsa in ginocchio. Sul collo Eracle, distinguibile solo dalla scritta, perché privo di attribuiti specifici, assale il centauro Nesso; la scena è di grande potenza. Sicuro è l’uso del graffito e meditato quello dei ritocchi in paonazzo. Qualche generazione dopo arriva Sophilos è il primo maestro attico di cui si abbia la firma e la cui personalità sia meglio intellegibile. Egli lavora tra 580 e 570 aC e dalle firme sappiamo che fu sia ceramista che pittore; i vasi che plasma sono di grandi dimensioni, per lo più anfore e deinoi; le decorazioni resistono ancora nel gusto corinzio per i fregi animalistici sovrapposti, ma il pittore mostra grande abilità narrativa nel tracciare la folla che gremisce gli spalti di uno stadio di legno per assistere ai giochi funebri di Patroclo. Appartiene agli anni 585-570 ac la produzione di coppe attiche con comasti (danzatori) in maniera simile alla tradizione tardocoriniza. Compare ora anche la forma della kylix, coppa con orlo distinto, vasca larga e piatta, alto piede a fusto che nella ceramica attica sarà la forma potoria per eccellenza. Nella prima metà del VI secolo ac si colloca una altra fortunata serie di coppe, accolta con favore a Corinto e in numerose altre località; si tratta delle coppe dette di Siana, località sull’isola di Rodi dove furono rinvenute per la prima volta. Numerosi pittori decorano tracciando con disegno ancora miniaturistico figure nei tondi centrali e nei fregi esterni della vasca. Come Sophilos, pittore e vasaio fu anche Nearchos, del quale si conservano le firme; fu attivo dalla seconda metà del VI secolo ac con un successo tale a garantirgli una dedica sull’acropoli della monumentale kore scolpita da Antenore. Nearchos è maestro di forme vascolari nuove, come i kantharoi, ma suo è un aryballos globulare di imitazione corinzia. Su un frammento di kantharos dall’acropoli si assiste forse al primo esempio di espressione di sentimenti individuali nella figura di Achille, che accarezza i suoi cavalli, consapevole e triste della morte che lo attende. Entro la prima metà del VI secolo ac, mentre i vasai attici iniziano a conoscere una fortuna commerciale oltre i limiti regionali, la tecnica delle figure nere viene pienamente acquisita; i pittori attici mostrano consumata abilità nel dominare il graffito e le sovraddipinture, ma regna ancora una caoticità nella composizione delle scene figurate. La vivace vocazione narrativa spinge le maestranze a prendere sempre più le distanze dagli insegnamenti corinzi, in crisi; poco a poco le decorazioni zoomorfe e fitomorfe vengono relegate alle parti secondarie del vaso. Cratere François: rinvenuto a Chiusi (ET) nel 1845 e battezzato con il nome del suo scopritore; nel 1900 fu fatto a pezzi da un custode del museo arch. di Firenze (dove il vaso si trova ancora oggi); il cratere fu parzialmente ricomposto superando anche l’alluvione dell’Arno del 1966. Tra le decine di iscrizioni dipinte sul vaso vi sono anche quelle che ci rivelano che il cratere è frutto di una collaborazione tra due maestri Ergotimos (vasaio) e Kleitias pittore. Il cratere è datato 570-560 ac; è il primo esempio monumentale e maestoso di cratere a volute, realizzato con una tettonica non dissimile da quelli a colonnette, ma rinnovato nell’imboccatura, più ampia e svasata, sormontata da due grandi anse a volute. Kleitias decora l’intera superficie con scene figurate che, se nella disposizione per fregi sovrapposti mostrano un legame con la concezione corinzia, se ne affrancano completamente per la vivacità narrativa e l’ispirazione tutta mitologica dei contenuti; il fregio animalistico di tradizione corinzia è relegato alla posizione secondaria e infatti disposto più in basso. Sul labbro sono raffigurati da un lato la caccia al cinghiale calidonio contro cui si schierano Peleo (padre Achille), Atalanta e Meleagro; dall’altro lo sbarco di Teseo a Delo e la danza gioiosa dei giovani ateniesi; sul collo del cratere sotto la caccia è la corsa dei carri per i funerali di Patroclo, dall’altro lato una scena di centauromachia. Il primo fregio della vasca, nel punto di massima espansione del vaso, continua, tutto intorno alla superficie del cratere; essa mette in scena le nozze di Peleo e Teti, da cui nascerà Achille. Nel fregio torna la ripartizione tra i due lati e da una parte osserviamo una vivida raffigurazione del ritorno di Efesto sull’Olimpo, dall’altra fuori dalle mura di Troia Achille insegue Troilo che ucciderà. Chiude il fregio animalistico di tradizione orientale, mentre sul piede con la battaglia di pigmei e gru è quasi un diversivo comico. Sulle anse sono dipinti Artemide; la gorgone (trad. corinzia); Aiace che trasporta il cadavere di Achille. Sebbene gli episodi siano divisi in fregi sovrapposti, di sapore corinzio anche nel tratto calligrafico e miniaturistico, il programma figurativo di Kleitias si rivela tutt’altro che slegato e disomogeneo; al contrario risponde ad un progetto unitario che tramite la vicenda esemplare dei due eroi, Achille e Teseo, diviene veicolo di richiami religiosi e etici facilmente cogliibili dagli aristocratici dell’Atene riformata da Solone e vicina alla tirannide di Pisistrato. È probabile che i messaggi suscitassero entusiasmo anche negli etruschi dai quali il vaso venne acquistato. La ricca composizione di miti assurge a paradigma del ciclo di vita aristocratico ma mette anche in guardia dall’infrangere i codici etici, se l’eroe nutre la speranza dell’immortalità. Gli anni della tirannide pisistrade ad Atene coincidono con un periodo di grande fervore in ogni espressione artistica. L’elevato numero di firme di vasai e pittori nella seconda metà dal VI secolo e l’incremento di vasi figurati immessi sul mercato attestano che la produzione e il commercio delle ceramiche attiche erano allora in grande espansione. Ceramisti e ceramografi godono anche di una buona considerazione sociale tanto da potersi permettere doni votivi sull’acropoli. La presa di coscienza di importanza e di prestigio connesso con le abilità artigianali coincide con la comparsa, a partire dal 540 ac, di immagini di lavoro artigianale, ceramico ecc dipinto sui vasi; è stato notato in proposito che progressivamente muta la raffigurazione del lavoro per essere presto inteso come espressione di creatività formale. Il graduale miglioramento economico e sociale può spiegare anche perché i pittori tendano, verso fine secolo, a rappresentarsi come cittadini ateniesi es. sdraiati a banchetto ecc. Dell’effettivo peso economico delle ceramiche attiche figurate nel volume complessivo dei traffici commerciali si è molto discusso: gli studiosi si sono divisi in coloro che riconoscono ai vasi di Atene il valore di oggetto d’arte, come tale prestigioso e ben pagato e coloro che al contrario tendono a svalutarne il significato economico. Nonostante si possiedano iscrizioni e sigle dipinte o graffite sui vasi stessi , spesso anche relative al loro costo, la faccenda non è facilmente risolvibile. In ogni caso i vasi attici della seconda metà del VI secolo sono al centro di un consistente volume di traffici e molti ceramisti e pittori danno prova di grande abilità nel controllare le esigenze dei mercati, di cui studiano i gusti. Dotato di uno spiccato fiuto per gli affari fu Nikosthenes, ceramista proprietario di bottega, attivo nella seconda metà del VI secolo. Egli dovette ritagliarsi uno spazio commerciale significativo presso la clientela etrusca, della quale mostra di conoscere e sapere assecondare le esigenze, creando forme vascolari nuove, molto gradite al mercato etruscoes. anfora Nicostenica, con anse larghe e piatte a imitazione di un prodotto etrusco in bucchero; oppure il Kyathos, un attingitoio monoansato ispirato a sua volta dalla forma di un boccale etrusco. Negli stessi decenni si muoveva Sostrato di Egina. La seconda metà del VI sec. Ac è una fase di grande sperimentazione. Mossi dalla ricerca di effetti di colorismo e di più efficace resa pittorica i maestri del Ceramico di Atene si misurano di vari esperimenti tecnici; tra questi l’applicazione di una vernice che conferisce alla superficie ceramica una brillante tonalità corallo, usata forse per la prima volta da Exechias, nella coppa con navigazione di Dioniso: oppure la campitura di figure interamente in bianco su vernice nera con graffiti che lascino intravedere il fondo nero e non quello dell’argilla (tecnica di Six), già nota nella prima metà del secolo ma applicata con maggiore impegno successivamente. L’invenzione della tecnica a figure rosse intorno al 530 ac è quindi in linea con le ricerche pittoriche dell’epoca. Grande è la ricchezza iconografica delle ceramiche dipinte di questo periodo che ai soggetti divini ed eroici uniscono anche l’attenzione per la sfera umana, raffigurata nei suoi episodi più altamente qualificanti il profilo etico e morale del cittadino e della cittadina ateniese. Per il loro valore paideutico diventano frequenti le scene di corteggiamento omoerotico tra atleti, i simposi in esplicita allusione all’intrecciarsi di relazioni omossessuali. Per singolare concentrazione dal 530 ac in poi si segnalano vasi per lo più Hydrai, con scene di donne che attingono acqua alla fontana probabile collegamento con la regolamentazione idrica pisitratide che fece delle fontane un polo di aggregazione femminile. Questi vasi hanno acceso un dibattito cioè se nelle figurine che attingono acqua si debbano riconoscere schiave, visto che la donna libera ateniese era incatenata al suo telaio e alla sua casa oppure se le donne dell’Atene pisistratide conducevano una vita più libera di quanto le fonti letterarie lascino intendere. Si osservino la vivace scena di fanciulle al bagno dipinte dal Pittore di Priamo su una anfora; il gruppo di donne che nuotano e si tuffano in mare del pittore di Andokides per la tecnica delle figure rosse. Per i soggetti eroici con molta frequenza vengono raffigurati episodi tratti dai poemi omerici (soprattutto Iliade) e i due eroi greci più valorosi Aiace e Achille; importanti anche Dioniso e Eracle. Lydos, Amais e Exechias: il culmine della pittura vascolare attica a figure nere di età pisistratide è rappresentata da queste tre personalità attive tra 560 e 525 ac; sono maestre che giungono fino alle soglie del periodo a figure rosse, senza mai lasciarsi tentare dalla nuova tecnica ed esplorando a pieno quella vecchia (fig. nere). - Lydos= il Lidio, allusione alla sua condizione di immigrato dalla Lidia; non sappiamo se sia nato ad Atene o se vi si sia trasferito ma per le qualità tecniche e per la cultura delle sue immagini è certo che si formò nelle officine atenesi del Ceramico. Gli sono attribuiti un centinaio di vasi che non scendono oltre il 540 ac; è un disegnatore molto prolifico, ma di qualità diseguali per cui accanto a opere correnti si affiancano quelle di grande drammaticità. - Amasis: è vasaio perché si firma come tale, ma potrebbe aver lavorato anche come ceramografo; la maggior parte dei vasi da lui plasmata è dipinta da una stessa mano chiamata per convenzione Pittore di Amasis. Il suo nome è lo stesso del faraone che regna in Egitto tra 570 e 526 ac, sovrano favorevole alla presenza greca in Egitto e si pensa che il ceramista fosse un greco nato in Egitto e che poi si traferì ad Atene; altra ipotesi è che Novità espressa anche dai poderosi corpi delle giovani donne a banchetto sullo Psykter dell’Ermitage. Il pittore ne indica accuratamente i nomi, fanciulle sdraiate sui letti partecipano con disinvoltura a un simposio al femminile, attingendo vino da larghe coppe, giocando e suonando il doppio flauto. Contro l’opinione comune che siano etere, vi è anche chi abbia suggerito che potrebbe trattarsi di donne di rango elevate che partecipano ad un rituale saffico (le donne libere erano però relegate in casa). Euphronios raffigura anche se stesso a banchetto nei panni di un raffinato cittadino ateniese, viene poi dipinto da Smikros in atto di corteggiare Leagros tra altri giovani del ginnasio. - Euthymides che rivaleggia con Euphronios. Sull’anfora di Monaco con comasti danzanti troviamo la famosa e controversa scritta che “critica” il collega. Forse erano rivali in un clima di grande produttività ma Euthymides non cerca assolutamente di copiare il rivale anche se lo eguaglia nel disegno e nell’invenzione; contrappone alla potenza formale di Euphronios, un’intima grazia mondana con la quale dipinge figure rese con eleganza mostrando grandi capacità compositive nel campire i pannelli metopali delle anfore solitamente con gruppi di tre o quattro personaggi es. Anfora di Vulci con Teseo e Elena nella quale il pittore traduce in disegno, con larga sensibilità, i panneggi raffinati delle korai in marmo dedicate in quegli anni sull’acropoli. Anche lui fa uso libero delle iscrizioni, nominando se stesso e il padre, lo scultore Pollias. - Phintias: altro artefice della generazione dei Pionieri a figure rosse. Raffigura a sua volta Euthymides nei panni di un giovane elegante, mentre suona davanti al suo maestro; la musica, accanto agli esercizi ginnici, ricopre un ruolo molto importante nell’educazione die giovani efebi ateniesi. Accanto ai decoratori di vasi operavano anche artigiani che dipingevano soprattutto kylikes e recipienti di piccole dimensioni dando prova di una notevole unità di concezione e ispirazione con i maestri dei grandi vasi. Tra i più dotati ci sono Oltos coppa da Tarquinia con solenne assemblea degli dei (forse riferimento all’istituzione pisistratide del culto dei 12 dei); e Epiktetos minore curiosità per i dettagli ma più efficace potenza narrativa ha il pannello di E. che crea figure sobrie ma dai contorni scuri. ETA’ DELLO STILE SEVERO 480 ac-450 ac: siamo negli anni della grande ascesa di Atene. Uscita vincitrice dalle guerre persiane con le battaglie di Salamina (480ac) e di Platea (479 ac) sotto il comando di Temistocle, la città attica si avvia a diventare una guida politica e spirituale di tutti i greci. Nel 477 ac Atene e le città ioniche fondano una coalizione con intenti antipersiani, la Lega delio-attica, con sede a Delo, dove era conservato anche il tesoro della Lega, costituito dal tributo versato dalle città alleate. Nonostante gli interventi di Sparta, che sconfigge i persiani a Cipro e a Bisanzio, è ancora l’esercito ateniese, guidato da Cimone (figlio dello stratega di Maratona), a infliggere al nemico una doppia sconfitta per terra e per mare alla foce dell’Eurumedonte (Asia Minore) nel 465 ac. Impegnata contro la Persia in politica estera, e contro Sparta in casa, Atene riesce a estendere la sua egemonia su tutta la Grecia centrale. Forte dell’alleanza con Argo e con Megara, annette ai suoi territori la Beozia, la Locride e la Focide. Nel 456 ac anche Egina, già alleata di Sparta, è costretta ad entrare nella Lega delio-attica. Con il trasferimento del tesoro della Lega ad Atene nel 454 ac, la tregua quinquennale con Sparta e la pace con la Persia, la lega perde la sua importanza lasciando Atene egemone tra le città alleate. L’imperialismo ateniese porterà nella seconda metà del secolo alla rottura definitiva con Sparta e alla Guerra del Peloponneso (431 ac-404 ac). Il 480 ac è un anno decisivo: le città greche della Sicilia, che sconfiggono i cartaginesi con i tiranni di Siracusa e Agrigento che difenderanno i valori greci contro i barbari. Nel 474 ac anche gli etruschi sono sconfitti da Siracusa; con il bottino della vittoria e la manodopera offerta dagli schiavi di guerra i tiranni sicelioti avviano un programma di opere pubbliche che porterà alla costruzione dei grandi templi dorici in patria e di donari nei santuari panellenici. I decenni che seguono la Guerre Persiane e precedono la legittimazione dell’impero ateniese con l’inizio dei lavori per la ricostruzione dell’acropoli (447 ac) sono decisivi per la storia del mondo greco. Nella politica interna emerge decisamente Atene, nella politica estera, la sconfitta dei barbari persiani, porta le città greche ad una maggiore consapevolezza e alla necessità di ribadire i propri valori. È inevitabile che questo clima politico di rinnovamento e di esaltazione nazionalistica agisca anche sulla produzione artistica che in tutto il mondo antico resta sempre il principale mezzo di comunicazione. Nel campo dell’architettura vengono di necessità privilegiati i lavori di ristrutturazione e di difesa mentre nel campo delle arti figurative la produzione di monumenti commemorativi e di ex voto permette che vengano portate a compimento le sperimentazioni che avevano caratterizzato la pittura tardoarcaica. Nasce lo stile severo. L’aggettivo severo si traduce con Streng in tedesco, fu usato da Winckelmann (storia dell’arte dell’antichità 1764) per definire la scultura anteriore a Fidia. L’appellativo nasce dall’osservazione dei volti delle sculture della prima metà del V secolo che hanno perso ogni tipo di manierismo tardoarcaico. Le innovazioni dello stile severo non consistono solo nell’eliminazione del virtuosismo decorativo che aveva caratterizzato l’età arcaica ma nella messa a punto di un nuovo linguaggio figurativo che guarda all’uomo e al suo destino. È questa tematica che vede nascere un’arte figurativa che affronta i primi tentativi di introspezione; l’uomo è ancora al centro della ricerca artistica e non viene più rappresentato nella sua essenza fisica ma come essere pensante. Sono questi gli anni della nascita della grande tragedia greca che racconta le gesta di dei e eroi ma soprattutto riflette sulle loro gesta. Grandi passi si compiono anche in ambito delle scienze con l’osservazione dei fenomeni naturali e dei corpi celesti, con studio dell’anatomia, della medicina e la creazione delle prime grandi scuole mediche; i filosofi greci partono dallo studio del mondo per arrivare a quello dell’uomo. Nella statuaria viene abbandonata, pian piano, l’assialità arcaica, il tronco è ora bilanciato sulle gambe, una portante e l’altra flessa e tutte le membra si muovono assecondando la diversa distribuzione del peso corporeo. La semplicità delle forme riveste nuova armonia mentre la cura riservata alla resa di vene e arterie è frutto degli studi dell’anatomia. La riflessione sull’uomo porta all’interesse per la raffigurazione dei caratteri, degli stati d’animo, delle età matura. Architettura sacra: dopo la vittoria di Platea (479 ac) gli ateniesi tornarono sull’acropoli che era stata saccheggiata e distrutta dai persiani e decidono di non ricostruirvi nulla. Le sculture e gli ex voto vengono seppelliti ritualmente in quanto sacri; il culto di Atena, ora simbolo della grecità, continua con la ricostruzione parziale del vecchio tempio pisistratide, destinato ad ospitare l’antichissimo simulacro ligneo della dea. Con il passare degli anni nuove opere arriveranno a sostituire quelle oltraggiate dai persiani ma il programma architettonico resterà fermo fino al 447 ac, quando Pericle, con il tesoro della Lega, darà via alla ricostruzione dell’acropoli e dei suoi templi. Per rinforzare le difese della città viene ricostruita la cinta muraria da Temistocle, utilizzando anche materiali di reimpiego e viene avviata una riorganizzazione del Pireo con la costruzione delle Lunghe Mura, che collegano il porto ad Atene e con un nuovo piano regolatore affidato a Ippodamo di Mileto, Cimone ricostruisce i tratti rettilinei delle mura meridionali dell’acropoli. Altri edifici utilitaristici vengono approntati nell’agorà mentre nella necropoli del Ceramico il sepolcro comune, destinato ad onorare gli eroi morti in guerra, vanifica l’esibizione dello status attraverso il monumento funerario cara agli aristoi. Fermi i lavori ad Atene, l’architettura sacra della Grecia è rappresentata dal grandioso tempio di Zeus a Olimpia, uno dei più grandi della GR continentale; l’edificio era ancora visibile in età romana perché Pausania lo visita nel II sec dc, lasciandocene una testimonianza. Situato nella parte meridionale del temenos su un enorme stilobate, il tempio è dorico, periptero, 6x13 colonne, con un rapporto tra i lati brevi e lunghi che diventerà canonico; la cella dotata di pronao e opistodomo è divisa in tre navate da due file di sette colonne ciascuna posta su un doppio ordine dorico a due piani; il colonnato ingombra lo spazio interno riducendo la navata centrale a un semplice corridoio, dove le statue di culto, che tendevano al monumentale, trovano spazio a fatica. Nella parte terminale della cella rimangono le tracce della base che sosteneva la statua crisoelefantina di Zeus, opera di Fidia. In elevato, il tempio, posto su un crepidoma di tre gradini, raggiungeva una h di 20 m; il tetto a doppio spiovente era coperto da tegole in marmo, mentre il resto dell’edificio era in calcare conchiglifero locale, rivestito di stucco bianco; il colore (rosso, blu e nero) sottolineava le membrature architettoniche e le parti aggettanti della trabeazione. Anche la complessa decorazione scultorea, in marmo pario, era completata dal colore e da inserti metallici. Anche qui (come al tempio di Apahia a Egina) sono state messe in opera delle correzioni ottiche volte ad alleggerire la pesantezza dell’ordine dorico: i fusti delle colonne hanno un leggero rigonfiamento che ne attenua la rigidità; le colonne dei lati maggiori e le prime due colonne su ciascuno lato corto hanno una inclinazione verso l’interno. Il modulo (unità di misura alla base dei rapporti tra le varie parti che compongono un edificio) è dato dall’interasse delle colonne cioè dalla distanza, calcolata alla base, tra gli assi di due colonne vicine. Tutte le misure del tempio sono multipli e sottomultipli di questa misura. L’architetto fu Libon dell’Elide (regione di Olimpia). Il tempio di Zeus è datato sulla base di avvenimenti storici precisi; Pausania riporta che l’edificio fu costruito con il bottino della vittoria degli Elei su Pisa nel 472 ac e che sul frontone del tempio, come acroterio centrale, c’era una nike dorata sotto la quale era appeso uno scudo d’oro dedicato dagli Spartani e dai loro alleati in seguito alla battaglia di Tanagra contro gli Ateniesi che fu combattuta nel 457 ac. Lo scudo venne collocato quando il tempio era già finito quindi il tempio fu costruito tra 472 e 457 ac. Del tempio di Zeus si possono vedre a Olimpia solo le rovine dal momento che l’edificio fu abbattuto da un terremoto in età bizantina nel VI secolo DC; rimangono in piedi solo pochi filari di blocchi appartenenti alla cella, mentre le colonne sono conservate in posizione di crollo. Resta tutto il ciclo figurativo considerato uno dei capisaldi dello stile severo. Il tempio è molto simile al tempio di Poseidonia del 460 ac; questo tempio è di dimensioni inferiori e con variazioni tipiche dell’architettura dorica d’occidente. Si tratta del Tempio di Nettuno in realtà dedicato ad Apollo o Zeus che per le sue proporzioni pesanti e severe si avvicina alle tendenze stilistiche peloponnesiache; autonomia nella scelta di una peristasi di 6x14 colonne che si discosta dal canone greco, ma diverrà misura canonica per i templi della MG (dove è situato il tempio). Come nel tempio di Olimpia, la cella è inserita in modo perfettamente simmetrico alla peristasi, completata dal pronao con due colonne tra le ante, al quale corrisponde l’opistodomo; alla cella si accede tramite una grande porta posta tra due muri, che celano le scale per accedere al soffitto per le operazioni di manutenzione. L’interno della cella è diviso in tre navate da due file di sette colonne doriche ciascuna disposte su due ordini; è un caso unico in occidente, dove di norma la cella è libera da sostegni interni. Nell’alzato si notano il restringimento degli interassi angolar e lungo tutti i lati, leggerissimi spostamenti delle colonne rispetto al fregio, che come i frontoni, non comportava alcuna decorazione scultorea. Aderisce al nuovo canone anche il tempio di Era a Selinunte che però mantiene una pianta molto allungata, forse legata alla necessità religiosa di mantenere l’adyton (piccola sala che comunica col fondo della cella) insieme all’adozione dell’opistodomo che regolarizza la pianta della cella, la peristasi risulta di 6x15 colonne, molto fitte e slanciate, compensate da una trabeazione particolarmente alta. La cella è completamente libera di colonnati interni. Il tempio era decorato, sul pronao e sull’opistodomo, (all’interno della peristasi come nel t. di Olimpia) da metope scolpite con episodi del mito che per la loro eleganza sono tra i più notevoli esempi dello stile severo. I templi dello stile severo delle colonie di occidente, meglio conservati di quelli della madrepatria, permettono di cogliere le nuove norme dell’ordine dorico che si manifestano nella perfetta simmetria della cella, con l’opistodomo che corrisponde al pronao; nella cadenza regolare delle colonne della peristasi che presentano un capitello più rigido per il taglio obliquo dell’echino; nella messa a punto del conflitto angolare che l’architettura arcaica aveva già tentato di risolvere. Il problema del fregio dorico, composto dall’alternanza ritmica di metope e triglifi è dato dalla necessità di concludere il fregio con un triglifo che viene così a cadere nell’angolo del tempio. In età arcaica il problema era stato risolto allargando la metopa angolare ma rompendo così il ritmo geometrico del fregio. (in età classica?). Questi accorgimenti sono messi in opera anche nel Tempio della concordia di Agrigento, costruito nel 440 ac; nella peristasi, per rispondere alle contrazioni angolari imposte dal fregio dorico, le campate della facciata e, sui lati lunghi, delle colonne angolari, sono progressivamente ridotte da una decina di cm; correzione che quasi non si coglie a occhio nudo. Il tempio, che deve l’ottimo stato di conservazione al fatto di essere stato trasformato in chiesa, ha pianta canonica con peristasi di 6x13 colonne, cella con pronao e opistodomo e , presso l’ingresso, i piloni con le scale di accesso al tetto. L’architettura sacra della prima metà del V secolo tende a costruire con caratteri più uniformi e razionali basati sulla rigorosa applicazione di criteri di proporzione aritmetica; al centro della ricerca architettonica c’è la simmetrica, il rapporto tra le parti, tutto fondato su un modulo che si trova nell’edificio. Questo rigore matematico risulta congeniale all’ordine dorico che si distingue per la geometria degli elementi compositivi. L’uniformità che si riscontra negli edifici templari, a partire da questa epoca, è il frutto della ricerca di un rapporto sempre più armonico tra le membrature architettoniche e il volume complessivo del tempio. Il santuario di Olimpia: situato nella regione nord-occidentale del Peloponneso, parte meridionale dell’Elide. I greci chiamavano il santuario Altis, che secondo Pausania dovrebbe derivare da alsos cioè bosco sacro. È un santuario panellenico, punto di aggregazione di tutti i greci. La località era collegata a due antiche leggende, la saga di Pelope e l’istituzione dei giochi olimpici da parte di Eracle. Mito: Enomao, re di Pisa, era stato avvertito da un oracolo che il genero sarebbe stato la causa della sua morte; il re aveva promesso in sposa la figlia (Ippodamia) solo a chi lo avesse vinto nella corsa della quadriga. Il pretendente aveva diritto a partire per primo e mentre Enomao saliva sul carro, dopo aver sacrificato a Zeus Areios; se il re riusciva a raggiungere il giovane, cosa che sempre avveniva, poteva ucciderlo. L’unico che riesce a sconfiggere il re è Pelope, figlio di Tantalo, con i cavalli alati regalatigli da Posidone o secondo altri per aver corrotto l’auriga del re. Sconfitto Enomao su uccide e Pelope ne sposa la figlia e diventa re di Pisa. Sempre secondo la tradizione i giochi in onore si Pelope, le future olimpiadi, sono state istituite da Eracle che portò con sé dal paese degli Iperborei, l’olivo sacro a Zeus, con il quale si incoronavano i vincitori. La tomba di Pelope, Pelopion, al centro dell’Atlis, era il punto di partenza delle gare prima della costruzione dello stadio. Le olimpiadi però iniziarono nel 776 ac con un trattato tra Ifito (re Elide) e Lucurgo (re Sparta) che introdussero per tutta la durata dei giochi, che si svolgevano ogni 4 anni, la tregua sacra. Come avviene in genere per i santuari greci, anche questo santuario ha una monumentalizzazione graduale che culmina nei secoli V e IV ac per poi riprendere in età romana. La fase più antica (X-VIII secolo ac) è testimoniata dalle offerte di ceramiche, di tripodi e di statuette di terracotta e di bronzo; il fulcro del santuario era il culto eroico di Pelope celebrato nel Pelopion, presso il quale era ancora visibile, all’epoca di Pausania, una colonna di legno dell’antica casa del re Enomao. Il culto di Zeus era celebrato all’aperto su rughe profonde, fronte aggrottata, barba e capelli folti. Anche qui il contrasto delle forse in direzione opposta è evidente. Presenta una struttura complessa anche il terzo gruppo, formato da un centauro che caduto sulle zampe anteriori, inarca la groppa mentre afferra vita e caviglia di una lapitessa; questa cerca di liberarsi con entrambe le mani mentre il vestito scivola scoprendole un seno; contemporaneamente irrompe dalla parte opposta un lapita che con il braccio sx doveva cercare di afferrare la testa del centauro e con il dx gli conficca il pugnale nel petto. La posizione dinamica del lapita esalta la muscolatura del torace contratta nello sforzo mentre il mantello scivola ai suoi piedi in una fitta serie di pieghe. Le statue angolari, un giovane e una vecchia lapitessa, sono rivolte verso il centro della scena (come nel frontone est Alfeo e Cladeo). In questo modo, perfezionando questo schema, tutti i personaggi partecipano alla narrazione: il movimento, imposto dalle figure, in diagonale di Teseo e di Piritoo si propaga dal centro verso gli angoli e da questi rimbalza verso il centro, ancora occupato da una figura assiale cioè Apollo. Un programma figurativo così complesso presuppone una committenza di alta cultura che va cercata nell’aristocrazia e nelle grandi famiglie sacerdotali di Olimpia che si servono del mito per trasmettere i valori tradizionali della civiltà greca. Il frontone mette in scena la punizione di chi non rispetta le leggi del vivere comune(es. Antigone); parimenti il frontone est, con la contesa tra Pelope e Enomao, sottolinea come non si fossa sfuggire dal proprio destino. Solo metope con Eracle che lotta contro i mostri e barbari mostrano una possibilità di redenzione attraverso le grandi prove imposte dagli dei. La presenza di Atena a fianco dell’eroe e quella di Teseo è un omaggio ad Atene, vincitrice dei persiani. Si è molto discusso della paternità delle sculture che probabilmente sono opera di un unico ideatore al quale è stato attribuito il nome di Maestro di Olimpia. Di recente alcuni studi hanno proposto di vedere varie identificazioni con nomi tramandatici dalle fonti letterarie cine Agheladas di Argo, ma sono solo ipotesi. Anche Pausania, descrivendo i frontoni, attribuisce due mani (frontone est Paionos di Mende e quello ovest Alcamene, entrambi scultori della cerchia fidiaca) ma questa ipotesi è rigettata dalla critica moderna. Il Maestro di Olimpia, doveva essere un personaggio molto noto ai suoi tempi per aver ricevuto una commissione così importante. Scultura severa: lo stile severo porta a compimento, i problemi legati al movimento del corpo nello spazio che quelli legati alla rappresentazione di figure stanti. Nell’Efebo di Kritios, poco anteriore al 480 ac, il caricamento del peso sulla gamba sx e l’alleggerimento della dx, con il conseguente movimento dei fianchi, suggerivano l’idea di una figura animata. L’abbandono della posizione rigidamente assiale, con il peso del corpo ripartito ugualmente sulle gambe, introduce un ritmo nuovo che sembra che si adegua completamente alle leggi di gravità e coinvolge tutte le membra. Anche la figura stante è percorsa da una armonia che porta a superfici ampie e luminose, morbidi passaggi di piano, modellato più plastico e sfumato. Questo nuovo equilibrio delle membra e dei volumi del corpo, detto “ponderazione” emerge in tutte le opere dello stile severe. La perdita quasi totale della statuaria di bronzo, che era il genere preferito dai grandi maestri “severi”, soggetta a fenomeni di corrosione e deterioramento più del marmo, o a essere rifusa e riutilizzata nel corso dei secoli, ci obbliga a studiare un ridotto numero di originali e sulle molte copie di età romana. Se la trattatistica antica ci ha lasciato molte informazioni su scultori e pittori dello stile severo, per molti autori però ci restano solo dei nomi e spesso molte opere sono anonime. Tra gli originali, un bronzetto di atleta rinvenuto ad Adrano, in Sicilia, mostra nella costruzione della figura, tutte le possibilità del nuovo ritmo severo: la gamba dx sostiene il peso del corpo che si contrae lungo lo stesso lato, inclinandosi leggermente per assecondare l’ampia apertura del braccio che offriva una patera (perduta); anche la testa abbassata per seguire con lo sguardo il gesto, si volge verso dx; la pettinatura liscia a calotta, sottolinea la rottura con il passato. Il piede sx, spostato di poco lateralmente, mentre il braccio sx è scostato dal corpo; la mano doveva reggere la palma della vittoria o un’oinochoe. Nonostante le modeste dimensioni della statua, la muscolatura è ben articolata e coordinata ai movimenti degli arti, la ponderazione riesce a imporre un movimento armonico alla figura anche se questa è stante è tutta assorta nel gesto dell’offerta. Questa piccola opera di grande effetto, datata tra 470 e 460 ac potrebbe essere un eco della scuola di Pitagora di Reggio, autore di statue di atleti nel santuario di Olimpia. Tra le copie originali in bronzo, l’Apollo del Kassel (località dove si trova la copia più completa) mostra anche nelle spalle un movimento curvilineo che asseconda quello de bacino. Il dio insiste sulla gamba sx mentre la dx è flessa, il piede di poco spostato lateralmente in avanti; il bacino è contratto in corrispondenza della gamba portante, mentre tutto il lato dx è più sciolto, con la spalla leggermente sollevata e il braccio scostato; la testa si volge verso la mano sx protesa a reggere l’arco. La statua è identificata con Apollo Parnopios di Fidia (sterminatore di cavallette), dedicato dagli ateniesi sull’acropoli di Atene come dio protettore dei flagelli naturali e descritto da Pausania. Risale alla stessa epoca, 460-450 ac, uno dei due grandi bronzi rinvenuti in mare al largo di Capo Riace (Calabria), nel 1972. Rappresenta un personaggio maturo, barbato, dai capelli sciolti in riccioli trattenuti da una benda, la bocca socchiusa a mostrare i denti inseriti in argento. La ponderazione è prossima dell’Apollo Kassel: la gamba dx portante, la sx libera e flessa con il piede avanzato e girato, il tallone posato al suolo; le spalle orizzontali, la testa girata verso dx; il braccio sx piegato a impugnare lo scudo (mancante); la mano dx abbassata a portare una lancia. Il corpo muscoloso, elastico, rileva un’anatomia estremamente dettagliata, tipica dello stile severo che mette in risalto le fasce muscolari, la struttura ossea e le vene. Questa statua viene confrontata con l’altro bronzo rivenuto a Riace, che presenta una analoga postura ma di diverso ritmo, indicativo di uno scarto cronologico tra le due opere di una 30ina d’anni. In quest’altro esemplare (Riace B, l’altro Riace A) si rappresenta un guerriero con scudo, lancia ed elmo, il lato dx del corpo, corrispondente alla gamba portante è decisamente contratto con il conseguente abbassamento della spalla; il movimento impresso al bacino provoca un ritmo sinuoso che percorre tutto il corpo spostando leggermente la cassa toracica verso sx e curvando la linea verticale che separa i muscoli del torace. Questo nuovo ritmo, che riflette le ricerche di Policleto, fa propendere per una datazione verso il 430 ac. Fin dall’epoca del ritrovamento le due statue di bronzo hanno provocato un dibattito non ancora concluso sull’attribuzione, sull’identità dei personaggi raffigurati e sulla possibile collocazione delle statue che si trovavano probabilmente su una nave che dalla Grecia andava a Roma (forse naufragata?) e forse i due bronzi appartenevano a un dei grandi donari die santuari panellenici dai quali i romani, fino a Nerone, sottraevano le opere d’arte. Le differenze stilistiche hanno dimostrato che le due opere non sono contemporanee e vanno attribuite a due diverse botteghe: Riace A ad Argo e Riace B a Atene. Tali indicazioni hanno portato recentemente ad attribuire la statua A a Agheladas di Argo mentre la statua B a Alcamene, ateniese. I due personaggi sono stati interpretati come eroi eponimi, con possibile collocazione sul monumento degli eroi eponimi sull’agorà di Atene. Le due statue, che risultano eccezionali dovevano essere alla loro epoca abbastanza comuni; sono una preziosa testimonianza della ricerca di organicità e di armonia che caratterizza, in questo periodo, la plastica greca che ha come scopo quello di costruire corpi perfetti, nei quali l’osservazione della natura si unisce al calcolo matematico. Dal pdv tecnico, il getto, in più parti e la perfezione delle giunture, il raffinato trattamento delle superfici, le rifiniture accurate, dimostrano l’alto livello raggiunto dai bronzisti greci nella fusione cava. Altra statua celeberrima di bronzo è l’Auriga di Delfi, giunta a noi perché fu sepolta nel 373 ac da un terremoto; la statua doveva essere sulla terrazza che sovrasta il tempio di Apollo. Questa statua è completa, priva solo del braccio sx. il giovano veste una lunga tunica stretta intorno alla vita da una cintura che nasconde il corpo creando, sul busto, un raffinato gioco di pieghe; il volto imberbe è circondato da ricchi riccioli, da basette incise e ravvivato dagli occhi intarsiati, muniti di ciglia; la capigliatura a corti riccioli è fermata alla fronte da una benda decorata in argento. Con i piedi, solidamente piantati sull’asse del carro per tenersi in equilibrio, l’auriga è raffigurato mentre sta lentamente volgendo verso dx; il movimento è suggerito dalla rotazione del busto e della testa rispetto alla tunica; le varie parti del corpo, colate singolarmente e poi raccordate fra di loro, hanno un leggero scarto, ciascuna nei confronti dell’elemento inferiore, con una rotazione progressiva che crea un movimento a elica. L’auriga è raffigurato mentre compiva il giro d’onore dopo la vittoria, volgendosi verso il pubblico che lo acclamava; il braccio di adolescente indica che in palafreniere manteneva al passo uno dei cavalli. Di fianco al tempio di Apollo a Delfi è stata rinvenuta una quadriga in frammenti (3 gambe cavalli, una coda e un braccio di adolescente+ base firmata Polyzalos, tiranno di Gela (SI)) nel 1896. Polyzalos diventa tiranno di Gela nel 478 ac quindi la statua deve essere stata realizzata tra 478 e 466 ac (anno della caduta dei Dinomenidi). Nel 514 ac viene assassinato Ipparco, figlio di Pisistrato, e pochi anni dopo nel 510 ac con Clistene ha inizio la democrazia ateniese. In questa occasione il governo ateniese decide, per la 1° vv, di onorare pubblicamente nell’agorà i due personaggi (REALI) di Armodio e Aristogene, i due tirannicidi; del monumento realizzato in bronzo, viene incaricato Antenore, uno degli scultori più famosi dell’epoca. Durante la calata di Serse, le statue vengono sottratte dai nemici e trasportate in Persi; sarà AM che le riporterà in patria. Nel 447 ac, il monumento, caro agli ateniesi, viene rimpiazzato da un nuovo gruppo bronzeo affidato alla bottega di Kritios e Nesiotes, due famosi bronzisti; si pensa che le due statue, note attraverso copie di età romana, riproducessero il gruppo più antico, concepito per essere visto da tutti i lati: diversamente dalla maggior parte dei gruppi di età classica che presentano personaggi giustapposti in ordine paratattico; qui i due eroi erano strettamente complementari l’uno all’altro. Il personaggio maturo, Aristogitone, barbato, proteggeva con il braccio dx teso, in parte coperto dal mantello, il giovane Armodio, colto nell’atto di colpire, il braccio sx alzato. È evidente che il gruppo doveva essere isolato in modo che gli si potesse girare attorno. Nonostante l’impeto imposto ai due corpi, elastici, espressione delle nuove tendenze dello stile severo, il movimento resta qui ancora contenuto, forse perché gli scultori devono adeguarsi a un modello più antico. È certo che il progresso tecnico nella colata di statue cave a grandezza naturale abbia portato con sé alla realizzazione di statue in movimento; il bronzo, che non necessita di puntelli, permette di sperimentare ritmi più aperti e articolati. Una delle tipologie più diffuse, in questo periodo, è quella dell’atleta in azione es. oplitodromo di Tübingen (dal luogo di conservazione del bronzetto) che raffigura un corridore in armi; l’atleta è colto nell’attimo che precede lo slancio della corsa, le ginocchia piegate, il busto spinto in avanti, il braccio dx teso a reggere lo scudo (mancante), il sx piegato a bilanciare la lancia. L’apertura dello spazio contraddistingue una altra statua molto famosa: Posidone di Capo Artemision, rinvenuto in mare al largo dell’Eubea. Il dio è colto mentre si prepara a lanciare il tridente, bilanciati dalla mano dx, il braccio sx proteso per prendere la mira; rispetto al più antico Zeus di Ugento, raffigurato nella stessa posizione, Posidone carica il peso sulla gamba sx avanzata, liberando la dx che tocca il suolo solo con la punta del piede; il movimento comporta la tensione del busto che segue la spinta della gamba portante con una leggera curvatura verso sx della linea alba. La statua, databile intorno al 460 ac, è concepita per poter essere vista da tutti i lati; doveva quindi essere un’offerta collocata a cielo aperto (non di culto). Gli studi sul movimento sono anche legati alla figura di Mirone, nato a Eleutere (Beozia), attivo ad Atene negli anni centrali del V secolo, prima della grande stagione dell’acropoli. I termini cronologici sono dati dalle firme sulle basi di statue di atleti vincitori a Olimpia del 456 ac e nel 48 ac. Delle sue opere, famose nell’antichità, nessun originale è giunto fino a noi. Una delle migliori repliche del Discobolo è la copia Lancellotti (famiglia che la acquistò) rinvenuta a Roma nell’area degli horti Lamiani, una delle ville urbane della famiglia imperiale. La copia in marmo risale al II sec. Dc; si notino il puntello a forma di tronco e quello ce collega la mano sx al polpaccio dx, estranei all’originale ma introdotti dal copista per esigenze statiche. Il Discobolo fu eseguito da Mirone in bronzo poco prima della prima metà del V secolo ac: la resa asciutta e accurata della muscolatura, la puntuale notazione delle vene, il volto ovale dai capelli a calotta finemente cesellati a piccole ciocche, rientrano nella tradizione dello stile severo, così il volto inteso e idealizzato, che non rivela lo sforzo fisico cui il giovane è sottoposto. L’atleta è raffigurato nell’atto di caricare il lancio con il disco saldamente impugnato nella mano dx; il corpo in appoggio sulla gamba dx è raccolto in se stesso e sta compiendo una semirotazione prima di scattare: il braccio dx è sollevato e proteso all’indietro, il sx abbassato; il torso piegato in ananti, i muscoli contratti e tesi, sta ruotando verso la sua dx per seguire l’ampio gesto del braccio,, la testa segue il movimento del corpo. Lo scultore è interessato a cogliere l’attimo sospeso e lo fa attraverso una costruzione rigorosamente geometrica; il Discobolo è una statua che non vuole rappresentare la realtà ma vuole fermare un momento. L’opera è ideata per una visione laterale, come se il corpo fosse disposto su un unico piano; solo in questo modo (falsando un po' la prospettiva reale) le parti risultano perfettamente visibili. Nel gruppo di Atena e Marsia, l’equilibrio geometrico lascia posto alla ricerca del contrasto. L’episodio è: dopo aver inventato il flauto Atena lo getta irritata dopo aver visto come risultavano gonfie le sue guance mentre le suonava; il sileno Marsia si precipita a raccoglierlo per imparare a suonarlo ma la dea gelosa lo ferma. Il gruppo, in bronzo, che fu visto da Pausania sull’acropoli di Atene, è stato ricomposto con l’Atena di Francoforte e il Marsia di Laterano sulla base delle descrizioni delle fonti letterarie, rilievi e rappresentazioni vascolari. Entrambi i personaggi sno colti in un attimo di passaggio: al centro della composizione è il flauto, su di esso si concentrano gli sguardi di entrambi, mentre i loro corpi divergono dall’oggetto della contesa; Atena si ritrae lentamente girandosi verso la propria dx, il capo ancora abbassato e rivolto verso sx, mentre Marsia resta bloccato in una posa sbilanciata e sgraziata, puntando il piede dx in avanti, il corpo gettato all’indietro, il braccio dx sollevato in un gesto di stupore. La contrapposizione è affidata anche al contrasto tra il morbido panneggio di Atena e il corpo nudo del sileno, tra la bellezza della dea e il vigore selvaggio di Marsia. Le variazioni del peplo: La figura femminile dello stile severo è la PEPLOPHOROS cioè la “portatrice di peplo”, abbandonati il chitone e la mantellina dell’epoca arcaica, la donna indossa ora un’ampia tunica stretta alla vita da una cintura, fermata da borchie sulle spalle, con un risvolto che cade sul dorso e sul petto. Indossa il peplo anche l’Atena dedicata da Anghelitos sull’acropoli di Atene: nascosto dal pesante panneggio, il ritmo del corpo, riflette la ponderazione tipica dello stile severo: la dea insiste sulla gamba sx, portante, sulla quale la stoffa cade con rigide pieghe verticali, mentre la gamba dx, libera e flessa, solleva il panneggio rivelando il volume del ginocchio; il braccio dx, alzato, impugnava la lancia mentre il sx, corrispondente al lato contratto, era abbassato con la mano sul fianco. L’ottimo stato di conservazione della piccola statua ci ha fatto pensare che sia stata esposta sull’acropoli per poco tempo e che fosse sull’acropoli durante il saccheggio persiano e quindi datata intorno al 480 ac. Al peplo cinto che gioca contrasto tra l’ampio rimbocco alla vita e la ricaduta verticale dell’ampia gonna, si alterna il peplo aperto, privo di cintura che presenta un panneggio più libero e meno soggetto alla forza di gravità. Peplophoros L’interesse della ponderazione e di una resa più naturalistica del corpo umano di riflette anche nella pittura vascolare che cerca i mezzi per adeguarsi al nuovo linguaggio figurativo: es. occhio che si apre verso l’interno spostando in avanti la pupilla; i panneggi alternano le pieghe arcaiche a coda di rondine alla caduta verticale dello stile severo; i volti perdono la angolosità arcaiche in favore di un mento più tondo e pronunciato; un naso più largo e la bocca più piccola e carnosa. Una grande parte della produzione del Ceramico di Atene è in questo periodo dedicata alle coppe, nella loro qualità di vasi da simposio e di offerte votive. I pittori di coppe devono affrontare le difficoltà legate all’inserimento di una o più figure nello spazio circolare del tondo interno e alla decorazione della superficie esterna, fortemente convessa, rastremata e interrotta dalle anse. Coppa di Onesimos da Chiusi: la giovane etera è posta al centro del tondo, davanti al grande catino per lavare i piedi; la grossa situla che la fanciulla regge con la mano dx è controbilanciata dal fagotto di abiti nella sx; si nota anche qui la ricerca di visualizzare una posa instabile e di un maggiore naturalismo nella resa anatomica. Uno dei pittori più prolifici del primo stile severo è il Pittore di Brygos, attivo tra 480 e 470 ac, che prende il nome dal vasaio che firma le coppe attribuite alla sua mano; lo stile deriva da Onesimos e si caratterizza per una notevole vivacità espressiva; il pittore ama il movimento e l’animazione. Nello skyphos con comasti del Louvre, da Nola, le due cppie procedono a ritmo cadenzato come in una danza, i corpi inclinati all’indietro, i vasi accostati, con netto contrasto tra i corpi nudi maschili, appena coperti dai mantelli e le ricche vesti femminili; gli ampi panneggi, che ricadono in fitte pieghe pastosa, fanno da sfondo sottolineando anche l’unità della scena. Nella sua opera si può manifestare la violenza del periodo delle guerra persiane. Nell’Ilioupersis dipinta sull’esterno di una coppa del Louvre da Vulci, il gruppo concitato formato da Priamo e da Neottolemo, giocato sull’incrocio di linee oblique, è in netto contrasto con la coppia di Menelao ed Elena, che esce silenziosamente di scena: il vecchio re è raffigurato mentre cerca rifugio sull’altare mentre Neottolemo, con la spada sguainata, ostenta e agita il copro senza vita del piccolo Astianatte: la drammaticità della scena è enfatizzata dal grande scudo rotondo e dall’enorme tripode, oggetto dalla forte valenza rituale. Rimangono nei panneggi alcuni virtuosismi tardoarcaici che non contrastano con l’eleganza del disegni e la cura riservata ai particolari. Nella coppa del British Museum da Vulci, con la contesa delle armi di Achille, si nota ancora la ricerca di movimento e di schemi incrociati che caratterizza in questo periodo il rilievo e la composizione frontonale: al personaggio centrale, che fa da baricentro all’intera scena nel vano tentativo di porre fine alla contesa, si sovrappone lo schema a V, divergente dei due giovani che cercano di frenare l’animosità dei due contendenti (Odisseo e Aiace) a essi contrapposti e disposti in diagonale verso il centro della scena, tallonati da due personaggi che cercano di tirarli verso l’esterno; è un moto ondulatorio (presente nel frontone di Egina che sfocerà nel ritmo incalzante del frontone occidentale di Olimpia). Da notare da parte del Pittore di Bygos, l’uso sapiente dei panneggi a pieghe larghe e corpose, disseminate di puntini neri, per sottolineare l’intreccio dei corpi e dei nudi maschili, l’indicazione realistica, in vernice diluita, dei peli sul petto e sull’addome. Un altro tema caro ai pittori del primo stile severo resta il simposio, che permette di giocare sulle analogie tra raffigurazione e la funzione effettiva del vaso. Nella grande coppa dei Musei Vaticani sono esaltate le gioie della riunione conviviale: il bere, la musica, la declamazione, la compagnia femminile. Il pittore è Douris, autore di moltissimi vasi, attivo tra 500 e 460 ac. La coppa, che si caratterizza per la monumentalità plastica dei personaggi, è ascrivibile al suo primo periodo. La scena offre lo spunto per la sperimentazione attraverso la gestualità dei convitati, una serie di posizioni in movimento e di vedute di scorcio. La stessa vitalità caratterizza lo Psykter del British Museum, da Certeveri, con giochi tra satiri; i compagni di Dioniso si esibiscono in uno scatenato girotondo sapientemente costruito sulla superficie convessa del recipiente, che aveva la funzione di conservare fresco il vino. Tema del gioco è l’uso del vino; mentre un kantharos, vaso sacro a Dioniso, passa di mano in mano, i satiri provano a modo loro diversi modi per del bere, dal virtuosismo del satiro che porta un vaso in equilibrio sul fallo eretto, mentre un compagno gli versa da bere, al satiro che beve a testa in giù senza toccare la coppa, alla danza intorno alla coppa, alla bevuta dal grande otre rigonfio. Quello che interessa al pittore è lo studio del movimento instabile del gesto, della postura. Nel secondo quarto del V secolo ac i pittori ateniesi si possono dividere in due grandi gruppi: i Manieristi, che continuano sotto l’aspetto formale, lo stile tardoarcaico e i Pittori Protoclassici che seguono la pittura parietale. Tra i manieristi segnaliamo l’Hydra del Pittore di Leningrado, con una insolita scena do agone artigianale: tre pittori, il maestro, al centro, e due assistenti, sono intenti a decorare vasi di grandi dimensioni al cospetto di Atena e di due Nikai che li incoronano; all’estremità della scena una donna, issata sul podio e seduta su un cuscino dipinge un grande cratere a valute; la donna è esclusa dagli onori della gara ma riveste un ruolo attivo all’interno della bottega che qui viene celebrata; non è premiata perché ad Atene non esistevano gare miste ma è evidente la sua partecipazione attiva alla conduzione e al successo dell’officina; i vasi appesi alla parete sopra la sua testa sottolinea, come gli attrezzi appesi sullo sfondo nella coppa della Fonderia, che la scena si svolge all’interno di un ambiente chiuso che non è quello della bottega. Una donna pittrice che alla luce degli studi più recenti non sembra essere un fatto anomalo e isolato; un certo numero di donne pittrici viene ricordato da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia. Dal pdv sitilistico, il manierismo del pittore emerge nella predilezione di figure sottili, con teste piccole; nel decorativismo dei panneggi, fatti di pieghe disposte ad artem e spesso prive di reale consistenza; nella durezza del tratto disegnativo; nel largo impiego della linea a rilievo. I profili dei volti, che sono d’impostazione pienamente severa, conducono verso una fase piuttosto avanzata del secondo quarto del V sec. E consentono una datazione nel 470-60 ac. Rientra nel gruppo dei manieristi anche il Pittore di Pan che interpreta con vigore i modelli dello stile arcaico; le sue figure sono snelle e allungate; i panneggi decorativi; le teste piccole e rotonde con mento pieno, naso corto, occhi sgranati. Sul cratere a campana di Boston da Cuma, Artemide si allontana da Atteone, minacciandolo con l’arco, mentre il giovane agonizza dilaniato dai cani; si notano l’accurata composizione e lo schema divergente sottolineato dall’ampio gesto di Atteone. Si inserisce pienamente nello stile severo il Pittore di Borea per le sue figure statuarie, intense e drammatiche. Il pittore crea panneggi di pieghe fitte e sottili, leggermente sinuose, che seguono i movimenti dei corpi; le figure sono alte e sottili; i gesti calibrati; le mani e le braccia riempiono spesso gli spazi liberi. Il disegno dell’occhio ha raggiunto le sua profondità naturale e sono indicate le palpebre; i capelli delle figure maschili, a massa compatta, scendono in corti riccioli intorno al viso; le barbe sono corte e triangolari. Il cratere a volute di Spina raffigura la scena di inseguimento tra Teseo e Arianna con figure grandi, statuarie, slanciate che occupano tutto il corpo del vaso. La grande pittura: è ampiamente riconosciuto l’apporto della pittura nello sviluppo di tutte le arti figurative. La pittura era del resto, per i greci, il genere artistico preferito tanto da essere definita come poesia muta dal poeta Simonide che è presente nel periodo che porta alla nascita della pittura monumentale, pienamente autonoma e non più come complemento della decorazione architettonica. Nella perdita quasi totale della pittura di questo periodo, le fonti letterarie costituiscono per noi la principale documentazione. La pittura murale di grandi dimensioni all’indomani delle guerre persiane ebbe una grande diffusione e è stata anche soppiantata nel corso del secolo dalla pittura su pannelli lignei fissati ai muri tramite grappe metalliche e protetti da telo o sportelli quadri. Gli iniziatori della grande pittura sono indicati in Polignoto di Taso, che secondo PV fu il primo a rendere la differenza dei caratteri e degli stati d’animo. Pausania descrive le pitture della Lesche degli Cnidi a Delfi, che raffiguravano la discese di Odisseo agli inferi e la caduta di Troia e i quadri della “Stoà Poikile”(multicolore) di Atene, ricorda che, il pittore, preferiva rappresentare il momento che precedeva o seguiva gli episodi più drammatici degli eventi raffigurati. Sappiamo anche che nelle sue pitture i personaggi erano disposti in ordine sparso o a gruppi su più livelli; la ricerca della terza dimensione portava il pittore a nascondere, parzialmente, alcune figure dietro la linea irregolare del terreno. Ne abbiamo una eco nel cratere eponimo del Pittore dei Niobidi, dipinto nel 460-450 ca; sul lato principale si riconoscono Apollo e Artemide nell’atto di saettare i figli di Niobe che si era vanta di avere una prole più numerosa di quella di Latone (madre A e A); si nota la linea ondulata e irregolare del terreo, in bianco sovraddipinto, la disposizione su più piani e l’espediente di nascondere o adagiare i caduti dietro le balze del paesaggio accidentato e montano. Sul lato opposto, che doveva essere il principale, compaiono, in posizione di apparente riposo, varie figure di eroi pervase di mestizia, con lo sguardo abbassato o perso nel vuoto. Al centro sta la possente figura di Eracle, armato di arco, con clava e leontè; alla sua sx è Atena. Si tratta della rappresentazione della discesa di Eracle agli inferi, che forse si rifaceva alla discesa degli inferi da parte di Odisseo, la quale sappiamo essere stata dipinta da Polignoto a Delfi nella Lesche degli Cnidii. I due guerrieri seduti sarebbero in questo caso Piritoo e Teseo che Eracle riporterà tra i vivi. I personaggi hanno una dimensione statuaria e sono disposti su un pendio roccioso, indicato da linee serpeggianti, anche se le figure in secondo piano non sono ridotte secondo i canoni della visione prospettica. La maestosità, la pacata serietà degli eroi, ciascuno isolato nel proprio mondo interiore, richiamano l’intensa espressione dei volti polignotei, come ricordato dalle fonti che insistono sulla capacità del pittore di rendere con immagini lo stato d’animo dei suoi personaggi. Più mosse e agitate dovevano essere le scene dipinte da Micone; pittore che lavora con Polignoto nella Stoà Poilike e nell’Ephaisteion di Atene; è ricordato dagli antichi per e scene di battaglia intense di scorci e di movimento; sono un riflesso delle sue Amazzomnomachie quelle dipinte sui vasi attici dello stile severo. E un cratere del Pittore dei Niobidi, che attinge al repertorio della grande pittura e predilige i vasi con un esteso campo figurativo, a mostrarci con grandiosità il tema della battaglia tra greci e amazzoni; la superficie convessa del vaso, affollata di figure in diversi atteggiamenti rese con grande abilità tecnica, riesce a trasmetterci lo spirito della pittura miconiana. Se la grande pittura dello stile severo è irrimediabilmente perduta, come quella dei maestri del classicismo, è anche vero che alcuni originali ci sono giunti dalle poleis dell’Italia meridionale. Sono opere di modesto artigianato che riflettono l’esistenza di una tradizione pittorica ben radicata. Risale a 480-70 ac la decorazione della tomba del Tuffatore di Posidonia, una sepoltura a cassa di lastre di calcare locale, rinvenuta isolata nella località di Tempa del Prete; la datazione si basa sugli elementi del corredo, una lekythos attica, due unguentari di alabastro e una lira. La tomba prende nome dalla scena raffigurata sulla faccia interna del coperchio, che rappresenta il tuffo simbolico dal mondo della vita a quello dell’oltretomba; lungo i lati corrono invece le immagini del simposio, il momento nel quale, terminato di mangiare, ci si dedica alla musica, canto e poesia d’amore: anche attraverso l’estasi provata dalla musica e dall’eros l’uomo può arrivare a più profonde dorme di conoscenza e passare a una vita nuova, diversa; è ancora presente il simbolismo legato al trapasso. Lo stile e la composizione delle scene sono prettamente greche ma è anellenico l’uso di affrescare la tomba, tipico del mondo etrusco e della periferia del mondo greco. Il carattere “ibrido” della sepoltura è legato al particolare ruolo di Poseidonia, città di confine tra mondo greco ed etrusco. Nonostante l’esecuzione corrente, priva di grandi qualità artistiche, per l’attenzione della resa anatomica, tipica dello stile severo, per la vivacità dei gesti e degli atteggiamenti, per la complessità del programma decorativo, queste pitture fanno rimpiangere la perdita dei cicli figurativi che decoravano templi e monumenti. Una scuola di pittori doveva essere attiva anche a Gela, SI, come suggerisce la serie di antefisse figurate dipinte tra il tardo VI e gli inizi del V secolo ac. È stata datata 490-480 ac, per il confronto con la pittura vascolare attica, l’antefissa rinvenuta sull’acropoli (a Gela) con un singolare accoppiamento tra sileno e ninfa. Il pittore della piccola lastra, personalissimo nella definizione della scena e dei personaggi, aderisce alle nuove istanze del linguaggio figurativo per l’abbondanza di notazioni anatomiche in colore variamenti diluito, per le pose instabili, per la tensione plastica dei corpi, nella figura del sileno (arretramenti busto, slancio gamba sx e tensione braccio corrispondente) audace anche se poco felice nella resa grafica. ETA’ CLASSICA: Il V secolo ac: dopo la metà del V secolo ac Atene ha ancora l’egemonia militare e culturale sulla Grecia e all’interno della città Pericle domina la scena politica. Dopo l’ostracismo di Cimone, accusato di essere filospartano e l’assassioni del democratico Efialte, Pericle (pronipote Clistene della famiglia degli Alcmeonidi) rimane la personalità più in vista; dal 443 ac ricopre fino alla morte il ruolo di stratega. Il “secolo” di Pericle, espressione che sottolinea il carattere fortemente accentratore di questo momento della civiltà greca, dura una 15ina di anni, dalla pace con la Persia (Pace di Callia 449 ac) all’inizio della Guerra del Peloponneso. Pericle muore nel 429 ac, all’inizio di questa guerra, vittima dell’epidemia di peste che sconvolge la città. Una statua postuma, opera di Cresila viene votata con ogni probabilità poco dopo la sua morte ed eretta, in bronzo, sull’acropoli; ne possediamo alcune copie di età romana, relative solo alla testa, che reca l’elmo corinzio sollevato sulla fronte per lasciare il viso scoperto; secondo la mentalità greca l’originale doveva essere una statua intera a grandezza naturale: lo statista era raffigurato in nudità eroica, con le insegne dello stratega, l’elmo, lo scudo, la lancia; possiamo averne una idea nel Riace B (più o meno contemporaneo). Non si trattava di una statua ritratto, inconcepibile all’epoca (è romana), ma di una immagine ideale, esemplare che doveva essere democratica ed egualitaria; i valori etici prendono ancora il sopravvento sulla caratterizzazione individuale. Alla metà del V secolo Atene è la città più ricca e potente di tutta la Grecia; l’espansionismo ateniese porta all’apertura della via del Mar Nero con la costruzione di insediamenti strategici. È di questi anni una intensa politica di opere pubbliche, tesa a rafforzare le difese della città e ad abbellirla di monumenti degni della sua fama, ma anche di assicurare un lavoro e una paga a un gran numero di artigiani: nel 447 ac sfruttando il tesoro della Lega (trasferito a Atene nel 454ac) Pericle dà il via ai lavori di ristrutturazione dell’acropoli. La grandezza ateniese sfocia anche nella politica estera imperialistica e aggressiva, soprattutto negli alleati costretti a pagare tributi ad Atene perché li proteggesse militarmente. L’imperialismo ateniese è alla base della guerra del Peloponneso che segna l’ultimo trentennio del V secolo, dal 431 ac al 404 ac; è detta guerra del Peloponneso perché vede contrapporsi Atene e i suoi alleati (Lega delio-attica) contro Sparta e i suo (Lega del Peloponneso). La guerra vede in momento di stasi nel 421 ac con la pace di Nicia, capo del partito oligarchico ateniese, per degenerare poi dopo la sfortunata spedizione ateniese in Sicilia nel 415-14 ac. Fidando eccessivamente sulle proprie forze e sottovalutando l’importanza acquisita dalle città siceliote, Atene parte alla volta dell’isola contro Siracusa e Selinunte ma la flotta ateniese verrà distrutta e l’esercito messo in fuga. Gli ultimi anni del secolo vedono il lento declino di Atene, al comando della quale ritorna per breve tempo un comando oligarchico con il consiglio dei 400 (411 ac) che sarà rovesciato dai democratici l’anno dopo. La guerra continua per mare, lungo le coste dell’Asia minore ma è Sparta, finanziata dall’impero persiano, ad avere la meglio: la battaglia di Egospotami segna la definitiva sconfitta di Atene nel 405 ac. La città sarà costretta a smantellare le Lunghe mura r a rinunciare ai suoi possedimenti extraterritoriali e a fornire contingenti armati agli spartani. Dopo il gigantomachia a est, l’ammazonomachia a ovest, la centauromachia a sud e la conquista di Troia a nord. Sono i miti della grande pittura di Polignoto e Micone, che esaltano la grandezza di Atene che ha saputo opporsi ai persiani, come Teseo alle amazzoni, Eracle e gli dei olimpici ai Giganti ecc. La scelta di questi temi non è un omaggio alla generazione delle Guerre Persiane che tanto si è sacrificata per garantire un futuro a tutti i greci. Dal pdv stilistico, anche se il progetto, dovuto a Fidia, appare coerente e unitario, sono state riconosciute nelle metope mani differenti che denunciano la presenza di scultori di diversa formazione. Metopa 31: un centauro afferra per il collo un lapita, che reagisce puntando il ginocchio tra le zampe anteriori del mostro; entrambi i corpi sono in tensione e in equilibrio instabile. Lo scultore è fortemente legato allo stile severo nelle partizioni dell’addome, molto evidenziate, quasi geometriche e nella scelta di raffigurare il volto del centauro come un mascherone con tratti arcaicizzanti. Metopa 27, del alto sud: un centauro cerca di fuggire verso l’esterno, ma viene trattenuto da un lapita che puntando saldamente al suolo la gamba sx tira verso di sé il mosto con tutte le sue forze. Nonostante la tensione, le membra del lapita sono più plastiche, i passaggi più sfumati; il ritmo aperto e la curvatura del corpo del giovane. Che inarca il torso nella direzione opposta a quella del suo nemico, rendono con grande effetto l’esultanza del vincitore, mentre il panneggio con le sue pieghe larghe e morbide, crea uno sfondo quasi teatrale alla scena. La decorazione del Partenone comprende anche un elemento innovativo dall’interno del rigore geometrico e modulare dell’ordine dorico, il fregio a bassorilievo, tipico dell’ordine ionico, che correva lungo la sommità del muro della cella, passando anche sulle colonne del pronao e dell’opistodomo al posto del consueto fregio dorico, era visibile tra le colonne della peristasi. Si è molto discusso sull’esegesi del fregio che rappresenta la processione in occasione delle Panatenee, con l’offerta del peplo alla dea alla presenza dei 12 dei e degli eroi eponimi della città. La processione iniziava nell’angolo sud-ovest dell’edificio dove si divideva in due cortei di cavalieri, carri e personaggi a piedi; entrambi convergevano sul lato est, in corrispondenza della porta della cella, dove avveniva la consegna del peplo. Scontato il riferimento con la ritualità religiosa ma inteso è stato il dibattito sulla possibilità di ancorare la processione ad un avvenimento storico preciso o di leggerla esclusivamente in prospettiva mitica. In ogni caso si tratta di un avvenimento corale, legato al culto della patria e fortemente permeato di religiosità, che coinvolge tutte le componenti della società ateniese; tutti potevano identificarsi nei personaggi del fregio e riconoscere i vari momenti della cerimonia; è una umanità varia, moralmente coinvolta e partecipe, che sotto le direttive di Fidia viene trasfigurata secondo una visione idealistica e assimilata alle divinità. La cavalcata degli efebi è l’esaltazione della gioventù ateniese; i portatori di Hydriai, seri nel loro compito, hanno la dignità di cittadini di pieno diritto; i volti sono anonimi, i corpi atletici non avvertono il peso dei recipienti pieni di acqua, lo sforzo non rientra nel programma fidiaco che proietta la processione in una dimensione atemporale. Le fanciulle sono il ritratto ideale delle spose e delle madri ateniesi, con vesti con ricchi panneggi, gesti misurati, capo reclinato con modestia e virtù; i vecchi che le accompagnano con dignità statuaria sembrano godere di un’eterna giovinezza. Gli dei seduti a guardare la cerimonia sono completamente umanizzati, calmi e quasi incuriositi e sono grandi il doppio dei personaggi mortali. Il multiforme corteo della società ateniese scorre sul fondo neutro con un ritmo lento e concitato assieme che il rilievo a bassissimo riesce ad armonizzare; la solennità delle immagini doveva essere in tempo smorzata dall’uso del colore. Senza i colori noi riusciamo meglio a cogliere la delicatezza del modellato dell’arte fidiaca. Metope e fregio sono stato sicuramente ultimati prima del 438 ac, anno in cui viene collocata la statua crisoelefantina di Atena nella cella. Le sculture dei frontoni, scolpite a terra a tutto tondo, sono state sistemate per ultime a edificio finito, poco prima dell’inizio della guerra. Il frontone est rappresentava la nascita di Atena; il frontone ovest la contesa tra Atena e Posidone per il possesso dell’Attica. Purtroppo a causa dell’iconoclastia cristiana e dell’esplosione del 1687 tutti i gruppi centrali dei frontoni sono stati irrimediabilmente perduti; le numerose proposte di ricostruzione sono state avanzate analizzando puntualmente le sculture superstiti, i frammenti ecc. Nel frontone est, la nascita di Atena, dal cervello di Zeus, avviene alla presenza di Elio, il sole, nell’angolo meridionale del timpano, che si alzava verso il cielo e quella di Selene, la luna, che si inabissava. Nel frontone ovest lo scontro tra le due divinità si colloca al centro della scena ma entrambi i personaggi arretrano, con movimento centrifugo, allontanandosi l’uno dall’altra come colpiti dai prodigi da loro stessi generati; lo schema divergente verrà ripreso, secoli dopo dal fregio dell’altare di Pergamo. Il centro del frontone doveva essere occupato dall’olivo fatto nascere da Atena, grazie al quale la dea vince la contesa con Posidone (sorgente di acqua salata). Allo schema divergente del gruppo di Atena e Posidone corrisponde il movimento dei gruppi laterali con figure he fuggono verso le estremità e altre che convergono verso il centro; Fidia elimina la figura centrale per muoversi liberamente nello spazio dove tutti i personaggi interagiscono tra di loro. Bel frontone est, nell’ala sx, alla quadriga di Elio, segue la figura di Dioniso, che volgendo le spalle alla scena centrale, brinda al sorgere del sole; alle sue spalle Iris (arcobaleno), in rapida corsa verso l’estero, il panneggio svolazzante, porta la lieta novella accolta da Demetra, che si volge verso la messaggera degli dei, mentre Persefone, seduta frontalmente, comincia a girarsi; un senso di inquietudine per quanto sta accadendo domina tutti i protagonisti dell’evento, pronti allo scatto. Nell’ala dx, Estia (dea del focolare, per i romani Vesta), seduta, sta volgendosi verso il centro, mentre Afrodite resta mollemente sdraiata sul grembo della madre Dione, anche se volge il capo verso il centro della scena. Il panneggio sontuoso, ricco di effetti chiaroscurali avvolge i corpi senza nasconderne le forme che risaltano, salde e possenti, sotto le vesti; la stoffa leggerissima dei chitoni(parliamo di fig. femm.) è quasi impalpabile e aderisce ai corpi creando quasi un effetto di “stoffa bagnata” diventerà canonico per tutto l’ultimo trentennio del secolo. Sul frontone ovest Cecrope, re di Atene, arbitro della contesa tra i due dei, ne osserva lo svolgimento in appoggio sulla spira serpentina che fa parte del suo corpo, mentre la figlia Pandroso si appoggia al padre; i corpi sono carichi di tensioni; i panneggi sottolineano i movimenti e la vitalità dei personaggi. Anche i cavalli partecipano di questa inquietudine; la testa del cavallo di Selene che fuoriesce dal piano di posa del frontone è perfetta. Urbanistica e Architettura: L’urbanistica del V secolo è legata alla figura di Ippodamo di Mileto, personaggio che le fonti antiche ricordano come autore dell’impianto del Pireo, come erudita e pensatore politico, impegnato nella definizione di una città ideale. Una lunga serie di studi ha permesso di valutare criticamente la figura di Ippodamo, che deve essere stato uno dei principali teorici dell’urbanistica antica e di attribuirgli la ripartizione funzionale dell’impianto urbano, più che l’invenzione dell’urbanistica ortogonale che appartiene al secolo precedente. Gli scavi archeologici hanno dimostrato che la suddivisione regolare e geometrica dello spazio cittadino, affidata a una serie di assi ortogonali, è una delle caratteristiche delle città coloniali fondate ex novo (libero da precedenti strutture o non ancora organizzato dal pdv urbanistico). La pianta regolare, basata sull’incrocio di larghe strade di scorrimento (plateiai, strade larghe), con una serie di strade minori a esse ortogonali (stenopoi, strade strette) si ritrova a Poseidonia, in Campania: fondata da Sibari alla sx del fiume Sele, al centro di una vasta e fertile pianura, la città fu costruita attorno al 600 ac, come si ricava dai contesti funerari più antichi, su una piattaforma calcarea che si eleva sulla pianura circostante. Già in età arcaica la città si struttura su tre plateiai, in direzione e-o, tagliate da una fitta serie di stenopoi, ad esse perpendicolari, che determinano isolati allungati occupanti da abitazioni. È la pianta per strigas (strisce), ricordata da Vitruvio, che caratterizza altri impianti urbani della metà del VI secolo. All’interno di questa maglia geometrica, a Poseidonia, lo spazio centrale è riservato fino dall’epoca arcaica alla vita civile e religiosa, la vasta agorà con edifici dedicati al culto degli eroi e alle riunioni cittadine, e i santuari urbani con grandi templi peripteri. Se lo schema ortogonale è legato alle nuove fondazioni coloniali, bisogna cercare altrove lo specifico ippodameo. Il collegamento con Thurii e con Pericle, fornisce, a questo proposito preziose informazioni, che sono state valutate alla luce degli scavi nel sito della colonia panellenica per cercare di ricostruire la planimetria della città. Su Thurii abbiamo una descrizione da parte di Diodoro Siculo, storico di età augustea, che dice che la città ha 4 plateiai in un senso è stata divisa nell’altro senso da 3 plateiai e queste erano piene di stenopoi quindi la città appariva ben divisa. Gli scavi hanno permesso di ricostruire un tracciato non per strigas ma a scacchiera, basato sull’incrocio di plateiai distanti tra loro sia in senso n-s che e-o. All’interno di questo schema i nomi delle strade (nel mondo greco sono legati a luoghi pubb. o sacri) consentono di ipotizzare una diversificazione funzionale delle varie aree della città (es. strada Afrodisia e Dionisiade legate ai luoghi di culto delle due divinità). La novità dell’impianto ippodameo starebbe nell’organizzazione più funzionale degli spazi urbani. Agli sessi principi è ispirata la pianta del Pireo, che prevedeva una zona centrale, riservata alle strutture civiche e religiose, che metteva in comunicazione i due porti principali, uno legato alle funzioni commerciali e l’altro a quelle militari. Una serie di cippi terminali con iscrizioni, alcuni dei quali rinvenuti in situ, hanno permesso di ricostruire la prassi ippodamea di delimitare i quartieri e stabilirne le funzioni, prima di procedere alla costruzione degli edifici. Architettura sacra: Una delle caratteristiche del Partenone è unire in un edificio elementi dell’ordine dorico (peristasi e alzato) con quelli dell’ordine ionico (lungo fregio delle Panatenee e le 4 colonne poste la centro della sala occ). Anche Mnesicle, nei propilei, si serve di 6 colonne ioniche, tre per parte, per il passaggio centrale che collegava i due prospetti architettonici dorici; le colonne ioniche, più strette e più alte delle colonne doriche delle due facciate, riescono a colmare con eleganza la monumentale austerità del complesso. Gli scambi tra i due ordini erano già stati introdotti in occidente, a Poseidonia, nell’Athenaion del santuario urbano settentrionale, il tempio di Cerere degli eruditi settecenteschi, costruito alla fine del VI secolo. Il tempio, dorico, periptero, con sei colonne sul lati corti e 13 sui lati lunghi, coniuga tradizione e innovazione: le colonne hanno interassi tutti uguali e la peristasi è disposta in modo regolare sullo stilobate. La cella, libera da sostegni interni, è preceduta da uno spazioso pronao con 4 colonne ioniche sulla fronte e due sui lati e semicolonne addossate alle estremità dei muri che accentua la frontalità tipica dell’architettura occidentale. La scelta dell’ordine ionico testimonia la rapida diffusione si questo stile che avrà esiti di estremo interesse anche in MG e SI. Ma bisognerà aspettare la seconda metà del V secolo perché l’unione tra i due ordini venga ratificata nelle officine ateniesi. Il tempio di Efeso (Theseion per i soggetti delle metope che illustrano episodi della vita di Teseo), costruito sulla collina che sovrasta il lato occidentale dell’agorà di Atene, presenta una pianta prossima a quella del Partenone, anche se di dimensioni più ridotte, con una peristasi (6x13 colonne) doriche in marmo pentelico. La cella ripropone il colonnato interno a pi greco, che offre uno spazio maggiore per la statua di culto, realizzato con colonne doriche disposta su due ordini, come nel Partenone, del quale l’Ephaisteion deriva anche la decorazione scultorea, composta sulla peristasi da metope scolpite e sul pronao e sull’opistodomo da fregi ionici con scene di gigantomachia e centauromachia. Il tempio, iniziato intorno al 449 ac per volere di Cimone, venne portato a termine dopo la costruzione del Partenone, come dimostrano lo stile del fregio che rimanda al 430 ac e i conti per le statue di culto di Atena ed Efesto, descritte da Pausania e opera di ALcamene, che ne datano l’esecuzione tra 421 ac e 415 ac. Anche il tempio di Posidone a Capo Sounion, un periptero dorico, era decorato con un fregio continuo in marmo pario che correva sull’architrave dei 4 lati interni del pronao, sul quale si leggono ancora scene di lotta tra Lapiti e Centauri e le imprese di Teseo. Le proporzioni degli elementi architettonici e la presenza del fregio hanno fatto ipotizzare l’intervento delle stesse maestranze impegnate della fabbrica dell’Ephaisteion. Alla fine del secolo, l’associazione degli ordini ritorna, insieme ad altre importanti innovazioni, nel tempio di Apollo Epicurio in Arcadia, dedicato dagli abitanti di Figalìa a Bassai. Esternamente il tempio è dorico, con una peristasi di 6x15 colonne dettata dalla presenza dell’adyton sul fondo della cella. All’interno della cella, la pianta abolisce le tre navate canoniche, liberando lo spazio centrale: le 8 colonne interne, ioniche, sono ricondotte a semicolonne addossate ad altrettanti contrafforti sporgenti dai lati lunghi; l’adyton, accessibile anche dall’esterno lungo il lato orientale del tempio, è separato dalla cella tramite due semicolonne oblique e una colonna centrale, libera, che adotta per la 1° vv, un capitello corinzio a kalathos ricoperto da foglie d’acanto. Sopra il colonnato interno, che ha una funzione più decorativa che portante, correva un fregio continuo che rappresentava episodi della centauromachia e dell’amazzonomachia, improntati a un manierismo eclettico, con ripresa di schemi policletei per i nudi maschili, qui in movimento agitato, a ampio gioco di panneggi per le figure femminili. Le cifre stilistiche del fregio figurato e i dati morfologici dell’ordine architettonico interno corrono a individuare una produzione locale, da collocare cronologicamente alla fine del V sec ac. La necessità di rivalutare lo spazio interno si avverte anche nel nuovo Telestèrion di Eleusi, che viene ulteriormente ampliato nella seconda metà del V secolo ac. L’edificio, destinato alla celebrazione dei culti misterici, era una sala quadrangolare he conteneva un antico luogo di culto risalente all’epoca micenea. La nuova aula, a pianta quadrata era fornita di gradinate su tutti i lati e di coppie di porta sui lati nord , est e sud; la copertura era sostenuta da 6 file si sette colonne ciascuna, disposte in modo da liberare la vista verso il centro. Questi edifici, destinati a riunioni religiose o profane, erano vaste sale a pianta rettangolare o quadrata dal tetto sorretto da più file di colonne; i problemi architettonici erano legati al posizionamento dei sostegni, che dovevano lasciare spazio alle gradinate per il pubblico e all’illuminazione (con la luce che arrivava dagli ingressi). Alcuni edifici, avevano la parte centrale del tetto sopraelevata a lanterna, con ampie aperture nelle porzioni di muro che si elevavano sopra il tetto, per fare entrare più luce. La conquista dello spazio interno si accompagna, nella seconda metà del V secolo, alla ricerca di valori decorativi, che si esprime nell’adozione dell’ordine ionico per gli edifici dell’acropoli post-periclea (es. tempietto Atena nike e Eretteo). L’ordine dorico verrà in genere mantenuto per l’esterno, ma con una progressiva tendenza a irrigidire le sue linee e i suoi profili. La scelta di una architettura più plastica e decorativa porterà nel secolo successivo a un largo uso dell’ordine corinzio e al superamento dei principi dell’architettura classica con nuove tipologie architettoniche. Plastica a tutto tondo e rilievo: la scultura della seconda metà del V secolo è dominata dalle personalità di Fidia e di Policleto, creatori di un canone figurativo che coniuga l’armonia delle forme alla serenità dell’espressione. La ricerca dell’elemento passionale, realistico che il maestro di Olimpia aveva incominciato a introdurre nel linguaggio figurativo scultoreo si interrompe in favore di una visione idealistica e trascendente che tende ad assimilare gli uomini agli dei. della madre che doveva tenere nella mano dx il coltello. La figura è concepita come una peplophoros, anche se il gioco delle pieghe sul petto, che scendono morbide assecondando la rotondità dei seni, segue lo stile del panneggio fidiaco. Il conflitto tra il corpo che si solleva e vive e il ritmo gravitante del peplo che tende a coprire le forme, che aveva contraddistinto le peplophoroi dello stile severo è ora risolto alleggerendo la stoffa, che aderisce al corpo senza nasconderlo accentuando l’effetto chiaroscurale delle pieghe. Presentano lo stesso panneggio le Caritidi dell’Eretteo, attribuite all’officina di Alcamene e databili intorno al 416 ac, prima che la spedizione in Sicilia interrompesse i lavori di costruzione dell’Eretteo; le sei statue, che nelle iscrizioni dell’epoca sono chiamate korai, vestono un peplo sottile, senza maniche, con ampio e morbido risvolto alla vita e apoptygma ricadente sul petto, e un mantello fissato sulle spalle che ricade lungo la schiena; le fanciulle del fregio del Partenone indossano lo stesso abito. Nonostante l’ampiezza del vestito e del panneggio il corpo non è celato ma evidenziato dalla leggerezza della stoffa che aderisce al corpo, con effetto bagnato. Le copie di età adrianea permettono di ricostruire che le korai dovevano tenere una patera baccellata nella mano dx abbassata, mentre con la sx reggevano un lembo del vestito; un voluto arcaico per richiamare i valori della polis aristocratica e del suo passato. Le Amazzoni di Efeso: intorno al 435 ac, gli scultori più famosi del tempo partecipano a una commessa indetta dal santuario di Artemide di Efeso per una statua di amazzone ferita. Secondo PV, partecipano alla gara: Policleto, Fidia, Cresila e Fradmone; le statue erano in bronzo e, per il voto degli stessi maestri, vinse Policleto. Le statue sono note attraverso copie romane che iconograficamente si assomigliano: le amazzoni sono raffigurate ferite al seno dx, che portano scoperto e vestite di un succinto chitone. L’amazzone di Fidia è stata concordemente identificata con la copia Mattei, da Villa Mattei, dove era conservata. Un’altra buona copia era nella villa di Adriano a Tivoli: la figura si appoggia alla lancia con la mano dx sollevata, caricando la gamba del peso portante; la gamba sx ferita, è piegata in avanti, libera dal peso; la posa elastica, in leggero movimento, pone l’accento sul valore guerresco del personaggio, che non viene meno con la mutilazione subita, allineandosi all’umanità del linguaggio fidiaco. Per le amazzoni di Policleto e di Cresila l’identificazione attraverso le copie romane è incerta. È stata attribuita a Policleto la statua realizzata dal copista Sosicle, conservata ai Capitolini di Roma, che raffigura l’amazzone nell’atto di strapparsi la veste per alleviare il dolore della ferita; al collo è agganciato un mantello che ricade sul dorso,; il braccio dx doveva essere appoggiato alla lancia per alleggerire il peso del corpo, che grava sul lato sx della figura; il lato dx, sul quale si concentrava l’attenzione, è quindi più sciolto. Il canone oppone il movimento delle spalle a quello delle gambe; la ponderazione richiama quella dell’Efebo di Westmacott. Anche l’amazzone che si poggiava al pilastrino e alza a fatica il braccio dx verso la testa, reclinata per il dolore, detto tipo Sciarra, è stata attribuita per la ponderazione e l’articolazione delle membra a Policleto. Si è notato che la posizione in appoggio irrompe con la tradizione che voleva che il centro di gravità di una figura immobile ricadesse nella zona inquadrata dai piedi; è parso quindi giusto attribuire questa amazzone a Cresila, scultore noto per il suo stile innovativo. Questa tipologia verrà utilizzata nell’ultimo trentennio del secolo per numerose statue di Afrodite e altre. Lo stile ricco dell’ultimo trentennio del V secolo: la definizione di stile ricco si adatta principalmente alle statue femminili che, continuano il panneggio bagnato ideato da Fidia e dai suoi più stretti collaboratori; l’aggettivo è utilizzato per indicare questo particolare tipo di abbigliamento, ricco di pieghe curvilinee e rigonfie e di effetti chiaroscurali. Nel 421 ac Messeni e Naupatti dedicarono a Olimpia una statua di Nike in seguito a una vittoria sugli spartani; la staua era posta su un alto piedistallo triangolare di fronte al tempio di Zeus; la Nike guardava il tempio e lo scudo dorato appeso sotto l’acroterio centrale, che a loro volta gli spartani avevano offerto al dio molto tempo prima (dopo battaglia di Tanagra 457 ac). La statua è opera di uno scultore tracio Paionos di Mende, che l’ha realizzata da un unico blocco di marmo: a 9 m di h da dea scendeva verso lo spettatore, la gamba sx avanzata a sfiorare il terreno con la punta del piede, le ali spiegate, il mantello, gonfio per il vento, trattenuto con entrambe le mani; ai suoi piedi un’aquila in volo laterale, concepita per essere ravvivata dal colore, dava l’idea dello spostamento dell’aria; l’animale era sacro a Zeus. Il chitone, aperto sui fianchi, si slancia all’altezza del seno sx, si apre per l’impeto del movimento liberando la gamba sx e aderisce al corpo con effetto bagnato. Un altro originale dell’ultimo quarto di secolo porta all’estremo il panneggio partenonico con un ardito gioco di pieghe; si tratta di una statua di una divinità rinvenuta in giacitura secondaria nell’agorà di Atene e ricomposta da più frammenti. L’opera richiama il tipo dell’Era Borghese, conosciuto solo attraverso repliche di età romana, per il tipo di abito e per il modo di portare il mantello che avvolge solo la parte inferiore del corpo scoprendo il busto, coperto da un chitone fittissimo, quasi trasparente che segue le curve del corpo. Questi tipi statuari creati soprattutto per raffigurare Afrodite, introducono una nuova visione della divinità che porterà all’Afrodite di Prassitele, la famosa Cnidia. Gli stessi effetti di trasparenza caratterizzano le nikai della balaustra del tempio di Atena Nike sull’acropoli, eretto verso il 409-406 ac. dopo le ultime vittorie di Alcibiade, prima della disfatta di Egospotami del 405. Due nikai innalzano trofei con le armi sottratte al nemico, altre conducono un toro in sacrificio, un’altra si slaccia un sandalo prima di entrare nel santuario. Nella lastra con il toro, la nike che avanza impetuosamente per schivare il balzo dell’animale è una delle figure più significative del rilievo per l’impeto della postura e il raffinato gioco del panneggio, una variazione mossa del tipo Hera Borghese, nella nike col sandalo, la posizione raccolta, controbilanciata dalle ali (un tempo colorate) offre il supporto al gioco del panneggio che cade verticalmente dalla spalla sx alzata, segue con pieghe curvilinee il movimento delle gambe, con effetto di trasparenza sul busto, per ricadere in basso con pieghe più rade e pesanti, ma morbide. Gli studi sul panneggio portano ai virtuosismi delle Menadi danzanti attribuite a Callimaco, note attraverso copie neoattiche; le figure realizzate in bronzo, a bassorilievo, mostrano le menadi in vari atteggiamenti di danza nel pieno delirio dionisiaco, vestite con chitoni fluttuanti che seguono i movimenti del corpo avvolgendo e scoprendo nello steso tempo le membra, per ricadere con vorticosi avvolgimenti di pieghe, giocate su motivi curvilinei e spiraliformi, di grande effetto coloristico ma prive di aderenza alla realtà. La stessa enfasi nei panneggi e posture si nota nella ceramografia contemporanea che adotta lo stile ricco per le figure femminili--< es. Pittore di Meidias, nelle hydrai prevalgono eleganza della forma, varietà degli atteggiamenti, statuari, la complessità dei vestiti e delle acconciature; siamo giunti ad una fase manieristica che rielabora, le invenzioni nate in un diverso contesto (Fidia e Partenone). Dalla grande pittura alla ceramica: nella seconda metà del V secolo la pittura su cavalletto continua a studiare mezzi per rendere la profondità dello spazio e la tridimensionalità delle figure, mentre la ceramica recepisce l’influenza delle arti maggior perdendo lo slancio creativo che aveva caratterizzato i primi anni della ceramografia a figure rosse. Intorno alla metà del secolo Agatarco di Samo, pittore, aveva dipinto una scenografia per trilogia di Eschilo, l’Orestea, nella quale figuravano edifici e paesaggi con effetti di sporgenze e di rientranze; Agatarco aveva pubblicato un trattato sulla metodologia che gli aveva consentito, attraverso calcoli geometrici, di arrivare a una rappresentazione tridimensionale. Un altro pittore, Apollodoro di Atene, aveva compiuto studi sui colori e sul chiaroscuro per aumentare la profondità spaziale. Zeusi, altro pittore famoso attivo ad Atene, Macedonia, It. Mer. e Si., è ricordato per i suoi monocromi a fondo bianco, per i quali utilizzava il colore rosso, mentre di Parrasio di Efeso si racconta che fosse riuscito con il disegno a rendere il volume dei corpi. Di tutti questi pittori conosciamo solo le notizie tramandate dalle fonti letterarie, che in mancanza di originali, perduti, possono solo testimoniarci l’evoluzione costante della grande pittura da cavalletto che cercava di rendere la tridimensionalità della realtà. Sappiamo anche che i pittori famosi come Zeusi e Parrasio erano costantemente in viaggio, alla ricerca di una committenza di prestigio così come erano autori di trattati teorici che confluiranno in parte nella trattatistica romana. Delle conquiste della pittura abbiamo una eco nella ceramografia contemporanea: Scena dell’uccisione di Pentesilea, da parte di Achille, che dà il nome al pittore (p. di Pentesilea), che la dipinse intorno al 460-450 ac, è chiaramente tratta da una megalografia, sacrificata dalla ristrettezza dello spazio a disposizione: l’amazzone caduta e morente, che dovrebbe essere stesa al suolo, si allunga seguendo in modo innaturale la curvatura del tondo interno; anche il guerriero che, sulla sx, sta abbandonando il campo dopo aver trafitto la giovane guerriera, allude a un secondo piano. L’attenzione del pittore si concentra su due eroi, la gigantesca figura di Achille e la commovente figura della donna (che nel momento della morte si innamora del suo uccisore, cioè Achille). La donna è colta nell’atto di precipitare al suolo, mentre tenta di afferrare il braccio armato del suo assalitore e sollevando la testa guarda dal basso gli occhi di Achille; quest’ultimo, lo sguardo perso nel vuoto, resta isolato nella sua dimensione eroica; il pittore sembra più interessato all’espressione dei sentimenti che alla composizione ed emerge chiaramente la drammaticità del momento. Più statuario il Pittore di Achille, dall’anfora eponima con Achille e Briseide del 440 ac, predilige scene semplici con figure solide e tranquille. Il pittore dipinge anche numerose lekythoi a fondo bianco, una classe di vasi a destinazione funeraria; la lekythos è un vaso a collo stretto destinato a contenere gli unguenti per ungere i corpi dei defunti nei riti di sepoltura. Sul corpo a fondo bianco del vaso, che richiama l’imbiancatura dei pannelli lignei, le figure risaltano con intensi effetti policromi. Il clima è quello della pittura anche se lo spazio da decorare è fortemente limitato dalla forma del vaso. La giovane donna della lekythos del Museo di Boston riflette sul sereno abbandono dei personaggi delle stele funerarie. La pittura vascolare segue in questo caso lo stile della scultura attica di età periclea che coniuga l’armonia delle forme alla sobrietà dei gesti, la perfezione alla misura. Lo stile “partenonico” contraddistingue anche le opere del ceramografo Polignoto (non è il pittore della generazione severa) e del Pittore di Kleophon che dipingono intorno al 430 ac raggiungendo una perfezione stilistica di maniera ma priva di toni originali. Diventano frequenti in questo periodo le scene di partenza del guerriero, forse dettate dalla guerra incombente e leggibili in chiave funeraria (guerriero morto che parte per l’aldilà). Sullo stamnos del pittore di Kleophon le figure hanno una dignità statuaria e una mestizia assimilabili a quella delle stele funerarie coeve; la purezza dei lineamenti, la sobrietà dei panneggi, l’emozione contenuta riflettono die modi e nello stile del rilievo fidiaco. Più pittorico il ceramografo della lekythos a fondo bianco del gruppo R, dipinge con tratti sicuri e veloci una solida figura di guerriero seduto davanti a una stele funeraria, lo sguardo perso nel vuoto (protezione defunto e compagno). L’uso della linea per definire oggetti e persone ha fatto pensare a una eco della pittura di Parrasio, celebrato nell’antichità per l’uso funzionale della linea che li permetteva di rendere la tridimensionalità delle figure. Anche il manierismo degli scultori della fine del V secolo ac, che sviluppano il panneggio bagnato viene ripreso dai pittori vascolari. Epinetron di Eretria, attribuito all’omonimo pittore, l’oggetto è particolare, tipicamente femminile, perché veniva appoggiato sul ginocchio e serviva per arrotolare la lana; le scene raffigurano su un lato la giovane sposa che riceve la visita delle amiche e sull’altro lato una scena di gineceo con la padrona di casa circondata e assistita dalle varie personificazioni del repertorio amoroso. Il pittore è un miniaturista molto accurato, ma i suoi panneggi, resi con sottili linee ravvicinate, non hanno aderenza alla realtà. È stata riconosciuta l’influenza della pittura anche nelle opere del Pittore Meidias, dal nome del vasaio, nell’ultimo decennio del V secolo, dipinge vasi di grandi dimensioni con figure disposte su diversi piani. Due hydrai dipinte dal Pittore facevano parte del corredo di una ricca sepoltura in Etruria, insieme a preziosi vasi di bronzo e arredi da cerimonia. La tomba, rinvenuta già violata da scavatori clandestini, si data tra fine V e inizio IV secolo ac. Entrabme le hydrai raffigurano episodi legati ad Afrodite. Sulla prima Faone, barcaiolo di Mitilene che aveva trasportato Afrodite che lei ricompensa trasformandolo in un bellissimo giovane, appare seduto sotto una fronda d’alloro accanto ad una giovane Demonassa, mentre Afrodite guida un carro trainato da Pothos e Imeros (personificazioni del desiderio amoroso), a fianco dei due personaggi sono Apollo e Latona, sedute nell’aria, le ninfe che sovrintendono al matrimonio e agli eventi della sfera femminile. Sulla seconda hydrai è rappresentato Adone, titolare di un culto praticato solo da donne. Entrambi i vasi sono arricchiti da dorature, per rappresentare in modo più veristico i gioielli che ornano le figure femminili e le ali degli eroti. Lo stile è piacevole, anche se di maniera, con virtuosismi estremi nella resa dei panneggi e grande abilità disegnativa nella combinazione delle posture e nella definizione dei particolari. Forti accenti coloristici compaiono anche nella produzione del Pittore di Pronomos, che dipinge vasi di grandi dimensioni affollati di personaggi. Il vaso eponimo, rinvenuto in Puglia, raffigura un gruppo di attori che si prepara a recitare un dramma satiresco; al centro Dioniso e Arianna e nel registro inferiore, il flautista Pronomos che prende gli accordi con il doppio flauto. È attribuita all’officina del pittore la pelike con gigantomachia da Tanagra (Beozia). Entrambi i vasi risentono dell’afflusso della grande pittura. La pelik, per le figure viste di schiena e di scorcio, disposte e in parte sovrapposte, per la presenza di dettagli naturalistici, come le rocce e le piante disposte in ordine sparso, potrebbe sottintendere un modello di maggiori dimensioni. La grande pittura riaffiora anche nell’opera del Pittore di Talos, dal cratere della collezione Jatta di Ruvo (Puglia), che raffigura il gigante di bronzo, eroe di Creta, ucciso dalle arti magiche di Medea per aver tentato di impedire lo sbarco degli Argonauti sull’isola; il gigante aveva solo un punto vulnerabile, la vena del piede. Sul cratere eponimo, Talos, dipinto in bianco e giallo per indicare la sua natura bronzea, si abbandona vinto tra le braccia dei Dioscuri. Lo stesso schema compositivo ritorna su un frammento di cratere da Spina e su due specchi etruschi è probabile che il punto di partenza sia stato una megalografia, sacrificata dai limiti di spazio della pittura vascolare. Per le sue elevate capacità tecniche il Pittore di Talos riesce a riprodurre i valori pittorici dell’originale, nella monumentalità delle figure, nelle visioni di scorcio, nell’uso del chiaroscuro. Con questi vasi termina la grande stagione della ceramica attica, che continua nel secolo successivo con opere più modeste, dipinte con temi dionisiaci e scene di genere. L’esperienza e la techne dei pittori e dei ceramografi attici darà vita alla produzione italiota a figure rosse dopo la metà del V secolo ac, con caratteri sempre più autonomi. Lo stile partenonico della cerchia di Polignoto sarà ripreso dai primi pittori lucani, come il pittore di Pisticci e del pittore delle Carnee, da Ceglie del Campo. Il rilievo funerario: in un’epoca travagliata da lutti e battaglie come quella della guerra del Peloponneso, il rilievo funerario finisce con l’assumere un ruolo particolare; frequenti interruzioni nelle committenze ufficiali, in concomitanza con le alterne vicende della guerra, portano gli artigiani impegnati nel cantiere dell’Acropoli ad accettare sempre più lavori anche per privati; forse è per questo che le stele funerarie dell’ultimo quarto del V secolo hanno un’inconfondibile impronta partenonica. La visione idealista eterna e trascendete dei personaggi di Fidia, emerge anche nei rilievi funerari che vogliono ricordare i suoi morti riaffermandone la vita. Il defunto è raffigurato in un atteggiamento preso dal quotidiano, privo della violenza e delle paure legate alla morte. Una stele rinvenuta ad grandi spazi liberi per la profondità di due intercolumnii. Anche il pronao era molto profondo; ma nella cella le due file di colonne, come consueto, vengono abolite, lasciando il compito di sorreggere il peso della parte centrale del tetto a due serie di 7 semicolonne d’ordine corinzio appoggiate alle pareti, sulle quali poggiava una trabeazione riccamente decorata. L’interno della cella risultava così estremamente spazioso ma con pareti ricche di chiaroscuri. Giunge qui a uno dei suoi migliori risultati la tendenza a una sempre maggiore leggerezza e luminosità all’interno dell’ordine dorico, con l’aggiunta d’una decorazione sempre più ricca e della creazione di grandi spazi interni, facendo ricorso anche all’inserimento di ordini diversi. A Tegea, particolari esigenze di culto impongono l’apertura della cella in una porta al centro del lato lungo settentrionale: un adattarsi del rigido ordine dorico arcaico a esigenze locali che diventava sempre più frequente. Ricchissima anche la decorazione scultorea all’esterno, con metope e acroteri e i due affollati frontoni, ricchi di chiaroscuri, anch’essi affidati a Skopas. Grazie alla descrizione di Pausania ne conosciamo i soggetti: sul frontone est era rappresentata la caccia al cinghiale calidonio legata a Meleagro e Atalanta; su quello ovest una vicenda legata al ciclo troiano che coinvolgeva direttamente Telefo, eroe di Tegea, figlio di Eracle e Auge. Telefo si contrapponeva qui ad Achille, mentre la stessa Atena interviene a pacificarli. Di questi frontoni sono rimasti numerosi ma piccoli frammenti. I grandi scultori del IV secolo ac: il IV secolo è spesso ricordato dagli storici come il secolo dell’individualismo, contrapposto al forte spirito civico che aveva caratterizzato il V secolo. A questo corrisponde il fatto che sia stato anche un secolo segnato in campo artistico da grandi personalità. L’Attica in particolare, torna ad avere un posto di rilievo nel campo della scultura. Atene è una città dove più si aspira alla fine delle guerra, che ne hanno stremato sia il potere politico che quello economico; subito dopo la Pace di Antalcida (386 ac), la città vuole celebrare l’avvenimento con una grande statua dal forte contenuto propagandistico. Lì dove si trova il cuore economico e politico della città, nell’agorà viene innalzata la statua della pace, Eirene. Questa, rappresentata da una maestosa figura femminile, custodiva e alimentava la ricchezza (il Ploutos). Non era la statua di una divinità o di eroi ma di personificazioni di concetti terreni: pace e ricchezza tra loro in stretto rapporto. L’esecuzione dell’opera, in bronzo, era stata affidata a Cefisodoto, scultore ateniese. Le fonti letterarie ricordano anche altre opere di questo artista, che doveva essere famoso. Perduti tutti gli originali, solo la statua di Eirene e Ploutos è stata riconosciuta in alcune copie di età romane. Protagonista principale è la grande figura femminile stante, che porta un mantello sul peplo dalle lunghe pieghe ordinate, il braccio dx sollevato nel reggere lo scettro. Un impianto contemporaneamente solido e tradizionale: uno schema volutamente tradizionale reso con uno stile che si rifà alla scuola fidiaca; e una solidità che richiama le Cariatidi dell’Eretteo. Con il braccio sx sorregge un bimbo, dalle forme arrotondate, che muove nello spazio i piccoli arti con molta vivacità. Le teste, rivolte l’una verso l’altra, sottolineano il legame tra le due figure; Eirene piega la testa in avanti e verso il basso mentre il piccolo la alza verso di lei protendendo verso il volto rassicurante la piccola mano dx, mentre con la sx fa forza sul braccio che lo sostiene. Nella bottega dell’ateniese Cefisodoto si formarono anche altri grandi scultori tra i quali suoi figlio Prassitele che raggiunse la massima fama. A lui si deve l’opera più citata nelle fonti letterarie e più riprodotta nelle copie giunte sino a noi cioè l’Afrodite di Cnido. PV parla della storia dell’acquisto di questa statua; un’ambasceria degli abitanti di Coo si reca ad Atene nella bottega di Prassitele, per commissionargli una statua di culto per il nuovo santuario di Afrodite. Quando la statua è pronta e gli ambasciatori tornano a prenderla restano a bocca aperta nel vedere che l’artista ha rappresentato la dea della bellezza in totale nudità, fino ad allora riservata alle figure maschili. E quindi prendono una altra scultura di Afrodite, sempre di Prassitele, ma più tradizionale. Da lì a poco giungono gli ambasciatori di Cnido che anche loro vogliono una statua di Afrodite per il loro tempio, la nuova immagine della dea piace loro moltissimo e la acquistano e il tempio di Cnido acquisterà fama eterna per questa bellissima statua. In un altro passo PV ci dice che Prassitele raggiunge il culmine della sua arte poco prima il 360 ac; ancora molto giovane. Si dice che dalla sua bottega uscissero ben 2000 statue; ma l’Afrodite di Cnido rimane la più celebre e per quanto detto da PV la datazione della statua è datata poco prima il 360 ac. Della statua abbiamo un enorme numero di copie di età romana. La dea è rappresentata in piedi, mentre si accinge a bagnarsi. Nel far questo poggia con la mano sx la veste sul vaso; questo permette di spostare il baricentro della figura, dando al gioco dei pesi, creato dal discostarsi del piede sx, una flessuosità nuova. La mano dx è portata in avanti a coprire l’inguine in un gesto di pudicizia che ne fa avvertire ancora meglio la seduzione. Attirano l’attenzione i morbidi passaggi tra i piani, l’assenza di gesti bruschi, la lucentezza delle superfici di marmo. La testa, con ordinatissimi riccioli spartiti da una riga centrale e raccolti alla nuca a coronare le forme tondeggianti del volto, ha occhi, naso e bocca abbastanza piccoli e ravvicinati che le danno una espressione raccolta. Simbolo di eterna bellezza riesce a creare con lo spettatore un rapporto diretto. Gli stessi principi di delicatezza, flessuosità della figura, lucentezza e morbidità dei piani ricompaiono come caratteristiche fondamentali nell’arte di Prassitele che preferisce rappresentare divinità o personaggi minori del mito nel fiorire della loro giovinezza, colti in momenti senza solennità né tensione. Una statua trovata ad Olimpia nel 1877 rappresenta un giovane nudo che con la dx porge un grappolo d’uva a un bambino che regge sul braccio sx. Il giovane è a sua volta appoggiato al tronco d’un albero sul quale ha lasciato cadere la veste; questo fa si che, a dispetto della ponderazione policletea delle gambe, il torso si inarchi con un movimento accentuato dal sollevarsi del braccio dx che sposta il baricentro al di fuori dello spazio occupato dai piedi: un movimento libero nello spazio, che dà alla figura un senso di posizione provvisoria. Provvisorio è il momento in cui le due divinità sono colte nel corso dell’azione: un momento umano di sosta che Ermes si concede mentre sta portando il piccolo Dioniso alle ninfe di Nisa. Nei capelli e nelle vesti si può notare la virtuosistica trattazione del marmo; le superfici carnose sono state rese ancora più morbide da una levigatura romana. La statua fi vista nel II sec dc da Pausania all’interno dell’Heraion di Olimpia; è lì è stata rinvenuta dagli scavi. L’esistenza di puntelli e di elementi di rielaborazione ha fatto pensare che non si tratti dell’originale ma di una copia romana, mentre l’originale prassitelico sia andato perduto. Lo schema con un grande personaggio principale in intimo colloquio con un fanciullo che tiene in braccio è lo stesso che aveva usato Cefisodoto per Eirene e Ploutos. Ma nella statua di Prassitele è nuovo lo spostamento del baricentro che dà alla statua un senso di posizione provvisoria e accentuandone la grazia. Statua dell’Apollo Sauroctono, che ha uno spostamento della parte superiore del corpo ancora più accentuato. La statua originale ci è nota da diverse copie di età romana, tra le quali sono ben conservate quella del Louvre e del Vaticano. Il dio è raffigurato giovane, come indicano la morbidezza delle membra; è in piedi, il peso gravitante sulla gamba dx; con il braccio sx si appoggia ad un tronco d’albero, sul quale si arrampica una lucertola: per colpirla con una piccola freccia che tiene nella mano dx, Apollo si sporge in avanti e a sx in un attimo di precario equilibrio. La statua doveva rappresentare Apollo “liberatore dalla malattia” simbolizzata dal piccolo sauro sul tronco. Anche in questo caso l’appoggiarsi della figura ad un elemento esterno consente una rotazione che mette in risalto la flessuosità del corpo accentuandone la grazia. Statua del Satiro in riposo; statua di cui sono rimaste tante copie e quindi molto famosa anche nell’antichità. In questo caso è raffigurato un giovane satiro che resta in piedi a stanco si appoggia a un albero (el. Esterno). Il ritmo viene qui accentuato dalla diagonale del mantello, che scende dalla spalla dx e attraversa la lucente nudità del busto fino a girare dietro il fianco sx, sollevato a causa dell’appoggiarsi del peso della figura tutto sulla gamba sx. il successo che ebbe questo tipo scultoreo per tutta l’epoca romana dimostra quanto fosse amato il soggetto. Skopas: negli stessi anni di Prassitele, altri artisti cercano di coinvolgere lo spettatore cerando espressioni ed effetti di particolare intensità attraverso l’uso del movimento, della torsione del corpo e di una nuova disposizione meno equilibrata degli elementi del volto. In questo è maestro Skopas di Paro che verrà definito come “maestro del pathos”, cioè dell’espressione del sentimento. Anche lui trae ispirazione dal mondo del corteggio di Dioniso, in particolare per l’opera da cui deriva la statuetta di Menade, oggi conservata a Dresda, che forse è la stessa vista da Pausania nel tempio di Dioniso a Sicione. L’agitazione che pervade tutta la figura viene resa dalla torsione che dalla gamba sx, passa per busto e collo fino alla testa, gettata all’indietro e girata a seguire lo sguardo verso sx. Il volto è pieno, sono ravvicinati bocca, naso e occhi, questi ultimi sono schiacciati contro le forti arcate orbitali per conferire maggior intensità all’espressione. L’abbandonarsi del corpo alla passione è sottolineato dalla massa di capelli scomposti e dal lungo chitone che, tenuto da una cintura appena sopra la vita, si spalanca nel movimento, lasciando scoperto il fianco sx e dal forte contrasto chiaroscurale tra panneggi e capigliatura, da una parte, e superfici nude dall’altra. Le braccia, andate perdute nella piccola statuetta di Dresda, seguono la generale torsione del corpo: il braccio sx sollevato, stringe contro la spalla un capretto; il dx è teso all’indietro, e nella mano impugna un coltello. Le stesse caratteristiche della Menade di Dresda sono riscontrabili in un gruppo di frammenti dai frontoni del tempio di Atena Alea a Tegea, nel Peloponneso. Queste sono tra le più importanti sculture originali del IV secolo ac che ci siano rimaste. Il tempio è stato ricostruito forse dopo la battaglia di Mantinea del 362 ac, al posto di quello andato distrutto in un incendio del 394 ac e sappiamo dalle fonti che proprio Skopas vi lavora come architetto e come scultore. Dal frontone ovest, dove era rappresentata la lotta tra Achille e Telefo, proviene una testa che si volge con violenza verso sx. Tutti i muscoli sono tesi e rigonfi, i particolari del volto sono ravvicinati tra loro; la bocca è dischiusa dallo sforzo mentre l’approfondimento delle orbite e il volgersi verso l’alto degli occhi infossati conferiscono allo sguardo una intensa drammaticità (come Menade di Dresda). Il confronto conferma l’attribuzione a Skopas: è tutto volto a rendere la violenza dello sforzo, l’intensità delle passioni. I cori dei frontoni sono andati per la maggior parte perduti; per quel che si può ricostruire anche essi dovevano concorre a dare l’idea del movimento attraverso linee incrociate e torsioni. Le soluzioni scelte da Skopas faranno scuola nel periodo ellenistico ma sono anche apprezzate dai contemporanei tanto che Skopas sarà chiamato a lavorare anche al grande monumento funebre, il mausoleo di Alicarnasso. altri scultori chiamarti a lavorare al mausoleo di Alicarnasso sono ricordati da PV e sono, oltre a Skopas, Timoteo, Leocare e Briasside. Non sono necessariamente coetanei anche se appartengono alla stessa epoca. Di Timoteo sappiamo relativamente poco, è il più anziano tra i 4, e abbiano numerosi originali provenienti da Epidauro, in particolare dal frontone con amazzonomachia e gli acroteri del frontone ovest, in marmo pentelico. Quello centrale rappresenta l’arrivo sul culmine del tetto di una figura femminile, vestita di un chitone aderente e di un ampio mantello, che stringe nella dx un volatile, portato in quanto suo animale simbolico; è dalla decodificazione di questo simbolo che dipende l’interpretazione della figura: potrebbe essere identificata con una oca, e potrebbe essere Epione, la sposa di Asclepio, di cui l’oca è l’animale sacro (per Asclepio il gallo). Si anche pensato ad una pernice, in qualche modo collegata ad Asclepio attraverso un culto locale. Ciascuno dei due acroteri laterali raffigura poi l’arrivo di una fanciulla, colta nell’atto di scendere da un possente cavallo. Queste due figure, rivolte entrambe verso il centro, sono interpretate come Aure. La rapidità del loro movimento è indicata dallo schiacciarsi della veste sul corpo, in netto contrasto con i lembi all’intorno che, liberi al vento, volteggiano in panneggi vorticosi. La forte sensibilità nell’uso del panneggio viene considerata una delle caratteristiche fondamentali di questo artista, molto vicino alla tradizione fidiaca. Più attento al sublime dell’apparizione divina e per questo ancora più inserito nella tradizione attica è Leocare di Atene. Di lui abbiamo molte notizie, che, oltre che con il Mausoleo di Alicarnasso, lo mettono in relazione con Filippo II, padre di AM, per il quale esegue la serie di statue crisoelefantine del Philippeion di Olimpia tra 338 e 336 ac. Non sembra avere rapporti con AM che preferisce Lisippo. Una sua opera molto nota è il Ganimede rapito da Zeus nelle sembianze di un’aquila; la descrizione di PV rende molto bene l’aria di attonito stupore di fronte all’immensità del divino che deve essere stata una delle caratteristiche di questo autore. Attribuito a Leocare è l’Apollo del Belvedere, cortile Vaticano in cui si conserva. Il dio appare stante indosso solo la faretra, il cui balteo attraversa diagonalmente il petto, e un mantello che, fermato sulla spalla dx, scendendo da dietro le spalle, si avvolge attorno al braccio sx. Il peso è tutto sulla gamba dx: il piede sx, rimasto fortemente all’indietro poggia a terra solo con la punta, in modo che l’ampiezza della falcata sottolinei la rapidità dell’apparizione. Il corpo, giovanile, ma fieramente eretto ha forme allungate e superfici di grande luminosità. La testa è piegata fortemente a sx, leggermente verso l’alto; il volto, puro, ha lo sguardo rivolto lontano, del tutto indifferente alla presenza dello spettatore. La mano sx doveva impugnare l’arco. Ancora oggi è la statua di Apollo più celebre. Gli viene affiancata la statua più celebre della sorella: l’Artemide di Versailles. Si tratta sempre di una copia di età romana, acquistata a Roma e portata a Versailles anche se oggi è conservata al Louvre. La posizione è simmetricamente molto simile a quella dell’Apollo del Belvedere: corpo eretto, peso sulla gamba sx, piede dx rimasto all’indietro, poggiando a terra solo la punta, testa imperiosamente volta verso dx. Il corpo è ricoperto dalla corta tunica caratteristica della dea cacciatrice, ma non è il panneggio a trasmetterci la rapidità dell’apparizione ma la disposizione delle membra. È stata replicata in molte copie, alcune delle quali hanno un cane al posto della cerva. Gli studiosi ottocenteschi hanno attribuito questa statua a Leocare ma non è possibile affermarlo con esattezza; si sa che l’originale doveva essere datato 350-320 ac.