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Riassunto Manuale di storia greca, Bearzot, Sintesi del corso di Storia Antica

Riassunto del libro Manuale di Storia Greca di Cinzia Bearzot, Bologna, 2015

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 29/01/2021

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clara_fena 🇮🇹

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Scarica Riassunto Manuale di storia greca, Bearzot e più Sintesi del corso in PDF di Storia Antica solo su Docsity! La formazione della civiltà greca 1. PREISTORIA E PROTOSTORIA (40000-2000) Durante il Paleolitico, circa nel 40.000 a.C. tracce di occupazione umana si riscontrano in Grecia a partire dalle zone settentrionali. Gli abitanti sono cacciatori e raccoglitori e conducono una vita seminomade. Nel 7000-6000 inizia il processo di sedentarizzazione che conduce al Neolitico, periodo che in Grecia copre l’arco cronologico dal 6000 al 3000. Si formano comunità stabili, riunite in villaggi, dedite all’agricoltura e all’allevamento. I siti più importanti si trovano al nord e nelle isole. Fin dalla preistoria il bacino dell’Egeo appare caratterizzato da intense relazioni, intrattenute dalle popolazioni che vi abitano con quelle di territori limitrofi o anche più distanti. Esplorazioni e scambi sono favoriti da: - Situazione geografica, grazie alla profonda compenetrazione di terra e di mare; - Frazionamento insediativo, collegato con una struttura orografica che divide il territorio in distretti regionali; - Necessità di reperire risorse primarie. Intorno al 3500-3000 la transizione dal Neolitico all’Età del Bronzo corrisponde ad un notevole ampliamento dei circuiti di scambio verso l’Egeo orientale e l’Europa centrale. I centri più importanti si spostano dalle zone settentrionali a quelle meridionali (Peloponneso, Cicladi, Creta): proprio dove si svilupperanno le più grandi civiltà di questo periodo, quella minoica a Creta e quella micenea nella Grecia peninsulare. In questo periodo abbiamo un’ulteriore crescita delle relazioni e degli scambi, anche grazie alla diffusione della metallurgia. Grazie allo sviluppo dei contatti reciproci, durante il bronzo antico diverse comunità mostrano analoghi sviluppi, consistenti nel passaggio da un’economia agro-pastorale di pura sussistenza a una crescente utilizzazione delle risorse non agricole e nell’insediamento in villaggi con case difesi da mura. Si formano così diverse aree regionali caratterizzate da una produzione artigianale specifica, anche se il ricorrere di forme comuni fa pensare a una circolazione di oggetti, tecniche e individui. Un ruolo fondamentale di ponte è svolto dalle Cicladi e dai loro artigiani e marinai. 2. LA CIVILTÀ MINOICA (2000-1450) Verso la fine del III millennio (2000 circa) l’Egeo si scinde in due aree: 1. Creta e le Cicladi, caratterizzate dall’espansione delle città, dall’adozione del sistema palaziale e dal mantenimento di un intenso livello di scambi; 2. Peloponneso e Grecia centrale e settentrionale, in cui si registra una regressione culturale. 
 L’esistenza della civiltà minoica fu scoperta solo agli inizi del XX secolo grazie agli scavi di Arthur Evans nell’area dell’antica Cnosso. Tra il 2000 e il 1450 ca. l’isola di Creta svolge un ruolo di primo piano, sia durante il periodo dei primi palazzi (2000-1700), edificati in forme semplici a Festo e Cnosso, sia durante quello dei secondi palazzi (1700-1450), che rappresenta l’apogeo della civiltà minoica. Durante la seconda fase i palazzi già esistenti, dopo una grave distruzione attribuibile a cause naturali oppure alle conseguenza di lotte interne, vengono ricostruiti in forme più complesse. Tale fase è caratterizzata dall’egemonia di Cnosso, la cui denominazione deriva dal mitico re cnossio Minosse, ricordato da Tucidide come il più antico possessore di una flotta e dominatore del mare in area egea. Il sistema palaziale, già presente nel Vicino Oriente, è un sistema di organizzazione politico- sociale fortemente centralizzato, basato appunto sul palazzo e sulle sue diverse funzioni: sede del potere politico, esso svolge anche funzioni economiche (organizzazione della produzione agricola e artigianale, raccolta delle materie prime, dei prodotti della terra e dei manufatti, di ridistribuzione degli strumenti di lavoro e delle risorse disponibili, ecc.), nonché religiose e culturali.
 L’adozione del sistema palaziale a Creta è stata collegata, oltre che all’influenza orientale, anche a un’evoluzione interna legata a fattori diversi, come l’introduzione delle colture della cosiddetta triade mediterranea (vite, ulivo, cereali), che avrebbe creato la necessità di organizzare la produzione, la raccolta delle eccedenze e la loro ridistribuzione, e lo sviluppo di un artigianato altamente specializzato. 
 Dal punto di vista architettonico, il palazzo ha una struttura complessa, che è alla base della tradizione cretese sul Labirinto. Intorno ad un grande cortile centrale, di forma rettangolare, si raggruppano stanze di servizio, d’abitazione e di ricevimento, sale di culto, magazzini, uffici, laboratori; un ampio cortile lastricato introduce alla facciata monumentale, collocata sul lato occidentale. Il palazzo è aperto sull’ambiente circostante e sull’abitato che lo circonda. La mancanza di fortificazioni sembra indicare una certa sicurezza rispetto alle aggressioni esterne. Particolare attenzione è rivolta anche all’aerazione e all’illuminazione. Molti ambienti sono decorati con affreschi policromi. Sempre a proposito della dimensione artistica, a Creta si segnalano la ceramica dello stile di Kamares, decorata con motivi naturalistici, come il polipo, e preziosi manufatti di metallurgia e oreficeria. Un elemento fondamentale nello sviluppo della civiltà minoica è poi costituito dai progressi dei sistemi di notazione, dall’uso dei sigilli a quello della scrittura. Essa, necessaria per la contabilità palaziale, era già nota in Mesopotamia ed Egitto, ma i Cretesi approntarono un sistema autonomo: prima una scrittura ideogrammatica (definita da Evans “geroglifica”); poi la appare molto gerarchizzata. Il wanax e il lawagetas sono assegnatari di una porzione di terra, il temenos; sotto di loro vi sono altri funzionari assegnatari di terre, i telestài; la base produttiva è garantita da personale dipendente, che comprende il damos (popolazione che paga le tasse, dotata di una certa autonomia) e i servi. La produzione agricola e l’allevamento sono controllati rigidamente dal palazzo, così come l’industria tessile e metallurgica. Il palazzo funge da centro di un sistema economico di tipo ridistributivo, che controlla un territorio statale ampio, in cui sono integrati principati e regni più piccoli. Per esempio, Pilo è suddiviso in due province, a loro volta divise in otto distretti guidati da un koreter, che rappresenta il potere centrale. Nel 14-13 secolo i Micenei si proiettano verso l’esterno, creando relazioni complesse e articolate che variano dai contatti occasionali agli scambi sistematici di materie prime e manufatti, fino a forme di interscambio culturale. Ben testimoniate sono le relazioni con Cipro, l’area siro-palestinese, l’Egitto e la Libia; ma anche Sicilia e Italia meridionale. L’esigenza principale che spinge i Micenei è la necessità di reperire metalli, materiali preziosi, tessuti e legname in cambio di olio, vino, lana e lino. 4. L’“ETÀ OSCURA” (1100-800 CA.) Nel 13 secolo (1300-1200), i palazzi minoici subiscono una prima distruzione. Dopo la ricostruzione, intorno al 1200 si ha una seconda ondata di distruzioni: sono testimoniate una serie di opere difensive di emergenza che fanno pensare a un pericolo proveniente dal mare. Le conseguenze della caduta dei palazzi micenei sono molto gravi per il sistema politico, sociale ed economico che faceva perno su essi: l’unità culturale caratteristica del periodo minoico-miceneo va incontro ad una grave frattura. I palazzi e le fortificazioni decadono e scompaiono, sostituiti da diverse e più semplici tipologie abitative. A partire dal 1100 ca. la maggior parte del continente greco e delle isole è caratterizzata dall’abbandono dei siti e dallo spopolamento. Nel corso dell’XI secolo una serie di importanti innovazioni segnala il passaggio a nuove forme di civiltà: - La scomparsa delle tombe a tholos e a camera, sostituite da tombe individuali a fossa; - L’introduzione dell’incinerazione; - Il cambiamento degli stili ceramici con l’introduzione dello stile geometrico; - Il passaggio della metallurgia del bronzo a quella del ferro, che attesta la fine dei grandi viaggi di scambio: l’età oscura è caratterizzata da uno spiccato isolamento. Questi cambiamenti sono stati collegati all’arrivo di popoli invasori che provenivano dal Nord, di popolazioni di stirpe e dialetto dorici. A questa ipotesi è collegata anche la leggenda del ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso, 80 anni dopo la guerra di Troia (che risale alla fine del 12 secolo). Tale ipotesi sembra però scontrarsi con la difficoltà di collegare con i Dori innovazioni come l’incinerazione, l’uso del ferro e lo stile geometrico. Un’altra spiegazione stat individuata nelle scorrerie dei Popoli del mare che nello stesso periodo minacciarono l’Egitto e il regno ittita, ma resta tutto ipotetico. Più probabile è l’ipotesi che vede nelle distruzioni la conseguenza di terremoti e incendi, seguiti da carestie che avvennero messo in crisi il sistema centralizzato dell’economia palaziale, che era orientata sul commercio internazionale e quindi molto vulnerabile: la chiusura di alcune rotte commerciali potrebbe averla danneggiata. La fine della civiltà micenea sarebbe stata così l’esito di una serie di cause convergenti, che provocarono una lenta recessione. In questo periodo si creò una società decentralizzata, tendente all’autosufficienza sul piano economico e caratterizzata, sul piano della civiltà, da un accentuato regionalismo. Sul piano politico la società è caratterizzata da una forte instabilità e dalla competizione tra capi rivali o basileis, sulla base delle capacità personali e della pratica del dono. Ma soprattutto, la frattura tra la civiltà Micenea e l’età del ferro è evidenziata dalla perdita delle capacità tecniche in ambito architettonico e della conoscenza della scrittura in tutta l’area egra. Le premesse per la ripresa che porterà alla fioritura della civiltà greca arcaica, che ci appare già ben visibile nel corso del 700, sono comunque già rintracciabili durante l’età oscura, e sono legate sicuramente alla permanenza di forme di interscambio: l’arrivo di nuove popolazioni da una parte, gli spostamenti di Micenei alla ricerca di nuovi sedi dall’altra, mantennero viva la mobilità. Promotrici di contatti tra Greci e stranieri furono sicuramente l’Attica (particolarmente avanzata sul piano culturale) e l’Eubea (ricca di ferro e in posizione privilegiata), centro di scambi con l’Oriente. La cosiddetta migrazione ioinca, che, partendo dall’Attica e dall’Eubea, porta al popolamento della Ionia d’Asia, si colloca sullo scorcio dell’XI secolo, intorno al 1000 circa. Per Tucidide questa migrazione fu la conseguenza delle rinnovate condizioni di tranquillità in cui la Grecia venne a trovarsi dopo i sommovimenti legati alla “invasione dorica”. La migrazione che attraversò l’Egeo verso la Ionia contribuì alla nascita di una identità ionica, con la formazione della Dodecapoli ionica riunita intorno al santuario di Poseidone a Capo Micale, il Panionion. La Grecia torna così ad imboccare, attraverso la ripresa della mobilità, la via che porterà allo sviluppo della città e della navigazione transmarina, indicatore di progresso della civiltà greca. Merita di essere sottolineato il ruolo di mediazione culturale svolto dai santuari, che mostrano il contributo dei greci d’Asia all’interazione conte popolazioni non greche dell’Asia Minore. I santuari cominciano a promuovere l’incontro di realtà eterogenee anche nella madrepatria, come rivela l’importanza assunta dai santuari peloponnesiaci, ma soprattutto da quelli panellenici di Olimpia e di Delfi: il primo, santuario prettamente greco e dorico, portatore di una concezione esclusiva dell’ellenismo; il secondo, “oracolo degli uomini”, aperto anche a influenze straniere. 5. L’ALTO E MEDIO ARCAISMO Generalmente, la cronologia dell’età arcaica distingue tra alto arcaismo (730-580) e tardo arcaismo (580-guerre persiane). Secondo la cronologia di Domenico Musti, l’alto arcaismo copre il periodo tra la fine dell’XI secolo (1000 circa) e l’ultimo terzo dell’VIII (730 circa); a esso segue il medio arcaismo, tra il 730 e il 580: in questo caso l’età oscura è in parte compresa nell’alto arcaismo. Con le prime fasi del periodo arcaico, la Grecia inizia a superare la regressione determinata dalla caduta dei palazzi micenei. La Grecia alto-arcaica ha ancora una spiccata caratterizzazione regionale. Sono distinguibili zone diverse: 1. Una Grecia occidentale complessivamente arretrata, priva di siti importanti, dove fin dal X secolo (1000-900) acquisisce grande rilievo il santuario di Olimpia; 2. Una Grecia centrale unitaria sul piano culturale; 3. L’Attica, molto avanzata sul piano tecnologico, nel campo della ceramica e della metallurgia del ferro e aperta a contatti con l’Oriente; 4. L’Eubea, ricca di ferro, dove è molto importante il sito di Lefkandi, le cui necropoli costituiscono la più significativa testimonianza di interscambio commerciale tra Grecia e Oriente; 5. Il Peloponneso orientale, dove acquisiscono importanza notevole centri come Corinto, Argo, Epidauro e dove si affermano santuari. La caratterizzazione regionale della Grecia di quest’epoca si riflette anche nella lentezza del processo di formazione del nome con cui i greci si definivano in età storica: in Omero “elleni” identificava genti della Grecia settentrionale, per designare i greci nel loro insieme usava “danai”, “argivi” e soprattutto “achei”, il nome più diffuso. La progressiva affermazione del nome “elleni” è compiuta nel 7 secolo, perché comprendeva Eoli, Ioni e Dori, le tre grandi stirpi greche. Da un punto di vista istituzionale, la maggior parte delle nostre notizie sulla Grecia di quest’epoca deriva dai poemi omerici. La poesia di Omero riflette frazionamento politico, determinato dalla presenza di più di mille stati indipendenti, diversi per le dimensioni geografiche e la natura del territorio, per le caratteristiche socio-demografiche e insediative, per l’assetto urbanistico e monumentale, per le modalità di definizione della costituzione. Il processo della polis, che comincia prima del 700, si estende per in lungo arco cronologico. Tale processo presuppone alcuni fattori che segnalano il superamento delle condizioni caratteristiche dell’età oscura: la stabilità delle comunità sul territorio, lo sviluppo dell’economia agricola, la crescita demografica, il miglioramento del livello di vita. Questo fenomeno interessa l’intera Grecia e ha un carattere non solo urbanistico, ma anche sociale. La polis è definibile come una società politica strutturata intorno alla nozione di cittadinanza, nella cui formazione svolgono un ruolo primario elementi ideali come il culto poliate e l’ideologia comunitaria. L’“ideologia della polis” comporta che territorio e popolazione siano sentiti come una cosa comune, che la popolazione debba partecipare alla sua gestione, che il potere debba essere esercitato per periodi definiti e a rotazione, che il suo esercizio debba essere conforme alle regole fissate dalla legge. Il fenomeno della formazione della polis non può prescindere dallo sviluppo di strutture che richiedono un’adeguata organizzazione dello spazio. Con un movimento centripeto, definito “sinecismo”, la realtà cittadina si organizza intorno a un centro, attraverso l’aggregazione di diverse unità minori, i villaggi o komai. Tale aggregazione può avere carattere fisico, e comporta un trasferimento di popolazione e cambiamenti insediativi; oppure carattere istituzionale e lasciare invariate le più antiche strutture di insediamento (es. Atene). Nel centro urbano, luogo politico e religioso, hanno sede le principali strutture funzionali e cultuali. È lo spazio religioso a dotarsi per primo di strutture architettoniche, solo in un secondo momento compaiono gli edifici di carattere civile e amministrativo. Ricordiamoci che il centro urbano mantiene un rapporto di stretta dipendenza con la chora. Metà della popolazione risedeva infatti nelle campagne. Sul piano economico, la città greca non prescinde mai dall’attività agricola, anche in presenza di vasti interessi commerciali; la proprietà della terra è una delle modalità di partecipazione del cittadino alla comunità, e la piccola proprietà è in genere ampiamente diffusa. La terra, sfruttata in modo razionale attraverso l’integrazione della triade mediterranea con altre colture leguminose e il ricorso ad innovazioni tecniche, costituisce un’adeguata fonte di sussistenza per il cittadino proprietario. Allo stesso modo, la polis può trarre rendite dalla terra mediante l’affitto delle terre demaniali, assicurando alla città un introito in denaro e in natura. Per la maggior parte delle città greche la chora provvede ad assicurare il sostentamento dei cittadini e le risorse per far fronte alle esigenze della comunità. La presenza di un adeguato sviluppo urbanistico e architettonico non sembra aver avuto mai un ruolo significativo né nella definizione della polis in quanto tale, né nella distinzione tra poleis “grandi” e “piccole”. Le fonti mostrano infatti indifferenza per le dimensioni spaziali e per le strutture urbanistiche, che si comprende bene se si riflette sul valore primariamente sociale del concetto di polis: sono gli uomini a fare la polis, non mura o navi vuote di uomini. La stessa varietà che si riscontra nell’assetto esteriore delle poleis si ha anche nella definizione della costituzione (politeia), basata sulla nozione di appartenenza/condivisone. La composizione del corpo civico può essere definita in modo più o meno ampio, sulla base di diversi criteri: nascita (figli di almeno un cittadino), proprietà terriera, contributo militare, professione, svolgimento di un adeguato percorso di formazione. La città così concepita ha in sé spinte propulsive di carattere egalitario: quanto più un cittadino si sente partecipe del comune destino e a esso contribuisce fattivamente, tanto più richiede una condizione paritaria rispetto ai concittadini, quella che i Greci chiamavano isonomia (aver parte uguale), e la partecipazione alla gestione della comunità. La polis è dunque un modello tendenzialmente inclusivo, che tende al progressivo inserimento degli uomini liberi nell’ambito di un contesto politico paritario. All’affermazione di tendenze isonomiche nell’ambito della polis contribuì anche la riforma oplitica, uno dei fattori chiamati in causa per spiegare il processo di formazione della città intesa come realtà sociale. Si tratta di una riforma militare per cui il nucleo dell’esercito venne a essere costituito non più dalla cavalleria, ma dai fanti armati pesantemente, i cosiddetti opliti. Il servizio nella falange oplitica era fornito dai membri della classe media, costituita dai contadini liberi: combattendo insieme per la difesa della patria essi rafforzarono i loro reciproci vincoli di solidarietà e l’integrazione nella comunità e richiesero un trattamento paritario e una maggiore partecipazione politica. Anche l’evoluzione del modo di combattere contribuì così a far emergere nella polis una sostanziale tendenza isogonica, tanto che uguaglianza diventerà una parola d’ordine sia per i cittadini della democratica Atene, che rivendicavano orgogliosamente la loro uguaglianza dei diritti e di parola, sia per quelli dell’oligarchica Sparta, che si definivano homoioi, “gli uguali”. L’importanza della politeia nella definizione della polis può desumersi dal fatto che essa, nel IV secolo, è definita da Isocrate come anima della città e da Aristotele come vita della città. La città viene così equiparata a un organismo umano, di cui la politeia costituisce il principio vitale e caratterizzante, capace di modellare il cittadino; una buona politeia è quindi fondamentale per realizzare il fine della polis, cioè far vivere bene l’uomo, animale politico per eccellenza. Il pensiero politico greco classifica le costituzioni sulla base di una tripartizione in monarchia, oligarchia e democrazia, la cui prima attestazione articolata si trova nel Discorso Tripolitico di Erodoto, cioè un dibattito tenuto in Persia tra i notabili Otane, Megabizo e Dario: - Otane difende la democrazia e critica il regime monarchico, caratterizzandolo con i tratti tipici della tirannide, in cui l’autocrate con la sua prepotenza e la sua invidia dei migliori viola il nomos, mentre la democrazia è caratterizzata dalla parità di diritti, le cariche pubbliche sono sorteggiate e le decisioni messe in comune. - Megabizo critica la democrazia, accusando il popolo di essere prepotente quanto un tiranno ma senza avere l’intelligenza politica necessaria per governare, e difende l’oligarchia, selezionando gli uomini migliori dal punto di vista socio-economico, perché il popolo, in quanto povero, è anche cattivo e ignorante. - Dario critica l’oligarchia perché caratterizzata dallo sviluppo di rivalità personali legate alla sete di potere e la democrazia per la malvagità del popolo e difende la monarchia in quanto un solo uomo eccellente può governare nel modo migliore e garantire efficienza. La democrazia appare qui come la migliore realizzazione delle tendenze isogoniche insite nel concetto di polis. La Grecia però non era fatta solo di poleis: fin dall’arcaismo è presente anche lo stato federale, accanto allo stato cittadino. Questo tipo di stato era stato denominato ricorrendo a termini generici come ethnos (che propriamente significa “popolo”, “nazione”, non ha implicazioni politiche e può anche riferirsi alle tribù etniche in cui le popolazioni si dividevano) o come 
 koinon (che indica qualunque tipo di comunità, dalle associazioni religiose a quelle professionali). Lo stato federale era caratterizzato dalla sympoliteia, cioè dalla coesistenza di una cittadinanza federale con una cittadinanza locale: in ambito ufficiale essa si esprime nella definizione onomastica del cittadino, che accosta all’etnico del koinòn, la specificazione della località di origine, espressa con un complemento di provenienza. (Es. Tessalo di Larissa). Nella formazione degli stati federali è fondamentale il ruolo del culto comune in cui i vari gruppi locali si riconoscono. Esso costituisce il fondamento indennitario intorno a cui si aggregano gli elementi della complessa realtà federale; la sua celebrazione periodica determina il progressivo sviluppo di organismi comuni anche di carattere politico, basati in gran parte sul principio di rappresentanza (sull’invio di delegati delle singole comunità a rappresentarle in sede federale). la mutua assistenza (espressa attraverso l’ospitalità concreta , cioè l'offerta di vitto e alloggio) e veniva sancita con lo scambio di symbola, piccoli oggetti spezzati in due parti, che servivano come strumento di riconoscimento e come prova dei legami di ospitalità anteriormente stabiliti. La xenia costituì uno degli strumenti mediante i quali le grandi famiglie aristocratiche giunsero a intessere una fitta rete di rapporti al di fuori della comunità di appartenenza. Un ulteriore strumento delle relazioni internazionali fra aristocratici furono i legami matrimoniali, che unirono casate appartenenti a città e popoli diversi. Un altro aspetto della dimensione “internazionale” dello stile di vita aristocratico è l’inserimento dei membri delle aristocrazie nei circuiti agonali e propagandistici legati alle feste religiose panelleniche. Gli aristocratici, per dar prova della propria areté, si confrontavano infatti con i propri pari negli agoni atletici (ma anche poetici e musicali) previsti nei Giochi Olimpici (iniziati secondo la tradizione nel 776), Pitici, Istimici e Nemei. La vittoria in questi agoni era fonte di grande prestigio per il singolo individuo, per la sua famiglia e per l’intera comunità. Sul piano militare l’aristocrazia è legata al modello omerico del duello eroico e all’uso del cavallo. Quella che Tucidide considera la prima guerra panellenica, combattuta in Eubea fra Calcide ed Eretria per il possesso della pianura di Lelanto, fu caratterizzata proprio dal confronto fra capi aristocratici che combattevano a cavallo. La crisi dell’aristocrazia, innescata da fenomeni complessi come la diminuzione della produzione agricola e il conseguente impoverimento e indebitamento dei contadini, che minarono le basi socioeconomiche dei regimi aristocratici, trova un importante risvolto militare nell’avvento di quel nuovo modo di combattere che noi chiamiamo “riforma oplitica”. Con questa riforma, incentrata sul ruolo dell’oplita, il fante armato pesantemente, la funzione guerriera cessò di essere un privilegio aristocratico e si ampliò fino a comprendere i membri del demos. L’armamento dell’oplita era accessibile anche agli strati meno ricchi della popolazione e in cambio del contributo dato alla difesa della comunità, richiesero ed ottennero una corrispondente integrazione sociale e politica, fattore che contribuì al tramonto delle vecchie aristocrazie di cavalieri. Classico schieramento degli opliti era la falange: file ordinate in modo da formare una barriera ininterrotta di scudi. Nella falange dunque il soldato combatte a ranghi serrati, difendendo se stesso e il proprio vicino; per assicurare questa difesa e per garantire alla falange la necessaria forza d’urto, è fondamentale che il fante mantenga il proprio costo nello schieramento; il che implica il superamento dell’individualismo e una profonda integrazione del singolo nel gruppo.
 L’areté eroica del guerriero aristocratico viene così superata e si affermano nuovi valori, come la virtù dell’autocontrollo e della moderazione (sophrosyne) e il senso della solidarietà e della parità fra uguali. Dall’oplitismo nacquero così comunità di cittadini più ampie e coese che, sul piano costituzionale, si diedero, al posto delle aristocrazie, governi timocratici, cioè basati sul censo (timé) e quindi potenzialmente più aperti e caratterizzati da una maggiore mobilità sociale.
 5.3. Il movimento coloniale Il fenomeno più notevole dell’alto e medio arcaismo è di certo il movimento coloniale del 700 e del 600, che conferma la grande importanza della mobilità umana e dell’interscambio culturale nel processo di formazione e di sviluppo della civiltà greca. La colonizzazione è spesso stata vista come l’esito di spinte determinate da diversi fattori, quali sovrappopolazione, esigenze commerciali, fame di terre, rivolgimenti politici collegati con la crisi delle aristocrazie. La tendenza a fondare nuove comunità è un aspetto che non si limita alla grande ondata dell’VIII e del VII secolo. Il mondo greco è interessato costantemente da fenomeni di spostamento e di migrazione, con una significativa pluralità che si riflette nella ricca articolazione terminologica: - Le colonie di popolamento, le cosiddette apoikiai, sono generalmente quelle di età arcaica e il loro nome esprime l’idea dell’allontanamento dal luogo in cui si abita; in altre parole, si tratta delle colonie legate al fenomeno dell’emigrazione. Esse creano nuove comunità completamente autonome e indipendenti da un punto di vista politico, mantenendo relazioni con la madrepatria solo sul piano linguistico, religioso e culturale. Certo i rapporti possono alla lunga mutare; e nella Grecia si sono visti sia rapporti di affiliazione, come nel caso Corinto/ Siracusa, sia rapporti di guerra aperta, come per Corinto/Corcira. - Le colonie militari-agricole di cittadini, dette cleruchie, prevedono che i coloni mantengano la cittadinanza originaria. - Gli epoikiai, ovvero i rincalzi coloniari, cioè l’invio di coloni a prendere possesso di comunità già esistenti o a rafforzare un’iniziativa coloniale già in atto. - Gli empori commerciali, come Naucrati sul delta del Nilo. - Le colonie panelleniche come Turi. - Fondazioni regie e kataoikiai militari di età ellenistica (eredi delle più antiche cleruchie). Il movimento coloniale di VIII e VII secolo procede sulle rotte già battute dai Micenei e dalla navigazione precoloniale. Tuttavia, se nell’VIII secolo prevalgono le iniziative individuali, nel VII secolo, invece, viene dato maggiore impulso dalla stato. Destinazioni privilegiate sono: in Occidente, l’Italia meridionale e la Sicilia, l’Africa settentrionale, la Gallia, la Spagna; in Oriente, Macedonia, Tracia, zona degli Stretti e coste del Mar Nero. L’accresciuta importanza del fenomeno coloniale è sottolineata dallo scoppio di guerre coloniali, come probabilmente la guerra di Lelanto e sicuramente la guerra tra Corinto e la sua colonia Corcira, in cui si svolse nel 664 la più antica battaglia navale della storia greca (Tucidide). Un ruolo primario nell’iniziativa coloniale va riconosciuto ai Calcidesi d’Eubea e ai Corinzi. 1. I Calcidesi, di stirpe ionica, cercarono in terra coloniale quel sostentamento impedito in patria dall’accentramento della proprietà terriera nelle mani degli Ippoboti, ma anche sbocchi di mercato per i propri manufatti e materie prime, tra cui il ferro. 2. I Corinzi, di stirpe dorica, maturarono fin dal 700 una vocazione marinara e commerciale, anche grazie alla posizione geografica che ne consente il controllo; in Occidente essi cercarono soprattutto terre fa coltivare, ma l’industria ceramica e cantieristica li portò a farsi anche rivali delle città dell’Eubea sulle rotte commerciali. Interessi agrari e commerciali che spesso sono stati visti come antitetici, sembrano dunque da considerare invece convergenti nella colonizzazione. La più antica colonia greca d’Occidente è Pitecussa (Ischia), fondata da Calcide in Campania intorno al 770. L’isola ha restituito la cosiddetta coppa di Nestore, recante la più antica iscrizione greca in versi. Poco dopo, sempre coloni di Calcide fondarono Cuma, che nel VII secolo controllava la pianura campana e contendeva terre e rotte agli etruschi. In Sicilia, i calcidesi fondarono Nasso (734), che a sua volta fondò Leontini e Catania, e Zancle (730 circa). In Italia fondarono Reggio (720 circa). Secondo Tucidide, un anno dopo la fondazione di Nasso, Corinto fondò Siracusa. Sempre in Sicilia, Megara fondò nel 727 Megara Iblea, che a sua volta fondò la subcolonia di Selinunte. Al 668 risale la fondazione di Gela da parte di coloni rodii e cretesi; nel 580 Gela fondò Agrigento. In Italia, fondazioni achee furono Sibari (720), Crotone, Caulonia, Metaponto e Posidonia. Sparta fondò Taranto nel 705, inviandovi i Partenii, nati probabilmente da unioni extramatrimoniali tra donne spartane libere e schiavi. Importanti colonie in area occidentale furono Cirene, fondata da Tera nel 630, e Massalia, fondata da Focea intorno al 600. In Oriente, Calcidesi e Corinzi colonizzarono le coste della Tracia, ricche di oro, argento e legname. Paro fondò Taso, per il controllo delle miniere della costa traccia; Mileto, Focea e Megara colonizzarono l’area dell’Ellesponto e del mar Nero. La tradizione che fa capo a Strabone attribuisce ai Milesii la fondazione, alla fine del 600, sulla foce canopica del Nilo, dell’emporio di Naucrati, dove cereali, papiro, lino e avorio venivano scambiati con vino, olio, ceramica, argento. Alla fine del 600 fu attivo in Atene il legislatore Dracone, della cui legislazione si ricordava la particolare severità, che avrebbe redatto una costituzione i cui elementi sono però molto incerti, perché attestati da una tradizione fortemente influenzata dalla propaganda oligarchica. Meglio nota è invece la legge draconiana sull’omicidio, che sottraeva spazio al regime della vendetta privata, lasciando alla famiglia del morto l’iniziativa dell’azione penale, ma allo stato l’applicazione della pena di morte e incoraggiando la transazione; soprattutto distingueva i tipi di omicidio e le relative pene sulla base dell’atteggiamento soggettivo dell’omicida e, quindi, del grado di volontarietà dell’azione. Si trattò quindi di un rivoluzionario intervento nell’ambito del diritto penale, che tentava di superare i rigori dell’antica prassi della vendetta familiare riservando alla polis il ruolo principale. 5.5. La tirannide La codificazione delle leggi fu importante per allentare le tensioni sociali collegate con la crisi delle aristocrazie, ma non risolutiva. Alcuni intraprendenti capi politici si misero alla guida del popolo contro gli aristocratici, acquisendo un importante ruolo personale. Alcuni di loro svolsero la funzione di mediatori tra interessi diversi, di pacificatori, e deposero il potere una volta realizzato il loro obiettivo (come Solone in Atene); altri mantennero il potere e si fecero tiranni. Il termine tiranno, forse di origine microasiatica, significa signore e identifica colui che esercita un potere assoluto; già nel 600 la parola assume una connotazione negativa alludendo a un potere esercitato senza il consenso dei cittadini. Aristotele, nella Politica, individua diversi modelli di tirannide: - Il tiranno demagogo che diviene tale appoggiandosi al popolo - Il tiranno ex magistrato, che, a partire da un ruolo istituzionale, conquista un potere eccezionale; - Il tiranno il cui potere nasce dalla degenerazione di una monarchia o di una oligarchia. I moderni si sono interrogati sugli interessi che i tiranni rappresentano: alcuni hanno valorizzato il rapporto con i nuovi ceti artigiani e mercantili, altri quello con l’elemento militare oplitico e quindi con il ceto medio agrario. In realtà è difficile generalizzare, perché il fenomeno della tirannide interpreta e aggrega spinte diverse: - La lotta contro le aristocrazia (dalle quali spesso i tiranni stessi provengono, pur appartenendo a frange emarginate); - Il riscatto dei contadini poveri e indebitati, - La nascita di nuove realtà economiche e di nuovi gruppi sociali. In genere i tiranni non intervennero sulla situazione costituzionale delle città, che rimase invariata; essi agirono piuttosto sulla situazione politica e sociale, operando nel senso di un’integrazione degli esclusi attraverso la ridistribuzione della terra. Non a caso Tucidide inserisce la tirannide tra i fattori di sviluppo della Grecia Arcaica nel contesto di un superamento della debolezza e dell’isolamento originari favorito dalla crescita della potenza politico-militare, della ricchezza, delle rendite provenienti dai tributi, dalla marineria. Interessante è anche la politica religiosa dei tiranni, che appare complessivamente incline alla valorizzazione di culti panellenici e rurali rispetto a quelli poliadi e di culti misterici di carattere non gentilizio: ciò conferma da una parte gli orientamenti antiaristocratici della tirannide, dall’altra l’inserimento nella prospettiva internazionale valorizzata da Tucidide. Anche se non furono veri e propri riformatori sociali, i tiranni contribuirono così all’evoluzione della società verso forme più egalitarie, accelerando la crisi dei regimi aristocratici. Per questo motivo la tradizione, di marca aristocratica, li ricorda negativamente, oscurandone gli aspetti positivi. Nella madrepatria greca, le tirannidi più importanti sorsero nelle città dell’Istmo di Corinto, caratterizzate, grazie alla posizione che favoriva i traffici, da maggior ricchezza e dinamicità. A Corinto si affermò nel 658/657 la tirannide dei Cipselidi, che ci è nota grazie alla testimonianza di Erodoto, e durò fino al 585/4. Il capostipite, Cipselo, sottrasse il potere all’aristocrazia dei Bacchiadi, una famiglia che cercava di conservare l’esclusiva del potere detenendo l’esclusiva delle cariche pubbliche, e la cui ricchezza si basava sul possesso della terra e sul controllo fiscale del commercio. Cipselo divenne tiranno attraverso la magistratura militare di polemarco, in un momento in cui Corinto doveva contrastare la crescita della potenza delle rivali Argo e Megara, con l’aiuto di alti aristocratici che mal sopportavano il governo dei Bacchiadi. Corinto era già da tempo avviata su rotte coloniali: Cipselo procedette a confische di terre, ma non realizzò mai una vera ridistribuzione della proprietà. A Cipselo successe il figlio Periandro (628/7-588/7 circa), il cui governo era caratterizzato da una forte impronta antiaristocratica. Sempre nella zona dell’Istmo, a Sicione si affermò intorno al 650 la dinastia degli Ortagoridi, il cui governo ebbe un carattere più spiccatamente popolare. L’esponente più significativo della dinastia, Clistene, fu autore di una riforma delle tribù consistente nel ribattezzare le tre tribù doriche tradizionali con nomi di animali (maiali, asini, porci) e nel creare una quarta tribù (quella degli archelaoi, “dominatori del popolo”) in cui furono inseriti gli Ortagoridi stessi. La riforma è stata spesso ritenuta di carattere antidorico, ma alcuni ritengono che sia stata dettata, più che da tensioni etniche, da esigenze militari e di sviluppo territoriale; considerando che nelle aree di insediamento dorico sono presenti sperequazioni sociali dovute alla sottomissione degli antichi abitanti da parte di invasori, l’ipotesi che Clistene abbia voluto intervenire su queste diseguaglianze non va esclusa. Clistene svolse anche una politica estera, in senso ostile ad Argo in area peloponnesiaca e, a livello panellenico, inserendosi, con la prima guerra sacra, nella grande politica internazionale, a difesa delle rotte del golfo di Corinto. Clistene promosse la propria immagine in Grecia partecipando alle feste panelliniche e intessendo rapporti con grandi casate straniere, come rivela il matrimonio della figlia Agariste con l’ateniese Megacle, della grande famiglia degli Alcmeonidi. La dinastia ortagoride venne rovesciata intorno al 550 dagli Spartani. Sempre sull’Istmo troviamo la tirannide di Teagene di Megara, aristocratico divenuto capo del popolo e poi tiranno; intorno al 630 appoggiò il genero Cilone, che tentava di farsi tiranno in Atene; poco dopo il fallimento il regime fu rovesciato e sostituito da un’oligarchia. La tirannide assunse caratteristiche diverse nelle varie zone della Grecia: - In Asia Minore, tiranni come Trasibulo di Mileto erano stati ora nemici, ora alleati dei re di Lidia; dopo la conquista persiana i tiranni di quest’area erano sostenuti dai re di Persia, in quanto garanti del regolare pagamento del tributo che il re richiedeva. - In occidente il fenomeno della tirannide non fu limitato all’età arcaica e fu legato all’instabilità politica e sociale delle città coloniali e, in Sicilia, alla presenza incombente del pericolo cartaginese. Il piu antico dei tiranni sicelioti fu Panezio di Leontini, salito al potere nel 615/4 guidando il popolo contro i cavalieri, dunque tiranno demagogo. Un tiranno pacificatore fu Falaride di Agrigento (572-556). Tiranni filopunici sono attestati nel VI secolo a Selinunte e a Imera, città di frontiera della Sicilia occidentale. Con l’inizio del V secolo si afferma, a partire da Ippocrate di Gela, la tipica tirannide siceliota, autocratica e imperialista, incapace di mantenersi entro i confini della polis e protesa alla costruzione di estesi stati di carattere territoriale. 5.6. Forme di coordinamento internazionale: leghe sacre e alleanze militari L’estrema frammentazione del mondo politico greco rese fin dall’inizio necessarie forme di collaborazione tra i diversi stati. Un primo tentativo fu quello delle anfizionie, o leghe sacre, di popoli vicini che si riconoscevano in un culto comune. Secondo Strabone all’origine di queste esperienze vi fu il fatto che popoli e città vicini, bisognosi del reciproco aiuto, presero a celebrare insieme feste e incontri, dai quali si sviluppò un legame di amicizia. Alcune di esse ebbero un carattere spiccatamente etnico e culturale, come l’anfizionia ionica di Delo, intorno al tempio di Apollo; altre ebbero carattere locale, come quella che riuniva le popolazioni affacciate sul golfo Saronico, intorno al tempio di Posidone a Calauria. Un carattere panellenico ebbe invece l’Anfizionia per eccellenza, quella Delfico-Pilaica, che dimostra quanto profondamente la sfera della religione e La Grecia tardo-arcaica In questo capitolo si propone un quadro complessivo di come la Grecia si assestò nel tardo arcaismo, cioè nel corso del VI secolo e agli inizi del V, prima della svolta epocale delle guerre persiane che introduce all’età classica. 1. I GRECI D’ASIA E DELLE ISOLE Sulle coste e sulle isole dell’Asia Minore fiorivano nel VI secolo numerose prospere città, che avevano avuto un ruolo di grande rilievo nella colonizzazione e avevano visto lo sviluppo della poesia epica e lirica e, a Mileto in particolare, di saperi nuovi come la filosofia (Talete, Anassimene, Anassimandro), la storiografia e la geografia (Ecateo). L’area geografica era divisa, su base prevalentemente linguistica, in tre zone a partire da nord: l’Eolide, abitata da coloni giunti dalla Tessaglia e dalla Beozia, la Ionia, abitata da coloni provenienti dall’Attica e dall’Eubea, e la Doride, abitata da coloni di origine dorica. Le città microasiatiche avevano subito, nella prima metà del 600, l’attacco del re di Lidia Gige, della dinastia dei Mermnadi, dopodiché intorno al 650 dei barbari Cimmeri provenienti dalle zone settentrionali del Ponti; all’inizio del VI secolo furono investite dall’attacco del re lidio Aliatte e infine caddero sito il dominio di Creso. Sotto il regno di quest’ultimo, l’interazione culturale tra greci e lidi raggiunse il massimo sviluppo, come notiamo anche dalla comune devozione ai culti di Artemide efesina e di Apollo delfico. Cadute le antiche monarchie, in molte città d’Asia Minore si affermarono, in seguito a gravi lotte civili, governi tirannici: a Mitilene, sull’isola di Lesbo, alla monarchia dei Pentilidi seguirono le tirannidi di Melancro, di Mirsilo e soprattutto di Pittaco, buon legislatore e governante, tanto da essere annoverato tra i Sette Saggi. A Mileto, la monarchia dei Neleidi fu sostituita dalla tirannide di Trasibulo. Dopo la conquista della Lidia da parte del re persiano Ciro il Grande (546), della dinastia degli Achemenidi, le città greche dell’Asia Minore passarono sotto il controllo dei Persiani. I legami esistenti tra alcune città non bastarono a contrastare la potenza persiana, anche perché autorevoli centri di culto apollineo (come il santuario di Delfi) si schierarono a favore dei persiani. Per queste città la conquista persiana fu un evento dalle conseguenze disastrose: - Sul piano amministrativo, furono inserite nella satrapie della Ionia e della Frigia Ellespontica, costrette a versare un tributo e a fornire contingenti militari - All’interno, il sistema tirannico fu conservato dove già c’era o introdotto dai persiani: questi tiranni “vicari” fondavano il loro potere sulla funzione di rappresentanti del gran re. L’espansione degli Achemenidi in Egitto, in Tracia e sugli stretti accentuò le difficoltà: le città microasiatiche svolgevano un importante ruolo di mediazione commerciale tra la madrepatria e le colonie situate in queste aree, e la conquista persiana le privò delle loro fonti di ricchezza. Il consolidamento dell’Impero Achimenide e la riforma amministrativa e fiscale realizzati dal re Dario I, con il conseguente accentramento del sistema, accrebbero quello scontento che sfociò, nel 499, nella rivolta ionica. Analoga sorte subirono, in tempi diversi, le isole più vicine alla costa asiatica, come Lesbo, Chio, Samo, Rodi e Cipro, che dopo essere stata controllata da Assiri ed Egiziani, cadde sotto il dominio persiano nel 545. Alcuni Greci dell’Asia Minore, di fronte all’occupazione persiana, cercarono condizioni di vita migliore altrove, emigrando o impegnandosi in imprese coloniali. Tra le isole greche ricordiamo: 1. Egina, l’Eubea, Corcira:
 - Egina, nel golfo Saronico, era una grande potenza commerciale, abitata da genti doriche e legata all’ambiente peloponnesiaco. Rivale di Atene. 
 - L’Eubea, di fronte alle coste dell’Attica, era ricca di insediamenti cittadini, come Calcide ed Eretria, che furono coinvolte in guerre con Atene. 
 - Corcira, nello Ionio, colonia di Corinto, ne divenne rivale grazie alla sua eccellente flotta. 2. Le Cicladi, che costituivano un ponte tra il continente greco e il vicino oriente: 
 - Nasso era l’isola più importante, dotata di terra fertile e cave di marmo, governata dalla metà del VI secolo dal tiranno Ligdami;
 - Paro, anch’essa ricca di cave di ottimo marmo, fondò Taso e ottenne il controllo della costa traccia e delle miniere d’oro del monte Pangeo;
 - Sifno, che disponeva di argento e oro e costruì un celebre tesoro a Delfi;
 - Delo, importante per la presenza del tempio di Apollo. 3. Creta, la più grande isola greca, in posizione strategica tra Asia, Egitto e Grecia, abitata da popolazioni doriche che praticavano la pirateria e il mercenariato. Aveva la fama di avere ottime istituzioni e di essere stata il luogo d’origine della legislazione. 2. LA GRECIA CENTRO-SETTENTRIONALE La Grecia centro-settentrionale comprendeva: - La Tessaglia, grande pianura formata dal fiume Peneo e dai suoi affluenti, circondata dalle montagne; adatta alla coltivazione dei cereali e all’allevamento, era una delle zone della Grecia più ricche di risorse. 
 I Tessali erano una popolazione dorica proveniente da Coo e dalle isole vicine, approdata in Tessaglia attirata dalla fertilità della terra, dalla quale aveva cacciato i Beoti provocandone la migrazione verso la Beozia storica. 
 Nel 500 essa costituiva uno stato federale, nel cui territorio si trovavano diverse città, le cui dinastie al potere erano in rivalità. uella degli Alevadi di Larissa assicurò un’unità al koinon, consentendo ai Tessali di ridurre la popolazione preesistente sul territorio allo stato di servi, denominati penesti e costretti a coltivare la terra per gli aristocratici, cui versavano una congrua parte del raccolto. Erano detti invece perieci i popoli circonvicini, soggetti anch’essi a un tributo. 
 
 Una parte della tradizione attribuisce ai Tessali un ruolo preponderante nella cosiddetta “Prima Guerra Sacra”, primo atto storico dell’Anfizionia, che si concluse con l’istituzione del cosiddetto agon stephanites, il primo dei Giochi Pitici. La guerra fu condotta fu combattuta dal 592 al 582 circa, quando l’ateniese Solone e l’Anfizionia decisero di punire i Focesi di Cirra, accusati di aver coltivato la terra sacra del santuario di Delfi e di aver disturbato i pellegrini.
 
 La guerra sarebbe stata risolta, secondo la tradizione tessalica, dai Tessali guidati da Euriloco, ma altre fonti attribuiscono la chiusura del conflitto al blocco navale messo in atto contro i Cirrei da Clistene di Sicione. La convergenza di interessi tra Clistene di Sicione e Solone di Atene contro Cirra si comprende bene se si pensa che la città esercitava la pirateria nel golfo di Corinto, danneggiando i commerci con l’Occidente, che erano al centro degli interessi della città istmica e anche di Atene, che voleva inserirsi nelle più importanti rotte commerciali. In seguito alla vittoria, la famiglia ateniese degli Alcmneonidi, imparentata con Clistene di Sicione, acquistò grande prestigio e poté esercitare autorità anche su Delfi, ottenendo l’appoggio dell’oracolo contro i figli di Pisistrato, tiranni di Atene. 
 
 In realtà, fu dopo il 510 che i Tessali acquisirono un ruolo panellenico rilevante, in corrispondenza con il rafforzamento dell’unità della federazione, sotto la guida di Scopa di Crannone e Aleva di Larissa. Il koinón fu riorganizzato sul piano amministrativo e militare: il territorio testatico fu diviso in tetrodi, destinate a fornire contingenti di opliti e cavalieri all’esercito federale, governate da tetrarchi o da polemarchi e sottoposti all’autorità centrale del tago. 
 
 La tagia era la magistratura suprema della federazione, aveva carattere militare e tendeva a diventare vitalizia. Frequenti erano però i periodi di adagia, cioè mancanza di un tago, quindi di divisione e debolezza. Sotto i grandi tagi della Gine del VI secolo, Scopa e Aleva, i Tessali non solo acquisirono il pieno controllo dei popoli confinanti, i perieci, ma conquistarono anche la Focide ed estesero la loro influenza su tutta la insediativa era espressa dagli ateniesi attraverso il mito dell’autoctonia, secondo il quale il popolo di Atene era nato dalla terra e aveva sempre abitato lo stesso territorio, diversamente dalla maggior parte dei Greci che erano immigrati nelle loro sedi dall’esterno. A quest’epoca l’Attica era divisa in comunità autonome, che soltanto per esigenze di difesa si riconoscevano sotto un unico re. La svolta viene collocata all’epoca del sinecismo attribuito al mitico re Teseo. Il processo, che si svolge dall’VIII secolo ed è concluso alla metà del VII, trasformò le antiche poleis indipendenti dell’attica in “demi”, cioè in circoscrizioni territoriali di un’unica polis, Atene. In essa ebbero sede le istituzioni comuni, consiglio e magistrati con i loro luoghi di riunione. La nostra fonte principale sulla storia più antica di Atene dal punto di vista dell’evoluzione interna è la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele. Conclusasi l’epoca dei re, la monarchia sarebbe stata sostituita prima da “arconti” vitalizi, magistrati supremi che rimanevano in carica tutta la vita, poi da arconti decennali; infine, con il 682/1 iniziava la lista degli arconti annuali, scelti in base ai criteri della nascita e della ricchezza. Gli arconti erano nove: 1. L’eponimo, che dava il nome all’anno; 2. Il re (basileus) che conservava le competenze religiose del sovrano; 3. Il polemarco, incaricato della guida dell’esercito; 4. I sei tesmoteti (custodi dei thesmoi, le leggi ritenute di origine divina). I poteri degli arconti, che secondo Aristotele derivavano dalla distribuzione di quelli in precedenza concentrati nella persona del re, si ridussero col tempo a una serie di competenze relative all’amministrazione della giustizia (istruzione delle cause e presidenza dei tribunali). Uscendo di carica, gli arconti entravano nel consiglio dell’Areopago, cosiddetto perché si riuniva sul colle di Ares nei pressi dell’Acropoli, e vi restavano a vita: l’Areopago aveva competenze sui delitti di sangue e in materie religiosa e, secondo una tradizione molto dubbia, anche un ampio e imprecisato ruolo di “custodia delle leggi”. La popolazione era riunita in quattro tribù, ognuna guidata da un phylobasileus o “re della tribù”; ogni tribù sarebbe stata divisa in tre trittrie e in dodici naucrarie, unità forse collegate con l’allestimento della flotta ma anche con altri aspetti amministrativi. Il potere era nelle mani degli Eupatridi, gli aristocratici; il ruolo dell’assemblea del popolo, pure probabilmente esistente, era in origine estremamente limitato. Una delle prime vicende storicamente note per Atene è quella del tentativo del giovane aristocratico Cilone, genero del tiranno Teagene di Megara, di instaurare la tirannide. Fallito il tentativo di occupare l’Acropoli, Cilone riuscì a fuggire, ma i suoi compagni cercarono rifugio, come supplici, presso l’altare di Atena, da dove furono allontanati con la promessa di aver salva la vita; della loro successiva uccisione furono ritenuti responsabili gli Alcmeonidi, che vennero espulsi come sacrileghi. La cronologia dell’episodio è incerta e oscilla tra la data tradizionale (630) e l’epoca di Solone. 3.1. Solone L’Attica soffriva per quella scarsità di terre coltivabili che è stata individuata come una delle cause di colonizzazione. Alla fine del VII secolo, il quadro sociale attico appare fortemente influenzato da problemi legati alla questione agraria. I piccoli contadini, in caso di raccolti insufficienti, erano costretti a chiedere in prestito cereali per la semina o per la sussistenza ai grandi proprietari aristocratici e finivano così per indebitarsi con loro, diventandone clienti, e versando loro una quota del raccolto, se non erano in grado di farlo cadevano in schiavitù. Crescevano dunque da parte dei piccoli contadini le rivendicazioni economiche e sociali e l’aspirazione a una maggiore uguaglianza. In Atene fu Solone a prendere in considerazione questi problemi, avviando un processo di integrazione sociale e politica che fu il presupposto della democrazia. Solone fu scelto come arbitro e arconte nel 594/3, dopo essersi distinto nella guerra contro Megara per il controllo dell’isola di Salamina. È difficile per noi ricostruire la sua attività, che ci è nota dai frammenti della sua opera poetica e da Erodoto, soprattutto da fonti di IV secolo confluite nella Costituzione degli Ateniesi di Aristotele e nella Vita di Solone di Plutarco. È Solone stesso ad affermare di aver divelto i cippi infissi nella terra e di averla resa, da schiava, libera; di aver ricondotto ad Atene uomini che erano stati venduti schiavi o costelli all’esilio dal bisogno; di aver liberato quanti in Atene erano in stato di servitù. Di questi interventi sono state date diverse interpretazioni: con ogni probabilità, l’atto di svellere i cippi, che Aristotele chiama seisachtheia, ovvero “scuotimento dei pesi”, indica l’annullamento delle ipoteche da cui la terra era gravata; la terra, liberata da questi obblighi, sarebbe stata restituita ai vecchi proprietari; a questo provvedimento si accostò la soppressione della schiavitù per debiti, con effetto retroattivo. Solone non procedette, però a una ridistribuzione della proprietà terriera: dichiara di non voler dare la stessa parte della fertile terra attica ai buoni e ai cattivi. In questa linea, egli presenta la sua opera come una mediazione fra le aspirazioni di uguaglianza sociale e politica del popolo e la volontà dei ricchi aristocratici di difendere i propri privilegi, nell’intento di realizzare un buon governo, in cui ciascuno abbia diritti e doveri a seconda del proprio ruolo e delle proprie capacità. La tradizione attribuiva a Solone una complessa legislazione comprendente norme di natura diversa. Sul piano economico: - Riforma dei pesi e delle misure, consistente nell’adozione del sistema ponderale euboico in luogo di quello eginetico e mirante da una parte a ridurre i debiti, dall’altra a favorire lo sviluppo delle attività commerciali; - Il divieto di esportare derrate alimentari, tranne l’olio (mancanza cereali). Sul piano familiare ed etico abbiamo leggi sul matrimonio, sulla parentela, in maniera testamentaria ed ereditaria, sui funerali e sul lusso, mirando a tutelare l’oikos come cellula sociale. Questo complesso di leggi inglobava anche la legislazione di Dracone sull’omicidio e fu rivisto negli anni tra il 411 e il 399. Sul piano giudiziario, è attribuita a Solone l’istituzione del tribunale popolare dell’Eliea, cui avrebbero avuto accesso, come del resto all’assemblea, anche i teti. Egli avrebbe inoltre concesso al cittadino la possibilità di chiedere, attraverso la ephesis (appello) al tribunale, il giudizio dei propri pari; e avrebbe sancito il diritto per qualunque cittadino, e non solo per la parte lesa, di intentare un’azione legale. Queste r i forme mostrano la volontà di coinvolgere i l popolo nell’amministrazione della giustizia, a tutela degli interessi comuni, e vengono giudicate da Aristotele tra i provvedimenti più democratici di Solone. A Solone è attribuita anche una riforma costituzionale che comportava la divisione della cittadinanza in quattro classi di censo, valutate in base al prodotto della terra ed espresse in misure (medimmi di cereali o metriti di olio o vino), con scopo prima di tutto militare: 1. Pentacosiomedimni, che arrivavano a produrre fino a 500 medimni di grano. Questi costituiscono un gruppo ristretto: partecipano all’esercito in qualità di cavalieri e tra questi stessi si individuano i tesorieri di Atena. 2. Cavalieri, coloro che, con una produzione compresa tra i 200 e i 300 medimni, sono in grado di mantenere un cavallo. 3. Zeugiti, secondo alcuni il nome indicherebbe il giogo, secondo altri espressione metaforica per indicare la linea degli opliti disposti in falange. Si tratta comunque della classe media, in genere gli opliti, che possedeva una certa quantità di patrimonio, da alcuni identificato con 200 medimni di grano. 4. Teti, coloro i quali non possono vantare il possesso di una proprietà e non hanno dunque obblighi militari. Terminato il suo mandato, Solone depose la carica e lasciò la città, con un aperto rifiuto di dare un carattere tirannico alla propria autorità. Nel complesso la sua opera può essere valutata come intesa a rafforzare i valori comunitari, insistendo sulla comune responsabilità delle diverse parti sociali, equamente trattate, di fronte alla comunità cittadina. L’opera di Solone, impostata sul bilanciamento e l’integrazione tra le diverse parti della cittadinanza e sull’accentuazione della responsabilità comunitaria è stata vista come un contributo sostanziale alla scoperta della dimensione politica. confronto politico, fino ad allora dominato dai membri delle famiglie aristocratiche, e poté così ottenere la base di consenso necessaria per dar corso alla sua riforma, che fu all’origine della democrazia ateniese. L’aspetto fondamentale dell’opera riformatrice di Clistene fu una nuova ripartizione della popolazione su base territoriale, del genere di quella già realizzata dal nonno Clistene di Sicione, secondo una rigorosa impostazione decimale: - Le tribù, che in Atene erano le 4 tradizionali tribù genetiche ioniche, divennero 10, assunsero carattere territoriale e presero il nome da eroi locali indicati, secondo la tradizione, da Delfi. - Ogni tribù (phylé) comprendeva 3 trittie (per un totale di trenta trittie), circoscrizioni territoriali tratte, rispettivamente, una dalla zone costiera (paralia), una dalla zona interna (mesogaia) e una dalla città (asty). La tribù è dunque il risultato della fusione di tre distretti che non sono comunicanti in un territorio omogeneo, ma dislocati in diverse regioni. Da qui, dunque, la fusione di popoli appartenenti a diversi punti dell’Attica. - Ogni trittia a sua volta comprendeva diversi demi (demoi, villaggi di campagna o quartieri urbani) che costituiva la circoscrizione territoriale e amministrativa di base. La residenza in un determinato demo definiva il cittadino insieme alla sua paternità: l’onomastica ateniese prevedeva l’indicazione del nome personale, del patronimico (figlio di) e del demotico (del demo di). Ogni tribù deve fornire un reggimento di opliti (taxis), guidato dal tassiarco, e uno stratego; la data di introduzione del collegio dei dieci strateghi è incerta, ma sappiamo che essi erano in origine eletti uno per tribù e che solo in seguito furono designati tra tutti i cittadini, senza rispettare la divisione per tribù. Ogni tribù fornisce poi 50 buleuti per la boulé dei Cinquecento, costituita da cittadini di età superiore ai trent’anni, sedeva in permanenza, divisa in gruppi di 50 (i cosiddetti “pritani”) nelle dieci parti (pritanie) in cui era diviso l’anno amministrativo; era presieduta ogni giorno da un pritano diverso, con funzioni di presidente (epistates). Sia i buleuti che l’epistates venivano sorteggiati, non era possibile essere buleuti per più di due volte nella vita. La funzione principale della boulé era quella “probuleumatica” che consisteva nel preparare e introdurre i lavori dell’assemblea; quest’ultima era aperta a tutti i cittadini di età superiore ai vent’anni e a quest’epoca si svolgeva, in via ordinaria, una volta per pritania. Anche il collegio degli arconti venne riformato: da questo momento essi vennero eletti uno per tribù, mentre la decima forniva il segretario (grammateus) del collegio. La riforma di Clistene rivela la preoccupazione di realizzare la piena integrazione della cittadinanza ateniese in un sistema nuovo rispetto a quello tradizionale, in grado di realizzare la “mescolanza” di vari elementi, spezzando i vincoli clientelari che costituivano la base del potere delle grandi famiglie aristocratiche. Gli aristocratici mantennero tuttavia una serie di privilegi. Un ruolo politico significativo fu assicurato loro da: - La permanenza del consiglio dell’Areopago, - La limitazione dell’accesso alle magistrature per le prime due classi di censo, - Il mantenimento del loro carattere elettivo. Agli aristocratici era anche riservato l’accesso a taluni sacerdozi. Alle più antiche strutture di tipo genetico, come le fratrie, fu lasciato un ruolo di controllo sulla parentela legale e quindi sulla legittimità di nascita, presupposto della cittadinanza, che spettava a quest’epoca a chi era figlio di padre cittadino. Tuttavia era il demo, e non la fratria, a certificare davanti alla polis lo stato di cittadinanza; il bambino, che veniva riconosciuto dal padre con la presentazione alla fratria, nel decimo giorno di nascita doveva essere iscritto nella lista del demo; l’assemblea del demo, prima di accettare l’iscrizione, verificava l’età, lo stato di libertà e la legittimità di nascita del candidato. Secondo Aristotele, fu Clistene a istituire la procedura dell’ostracismo, che fu poi applicata per la prima volta nel 488/87 contro Ipparco, figlio di Carmo, parente dei Pisistratidi. L’ostracismo consisteva nel designare, con un voto espresso a maggioranza da almeno 6000 votanti, un cittadino ritenuto pericoloso per lo stato; il voto veniva espresso, se l’assemblea lo riteneva opportuno, una volta all’anno, durante l’ottava pritania, scrivendo il nome dell’interessato su un coccio (ostrakon). Il più votato veniva allontanato dalla città per dieci anni, durante i quali subiva una diminuzione di diritti (atimia) di carattere parziale: perdeva cioè i diritti politici, mantenendo invece quelli civili (matrimonio, patria potestà, proprietà). L’agorà di Atene ha restituito una notevole quantità di ostraka, recanti i nomi di diversi candidati all’ostracismo, talora con le motivazioni del voto.
 L’istituzione di questa procedura intendeva: - Da una parte evitare l’instaurazione di una nuova tirannide; - Dall’altra favorire l’allentamento delle tensioni politiche. È probabile che l’applicazione regolare dell’ostracismo abbia contribuito ad assicurare ad Atene una certa stabilità politica, evitandole le fratture civili che caratterizzarono invece altre città. Tale stabilità va collegata anche al fatto che in Atene la democrazia non era nata da una rivoluzione violenta e dalla sopraffazione di una parte sull’altra, ma di una riforma accettata da tutte le parti in causa e che non aveva comportato interventi di tipo rivoluzionario in ambito economico-sociale, come l’abolizione dei debiti e la ridistribuzione della proprietà terriera. Altrove, le profonde fratture economico-sociali che dividevano il corpo civico costituivano un grave elemento di debolezza (es. Siracusa ed Argo). Clistene entra nella tradizione come colui che istituì la democrazia. La sua riforma assicura a tutti i cittadini di Atene il godimento di: - Isonomia, l’uguaglianza dei diritti - Isegoria, l’uguaglianza di parola Garantendo a tutti, senza discriminazioni di nascita e di censo, la possibilità di partecipare agli organismi di carattere deliberativo (boulé ed ekklesia) e giudiziario (il tribunale popolare). Molte difficoltà si frapponevano ancora alla realizzazione di una democrazia reale: da una parte, il mantenimento dei requisiti censitari per l’accesso alle magistrature limitava l’esercizio del potere esecutivo da parte del popolo; dall’altra la funzione di membro della boulé non era retribuita, e rappresentava quindi un onere per il cittadino comune, che per poterla esercitare doveva abbandonare per un anno le sue normali attività e rinunciare ai relativi proventi. Le basi erano gettate per quei successivi aggiustamenti che, nel corso del V secolo, consentirono di realizzare in Atene una reale democrazia partecipativa. La riforma di Clistene, con l’importanza data al demos, parve inaccettabile ad aristocratici ateniesi come Isagora, a al loro sostenitore Cleomene, che in diverse occasioni cercarono di abbattere la democrazia: 1. Nel 507/6 costrinsero Clistene all’esilio in quanto Alcmeonide, quindi colpevole del sacrilegio ciloniano, ma il tentativo di sciogliere la boulé dei 500 fu respinto dagli ateniesi, che richiamarono Clistene. 2. Nella primavera del 506 un nuovo attacco finì con una ritirata dovuta a dissensi fra Cleomene e l’altro re Demarato e al ritiro dei Corinzi. 3. Intorno al 500 Cleomene tentò, in accordo con i Tessali, di abbattere la democrazia insediandovi Ippia come tiranno, ma il progetto fallì a causa dell’opposizione dei Corinzi. 4. SPARTA E IL PELOPONNESO La città di Sparta o Lacedemone sorse nella fertile valle del fiume Eurota (nella Laconia, zona meridionale del Peloponneso) tra il X e l’VIII secolo dall’unione di quattro villaggi cui se ne aggiunse in seguito un quinto; al 705 a.C. risale la fondazione da parte di Sparta di una colonia, Taranto. Il territorio crebbe con la conquista della Messenia (zona caratterizzata da un ampio territorio fertile esteso attorno al Pamiso), con cui Sparta acquisì una base economica sicura, ma fu costretta a impegnarsi costantemente per il mantenimento di un notevole potenziale militare, per essere pronta a fronteggiare eventuali rivolte dei Messeni sottomessi. La città non venne fortificata ed ebbe un modesto sviluppo urbanistico. potevano mantenere la cittadinanza e decadevano fra gli hypomeiones, gli inferiori. Questo regime rigidamente egalitario della proprietà terriera è stato ritenuto alla base della progressiva crisi demografica, e quindi militare e politica, di Sparta, in quanto le famiglie avrebbero avuto interesse ad avere un solo erede. 
 - Una parte consistente della popolazione residente in Laconia era costituita dai perieci, uomini liberi, ma privi di diritti politici, che vivevano in comunità parzialmente autonome dal punto di vista amministrativo, che Tucidide definisce poleis. I preieci discendevano da quanti abitavano la Laconia prima dell’arrivo dei Dori; erano contadini, ma anche artigiani e commercianti; poiché queste attività erano proibite agli Spartiati, la loro importanza economica era notevole. Significativo era anche il loro contributo militare, fornito servendo nell’esercito come opliti, in un contingente originariamente separato. I perieci non erano ammessi all’agoghé e ai sissizi ed erano, di fatto, cittadini di seconda classe a Sparta.
 - Gli iloti, che coltivavano le terre degli Spartiati consegnando loro parte del raccolto, erano di status non libero, discendenti da popolazioni locali assoggettate (come i Messeni) o cadute in schiavitù per diversi motivi; persone in stato di dipendenza di questo tipo esistevano anche altrove nel Peloponneso; Secondo Erodoto il loro rapporto con i cittadini era di sette a uno, il che fa comprendere quale costante minaccia rappresentassero per Sparta. Gli iloti potevano essere liberati, spesso per esigenze militari, e diventavano neodamodeis. dalle relazioni fra Spartiati e donne di discendenza ilotica (o viceversa) nascevano i mothakes, che non godevano dei diritti di cittadinanza, ma erano liberi ed erano ammessi all’agoghé. L’agoghé costituiva l’aspetto più particolare dell’ordinamento spartano: si trattava di un sistema educativo rigidamente controllato dallo stato e orientato, per i maschi, alla formazione di guerrieri dotati della virtù dell’andreia (coraggio virile), per le femmine, alla generazione di cittadini sani e forti. I bambini erano affidati alla famiglia fino a sette anni; poi vivevano in comune, divisi in classi di età, sotto la guida del paidonomos. La formazione che ricevevano era soprattutto di carattere fisico (ginnastica, caccia, uso delle armi); dal punto di vista culturale, venivano coltivati solo la musica e il canto corale. Una tappa della formazione era la krypteia, un “rito di passaggio” riservato a un gruppo di giovani spartiati, che dovevano allontanarsi dalla città per un anno, nascondendosi di giorno e dando la caccia agli iloti di notte. Il giovane veniva così educato al coraggio, alla sobrietà, alla vita comunitaria, al mestiere di soldato. Il risultato di questo sistema sociale fu una comunità di cittadini uniti da un forte sentimento di reciproca uguaglianza e da una profonda solidarietà, ma in cui l’individuo era completamente assorbito dalla collettività e chi si proponeva di emergere era visto come un pericolo; una comunità tendenzialmente chiusa, perché timorosa degli effetti che influenze esterne potevano produrre nei suoi cittadini, e immobilistica, perché la sua sopravvivenza era legata a un equilibrio sociale estremamente precario. La militarizzazione della società costrinse Sparta a chiudersi a ogni influenza esterna. I contatti con l’esterno erano temuti al punto che venivano praticate periodiche espulsioni degli stranieri; si temeva inoltre che gli Spartani, uscendo dalla patria, avessero influenze negative dai costumi diversi con cui venivano in contatto. Sparta, così, divenne molto prudente nel prendere iniziative che la portassero a impegnarsi lontano dal Peloponneso, con conseguenze negative sulla sua politica panellenica e sul suo ruolo egemonico. Tuttavia la peculiarità del sistema spartano suscitò grande interesse e ammirazione nei Greci; i teorici guardarono alla sua costituzione come esempio ideale di costituzione mista, che riuniva in sé gli aspetti migliori dei regimi canonici (monarchia, aristocrazia, democrazia) garantendo stabilità. Tucidide sottolineava il rapporto tra eunomia spartana e immunità dalle guerre civili e dalla tirannide; la realizzazione di un’assoluta uguaglianza fra i cittadini di pieno diritto indusse persino alcuni pensatori a giudicare gli Spartani come i più democratici fra i Greci. 4.2. La lega del Peloponneso “Lega del Peloponneso” è un’espressione moderna: l’alleanza militare guidata da Sparta era definita dagli antichi con l’espressione “gli Spartani e i loro alleati”. La Lega trova la sua origine nella volontà di Sparta di assicurarsi il controllo del Peloponneso attraverso un sistema di alleanze che le permettessero, da un lato, di mantenere il controllo sulla Messenia, dall’altro di evitare la coalizione, a suo danno, degli stati più importanti della regione, come Argo. Dopo la conquista della Messenia, finita con la seconda guerra messenica del VII secolo, Sparta mosse contro gli Arcadi per assoggettare l’intera regione. Nella prima metà del VI secolo, gli Arcadi di Tegea, forse con l’aiuto degli Argivi, sconfissero gli spartani. In seguito però Sparta prevalse e le città principali dell’Arcadia dovettero allearsi con gli spartani. Nel corso del VI secolo aderirono all’alleanza anche gli Elei, gli abitanti della regione dell’Elide, affacciata sulle coste occidentali del Peloponneso. Queste alleanze fecero ottenere a Sparta la garanzia che il suo controllo della Messenia non sarebbe stato insidiato. L’adesione delle città dell’Argolide, dell’isola di Egina e delle città Istmiche, Corinto, Sicione e Megara, permise poi a Sparta di accerchiare e neutralizzare Argo. Un’acquisizione importante fu quella di Corinto, che forniva alla lega la flotta necessaria per una politica egemonica non esclusivamente continentale. La Lega del Peloponneso era un’alleanza militare di carattere originariamente difensivo, costituita sulla base di alleanze bilaterali di carattere paritario; i membri della lega erano autonomi, ma accettavano in guerra il comando di Sparta, che a sua volta si impegnava a soccorrerli in caso di aggressione; obiettivo della lega era la difesa della libertà degli stati peloponnesiaci da ogni minaccia esterna. Ognuno dei membri disponeva di un voto nell’assemblea degli alleati, il sinedrio, convocato dagli Spartani in caso di bisogno per richiederne il parere; la procedura prevedeva che l’apella spartana, sentiti gli alleati, decidesse autonomamente; la sua deliberazione veniva poi sottoposta al sinedrio della lega, che poteva approvarla o respingerla. Sparta non esigeva tributi dai suoi alleati. Una volta decisa una spedizione militare, Sparta assumeva il comando e inviava agli alleati messi che comunicavano l’entità del contingente militare richiesto; ogni città manteneva le proprie truppe e Sparta si limitava ad accettare, talora, contributi volontari. La Lega del Peloponneso disponeva, a cavallo tra VI e V secolo, del maggiore esercito terrestre della Grecia: su questa base veniva riconosciuto a Sparta il ruolo di prostates, prima città della Grecia. Dalla Lega restarono esclusi gli Achei, abitanti di uno stato federale affacciato sul golfo di Corinto, e Argo. Sotto il re Fideone, che Erodoto colloca verso la fine del VII secolo, Argo era giunta a controllare gran parte del Peloponneso, compresi il santuario di Olimpia e i Giochi panellenici; a lui furono attribuite: - L’adozione della falange olpitica; - La prima coniazione di monete ad Egina; - Una riforma dei pesi e delle misure. All’anno 669/8 veniva datata la battaglia di Isie, in cui gli argivi avevano inflitto agli spartani una pesante sconfitta. Successivamente, Argo perse importanza rispetto a Corinto e soprattutto rispetto a Sparta: intorno alla metà del VI secolo, Sparta strappò ad Argo, in seguito alla battaglia dei campioni (300 spartani vs 300 argivi), la Cinuria, zona litonaria del Peloponneso orientale che verrà poi costantemente contesa tra le due città. Nel 494 il re Cleomene infisse agli Argivi una durissima sconfitta che ne azzerò il potenziale militare (le perdite ammontarono a ben 6000 uomini a causa di un incendio nel bosco sacro all’eroe Argo). Gli Argivi, così, furono costretti a ovviare alla crisi demografica integrando nella comunità uomini di status inferiore, che le fonti presentano ora come schiavi, ora come perieci liberi. Da tale provvedimento, comunque, prese le mosse un processo di democratizzazione che portò Argo a diventare il punto di riferimento delle forze antispartane. L’accordo fra Argo e gli stati del Peloponneso centro- Il quinto secolo 1. LE GUERRE PERSIANE: UNO SCONTRO DI CIVILTÀ Nel proemio delle Storie, Erodoto afferma di voler conservare la memoria dei fatti “grandi”, cioè degni di storia, e fra questi il più significativo gli appare lo scontro tra Greci e Persiani svoltosi nel primo quarto del V secolo. Il conflitto fu sentito dai contemporanei (Simonide, Eschilo) come un vero e proprio “scontro di civiltà”, durante il quale la Grecità aveva rischiato la dissoluzione delle caratteristiche peculiari della propria civiltà, identificate con l’esperienza della libertà politica. Era stato proprio l’amore per la libertà, la virtù (areté) che rifiuta l’asservimento, a rendere i Greci capaci di affrontare con successo imprese apparentemente senza speranza. Anche la coscienza di una unità dei Greci, a livello etnico-culturale se non politico, sembra maturare in quest’epoca; Erodoto fa affermare agli Ateniesi che non c’è ricchezza che potrebbe indurli a parteggiare per i Persiani e rendere schiava la Grecia, perché lo impedirebbero gli elementi comuni dell’Hellenikòn: la comunanza di sangue e di lingua, i santuari comuni degli dèi, i riti sacri e gli analoghi costumi, che mai gli Ateniesi potrebbero tradire. Dal passo di Erodoto emerge una forte consapevolezza identitaria: l’uomo greco, oltre che come cittadino della polis, appare come membro di una comunità più ampia, omogenea sul piano etnico, linguistico e culturale. La formazione dell’impero persiano si colloca nella seconda metà del VI secolo. Nel 550/49 il re dei Persiani Ciro il Grande (che regnò dal 557 al 529) diede vita a un impero che comprendeva Asia Minore, Iran e Vicino Oriente (546: conquista di Sardi – capitale della Lidia –; 539: conquista di Babilonia). Suo figlio Cambise (530-522) portò a termine la conquista dell’Egitto; la sua morte, tuttavia, fu seguita da tentativi di usurpazione e da rivolte. La situazione fu risolta da Dario I, che riorganizzò. La struttura che gli diede era quella di un grande impero sovranazionale, molto decentralizzato, in cui il sovrano delegava la propria autorità ai governanti locali, i satrapi, incaricati dell’amministrazione, dell’esazione fiscale e del mantenimento del rapporto col potere centrale. La tradizione attribuisce proprio a Dario la divisione dell’impero in 20 satrapie, ognuna delle quali assicurava un gettito fiscale, rifornimenti e contingenti militari per l’esercito e la flotta. Dario assunse inoltre una serie di iniziative militari, tra cui la grande spedizione del 513/12 contro gli Sciti, che sui confini settentrionali dell’impero persiano creavano una situazione di insicurezza con le loro razzie: Dario attraversò l’Istro (il Danubio) su un ponte di barche e giunse fino all’attuale Ucraina, ma fu costretto a ritirarsi perché gli Sciti rifiutavano di accettare la battaglia. Fondamentale fu l’appoggio dei tiranni greci della Ionia, tra cui Istieo, tiranno di Mileto. Istieo rifiutò la proposta degli sciti di tagliare il ponte sull’ostro per impedire la ritirata a Dario, sostenendo che il potere dei tiranni Ionici si basava sulla Persia e che le atre città, una volta caduta la potenza persiana, avrebbero scelto piuttosto un governo democratico. Nonostante lo scarso successo ottenuto contro gli sciti, la spedizione non fu priva di risultati: nella Tracia fu lasciato Magabazo, e il suo successore Otana assicurò il controllo della via degli Stretti conquistando Clacedone, Bisanzio, Lemno e Imbro. Verso il 500 a.C. la Persia di Dario I controllava l’intero bacino orientale del Mediterraneo; città e popoli che si trovavano nel suo territorio godevano di una certa autonomia ed erano liberi di esprimere la propria identità culturale, ma l’esazione fiscale sottraeva loro risorse, il controllo territoriale inibiva le diverse forme di mobilità e di scambio che avevano caratterizzato il mondo egeo, la tendenza all’espansionismo costituiva un grave motivo di preoccupazione. Si erano istaurati quindi con la presenza persiana degli equilibri assai delicati. 1.1. La rivolta ionica I Greci d’Asia Minore avevano convissuto abbastanza felicemente con il regno di Lidia; l’avvento dei Persiani nel 546 costituì una svolta negativa. Dopo la caduta di Sardi, i Persiani imposero agli Ioni il versamento del tributo, mantennero o favorirono ulteriormente i governi tirannici, richiesero contingenti militari; con le riforme di Dario la pressione si accentuò e il crescente malcontento trovò espressione nella rivolta ionica. Sulle sue cause ci si è interrogati a partire dall’interpretazione di Erodoto, che parla di motivi di carattere occasionale, come le ambizioni personali del promotore della rivolta Arisitagora di Mileto. I moderni hanno cercato di individuare cause più profonde: - Il risveglio del sentimento nazionale greco; - La preoccupazione di Mileto per la crisi degli scambi commerciali con le sue colonie dell’area del mar Nero; - L’intolleranza per la cresciuta pressione fiscale; - Il risentimento verso i tiranni filopersiani. La rivolta prese le mosse dall’iniziativa di Aristagora, tiranno di Mileto, che era stato chiamato a Susa come consigliere di Dario. Nel 500 propose al satrapo di Sardi, Artaferne, una spedizione contro Nasso, per ricondurvi gli aristocratici che ne erano stati espulsi dal popolo. L’impresa però fallì e Aristagora, temendo una punizione, depose la tirannide, stabilì l’isonomia a Mileto e ne provocò una ribellione contro la Persia; seguì una reazione a catena che determinò l’abbattimento delle tirannidi e l’avvento di democrazie nel resto della Ionia. Nel 499 Aristagora, alla ricerca di aiuti dalla madrepatria, si recò a Sparta e ad Atene, portando con sé una cartina dell’impero incisa sul bronzo, e fece appello alla vergogna e al dolore che avrebbe dovuto provocare ai Greci il fatto che gli Ioni, gente dello stesso sangue, fossero schiavi; prospettò anche una facile vittoria contro i barbari, meno forti in guerra, e l’acquisizione delle grandi ricchezze in Asia. Sparta (sotto Cleomene) rifiutò l’intervento, a causa della prospettiva di allontanarsi troppo dal peloponneso, mentre gli Ateniesi inviarono 20 navi in aiuto. Erodoto afferma che l’assemblea si lasciò ingannare da Aristagora, il quale probabilmente trovò sostegno in alcune parti dell’aristocrazia ateniese, e che la decisione di aderire alla sua richiesta fu causa di sventure per i Greci e per i barbari. Nel 498 le città greche d’Asia, riunite in una lega con sede al Panionion, ottennero alcuni successi, ai quali seguì l’adesione di Cipro, della Caria e delle città dell’Ellesponto, e riuscirono ad avanzare fino a Sardi, e a incendiarla. A questo punto Atene ed Eretria (che aveva pure mandato in aiuto 5 navi) richiamarono le navi. Ebbe inizio così la ripresa persiana: Cipro, la Caria e l’Ellesponto furono riconquistati e Aristagora fuggì in Tracia, dove morì in uno scontro. Prese la guida della rivolta Istieo, che la spostò verso Nord (a Chio, poi a Lesbo e infine a Taso). Nel 494 i Persiani avevano ormai ripreso il controllo della situazione. Quando la flotta fenicia attaccò Mileto, le città greche della costa meridionale fecero pace con la Persia. A Lade, di fronte a Mileto, i Greci furono sconfitti in una battaglia navale, Mileto venne presa, Istieo catturato e giustiziato nel 493. Ad Atene l’episodio destò grande impressione: sempre nel 493 il poeta Frinico mise in scena una tragedia dal titolo La presa di Mileto, e venne multato per aver rievocato una così triste circostanza. Erodoto giudicò con severità gli Ioni ribelli, dal suo racconto emergono molti dubbi sull’omogeneità dei ribelli e sulla chiarezza dei loro scopi; rimproverava inoltre ai rivoltosi di aver causato le guerre persiane, anche se va osservato che Dario già all’epoca della spedizione scitica era passato in Europa, vi aveva stabilito rapporti diplomatici e aveva lasciato uomini e mezzi in Tracia e nell’Ellesponto. 1.2. La prima guerra persiana Dopo la morte di Istieo e la fine della rivolta ionica, i Persiani ripresero il controllo di Chio, di Lesbo e dell’Ellesponto. Mentre le forze persiane si raccoglievano in Cilicia, ambasciatori del Re furono inviati in tutta la Grecia chiedendo “acqua e terra”, cioè un atto di sottomissione. Molti risposero positivamente a questa richiesta, come tutte le isole (compresa Egina) e molti greci del continente. Atene e Sparta invece opposero un netto rifiuto, uccidendo gli araldi. Gli Ateniesi, anzi, ottennero da Cleomene I di Sparta un intervento contro Egina, colpevole di tradimento, e la consegna di ostaggi che sue trame contro il collega, dovette poi andare in esilio in Tessaglia e in Arcadia. Morì nel 491 e gli successe il fratello Leonida. - In Tessaglia le ambizioni egemoniche degli Alevadi di Larissa ebbero termine con le sconfitte da parte dei Focesi e dei Beoti, intorno al 485: termina la dominazione tessalica sulla Grecia centrale. - La corte persiana divenne un asilo per i greci delusi dalle vicende di cui erano stati protagonisti: l’ateniese Ippia, lo spartano Demarato, ma anche esponenti dei Pisistratidi ed emissari degli Alevadi, che sollecitavano il nuovo re Serse a un intervento contro la Grecia. 1.4. La seconda guerra persiana Alla morte di Dario (autunno 486), il trono passò al figlio Serse, convinto, secondo Erodoto, dal cugino Macedonio che ambiva a essere governatore della Grecia, e per questo lo invitava a vendicarsi di Atene e a impossessarsi dell’Europa, progettò una grande spedizione di conquista, dispiegando enormi forze militari per terra e per mare. L’esercito avrebbe dovuto passare l’Ellesponto su un ponte di barche, per poi raggiungere la Grecia via terra, attraverso la Tracia e la Macedonia; la flotta avrebbe dovuto accompagnare l’esercito lungo la costa passando per un canale tagliato sull’istmo della penisola di Acte. L’imponenza dei mezzi dispiegati e il carattere quasi sacrilego dei lavori per il ponte sull’Ellesponto e il taglio dell’istmo, che sembravano aver violato la natura stessa, furono all’origine delle accuse di HYBRIS che colpirono Serse dopo la sconfitta, non solo da parte greca ma anche (a giudicare dai Persiani di Eschilo) da parte persiana. Così come Dario, anche Serse chiese, attraverso l’invio di ambasciatori, la sottomissione dei Greci prima di iniziare la spedizione e la ottenne, oltre che dai macedoni, da gran parte della Grecia settentrionale e centrale: dai tessali e dai loro perieci, dai locresi e dai beoti. Si diceva infatti che la spedizione Persiana fosse rivolta contro Atene, quindi si sottomisero per non dover subire nulla di spiacevole da parte del barbaro. Nell’autunno del 481 le truppe di terra e la flotta si raccolsero a Sardi e nel giugno del 480 l’esercito passò l’Ellesponto. Nell’autunno del 481 i greci si riunirono all’Istmo di Corinto, con l’intenzione di organizzare la resistenza: la lega degli Hellenes comprendeva 31 membri, soprattutto città, fra cui Atene, Sparta e Corinto. Il comando venne affidato a Sparta. I Greci dell’Istmo giurarono di: - Imporre dopo la vittoria una decima da pagare al dio di Delfi a tutti coloro che si erano arresi alla Persia senza esservi costretti; - Di deporre le ostilità reciproche (soprattutto Atene ed Egina); - Di mandare esploratori in Asia; - Di inviare ambasciatori ad Argo, a Siracusa, a Corcira e a Creta, per vedere se la stirpe greca si sarebbe unita, dal momento che cose terribili si avvicinavano per tutti i Greci. Ma Argo restò neutrale, giustificandosi con le conseguenze del disastro di Sepia (ma probabilmente influirono i contrasti con Sparta); Gelone rifiutò di intervenire perché impegnato a contrastare un grave attacco cartaginese in Sicilia; i cretesi mantennero la neutralità per consiglio di Delfi; i corciresi equipaggiarono 60 navi ma presero un pretesto per non farle partire. Si creò una frattura fra quanti erano determinati a resistere e quanti erano disposti ad accettare la dominazione persiana. Le battaglie delle Termopili e dell’Artemisio Nella primavera del 480 i Tessali inviarono a Corinto ambasciatori, dichiarandosi disposti a combattere con i Greci, se la Tessaglia fosse stata inclusa nel piano di difesa; ma una spedizione inviata a Tempe rese evidente che i tessili non erano affidabili. Una volta rinunciato a difendere la Tessaglia, i Greci si trovarono in disaccordo sulla prima linea di difesa: i Peloponnesiaci intendevano attestarsi sull’Istmo di Corinto; Atene e gli Eubei invece insistettero per tentare una difesa alle Termopili, lo stretto passaggio tra il mare e le pendici del monte Eta che collegava la Tessaglia con la Grecia centrale. Nell’agosto del 480 furono inviati alle Termopili 4.000 opliti, tra i quali 300 spartiati, guidati dal re Leonida, a cui si unirono i Focesi, i Locresi Opunzi e i Beoti. Né Sparta né gli altri peloponnesiaci, impegnati in feste religiose, inviarono i rinforzi necessari, per dimostrare che i tentativi di difesa diversi dalla linea dell’Istmo erano destinati all’insuccesso. Intanto, la flotta greca, forte di 324 navi, si attestava al capo Artemisio, sulla costa settentrionale dell’Eubea. All’avvicinarsi delle forze preponderanti dei persiani, il grosso dei greci fu fatto rientrare. Dopo 3 giorni di resistenza, Leonida fu accerchiato dai persiani giunti attraverso un sentiero, la via Anopea, mostrato loro dal traditore Efialte e lasciato sguarnito dai Focesi. Le navi greche riuscirono a contrastare efficacemente la flotta persiana all’Artemisio, infliggendole molte perdite e ritirandosi a Salamina. La battaglia di Salamina L’esercito persiano dal passo delle Termopili dilagò nella Grecia centrale, devastò la Focide e invase l’Attica, che venne saccheggiata. La popolazione ateniese era già evacuata su consiglio di Temistocle; gli uomini si erano imbarcati sulle navi che, secondo un oracolo, avrebbero salvato Atene. La decisione di Temistocle e degli ateniesi di combattere sul mare è ritenuta da Erodoto decisiva per la salvezza della Grecia. Un nuovo conflitto si determinò tra i greci per decidere il luogo in cui attaccare battaglia navale contro i persiani: - Euribade, comandate spartano, intendeva combattere all’Istmo, dove si stava costruendo un muro di fortificazione, così da consentire la ritirata dei Peloponnesiaci in caso di sconfitta; - Temistocle, minacciando il ritiro della flotta ateniese, chiese ed ottenne di combattere a Salamina. Alla fine di settembre 480 la flotta greca, comandata dallo spartano Euribiade, costrinse quella persiana a dare battaglia nello stretto braccio di mare tra l’isola di Salamina e le coste dell’Attica. combattere contro i Persiani nel piccolo braccio di mare tra l’isola di Salamina e le coste dell’Attica. Nello scontro, a cui assistette lo stesso Serse, i Persiani non poterono far valere la propria superiorità numerica e le loro navi, non riuscendo a manovrare, vennero in gran parte distrutte. La battaglia ci è descritta, oltre che da Erodoto, anche da Eschilo; entrambi ricordano uno stratagemma con cui Temistocle, facendo annunciare al Re la fuga de Greci, avrebbe indotto i Persiani a bloccare il canale di Minoa e costretto i Greci a dare battaglia. Tuttavia Serse riteneva ancora di poter vincere in un confronto militare per terra e tornò a Sardi, lasciando Mardonio in Tessaglia con le forze di terra pressoché intatte. Le battaglie di Platea e di Micale Nel 479, dopo aver inutilmente negoziato con Atene attraverso il re Alessandro I di Macedonia, Mardonio invase l’Attica, che venne nuovamente evacuata. Gli spartani si concentrarono all’Istmo con 10.000 uomini sotto il comando di Pausania, reggente in nome di un figlio minorenne del defunto Leonida, riunendosi poi ad Eleusi con le truppe ateniesi. Mardonio si ritirò in Beozia e si accampò nel territorio di Platea: qui, in agosto, 11.000 soldati greci, secondo Erodoto, si scontrarono con 300.000 persiani. La morte di Mardonio decise la vittoria dei Greci. L’accampamento persiano cadde in mano greca; la decima del bottino fu dedicata a Delfi ad Olimpia e all’Istmo, nel tempio di Posidone. Sul campo di battaglia venne eletto un altare a Zeus Liberatore e il territorio di Platea fu dichiarato sacro e inviolabile. Tebe fu punita con l’uccisione dei filopersiani e lo scioglimento della lega beotica. Nel frattempo, a Capo Micale in Ionia, la flotta greca guidata dal re spartano Leotichida e dall’ateniese Santippo ebbe la meglio su quella persiana: le fortificazioni persiane furono attaccate e le navi, tirate in secca, furono date alle fiamme. Alla sconfitta persiana seguì la ribellione dei greci della ionia e delle isole, che si unirono alla lega degli Hellenes. Nella primavera del 478 gli ateniesi al comando di Santippo e gli Ioni presero Sesto, nella zona degli Stretti, l’ultima base persiana in Europa. ambivano al controllo del basso tirreno. Dopo la sconfitta subita nel 505 ad Aricia da parte del tiranno Arsitodemo di Cuma, essi minacciavano nuovamente la città campana. Cuma si rivolse a Siracusa, che impegnò la sua potenza navale e sconfisse gli etruschi nel 474/3 nelle acque di Cuma. Con questa vittoria, siracusa divenne la protettrice degli interessi greci in area tirrenica e magnogreca: in questo senso va intesa l’alleanza con Taranto, minacciata dalla pressione degli indigeni italici, tanto che in una guerra intorno al 470, andò incontro a una sconfitta che Erodoto ricorda come la più grande strage di Greci di cui si abbia conoscenza. Ierone muore nel 467/6. Aveva considerevolmente ampliato l’egemonia di Siracusa, ora al centro di un impero non più siceliota, ma davvero “occidentale”. Gli successe il fratello Trasibulo, che entrò in contrasto con i Siracusani. Pur sostenuto dai mercenari, dovette alla fine ritirarsi a Locri (465). La fine della dinastia dinomenide (contemporanea alla fine delle tirannidi degli Emmenidi e quella reggina) provocò in Sicilia profondi cambiamenti: il ritorno all’eleutheria e il passaggio a regimi costituzionali determinarono reazioni decise contro i mercenari neutralizzati e contro gli interventi di rifondazione e di ripopolamento ai danni delle comunità cittadine. 
 2. ATENE E SPARTA: IL MODELLO DELLA DOPPIA EGEMONIA All’indomani della vittoria contro Serse, i Greci dovettero prendere in considerazione due questioni: 1. La punizione dei greci che avevano parteggiato per i Persiani; 2. L’eventuale continuazione della guerra contro la Persia. Emersero subito interessi contrastanti fra i membri della lega degli Hellenes. Già dopo la battaglia di Micale era stata ventilata, da parte peloponnesiaca, l’ipotesi di espellere i medizzanti dai loro empori e di trasferirvi gli Ioni d’Asia, ma gli ateniesi si erano fermamente opposti. Nella proposta spartana emerge, accanto alla volontà di punire i medizzanti, la preoccupazione di evitare l’obbligo di un costante impegno militare in Asia Minore. Nell’opposizione ateniese si nota la preoccupazione di non lasciare a Sparta l’iniziativa né sulla punizione dei medizzanti né sulla difesa degli Ioni d’Asia. A guerra finita, Sparta propose una riforma dell’Anfizionia delfica, che prevedeva l’espulsione di tutti i medizzanti e la loro sostituzione, nel sinedrio anfizionico, con le città che avevano partecipato alla guerra antipersiana. Temistocle si oppose a queste proposte: nella difesa dei greci d’Asia egli intravedeva lo strumento della futura egemonia ateniese, e d’altra parte la riforma dell’Anfizionia avrebbe dato agli spartani la maggioranza nel prestigioso organismo panellenico, fornendo loro uno strumento di egemonia sulla Grecia. Temistocle si adoperò per evitare inopportuni stravolgimenti dell’assetto politico greco, e si occupò di avviare (inverno 479/8) la ricostruzione delle mura d’Atene, contro il parere degli spartani. Il problema della continuazione della guerra si manifestò subito dopo la presa di Sesto. Il pericolo di lasciare l’iniziativa militare nell’Egeo agli ateniesi fu visto con lucidità dal reggente Pausania, che si fece inviare in Asia come stratego dei Greci. Insieme con gli ateniesi e gli altri alleati attaccò Cipro, poi si diresse contro Bisanzio e la espugnò. Proprio a Bisanzio, tra il 478-77, l’egemonia spartana fu contestata dagli alleati, scontenti di Pausania, che facevano assomigliare la sua strategia a una imitazione di tirannide. Ritenevano che gli ateniesi fossero più adatti a guidarla e che, a quell’epoca, fossero loro amici. Sull’offerta dell’egemonia agli Ateniesi, dovuta secondo Tucidide all’iniziativa degli ioni, sulla base della parentela ionica, circolavano versioni diverse. In ogni cado, di fronte alla defezione degli Ioni gli spartani richiamarono Pausania; in seguito, gli alleati non riconobbero più l’egemonia di Sparta. Gli spartani colletto allora l’occasione per rinunciare definitivamente all’impiego nell’Egeo: erano disinteressati alla continuazione della guerra contro la persia, che avrebbe costretto Sparta a impegnarsi lontano dal Peloponneso. La classe dirigente spartana non comprendeva che il ruolo di prostates dei greci implicava ormai la tutela dei greci d’Asia e che il nuovo scenario determinatosi dopo le guerre persiane richiedeva una visione più ampia della politica greca rispetto a quella rigidamente peloponnesiaca. Lo mostra bene Tucidide, affermando che gli spartani lasciarono volentieri agli ateniesi l’iniziativa della guerra, perché non volevano che i loro concittadini entrassero in contatto con il mondo esterno. Il fatto che essi ritenessero gli ateniesi amici rivela la scarsa lungimiranza della politica spartana. Nelle considerazioni che tucidide attribuisce agli spartani è implicita l’idea che la cessione dell’egemonia sul mare agli “amici” ateniesi costituisse il presupposto del futuro equilibrio della grecia, basato sul bipolarismo, che dipendeva dalla spartizione delle sfere d’influenza sulla base della vocazione continentale di Sparta, potenza oplitica, e e di quella marinara di Atene. Questa visione è rappresentata: - Ad Atene da Cimone, figlio di Milziade; - A Sparta dal geronte Etemarida. Etemarida è protagonista di un episodio del 475/5: gli spartani mal tolleravano di aver perso l’egemonia sul mare, e intendevano riconquistarla facendo guerra agli ateniesi. Etemarida però consigliò di lasciare l’egemonia sul mare agli ateniesi. Sparta appare quindi profondamente divisa al suo interno tra volontà di espansione e ripiegamento, tra rivendicazione dell’egemonia di terra e di mare e autolimitazione delle proprie aspirazioni egemoniche. La posizione di Etemarida tiene conto di alcuni dati oggettivi: - Sparta era una potenza terrestre, con un esercito oplitico; - Aveva un economia legata all’agricoltura; - Aveva una situazione sociale esplosiva, con un numero limitato di spartiati che tenevano la maggior parte della popolazione in schiavitù; - Il controllo politico del Peloponneso richiedeva un impegno costante. In queste condizioni, l’obiettivo di un impero continentale appariva a molti come il più realistico. Atene invece, sotto la guida di Temistocle e Aristide, perseguì una coerente politica di potenza, cogliendo nel 478 l’opportunità di assumere il patronato dei greci d’Asia e pretendendo di sostituire Sparta come Prostates della grecia. Il suo maggior dinamismo è legato alle caratteristiche della sua potenza: - Era una potenza navale, non terriera; - Aveva un’economia legata agli scambi commerciali; - In virtù della potenzialità demografica poteva impegnarsi su più fronti. Alla staticità di Sparta corrispondeva in Atene una grande capacità di sviluppo ed estensione. La loro intesa durò poco tempo. perdita dei diritti politici e civili. La concessione era intesa in origine come garanzia, ma presto si verificarono abusi: falsi accusatori, denominati sicofanti, costringevano gli alleati a farsi giudicare in Atene, favorendo sia il controllo della giustizia da parte di Atene, sia l’economica ateniese. Nelle commedie di Aristofane e nella costituzione degli Ateniesi dello Pseudosenofonte si insiste molto su questa forma di “imperialismo giudiziario”; la sua affermazione sarebbe da collegare con un “decreto giudiziario” introdotto alla metà del secolo, che prevedeva che i processi capitali si celebrassero in Atene non come esito di appello, ma in prima istanza. Tale decreto tuttavia non ci è pervenuto. 
 4. L’imposizione di guarnigioni militari e di governatori (archontes, episkopoi) è attestata per via epigrafica e letteraria: la loro funzione era di sorvegliare gli alleati poco affidabili e di vegliare sugli interessi di Atene e sull’applicazione delle decisioni della lega. La presenza di Atene nel territorio degli alleati si faceva così estremamente oppressiva. 
 5. L’invio di cleruchie o colonie militari, installando migliaia di ateniesi sul territorio degli alleati, intendeva controllarli da vicino con la presenza di una guarnigione stabile, ma anche fornire i mezzi di sussistenza al demos ateniese in eccedenza: ai cleruchi infatti veniva assegnato un kleros, di cui essi percepivano la rendita. 
 6. Quanto all’imposizione di regimi in linea con le posizioni dell’egemone, secondo Tucidide essa non era una caratteristica dell’impero ateniese, bensì di quello sparano. Nei decreti riguardanti alleati ribelli non è sempre possibile individuare tracce sicure dell’imposizione di governi democratici da parte ateniese; nella Costituzione degli Ateniesi pseudosenofontea, però, si insiste molto sul sostegno dato da Atene alle democrazie contro le aristocrazie locali. 
 Non c’è dubbio che a partire dalla rivolta di Nasso la lega delio-attica andò incontro a profondi mutamenti: - Cambia l’obiettivo: dalla continuazione della guerra contro la Persia si passa alla tutela di interessi diversi, come la contesa con Sparta per l’egemonia della Grecia; - Cambiano i caratteri dell’alleanza, che da lega militare egemonica di carattere paritario divenne un impero, un’arché; - Cambiano i metodi di gestioni delle relazioni tra egemone e membri, improntate a rapporti di potenza e non di collaborazione. Tucidide si interroga insistentemente sulla natura imperialistica della lega Delio-attica, in diversi discorsi che fa pronunciare a protagonisti della politica ateniese come Pericle e Cleone; e nella degenerazione della lega da alleanza paritaria a impero tirannico coglie una delle cause principali della sconfitta che Atene subì nella guerra del Peloponneso. 
 2.2. La pentecontetia Tucidide chiama pentecontetia i circa 50 anni compresi tra il 478 e il 431, tra la presa di Sesto e l’inizio della guerra del Peloponneso. A questo periodo, rimasto fuori dall’opera di Erodoto e che nessuno in seguito aveva trattato in modo soddisfacente, lo storico dedica una sintetica ricostruzione, nei capitoli 89-117 del I libro. La chiave di lettura che adotta è che in questo periodo la potenza ateniese avrebbe costantemente e che il timore che ne derivò agli spartani fu il motivo più vero della guerra. Gli anni dopo il 478, fino alla rivolta di Nasso, furono caratterizzati da un intenso impegno di Atene sul mare; Sparta si impegnò in Tessaglia, dove nel 469 il re Leotichida condusse una spedizione contro gli Alevadi, e nel Peloponneso, dove contrastò efficacemente la coalizione tra Argivi, Arcadi ed Elei. La spartizione delle sfere di influenza appariva ormai un fatto acquisito: essa corrispondeva in effetti alle caratteristiche delle due città egemoni, ma non alla visione politica dinamica e aggressiva di uomini come Pausania e Temistocle, l’uno disposto a condurre Sparta sulla via dell’impegno navale nell’Egeo; l’altro a utilizzare lo strumento della Lega Delio-attica in funzione antispartana. L’affermazione della linea doppia dell’egemonia fu pagata da entrambi con la scomparsa dalla scena politica. Pausania, richiamato a Sparta nel 477, tornò in seguito in forma privata nell’Ellesponto e si installò prima a Bisanzio, poi a Colone; accusato di trattare con i barbari e di aspirare alla tirannide, e nuovamente richiamato in patria, fu sospettato anche di maneggi con gli iloti e murato vivo nel tempio di Atena Calcidea. Nello stesso periodo, ad Atene, Temistocle fu ostracizzato e costretto a fuggire ad Argo. Finì poi in Persia, dove morì intorno al 465. La disgrazia di Pausania e di Temistocle consentì in Sparta e in Atene l’affermazione di coloro che intendevano evitare la contrapposizione diretta fra i due blocchi, favorendo un bipolarismo che si sperava avrebbe garantito un equilibrio internazionale stabile alla Grecia. In Atene, questa linea fu portata avanti da Cimone: celebre fu la sua reinterpretazione di un antico oracolo che ammoniva di evitare l’ “egemonia zoppa”, e che intendeva come un ammonimento a far dipendere l’equilibrio della Grecia dalla collaborazione fra Sparta e Atene. Cimone fu il più importante uomo politico ateniese tra il 471/0 e il 462/1: sotto il suo governo, il consiglio dell’areopago avrebbe assunto un importante ruolo di controllo della vita pubblica, assicurando alla città un buon governo di impronta moderata. Sotto Cimone la lega Delio-attica riprese la sua attività contro la Persia, con la vittoria in Panfilia e la prima vittoriosa spedizione a Cipro. La rivolta dell’isola di Taso (465) costrinse Cimone a interrompere la spedizione a Cipro per intervenire in Tracia. I Tasi, vinti in una battaglia navale, chiesero aiuto agli spartani, ma il loro intervento fu impedito dai problemi interni conseguenti al grande terremoto del 464, che provocò la ribellione degli iloti e lo scoppio della terza guerra messenica (464-454). Gli ateniesi, indisturbati, riuscirono così a domare la rivolta di Taso, che ebbe termine nel corso del terzo anno di assedio (563/2). Nel contesto della spedizione contro Taso, però, gli ateniesi andarono incontro a un grave insuccesso con il tentativo di colonizzazione di Nove Strade: qui i coloni ateniesi furono massacrati dai Traci Edoni, che volevano impedire loro la penetrazione nell’entroterra. Al ritorno da Taso, Cimone fu messo sotto processo da diversi avversari politici, tra cui Pericle, per aver ricevuto denaro da Alessandro, re di Macedonia. Il re, che aveva sostenuto i Tasi ribelli, avrebbe ottenuto in cambio che Cimone non attaccasse la Macedonia. In occasione del terremoto del 464 gli spartani, in grave difficoltà interna, chiesero l’intervento degli ateniesi, di cui erano ancora formalmente alleati: in assemblea si scontrarono il democratico Efialte, sfavorevole all’intervento, e Cimone, che ripropose l’oracolo e convinse gli ateniesi a svolgere una spedizione di soccorso. Ma l’assedio della fortezza di Itome, dove i ribelli si erano asserragliati, andava per le lunghe, e l’intervento di Atene non si rivelò risolutivo, allora gli Spartani, racconta Tucidide, li rimandarono a casa, dichiarando che non avevano più bisogno di loro. Tucidide mette in evidenza il clima di sospetto ormai sorto tra potenze di carattere profondamente diverso, l’una statica e tradizionalista, l’altra intensamente dinamica e innovativa, e la difficoltà di mantenere un equilibrio sulla base della divisione delle sfere di influenza. L’umiliazione inflitta agli ateniesi provocò un’immediata reazione in Atene. Cimone fu ostracizzato; Atene denunciò l’alleanza con Sparta, vigente dal 481, e ne concluse un’altra con gli Argivi, tradizionali nemici di Sparta, e i Tessali. Con questa nuova alleanza, citata nelle Supplici di Eschilo, Atene si sottrasse alla logica del bipolarismo e della non interferenza, dando alla sua potenza, attraverso gli alleati, una base anche continentale. Sul versante interno, la caduta di Cimone aprì la strada alla riforma democratica di Efialte, che nel 462/1 pose fine al governo dell’Areopago. Quella del 462/1 è una svolta di eccezionale rilievo nella storia di Atene e della Grecia nel V secolo: sul piano internazionale, Atene abbandona la prospettiva della spartizione delle sfere di influenza e rivendica l’egemonia sull’intera Grecia; mentre sul piano interno, liberata dal condizionamento La pace del 446/5 Nel 446/5 fu conclusa tra Atene e Sparta una pace trentennale, che cercava di assicurare stabilità attraverso il riconoscimento dell’esistenza delle due leghe e delle due zone di egemonia. L’accordo funzionò, come possiamo vedere anche dalla ribellione di Samo contro Atene nel 441/0: la lega del Peloponneso, pur sollecitata, non intervenne, in quanto i Corinzi si opposero, ricordando che ognuno aveva il diritto di punire da solo i propri alleati. Atene e l’Occidente Dopo la tregua con Sparta, Atene riprese quegli interessi occidentali che la tradizione fa risalire a Temistocle e alla sua attenzione per le aree magnogreche della Sibaritide e della Sirtide e che essa non aveva mai del tutto abbandonato. L’occidente greco mostrava una sostanziale instabilità. Con la caduta delle tirannidi, i Sicelioti si impegnarono nella lotta contro i mercenari naturalizzati dai tiranni, che vennero concentrati a Messana, e nella ricostruzione delle antiche comunità cittadine snaturate dagli interventi di deportazione. A Siracusa si affermò una democrazia, che imitava le istituzioni ateniesi (come il petalismo, analogo all’ostracismo), ma non mostrava uguale solidità ed era sempre a rischio di degenerare in tirannide. In questo contesto, il siculo Ducezio, definito “egemone” dei siculi, promosse una confederazione fra siculi, il cui centro politico e religioso fu Palice (453); sconfitto dai siracusani, andò esule a Corinto nel 450, dopo due anni tornò in Sicilia e morì. In Italia, le aristocrazie di ispirazione pitagorica caddero intorno alla metà del secolo; nel 453 venne rifondata Sibari, distrutta cinque anni dopo da Crotone. I sibariti chiesero aiuto alle potenze della madrepatria, ottenendolo da Atene nel 446: l’impossibilità di dare un assetto stabile alla città, per i conflitti tra i sibariti e i nuovi coloni, indusse Atene a rifondarla col nome di Turi, sotto la guida dell’ecista Lampone, nel 444/3. Turi fu una colonia panellenica, in cui affluirono coloni dalla Grecia e dall’Asia Minore. Tra i suoi cittadini ricordiamo il sofista Protagora, lo storico Erodoto e l’urbanista Ippodamo. 10 anni dopo la sua fondazione, nella colonia prevalse l’elemento peloponnesiaco e Atene perse la possibilità di utilizzarla per i propri fini. 
 3. DEMOCRAZIA E IMPERIALISMO Secondo la Costituzione degli Ateniesi dello Pseudosenofonte, la democrazia era un sistema intrinsecamente sbagliato, ma non privo di una sua rigorosa logica interna. Secondo l’autore la democrazia è da respingere, in quanto, pur presentandosi come governo di tutti, è in realtà governo di una parte, la peggiore, cioè la classe popolare. Tuttavia l’anonimo appare cosciente del fatto che la democrazia, pur muovendo da una scelta sbagliata, la persegue poi con profonda coerenza. Lo pseudosenofonte punta poi il dito sulle contraddizioni del regime, e in particolare sui costi enormi che il funzionamento della macchina democratica comportava: i costi erano legati soprattutto alla introduzione del misthós, la retribuzione delle cariche pubbliche, che garantiva una partecipazione non teorica ma effettiva anche ai meno abbienti; il che a detta degli antidemocratici alimentava il parassitismo del popolo e lo sfruttamento economico degli alleati, il cui tributo veniva utilizzato per il mantenimento del demos. In effetti, per garantire ai propri cittadini l’esercizio incondizionato dei loro diritti la democrazia fu costretta a cercare all’esterno i mezzi per sostenere un sistema estremamente dispendioso e ad avviarsi sulla strada dell’imperialismo. 3.1. Efialte L’ostracismo di Cimone creò le condizioni per la riforma democratica di Efialte, figlio di Sofonide, leader del partito democratico. Di Efialte sappiamo assai poco: Aristotele ne parla come di un prostates del demos e lo giudica incorruttibile e giusto. La sua azione partì da processi per corruzione contro membri dell’Areopago, da collegare con le analoghe accuse mosse da Pericle a Cimone: si trattava di un’offensiva ai danni della classe dirigente conservatrice. La riforma consistette nel sottrarre all’Areopago tutte quelle competenze “aggiunte” (epitheta) che il consiglio aveva accumulato nel tempo in materia di controllo della vita politica e costituzionale e che gli consentivano di essere “guardiano della politeia”, ma che i democratici ritenevano non originarie, e nel ridistribuirle alla boulé dei 500, all’assemblea popolare e al tribunale dell’Eliea. Le competenze del consiglio furono limitate alla giurisdizione sui delitti di sangue e a poche altre questioni di natura religioso-sacrale. La riforma fu presentata dai democratici non come un’innovazione, ma come un ritorno all’antico: questa visione emerge con chiarezza dalle Eumenidi di Eschilo. Dalla riforma efialtea gli organismi democratici uscirono fortemente potenziati, in particolare il tribunale popolare. Esso era costituito nel V secolo da 6000 giudici, sorteggiati annualmente fra tutti i cittadini, che operavano divisi in corti più ristrette, presiedute dagli arconti. All’esercizio dell’attività giurisdizionale gli ateniesi tenevano in modo particolare, come testimoniano anche le commedie di Aristofane. Nel IV secolo Aristotele ci informa del fatto che il sorteggio per la selezione dei giudici e la loro assegnazione alle singole corti veniva fatto di volta in volta e con una serie di complesse procedure precauzionali, che comprendevano il sorteggio immediato non solo dei giudici e del presidente del tribunale, ma anche dei funzionari incaricati di sovrintendere alle operazioni di sorteggio e di voto, in modo da assicurare la formazione di giurie imparziali. Lo stesso meccanismo di voto era fortemente controllato. Efialte morì assassinato poco dopo la riforma. Circolano diverse versioni sul suo assassinio: si trattò probabilmente di una congiura oligarchica. 3.2. Pericle e la “democrazia reale” Pericle, figlio di Santippo e di Agariste, nipote di Clistene, apparteneva per parte di padre alla famiglia dei Buzigi, per parte di madre a quella degli Alcmeonidi. Fu il successore di Efialte alla guida dei democratici e godette di vasto consenso popolare: fu eletto stratego per ben 15 volte. La prima fase della sua carriera, dopo la morte di Efialte, è più oscura, ma dopo l’ostracismo del suo principale avversario, Tucidide figlio di Melesia (443/2), determinò il corso della politica ateniese fino al 429, anno della sua morte. Secondo Tucidide, Pericle univa l’autorevolezza che gli derivava dalla tradizione familiare a una serie di eccezionali qualità personali; su questa base egli seppe stabilire con il popolo un rapporto di fiducia, avvalendosi della libertà di giudizio della maggioranza e frenando contemporaneamente l’irrazionalità e l’emotività della massa; ne conseguì una democrazia “guidata”, immune dal rischio di derive autoritarie o demagogiche. Un equilibrio che venne meno con i successori di Pericle, che inaugurarono la stagione della demagogia. All’iniziativa di Pericle è attribuita l’introduzione del misthós, la retribuzione delle cariche pubbliche. Si stabilì di retribuire: - Con 4 oboli al giorno il servizio svolto dai magistrati; - Con 5 oboli al giorno quello dei buleuti; - Con 2 oboli al giorno quello degli elianti. Nello stesso periodo, nel 457/6 l’accesso all’arcontato fu esteso ai membri della terza classe soloniana, gli zeugiti; in seguito anche i teti furono ammessi alle magistrature superiori, purché non dichiarassero il loro stato. un suo ruolo tirannico trovarono ulteriore alimento e attacchi indiretti alla sua persona si manifestarono attraverso processi a esponenti del suo entourage. Una vera crisi del rapporto tra Pericle e il demos si ebbe nel 430, dopo il primo anno della guerra del Peloponneso, quando, di fronte alla seconda invasione dell’attica da parte spartana e con la peste, Pericle non fu rieletto stratego. Gli antichi sottolineavano la contraddizione della stretta relazione fra democrazia avanzata e imperialismo. Un’altra contraddizione è quella della chiusura dell’Atene Pericle sul tema della cittadinanza. Nel 451/0 Pericle fece votare una legge che limitava l’accesso alla cittadinanza di pieno diritto ai figli di padre e di madre ateniesi, escludendone i nati da matrimoni stranieri. Si è cercato di individuare motivazioni diverse: 1. Il bisogno di fronteggiare un’eccessiva crescita demografica; 2. La volontà di colpire le pratiche aristocratiche; 3. Il desiderio di evitare matrimoni tra cittadini ateniesi e persone di status inferiore. È anche possibile che esprimesse un intento di valorizzazione del demos, il cui ruolo nella formazione del corpo civico risultò in effetti rafforzato: una donna, anche di modeste condizioni, ma asté (di famiglia ateniese), acquisiva un ruolo privilegiato. Quel che è certo è che la legge intendeva sottolineare il senso di appartenenza al corpo civico originario, limitandovi l’ingresso agli ateniesi puri. Tale senso di appartenenza può rimandare a motivazioni ideali, cioè alla volontà politica di preservare la purezza etnica del corpo civico, oppure a motivazioni più pratiche, e cioè al desiderio di limitare il numero dei beneficiari dei vantaggi concreti collegati con il possesso della cittadinanza. In ogni caso, la legge mette in evidenza la progressiva chiusura della democrazia. Nella democrazia greca, alla radicalizzazione dell’esperienza democratica all’interno della comunità poleica corrispondono non l’apertura, la speranza e la disponibilità all’integrazione, ma la valorizzazione dell’identità e la chiusura verso l’esterno: la legge di Pericle fu una serrata della cittadinanza. Nonostante ciò va detto che Atene era ritenuta più disponibile di altre città nei confronti degli stranieri: Sparta, per esempio, faceva sorvegliare gli stranieri ed esistevano le espulsioni di stranieri. In tutte le poleis diritto di cittadinanza e residenza non coincidevano; dal godimento dei pieni diritti (maschi adulti liberi) erano esclusi donne, stranieri liberi, schiavi: in questo la democrazia ateniese non da eccezione. Ad Atene però trova sviluppo un istituto presente anche altrove in Grecia, la metoikia, inteso a tutelare la posizione dello straniero libero. Lo straniero, anche di stirpe greca (xenos), fuori dalla sua comunità era privo di tutela giuridica; egli poteva aspirare al massimo alla concessione di alcuni diritti, ma era raro. Chi prendeva residenza stabile in un’altra città diventava un meteco; in Atene sappiamo che: - Aveva l’obbligo di porsi sotto la protezione di un cittadino, che assumeva la funzione di patrono o prostates; - Doveva pagare una tassa di 12 dracme all’anno; - Veniva iscritto in speciali registri tenuti dai demi e prestava servizio militare. Il meteco aveva accesso dal alcune forme di espressione religiosa e cultuale, ma era escluso dalla partecipazione politica. Per quanto riguarda la capacità processuale, poteva ottenere la tutela dei propri diritti rivolgendosi al magistrato competente per i rapporti con gli stranieri, l’arconte polemarco. Lo straniero, dunque, resta sempre ben distinto dal cittadino, ma può ricevere una serie di concessioni che ne migliorano la condizione e ne favoriscono la sicura convivenza con i cittadini della comunità che li ospita. Il rapporto che si viene a determinare è quindi di natura contrattuale: la polis in linea di principio esclude lo straniero, ma ne può apprezzare l’attività in campo economico, fiscale, militare. Gli schiavi, di origine greca o barbarica, divenivano tali per lo più in seguito a prigionia di guerra, oppure perché nati in casa; più raramente in seguito a condanne penali. La loro proporzione rispetto ai cittadini liberi sembra essere stata relativamente alta. Sul piano giuridico: - Lo schiavo era proprietà, non persona, quindi non era soggetto di diritto; - La sua testimonianza in tribunale era valida solo se resa sotto tortura; - Non poteva essere picchiato o ucciso impunemente (ma non per difendere la persona dello schiavo, bensì la proprietà del padrone). Gli schiavi, soprattutto domestici, godevano di una larga autonomia di fatto, soprattutto nelle attività commerciali. Col loro lavoro sostenevano molte attività economiche, ma anche nel massimo sviluppo dell’economia schiavistica (es. imperialismo ateniese), non si può parlare di esclusivo lavoro servile, le fonti parlano anche di lavoro libero. La qualità della vita era complessivamente buona per gli schiavi domestici e per gli schiavi pubblici impegnati in funzioni amministrative. Diversa era la condizione degli schiavi addetti alla produzione industriale e al lavoro nelle miniere. Una testimonianza della condizione relativamente buona degli schiavi ad Atene è che poteva contare sul loro appoggio nei momenti di maggiore difficoltà, mentre Sparta era sempre minacciata dalle rivolte servili. Le donne, benché libere e cittadine, erano escluse da ogni forma di partecipazione politica. Nella polis greca la donna libera e cittadina era definita dal matrimonio, dalla procreazione di figli legittimi e dal lavoro domestico. Essa viveva segregata nell’oikos, fuori da ogni dimensione politica; il suo ruolo si riduceva a strumento di trasmissione della cittadinanza. La segregazione aveva lo scopo di evitare che un eventuale adulterio introducesse nell’oikos figli illegittimi: in questo senso le donne anziane e le cortigiane avevano maggiore libertà. 3.3. L’impero tirannico Una svolta nella storia della Lega delio-attica è il discorso che i Mitilenesi, ribelli ad Atene, rivolgono ai Peloponnesiaci ad Olimpia, nel 428/7, per ottenerne l’aiuto. Giustificando la propria ribellione con il venire meno di condizioni paritarie in seno alla lega delio-attica, i Mitilenesi propongono una breve storia della lega: nata per liberare i Greci dai Persiani, essa si è lentamente trasformata in uno strumento di asservimento per i Greci. Questa valutazione ci riporta alla prima metà degli anni 40, quando la pace di Callia aveva chiuso il ciclo delle guerre persiane. Alcuni documenti epigrafici, che illustrano il cambiamento delle relazioni tra Atene e gli alleati ribelli, possono contribuire a una migliore valutazione. Uno di essi è il trattato fra Atene e Calcide, concluso nel 446/5 dopo la repressione della rivolta dell’Eubea, che Atene affrontò in condizioni difficili perché attaccata su più fronti. Atene offrì al l ’ isola condizioni complessivamente miti; solo ad Estiea gli abitanti vennero espulsi e fu inviata una cleurchia ateniese. Nel trattato con Calcide leggiamo che Atene si impegna a non procedere arbitrariamente contro i Calcidesi, chiedendo in cambio assoluta sottomissioni: dal rapporto paritario si è passati a una condizione di sudditanza. Un altro documento interessante è quello relativo alle regolamentazioni successive alla conclusione della rivolta di Samo. Nel 441/0 i Milesii, sconfitti dai Sami in una guerra per il controllo di Priene, si rivolsero agli Ateniesi, con l’appoggio dei democratici di Samo; atene intervenne a Samo istituendovi la democrazia. Ma gli oligarchici sami si accordarono con il satrapo persiano Pissutne e provocarono la ribellione della città, cui si unì anche Bisanzio; particolarmente pericolosi furono il coinvolgimento dei Persiani e l’appello alla lega del Peloponneso, che pure rifiutò l’intervento. La repressione della rivolta richiese un notevole impegno militare ad Atene e ben 9 mesi di assedio, prima che Siamo cedesse e accettasse di demolire le mura, consegnare la flotta e rimborsare le spese di guerra. Il trattato tra Atene e i Sami si differenzia al precedente con i calciassi per due aspetti: 1. La maggiore benevolenza espressa da Atene; 2. L’impegno dei Sami non solo verso Atene, ma anche nei confronti degli alleati. Tali differenze sembrano legate alla presenza di una democrazia nell’isola, imposta dagli ateniesi vincitori. In entrambi i casi le scelte di Pericle rivelano la volontà di difendere l’impero anche con durezza, se necessario, ma evitando di giungere a provvedimenti estremi, se possibile. Una novità significativa è l’imposizione di democrazie, che non caratterizzava in origine l’arche ateniese, ma che in alcuni casi - Quando Corinto attacca corcira, Atene invia navi con l’ordine di evitare lo scontro con i corinzi, a meno di un attacco diretto contro Corcira; - Nel settembre 433, alle isole Sibota i Corinzi sconfiggono la flotta Corcirese; - Le navi ateniesi impediscono ai corinzi vincitori lo sbarco a Corcira, vanificando la vittoria corinzia; - Atene ottiene un grande prestigio nello Ionio e in Occidente, mentre la posizione di Corinto risulta indebolita. 
 L’intervento ateniese fu ritenuto dai peloponnesiaci una violazione del trattato di pace. 
 Potidea 
 Nel caso di Potidea furono gli ateniesi, secondo tucidide, a fare il primo passo, consapevoli dell’ostilità dei corinzi. Dopo la battaglia delle Sibota, gli ateniesi ordinarono a Potidea, colonia corinzia situata nella Calcidica, ma alleata tributaria di Atene, di abbattere il muro sulla penisola Pallene, di consegnare ostaggi e di non accogliere più gli epidemiurghi (magistrati che le venivano inviati da corinto): temevano che Potidea si ribellasse con il sostegno dei corinzi e della macedonia, trascinando con sé altri calciassi. Potidea, ottenuta da Sparta la promessa di un’invasione dell’attica in caso di attacco, rifiutò e si ribellò insieme a calciassi e ai Bottiei. La ribellione costrinse Atene a un grosso impegno. La città cede solo nel 430/29. I corinzi, appena avuta notizia della ribellione, inviarono una spedizione al comando di Aristeo: Corinto e Atene sono ancora in stato di guerra aperta. La tregua fra atene e sparta, tuttavia, durava ancora, perché l’azione dei Corinzi, non concordata con la lega del peloponneso, era da considerare di carattere “privato”. 
 Il blocco di Megara 
 I corinzi chiesero nel settembre del 432 una riunione della lega, durante la quale accusarono gli ateniesi di aver violato il trattato, sostenuti dagli Egineti, che volevano l’autonomia, e dai Megaresi, che denunciavano di essere impediti di accedere ai porti dell’impero ateniese e al mercato dell’Attica. L’accusa rivolta ai megaresi dagli ateniesi era di aver coltivato la terra sacra e di aver accolto schiavi fuggitivi. I megaresi furono certamente colpiti in quanto amici dei corinzi, che peraltro avevano aiutato contro Corcira: si trattava di una provocazione molto grave alla lega del peloponneso, di cui Megara faceva parte, giacché l’embargo, per una città che viveva di commerci, era rovinoso. Il congresso di Sparta Nell’incontro con sparta, Tucidide fa parlare i Corinzi, gli ambasciatori ateniesi, il re spartano Archidamo e l’eforo Stenelaida. Approfitta del dibattito per illustrare la sua visione delle forze in campo e della loro posizione alla vigilia del conflitto. Sul versante peloponnesiaco, mentre Sparta appare divisa tra la prudenza di Archidamo e l’aggressività di Stenelaida, Corinto si mostra assai determinata alla guerra. - Archidamo: si mostra preoccupato della differenza qualitativa tra l’egemonia ateniese e quella spartana e della disparità delle risorse; teme le difficoltà di una guerra tra continentali e isolani, tenendo conto della tradizionale indisponibilità di Sparta a lasciarsi coinvolgere in imprese che la portassero lontano dal peloponneso; chiede perciò di avviare trattative che consentano di rimandare il conflitto e di realizzare una preparazione più accurata. - Stenelaida è un interventista senza alcuna esitazione: Sparta non deve esitare a difendere i suoi alleati, che costituiscono la sua forza, e non deve lasciare che gli ateniesi diventino più potenti. Le posizioni contrapposte di Archidamo e Stenelaida esprimono una diversa reazione alle provocazioni dei Corinizi, che avevano accusato gli spartani di esagerare in prudenza e di essere inadeguati a contrastare gli ateniesi: - Archidamo reagisce ribadendo la tradizione di prudente saggezza che aveva sempre caratterizzato Sparta e rifiutando di lasciarsi condizionare dalle critiche; - Stenelaida reagisce accogliendo le critiche degli alleati e prendendo sul serio la minaccia corinzia di passare a un’altra alleanza. Tucidide vuole sottolineare come la politica spartana mostrasse segni di inadeguatezza colti sia dagli alleati che dall’opinione pubblica spartana (Stenelaida). Lo sviluppo della potenza ateniese e la contrapposizione crescente tra i due blocchi stavano infatti mettendo in discussione l’idea di egemonia propria della tradizione spartana: un’egemonia di terra legata all’ambito peloponnesiaco e tendente a garantire l’equilibrio della grecia attraverso una divisione delle sfere di influenza che non comportasse, per sparta, un impegno stabile lontano dalle sue tradizionali aree di interesse. Quanto agli ateniesi, nel dibattito del 432 difendono la legittimità dell’impero e la moderazione con cui era stato gestito; invitano gli spartani a cercare un accordo diplomatico e a non lasciarsi influenzare da opinioni e accuse altrui. Ignorando i corinzi, gli ateniesi chiedono agli spartani di non interrompere la tregua e cercare una soluzione legale alle controversie esistenti. L’assemblea spartana e quella degli alleati si espressero però a favore della guerra, convenendo che gli ateniesi avevano violato il trattato. In realtà, gli ateniesi cercavano solo di prendere tempo: erano consapevoli della condizione di superiorità assicurata loro dal dominio del mare, quindi pericle e gli ateniesi erano ormai determinati a combattere la guerra “inevitabile”. Le ultime trattative L’inverno del 432/1 fu impiegato in trattative durante le quali Sparta avanzò richieste di tipo puramente propagandistico, come l’espulsione dei responsabili del sacrilegio di Cilone, anche Pericle. Atene rispose chiedendo agli spartani di purificarsi dal sacrilegio del Tenaro e da quello di Atena Calcieca, cioè dall’uccisione sacrilega di alcuni iloti e di Pausania. Dagli spartani vennero anche proposte più ragionevoli, come quelle di togliere l’assedio a Potidea, lasciare autonoma Egina e togliere l’embargo a Megara. Al rifiuto di Atene, sparta inviò un ultimatum, ovvero la richiesta di sciogliere la lega delio-attica: una condizione inaccettabile, rivolta in realtà ai greci, per affermare che sparta entrare in guerra per la liberazione di quanti erano stati asserviti dagli ateniesi. Pericle era fortemente determinato alla guerra, fece rispondere che atene non avrebbe subito imposizioni, ma che era disposta a risolvere le controversie secondo giustizia, su un piano di parità e nello spirito dei trattati. Le trattative si interruppero definitivamente. 4.1. La guerra archidamica Fasi della guerra del Peloponneso 1. 431-421, guerra decennale o archidamica, dal nome del re spartano Archidamo, responsabile della strategia spartana (molto tradizionale) delle periodiche invasioni dell’Attica. L’intervento spartano si ebbe solo dopo che, nella primavera del 431, i Tebani attaccarono Platea, aprendo le ostilità. 2. 421-413, periodo intermedio definito da Tucidide tregua incerta e sospetta, durante il quale la guerra continuò, sebbene in forma non globale. 3. 413-404, guerra deceleica (dall’occupazione spartana del demo attico di Decelea) o ionica (dallo spostamento della guerra sul fronte Egeo), in cui si ebbe una ripresa del conflitto globale fra i due blocchi. Schieramenti - Sparta: tutti i Peloponnesi tranne Argo e gli Achei (esclusa Pellene), i megaresi, i beoti, i locresi, i focesi, le colonie corinzie di Ambracia, Leucade e Anattorio. Era una coalizione molto forte sul piano delle forze di terra, ma che contava solo sulla flotta corinzia e, per le risorse, sui contributi volontari e sui depositi dei santuari di Delfi e di Olimpia. - Atene: i chii, i lesbi e tutte le città della ionia, della Tracia e dell’Ellesponto, gli isolani tranne Tera e Melo, i plateesi, i messeri di naupatto, gli acarnani, i tessali, corcira e zacinto: la coalizione era superiore sul piano delle forze navali. Le fasi iniziali della guerra: la peste e la morte di Pericle All’invasione dell’attica pericle reagì con una strategia che puntava sulla possibilità di Atene di ricevere rifornimenti dal mare: raccolse tutta la popolazione dell’Attica entro le mora della città (poco gradita ai contadini Nel 422 Cleone tentò di riprendere Anfipoli: nella battaglia trovarono la morte sia Cleone sia Brasida. Il partito della pace, sostenuto in Sparta dal re Pleistonatte, in atene da Nicia, ne approfitto per aprire le trattative: una tregua era desiderata - Sia dagli spartani, preoccupati dal fallimento della strategia delle invasioni periodiche, dalla disfatta di Sfacteria e dalle difficoltà derivanti dall’irrequietezza degli iloti e degli stati peloponnesiaci; - Sia dagli ateniesi, ai quali la perdita di Anfipoli e della Calcidica aveva inferto un duro colpo e che temevano le defezioni degli alleati. Nella primavera del 421 si giunse alla conclusione della pace di Nicia. Il criterio fondamentale fu quello del ristabilimento dello status quo ante: - Sparta avrebbe dovuto restituire Anfipoli e Panatto, mentre le città calciassi sarebbero rimaste autonome; - Atene avrebbe dovuto restituire Pilo, Citera e i prigionieri di Sfacteria. Ogni eventuale contesa sarebbe stata risolta ricorrendo alle vie legali. In seguito ci fu un trattato di alleanza bilaterale tra atene e sparta, che riproponeva la vecchia logica del bipolarismo: con esso gli spartani intendevano evitare che argo (neutra durante la guerra) o altri stati peloponnesiaci si volgessero contro di loro, contando sull’aiuto degli ateniesi. 4.2. Dalla pace di Nicia alla spedizione in Sicilia: Alcibiade La pace di Nicia fu accolta con grande malcontento dagli alleati di Sparta: Beoti, Corinzi, Elei e Megaresi rifiutarono di ratificarla, ritenendosi danneggiati dal ristabilimento dello status quo ante e dalla presenza di una clausola bilaterale, che consentiva di modificare i termini dell’accordo “come sembri opportuno a entrambi” (Tucidide). A ciò si aggiunse il mancato rispetto degli impegni: Pilo e Citera, Anfipoli e Panatto non furono restituite. La coalizione antispartana nel Peloponneso, Alcibiade e la battaglia di Matinea Tra i più scontenti vi erano i Corinzi, che avevano spinto sparta alla guerra senza trarne i risultati sperati: furono loro a prendere l’iniziativa di avviare trattative con gli argivi, accusando gli spartani di aver fatto pace e alleanza con gli ateniesi e invitando gli argivi a mettersi a capo di un’alleanza per salvarla dalla servitù. La proposta raccolse l’adesione degli arcadi di Mantinea e degli Elei, che già nel 470 si erano coalizzati con argo contro sparta; non aderirono Tegeati, Beoti e Megaresi, cosa che indusse gli argivi, nel 420, a cercare un compromesso con gli spartani. Nel frattempo, le relazioni tra Atene e Sparta presero a peggiorare a causa dei conflitti sulle restituzioni; ad Atene riprese vigore il partito della guerra, guidato da Alcibiade, parente di Pericle. Egli promosse con successo, nonostante l’opposizione di Nicia, l’alleanza di argivi, mantineesi ed elei con Atene, mostrando interesse a organizzare una stabile forza antispartana, di ispirazione democratica, nel peloponneso e i corinzi preferirono tornare sul versante spartano. Nel 418, a Matinea, gli Spartani e i loro alleati si scontrarono con la coalizione guidata dagli ateniesi e la sconfissero. Ad Argo fu instaurata un’oligarchia filospartana, che poi fu rovesciata l’anno successivo; in seguito, fra Atene e Argo si stabilì una collaborazione che dura fino alla fine della guerra. Alcibiade riesce a evitare l’ostracismo alleandosi con Nicia. La presa di Melo Nel 416 Nicia fece una spedizione contro Melo, colonia spartana che intendeva mantenere la propria neutralità. Melo capitolò nel 415 e fu trattata duramente: gli uomini furono uccisi, le donne e i bambini venduti schiavi e fu inviata una cleruchia di 500 uomini. La grande spedizione in Sicilia Nell’inverno del 416/5 la città di Segesta, con cui era stato stabilito un trattato, richiese l’intervento ateniese contro Selinunte e Siracusa, prospettando i rischi di un asse Sparta/Siracusa. Nonostante l’ostilità di Nicia, l’assemblea si fece indurre a concedere aiuto da Alcibiade. Si trattò secondo Tucidide di un grave errore, non tanto sul piano strettamente militare quanto su quello dei mezzi concessi agli strateghi, non sufficienti, e su quello delle divisioni fra uomini politici, che indebolirono l’azione di Atene. Alcibiade viene nominato stratego con pieni poteri insieme a Nicia e Lamaco. Mentre si procedeva con i preparativi, una notte vennero mutilate le Erme, colonnine raffiguranti il dio Ermes, che sembrava di cattivo auspicio per la spedizione. Durante l’inchiesta emersero accuse a carico di Alcibiade, che in realtà Tucidide sembra ritenere infondate, ma la sua tendenza alla trasgressione e la sua ambizione contribuirono a renderlo sospetto di aspirazione alla tirannide. Nel giugno del 415 la flotta giunse a Catania; poco tempo dopo arrivò in città la nave incaricata di riportare Alcibiade in Atene, il quale fece perdere le sue tracce a Sparta e quindi gli ateniesi lo condannarono a morte. Intanto la spedizione era rimasta nelle mani di Nicia e Lamaco, mentre, da parte siracusana, Ermocrate organizzava la difesa con grande energia. Nonostante Alcibiade avesse sperato di poter sfruttare le divisioni della sicilia, gli ateniesi trovarono accoglienza fredda. Una prima vittoria sul campo non venne adeguatamente sfruttata: nel 414 Siracusa fu presa d’assedio e gli ateniesi conquistarono le fortificazioni della collina delle Epipole, ma Lamaco morì in uno scontro e con l’arrivo di Gilippo il blocco delle Epipole fu spezzato. Da questo momento la situazione volse al peggio per atene, i siracusani furono vincitori di uno scontro navale e Nicia chiede di venire sostituito. Nel 413 giunsero rinforzi sotto la guida di Demostene, ma la situazione era compromessa. Nell’agosto del 413 fu decisa la ritirata su Catania, ma Nicia, per scrupoli religiosi, esitò a partire e i siracusani riuscirono a bloccare la flotta nel porto, la quale venne distrutta. Nicia e Demostene furono messi a morte. 4.3. La guerra ionica o deceleica La fortificazione di Decelea La fortificazione di Decelea fu un danno enorme per Atene: l’occupazione stabile da parte di Sparta privava Atene di ogni risorsa proveniente dall’agricoltura, rendeva difficili le comunicazioni con l’Eubea e l’arrivo di rifornimenti, aveva provocato la fuga di 20.000 schiavi e un aumento delle spese di guerra. Alle difficoltà finanziarie si devono due interventi di emergenza: la sostituzione del tributo con una tassa del 5% sulle merci importate per mare e il ricorso al fondo di riserve di 1.000 talenti; si stabilì inoltre di risparmiare sull’amministrazione dello stato e di nominare una magistratura di anziani, i probuli. La disgregazione dell’impero La disfatta di Sicilia determinò una grave crisi nell’impero: l’Eubea, Lesbo, Chio, Eritre presero contatto con Sparta per preparare la ribellione. Gli Spartani compresero che le rivolte andavano sostenute e che Atene andava colpita nell’impero; a questa politica erano incoraggiati anche dal satrapo persiano Tissaferne, che finanziava loro la guerra contro Atene. Il problema finanziario era molto pesante anche per gli Spartani, tanto più che si trattava di impegnarsi costantemente nella Ionia: ciò comportò l’inserimento nella guerra della Persia. Tra il 413/2 e il 411/0 le trattative far Sparta e il re persiano Dario II portarono alla stesura di tre trattati successivi: ciò che li accomunava era il riconoscimento dei diritti della Persia sui Greci d’Asia. Sparta rinunciava così alla liberazione dei Greci.
 Il colpo di stato del 411: l’oligarchia dei Quattrocento Presso Tissaferne si trovava, a quest’epoca, Alcibiade, costretto a fuggire da Sparta per dissensi privati con il re Agide. Nel 412 la flotta ateniese si trovava di stanza a Samo. Alcibiade contrattò gli antidemocratici ateniesi e promise di procurare ad Atene, in cambio del rientro in patria, l’amicizia di Tissaferne e il denaro del Re; Atene avrebbe però dovuto instaurare un regime non democratico. Pisandro fu inviato da Samo ad Atene per trattare la questione. Ad Atene Pisandro diede avvio al colpo di stato che portò, nella primavera del 411, alla caduta della democrazia. Pisandro convinse l’assemblea ad inviarlo presso Tissaferne, prima di partire, però, preparò accuratamente il colpo di stato in accordo con le eterie oligarchiche. L’ambasceria a Tissaferne andò a vuoto e Pisandro si accordò con gli oligarchici sami e interruppe i contatti con Alcibiade, poi si diresse ad Atene. Teramene tornò comunque con condizioni durissime: si trattava di abbattere le Lunghe Mura e le fortificazioni del Pireo, di consegnare le navi tranne 12, di richiamare gli esuli e di sottoscrivere un’alleanza offensiva e difensiva con Sparta. Teramene si preparava nuovamente a passare dalla democrazia all’oligarchia e a costruire il proprio potere personale all’ombra delle armi nemiche. Il 16 Munichione (aprile-maggio) del 404 Atene capitolò: Lisandro entrò al Pireo, gli esuli rientrarono e le mura di Atene furono distrutte. 
 Il quarto secolo Fino al 479 Sparta era stata la prostates del mondo greco: il re Cleomene I (520-488 ca.) aveva sostenuto questo ruolo egemonico con una politica assai attiva nella difesa del Peloponneso e nel settore dell’egemonia continentale. Con la fine della seconda guerra persiana, Sparta aveva manifestato chiaramente la sua riluttanza ad assumersi le responsabilità connesse con l’egemonia panellenica; di fatto essa aveva ceduto ad Atene l’egemonia sul mare, inaugurando la stagione del bipolarismo in cui l’equilibrio del mondo greco veniva fatto dipendere dalla divisione in sfere di influenza. Con la spedizione in Tracia del 424 e la guerra deceleica gli orizzonti spartani si ampliarono notevolmente, anche per impulso di personalità come Brasida e Lisandro. Con la vittoria del 404 Sparta si trovò al centro del sistema egemonico il cui mantenimento imponeva, in contrasto con le sue tradizioni, un deciso interventismo, la disponibilità di ingenti risorse e l’abbandono di quegli ideali di autonomia di cui essa si era fatta portavoce nel 432/31. Il mondo greco del IV secolo non è più un mondo bipolare, ma un mondo policentrico, caratterizzato dalla ricerca di equilibrio; ed è un mondo in cui iniziano ad emergere sempre di più quelle “terze forze” che avevano rivendicato un loro spazio nel V secolo, ovvero Corinto, Argo e Tebe. Sarà proprio Tebe a essere protagonista dell’ultimo tentativo, da parte di una polis, di ottenere l’egemonia panellenica. 1. L’EGEMONIA SPARTANA E LE SUE CONTRADDIZIONI Divenuta egemone della Grecia, Sparta dovette fare i conti con il problema dell’autonomia dei Greci d’Asia, da difendere contro il Re, e di tutte le poleis greche, da tutelare contro ogni tentativo di prevaricazione.
 Per quanto riguarda i Greci d’Asia, Sparta (che pure aveva vinto la guerra con l’appoggio della Persia) fu costretta ad assumersi il ruolo difensivo che era stato di Atene. A ciò essa era condotta da una questione di carattere etico-politico, ma anche dal fatto che, dopo la morte di Dario II, la ribellione di Ciro (fortemente legato a Sparta e in particolare a Lisandro) contro il legittimo erede al trono, il fratello Artaserse II, fece sì che gli Spartani si trovassero schierati contro il Re. Su richiesta delle città greche d’Asia Minore, gli Spartani condussero tre spedizioni contro Tissaferne, satrapo di Caria, Farnabazo, satrapo di Frigia, e infine contro Titrauste, chiliarco di Artaserse. Per quanto riguarda le Poleis greche, subito dopo la vittoria di Sparta di impegnarono ad applicare rigorosamente il principio dell’autonomia, a partire dall’area peloponnesiaca: l’intento era in realtà quello di mantenere la frammentazione del mondo greco, per poterlo controllare più facilmente. Il criterio dell’autonomia venne così imposto da Sparta come principio di organizzazione panellenica senza distinguere tra stati cittadini e stati federali. L’imposizione avvenne con sistematici interventi militari che denunciarono il carattere pretestuoso della posizione spartana. La questione dell’autonomia veniva utilizzata da Sparta in chiave di politica di potenza, per bloccare l’espansione di altri popoli peloponnesiaci e favorirne il mantenimento dell’area di influenza spartana. Sparta però si trovava a dover gestire un impero enorme e molto articolato. La difesa a oltranza dell’autonomia, che impediva la costituzione di entità statali forti, e l’appoggio ai gruppi filospartani costituivano modalità tradizionali di gestione dell’egemonia, non pienamente adeguate alla nuova situazione. Sparta dovette far ricorso a metodi nuovi: tra questi la trasformazione dei trattati bilaterali che la legavano ai suoi alleati in alleanze di carattere offensivo e difensivo. Inoltre la necessità del tutto nuova di controllare efficacemente l’impero marittimo ereditato da Atene indusse gli Spartani a imporre alle città guarnigioni comandate da capi detti armosti, a esigere un tributo e a insediarvi governi oligarchici di sicura fede filospartana: l’imperialismo ateniese si riproponeva così nei suoi aspetti peggiori, aggravato dall’imposizione di governi protetti dalle armi dell’egemone. Si trattava di una politica contraria alle tradizioni spartane, sia perché impegnava Sparta lontano dal Peloponneso, sia perché alterava la compagine interna dello stato, creando sperequazioni di prestigio e di ricchezza e aumentando la massa dei malcontenti. Ne sono testimonianza: - La congiura di Cinadone (399 ca), uno spartano che non apparteneva alla classe degli uguali e che tentò di imporre l’estensione dei diritti di cittadinanza al di fuori della loro cerchia; - La legge di Epitadeo, introdotta dall’omonimo eforo per consentire una parziale alienabilità della proprietà terriera e avrebbe poi finito per favorire un processo di concentrazione della proprietà nelle mani di pochi. Le fonti danno grande importanza all’introduzione in Sparta della moneta aurea e argentea per il tesoro pubblico, dovuta all’afflusso di ricchezze portate da Lisandro. 1.1. Lisandro e l’imperialismo spartano Nei cambiamenti introdotti nel sistema egemonico spartano le responsabilità di Lisandro furono determinanti. Fu lui a imprimere alla politica spartana la spregiudicatezza necessaria a imporre alle città greche una presenza politica e militare, in aperto contrasto con l’ideale di libertà e autonomia che Sparta aveva proclamato a partire dal 432/1; fu lui a garantire a Sparta, attraverso il rapporto con la Persia e l’introduzione della moneta, le risorse necessarie per gestire un impero terrestre e navale. Ma egli fu anche responsabile delle scelte che alienarono a Sparta le simpatie dei suoi alleati (a cominciare da Tebe e Corinto). restaurazione. In ogni caso, l’influenza di questa sembra all’origine del riconosciuto carattere moderato della democrazia del IV secolo. Ancora uomini del movimento moderato, Abito e Meleto, appaiono coinvolti nella condanna di Socrate. Il filosofo, nel 399, venne colpito dall’accusa di corrompere i giovani e non adorare gli dei della città. 1.3. La guerra corinzia Beoti e Corinzi erano giunti a chiedere, dopo la resa di Atene, la sua distruzione. Tuttavia essi manifestarono un malcontento che si espresse nel rifiuto di partecipare alla spedizione contro i democratici richiesta dai Dieci, nell’aiuto fornito ai Beoti a Trasibulo e alla resistenza ateniese, nel rifiuto degli stessi Beoti a prendere parte alla spedizione in Asia di Agesilao. Di questo malcontento volle approfittare la Persia, per distogliere gli Spartani dalla guerra in Asia: i persiani avevano capito quanto fosse utile tenere impegnato il mondo greco in guerre interne. Secondo Senofonte, il satrapo Titrauste inviò in Grecia Timocrate Di Rodi col denaro necessario per indurre gli uomini politici di Tebe, Corinto e Argo a far guerra a Sparta. Quando, nel 395, un conflitto tra i Focesi e i Locresi provocò l’intervento dei Tebani nella Grecia centrale a favore dei Locresi e l’attacco spartano alla Beozia (guerra beotica), Tebe chiese e ottenne l’appoggio di Atene. Il discorso degli ambasciatori tetani per sollecitare tale appoggio insiste molto sul malcontento contro gli Spartani, che dopo la vittoria si sono comportati da padroni con gli alleati e da tiranni con le altre città greche. Allettati dalla prospettiva di recupero dell’egemonia, gli Ateniesi votarono a favore dell’intervento e stipularono un’alleanza difensiva con Tebe: si trattava di una decisione grave, che esponeva atene, priva di fortificazioni, a un rischio mortale. Lisandro fece defezionare Orcomeno dalla Lega beotica, promettendole l’autonomia, e tentò senza successo di fare lo stesso con Aliarto. Lisandro avrebbe dovuto attendere di congiungersi con le forze di Pausania II prima di attaccare, ma egli si mosse prima dell’arrivo del re e venne sconfitto e ucciso dai Tebani (395). Pausania, giunto in Beozia, preferì concludere una tregua e ritirarsi: sospettato di tradimento per l’odio nei confronti di Lisandro, al rientro il re fu messo sotto processo e preferì fuggire in Arcadia. 
 Le città coalizzate contro Sparta (Tebe, Atene, Argo e Corinto) costituirono un sinedrio comune, con sede a Corinto: iniziò la cosiddetta guerra corinzia. La coalizione antispartana fu sconfitta una prima volta a Nemea, nel 394; nel medesimo anno Agesilao, come sperava la persia, fu richiamato dall’Asia e sconfisse gli alleati a Coronea in Beozia. Un terzo scontro, con esito opposto, si verificò negli stessi giorni a Cnido (Asia Minore): qui l’ateniese Conone, a capo della flotta persiana, sconfisse quella spartana. Con alcune città Atene stabilì un’alleanza; Lemno, Imbro e Sciro tornarono sotto il controllo ateniese; Atene pose le basi della rete di relazioni che darà origine alla seconda lega navale. Nel 393 Conone giunse in Atene con il denaro persiano necessario per portare a termine la ricostruzione delle mura e della flotta, presupposto per poter svolgere una politica estera indipendente. Intanto il generale ateniese Ificrate otteneva successi nei dintorni di Corinto. Qui i democratici avevano espulso gli oligarchici, che volevano la pace con Sparta, e avevano realizzato con gli Argivi un’unione che va probabilmente intesa come un accordo di isopoliteia, che durò fino al 386. Le difficolta che Sparta incontrava per terra e per mare indussero gli Spartani, nel 392, a cercare un accordo con la Persia. Nell’inverno del 392/1 lo spartano Antalcida incontrò a Sardi il persiano Tiribazo, in presenza di Beoti, Argivi, Corinzi e Ateniesi. In questa sede Antalcida promise che le rivendicazioni della Persia sulle città greche d’Asia sarebbero state riconosciute in cambio della concessione dell’autonomia a tutte le altre città e isole. I greci presenti sollevarono però diverse obiezioni: i membri della coalizione antispartana intuivano che la rinuncia di Sparta alla difesa della libertà dei Greci d’Asia avrebbe aperto la strada all’accorda tra Sparta e la Persia, e che il riconoscimento dell’autonomia come principio ordinatore della Grecia su garanzia spartana avrebbe fornito a Sparta un eccezionale strumento di potere. Le trattative fallirono, ma Tiribazo iniziò a finanziare segretamente Sparta. Conone, arrestato, riuscì a fuggire, ma morì poco dopo. Il richiamo di Tiribazo a Susa e l’arrivo di Struta, filoateniese, interruppe le relazioni fra Sparta e la Persia e provocò, nel 391, la ripresa delle operazioni militari spartane contro i Persiani in Asia Minore. Negli anni successivi la guerra in Grecia si trascinò stancamente sul fronte terrestre, dove comunque Ificrate ottenne una vittoria importante al Lecheo, uno dei porti di Corinto. Sul fronte navale, Trasibulo negli anni 389 e 388 stabilì relazioni con diverse città dell’Asia, della Tracia e dell’Ellesponto; nel 388 egli morì ad Aspendo, in Panfilia. 2. LA PACE COMUNE DEL 387/6: L’AUTONOMIA COME PRINCIPIO DI CONVIVENZA INTERNAZIONALE Nel 388 tornò a Sardi il satrapo Tiribazo e le trattative fra lo spartano Antalcida e la Persia furono riprese e si conclusero positivamente. Il re Ataserse invitò i greci ad ascoltare le condizioni della pace, che prese il nome di “pace del re” o “di Antalcida”. La pace del Re era una pace generale, una pace comune, fra tutti i Greci, che sanciva il principio dell’autonomia come criterio di convivenza internazionale; l’applicazione di questo principio era tutelata da un garante, il re di Persia, che si impegnava a intervenire con la forza contro i violatori. La chiave di questa formula stava da una parte nella valorizzazione del principio dell’autonomia, suggerita da sparta, dall’altra nella possibilità di costruire un’alleanza militare a sua difesa, sotto la guida di un egemone riconosciuto: prima il re, poi una polis, poi Filippo di Macedonia e infine Roma. La pace nasceva dalla convergenza degli interessi del Re con quelli degli Spartani: il primo vedeva riconosciuti i propri diritti sui Greci d’Asia, i secondi vedevano garantita con un accordo diplomatico quell’egemonia sulla Grecia che non erano riusciti a difendere con le armi. La formula della pace comune non ebbe i risultati sperati. Gli Spartani infatti ne approfittarono per prevaricare sugli altri Greci: essi chiesero lo scioglimento di tutte le forme di accordo sovranazionale che ritenessero incompatibile con l’autonomia, con l’eccezione della Lega peloponnesiaca. Questa politica fu sostenuta con coerenza dal re Agesilao: il suo scontro con i Tebani, che non volevano firmare la pace se non a nome di tutta la Beozia, caratterizzerà l’intero periodo dal 387/6 al 371/0. Come conseguenza della ratifica della pace del re: - La lega beotica e l’unione fra Argo e Corinto furono sciolte; - A Mantinea fu imposto nel 385 il diecismo, cioè la divisione in quattro villaggi; - La città di Olinto fu attaccata nel 382, sconfitta e costretta a concludere un’alleanza difensiva e offensiva con Sparta; - A Filunte fu imposto il rimpatrio degli esuli oligarchici. Tutti questi interventi si basarono sul pretesto della difesa dell’autonomia, di cui sparta, appoggiandosi al dettato della pace del re, si ergeva ormai a paladina. Ma nel 382, a soli quattro anni dalla pace, Sparta ne violò apertamente i fondamenti: Febida, inviato contro Olinto a sostegno del fratello Eudamida, si fermò in Beozia e occupò la Cadmea, la rocca di Tebe. L’iniziativa di Febida fu accolta con una certa irritazione a Sparta, perché in aperto contrasto con il principio dell’autonomia sancito con la pace del Re; solo Agesilao difese in quest’occasione Febida, cosa che ci induce a ritenere che Agesilao fosse connivente, come altre fonti affermano apertamente. Nel 379 Tebe si ribellò al governo del filospartano Leonziade; l’iniziativa fu presa da alcuni cittadini, che entrarono in contatto con gli esuli democratici che si trovavano ad Atene. Questi, guidati da Pelopida, entrarono a Tebe di notte, uccisero i capi del governo filospartano, chiamarono il popolo alle armi ed espulsero la guarnigione spartana; infine, istituirono un governo democratico e ridondarono la lega beotica. La liberazione della Cadmea fu resa possibile dall’aiuto di Atene. Sparta reagì, nella primavera del 378, con il tentativo du occupare il Pireo da parte di Sfodria. L’aggressione da parte di ritorno al criterio della divisione delle sfere di influenza. L’intervento di Timoteo a Zacinto in favore dei democratici portò però a una rottura quasi immediata della pace. Nel frattempo, cresceva in Atene la diffidenza nei confronti dei Tebani, che accrescevano la loro potenza grazie alla partecipazione alla lega ma non versavano i contributi per la guerra navale. I tebani infatti avevano rifondano la lega beotica, dandole una struttura più democratica: - I diritti di cittadinanza, prima ristretti su base censitaria, furono aperti a tutti; - Gli organismi buleutici di tipo rappresentativo vennero sostituiti da un’assemblea federale primaria con sede a Tebe. Paradossalmente, la democratizzazione della lega beotica si tradusse in una minore uguaglianza per i membri della Lega stessa, e la pressione di Tebe nei confronti dei beoti riluttanti ad accettare questa nuova situazione conobbe un incremento. La rottura con Atene avvenne nella primavera del 373, quando Tebe attaccò e distrusse Platea, amica di lunga data degli Ateniesi. In Atene il movimento in favore della pace con Sparta, in funzione antitebana, ebbe un forte impulso. Gli Ateniesi votarono la conclusione della pace con gli Spartani. La frattura era determinata anche da motivi di carattere economico e finanziario: la frattura tra il demos e i ricchi si era acuita; se dalla guerra i meno abbienti ricavavano fonti di sussistenza, essa richiedeva però notevoli risorse finanziarie, la cui esazione ricadeva sui più ricchi; nei ceti abbienti vi era perciò un diffuso malcontento, che riforme fiscali come la riorganizzazione della riscossione dell’eisphorá (l’imposta di guerra), non erano bastate a placare. Con questa riforma l’eisphorá, in origine una tassa straordinaria per l’allestimento di spedizioni militari, divenne una tassa patrimoniale ripartita su tutti i cittadini delle prime tre classi, iscritti in unità fiscali dette simmorie. Nell’estate del 371 si tenne a Sparta un congresso per trattare la pace: il racconto di Senofonte si concentra sul dibattito tra gli ambasciatori ateniesi, riportando i discorsi contrapposti di Autocle, uomo della fazione democratica filotebana guidata da Aristofonte, e di Callistrato: - Il discorso di Autocle verso gli Spartani, accusati di patente contraddizione sulla questione dell’autonomia, ribadisce la validità della politica antispartana e filotebana seguita da Atene negli ultimi anni. - Callistrato invece pronuncia un discorso che invita sia Atene sia Sparta all’autocritica e alla moderazione e conclude in favore di un ritorno alla divisione delle sfere di influenza. Su questa base Atene e Sparta trovarono un accordo: si stabilì la concessione dell’autonomia alle città, il ritiro degli armosti, lo scioglimento delle forze navali e terrestri. Al momento del giuramento, gli spartani giurarono per sé e per i loro alleati; gli ateniesi giurarono solo per sé, lasciando che gli alleati lo facessero separatamente. Sorse, tuttavia, un problema coi Tebani: essi chiesero di firmare come Beoti, quindi in rappresentanza di tutta la lega beotica. Agesilao rifiutò e i Tebani restarono esclusi dalla pace comune. Epaminonda chiese, in realtà, di riconoscere il carattere federale dello stato beotico, che consentiva una diversa interpretazione del principio dell’autonomia e abilitava Tebe a porsi come rappresentante legittima del governo federale, ma Sparta apparve ben determinata a rifiutare il riconoscimento richiesto; Atene, interessata all’accordo con Sparta, si accodò. All’indomani del congresso, il re spartano Cleombroto invase la Beozia, nonostante gli avversari di Agesilao avessero cercato di scongiurare la guerra. Cleombroto si accampò a Leuttra; qui i capi dell’esercito tebano si trovarono in disaccordo su come comportarsi a causa dell’evidente superiorità delle forze spartane; alla fine Pelopida ed Epaminonda convinsero i colleghi ad attaccare battaglia. I Tebani, adottando lo schieramento obliquo, sconfissero gli Spartani. Lo scontro pose fine all’egemonia di Sparta e la avviò a una crisi senza fine. Tebe avrebbe voluto attaccare immediatamente Sparta e si rivolse prima ad Atene, che esitò, e poi a Giasone, tiranno di Fere: questi scese rapidamente in Beozia e scongiurò lo scontro finale, operando una mediazione tra i due contendenti. La sconfitta spartana metteva Atene in una posizione privilegiata: il congresso di pace del 371/0 si tenne infatti ad Atene. In esso gli Ateniesi si sostituirono agli Spartani come garanti della pace e proposero come principio ispiratore l’autonomia secondo i criteri stabiliti nella pace del Re e nel decreto di Aristotele. Tranne gli Elei, tutti i Greci aderirono alla pace comune nella forma elaborata da Atene. Anche Sparta dovette riconoscere l’autonomia dei suoi alleati: la Lega del Peloponneso cessava così di esistere. Subito dopo la conclusione della pace, il Peloponneso entrò in agitazione: Mantinea ricostituì con un sinecismo la propria integrità territoriale, si diede un governo democratico e promosse l’unificazione dell’Arcadia, attaccando Tegea e Orcomeno; essa ottenne l’appoggio degli Elei e degli Argivi, ricostruendo la coalizione democratica antispartana già formatasi nel 470 e nel 421-18. Gli Ateniesi avrebbero avuto un’ottima occasione per sostituirsi a Sparta come egemoni della Grecia; ma il progetto illusorio della doppia egemonia vanificò questa opportunità. Quando gli Spartani attaccarono Mantinea, la città si rivolse proprio agli Ateniesi, ma essi, restii a riaprire il conflitto con Sparta, rifiutarono di aiutarli; gli Arcadi si rivolsero allora ai Tebani. Nel 370/69, quando già questi avevano invaso il Peloponneso, gli Ateniesi deliberarono di inviare lo stratego Ificrate in soccorso di Sparta. Questa decisione toglieva legittimità alle aspirazioni egemoniche di Atene; furono in realtà i Tebani i nuovi, se pure effimeri, egemoni della Grecia. La Beozia fino al 371 La Beozia era divisa in due bacini principali, quello di Orcomeno a Nord e quello di Tebe a sud. La regione aveva un’antica tradizione federale, che si esprimeva in una lega dall’impronta costituzionale oligarchico-moderata; l’egemonia era stata detenuta in antico da Orcomeno, ma Tebe l’aveva costantemente contrastata fino ad affermare, nel VI secolo, il proprio ruolo primario. Proprio tebe, nel 379, aveva rifondato la lega dandole un’impostazione più democratica sul piano istituzionale, ma accentuando molto l’importanza della capitale rispetto agli stati membri. Fedeli alleati di Sparta nel V secolo, dopo il 404 i Tebani erano stati tra i più accessi critici dell’imperialismo spartano e si erano avvicinati agli Ateniesi. Tra il 378 e il 371 il contrasto con Sparta si era acuito, ma anche le relazioni con Atene si erano progressivamente guastate. Dal congresso tenutosi a Sparta nel 371/0 Tebe era uscita isolata. L’inattesa vittoria di Leuttra e la debole ed esitante reazione degli Ateniesi alla nuova situazione la candidarono a un ruolo egemonico. I principali artefici dell’egemonia tebana furono Pelopida ed Epaminonda. 4.1. Epaminoda e il Peloponneso Epaminonda si impegnò in particolare nel Peloponneso: suo intento era di riorganizzarlo stabilmente in funzione antispartana, incoraggiando lo sviluppo del federalismo democratico. Furono i ricchi Elei a finanziare la prima spedizione del 370/69, conseguente a un’alleanza difensiva stipulata da Tebe con gli Arcadi, gli Argivi e gli Elei. Quando i Tebani giunsero nel Peloponneso, Agesilao si era già ritirato dall’Arcadia. Gli alleati chiesero loro di attaccare Sparta nel suo territorio; anche in questo caso sorsero difficoltà, perché la stagione di guerra stava per concludersi; furono ancora Pelopida ed Epaminonda a insistere per rimanere nel Peloponneso e continuare la spedizione. In essa, gli Spartani furono costretti a liberare 6.000 iloti e ad affrontare la rivolta di 200 uomini di condizione servile e persino di alcuni Spartiati; Agesilao cercò di evitare lo scontro aperto e di costringere il nemico in luoghi inadatti alla battaglia. Epaminonda si impegnò nell’indebolimento del già precario sistema economico- sociale spartano: devastò la Laconia, incoraggiò la diserzione di perieci ed iloti e liberò Messene. Fu a questo punto che Sparta si rivolse ad Atene, ottenendo aiuto e alleanza. La prima spedizione tebana fu un successo: la liberazione di Messene e il sostegno dato al rafforzamento della lega arcadica crearono infatti