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Riassunto "Manuale di Diritto commerciale" - Campobasso - vol. unico, ottava ediz. (2022), Dispense di Diritto Commerciale

Il documento contiene il riassunto integrale del Manuale di Diritto commerciale di Gian Franco Campobasso (a cura di Mario Campobasso), ottava edizione - 2022, volume unico ("campobassino"). Il testo segue fedelmente parti, capitoli e paragrafi.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 01/09/2023

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Scarica Riassunto "Manuale di Diritto commerciale" - Campobasso - vol. unico, ottava ediz. (2022) e più Dispense in PDF di Diritto Commerciale solo su Docsity! MANUALE DI DIRITTO COMMERCIALE Gian Franco Campobasso Ottava edizione (2022) – Volume unico (“campobassino”) Riassunto realizzato nel 2023 da Davide Angelini _________________________ INTRODUZIONE 1. Il diritto commerciale La Costituzione italiana riconosce la proprietà privata e la libertà di iniziativa economica (artt. 41 e 42 Cost.), inserendo così il nostro paese fra quelli che prescelgono un modello di sviluppo economico basato sull'economia di mercato, caratterizzato da: a) la libertà dei privati di svolgere attività d'impresa; b) la libertà di competizione economica fra gli operatori che agiscono per ottenere il massimo guadagno. Tali libertà sono relative, in quanto strumentali alla realizzazione del benessere collettivo, e perciò indirizzate, coordinate e controllate dagli interventi dei pubblici poteri nella vita economica. Nei paesi come il nostro ad economia libera, il fenomeno imprenditoriale costituisce l'asse portante dello sviluppo economico e del processo di razionale utilizzo delle risorse produttive per il miglioramento del benessere materiale della collettività. Da qui la necessità di una legislazione economica di diritto pubblico e di diritto privato volta a creare un ambiente giuridico idoneo allo sviluppo delle imprese e, contestualmente, ad assicurare un ordinato e razionale funzionamento delle stesse. Nell'ambito del diritto privato, il codice civile del 1942 e numerose leggi speciali ad esso anteriori e successive contengono disposizioni relative sia ai singoli rapporti economici in cui si sviluppa l'attività d'impresa, sia l'attività d'impresa unitariamente considerata. In particolare, è predisposta una disciplina degli atti di autonomia privata a contenuto patrimoniale (obbligazioni e contratti) fondata su scelte che rendono rapida e sicura la circolazione dei beni e garantiscono un'adeguata tutela del credito. L'attività d'impresa è infatti fondata su una fitta serie di rapporti di scambio con gli altri attori del ciclo economico (fornitori, banche, lavoratori, intermediari commerciali, consumatori) alimentata dal ricorso al credito. Quanto alle norme che riguardano l'attività d'impresa unitariamente considerata, sussiste un particolare statuto professionale cui sono assoggettati gli imprenditori, fonte di diritti e obblighi peculiari e diversi da quelli che riguardano soggetti non imprenditori; statuto che risponde al fine unitario di rendere razionale ed efficiente il funzionamento delle singole imprese e del sistema imprenditoriale nel suo complesso. Il diritto commerciale moderno è appunto quella parte del diritto privato che ha per oggetto e regola l'attività 1 e gli atti di impresa (non solo di commercio o dei commercianti, ma di tutti gli imprenditori, quale che sia l'attività svolta). Se questo settore viene definito “commerciale” è solo per ragioni essenzialmente storiche. Il diritto commerciale è stato fin dalle sue origini ed è ancora oggi: a) diritto speciale; b) diritto tendente all'uniformità internazionale; c) diritto in continua evoluzione. 2. L'evoluzione storica del diritto commerciale La formazione di un sistema organico di diritto commerciale si ha a partire dalla fine del Medioevo (XII secolo), epoca in cui tramonta il sistema feudale basato su un'economia di pura sussistenza. Le città si ripopolano e si organizzano in liberi comuni. Si riaprono i mercati e rifiorisce l'economia di scambio alimentata dalla produzione degli artigiani e dai traffici dei mercanti. Per la difesa dei propri interessi artigiani e mercanti si organizzano nelle diverse Corporazioni di Arti e Mestieri, munite di poteri disciplinari sugli iscritti. In questo contesto politico e sociale, e dall'esigenza di una giustizia agile e rapida (resa secondo gli usi mercantili, e non in base al diritto comune) nasce il diritto commerciale: un diritto degli affari mercantili distinto dal diritto comune (allora diritto romano + diritto canonico). La soluzione delle controversie fra mercanti è affidata ad organi di giustizia (i consoli) in seno alle rispettive corporazioni, secondo regole dapprima consuetudinarie (ispirate all'equità e alla tutela del credito), che vengono poi trasfuse negli statuti delle corporazioni. Col peso via via acquisito dal ceto mercantile, questi statuti vengono poi estesi dapprima ai mercanti pur se non iscritti a quella corporazione, e poi anche ai non mercanti nelle controversie con mercanti. In tal modo si sviluppa e consolida (sino alla metà del '400) il diritto professionale dei mercanti, distinto e contrapposto al diritto comune. Nascono nel contempo nuovi contratti (ad es. il contratto di assicurazione e il contratto di cambio, quest'ultimo antecedente della moderna cambiale). Nascono inoltre nuovi istituti volti a razionalizzare e potenziare l'esercizio dell'attività mercantile (scritture contabili, disciplina degli ausiliari, disciplina della concorrenza). Nascono forme associative tipiche per l'esercizio in comune di attività mercantile (la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice). Nasce il fallimento che, in contrapposizione al principio di diritto comune della priorità temporale, chiama tutti i creditori a partecipare proporzionalmente (par condicio creditorum) alle perdite causate dall'insolvenza commerciale. Il diritto commerciale, formatosi in seno ai nostri Comuni, si espande territorialmente e si diffonde, col diffondersi dei traffici, in ogni zona dell'Europa continentale, divenendo un diritto internazionalmente uniforme. La successiva evoluzione del diritto commerciale, espressione e riflesso di più generali mutamenti del sistema economico e politico, si caratterizza per una duplice costante di fondo: a) la progressiva perdita del carattere originario di diritto creato dallo stesso ceto mercantile e formalmente separato dal diritto civile; 2 PARTE PRIMA: L'IMPRENDITORE Capitolo primo L'IMPRENDITORE 1. Il sistema legislativo Il legislatore dà una definizione generale di imprenditore all'art. 2082 c.c., anche se la disciplina non è identica per tutti gli imprenditori. Infatti, il codice civile distingue tra diversi tipi di imprese e di imprenditori in base a tre criteri: a) l'oggetto dell'impresa, che determina la distinzione fra imprenditore agricolo (art. 2135) e imprenditore commerciale (art. 2195); b) la dimensione dell'impresa, in base alla quale è individuato il piccolo imprenditore (art. 2083) e, di riflesso, l'imprenditore medio-grande; c) la natura del soggetto che esercita l'impresa, che determina la tripartizione fra impresa individuale, impresa societaria e impresa pubblica. Tutti gli imprenditori sono assoggettati a una disciplina comune (statuto generale dell'imprenditore) per quanto riguarda l'azienda (artt. 2555-2562), i segni distintivi (artt. 2563-2574), la concorrenza e i consorzi (artt. 2595-2620). Applicabile a tutti gli imprenditori è anche la disciplina a tutela della concorrenza e del mercato di cui alla legge 287/1990, nonché alle misure recentemente introdotte dal codice della crisi e dell'insolvenza (d.lgs. 14/2019). Chi è imprenditore commerciale non piccolo è poi assoggettato anche allo statuto dell'imprenditore commerciale, speciale e integrativo di quello generale e che concerne: l'iscrizione nel registro delle imprese (artt. 2188-2202), con effetti di pubblicità legale; la rappresentanza commerciale (artt. 2203-2213); le scritture contabili (artt. 2214-2220); la liquidazione giudiziale e il concordato preventivo (disciplinati dal codice della crisi), nonchè l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi (d.lgs. 270/1999 e d.l. 347/2003). Poche e scarsamente significative sono invece le disposizioni del codice civile applicabili esclusivamente all'imprenditore agricolo e al piccolo imprenditore. In particolare, quest'ultimo è sottratto all'applicazione della disciplina codicistica dell'imprenditore commerciale, anche se esercita attività commerciale. 2. La nozione di imprenditore Secondo la nozione generale di imprenditore data dall'art. 2082 c.c., è imprenditore chi esercita professionalmente un' attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Tale nozione traccia la linea di confine tra chi è imprenditore e chi non lo è, specialmente tra chi è imprenditore e chi è lavoratore autonomo. 5 L'art. 2082 fissa requisiti minimi che devono ricorrere affinchè un dato soggetto sia esposto all'applicazione delle norme del codice civile dettate per l'impresa e per l'imprenditore. E dall'art. 2082 si ricava che l'impresa è l'attività (serie coordinata di atti) caratterizzata da uno specifico scopo (produzione o scambio di beni o servizi) e da specifiche modalità di svolgimento (organizzazione, economicità, professionalità). È controverso se, oltre a questi requisiti, sia indispensabile: a) la liceità dell'attività; b) l'intento dell'imprenditore di ricavare un profitto (cd scopo di lucro); c) la destinazione al mercato dei beni o servizi prodotti. 3. L'attività produttiva L'impresa è l'attività (ossia la serie di atti) finalizzata alla produzione o allo scambio di beni o servizi. È dunque attività produttiva di nuova ricchezza, essendo invece irrilevanti la natura dei beni/servizi prodotti/scambiati e il tipo di bisogno che sono destinati a soddisfare. Può pertanto costituire attività d'impresa anche la produzione di servizi di natura assistenziale, culturale e ricreativa (case di cura, istituti di istruzione privata, imprese di pubblici spettacoli teatrali o sportivi). Non è impresa l'attività di mero godimento di beni e servizi preesistenti, in quanto non si dà luogo alla produzione di nuovi beni o servizi (classico esempio è quello del proprietario di immobili che ne gode i frutti concedendoli in locazione; non è imprenditore in quanto non produce nuove utilità economiche, ma si limita a godere i frutti dei propri beni). Può essere invece d'impresa l'attività produttiva che costituisca anche godimento di beni preesistenti: così è l'attività del proprietario di un immobile che adibisca lo stesso ad albergo o residence. In tal caso le prestazioni locative sono accompagnate dall'erogazione di servizi collaterali (pulizia locali, cambio biancheria, ecc.) che vanno oltre il mero godimento del bene. Altro esempio è quello di colui che impiega il proprio denaro nella compravendita di strumenti finanziari (il bene preesistente, cioè il proprio denaro, fatto circolare a scopo di investimento/speculazione o finanziamento a terzi). Se accompagnato dagli ulteriori requisiti della organizzazione e della professionalità, anche l'attività di speculazione/investimento o finanziamento a terzi possono dar vita ad un'impresa commerciale (ed infatti sono di certo imprese commerciali le società finanziarie). È infine opinione ormai prevalente che la qualità di imprenditore vada riconosciuta anche quando l'attività produttiva svolta sia illecita (cioè contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume), e ciò sia nei casi meno gravi (ad es. attività bancaria senza autorizzazione) che in quelli più gravi (ad es. fabbricazione o commercio di droga). Vero è anche che chi svolge attività d'impresa violando la legge non potrà beneficiare delle norme che tutelano l'imprenditore nei confronti dei terzi (ad es. le norme che disciplinano l'azienda, i segni distintivi e la concorrenza sleale). 4. L'organizzazione. Impresa e lavoro autonomo Non è concepibile attività di impresa senza organizzazione, ossia senza l'impiego coordinato di fattori 6 produttivi (capitale e lavoro propri e/o altrui). Certo, è normale e tipico che l'imprenditore crei un complesso produttivo formato da persone e beni (macchinari, locali, materie prime). Ma se ciò è normale, ciò che è essenziale affinchè una data attività produttiva possa dirsi organizzata in forma di impresa non è la presenza di lavoratori (pensiamo ad una gioielleria gestita dal solo titolare, o ad una lavanderia automatica a gettoni), bensì l'organizzazione di soli capitali e del proprio lavoro intellettuale e/o manuale. Inoltre, non è necessario che l'attività organizzata possegga un apparato aziendale composto di beni mobili e immobili (locali, macchinari, ecc.): è ad esempio sufficiente l'impiego di mezzi finanziari propri o altrui nelle attività di investimento/finanziamento. In definitiva, la qualità di imprenditore non può essere negata sia quando l'attività è esercitata senza l'ausilio di collaboratori, sia quando il coordinamento degli altri fattori produttivi (capitale e lavoro proprio) non si concretizza nella creazione di un complesso aziendale materialmente percepibile. Quello che si è detto non deve però portare a ritenere che la semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro possa essere considerata organizzazione di tipo imprenditoriale: in mancanza di un minimo di “eterorganizzazione” (impiego di lavoro altrui e/o di capitale) deve negarsi l'esistenza di un'impresa, sia pure piccola (il semplice lustrascarpe o elettricista autorganizzato non è imprenditore, in quanto al limite utilizza mezzi materiali strumentali all'esercizio di ogni attività, come telefono, automobile, ecc.). Il piccolo imprenditore non va confuso col lavoratore autonomo, in quanto è colui che esercita l'attività organizzata prevalentemente (e non esclusivamente come nel caso del lavoratore autonomo) col proprio lavoro e dei familiari. Dunque, in mancanza di un minimo di eterorganizzazione si avrà semplice lavoro autonomo non imprenditoriale. 5. Economicità dell'attività e scopo di lucro L'impresa è attività economica. Per aversi impresa è dunque essenziale che l'attività produttiva organizzata sia condotta con metodo economico , ossia secondo modalità che consentano quanto meno la copertura dei costi con i ricavi , ed assicurino l'autosufficienza economica. Altrimenti si ha consumo e non produzione di ricchezza (non è imprenditore che produce beni o servizi erogati gratuitamente o a “prezzo politico”, come avviene nel caso di un'associazione privata che gestisce a prezzo simbolico un ospedale o un istituto di istruzione). Perchè l'attività possa dirsi economica non è però essenziale che sussista lo scopo di lucro (ossia l'intento di ottenere un guadagno). Certo, lo scopo che normalmente anima l'imprenditore privato è la realizzazione del massimo profitto consentito dal mercato, ma non è un elemento essenziale perchè vi sia impresa. Dal momento che la nozione di imprenditore è unitaria, comprensiva sia dell'impresa privata che dell'impresa pubblica (art. 2093 c.c.), il metodo economico quale requisito essenziale accomuna tutte le imprese. Non c'è spazio per conferire carattere essenziale allo scopo lucrativo. 7 alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attivitò connesse” (1° comma); e specificava poi al 2° comma che “si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura”. Le attività agricole possono perciò essere distinte in due grandi categorie: a) attività agricole essenziali; b) attività agricole per connessione. E questa distinzione è rimasta anche con la nuova nozione di imprenditore agricolo introdotta dal d.lgs. 228 / 2001 (che ha modificato l'art. 2135 c.c.), che ha tuttavia di molto ampliato rispetto al testo originario sia le une che le altre. Dal 1942 ad oggi, col progresso tecnologico, l'impresa agricola fondata sul semplice sfruttamento della terra cede sempre più il passo all'agricoltura industrializzata, che ottiene prodotti spesso con metodi che prescindono del tutto dallo sfruttamento della terra (ad es. le coltivazioni artificiali o fuori terra di funghi e ortaggi, oppure gli allevamenti in batteria di bovini e pollame). Dunque, oggi anche l'attività agricola può dar luogo ad ingenti investimenti di capitali, e sollevare sul piano giuridico esigenze di tutela del credito non diverse da quelle alla base della disciplina delle imprese commerciali. In dottrina e in giurisprudenza si è formato in merito un netto contrasto di opinioni: da un lato vi era che riteneva che impresa agricola fosse ogni impresa che produce specie vegetali o animali sulla base di un ciclo biologico naturale; dall'altro vi era che riteneva che dovesse essere dato rilievo anche al modo di produzione tipico dell'agricoltore (sfruttamento della terra e delle sue risorse [soluzione preferita dal Campobasso]). Col d.lgs. 228/2001 il legislatore ha optato per la prima impostazione, e l'attuale art. 2135 c.c. ribadisce infatti, al 1° comma, che è imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: a) coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali (attività essenziali) e b) attività connesse. Subito specifica però al 2° comma che “per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine”. Dunque, si prescinde dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti (possono pertanto rientrare nelle attività agricole essenziali anche l'orticoltura, le coltivazioni in serra o in vivai, la floricoltura, la coltivazione di ortaggi e frutta anche fuori terra). Quanto alla selvicoltura, non costituisce attività agricola essenziale la semplice estrazione di legname dal bosco. La locuzione “allevamento di animali” ha ampliato la precedente di “allevamento di bestiame”, in quanto comprende non solo l'allevamento di animali tradizionalmente allevati sul fondo (bovini, caprini, equini e suini), ma anche l'allevamento di animali da cortile (polli, conigli, ecc.) e l'acquacoltura (pesci e mitili). Inoltre, per allevamento di animali si deve intendere non solo quello diretto ad ottenere prodotti tipicamente agricoli (carne, latte, lana), ma anche l'allevamento di cavalli da corsa, di animali da pelliccia, di gatti. 10 Costituisce attività agricola essenziale anche la zootecnia svolta fuori dal fondo (allevamenti in batteria). Infine, all'imprenditore agricolo essenziale è stato equiparato l'imprenditore ittico (che esercita attività di pesca professionale). 3. (Segue): Le attività agricole per connessione La seconda categoria di attività agricole è costituita dalle attività agricole per connessione. La disciplina previgente le individuava: a) in quelle dirette alla trasformazione o all'alienazione di prodotti agricoli che rientravano nell'esercizio normale dell'agricoltura; b) in tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l'allevamento di bestiame (ad es. agriturismo), per le quali, in mancanza di specificazione legislativa, si riteneva che le stesse dovessero rivestire carattere accessorio. Questa distinzione oggi è scomparsa, in quanto in base al 3° comma dell'attuale art. 2135 c.c. , con formula ben più ampia, si intendono comunque connesse: a) le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione di prodotti ottenuti prevalentemente da un'attività agricola essenziale; b) le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, comprese quelle di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale e le attività agrituristiche. Le une e le altre sono attività oggettivamente commerciali. Ed invero è industriale e non agricoltore chi di per sè produce olio e formaggi; è commerciante e non agricoltore che di per sé ha un negozio di frutta e verdura. Queste attività sono però considerate per legge attività agricole quando sono esercitate in connessione con una delle tre attività agricole essenziali. Perchè rientri tra le attività agricole per connessione è necessario che il soggetto che esercita un'attività di per sé commerciale sia già imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole tipiche e inoltre attività coerente con quella connessa (connessione soggettiva). È imprenditore commerciale chi trasforma o commercializza prodotti agricoli altrui. È imprenditore agricolo il viticoltore che produce e vende il proprio vino. La connessione soggettiva non è sufficiente. È altresì necessario che ricorra anche una connessione oggettiva fra le due attività, ossia che le attività di per sé commerciali abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dall'esercizio dell'attività agricola essenziale, oppure beni o servizi forniti mediante utilizzo prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda agricola. In breve, è sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per rilievo economico, sull0attività agricola essenziale. 4. L'imprenditore commerciale È imprenditore commerciale l'imprenditore che esercita una o più di queste attività di cui all'art. 2195, 1° comma, c.c.: 11 1) attività industriale diretta alla produzione di beni o servizi (imprese industriali, quali quelle automobilistiche, chimiche, edili, tessili, ecc.); 2) attività intermediaria nella circolazione dei beni (è il vasto settore del commercio); 3) attività di trasporto per terra, per acqua o per aria, sia di persone che di cose; 4) attività bancaria o assicurativa; 5) altre attività ausiliarie delle precedenti (ad es. imprese di agenzia, di mediazione, di deposito, di commissione, di spedizione, di pubblicità). Comunque, è opinione decisamente prevalente che detto elenco non sia tassativo, e che dovrà essere considerata commerciale ogni impresa che non sia qualificabile come agricola. B. PICCOLO IMPRENDITORE. IMPRESA FAMILIARE 5. Il criterio dimensionale. La piccola impresa Con riguardo al criterio dimensionale dell'impresa, il codice civile contrappone il piccolo imprenditore a quello medio-grande. Il piccolo imprenditore è sottoposto alo statuto generale dell'imprenditore, mentre è esonerato, anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili, e l'iscrizione al registro delle imprese, originariamente esclusa, ha solo funzione di pubblicità-notizia. Inoltre, l'imprenditore di modeste dimensioni (“imprenditore minore”) è esonerato dalla liquidazione giudiziale/fallimento nonché da quasi tutte le procedure concorsuali riservate all'imprenditore commerciale. Può tuttavia usufruire delle procedure concorsuali da “sovraindebitamento” (liquidazione controllata e concordato minore). Anche la nozione di piccolo imprenditore ha perciò nel sistema del codice civile rilievo essenzialmente negativo: serve per restringere ulteriormente l'ambito di applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale. La piccola impresa è destinataria di una ricca legislazione speciale ispirata alla finalità di favorirne la sopravvivenza con agevolazioni finanziarie, lavoristiche e tributarie. 6. Il piccolo imprenditore nel codice civile “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”. È questa la nozione di piccolo imprenditore data dall'art. 2083 c.c. L'ultima parte della norma è quella che enuncia il criterio generale di individuazione della categoria: la prevalenza del lavoro proprio e familiare costituisce il carattere distintivo di tutti i piccoli imprenditori, e vale anche per le tre figure tipiche ( coltivatori diretti del fondo, artigiani e piccoli commercianti ). Per aversi piccola impresa è perciò necessario che: a) l'imprenditore presti il proprio lavoro nell'impresa; 12 o amministrativo era riconosciuto. Il legislatore ha perciò voluto predisporre una tutela minima del lavoro familiare nell'impresa, applicabile qualora non sia configurabile un diverso rapporto giuridico (lavoro subordinato, società, ecc.). La tutela legislativa è realizzata riconoscendo ai membri della famiglia nucleare che lavorino in modo continuato nella famiglia o nell'impresa determinati diritti patrimoniali e amministrativi. Sono riconosciuti, sul piano patrimoniale, i seguenti diritti: a) diritto al mantenimento, anche se non dovuto ad altro titolo; b) diritto alla partecipazione agli utili dell'impresa in proporzione alla quantità del lavoro prestato nell'impresa o nella famiglia; c) diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell'azienda , anche dovuti a titolo di avviamento; d) diritto di prelazione sull'azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda stessa. Sul piano amministrativo è poi previsto che le decisioni in merito alla gestione straordinaria dell'impresa e talune altre decisioni di particolare rilievo (impiego degli utili e degli incrementi, fissazione degli indirizzi produttivi, cessazione dell'impresa) sino adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. È infine previsto che il diritto di partecipazione sia trasferibile solo a favore degli altri membri della famiglia nucleare e col consenso unanime dei familiari già partecipanti. È inoltre liquidabile in denaro qualora cessi la prestazione di lavoro ed in caso di alienazione dell'azienda. L'impresa familiare resta comunque individuale, per cui: a) i beni aziendali restano di proprietà esclusiva dell'imprenditore; b) i diritti patrimoniali dei partecipanti all'impresa familiare sono semplici diritti di credito nei confronti dell'imprenditore; c) gli atti di gestione ordinaria sono di competenza esclusiva dell'imprenditore. Inoltre, solo l'imprenditore (se commerciale e non “minore”) capo-famiglia sarà esposto alla liquidazione giudiziale in caso di dissesto. Ai sensi dell'art. 230ter c.c., introdotto nel 2016, al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente sono riconosciuti solo una parte dei diritti (prima non erano riconosciuti nemmeno quelli) spettanti ai membri dell'impresa familiare: partecipazione agli utili dell'impresa e diritti sui beni acquistati con essi, nonché sugli incrementi dell'azienda, il tutto commisurato al lavoro prestato. C. IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA 10. L'impresa societaria Le società sono le forme associative tipiche previste dall'ordinamento per l'esercizio collettivo di attività d'impresa. Esistono diversi tipi di società, e la società semplice, in particolare, è utilizzabile solo per l'esercizio di attività non commerciale, mentre gli altri tipi di società possono svolgere sia attività agricola 15 che attività commerciale (art. 2249 c.c.). Le società diverse dalla società semplice si definiscono società commerciali, e possono essere imprenditori agricoli o commerciali a seconda dell'attività esercitata. L'applicazione alle società commerciali degli istituti tipici dell'imprenditore commerciale segue regole parzialmente diverse da quelle valevoli per l'imprenditore individuale: a) parte della disciplina propria dell'imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia l'attività svolta (obbligo di iscrizione nel registro delle imprese e tenuta delle scritture contabili). Le società commerciali che svolgono attività agricola nonché quelle che svolgono attività commerciale, ma che non superano le soglie dimensionali dell'impresa minore di cui all'art. 2, 1° comma, cod. crisi impresa, sono esonerate dalla liquidazione giudiziale e dal concordato preventivo. In caso di svolgimento di attività agricola sono però sottoponibili al sistema delle procedure concorsuali dell'imprenditore agricolo (artt. 84 e 121 cod crisi impresa); b) nelle società in nome collettivo e in accomandita semplice parte della disciplina dell'imprenditore commerciale trova poi applicazione solo o anche nei confronti dei soci illimitatamente responsabili (tutti i soci nella società in nome collettivo; i soci accomandatari nella società in accomandita semplice); c) l'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti di una società in nome collettivo, di una società in accomandita semplice o di una società in accomandita per azioni, comporta automaticamente l'apertura della liquidazione giudiziale anche nei confronti dei singoli soci illimitatamente responsabili. 11. Le imprese pubbliche Attività d'impresa può essere svolta anche dallo Stato e dagli altri enti pubblici, attraverso tre forme di intervento nel settore dell'economia: a) lo Stato e gli altri enti pubblici possono anzitutto svolgere attività d'impresa servendosi di strutture di diritto privato, con la costituzione di o la partecipazione in società, generalmente per azioni (cd società a partecipazione pubblica). L'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale segue le regole esposte nel paragrafo precedente, qualora un soggetto pubblico eserciti attività d'impresa in forma societaria; b) la pubblica amministrazione può altresì dar vita ad enti di diritto pubblico il cui compito istituzionale esclusivo o principale sia l'esercizio di attività d'impresa (enti pubblici economici, che fino al 1990 costituivano il nucleo centrale delle imprese pubbliche, come l'INA, l'ENEL, l'Ente Ferrovie dello Stato e vari enti di gestione di partecipazioni statali, come IRI e ENI. Gli enti pubblici economici, se svolgono attività commerciale, sono sottoposti (oltre che allo statuto generale dell'imprenditore) allo statuto dell'imprenditore commerciale, con una sola eccezione: sono sottoposti alla liquidazione coatta amministrativa invece che alla liquidazione giudiziale; 16 c) lo Stato o altro ente pubblico territoriale (regioni, province, comuni) possono infine svolgere direttamente attività d'impresa, avvalendosi di proprie strutture organizzative prive di distinta soggettività, ma dotate di una più o meno ampia autonomia decisionale e contabile. In questi casi l'attività d'impresa è per definizione secondaria e accessoria rispetto ai fini istituzionali dell'ente pubblico. Si parla perciò di imprese-organo (ad es. le aziende municipalizzate erogatrici di servizi pubblici quali acqua, gas e trasporti urbani). Gli enti titolari di imprese-organo seguono le regole dello statuto generale dell'imprenditore (e se svolgono attività commerciale anche quelle dello statuto dell'imprenditore commerciale), ma sono esonerati dall'iscrizione nel registro delle imprese e dalle procedure concorsuali. A partire dal 1990 (sulla spinta del diritto europeo) è in atto un radicale processo di ristrutturazione del settore delle imprese pubbliche, in ragione del quale, con una serie di interventi legislativi, quasi tutti gli enti pubblici economici sono stati trasformati in società per azioni a partecipazione statale (cd privatizzazione formale). In tempi più recenti è stata avviata la dismissione delle partecipazioni pubbliche di controllo (cd privatizzazione sostanziale). 12. Attività commerciale delle associazioni e delle fondazioni. Gli enti del Terzo settore Le associazioni (riconosciute e non riconosciute), le fondazioni e, più in generale, tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici (ad es. gli enti religiosi) possono svolgere attività d'impresa, bastando, come già detto, che l'attività produttiva sia condotta con metodo economico. L'esercizio di attività commerciale da parte di tali enti può costituirne anche l'oggetto esclusivo o principale (ad es. una fondazione che svolge attività editoriale, o un'associazione che organizza spettacoli sportivi per divulgare la pratica di un dato sport). È però più frequente che l'attività commerciale presenti carattere accessorio rispetto all'attività ideale, vero oggetto principale dell'ente (ad es. un ente religioso che gestisce un istituto di istruzione privata). Da tempo era però avvertita l'esigenza di un quadro di regole più compiuto per le imprese gestite senza scopo di lucro in settori di interesse generale (cd imprese del Terzo settore). All'uopo, dapprima è stata disciplinata l'impresa sociale (d.lgs. 155/2006, poi sostituito dal d.lgs 112/2017), e poi tutta la materia è confluita nel codice del Terzo settore (d.lgs. 117/2017). Il codice del Terzo settore ha introdotto regole speciali che incidono sull'applicazione dello statuto dell'imprenditore commerciale agli enti del Terzo settore. In particolare: a) sono soggetti all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese solo gli enti del Terzo settore che esercitano la loro attività esclusivamente o principalmente in forma di impresa commerciale (art. 11, 2° comma, cod. ter.sett); b) tutti gli enti del Terzo settore sono tenuti a redigere annualmente il bilancio di esercizio (sia pure in forma molto semplificata per gli enti di minore dimensione), ma solo quelli che svolgono esclusivamente e principalmente attività commerciale devono tenere le scritture contabili (art. 13, 4° 17 2. Esercizio indiretto dell'attività di impresa. L'imprenditore occulto Come nel caso del mandato senza rappresentanza, anche gli atti d'impresa possono essere svolti da mandatario che agisce in nome proprio (senza spendita del nome altrui, dunque). Si verifica perciò una dissociazione tra il soggetto cui è formalmente imputabile la qualità di imprenditore e il reale interessato. È questo il fenomeno molto diffuso dell'esercizio dell'impresa tramite interposta persona: altro è colui che compie in nome proprio i singoli atti di impresa (imprenditore palese o prestanome); altro è il soggetto che somministra al primo i necessari mezzi finanziari, dirige di fatto l'impresa e fa propri tutti i guadagni (imprenditore indiretto o occulto). A questo espediente si può ricorrere per aggirare un divieto di legge (ad es. il divieto per gli impiegati dello Stato di esercitare attività d'impresa), oppure, più frequentemente, per non esporre al rischio d'impresa tutto il proprio patrimonio personale. Finchè gli affari prosperano non c'è problema. Vi sono invece gravi problemi quando gli affari vanno male e il prestanome è una persona fisica nullatenente, oppure una società con capitale irrisorio (società di comodo). È fuori dubbio che i creditori potranno provocare l'apertura della liquidazione giudiziale/fallimento nei confronti del prestanome (dato che ha agito in nome proprio, acquistando, perciò, la qualità di imprenditore commerciale). Ma se il prestanome non ha un patrimonio sufficiente a soddisfare i creditori, quali i rimedi? [Teoria dell'imprenditore occulto] Parte della dottrina ha ritenuto di poter neutralizzare i pericoli per i creditori insiti nella rigorosa applicazione del principio della spendita del nome (secondo il quale, si ricorda, obbligato e responsabile è solo colui che ha agito in proprio nome), sostenendo che per l'attività d'impresa nel nostro ordinamento giuridico è espressamente sanzionata l'inscindibilità del rapporto potere- responsabilità: chi esercita il potere di direzione di un'impresa ne assume anche il rischio, con la conseguenza che responsabili verso i creditori sono tanto il prestanome quanto il reale dominus , che acquisterebbe la qualità di imprenditore, ancorchè occulto; entrambi sarebbero soggetti alla liquidazione giudiziale. [Critica] La teoria dell'imprenditore occulto ha però incontrato scarsi consensi, in quanto il collegamento inscindibile fra potere e rischio d'impresa è smentita dai princìpi che regolano le società di capitali : in queste è sempre individuabile un socio o un gruppo di soci che di fatto controlla e dirige la società, ma in quanto tali non sono chiamati a rispondere personalmente dei debiti della società, dato che altrimenti verrebbe meno il sistema di responsabilità limitata che costituisce cardine delle società di capitali. Ne consegue che, nel nostro ordinamento, il dominio di fatto di un'impresa individuale o di una società di capitali non è condizione sufficiente per esporre a responsabilità e alla liquidazione giudiziale, né tantomeno determina di per sé l'acquisto della qualità di imprenditore. Ma altro è respingere l'automatica equazione dominio di fatto-responsabilità illimitata-esposizione alla liquidazione giudiziale, altro è accettare supinamente abusi e comportamenti fraudolenti senza porre un argine alle tendenza a trarre indebito vantaggio dall'utilizzo di schermi formali. [Tesi dell'impresa fiancheggiatrice] Diverse tecniche alternative sono state proposte per affermare la 20 responsabilità personale e l'esposizione alla liquidazione giudiziale di chi abusi della posizione di dominio su una società di capitali, cioè di chi tratta la stessa come cosa propria con assoluto disprezzo delle regole societarie attraverso una serie di comportamenti tipici (sistematico finanziamento della società con prestiti o con la concessione di garanzie a suo favore; sistematica ingerenza negli affari sociali; direzione di fatto secondo un disegno unitario di una o più società paravento). In questi casi, la giurisprudenza ritiene che questi comportamenti possano dar luogo ad un' autonoma attività d'impresa: un'impresa di finanziamento e/o di gestione diversa e distinta dall'attività d'impresa della o delle società dominate. Pertanto, e sempre che ricorrano i requisiti fissati dall'art. 2082 c.c. (organizzazione, professionalità, metodo economico) il socio che ha abusato dello schermo societario risponderà come titolare di un'autonoma attività d'impresa commerciale individuale per le obbligazioni da lui contratte dello svolgimento dell'attività fiancheggiatrice della società di capitali e, in quanto, tale potrà essere soggetto, in caso di insolvenza della sua impresa, alla liquidazione giudiziale. B. INIZIO E FINE DELL'IMPRESA 3. L'inizio dell'impresa La qualità di imprenditore si acquista con l' effettivo inizio dell'esercizio dell'attività d'impresa (l'iscrizione nel registro delle imprese non è condizione necessaria né sufficiente, come non lo sono eventuali richieste di autorizzazioni amministrative). Questo principio è pacifico per le persone fisiche. È invece convincimento diffuso che le società acquisterebbero la qualità di imprenditori fin dal momento della loro costituzione, e quindi anche prima dell'effettivo inizio dell'attività produttiva. L'ipotizzata diversità di trattamento non è però da condividere e il principio dell'effettività deve trovare applicazione anche per le società. È poi da tener presente che l'effettivo inizio dell'attività d'impresa è spesso preceduto da una fase preliminare di organizzazione più o meno lunga e complessa (affitto dei locali, acquisto di macchinari, assunzione di lavoratori, ecc.). Da qui il problema se si diventa imprenditori già durante la fase preliminare di organizzazione e prima del compimento del primo atto di gestione. La risposta è affermativa, se gli atti di organizzazione, per il loro numero e la loro significatività, manifestano in modo non equivoco lo stabile orientamento dell'attività verso un determinato fine produttivo (professionalità). Nel caso di una società, organismo di durata programmato per lo svolgimento di una determinata attività d'impresa, anche un solo atto di organizzazione imprenditoriale, specie se particolarmente qualificato, potrà essere sufficiente per affermare che l'attività d'impresa è iniziata (ad es. una società alberghiera acquista un'area fabbricabile). 4. La fine dell'impresa Gli orientamenti manifestati in tema di inizio dell'impresa erano in passato riproposti in modo speculare per 21 la fine dell'impresa. Per quanto riguarda l'imprenditore individuale, la giurisprudenza affermava che la fine dell'impresa era dominata dal principio di effettività (la stessa cancellazione dal registro delle imprese non determinava di per sé la perdita della qualità di imprenditore). È da tenere presente che la fine dell'impresa è di regola preceduta da una fase di liquidazione più o meno lunga; nessuno dubitava che la fase di liquidazione costituisse ancora esercizio dell'impresa, e che la perdita della qualità di imprenditore si avesse solo con la chiusura della liquidazione. Tuttavia, la fase della liquidazione può ritenersi chiusa solo con la definitiva disgregazione del complesso aziendale, che rende irrevocabile la cessazione. Per l'imprenditore individuale la giurisprudenza correttamente riconosceva che non era necessaria la completa definizione dei rapporti sorti durante l'esercizio dell'impresa (cioè che fossero stati riscossi tutti i crediti e pagati tutti i debiti). Per le società, la giurisprudenza era irremovibile nell'affermare che non rilevasse il momento di effettiva cessazione dell'attività d'impresa, bensì fosse necessaria la cancellazione dal registro delle imprese ed anche la completa definizione dei rapporti pendenti: fino a quando non fosse stato pagato l'ultimo debito, la società doveva ritenersi ancora esistente (benchè cancellata dal registro delle imprese) ed esposta al fallimento. Ma l'art. 10 della legge fallimentare prevedeva che il fallimento di un'impresa potesse essere dichiarato entro un anno della cessazione dell'attività, mentre quanto previsto dalla giurisprudenza per le società svuotava di fatto tale norma. L'irragionevole disparità di trattamento, che prevedeva l'applicazione dell'art. 10 l.f. in pratica solo per gli imprenditori individuali, portò la Corte costituzionale dapprima a dichiarare incostituzionale l'art. 10 l.f. perchè non prevedeva che il termine annuale decorresse per le società al momento della cancellazione dal registro delle imprese, e poi ad affermare che analogo principio (decorrenza dell'anno dalla cancellazione) dovesse valere anche per l'imprenditore individuale, fatta salva in questo caso, però, la possibilità per i creditori di dimostrare la prosecuzione dell'attività d'impresa anche dopo la cancellazione. Tali interventi della Consulta sono stati il preludio della riforma negli anni 2006/2007 della norma contestata, oggi sostituita dall'art. 33 cod. crisi impresa. L'art. 33 CCI dispone ora che la liquidazione giudiziale può essere aperta entro un anno dalla cessazione dell'attività, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo; la cessazione dell'attività coincide con la cancellazione dal registro delle imprese oppure, nel caso di imprenditori non iscritti, dal momento in cui i terzi hanno conoscenza della cessazione stessa. In caso di impresa individuale , o di cancellazione d'ufficio delle imprese collettive, è fatta salva per il creditore o per il pubblico ministero la possibilità di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività, da cui fare decorrere il termine annuale. Dunque, riassumendo:  per l'imprenditore iscritto nel registro delle imprese che non si cancella, il termine annuale per lui non decorre;  per l'imprenditore iscritto che si cancella, o viene cancellato d'ufficio, è prevista la possibilità per i 22 Il registro delle imprese è lo strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali non piccole e delle società commerciali previsto dal codice civile del 1942. Per oltre 50 anni l'istituto è restato inoperante (nel regime transitorio le iscrizioni avvenivano presso i registri di cancelleria presso il tribunale). Con la legge 580/1993, e col regolamento di attuazione d.p.r. 581/1995, è stato finalmente istituito il registro delle imprese (operativo dal 1997). Sono stati aboliti altri registri (il Busarl per società per azioni e società a responsabilità limitata, il Busc per le cooperative e il registro delle ditte), e l'unico strumento di pubblicità legale delle imprese commerciali è oggi costituito pertanto solo dal registro delle imprese. Va però precisato che: a) l'attuale registro delle imprese è anche strumento di informazione sui dati organizzativi di tutte le altre imprese (pubblicità notizia); peraltro, oggi è prevista l'iscrizione con effetto di pubblicità legale anche per le imprese agricole (art. 2 d.lgs. 228/2001); b) la tenuta del registro delle imprese è affidata alle Camere di commercio; c) il registro delle imprese è tenuto con tecniche informatiche. 3. Il registro delle imprese Il registro delle imprese è istituito in ciascuna provincia presso la Camera di commercio. L'attività dell'ufficio è svolta sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale del capoluogo di provincia. Il registro è articolato in una sezione ordinaria e in varie sezioni speciali. Nella sezione ordinaria sono iscritti: 1) gli imprenditori individuali commerciali non piccoli; 2) tutte le società tranne la società semplice, anche se non svolgono attività commerciale; 3) i consorzi fra imprenditori con attività esterna; 4) i gruppi europei di interesse economico con sede in Italia; 5) gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale; 6) le società estere con in Italia la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale dell'attività. Vi sono poi varie sezioni speciali:  sezione speciale degli imprenditori agricoli, dei piccoli imprenditori e delle società semplici. Nella stessa sezione sono poi annotati gli imprenditori artigiani, già iscritti nel relativo albo;  sezione speciale delle società tra professionisti (con efficacia di pubblicità notizia);  sezione speciale dei soggetti che esercitano attività di direzione e coordinamento (gruppi di società), nelle quali vengono indicati anche le società soggette alla direzione e al coordinamento;  sezione speciale delle imprese sociali;  sezione speciale delle start-up innovative; 25  sezione speciale delle piccole e medie imprese innovative (PMI innovative, che presentano indici di propensione tecnologica simili ma meno rigorosi di quelli fissati per la start-up innovative e che, diversamente da queste ultime, possono essere costituite anche non di recente). I fatti e gli atti da registrare sono diversi a seconda della struttura soggettiva dell'impresa (artt. 2196, 2197, 2198 e 2200 c.c.). Essenzialmente comprendono dati di individuazione dell'impresa (dati anagrafici dell'imprenditore, ditta, oggetto, sede principale ed eventuali sedi secondarie, inizio e fine dell'attività, ecc.), nonché dati sulla struttura e l'organizzazione delle società (atto costitutivo e sue modifiche, nomina e revoca di amministratori, sindaci e liquidatori). Non è consentita l'iscrizione di atti non previsti dalla legge. Le iscrizioni vanno fatte nel registro delle imprese della provincia in cui ha sede l'impresa, e negli atti e nella corrispondenza deve essere indicato il registro presso la quale è avvenuta l'iscrizione (artt. 2199 e 2250 c.c.). L'iscrizione è eseguita su richiesta dell'interessato, ma può avvenire anche d'ufficio se l'iscrizione è obbligatoria e l'interessato non vi provvede (art. 2190 c.c.). E d'ufficio può essere disposta anche la cancellazione, qualora manchino le condizioni per l'iscrizione (art. 2191 c.c.). Prima di procedere all'iscrizione, l'ufficio del registro deve controllare la regolarità formale della documentazione, nonché l'esistenza e la veridicità dell'atto o del fatto (regolarità sostanziale). L'ufficio non può invece rilevare cause di nullità o annullabilità dell'atto. Inoltre, nel caso di atto pubblico o scrittura privata autenticata, il conservatore del registro deve procedere ad iscrizione immediata (salvo che per le società per azioni), in quanto il controllo di legalità è effettuato dal pubblico ufficiale che ha ricevuto o autenticato l'atto. Per quanto riguarda gli effetti, l'iscrizione nella sezione ordinaria ha funzione di pubblicità legale; serve perciò non solo a rendere conoscibili i dati pubblicati, ma ha anche, a seconda dei casi, efficacia dichiarativa, costitutiva o normativa.  Di regola ha efficacia dichiarativa, cioè rileva sul piano dell'opponibilità dell'atto o del fatto, già al momento stesso dell'iscrizione (cd efficacia positiva immediata), e i terzi non potranno addurre la non conoscibilità dell'atto/fatto (per le società di capitali l'opponibilità è piena una volta decorsi 15 giorni dall'iscrizione). L'omessa iscrizione impedisce l'opponibilità dell'atto/fatto (cd efficacia negativa), ma l'imprenditore potrà provare che i terzi sono comunque a conoscenza dell'atto/fatto.  L'iscrizione ha efficacia costitutiva totale (ossia vale sia per le parti che per i terzi) per gli atti costitutivi delle società di capitali (artt. 2331 e 2463, 3° comma, c.c.) e delle società cooperative (art. 2523, 2° comma, c.c.): senza iscrizione tali società non vengono ad esistenza. Ha invece efficacia costituiva parziale (ossia vale solo nei confronti dei terzi) la registrazione della deliberazione di riduzione del capitale sociale di una società in nome collettivo (art. 2306 c.c.): l'omissione impedisce il decorso del termine di tre mesi entro il quale i creditori possono proporre opposizione, per cui la riduzione del capitale è nei loro confronti inefficace.  In altri casi l'iscrizione, pur non avendo efficacia costitutiva, è condizione per la piena applicazione di un determinato regime giuridico (efficacia normativa). È il caso della società in nome collettivo e 26 della società in accomandita semplice che, in mancanza di iscrizione, seppur esistenti, sono definite irregolari: non si applica la disciplina loro relativa, bensì quella più gravosa (per i soci) dettata per la società semplice (artt. 2297 e 2317 c.c.). L'iscrizione nella sezione speciale del registro produce di regola solo una funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia. Tuttavia, l'art. 2 d.lgs. 228/2001 di riforma della disciplina dell'impresa agricola ha stabilito che l'iscrizione nella sezione speciale per gli imprenditori agricoli (piccoli, grandi, in forma societaria) ha anche efficacia di pubblicità legale. Venuta meno la netta distinzione tra sezione ordinaria e sezione speciale, che era stata propria della legge del 1993 istitutiva del registro delle imprese (nella sezione ordinaria si iscrivevano gli imprenditori commerciali non piccoli e con funzione di pubblicità legale, mentre nelle sezioni speciali si iscrivevano le altre imprese con sola funzione di pubblicità notizia), torna il disordine... B. LE SCRITTURE CONTABILI 4. L'obbligo di tenuta delle scritture contabili Le scritture contabili sono i documenti che contengono la rappresentazione, in termini quantitativi e/o monetari, dei singoli atti d'impresa, della situazione del patrimonio dell'imprenditore e del risultato economico dell'attività svolta. La tenuta delle scritture contabili è elevata ad obbligo ed è legislativamente disciplinata per gli imprenditori commerciali (art. 2214 c.c.), con esclusione dei piccoli imprenditori e degli enti del Terzo settore che svolgono attività d'impresa in via secondaria o accessoria. Le società commerciali (non dunque la società semplice) sono obbligate alla tenuta della contabilità anche se non svolgono attività commerciale, così come pure le imprese sociali. 5. Le scritture contabili obbligatorie L'art. 2214 c.c. pone il principio generale che l'imprenditore debba tenere tutte le scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell'impresa. Stabilisce che, in ogni caso, debbano essere tenuti il libro giornale e il libro degli inventari. Devono infine essere ordinatamente conservati, per ciascun affare, gli originali della corrispondenza commerciale (lettere, fatture, telegrammi) ricevuta, e copia di quella spedita. Il libro giornale è un registro cronologico-analitico in cui devono essere indicate giorno per giorno le operazioni relative all'esercizio dell'impresa (art. 2216 c.c.). Non devono per forza essere registrate il giorno stesso del compimento dell'operazione, bastando la loro registrazione nell'ordine in cui le operazioni sono compiute. Il libro degli inventari è invece un registro periodico-sistematico che deve essere redatto all'inizio dell'esercizio dell'impresa e poi ogni anno. Ha la funzione di fornire il quadro della situazione patrimoniale dell'imprenditore; deve perciò contenere l'indicazione e la valutazione delle attività e delle passività 27 esorbitano dalla gestione dell'impresa quali, ad esempio, la vendita o l'affitto dell'impresa, il cambiamento dell'oggetto dell'attività. Inoltre, gli è vietato di alienare o ipotecare immobili del preponente, se non specificamente autorizzato. La rappresentanza processuale è sia attiva che passiva, per le obbligazioni dipendenti da atti compiuti nell'esercizio dell'impresa, e così tanto per gli atti da lui compiuti che per quelli compiuti dall'imprenditore. I poteri rappresentativi dell'institore, legislativamente determinati, possono essere ampliati o limitati dall'imprenditore con apposito atto da pubblicarsi nel registro delle imprese, condizione per la loro opponibilità a terzi (artt. 2206 e 2207 c.c.), salva la prova da parte dell'imprenditore che i terzi ne fossero comunque a conoscenza al momento della conclusione dell'affare. Stessi principi valgono per la revoca della procura all'institore. Se l'institore, nel trattare coi terzi, omette di spendere il nome dell'imprenditore, è personalmente obbligato; tuttavia, obbligato è anche l'imprenditore preponente quando gli atti compiuti dall'institore siano pertinenti all'esercizio dell'impresa cui è preposto (art. 2208 c.c.). Trattasi di particolare tutela dell'affidamento dei terzi, dal rischio di comportamenti dell'institore che possano generare incertezze circa il reale dominus dell'affare. 9. I procuratori I procuratori sono coloro che, in base ad un rapporto continuativo, abbiano il potere di compiere per l'imprenditore gli atti pertinenti all'esercizio dell'impresa, pur non essendo preposti ad esso (art. 2209 c.c.). Sono quindi ausiliari subordinati di grado inferiore rispetto all'institore in quanto, a differenze di questo: a) non sono posti a capo dell'impresa o di una sede o di un ramo di essa; b) pur essendo degli ausiliari con funzioni direttive, il loro potere decisionale è circoscritto ad un determinato settore operativo dell'impresa (ad es. direttore del settore acquisiti, dirigente del personale, direttore del settore pubblicità). In mancanza di specifiche limitazioni iscritte nel registro delle imprese, i procuratori sono ex lege investiti di un potere di rappresentanza generale rispetto alla specie di operazioni per le quali sono investiti di autonomo potere decisionale. E così, ad esempio, il dirigente del settore acquisti potrà compiere in nome dell'imprenditore tutti gli atti che rientrano in tale funzione, ma non per quanto riguarda il settore pubblicità o il settore del personale. Inoltre, il procuratore non ha rappresentanza processuale, non è soggetto agli obblighi di iscrizione nel registro delle imprese e di tenuta delle scritture contabili. Infine, l'imprenditore non risponde per gli atti compiuti dal procuratore (ancorchè pertinenti all'esercizio dell'impresa) senza spendere il nome dell'imprenditore stesso 10. I commessi I commessi sono ausiliari subordinati cui sono affidate mansioni esecutive o materiali che li pongono a contatto coi terzi (commesso di un negozio, impiegato di banca allo sportello, cameriere di bar o ristorante). 30 Ai commessi è riconosciuto un potere di rappresentanza ex lege più limitato rispetto a quello di institori e procuratori, in quanto i commessi possono compiere gli atti che ordinariamente comporta la specie di operazioni di cui sono incaricati (art. 2210, 2° comma, c.c.). In particolare, i commessi: a) non possono esigere il prezzo delle merci delle quali non facciano la consegna, né concedere dilazioni o sconti che non siano d'uso; b) se preposti alla vendita nei locali dell'impresa, non possono esigere il prezzo fuori dei locali stessi (salvo che consegnino quietanza firmata dall'imprenditore), né possono esigerlo all'interno dell'impresa se alla riscossione è destinata apposita cassa. L'imprenditore può ampliare o limitare detti poteri, ma in questo caso non è previsto un sistema di pubblicità legale: le limitazioni saranno opponibili ai terzi solo se portate a loro conoscenza con mezzi idonei (ad es. avvisi affissi nei locali dei vendita), o se si prova l'effettiva conoscenza. * * Capitolo quinto L'AZIENDA 1. La nozione di azienda. Organizzazione e avviamento L'azienda è il complesso di beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa (art. 2555 c.c.). L'azienda costituisce quindi, sotto il profilo giuridico, l'apparato strumentale (locali, macchinari, attrezzature, materie prime, merci, ecc.) di cui l'imprenditore si avvale per lo svolgimento e nello svolgimento della propria attività. Per qualificare un bene come aziendale è rilevante solo la destinazione data dall'imprenditore, mentre è irrilevante il titolo giuridico che legittima l'imprenditore ad utilizzare un bene nel processo produttivo. Non sono beni aziendali, pertanto, i beni di proprietà dell'imprenditore non destinati all'attività d'impresa (ad es. l'abitazione di proprietà dell'imprenditore), mentre lo sono, invece, beni di terzi impiegati nell'impresa (ad es. i locali dell'impresa presi in affitto o il macchinario in leasing). L'azienda è dunque un insieme di beni eterogenei (mobili e immobili, materiali e immateriali, fungibili e infungibili) cui viene data dall'imprenditore (che li organizza) la destinazione a uno specifico fine produttivo (l'attività d'impresa) e che vengono perciò a costituire un' unità funzionale. Organizzazione e destinazione ad un fine produttivo attribuiscono ai beni costituiti in azienda e all'azienda stessa nel suo complesso uno specifico e particolare rilievo economico, prima ancora che giuridico, in quanto consentono la produzione di utilità nuove (cd valore o piano dinamico dell'azienda, mentre il piano statico consiste nella semplice somma dei beni aziendali), diverse e maggiori di quelle ricavabili dai singoli beni isolatamente considerati. Detto valore, detto anche valore di scambio, è maggiore della somma del valore 31 dei singoli beni, e viene anche definito avviamento. L'avviamento di un'azienda è dunque rappresentato dalla sua attitudine a consentire la realizzazione di un profitto, e di regola dipende:  da fattori oggettivi (cd avviamento oggettivo): tale avviamento è ricollegabile a fattori che permangono anche se muta il titolare dell'azienda in quanto insiti nel coordinamento esistente fra i diversi beni (ad es. la capacità di un complesso industriale di consentire una produzione a costi competitivi sul mercato);  da fattori soggettivi (cd avviamento soggettivo): tale avviamento è dovuto all'abilità dell'imprenditore nel formarsi, conservare ed accrescere la clientela. L'importanza dell'unità economica dell'azienda trova significativo riconoscimento nella disciplina dettata dal codice civile per il trasferimento dell'azienda (artt. 2556 – 2562 c.c.). Il trasferimento a titolo definitivo (ad es. vendita) o temporaneo (ad es. usufrutto ed affitto) dell'azienda comporta peculiari effetti (divieto di concorrenza del cedente, successione nei contratti aziendali, ecc.) volti a favorire la conservazione dell'unità economica e del valore di avviamento dell'azienda, a tutela di coloro che su tale unità e valore hanno fatto specifico affidamento (acquirente dell'azienda, lavoratori e creditori). 2. La circolazione dell'azienda. Oggetto e forma L'azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura. Può essere venduta, conferita in società, donata, e sulla stessa possono essere costituiti diritti reali (usufrutto) o personali (affitto) di godimento in favore di terzi. L'imprenditore può compiere anche atti di disposizione relativi a uno o più beni aziendali. È perciò importante stabilire in concreto se un determinato atto di disposizione dell'imprenditore sia qualificabile come trasferimento di azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali, perchè solo nel primo caso si applicherà la disciplina speciale dettata per la circolazione dell'azienda. Per aversi trasferimento d'azienda non è necessario che l'atto di disposizione comprenda l'intero complesso aziendale; può comprendere infatti anche solo un ramo dell'azienda, purchè dotato di organicità operativa. Infatti, necessario e sufficiente è che sia trasferito un insieme di beni potenzialmente idoneo per l'esercizio di una determinata attività d'impresa (anche diversa da quella svolta dal trasferente). È però necessario che i beni esclusi dal trasferimento non alterino l'unità economica e funzionale dell'azienda subentrante. Per la validità del trasferimento, è richiesto il rispetto delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento dei singoli beni che compongono l'azienda (dunque per il trasferimento di beni immobili è necessaria, a pena di nullità, la forma scritta ex art. 1350, n. 1, c.c.), o per la particolare natura del contratto (il conferimento dell'azienda in una società di capitali richiede l'atto pubblico, art. 2328 c.c.). Tale regola vale sia per le aziende commerciali che per quelle agricole. Per le imprese soggette a registrazione con efficacia di pubblicità legale (non quindi per le piccole imprese che svolgano attività commerciale) è poi previsto che ogni atto di disposizione dell'azienda debba essere provato per iscritto (art. 2556, 1° comma, c.c.). 32 anche l'acquirente dell'azienda (responsabilità solidale con l'alienante), se essi risultano dai libri contabili obbligatori (art. 2560, 2° comma, c.c.). Disciplina diversa e più favorevole per i lavoratori è invece prevista per i debiti di lavoro: di questi l'acquirente risponde, in solido con l'alienante, anche se non risultano dalle scritture contabili (ed oggi anche se l'acquirente non ne ha avuto conoscenza all'atto del trasferimento, art. 2112, 2° comma, nuovo testo), anche per aziende non commerciali. Quanto ai rapporti interni tra alienante e acquirente, prevale negli orientamenti più recenti la tesi che crediti e debiti aziendali non passino automaticamente in testa all'acquirente, ma sia a tal fine necessaria un'espressa pattuizione. 6. Usufrutto e affitto dell'azienda La costituzione in usufrutto di un complesso di beni destinati allo svolgimento di attività d'impresa comporta il riconoscimento in testa all'usufruttuario di particolari poteri-doveri (art. 2561 c.c.). Ciò sia per consentire all'usufruttuario la libertà operativa necessaria per gestire proficuamente l'impresa, sia per tutelare l'interesse del concedente a che non sia menomata l'efficienza del complesso aziendale, che dovrà tornare a lui alla fine del rapporto. L'usufruttuario deve infatti esercitare l'azienda sotto la ditta che la contraddistingue, senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte. La violazione di tali obblighi determina la cessazione dell'usufrutto per abuso dell'usufruttuario. Il potere-dovere di gestione dell'usufruttuario comporta che lo stesso non solo può godere dei beni aziendali, ma ha anche il potere di disporne nei limiti segnati dalle esigenze della gestione, così come potrà acquistare ed immettere nell'azienda nuovi beni. Al termine dell'usufrutto l'azienda perciò risulterà composta in tutto o in parte da beni diversi da quelli originari (è a tal fine previsto che venga redatto un inventario all'inizio e alla fine dell'usufrutto, e che la differenza venga regolata in denaro, sulla base dei valori correnti al termine dell'usufrutto). La disciplina prevista per l'usufrutto si applica anche all' affitto dell'azienda, per l'espresso rinvio operato dall'art. 2562 c.c. L'affitto d'azienda è contratto diverso dalla locazione di un immobile destinato all'esercizio di attività d'impresa: nel primo caso, oggetto del contratto è un complesso di beni organizzati, eventualmente comprensivo dell'immobile; nel secondo caso, il contratto ha per oggetto il locale in quanto tale. Usufrutto e affitto d'azienda sono poi parzialmente regolati dalle norme precedentemente esaminate in tema di vendita. Si applicano ad entrambi il divieto di concorrenza e la disciplina della successione nei contratti aziendali. Il nudo proprietario e il locatore sono perciò tenuti a non iniziare una nuova impresa idonea a sviare la clientela per la durata dell'usufrutto o dell'affitto. Si applica invece solo all'usufrutto la disciplina dei crediti aziendali. 35 Non si applica infine né all'usufrutto né all'affitto d'azienda la disciplina spceiale dettata per i debiti aziendali: dunque rispondono per i debiti solo il nudo proprietario o il locatore, salvo che per i debiti di lavoro, accollati dalla legge anche al titolare del diritto di godimento (art. 2112, 4° comma, c.c.). * * Capitolo sesto I SEGNI DISTINTIVI 1. Il sistema dei segni distintivi Il mercato vede di regola coesistere più imprenditori che producono e/o distribuiscono beni o servizi similari o identici. Ciascun imprenditore, perciò, utilizza di regola uno o più segni distintivi che consentano di individuarlo sul mercato e distinguerlo da altri imprenditori concorrenti. La ditta, l' insegna e il marchio sono i tre principali segni distintivi dell'imprenditore e “collettori” di clientela (perchè consentono al pubblico di distinguere i vari operatori e di operare scelte consapevoli).  La ditta contraddistingue la persona dell'imprenditore nell'esercizio dell'impresa (cd nome commerciale).  L'insegna individua i locali in cui l'attività d'impresa viene esercitata.  Il marchio individua e distingue i beni o i servizi prodotti. Crescente rilievo va acquistando, inoltre, il nome a dominio (domain name), che individua un sito internet usato nell'attività economica. Intorno ai segni distintivi ruotano diversi e confliggenti interessi: l'interesse degli imprenditori di precludere ai concorrenti l'uso di segni similari idonei a sviare la propria clientela; l'interesse degli stessi imprenditori a poter cedere liberamente ad altri i propri segni distintivi; l'interesse di quanti entrano in contatto (fornitori, finanziatori, consumatori) a non essere tratti in inganno sull'identità dell'imprenditore o sulla provenienza dei prodotti immessi sul mercato. Su tutti questi interessi domina infine il più ampio e generale interesse a che la competizione concorrenziale si svolga in modo ordinato e leale. La disciplina del marchio è oggi dettata dagli artt. 2569-2574 c.c. e dal codice della proprietà industriale (d.lgs. 30/2005). La ditta è invece regolata dagli artt. 2563-2567 c.c., mentre all'insegna è dedicato l'art. 2568 c.c. Dalle indicate discipline è possibile desumere taluni princìpi comuni applicabili per analogia agli altri simboli di identificazione sul mercato utilizzati dall'imprenditore (cd segni distintivi atipici) quali, ad esempio, lo slogan pubblicitario. Questi i princìpi: a) l'imprenditore gode di ampia libertà nella formazione dei propri segni distintivi. È tenuto però a 36 rispettare i princìpi di verità, novità e capacità distintiva; b) l'imprenditore ha diritto all'uso esclusivo dei propri segni distintivi; trattasi di diritto relativo e strumentale alla realizzazione della funzione distintiva rispetto ai concorrenti; per cui non può impedire che altri adottino lo stesso segno distintivo quando, per la diversità delle attività d'impresa o per la diversità dei mercati serviti, non vi è pericolo di confusione e di sviamento della clientela; c) l'imprenditore può trasferire ad altri i propri segni distintivi, pure con regole volte ad evitare che la circolazione dei segni distintivi possa trarre in inganno il pubblico. A. LA DITTA 2. Formazione e contenuto del diritto sulla ditta La ditta è il nome commerciale dell'imprenditore, e lo individua come soggetto di diritto nell'esercizio dell'attività d'impresa. Ed è segno distintivo necessario in quanto, in mancanza di diversa scelta, essa coincide col nome civile dell'imprenditore. Non è però necessario che la ditta corrisponda al nome civile (nel qual caso si definisce ditta patronimica): essa può essere liberamente scelta dall'imprenditore, con il rispetto dei princìpi di verità e novità. Quanto al principio di verità (art. 2563 c.c.):  se si tratta di ditta originaria essa deve contenere almeno il cognome o la sigla dell'imprenditore (restando questi libero poi di completarla come preferisce);  se si tratta di ditta derivata (ossia formata da un dato imprenditore e poi trasferita ad altro imprenditore insieme all'azienda) la verità è solo una verità “storica”, in quanto nessuna disposizione impone a chi la utilizzi di integrarla col proprio nome. Quanto al principio di novità (art. 2564 c.c.), la ditta non deve essere uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e tale da creare confusione per l'oggetto dell'impresa o per il luogo in cui questa è esercitata. Chi ha adottato per primo una certa ditta ha perciò diritto all'uso esclusivo della stessa, mentre chi successivamente adotti una ditta simile o uguale può essere costretto a integrarla o modificarla con indicazioni idonee a differenziarla. Per le imprese commerciali trova applicazione il criterio della priorità dell'iscrizione nel registro delle imprese. Il diritto all'uso esclusivo della ditta e il corrispondente obbligo di differenziazione sussistono, però, solo se i due imprenditori sono in rapporto concorrenziale tra loro, e quindi possa determinarsi confusione per l'oggetto dell'impresa e/o per il luogo in cui questa è esercitata. Perciò è possibile l'omonimia fra ditte che non creano confusione sul mercato. Il diritto all'uso esclusivo è quindi un diritto relativo. Il principio della novità opera anche nei rapporti con altri segni distintivi: è fatto divieto di adottare il marchio altrui come propria ditta, se sussiste pericolo di confusione tra i segni (art. 22 cod. prop. ind.). La ditta è trasferibile, ma solo insieme all'azienda (art. 2565 c.c.). Se il trasferimento avviene per atto tra vivi occorre il consenso espresso dell'alienante; se l'azienda è acquistata mortis causa la ditta si trasmette al successore (salvo diversa disposizione testamentaria). 37 Il marchio deve poi rispettare il requisito dell'originalità (o capacità distintiva). Cioè deve essere composto in modo da consentire l'individuazione dei prodotti contrassegnati fra tutti i prodotti dello stesso genere immessi sul mercato. Non possono perciò essere utilizzati come marchi, in quanto privi di capacità distintiva:  le denominazioni generiche del prodotto o del servizio o la loro figura generica (ad es. un marchio per calzature non potrà essere costituito esclusivamente dalle parole “scarpe” o dalla figura di una scarpa);  le indicazioni descrittive dei caratteri essenziali e della provenienza geografica del prodotto (salvo che per i marchi di certificazione e collettivi); e così non può essere usata come marchio l'espressione “brillo” per prodotti lucidanti;  i segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente, come le parole “super”, “extra”, “lusso”. Il requisito dell'originalità è però rispettato quando si utilizzano denominazioni o figure generiche che non hanno alcuna relazione con il prodotto contraddistinto (ad es. la parola “aeroplano”, o la sua figura, per un marchio di calzature. È infine possibile usare come marchio denominazioni generiche o parole di uso comune modificate o combinate fra loro in modo fantasioso (ad es. il marchio “Amplifon” per apparecchi acustici). Ultimo dei requisiti di validità del marchio è la sua novità, complementare ma distinto rispetto all'originalità: Il marchio non deve essere già stato registrato da altro imprenditore per prodotti o servizi uguali o affini. Ad esempio, il marchio “aeroplano” per calzature è originale, ma non è nuovo se già registrato come marchio per calzature da altro imprenditore. Tuttavia, se il marchio registrato è diventato un marchio celebre, è ex lege non nuovo anche il marchio confondibile successivamente utilizzato da altri per prodotti o servizi anche non affini, se chi lo usa trarrebbe indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del segno anteriore, o recherebbe pregiudizio agli stessi (art. 12, lett. e ed f, c.p.i.). Ad es. difetta della novità il marchio delle auto da corsa Ferrari utilizzato da un produttore di orologi. Il difetto dei requisiti fin qui esposti comporta la nullità del marchio (art. 25 c.p.i.), che può riguardare anche solo parte dei prodotti o servizi per i quali il marchio è stato registrato. 6. Il marchio registrato Il titolare di un marchio rispondente ai requisiti di validità ha diritto all'uso esclusivo del marchio prescelto. Il contenuto del diritto sul marchio e la relativa tutela sono però alquanto diversi a seconda che il marchio sia stato o meno registrato. La registrazione (all'Ufficio italiano brevetti e marchi, istituito presso il Ministero dello sviluppo economico) attribuisce al titolare del marchio il diritto all'uso esclusivo dello stesso su tutto il territorio nazionale. Il diritto di esclusiva sul marchio registrato copre poi non solo i prodotti identici , ma anche quelli affini (non quelli totalmente diversi), qualora possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico. La rigorosa applicazione di tale regola non vale per i marchi celebri: con la riforma del 1992, il titolare di un marchio registrato, che gode nello Stato di rinomanza (ossia è un marchio celebre), può vietare a terzi di usare un 40 marchio identico o simile al proprio anche per prodotti o servizi non affini, quando tale uso consente di trarre indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio, o reca pregiudizio agli stessi (art. 12, lett e, c.p.i.). Il diritto di esclusiva sul marchio registrato decorre dalla data di presentazione della domanda all'Ufficio brevetti. La registrazione nazionale dura 10 anni (art. 15 c.p.i.), ed è però rinnovabile per un numero illimitato di volte, sempre con efficacia decennale (art. 16, 2° comma, c.p.i.). La registrazione assicura perciò una tutela pressochè perpetua, salvo che non sia dichiarata la nullità del marchio, per difetto originale di uno dei requisiti essenziali (art. 25 c.p.i.), o non sopravvenga una causa di decadenza (art. 26), quale il mancato utilizzo del marchio per 5 anni oppure la volgarizzazione del marchio (cioè lo stesso è divenuto nel commercio denominazione generica di quel prodotto, come avvenuto in passato per i marchi ”Cellophane”, “Nylon” e “Biro”). Il marchio registrato è tutelato civilmente e penalmente. In particolare, il titolare del marchio può promuovere contro chi ha leso il suo diritto di esclusiva l'azione di contraffazione (artt. 124 ss c.p.i.), azione civile volta ad ottenere l'inibitoria alla continuazione degli atti lesivi e la rimozione degli effetti degli stessi (distruzione delle cose materiali con cui è stata attuata la contraffazione), sempre salvo il risarcimento danni in caso di dolo o colpa del contraffattore. 7. Il marchio non registrato L'ordinamento tutela anche chi usi un marchio senza registrarlo (artt. 2571 c.c. e 12, 1° comma, lett. a), c.p.i.), ma si tratta di una tutela sensibilmente minore di quella di cui gode il marchio registrato. Infatti, chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante l'altrui registrazione, nei limiti in cui anteriormente se ne è avvalso. La tutela del marchio non registrato si fonda pertanto sull'uso di fatto e sull'effettivo grado di notorietà raggiunto. In particolare, il titolare di un marchio non registrato con notorietà locale non potrà impedire che altro imprenditore usi di fatto lo stesso marchio per gli stessi prodotti in altra zona del territorio nazionale, né impedire che questi registri lo stesso marchio. 8. Il trasferimento del marchio Il marchio è trasferibile e può essere trasferito sia a titolo definitivo ( cessione ), sia a titolo temporaneo ( licenza ). Dopo la riforma del 1992, il marchio può essere ceduto oppure concesso in licenza, per tutti o per parte dei prodotti per i quali è stato registrato, senza che sia necessario il contemporaneo trasferimento dell'azienda o del corrispondente ramo produttivo. La novità più significativa è però costituita dall'espresso riconoscimento dell'ammissibilità della licenza di marchio non esclusiva: è cioè consentito che lo stesso marchio sia contemporaneamente utilizzato dal titolare originario e da uno o più concessionari. Il legislatore si preoccupa però di prevenire i pericoli di inganno per il pubblico (che può originare da utilizzazioni di marchi celebri tramite contratti di franchising, per prodotti identici a quelli del marchio 41 celebre, o di merchandising, per prodotti del tutto diversi). Al riguardo è fissato il principio cardine che dal trasferimento del marchio non debbano derivare inganno nei caratteri dei prodotti o servizi che sono essenziali nell'apprezzamento del pubblico. La licenza non esclusiva è inoltre subordinata all'ulteriore condizione che il licenziatario si obblighi ad utilizzare il marchio per prodotti con caratteristiche qualitative uguali a quelle dei corrispondenti prodotti messi in commercio dal concedente o dagli altri licenziatari (art. 23, 2° comma, c.p.i.). la violazione di tali regole espone alla sanzione della decadenza, eventualmente parziale, del marchio (art. 26, lett. b, c.p.i.). C. L'INSEGNA 9. Nozione e disciplina L'insegna contraddistingue i locali dell'impresa (stabilimento industriale, negozio di vendita) od anche l'intero complesso aziendale. L'insegna, disciplinata dall'art. 2568 c.c., non può essere uguale o simile a quella già utilizzata da altro imprenditore concorrente (novità). Pur nel silenzio della disciplina specifica, saranno applicabili i princìpi di base ricavabili dalla disciplina della ditta e del marchio. L'insegna dovrà quindi essere lecita; non dovrà contenere indicazioni idonee a trarre in inganno il pubblico circa l'attività o i prodotti (verità); dovrà avere sufficiente capacità distintiva. Non è quindi tutelato contro l'altrui imitazione che adotti come insegna indicazioni generiche (ad es. bar, pizzeria), salvo che l'originalità non derivi dalla composizione grafica e/o dei colori utilizzati. Nel silenzio della disciplina, si ritiene che il diritto sull'insegna possa essere trasferito, applicando la più permissiva disciplina prevista per il trasferimento del marchio. È dunque da ritenersi lecita anche la licenza non esclusiva ed il conseguente co-uso della stessa insegna da parte di più imprenditori collegati, come nel franchising di distribuzione (ad es. le catene di negozi Benetton o Cartier). * * Capitolo settimo OPERE DELL'INGEGNO. INVENZIONI INDUSTRIALI 1. Le creazioni intellettuali Le opere dell'ingegno (idee creative nel campo culturale) e le invenzioni industriali (idee creative nel campo della tecnica) costituiscono le due grandi categorie di creazioni intellettuali regolate dal nostro ordinamento. 42 non brevettate. Possono formare oggetto di brevetto per invenzione industriale: 1) le invenzioni di prodotto, che hanno per oggetto un nuovo prodotto materiale (ad es. una macchina o un composto chimico); 2) le invenzioni di procedimento, che possono consistere ad esempio in un nuovo metodo di produzione di beni già noti, o in un nuovo processo di lavorazione industriale; 3) le invenzioni derivate, che si presentano come derivazione di una precedente invenzione. Possono consistere: nell'ingegnosa combinazione di invenzioni precedenti, così da ottenere un trovato tecnicamente nuovo (invenzioni di combinazione); nel migliorare un'invenzione precedente (invenzioni di perfezionamento); in una nuova utilizzazione di una sostanza o di un composto già conosciuti (invenzioni di traslazione). -) Esclusioni! Non sono considerate dal legislatore invenzioni, al fine di favorirne la libera utilizzazione: a) le scoperte, le teorie scientifiche e i metodi matematici; b) i piani, i princìpi e i metodi per attività intellettuali, per gioco o per attività commerciali e i programmi per elaboratore (software); c) le presentazioni di informazioni (art. 45, 2° comma, c.p.i.). Non sono altresì brevettabili:  i metodi per il trattamento chirurgico o terapeutico del corpo umano o animale e i metodi di diagnosi applicati al corpo umano o animale (art. 45, 4° comma, c.p.i.), come ad es. la TAC;  le varietà vegetali, le razze animali e i procedimenti essenzialmente biologici di produzione di animali o vegetali. Tuttavia, le nuove varietà vegetali e le invenzioni biotecnologiche sono tutelate mediante speciali forme di brevettazione autonomamente disciplinate (artt. 100-116 e 81bis - 81octies c.p.i.). Per essere brevettate, le invenzioni devono possedere i requisiti di liceità (art. 50 c.p.i.), novità (art. 46 c.p.i.), implicare attività inventiva , ed essere idonei ad avere applicazione industriale. È nuova l'invenzione che non è compresa nello stato della tecnica (dunque manca del requisito della novità l'invenzione già divulgata). L'invenzione implica attività inventiva (originalità o novità intrinseca) se per una persona esperta del ramo essa non risulta in modo evidente dallo stato della tecnica (giudizio di non ovvietà)(art. 48 c.p.i.). L'invenzione infine deve poter essere fabbricata o utilizzata in qualsiasi genere di industria, compresa quella agricola (art. 49 c.p.i.). 5. L'invenzione brevettata La tutela giuridica dell'invenzione ha contenuto sia morale che patrimoniale. L'inventore ha diritto ad essere riconosciuto autore dell'invenzione (art. 62 c.p.i.), e tale diritto morale si acquista per il solo fatto dell'invenzione. 45 L'inventore ha inoltre il diritto, trasferibile (art. 63 c.p.i.), di conseguire il brevetto, che ha funzione costitutiva ai fini dell'acquisto del diritto all'utilizzazione economica in esclusiva del trovato. Il brevetto per invenzione industriale è concesso dall'Ufficio brevetti sulla base di una domanda corredata, a pena di nullità (art. 76 c.p.i.), dalla descrizione dell'invenzione in modo sufficientemente chiaro e completo perchè ogni persona esperta del rampo possa attuarla (art. 51 c.p.i.). Ogni domanda può avere ad oggetto una sola invenzione e deve specificare ciò che si intende debba formare oggetto del brevetto (cd rivendicazione). Il brevetto per invenzioni industriali dura 20 anni dalla data di deposito della domanda (art. 60 c.p.i.) ed è escluso il rinnovo. Il diritto di esclusiva si può perdere prima della scadenza qualora sia dichiarata la nullità del brevetto (art. 76 c.p.i.) o sopravvenga una causa di decadenza, dello stesso, quale la mancata attuazione dell'invenzione brevettata (art. 70 c.p.i.). Il brevetto (nazionale) conferisce al suo titolare la facoltà esclusiva di attuare l'invenzione e di trarne profitto nel territorio dello Stato, fatte salve alcune forme di libera utilizzazione dell'invenzione da parte di terzi (ad es. per finalità di sperimentazione o di studio). L'esclusiva comprende non solo la fabbricazione, ma anche il commercio e l'importazione dei prodotti cui l'invenzione si riferisce (art. 66, 2° comma, c.p.i.). Peraltro, l'esclusiva di commercio si esaurisce con la prima immissione in commercio del prodotto brevettato (cd principio di esaurimento). L'esclusiva sussiste nei limiti dell'invenzione brevettata, ma se l'invenzione riguarda un nuovo metodo o un nuovo processo di produzione (invenzione di procedimento), l'esclusiva copre l'applicazione del nuovo procedimento nonché la messa in commercio del prodotto direttamente ottenuto col nuovo metodo o processo (art. 66, 2° comma, lett. b), c.p.i.); non copre invece il commercio dello stesso prodotto ottenuto con metodo diverso. Il brevetto è liberamente trasferibile sia fra vivi che mortis causa, e sul brevetto possono essere costituiti diritti reali di godimento o garanzia, e lo stesso può anche formare oggetto di esecuzione forzata e di espropriazione per pubblica utilità. Il titolare del brevetto può altresì concedere licenza d'uso dello stesso, con o senza esclusiva di fabbricazione. L'invenzione brevettata è tutelata con sanzioni civili e penali. In particolare, il titolare del brevetto e il licenziatario possono esercitare azione di contraffazione contro chi abusivamente sfrutti l'invenzione. La sentenza che accerta la contraffazione ordina l'inibitoria per il futuro della fabbricazione/uso di quanto forma oggetto del brevetto. Sono altresì previste sanzioni volte ad eliminare dal mercato gli oggetti realizzati in violazione del brevetto. Il titolare del brevetto ha in ogni caso diritto al risarcimento dei danni subiti, sia patrimoniali che morali. Il rilascio del brevetto attribuisce diritto di esclusiva solo sul territorio nazionale. L'esclusiva può essere però conseguita anche in altri Stati, ed alcuni trattati internazionali agevolano il conseguimento di tale risultato (Convenzione di Unione di Parigi del 1883; Trattato di Washington del 1970; Convenzione di Baviera del 46 1973), fermo restando che il contenuto del diritto di esclusiva resta regolato, in via di principio, dalle legislazioni nazionali dei paesi in cui il brevetto ha efficacia. Un brevetto autonomo e unitario è invece il brevetto unitario europeo (regolamenti UE 1257/2012 e 1260/2012) che, rilasciato dall'Ufficio europeo di Monaco, ha carattere sovranazionale, unitario ed autonomo: può essere infatti rilasciato solo per tutti gli Stati membri dell'UE aderenti alla cooperazione rafforzata, e produce gli stessi effetti in tutti questi paesi. Il brevetto europeo dovrebbe entrare in vigore nell'autunno 2022. 6. L'invenzione non brevettata L'inventore può astenersi dal brevettare il proprio trovato e sfruttarlo in segreto. Corre però il rischio che altri pervenga al medesimo risultato inventivo, lo brevetti ed acquisti il diritto di esclusiva. La disciplina introdotta nel 1979 riconosce, tuttavia, una sia pur limitata tutela anche a chi abbia utilizzato un'invenzione senza brevettarla. Dispone infatti l'art. 68, 3° comma, c.p.i. che chiunque, inventore o terzo avente causa, ha fatto uso dell'invenzione nella propria azienda nei 12 mesi anteriori al deposito dell'altrui domanda di brevetto, può continuare a sfruttare l'invenzione stessa nei limiti del preuso. Tale tutela minima opera peraltro nel caso di preuso segreto, la cui abusiva violazione configura anche atto di concorrenza sleale (art. 99 c.p.i.). Se, invece, l'inventore o il preutente hanno divulgato l'invenzione, il successivo brevetto difetterà del requisito della novità, e potrà essere dichiarato nullo. C. I MODELLI INDUSTRIALI 7. Modelli di utilità. Disegni e modelli I modelli industriali sono creazioni intellettuali applicate all'industria di minor rilievo rispetto alle invenzioni industriali. Essi sono distinti in “modelli di utilità” e “disegni e modelli” (artt. 2592-2594 c.c. e artt. 31-44, 82-86 c.p.i.). I modelli di utilità sono nuovi trovati destinati a conferire particolare funzionalità (efficacia o comodità di applicazione) a macchine, strumenti, utensili od oggetti d'uso (artt. 2592 c.c. e 82 c.p.i.) (ad es. una nuova forma di poltrona per dentista che ne aumenti la comodità). I disegni e modelli sono invece nuove idee destinate a migliorare l'aspetto (forma, linea, colore, contorni) dei prodotti industriali o artigianali (art. 31 c.p.i.). È questo il vasto campo dell'industrial design (ad es. l'originale disegno di un tessuto o l'originale forma di una televisione). La tutela dei modelli di utilità si fonda sull'istituto della brevettazione, e in materia trova applicazione larga parte della disciplina delle invenzioni industriali (anche se i requisiti di novità e originalità vanno adattati allo specifico minor rilievo dell'idea creativa). Il punto più significativo di differenziazione con le invenzioni industriali riguarda la durata del brevetto, che è di 10 anni per i modelli di utilità (art. 85, 1° comma, c.p.i.). Per i disegni e modelli, il d.lgs. 95/2001, in attuazione della direttiva 98/71/CE, ha esteso la tutela anche ai 47 A. LA LEGISLAZIONE ANTIMONOPOLISTICA 2. La disciplina italiana e comunitaria La libertà di iniziativa economica e la competizione fra imprese non possono tradursi in atti e comportamenti che pregiudicano in modo rilevante e durevole la struttura concorrenziale del mercato. È questo il principio cardine della legislazione antimonopolistica dell'Unione europea (artt. 101 e 102 TFUE), volta a preservare il regime concorrenziale del mercato comunitario e a reprimere le pratiche anticoncorrenziali (intese, abuso di posizione dominante, concentrazioni) che pregiudicano il commercio fra gli Stati membri. È questo il principio cardine oggi recepito anche dalla legislazione antimonopolistica italiana (legge 287/1990), volta a preservare il regime concorrenziale del mercato nazionale e a reprimere i comportamenti anticoncorrenziali (intese, abuso di posizione dominante, concentrazioni) che incidono esclusivamente sul mercato italiano. La legge 287/1990, in particolate, ha istituito un apposito organo pubblico indipendente, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM), che vigila sul rispetto della normativa antimonopolistica generale, adotta i provvedimenti antimonopolistici necessari e irroga sanzioni amministrative e pecuniarie previste dalla legge. La competenza dell'AGCM è stata di recente estesa anche al settore bancario. L'AGCM è chiamata ad applicare, parallelamente alla disciplina italiana, anche quella europea in tema di intese anticoncorrenziali ed abuso di posizione dominante, salvo che la Commissione europea decida di occuparsi direttamente di una specifica vicenda. 3. (Segue): Le singole fattispecie Tre sono i fenomeni rilevanti per la disciplina antimonopolistica nazionale e comunitaria: le intese restrittive della concorrenza; l'abuso di posizione dominante; le concentrazioni. Le intese (o cartelli) sono comportamenti concordati fra imprese, anche attraverso organismi comuni (ad es. consorzi), volti a limitare la propria libertà d'azione sul mercato (ad es. con la fissazione di prezzi uniformi o col contingentamento della produzione). Sono tuttavia vietate solo le intese che abbiamo per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all'interno del mercato o in una sua parte rilevante (artt. 2 legge 287/1990 e 101 TFUE). Sono quindi lecite le intese minori. L'Autorità (AGCM) può comunque concedere esenzioni temporanee alle intese anticoncorrenziali rilevanti, purchè si tratti di intese che migliorano le condizioni di offerta del mercato e producono un sostanziale beneficio per i consumatori. Le intese vietate sono nulle e chiunque può far dichiarare in giudizio la nullità. L'Autorità, a sua volta, adotta i provvedimenti per la rimozione degli effetti anticoncorrenziali già prodottisi e irroga le relative sanzioni pecuniarie. Può ridurre o non applicare la sanzione alle imprese che forniscano informazioni decisive o utili per la scoperta di un'intesa illecita di cui fanno parte (cd programmi di 50 clemenza). Inoltre, qualsiasi danneggiato dall'intesa vietata può agire per il risarcimento del danno davanti alla magistratura ordinaria (la competenza è prevista solo per i tribunali di Milano, Roma e Napoli), secondo una disciplina speciale introdotta nel 2017 che vale anche per l'abuso di posizione dominante. Il diritto al risarcimento si prescrive in 5 anni dal momento della cessazione del comportamento illecito, ma il termine inizia a decorrere solo dopo che il danneggiato sia venuto a conoscenza del fatto lesivo e dell'identità dell'autore della violazione. L'abuso di posizione dominante (artt. 3 legge 287/1990 e 102 TFUE) non consiste nel fatto in sé dell'acquisizione di una posizione dominante sul mercato o in una parte rilevante di esso: vietato è solo lo sfruttamento abusivo di tale posizione con comportamenti capaci di pregiudicare la concorrenza effettiva. Ad un'impresa in posizione dominante è in particolare vietato di: a) imporre prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravosi; b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato (ad es. il rifiuto di vendere pezzi di ricambio ad imprese che non fanno parte della propria rete distributiva); c) applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti (ad es. adottare prezzi diversi per lo stesso prodotto nei diversi paesi comunitari). Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni. Accertata l'infrazione, l'Autorità competente ne ordina la cessazione prendendo le misure necessarie e infligge sanzioni pecuniarie; in caso di reiterata inottemperanza, può anche disporre la sospensione dell'attività dell'impresa fino a 30 giorni. Per il risarcimento del danno trova applicazione la disciplina sopra esaminata riguardo alle intese. Oggi è vietato nell'ordinamento nazionale anche l'abuso dello stato di dipendenza economica nel quale si trova un'impresa cliente o fornitrice rispetto ad una o altre imprese anche in posizione non dominante sul mercato (art. 9 legge 129/1998). Si intende per dipendenza economica la situazione in cui un'impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. Essa è valutata tenendo conto anche delle reali possibilità per la parte che ha subito l'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. Il patto attraverso cui si realizza l'abuso di dipendenza economica è nullo ed espone al risarcimento danni. Inoltre, l'Autorità garante applica le sanzioni previste per l'abuso di posizione dominante qualora ravvisi che l'abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato. Si ha concentrazione quando: 1) due o più imprese si fondono dando luogo ad un'unica impresa (concentrazione giuridica); 2) due o più imprese, pur restando giuridicamente distinte, diventano un'unica entità economica (concentrazione economica); sono cioè sottoposte ad un controllo unitario che consente di esercitare un'influenza dominante sull'attività delle imprese controllate; 3) due o più imprese indipendenti costituiscono un'impresa comune che opera come entità autonoma rispetto alle prime (ad es. una nuova società partecipata da entrambe le imprese). 51 Il risultato di queste concentrazioni è l'ampliamento della quota di mercato detenuta da un'impresa, realizzata attraverso operazioni che comportano la riduzione del numero delle imprese indipendenti operanti nel settore. La concentrazioni costituiscono un utile strumento di ristrutturazione aziendale e non sono di per sé vietate; diventano illecite e vietate quando diano luogo a gravi alterazioni del regime concorrenziale del mercato , il che avviene con le concentrazioni di maggiori dimensioni. È perciò stabilito che le concentrazioni che superano determinate soglie di fatturato, a livello nazionale (art. 16, 1° comma, legge 287/1990) o comunitario (artt. 1 e 5 reg CE 139/2004) debbano essere preventivamente comunicate rispettivamente all'Autorità italiana o alla Commissione europea. L'Autorità può vietare la concentrazione se ritiene che la stessa comporti la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante con effetti distorsivi per la concorrenza stabili e durevoli. In alternativa può autorizzarla prescrivendo le misure necessarie per impedire tali conseguenze. Pesanti sanzioni pecuniarie (che possono giungere fino al 10% del fatturato delle imprese interessate) sono inflitte dall'Autorità se la concentrazione vietata viene ugualmente eseguita, o se le imprese non si adeguano a quanto dalla stessa prescritto per eliminare gli effetti anticoncorrenziali della concentrazione già realizzata. B. LE LIMITAZIONI DELLA CONCORRENZA 4. Limitazioni pubblicistiche e monopoli legali La libertà di iniziativa economica e la conseguente libertà di concorrenza non possono svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all'ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41, 2° comma, Cost.). E sia la Costituzione (art. 41, 3° comma), sia il codice civile (art. 2595 c.c.) consentono che tale libertà possa essere compressa e limitata dai pubblici poteri. In particolare, l'interesse generale può legittimare anche la radicale soppressione della libertà di concorrenza attraverso la costituzione di monopoli pubblici (art. 43 Cost.) in servizi pubblici essenziali, in fonti di energia, in preesistenti monopoli di fatto. I monopoli pubblici, in particolare quelli fiscali, tendono oggi a ridursi, mal conciliandosi coi princìpi ispiratori dell'Unione europea. In ogni caso, quando la produzione di determinati beni o servizi è attuata in regime di monopolio legale (dallo Stato, da altro ente pubblico o da un imprenditore privato su concessione pubblica), il legislatore si preoccupa di tutelare gli utenti contro possibili comportamenti arbitrari del monopolista. Derogando al principio generale della libertà di contrarre, l'art. 2597 c.c. pone pertanto un duplice obbligo a carico del monopolista: a) l'obbligo di contrarre con chiunque richieda le prestazioni e di soddisfare le richieste che siano compatibili coi mezzi ordinari dell'impresa; b) l'obbligo di rispettare la parità di trattamento fra i diversi richiedenti; il monopolista potrà prevedere modalità e tariffe differenziate (ad es. nei trasporti ferroviari), purchè predetermini i relativi presupposti di applicazione e ne faccia godere chiunque si trovi nelle condizioni richieste. 52 solo che non fa male al cuore”). Lecita è invece la generica e innocua affermazione di superiorità dei propri prodotti (ad es. “il panettone M non è un panettone, ma è IL panettone”). Non sempre costituisce atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa, oggi specificamente disciplinata insieme alla pubblicità ingannevole dal d.lgs. 145/2007. Costituisce pubblicità comparativa ogni pubblicità che identifichi in modo esplicito o implicito un concorrente, oppure beni o servizi offerti da un concorrente. È consentita quando è fondata su dati veri ed oggettivamente verificabili, quando non ingenera confusione sul mercato e non comporta discredito o denigrazione del concorrente. Inoltre non deve procurare all'autore della pubblicità un indebito vantaggio tratto dall'altrui notorietà. L'art. 2598, n. 3, chiude l'elencazione degli atti di concorrenza sleale (norma di chiusura e categoria residuale) affermando che è tale ogni altro mezzo non conforme ai princìpi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda, fra cui la giurisprudenza ha individuato: a) la concorrenza parassitaria, che consiste nella sistematica imitazione delle altrui iniziative imprenditoriali (prodotti, marchi, campagne pubblicitarie), sia pure con accorgimenti tali da evitare la piena confondibilità (e quindi non reprimibile come atto di confusione). Celebre è stato in passato il caso Motta-Alemagna; b) il dumping, ossia la sistematica vendita sottocosto dei propri prodotti, finalizzata all'eliminazione dei concorrenti; c) lo storno di dipendenti, ossia la sottrazione ad un concorrente di dipendenti particolarmente qualificati, attuata col deliberato proposito di danneggiare l'altrui azienda e/o avvantaggiarsi in modo parassitario degli investimenti formativi e delle conoscenza aziendali del concorrente. * * Capitolo nono I CONSORZI FRA IMPRENDITORI 1. Nozione e tipi Con il contratto di consorzio più imprenditori istituiscono un'organizzazione comune per la disciplina o per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese (art. 2602 c.c.). Un consorzio può essere costituito al fine prevalente o esclusivo di disciplinare, limitandola, la reciproca concorrenza fra imprenditori che svolgono la stessa attività o attività similari (consorzio con funzione anticoncorrenziale), ad esempio fissando un contingentamento della produzione o degli scambi. Più imprenditori possono dare vita ad un consorzio anche per lo svolgimento di determinate fasi delle rispettive imprese. In tal caso il consorzio rappresenta uno strumento di cooperazione interaziendale, finalizzato alla riduzione dei costi di gestione delle singole imprese consorziate (consorzio con funzione di 55 coordinamento). Ad esempio più imprenditori, anche non concorrenti, si consorziano per acquistare in comune determinate materie prime necessarie alle rispettive imprese, o creano un centro vendita in comune dei propri prodotti. I consorzi anticoncorrenziali (al pari degli altri patti limitativi della concorrenza) sollecitano controlli volti ad impedire che per loro tramite si instaurino situazioni di monopolio di fatto contrastanti con l'interesse generale (esigenza oggi soddisfatta dalla disciplina antimonopolistica in tema di intese). I consorzi di coordinamento (o di cooperazione interaziendale) rispondono invece all'esigenza di accrescere la competitività delle imprese e, in quanto favoriscono la sopravvivenza delle piccole e medie imprese, concorrono a preservare la struttura concorrenziale del mercato. Tali consorzi sono perciò guardati favorevolmente dal legislatore, che ne agevola l'attività con provvidenze creditizie e tributarie. Sul piano della disciplina di diritto privato, i due tipi di consorzi sono tuttavia regolati in modo tendenzialmente uniforme. Altra è invece la distinzione rilevante sul piano civilistico: la distinzione tra consorzi con (sola) attività interna e consorzi destinati a svolgere (anche) attività esterna. In entrambi si crea un'organizzazione comune, ma nei consorzi con sola attività interna il compito di tale organizzazione si esaurisce nel regolare i rapporti reciproci tra i consorziati e nel controllare il rispetto di quanto convenuto. Nei consorzi con attività esterna, invece, le parti prevedono l'istituzione di un ufficio comune (art. 2612 c.c.), destinato a svolgere attività coi terzi nell'interesse delle imprese consorziate. Ed è questa la struttura propria dei consorzi di cooperazione interaziendale. Il codice civile prevede una disciplina comune, volta a regolare la costituzione del consorzio e i rapporti tra i consorziati (artt. 2603-2611 c.c.), e detta poi disposizioni relative ai soli consorzi con attività esterna (art. 2612-2615ter c.c.) che regolano i rapporti fra il consorzio e i terzi. 2. Il contratto di consorzio. L'organizzazione consortile Il contratto di consorzio può essere stipulato solo fra imprenditori e richiede la forma scritta a pena di nullità (art. 2603, 1° comma, c.c.). Deve inoltre contenere (art. 2603, commi 2 e 3, c.c.):  l'oggetto del consorzio;  gli obblighi assunti dai consorziati e gli eventuali contributi in denaro da essi dovuti;  se si tratta di consorzio di contigentamento deve altresì stabilire le quote dei singoli consorziati, o quanto meno, i criteri per la loro determinazione. La durata del contratto di consorzio può essere liberamente fissata dalle parti; nel silenzio è di 10 anni (art. 2604 c.c.). Per i consorzi anticoncorrenziali è controverso se tale regola sia loro applicabile in deroga all'art. 2596 c.c. che fissa in 5 anni la durata massima dei patti limitativi della concorrenza. Il contratto di consorzio è tendenzialmente aperto: le condizioni di ammissione di nuovi consorziati devono però essere predeterminate nel contratto (art. 2603, 2° comma, n. 5, c.c.). Il trasferimento d'azienda comporta 56 il subingresso automatico dell'acquirente nel consorzio, ma se sussiste giusta causa gli altri consorziati possono escluderlo dal consorzio (art. 2610 c.c.). Il contratto di consorzio può sciogliersi limitatamente ad un consorziato per volontà di questi (recesso) o per decisione degli altri consorziati (esclusione). Le cause di recesso ed esclusione devono essere indicate nel contratto. Le cause dei scioglimento dell'intero contratto di consorzio sono elencate all'art. 2611 c.c., tra cui è prevista la delibera della maggioranza dei consorziati quando sussista una giusta causa, altrimenti occorre l'unanimità. Carattere essenziale del consorzio è la creazione di un' organizzazione comune . La legge si limita a prevedere la presenza di un organo con funzioni deliberative ( assemblea ) e di un organo con funzioni gestorie ed esecutive ( organo direttivo ). L'assemblea (artt. 2606 e 2607 c.c.) decide a maggioranza, salvo per le modifiche del contratto per cui serve l'unanimità (se non pattuito diversamente). Le delibere dell'assemblea, se non prese in conformità della legge o del contratto, possono essere impugnate entro 30 giorni davanti all'autorità giudiziaria dai consorziati assenti o dissenzienti (art. 2606, 2° comma, c.c.). L'articolazione dell'organo direttivo e le attribuzioni ulteriori oltre a quella di controllo dell'attività dei consorziati, le modalità di nomina, di revoca e di esercizio delle funzioni sono rimesse (salvo quanto si dirà nel paragrafo successivo per i consorzi con attività esterna) all'autonomia contrattuale. 3. I consorzi con attività esterna Una specifica disciplina, integrativa di quella fin qui esposta, è prevista per i consorzi destinati a svolgere attività con i terzi, attraverso un ufficio a tal fine istituito (art. 2612 c.c.). Per tali consorzi è previsto anzitutto un regime di pubblicità legale: un estratto del contratto di consorzio, contenente le indicazioni specificate all'art. 2612 c.c., deve essere depositato per l'iscrizione presso il registro delle imprese entro 30 giorni dalla stipula, e la regola vale anche per la modifica degli elementi iscritti. Quanto all'organo direttivo, per questi consorzi il contratto deve indicare (e ciò va iscritto nel registro delle imprese) le persone cui è attribuita la presidenza, la direzione e la rappresentanza del consorzio e i relativi poteri (art. 2612,n. 4, c.c.). Costoro sono tenuti altresì a redigere annualmente (e a depositare nel registro delle imprese) la “situazione patrimoniale” del consorzio, osservando le regole previste per il bilancio di esercizio delle società per azioni. Nei consorzi con attività esterna è prevista la formazione di un fondo patrimoniale (cd fondo consortile), costituito dai contributi iniziali e successivi dei consorziati e dai beni acquistati con questi (art. 2614 c.c.). Il fondo consortile costituisce patrimonio autonomo rispetto a quello dei singoli consorziati: esso è destinato a garantire il soddisfacimento dei creditori del consorzio e solo da costoro aggredibile fino a quando dura il consorzio. I creditori particolari dei consorziati non possono far valere i loro diritti sul fondo medesimo (art. 2614 c.c.). Per le obbligazioni assunte in nome del consorzio dai suoi rappresentanti, e nell'interesse di tutti i consorziati 57 gruppo di pagare, e qualora il pagamento non sia stato fatto entro un congruo termine (responsabilità sussidiaria). Ogni nuovo membro del gruppo risponde anche delle obbligazioni anteriori al suo ingresso, salvo patto contrario opponibile ai terzi se iscritto nel registro delle imprese. Inoltre, i membri che cessano di far parte del Geie continuano a rispondere delle obbligazioni anteriori. La liquidazione giudiziale/fallimento del Geie non determina l'automatica apertura della stessa anche nei confronti dei suoi membri. ___________________________ 60 PARTE SECONDA: LE SOCIETÀ * * Capitolo decimo LE SOCIET À 1. Il sistema legislativo Le società sono organizzazioni di persone e di mezzi create dall'autonomia privata per l'esercizio in comune di un'attività produttiva. Sono le strutture tipiche, anche se non esclusive, previste dall'ordinamento per l'esercizio in forma associata dell'attività d'impresa (impresa collettiva). Le società formano un sistema composto da otto tipi, ossia otto modelli di organizzazione fra i quali le parti possono (sia pure con alcune limitazioni) liberamente scegliere. I tipi di società previsti sono:  la società semplice (s.s.);  la società in nome collettivo (s.n.c.);  la società in accomandita semplice (s.a.s.);  la società per azioni (S.p.a.);  la società in accomandita per azioni (S.a.p.a.);  la società a responsabilità limitata (S.r.l.);  la società cooperativa;  le mutue assicuratrici. A questi tipi si sono più di recente affiancati altri due tipi societari regolati dal diritto comunitario: la società europea (2001); la società cooperativa europea (2003). La società semplice, la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice sono definite società di persone. La società per azioni, la società in accomandita per azioni e la società a responsabilità limitata sono invece definite società di capitali. A. LA NOZIONE DI SOCIETÀ 2. Il contratto di società Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili (art. 2247 c.c.). Questa è la nozione legislativa del contratto di società. Oggi è tuttavia prevista la costituzione di società anche per atto unilaterale da parte di una sola persona, e ciò per la società a responsabilità limitata (dal 1993) e per la società per azioni (dal 2003). Gli elementi che caratterizzano le società (e le distinguono da altri fenomeni associativi, come associazioni, comunione, consorzi) sono: 61 a) i conferimenti dei soci; b) l'esercizio in comune di un'attività economica (cd scopo-mezzo); c) lo scopo di divisione degli utili (cd scopo-fine). 3. I conferimenti I conferimenti sono le prestazioni cui le parti del contratto di società si obbligano. Costituiscono i contributi dei soci alla formazione del patrimonio iniziale della società. La loro funzione è quella di dotare la società del capitale di rischio iniziale per lo svolgimento dell'attività d'impresa. L'art. 2247 c.c. stabilisce genericamente che i conferimenti possono essere costituiti da beni o servizi: denaro, beni in natura (mobili e immobili, materiali e immateriali) trasferiti in proprietà o concessi in semplice godimento alla società; prestazioni di attività lavorativa sia manuale sia intellettuale, e così via. Può dunque costituire oggetto di conferimento ogni entità suscettibile di valutazione economica che le parti ritengono utile o necessaria per lo svolgimento dell'attività d'impresa. La disciplina generale dei conferimenti va tuttavia coordinata con quella dettata per i singoli tipi di società: essa trova piena e puntuale applicazione solo nelle società di persone e nella società a responsabilità limitata. Nelle altre società di capitali e nelle società cooperative non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni d'opera o di servizi. 4. (Segue): Patrimonio sociale e capitale sociale Il patrimonio sociale è il complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo alla società. Esso è inizialmente costituito dai conferimenti eseguiti o promessi dai soci; successivamente subisce continue variazioni qualitative e quantitative in relazione alle vicende economiche della società. La consistenza del patrimonio sociale è accertata attraverso la redazione annuale del bilancio di esercizio. Si definisce patrimonio netto la differenza positiva tra attività e passività. Il patrimonio sociale (meglio: l'attivo patrimoniale) costituisce la garanzia principale (se per le obbligazioni sociali rispondono anche i soci col proprio patrimonio) o esclusiva (se per le obbligazioni sociali risponde solo la società col proprio patrimonio) dei creditori della società. Il capitale sociale nominale è una cifra che esprime il valore in denaro dei conferimenti quale risulta dall'atto costitutivo della società. Capitale sociale 100 vuol dire che i soci si sono obbligati a conferire (capitale sottoscritto) e/o hanno conferito (capitale versato) denaro o altre entità che alla stipulazione del contratto di società avevano valore monetario 100. Il capitale sociale nominale resta immutato nel corso della vita della società fino a quando, con modifica dell'atto costitutivo, non se ne decide l'aumento (ad es. per nuovi conferimenti) o la riduzione (ad es. per perdite subite). Il capitale sociale nominale è un valore storico, ma assolve a due fondamentali funzioni: vincolistica e organizzativa. Capitale sociale 100 sta ad indicare che i soci si sono impegnati a mantenere in società attività per 100, quand'anche la società non abbia neppure un centesimo di debiti da pagare. La cifra del capitale sociale 62 professionisti (principio di esclusività della partecipazione). La cancellazione del socio professionista dall'albo di appartenenza comporta anche l'esclusione dalla società. A tutela dell'utente, l'atto costitutivo deve prevedere criteri e modalità affinchè l'esecuzione dell'incarico professionale conferito alla società sia eseguito solo da soci in possesso dei requisiti per l'esercizio della prestazione professionale richiesta. In mancanza di individuazione del socio professionista da parte dell'utente, la designazione viene effettuata dalla società, e il nominativo prescelto va comunicato previamente e per iscritto al cliente (principio di individuazione del professionista incaricato della prestazione). La società tra professionisti è tenuta ad iscriversi in un'apposita sezione speciale del registro delle imprese, con funzione di certificazione anagrafica e pubblicità-notizia , in aggiunta all'iscrizione richiesta dalla disciplina del tipo societario prescelto. È fatta salva la facoltà per i professionisti di mantenere in vita o costituire nuove associazioni professionali nella vecchia forma degli “studi professionali”. Regole speciali valgono, infine, per l'esercizio in forma societaria della professione di avvocato. Introdotta dal d.lgs. 96/2001, la società tra avvocati è ora disciplinata dalla legge 124/2017, ispirata ai nuovi princìpi della società tra professionisti. In base alla legge del 2017 (che ha modificato la legge 247/2012, che pure disciplina le società tra professionisti), la società tra avvocati può essere costituita in forma di società di persone, di capitali o cooperative. Possono diventare soci non solo avvocati, ma anche iscritti negli albi di altre professioni o soggetti privi di requisiti professionali (cd soci capitalisti): i soci professionisti (avvocati e non) devono essere titolari di almeno 2/3 del capitale con diritto di voto, pena lo scioglimento della società. L'amministrazione può essere affidata esclusivamente a soci, e la maggioranza devono essere soci avvocati. La società tra avvocati è iscritta in una sezione speciale dell'albo degli avvocati, nonché nella sezione speciale del registro delle imprese relativa alle società tra professionisti (e, deve ritenersi, anche nella sezione ordinaria o speciale richiesta dal tipo societario prescelto). La ragione o denominazione sociale può essere formata liberamente, ma deve contenere l'indicazione di società tra avvocati (s.t.a.). L'incarico professionale conferito alla società può essere eseguito solo dai soci professionisti in possesso dei requisiti necessari per lo svolgimento della specifica prestazione professionale richiesta dal cliente. Inoltre, la responsabilità della società (e quella dei soci a responsabilità illimitata) per l'inadempimento dell'incarico professionale non esclude la responsabilità del professionista che ha eseguito la specifica prestazione. La società fra avvocati non è soggetta a liquidazione giudiziale, in quanto non svolge attività d'impresa. 7. Lo scopo-fine delle società L'ultimo elemento caratterizzante le società è costituito dallo scopo perseguito dalle parti (cd scopo-fine del contratto di società). Una società può essere costituita per svolgere attività d'impresa allo scopo di conseguire utili (lucro oggettivo), destinati ad essere successivamente divisi tra i soci (lucro soggettivo). 65 È questo lo scopo di profitto ed è questo lo scopo tipico (anche se non esclusivo) che il legislatore assegna ad alcuni tipi di società: le società di persone e le società di capitali, che perciò vengono definite società lucrative. -) Distinzioni! Società sono però anche le società cooperative, che devono perseguire per legge uno scopo mutualistico, ossia quello di fornire direttamente ai soci beni, servizi od occasioni di lavoro a condizioni più vantaggiose di quelle che i soci otterrebbero sul mercato. Scopo istituzionale delle cooperative non è, perciò, quello di produrre utili da dividere fra i soci, ma quello di procurare ai soci un vantaggio patrimoniale diretto, che potrà consistere, a seconda del campo di attività della cooperativa, in un risparmio di spesa (ad es. una cooperativa di consumo) o in una maggior remunerazione del lavoro prestato dai soci nella cooperativa. In sintesi, anche la cooperativa è una società che deve operare con metodo economico (in quanto esercita attività d'impresa) e per la realizzazione di uno scopo economico dei soci (vantaggio patrimoniale diretto). Non è però una società istituzionalmente preordinata per la realizzazione di uno scopo di lucro in senso proprio (lucro soggettivo), anche se non le è precluso di svolgere attività coi terzi e di conseguire utili da tale attività (lucro oggettivo). Infine, tutti i tipi di società (tranne la società semplice) possono essere utilizzati anche per la realizzazione di uno scopo consortile. I tratti distintivi dello scopo consortile, sia rispetto allo scopo lucrativo, sia rispetto allo scopo mutualistico (col quale presenta comunque accentuata affinità) sono che il vantaggio economico, non lucrativo, è uno specifico (e non generico come nelle cooperative) vantaggio patrimoniale degli imprenditori consorziati (nelle cooperative soci non sono per forza imprenditori): sopportazione di minori costi o realizzazione di maggiori guadagni nelle rispettive imprese. In definitiva, sotto il profilo dello scopo perseguibile le società possono essere distinte in tre grandi categorie: società lucrative (art. 2247 c.c.); società mutualistiche (art. 2511 c.c.); società consortili (art. 2615ter c.c.). Comune e costante è che le società sono enti associativi che operano con metodo economico per la realizzazione di un risultato economico a favore esclusivo dei soci ( fenomeno egoistico ). Si tenga presente che nella legislazione speciale si rinvengono anche casi di società (specie per azioni) istituzionalmente senza scopo di lucro (ad es. società di gestione dei mercati regolamentati di strumenti finanziari, nonché le imprese sociali). Sono questi casi eccezionali, che non possono riguardare casi non previsti specificamente dalla legge. D'altra parte, il perseguimento di uno scopo lucrativo non è necessariamente inconciliabile con una politica d'impresa volta a promuovere anche il bene comune. Oggi la legge 208/2015 consente alle società che intendono agire in modo socialmente responsabile di segnalarlo aggiungendo alla propria ragione/denominazione sociale l'espressione “società benefit”. Il beneficio comune perseguito nei confronti di comunità, ambiente, cultura, società civile, possono consistere tanto in effetti positivi, tanto in una riduzione degli effetti negativi derivanti dall'attività della società (ad es. impiego di procedimenti meno inquinanti, sostegno ad azioni di volontariato, ecc.). Le società benefit possono accedere ad incentivi pubblici e beneficiare di un ritorno di immagine. L'uso abusivo della denominazione “società benefit” da parte di società che non perseguono finalità di beneficio comune costituisce pubblicità ingannevole. 66 B. I TIPI DI SOCIETÀ 8. Nozione. Classificazioni Gli otto tipi di società previsti dal legislatore nazionale possono essere aggregati in categorie omogenee sulla base di alcuni fondamentali criteri di classificazione. Una prima distinzione, già illustrata, è quella basata sullo scopo istituzionale perseguibile. Sotto tale profilo le società cooperative e le mutue assicuratrici (società mutualistiche) si contrappongono a tutti gli altri tipi di società, definiti come società lucrative. Una seconda distinzione, operante nell'ambito delle società lucrative, è quella basata sulla natura dell'attività esercitabile: la società semplice è utilizzabile solo per l'esercizio di attività non commerciale (art. 2249 c.c.). Tutte le altre società lucrative possono esercitare sia attività commerciale sia attività non commerciale, e sono sempre soggette ad iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale. Per quest'ultima caratteristica si definiscono “società commerciali”. Altra distinzione legislativa è quella relativa alla personalità giuridica, ossia fra società dotate di personalità giuridica e società prive di personalità giuridica. Hanno personalità giuridica le società di capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata) e le società cooperative. Ne sono invece prive le società di persone (società semplice, società in nome collettivo, società in accomandita semplice). Nelle società di capitali, in quanto aventi personalità giuridica: a) è prevista per legge, ed è inderogabile, un'organizzazione di tipo corporativo, basata cioè sulla necessaria presenza di una pluralità di organi (assemblea, organo di gestione e organo di controllo), ciascuno con proprie specifiche funzioni e competenze; b) il funzionamento degli organi sociali è dominato dal principio maggioritario; c) il singolo socio in quanto tale non ha alcun potere diretto di amministrazione e di controllo (salvo che nella s.r.l.); ha solo il diritto di concorrere, col suo voto in assemblea, alla designazione dei membri dell'organo amministrativo e/o di controllo. E il peso di ciascun socio in assemblea è proporzionato all'ammontare di capitale sociale sottoscritto (criterio puramente capitalistico); pertanto, la partecipazione è liberamente trasferibile. Nelle società di persone, che sono prive di personalità giuridica, invece: a) non è prevista un'organizzazione basata sulla presenza di una pluralità di organi; b) l'attività della società si fonda su di un modello organizzativo che, per un verso, riconosce ad ogni socio a responsabilità illimitata il potere si amministrare la società (art. 2257 c.c.) e, per altro verso, richiede di regola il consenso di tutti i soci per le modifiche dell'atto costitutivo (art. 225 2 c.c.); c) il singolo socio a responsabilità illimitata è in quanto tale investito del potere di amministrazione e di rappresentanza della società, a prescindere dal capitale conferito e dalla consistenza del suo patrimonio personale. È così particolarmente accentuato il rilievo della persona dei soci 67 Capitolo undicesimo LA SOCIET À SEMPLICE. LA SOCIET À IN NOME COLLETTIVO 1. Le società di persone La società semplice, la società in nome collettivo e la società in accomandita semplice formano la categoria delle società di persone. La società semplice (artt. 2251-2290 c.c.) è un tipo di società che può esercitare solo attività NON commerciale. La società in nome collettivo (artt. 2201-2312 c.c.) è un tipo di società che può essere utilizzato sia per l'esercizio di attività commerciale, sia per l'esercizio di attività non commerciale. Essa è in ogni caso soggetta all'iscrizione nel registro delle imprese con effetti di pubblicità legale. Nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali e non è ammesso patto contrario (art. 2291 c.c.). La società in accomandita semplice (artt. 2313-2324 c.c.) si caratterizza per la presenza di due categorie di soci: a) i soci accomandatari che rispondono solidalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali; b) i soci accomandanti che rispondo limitatamente alla quota conferita (art. 2313 c.c.). La società semplice non ha avuto una significativa diffusione (né nel settore agricolo né quale società tra professionisti), ma la disciplina per essa dettata è in linea di principio applicabile anche alla collettiva e all'accomandita semplice, per via dei rinvii operati dal legislatore (artt. 2293 e 2315 c.c.); è in pratica il prototipo normativo delle società di persone. 2. La costituzione della società Il contratto di società semplice non è soggetto a forme particolari, salvo quelle richieste dalla natura dei beni conferiti (art. 2251 c.c.). Inoltre, non sono dettate disposizioni specifiche per quanto riguarda il contenuto dell'atto costitutivo. L'iscrizione nel registro delle imprese, nella sezione speciale, aveva funzione di certificazione anagrafica e di pubblicità notizia; con la riforma dell'impresa agricola del 2001 l'iscrizione delle società semplici esercenti attività agricola ha efficacia di pubblicità legale. Il contratto può essere concluso anche verbalmente o risultare da comportamenti concludenti (società di fatto). Per la società in nome collettivo , regole di forma e di contenuto dell'atto costitutivo (artt. 2295 e 2296 c.c.) sono prescritte solo ai fini dell'iscrizione nel registro delle imprese che, a differenza di quella della società semplice, è condizione di regolarità della società (nè, come avviene invece per le società di capitali, condizione di esistenza della società). L'omessa registrazione incide solo sulla disciplina applicabile: i 70 rapporti fra società e i terzi sono in tal caso regolati dalla disciplina (per i soci meno favorevole) della società semplice (art. 2297 c.c.). Da qui la distinzione tra società in nome collettivo regolare ed irregolare:  è regolare la s.n.c. iscritta nel registro delle imprese, che è integralmente disciplinata dalle norme ad essa relativa;  è irregolare la s.n.c. NON iscritta nel registro delle imprese, o perchè le parti non hanno redatto l'atto costitutivo (società di fatto) o perchè, pur avendolo redatto, non hanno provveduto alla registrazione dello stesso (società irregolare in senso proprio). In entrambi i casi si applica la disciplina della collettiva irregolare. Solo ai fini della registrazione e della regolarità della società, l'atto costitutivo della s.n.c. deve essere redatto per atto pubblico o per scrittura privata autenticata e contenere le seguenti indicazioni: 1) le generalità dei soci. Soci possono essere anche altre società, comprese le società di capitali; 2) la ragione sociale, che deve essere costituita dal nome di uno o più soci con l'indicazione del rapporto sociale (art. 2292, 1° comma, c.c.), ad es. Giovanni Esposito & C s.n.c.; 3) i soci che hanno l'amministrazione e la rappresentanza della società; 4) la sede della società e le eventuali sedi secondarie; 5) l'oggetto sociale; 6) i conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito e il modo di valutazione; 7) le prestazioni cui sono obbligati i soci d'opera; 8) i criteri di ripartizione degli utili e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite; 9) la durata della società. La libertà di forma per la costituzione di società di persone incontra un limite quando forme speciali sono richieste dalla natura dei beni conferiti. Così, ad esempio, sarà necessaria la forma scritta a pena di nullità per il conferimento in proprietà di beni immobili. La forma scritta è tuttavia richiesta solo per la validità del conferimento immobiliare, non per la validità del contratto di società; in mancanza sarà perciò nulla solo la partecipazione del socio conferente, e potrà aversi nullità della società solo se la partecipazione dello stesso è essenziale. 3. (Segue): Società di fatto. Società occulta. Società apparente Quando il contratto di società si perfeziona per fatti concludenti si parla di società di fatto, la quale è regolata dalle norme della società semplice tout court, se l'attività esercitata non è commerciale, e dalle norme sulla collettiva irregolare, se l'attività esercitata è commerciale, con la conseguenza che tutti i soci risponderanno personalmente ed illimitatamente delle obbligazioni sociali. Una società di fatto che esercita attività commerciale è esposta alla liquidazione giudiziale/fallimento, che determina automaticamente la liquidazione giudiziale/fallimento di tutti i soci (art. 256 cod. crisi impr. e, in passato, art. 147 legge fall.): dei soci noti (soci palesi), ma anche dei soci occulti, ossia di quei soci la cui esistenza sia successivamente scoperta. L'esteriorizzazione della qualità di socio non è quindi necessaria per l'assunzione di responsabilità per le obbligazioni sociali e per la sottoposizione a liquidazione giudiziale. Dalla società (palese) con soci occulti va tenuto distinto il fenomeno della società occulta, che è quella costituita con l'espressa e concorde volontà di non rivelarne l'esistenza all'esterno; può essere una società di fatto o risultare da atto scritto tenuto però segreto dai soci. Ciò che la caratterizza è comunque il dato che, per 71 comune accordo, l'attività d'impresa è svolta per conto della società, ma senza spenderne il nome. La società esiste nei rapporti interni, ma non viene esteriorizzata. Nei rapporti esterni si presenta come impresa individuale di uno dei soci o anche di un terzo, che operano spendendo il proprio nome. Lo scopo di costituire una società occulta è di evitare che la società e gli altri soci diversi dal gestore palese rispondano delle obbligazioni d'impresa e siano esposti alla liquidazione giudiziale. Gli obiettivi di per sé sono leciti, ma tramite la società occulta i soci mirano a conseguirli segretamente, e pertanto operano al di fuori di ogni regola e controllo. Già la giurisprudenza ha da tempo affermato che necessario e sufficiente sia che i terzi (che invocano la responsabilità anche della società occulta e degli altri soci) provino a posteriori l'esistenza del contratto di società e che gli atti posti in essere dal soggetto agente in nome proprio siano riferibili a tale società. Perciò, aperta la liquidazione giudiziale/fallimento nei confronti di un imprenditore individuale, la procedura concorsuale viene estesa alla società ed agli altri soci occulti, una volta acquisita la prova (anche per presunzioni) che esiste una società fra il debitore e gli altri soggetti interessati alla sua attività d'impresa. Questo orientamento è stato infine recepito anche a livello legislativo, dapprima con la riforma della legge fallimentare del 2006, e oggi con la disciplina del codice della crisi d'impresa. L'art. 256, 5° comma, CCI dispone che, qualora dopo l'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti di un imprenditore individuale o di una società risulti che l'impresa è riferibile ad una società (occulta) di cui il debitore è socio illimitatamente responsabile, si applica agli altri soci illimitatamente responsabili (occulti) la regola della liquidazione giudiziale del socio occulto (di società palese). In sostanza, ai fini dell'apertura della liquidazione giudiziale/fallimento la legge tratta ora nello stesso modo il socio occulto di società palese e la società occulta. Sono considerati indici probatori di una società occulta (da soli o in concorso tra loro):  il sistematico finanziamento di un imprenditore individuale, anche attraverso il rilascio di fideiussioni omnibus;  la partecipazione a trattative di affari con fornitori;  il compimento di atti di gestione (sia pure in nome dell'imprenditore individuale);  il prelievo di somme di pertinenza dell'impresa, e così via. La parificazione socio occulto di società palese/società occulta non deve però portare a fraintendimenti, dato che le due sistuazioni sono comunque fra loro diverse: nel caso di socio occulto di società palese, l'attività d'impresa è svolta in nome della società e ad essa certamente imputabile in tutti i suoi effetti; nel caso di società occulta, invece, l'attività d'impresa non è svolta in nome della società, per cui gli atti d'impresa non sono ad essa formalmente imputabili: sono imputabili a chi agisce in nome proprio (sia pure per conto della società occulta), ossia quale mandatario senza rappresentanza della società occulta. La liquidazione giudiziale/fallimento della società occulta è dunque norma eccezionale , e la nuova disciplina non comporta che l'attività d'impresa sia imputata alla società occulta in tutti i suoi effetti attivi e passivi. A diversa conclusione si potrebbe giungere solo ammettendo che, ai fini dell'imputazione della responsabilità per debiti d'impresa, vale non solo il criterio formale della spendita del nome, ma anche il criterio sostanziale della titolarità dell'interesse. Ma come già illustrato in precedenza, anche per questioni di giustizia 72 particolare necessario che la ripartizione sia proporzionale ai conferimenti. Il solo limite previsto (valido per tutte le società lucrative) è rappresentato dal divieto del patto leonino. Infatti, è nullo il patto col quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite (art. 2265 c.c.). Nel silenzio dell'atto costitutivo sulla ripartizione dei soci agli utili e alle perdite: a) le parti spettanti ai soci nei guadagni e nelle perdite si presumono proporzionali ai conferimenti; b) se neppure il valore dei conferimenti è stato determinato, le parti si presumono uguali; c) se è determinata solo la parte di ciascuno nei guadagni, si presume che nella stessa misura sia determinata la partecipazione alle perdite (e viceversa). Nella società semplice il diritto del socio a percepire gli utili nasce con l'approvazione del rendiconto (art. 2262 c.c.), che va predisposto dagli amministratori al termine di ogni anno, salvo che il contratto stabilisca termine diverso. Nella società in nome collettivo è necessario un vero e proprio bilancio di esercizio, redatto dagli amministratori con l'osservanza dei criteri stabiliti per il bilancio della società per azioni. L'approvazione del bilancio compete a tutti i soci ed avviene a maggioranza, calcolata secondo la partecipazione di ciascun socio agli utili. Nelle società di persone, in mancanza di una specifica clausola dell'atto costitutivo, la maggioranza dei soci non può deliberare la NON distribuzione (totale o parziale) degli utili, e il loro conseguente reinvestimento nella società (autofinanziamento). A tal fine sarà necessario il consenso di tutti i soci. Quanto alle perdite, queste non vengono ripartite periodicamente, ma incidono direttamente sul valore della singola partecipazione riducendolo proporzionalmente, con la conseguenza che in sede di liquidazione della società il socio si vedrà rimborsare una somma inferiore al valore originario del capitale conferito. Prima dello scioglimento della società le perdite accertate hanno solo un rilievo indiretto, in quanto impediscono la distribuzione degli utili, fino a quando il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente. Possono inoltre portare allo scioglimento della società per sopravvenuta impossibilità di conseguire l'oggetto sociale. 7. La responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali Nella società semplice e nella società in nome collettivo delle obbligazioni sociali risponde, anzitutto, la società col proprio patrimonio. Rispondono personalmente ed illimitatamente anche i singoli soci (responsabilità sussidiaria). Nella società semplice tale responsabilità personale di tutti i soci è derogabile dalle parti, nel senso che per i soci non investiti del potere di rappresentanza della società può essere esclusa o limitata tramite apposito patto sociale (opponibile ai terzi solo se portato a loro conoscenza con mezzi idonei). In nessun caso può essere esclusa la responsabilità di tutti i soci. Nella società in nome collettivo , invece, la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci è inderogabile. E 75 l'eventuale patto contrario non ha effetto nei confronti dei terzi (art. 2291, 2° comma, c.c.). In entrambe le società, poi, la responsabilità per le obbligazioni sociali anteriori è estesa anche ai nuovi soci (art. 2269 c.c.). Inoltre, lo scioglimento del rapporto sociale (per morte, recesso o esclusione) non fa venire meno la responsabilità del socio per obbligazioni sociali anteriori. Quanto alle obbligazioni successive allo scioglimento, occorre portare a conoscenza dei terzi l'avvenuto scioglimento del rapporto con mezzi idonei, altrimenti lo stesso non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato (art. 2290, 2° comma, c.c.). Nella collettiva regolare l'opponibilità ai terzi dello scioglimento del rapporto richiede l'iscrizione nel registro delle imprese. 8. (Segue): Responsabilità della società e responsabilità dei soci Nella società semplice e nella società in nome collettivo, per le obbligazioni sociali i soci sono responsabili in solido fra loro, ma in via sussidiaria rispetto alla società, in quanto godono del beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale (artt. 2268 e 2304 c.c.). I creditori sociali sono cioè tenuti a tentare di soddisfarsi sul patrimonio della società prima di poter aggredire il patrimonio personale dei soci. Nelle due società il beneficio di preventiva escussione opera in modo diverso:  nella società semplice il creditore sociale può rivolgersi direttamente al singolo socio illimitatamente responsabile, e sarà questi a dover invocare la preventiva escussione del patrimonio sociale, indicando i beni sui quali il creditori possa agevolmente soddisfarsi (art. 2268 c.c.). Questa disciplina si applica anche alla collettiva irregolare, ferma restando la responsabilità solidale ed illimitata di tutti i soci (art. 2297, 1° comma, c.c.);  nella società in nome collettivo (regolare), invece, il beneficio di escussione opera automaticamente. I creditori sociali non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l'escussione del patrimonio sociale (art. 2304 c.c.); è pertanto necessario che il creditore abbia infruttuosamente esperito azione esecutiva sul patrimonio sociale. 9. I creditori personali dei soci Il patrimonio della società è insensibile alle obbligazioni personali dei soci e intangibile da parte dei creditori di questi ultimi (creditori personali), che non possono in alcun caso aggredire direttamente il patrimonio sociale per soddisfarsi. Il creditore personale del socio non è però del tutto sprovvisto di tutela. Sia nella società semplice che nella collettiva egli infatti può: a) far valere i suoi diritti sugli utili spettanti al socio suo debitore; b) compiere atti conservativi sulla quota allo stesso spettante nella liquidazione della società (art. 2270, 1° comma, c.c.). Nella società semplice e nella società in nome collettivo irregolare , il creditore particolare del socio può inoltre chiedere la liquidazione della quota del suo debitore, se prova che gli altri beni di quest'ultimo sono 76 insufficienti a soddisfare i suoi crediti (art. 2270. 2° comma, c.c.). La richiesta opera come causa di esclusione di diritto del socio (art. 2288, 2° comma, c.c.), e la società sarà tenuta a versare al creditore, entro 3 mesi, una somma di denaro corrispondente al valore della quota al momento della domanda (art. 2289 c.c.). Nella società in nome collettivo regolare , il creditore particolare del socio, finchè dura la società, non può chiedere la liquidazione della quota del socio debitore (art. 2305 c.c.). Tale regola vale tuttavia fino alla scadenza della società fissata nell'atto costitutivo: in caso di proroga della società decisa dai soci, i creditori del socio hanno la stessa tutela sopra vista per società semplice e collettiva irregolare (art. 2307 c.c.). 10. L'amministrazione della società L'amministrazione della società è l'attività di gestione dell'impresa societaria. Il potere di amministrare è il potere di compiere tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale; che si pongono, cioè, in rapporto di mezzo a fine rispetto all'attività d'impresa dedotta in contratto. Per legge ogni socio illimitatamente responsabile è amministratore della società (art. 2257 c.c.). L'atto costitutivo può tuttavia prevedere che l'amministrazione sia riservata solo ad alcuni soci. Quando l'amministrazione spetta a più soci, e il contratto sociale nulla disponga sulle modalità di amministrazione, trova applicazione il modello legale dell'amministrazione disgiuntiva: ciascun socio amministratore può compiere da solo tutte le operazioni che rientrano nell'oggetto sociale (e non è tenuto nemmeno ad informare preventivamente gli altri soci amministratori). È tuttavia consentita l'opposizione all'operazione, prima che sia compiuta (così bloccandola), da parte degli altri soci amministratori. Sulla fondatezza dell'opposizione decide la maggioranza dei soci (amministratori e non), calcolata per quote di interesse e non per teste. Quale modello alternativo di amministrazione, che privilegia la maggior ponderazione delle decisioni, è l'amministrazione congiuntiva (art. 2258 c.c.). Con tale modello è necessario il consenso di tutti i soci amministratori per il compimento delle operazioni sociali. L'atto costitutivo può tuttavia prevedere che per l'amministrazione o per determinati atti sia necessario il consenso della maggioranza dei soci, calcolata per quote di interesse. Amministrazione disgiuntiva e congiuntiva possono essere fra loro combinate secondo quanto previsto nell'atto costitutivo. 11. (Segue): Amministrazione e rappresentanza Fra le funzioni di cui gli amministratori sono per legge investiti vi è anche quella di rappresentanza della società (cd potere di firma). Il potere di rappresentanza è il potere di agire nei confronti dei terzi in nome della società, dando luogo all'acquisto di diritti e all'assunzione di obbligazioni da parte della stessa (art. 2266, 1° comma, c.c.). Mentre il potere di gestione è il potere di decidere il compimento degli atti sociali ( amministrazione interna ), il 77 normalmente intercorre fra i soci, il consenso di tutti gli altri soci è perciò necessario per il trasferimento della quota sociale sia fra vivi che a causa di morte; l'atto costitutivo può però stabilire la libera trasferibilità fra vivi della quota e/o la continuazione della società con gli eredi del socio defunto. Nella società in nome collettivo, ed ora anche nella società semplice, le modificazioni dell'atto costitutivo sono soggette a pubblicità legale, e finchè non sono iscritte non sono opponibili ai terzi, a meno che si provi che questi ne erano a conoscenza. Nella collettiva irregolare le modificazioni dell'atto costitutivo devono invece essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei e non sono opponibili a coloro che le abbiano senza colpa ignorate. 15. Scioglimento del singolo rapporto sociale Il singolo socio può cessare di far parte della società per morte, recesso ed esclusione. Il venir meno di uno o più soci non determina in alcun caso lo scioglimento della società; è rimesso ai soci superstiti il decidere se porre fine alla società o continuarla. Il venir meno della pluralità dei soci opera come causa di scioglimento della società solo se la pluralità non è ricostituita nel termine di 6 mesi (art. 2272, n. 4, c.c.). -) Morte del socio. Se muore un socio, i soci superstiti sono per legge obbligati a liquidare la quota del socio defunto ai suoi eredi nel termine di 6 mesi (artt. 2284 e 2289 c.c.). In alternativa, i soci superstiti possono tuttavia decidere: a) lo scioglimento anticipato della società. In tal caso gli eredi del socio defunto non hanno più diritto alla liquidazione della quota nel termine di 6 mesi, ma devono attendere la conclusione delle operazioni di liquidazione della società; b) la continuazione della società con gli eredi del socio defunto, ma in tal caso è necessario sia il consenso di tutti i soci superstiti, sia il consenso degli eredi (a meno che l'atto costitutivo preveda una clausola di continuazione della società con gli eredi del socio defunto). -) Recesso del socio. Il recesso è lo scioglimento del rapporto sociale per volontà del socio (art. 2285 c.c.). Se la società è a tempo indeterminato ogni socio può recedere liberamente; il recesso va comunicato a tutti gli altri soci con un preavviso di almeno 3 mesi (art. 2285, 3° comma, c.c.) e gli effetti si producono trascorso detto termine. Se la società è a tempo determinato, il recesso è ammesso solo se sussiste una giusta causa (art. 2285, 2° comma, c.c.); in tal caso il recesso ha effetto immediato (ma deve comunque essere portato a conoscenza degli altri soci). -) Esclusione del socio. L'ultima causa di scioglimento parziale del rapporto sociale è costituita dall'esclusione del socio dalla società. Essa in alcuni casi ha luogo di diritto (art. 2288 c.c.); in altri è facoltativa, cioè rimessa alla decisione degli altri soci (art. 2286 c.c.). È escluso di diritto: 80 a) il socio nei cui confronti è aperta la liquidazione giudiziale o la liquidazione controllata del sovraindebitato (l'esclusione opera da giorno stessa dalla dichiarazione di apertura della procedura); b) il socio il cui creditore particolare abbia ottenuto la liquidazione della quota (il socio cessa a far parte della società con l'avvenuta liquidazione della quota). Con riferimento all'esclusione facoltativa, i fatti che legittimano la società a deliberare l'esclusione di un socio possono essere raggruppati in tre categorie (art. 2286 c.c.): 1) gravi inadempienze degli obblighi che derivano dalla legge o dal contratto sociale (ad es. mancata esecuzione dei conferimenti promessi; violazione del divieto di concorrenza, ecc.); 2) l'interdizione, l'inabilitazione del socio o la sua condanna ad una pena che comporti l'interdizione anche temporanea dai pubblici uffici; 3) casi di sopravvenuta impossibilità di esecuzione del conferimento per causa non imputabile al socio (perimento della cosa da conferire in proprietà; perimento della cosa conferita in godimento per causa non imputabile agli amministratori; sopravvenuta inidoneità del socio d'opera a svolgere l'opera conferita). L'esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci calcolata per teste , non computandosi nel numero il socio da escludere (art. 2287, 1° comma, c.c.). La deliberazione (motivata) deve essere comunicata al socio escluso ed ha effetto decorsi 30 giorni dalla data di comunicazione; entro tale termine il socio può fare opposizione davanti al tribunale, che può anche sospendere l'esecuzione della delibera (se ci sono solo due soci, l'esclusione di uno di essi è decisa direttamente dal tribunale su domanda dell'altro). 16. (Segue): La liquidazione della quota In tutti i casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto alla liquidazione della quota sociale, o, meglio, ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota (art. 2289, 1° comma, c.c.). Il socio non può infatti pretendere la restituzione di beni conferiti in proprietà, né di quelli conferiti in godimento, finchè dura la società (salvo sia stato diversamente pattuito). Il valore della quota è determinato in base alla situazione patrimoniale della società nel gorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto, ed è pacifico che la situazione patrimoniale della società vada determinata attribuendo ai beni il loro valore effettivo (e non quello prudenziale risultante dal bilancio di esercizio), nonché tenendo conto dell'avviamento e di utili e perdite sulle operazioni in corso. Il pagamento della quota spettante al socio deve essere effettuato entro 6 mesi dal giorno in cui si è verificato lo scioglimento del rapporto (art. 2289, 4° comma, c.c.); e nel caso di scioglimento su richiesta del creditore particolare, entro 3 mesi dalla richiesta (art. 2270 c.c.). 17. Scioglimento della società Le cause di scioglimento della società semplice, valide anche per la collettiva, sono (art. 2272 c.c.): 1) il decorso del termine fissato nell'atto costitutivo. È tuttavia possibile la proroga della società, sia 81 espressa che tacita; 2) il conseguimento dell'oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo (ad es. paralisi dell'attività sociale dovuta a insanabile discordia fra i soci); 3) la volontà di tutti i soci, salvo che l'atto costitutivo non preveda la semplice maggioranza; 4) il venire meno della pluralità dei soci, se nel termine di 6 mesi questa non è ricostituita; 5) l'apertura della procedura di liquidazione controllata; 6) le altre cause previste dal contratto sociale. Sono poi cause specifiche di scioglimento della società in nome collettivo l' apertura della liquidazione giudiziale o della liquidazione coatta amministrativa (art. 2308 c.c.). Verificatasi una causa di scioglimento la società entra automaticamente in stato di liquidazione, e nella s.n.c. tale situazione deve essere espressamente indicata negli atti e nella corrispondenza (art. 2250, 3° comma, c.c.). La società però non si estingue immediatamente: si deve infatti prima provvedere, attraverso il procedimento di liquidazione, al soddisfacimento dei creditori sociali e alla distribuzione fra i soci dell'eventuale residuo attivo. L'ulteriore attività della società deve perciò tendere solo alla definizione dei rapporti in corso, e pertanto i poteri degli amministratori sono per legge limitati al compimento degli affari urgenti (art. 2274 c.c.). 18. (Segue): Il procedimento di liquidazione. L'estinzione della società Il procedimento di liquidazione inizia con la nomina di uno o più liquidatori, che richiede il consenso di tutti i soci, se l'atto costitutivo non dispone diversamente. I liquidatori possono essere revocati per volontà di tutti i soci, ed in ogni caso dal tribunale per giusta causa, su domanda di uno o più soci (art. 2275, 2° comma, c.c.). Con l'accettazione della nomina i liquidatori (che possono essere anche NON soci) prendono il posto degli amministratori. Questi devono consegnare ai liquidatori i beni e i documenti sociali, e presentare loro il conto della gestione del periodo successivo all'ultimo rendiconto/bilancio. Amministratori e liquidatori devono poi redigere insieme l'inventario (cd bilancio di apertura della liquidazione). Entrano così in funzione i liquidatori, il cui compito è quello di definire i rapporti che si ricollegano all'attività sociale: conversione in denaro dei beni, pagamento dei creditori, ripartizione fra i soci dell'eventuale residuo attivo. I liquidatori possono perciò compiere tutti gli atti necessari per la liquidazione. Ad essi compete inoltre la rappresentanza legale della società, anche in giudizio (art. 2278 c.c.). Per procedere al pagamento dei creditori sociali, i liquidatori possono chiedere ai soci i versamenti ancora dovuti, ma solo se i fondi disponibili risultano insufficienti. E, se occorre, possono richiedere ai soci stessi le somme ulteriori necessarie, nei limiti della rispettiva responsabilità ed in proporzione alla loro partecipazione alle perdite (art. 2280, 2° comma, c.c.). Sui liquidatori incombe un duplice divieto: a) non possono intraprendere nuove operazioni, operazioni, cioè, che non siano in rapporto di mezzo a 82 obblighi dei soci della collettiva (art. 2318 c.c.). Dall'amministrazione della società (potere di gestione e potere di rappresentanza) sono invece esclusi i soci accomandanti (l'esclusione viene definita divieto di immistione). Questi ultimi, in particolare, non possono compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari (quindi non possono agire di fronte ai terzi come procuratori generali o institori). L'accomandante che viola il divieto di immistione risponde di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente per tutte le obbligazioni sociali (presenti, passate e future), e in caso di liquidazione giudiziale/fallimento della società, anch'egli sarà automaticamente dichiarato fallito al pari degli accomandatari. L'accomandante che ha violato il divieto di immistione è inoltre esposto all'esclusione dalla società , con decisione a maggioranza degli altri soci (accomandatari e accomandanti). L'esclusione tuttavia non potrà essere deliberata qualora l'atto di ingerenza sia stato autorizzato o ratificato dagli amministratori. Agli accomandanti cono tuttavia riconosciuti, per legge o per contratto, alcuni diritti e poteri di carattere amministrativo in senso lato. Possono anzitutto concorrere con gli accomandatari alla nomine e alla revoca degli amministratori (quando l'atto costitutivo prevede la designazione degli stessi con atto separato). È infatti al riguardo necessario il consenso di tutti i soci accomandatari e l'approvazione di tanti soci accomandanti che rappresentino la maggioranza del capitale da essi sottoscritto (art. 2319 c.c.). Per quanto riguarda la partecipazione all'attività dell'impresa comune, il generale divieto di ingerenza nell'amministrazione è in parte temperato dal riconoscimento legislativo che essi: a) possono trattare o concludere affari in nome della società, sia pure solo in forza di procura speciale per singoli affari; b) possono prestare la loro opera, manuale o intellettuale, all'interno della società sotto la direzione degli amministratori; c) possono, se l'atto costitutivo lo consente, dare autorizzazioni e pareri per determinate operazioni, nonché compiere atti di ispezione e di controllo (hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e di controllarne l'esattezza, consultando i libri e gli altri documenti della società, art. 2320, 3° comma, c.c., e concorrono all'approvazione del bilancio, senza che ciò implichi violazione del divieto di immistione). 4. Il trasferimento della partecipazione sociale Se l'atto costitutivo non dispone diversamente, il trasferimento per atto fra vivi della quota degli accomandatari può avvenire solo col consenso di tutti gli altri soci (accomandatari e accomandanti). Per la trasmissione a causa di morte è necessario anche il consenso degli eredi. La quota degli accomandanti è liberamente trasferibile per causa di morte, senza la necessità del consenso dei soci superstiti. Per il trasferimento per atto fra vivi è invece il necessario il consenso dei soci (accomandatari e accomandanti) che rappresentino la maggioranza del capitale sociale, salvo che l'atto 85 costitutivo non disponga diversamente. 5. Lo scioglimento della società L'accomandita semplice si scioglie, oltre che per le cause previste per la società in nome collettivo, anche quando rimangono solo soci accomandatari o soci accomandanti, semprechè nel termine di 6 mesi non sia stato sostituito il socio che è venuto meno (art. 2323 c.c.). Inoltre, se sono venuti meno i soci accomandatari, gli accomandanti devono nominare un amministratore provvisorio (che può essere anche un accomandante), i cui poteri sono per legge limitati al compimento degli atti di ordinaria amministrazione. L'amministratore provvisorio non diventa socio accomandatario e non risponde perciò illimitatamente per le obbligazioni sociali. Liquidazione ed estinzione della società seguono le regole dettate per la società in nome collettivo. 6. La società in accomandita irregolare È irregolare la società in accomandita semplice il cui atto costitutivo non è stato iscritto nel registro delle imprese. Resta ferma la distinzione fra soci accomandatari e soci accomandanti. Infatti, anche nell'accomandita irregolare i soci accomandanti rispondono limitatamente alla loro quota, salvo che abbiano partecipato alle operazioni sociali (art. 2317, 2° comma, c.c.). Neppure il rilascio di una procura speciale per singoli affari esonera perciò l'accomandante da responsabilità illimitata verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali. Per il resto vale la stessa disciplina prevista per la collettiva irregolare. * * Capitolo tredicesimo LA SOCIET À PER AZIONI 1. Nozione e caratteri essenziali La società per azioni (S.p.a.) forma con la società in accomandita per azioni (S.a.p.a.) e con la società a responsabilità limitata (S.r.l.) la categoria delle società di capitali. Ed è una società di capitali nelle quali: a) per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società col suo patrimonio (art. 2325, 1° comma, c.c.). Ciò distingue la società per azioni dalla società in accomandita per azioni (in cui pure le partecipazioni di tutti i soci sono rappresentate da azioni), nella quale vi è una categoria di soci (gli accomandatari) responsabili solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali; b) la partecipazione sociale è rappresentata da azioni. Ciò differenzia la società per azioni dalla società a responsabilità limitata, in cui (ferma restando la responsabilità della sola società per le obbligazioni 86 sociali) le partecipazioni non possono essere rappresentate da azioni (art. 2468, 1° comma, c.c.). La S.p.a. è il modello tipico delle imprese medio-grandi, a capitale sia privato sia pubblico. In quanto società dotata di personalità giuridica gode di una piena e perfetta autonomia patrimoniale: tutti i soci non assumono alcuna responsabilità personale, neppure sussidiaria, per le obbligazioni sociali, di cui risponde solo la società col proprio patrimonio. I soci sono obbligati solo ad eseguire i conferimenti promessi. La responsabilità limitata dei soci trova contrappeso nell'organizzazione di tipo corporativo della società per azioni, basata sulla necessaria presenza di tre distinti organi: l' assemblea , un organo di gestione , un organo di controllo. Il funzionamento dell'assemblea è dominato dal principio maggioritario ed il peso di ogni socio in assemblea è proporzionato alla quota di capitale sottoscritto ed al numero di azioni possedute (maggioranza per capitale). Le competenze dell'assemblea sono circoscritte alle decisioni di maggiore rilievo, mentre la gestione dell'impresa societaria è nelle mani degli amministratori. Le quote di partecipazioni della S.p.a. sono rappresentate da partecipazioni-tipo omogenee e standardizzate. Le azioni sono infatti partecipazioni sociali di uguale valore e che conferiscono ai loro possessori uguali diritti (art. 2348, 1° comma, c.c.). Le azioni sono liberamente trasferibili e la loro circolazione avviene attraverso documenti assoggettati alla disciplina dei titoli di credito (le azioni sono titoli di massa). È così favorito il pronto smobilizzo del capitale investito ed il ricambio delle persone dei soci. Il modello della S.p.a. è tipico della grande impresa perchè è possibile la compartecipazione di un ristretto numero di soci che assumono l'iniziativa economica e sono animati da spirito imprenditoriale (cd azionisti imprenditori), con una gran massa di piccoli azionisti animati dal solo intento di investire fruttuosamente il proprio risparmio (cd azionisti risparmiatori), rassicurati dalla possibilità di pronto disinvestimento. Va detto però che esiste un gran numero di società per azioni composte da un numero non elevato di soci e costituite per la gestione di imprese di modeste dimensioni, spesso di carattere familiare (basti pensare che il capitale minimo per la costituzione di una S.p.a. è attualmente di 50.000 €, cifra certamente non cospicua). 2. L'evoluzione della disciplina La disciplina della società per azioni ha subito, dal 1942 ad oggi, una serie numerosa di interventi legislativi sotto la spinta di una duplice esigenza: a) quella di dare risposta ai problemi che il codice del 1942 non aveva saputo, voluto o potuto risolvere; b) quella di dare attuazione alle numerose direttive emanate dall'Unione europea per l'armonizzazione della disciplina nazionale delle società di capitali. Il movimento di riforma della disciplina nazionale è iniziato nel 1974, ed è proseguito con numerose altre leggi fino a sfociare, nel 1998, in un'organica disciplina delle società quotate (d.lgs. 58/1998) e, nel 2003, nella riforma della disciplina delle società di capitali non quotate (d.lgs. 6/2003). Queste le linee di tendenza che hanno portato alle numerose riforme: 87 società (ad es. spese notarili e di iscrizione nel registro delle imprese); 13) la durata della società, ma si può anche stabilire che la società sia a tempo indeterminato. L'omissione di una o più di tali indicazioni (semprechè essenziali) legittima il rifiuto del notaio di stipulare l'atto costitutivo, ma non tutti i requisiti di contenuto fissati dall'art. 2328 c.c. sono richiesti a pena di nullità. Sovente di procede alla redazione di due distinti documenti (sempre per atto pubblico):  l'atto costitutivo, più sintetico, contiene la manifestazione di volontà di costituire la società e i dati fondamentali della società stessa;  lo statuto, che si considera parte integrante dell'atto costitutivo, è più analitico e contiene le regole di funzionamento della società. In caso di contrasto, le clausole dello statuto prevalgono su quelle dell'atto costitutivo. 5. Le condizioni per la costituzione La società per azioni deve costituirsi con un capitale non inferiore a 50.000 € (art. 2327, c.c., come modificato nel 2014), salvo i casi in cui leggi speciali impongano un capitale minimo più elevato (società bancarie e finanziarie; società di gestione del risparmio; società di intermediazione mobiliare). Per procedere alla costituzione della S.p.a. è poi necessario (art. 2329 c.c.): 1) che sia sottoscritto per intero il capitale sociale; 2) che siano rispettate le disposizioni relative ai conferimenti (artt. 2342-2343 c.c.) e che sia versato presso una banca il 25% (in passato tre decimi) dei conferimenti in denaro o, nel caso di costituzione per atto unilaterale, il loro intero ammontare; 3) che sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la costituzione della società in relazione al suo particolare oggetto. Decorso il termine di 90 giorni dalla stipula dell'atto costitutivo senza che la società sia iscritta nel registro delle imprese, l'atto costitutivo perde efficacia, e i sottoscrittori hanno diritto di rientrare in possesso delle somme versate. 6. L'iscrizione nel registro delle imprese Il notaio che ha ricevuto l'atto costitutivo (o, in caso di sua inerzia, gli amministratori nominati nell'atto costitutivo) deve depositarlo, entro 10 giorni, presso l'ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede della società, allegando i documenti che comprovano l'osservanza delle condizioni richieste per la costituzione. In caso di inerzia anche degli amministratori (punita con sanzione amministrativa pecuniaria) ogni socio può provvedervi a spese della società (art. 2330 c.c.). In base all'attuale disciplina spetta al notaio verificare l'adempimento delle condizioni stabilite dalla legge per la costituzione della società. In particolare, il notaio dovrà svolgere in controllo di legalità (formale e sostanziale), volto ad accertare la conformità alla legge della costituenda società. La legge notarile prevede sanzioni amministrative a carico del notaio che richiede l'iscrizione nel registro delle imprese di un atto 90 costitutivo da lui rogato quando risultano manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge. L'ufficio del registro delle imprese, a sua volta, può e deve verificare solo la regolarità formale della documentazione ricevuta (art. 2330, 3° comma, c.c.). Con l'iscrizione nel registro delle imprese la società acquista la personalità giuridica e viene ad esistenza (non può esistere pertanto una S.p.a. irregolare). Per le operazioni compiute in nome della costituenda società fra la il momento della stipulazione dell'atto costitutivo e l'iscrizione nel registro delle imprese sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso i terzi coloro che hanno agito. Inoltre, sono solidalmente responsabili anche il socio unico fondatore e, in caso di più soci fondatori, coloro che hanno deciso, autorizzato o consentito il compimento delle operazioni (art. 2331, 2° comma, c.c.). Salvo che per le operazioni compiute a suo nome necessarie per la costituzione (ad es. spese notarili), la società non è vincolata dalle obbligazioni contratte prima della sua venuta ad esistenza; affinchè si vincoli è necessario che l'organo competente della società approvi (anche implicitamente) l'operazione successivamente all'iscrizione (resta comunque ferma la responsabilità verso i terzi dei soggetti agenti). Prima dell'iscrizione nel registro delle imprese è vietata l'emissione di azioni, ed esse non possono formare oggetto di offerta al pubblico, eccezion fatta per il caso in cui la costituzione della società avvenga per pubblica sottoscrizione. 7. La nullità della società per azioni Prima dell'iscrizione nel registro delle imprese vi è solo un contratto di società, destinato a produrre effetti solo fra le parti contraenti: tale contratto può essere dichiarato nullo o annullato nei casi e con gli effetti previsti dalla disciplina generale dei contratti (artt. 1418 ss c.c.). Dopo l'iscrizione nel registro delle imprese la società esiste. È cioè nata un'organizzazione di persone e di mezzi che è entrata nel traffico giuridico, ha dato vita ad una trama di rapporti di affari in sé validi ed alla creazione di un'organizzazione imprenditoriale ben viva e vitale. I motivi di invalidità della società, pertanto, non possono portare ad altra sanzione che lo scioglimento della società, previa definizione dell'attività svolta. Nel contempo, il legislatore non può trascurare l'esigenza di tutelare i terzi che hanno avuto relazioni d'affari con la società, nonché quella di conservare l'organizzazione societaria e i valori produttivi che essa esprime. Alla soluzione di questi delicati problemi è rivolta la disciplina speciale della nullità della società per azioni iscritta (art. 2332 c.c.). Intervenuta l'iscrizione nel registro delle imprese, la società per azioni può essere dichiarata nulla solo in tre casi tassativi (a tal numero ridotto nel 2003, in quanto prima i casi erano otto): 1) mancata stipulazione dell'atto costitutivo nella forma dell'atto pubblico; 2) illiceità dell'oggetto sociale; 3) mancanza nell'atto costitutivo (o nello statuto) di ogni indicazione relativa alla denominazione della 91 società, o ai conferimenti, o all'ammontare del capitale sociale o all'oggetto sociale. Mentre la dichiarazione di nullità di un contratto (anche del solo contratto di società per azioni prima dell'iscrizione) ha effetto retroattivo e travolge tutti gli effetti prodotti, la dichiarazione di nullità di società per azioni iscritta non pregiudica l'efficacia degli atti compiuti (nei confronti dei soci e dei terzi) in nome della società dopo l'iscrizione. Di conseguenza, i soci non sono liberati dall'obbligo dei conferimenti fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali. In breve, la nullità non tocca l'attività già svolta, ma opera solo per il futuro e come semplice causa di scioglimento della società, che si differenzia dalle cause di scioglimento di una società valida solo perchè i liquidatori sono nominati direttamente dal tribunale con la sentenza che dichiara la nullità (art. 2332, 4° comma, c.c.). Infine, mentre la nullità di un contratto è insanabile (art. 1423 c.c.), la nullità della S.p.a. iscritta non può essere dichiarata quando la causa di essa è stata eliminata e di tale eliminazione è stata data pubblicità con iscrizione nel registro delle imprese (art. 2332, 5° comma, c.c.), prima che sia intervenuta la sentenza dichiarativa di nullità. Della disciplina comune della nullità dei contratti resta l'imprescrittibilità dell'azione del nullità e che la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, nonché essere rilevata d'ufficio dal giudice. B. SOCIETÀ PER AZIONI UNIPERSONALE. PATRIMONI DESTINATI 8. La società per azioni unipersonale Il codice civile del 1942 vietata la costituzione di una società per azioni da parte di una singola persona, e sanciva la nullità della società in mancanza di pluralità di soci fondatori. Stessa cosa per le società a responsabilità limitata, fino al 1993, allorchè venne introdotta e disciplinata dal d.lgs. 88/1993 la S.r.l. unipersonale. L'incoerenza sistematica del nostro ordinamento, che continuava a prevedere nel contempo il divieto della S.p.a. unipersonale. è stata colmata dalla riforma del 2003, che consente anche la S.p.a. unipersonale. In base all'attuale disciplina: a) è consentita la costituzione della società per azioni con atto unilaterale di un unico socio fondatore (art. 2328, 1° comma, c.c.; b) anche nella società per azioni unipersonale per le obbligazioni sociali di regola risponde solo la società col proprio patrimonio. L'unico socio fondatore risponde in solido con coloro che hanno agito per le operazioni compiute in nome della società prima dell'iscrizione nel registro delle imprese. Sia in sede di costituzione della società che in sede di aumento del capitale sociale, l'unico socio è tenuto a versare integralmente, al momento della sottoscrizione, i conferimenti in denaro. Inoltre, se viene meno la pluralità dei soci, i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro 90 giorni. La violazione di tale disciplina impedisce che operi la regola della responsabilità limitata dell'unico socio. Negli atti e nella corrispondenza (ma non nella denominazione sociale) della società deve essere indicato se 92 C. I CONFERIMENTI 10. Conferimenti e capitale sociale I conferimenti costituiscono i contributi dei soci alla formazione del patrimonio iniziale della società; la loro funzione è quella di dotare la società del capitale di rischio iniziale per lo svolgimento dell'attività d'impresa (cd funzione produttiva dei conferimenti). Il valore in denaro del complesso dei conferimenti promessi dai soci costituisce il capitale sociale nominale della società, la cui funzione vincolistica e organizzativa è già stata a suo tempo illustrata. La specifica disciplina dei conferimenti prevista per la società per azioni è ispirata ad una duplice finalità: a) quella di garantire che i conferimenti promessi dai soci vengano effettivamente acquisiti dalla società; b) quella ulteriore di garantire che il valore assegnato dai soci ai conferimenti sia veritiero. E ciò per evitare che il valore complessivo dei conferimenti sia inferiore all'ammontare globale del capitale sociale (art. 2346, 5° comma, c.c.). 11. I conferimenti in denaro Nella società per azioni i conferimenti devono essere effettuati in denaro, se nell'atto costitutivo non è stabilito diversamente (art. 2342, 1° comma, c.c.). Presso una banca deve essere versato almeno il 25% (l'intero ammontare se la società è unipersonale). Costituita la società, gli amministratori possono chiedere in ogni momento ai soci i versamenti ancora dovuti. Dal titolo azionario devono risultare i versamenti ancora dovuti e, in caso di trasferimento delle azioni, l'obbligo di versamento dei conferimenti residui grava sia sul socio attuale (acquirente delle azioni), sia sull'alienante (art. 2356 c.c.). La responsabilità dell'alienante è però limitata nel tempo (3 anni dall'iscrizione del trasferimento nel libro dei soci) e ha carattere sussidiario (la società può rivolgersi all'alienante solo se la richiesta nei confronti del possessore attuale è rimasta infruttuosa). Il socio in mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto. In alternativa alla normale procedura giudiziale, la società può avvalersi di una celere procedura di vendita coattiva delle azioni del socio moroso. A tale fine, la società è tenuta anzitutto ad offrire le azioni agli altri soci: in mancanza di offerte, la società può far vendere le azioni a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato. Se la vendita coattiva non ha esito, gli amministratori possono dichiarare decaduto il socio, trattenendo i conferimenti già versati e salvo il risarcimento del maggior danno. Le azioni del socio escluso entrano a far parte del patrimonio della società, e questa può ancora tentare di rimetterle in circolazione entro l'esercizio, altrimenti la società deve annullare le azioni invendute, riducendo in misura corrispondente il capitale sociale. 95 12. I conferimenti diversi dal denaro Diversamente da quanto visto per le società di persone, non ogni entità economica diversa dal denaro può essere conferita in società per azioni. È infatti espressamente stabilito che non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni di opera o di servizi (art. 2342, 5° comma, c.c.), le quali possono solo formare oggetto di prestazioni accessorie distinte dai conferimenti (ossia di apporti dei soci non imputabili a capitale). Limitazioni sono poi state introdotte anche per quanto riguarda i conferimenti dei beni in natura e dei crediti, ai quali si applicano comunque i princìpi già esposti per le società di persone quanto alla garanzia cui è tenuto il socio conferente ed al passaggio dei rischi. Le azioni corrispondenti a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione; ossia, il socio deve porre in essere tutti gli atti necessari affinchè la società acquisiti la titolarità e la piena disponibilità del bene conferito. 13. (Segue): La valutazione I conferimenti diversi dal denaro (in natura oppure crediti) devono formare oggetto di uno specifico procedimento di valutazione. Si vuole così assicurare una valutazione oggettiva e veritiera di tali conferimenti, ed evitare che agli stessi venga complessivamente assegnato un valore nominale superiore a quello reale. Il procedimento di valutazione si articola in più fasi (art. 2343 c.c.):  chi conferisce beni in natura o crediti deve presentare una relazione giurata di stima di un esperto designato dal tribunale. La stima deve attestare che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell'eventuale sovrapprezzo. La relazione deve essere allegata all'atto costitutivo e restare depositata presso l'ufficio del registro delle imprese;  entro 180 giorni dalla costituzione della società, gli amministratori devono controllare le valutazioni contenute nella relazione di stima e, se vi sono fondati motivi, devono procedere alla revisione della stima. Nel frattempo le azioni corrispondenti sono inalienabili;  se dalla revisione risulta che il valore dei beni/crediti conferiti è inferiore di oltre un quinto rispetto a quello per cui avvenne il conferimento, la società deve ridurre proporzionalmente il capitale sociale e annullare le azioni scoperte. Ma il socio può optare, in alternativa, di versare la differenza in denaro, oppure recedere dalla società, con diritto alla liquidazione del valore attuale delle azioni sottoscritte; il socio recedente ha diritto alla restituzione in natura del bene conferito, se ciò è possibile. Del descritto procedimento di stima (costoso e lungo) oggi si può fare a meno in alcuni casi in cui il valore del conferimento in natura risulta già in modo attendibile da altre circostanze, ossia: 1) per i titoli quotati nel mercato dei capitali (cd valori mobiliari, come azioni od obbligazioni) e per gli strumenti quotati nel mercato monetario (titoli di debito pubblico, certificati dei deposito, ecc.), al prezzo medio ponderato di loro negoziazione nei 6 mesi precedenti il conferimento; 96 2) per titoli non quotati e per beni o crediti diversi dai titoli, al fair value (valore di scambio del bene o del credito iscritto nel bilancio di esercizio precedente a quello in cui è effettuato il conferimento, oppure 3) al valore risultante da una valutazione riferita ad una data precedente di non oltre 6 mesi il conferimento e conforme a princìpi e criteri generalmente riconosciuti per la valutazione dei beni oggetto del conferimento (può essere perciò redatta una stima non giurata da un esperto indipendente dalla società e dal socio conferente, senza ricorrere alla nomina del tribunale). Gli amministratori possono tuttavia richiedere una nuova valutazione del conferimento in natura secondo la normale procedura ex art. 2343 c.c., qualora ritengano inattendibile il valore ad esso attribuito, ad esempio perchè fatti eccezionali (come la mancanza di liquidità del mercato) hanno sensibilmente modificato il valore degli strumenti finanziari alla data di iscrizione della società nel registro delle imprese rispetto al prezzo medio di quotazione dei precedenti 6 mesi. Gli accertamenti devono essere espletati entro 30 giorni dall'iscrizione della società. Se non intendono contestare il valore del conferimento, gli amministratori, nel medesimo termine, iscrivono nel registro delle imprese una dichiarazione in cui indicano il metodo con cui sono stati stimati i beni/crediti conferiti, attestano che il valore così determinato è almeno pari a quello oro attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell'eventuale sovrapprezzo e danno atto del risultato positivo dei controlli da essi effettuati. Fino all'iscrizione di tale dichiarazione le azioni corrispondenti sono inalienabili. In passato l'obbligo della stima dei conferimenti in natura poteva essere eluso quando il socio, figurante quale socio conferente denaro, una volta costituita la società vendeva alla stessa un bene per l'importo corrispondente alla somma da lui dovuta a titolo di conferimento in denaro, e così il suo debito si estingueva per compensazione. Questo pericolo è oggi neutralizzato (per i primi due anni di attività della società) dall'art. 2343bis (introdotto nel 1986), che prevede la preventiva autorizzazione dell'assemblea ordinaria e la presentazione da parte dell'alienante della documentazione prevista per la stima dei conferimenti in natura in caso di acquisto della società di beni o crediti (ccdd acquisti pericolosi) dai promotori, dai fondatori, dai soci attuali o dagli amministratori quando: a) il corrispettivo pattuito è pari o superiore al decimo del capitale sociale; b) l'acquisto è compiuto nei due anni dall'iscrizione della società nel registro delle imprese. In caso di violazione di tale disciplina, l'acquisto resta valido, ma gli amministratori e l'alienante sono solidalmente responsabili per i danni causati alla società, ai soci o ai terzi. * * 97