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RIASSUNTO MANUALE PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO - studio utile per i 24 CFU e il concorso docenti, Sintesi del corso di Psicopedagogia

PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO: modelli di socializzazione e relazione educativa, pedagogia educativa, psicologia e teorie dell'apprendimento, i modelli pedagogici fondamentali, pedagogia moderna e contemporanea, Psicologia dello sviluppo cognitivo e corporeo. Identità di genere, modello di sviluppo cognitivo, le intelligenze e lo sviluppo emotivo, psicanalisi e psicologia, psicologia delle relazioni, teorie dell'attaccamento, sviluppo psicologico e teorie dell'apprendimento

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 24/02/2019

Ale_Marti
Ale_Marti 🇮🇹

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Scarica RIASSUNTO MANUALE PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO - studio utile per i 24 CFU e il concorso docenti e più Sintesi del corso in PDF di Psicopedagogia solo su Docsity! 1 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 1 - La scuola come comunità e la relazione educativa Lezione 1 La scuola: luogo di incontro, crescita, relazione e socializzazione Si parla, attualmente, di professionalità del docente e ciò fa capire come, ormai, sia cambiato il suo ruolo e le aspettative circa il suo operato. Ciò che ci si aspetta da un docente qualificato sono: costanza, scrupolosità, capacità comunicative e relazionali e, inoltre, competenze e conoscenze. Già questo elenco, incompleto, evidenzia la poliedricità e versatilità della professione dell’insegnante a tal punto che già Freud la inseriva tra le tre impossibili in quanto mai perfettamente realizzabile come quelle del governare e dello psicoanalizzare. La sua complessità risiede nel fatto che le sono necessarie la conoscenza della disciplina, la competenza tecnica di generare conoscenza attraverso metodologie adeguate e la capacità comunicativa e relazionale che non è caratteristica esclusiva del docente, ma che, nel rapporto insegnante-alunno, è molto importante in quanto le classi variano, i bambini sono diversi e, spesso, hanno un bagaglio di insicurezza, disagi e difficoltà che richiede un’interazione mutevole. Il docente deve possedere una formazione di qualità, sapere padroneggiare tecniche che vanno sempre più affinandosi, avere conoscenze informatiche e deve essere in grado, inoltre, di riconoscere e affrontare situazioni di disagio, avere competenze comunicative e relazionali, in quanto deve tenere sempre presente che non sono solo le parole a determinare comportamenti, ma, soprattutto, il non detto e quindi, deve conoscere la disciplina, le teorie pedagogiche e psicologiche, la legislazione, etc. L’obiettivo della scuola di facilitare l’apprendimento di nozioni e conoscenze, inoltre, si interseca continuamente con le relazioni sociali che si sviluppano tra i vari attori della scuola al suo interno (insegnanti, alunni, dirigenti, personale amministrativo e tecnico) e tra mondo scolastico ed extra-scuola. Non si può non riconoscere, quindi, che la scuola costituisce per ogni individuo un importante microsistema che influisce notevolmente nella costruzione della propria identità, della propria autostima e della propria formulazione dei progetti di vita futuri. Accanto all’offerta di un consistente bagaglio di conoscenze, competenze e valori, la scuola pone in essere, più o meno consapevolmente, molte azioni volte a sviluppare la personalità degli individui, con la loro capacità di gestire le difficoltà e gli ostacoli, di superare le insicurezze e di relazionarsi con gli altri, coetanei e non. La scuola, inoltre, configurandosi come sistema sociale aperto al territorio e permeabile alle sue richieste, bisogni e sollecitazioni, ma anche alle 2 sue risorse e potenzialità, non rappresenta solo il luogo dell’apprendimento, ma diventa anche luogo di socializzazione e di mediazione tra i cittadini e le istituzioni. Entro il contesto scolastico interagiscono continuamente persone, gruppi, famiglie, tutti portatori di proprie istanze e di propri contributi; si delinea certamente il rischio di scontri e conflitti, ma c’è anche la possibilità che la gestione efficace di tali conflitti conduca a proficue collaborazioni. Considerando la scuola come una comunità, che si costruisce e si costituisce a partire dalla fitta rete di interazioni continue, ritroviamo ad un “livello micro” la relazione tra insegnanti ed alunni, a partire dalla quale la scuola favorisce il processo di sviluppo della persona in crescita. La scuola promuove, invece, ad un “livello macro”, lo scambio e la comunicazione con le famiglie. Scuola e famiglia rappresentano le due principali agenzie educative, che possono sovrapporsi, rischiando di confliggere ed entrare in competizione, oppure possono agire in maniera complementare e in sintonia, dal momento che hanno il comune obiettivo dell’educazione del minore. La scuola, anzi, senza volersi sostituire alla famiglia, può valorizzare il ruolo del sistema familiare e della cultura di appartenenza nel processo di costruzione dell’identità del minore, costituendo un possibile spazio di incontro tra genitori e figli. In una visione ancora più ampia, infine, la scuola si apre alla comunità territoriale, in quanto affronta i cambiamenti sociali sempre più incalzanti e pressanti e diventa, quindi, un punto di riferimento all’interno del contesto sociale. È ormai ampiamente diffusa l’idea che la scuola debba superare un modello di insegnamento di tipo meramente trasmissivo; l’aula deve diventare lo spazio per trovare soluzioni creative a situazioni-problema e non solo il luogo del trasferimento di contenuti e conoscenze da chi si suppone ne sappia di più a chi si trova invece in una posizione di inferiorità in quanto discente e dunque “ricevente”. La relazione umana che nasce all’interno dell’aula tra insegnante e alunno singolo, tra insegnante e gruppo-classe, tra docenti e alunni, diventa la cifra distintiva che può favorire ovvero mortificare il processo di crescita degli alunni e la loro personalità in fieri. Svariati modelli psicologici della personalità riconoscono infatti che il Sé si forma sulla base delle relazioni interpersonali concretamente vissute sin dalle prime esperienze del bambino. Gli spazi di apprendimento, quindi, non dovranno essere più pensati come luoghi che favoriscano l’apprendimento esclusivamente cognitivo, ma anche e soprattutto come luoghi di promozione della sfera socio-relazionale. Tale risultato si gioca non solo nella relazione insegnante-alunno, ma a tutti i livelli illustrati sopra perché sviluppa una comunicazione positiva a livello organizzativo (tra docenti, dirigenza, personale amministrativo, collaboratori, 5 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 1 - La scuola come comunità e la relazione educativa Lezione 2 La relazione educativa All’interno della relazione educativa, acquista un’importanza centrale la componente emotiva. L’insegnante deve saper padroneggiare gli “ingredienti emotivi” che sono importanti nella relazione con gli alunni in quanto emotività, motivazione e apprendimento sono interdipendenti tanto da potere affermare che le variabili affettive esercitano un’influenza rilevante nei processi di conoscenza e socializzazione che avvengono all’interno della scuola. Il processo didattico, quindi, deve prendere in considerazione anche la risonanza emotiva sia per facilitare la motivazione, l’apprendimento e, dunque, il successo scolastico sia per creare un buon clima entro il quale alunni e insegnanti, a proprio agio, possono lavorare serenamente e con piacere. Nei casi in cui, invece, la relazione risulta deteriorata la motivazione degli alunni (così come quella dell’insegnante) si riduce e di conseguenza la scuola per gli alunni non è più interessante anzi produce disagio e ciò apporta conseguenze negative al processo di apprendimento. Porsi come obiettivo una relazione che tenga conto anche delle componenti affettive ed emotive non significa inficiare l’autorevolezza dell’insegnante che anzi verrà rispettato in quanto non membro tra i pari, ma sempre posto in una posizione asimmetrica rispetto ai suoi discenti. Non occorre, infatti, negare l’asimmetria della relazione poiché l’insegnante ha una responsabilità diversa da quella che ha l’alunno e ciò deve essere chiaro a tutti gli attori della relazione. Vicinanza emotiva, quindi, non significa misconoscere l’autorità dell’insegnante, semmai, invece, significa evitare uno stile autoritario che ostacolerebbe il valore della partecipazione attiva degli allievi e la loro emancipazione. La scuola non è solo il luogo dove si impara, ma è anche il luogo in cui le persone si incontrano ed entrano in relazione e, quindi, come sostiene Carl Rogers, la scuola è il luogo dove entrano a pieno titolo le emozioni, i vissuti e le esperienze. Le competenze principali degli insegnanti, dunque, devono comprendere la capacità di ascolto empatico, la comprensione delle dinamiche di gruppo, la capacità relazionale consistente nel mostrare la propria umanità e la disponibilità a mettersi in gioco. Le competenze relazionali dell’insegnante sono indispensabili per instaurare delle relazioni educative profonde e significative, grazie alle quali il processo di apprendimento può avvenire al meglio. Se a scuola si costruiscono relazioni autentiche e se viene incentivato il confronto 6 delle idee si potrà respirare un clima sereno ed equilibrato grazie al quale gli alunni impareranno a pensare, ad esprimere giudizi critici e ponderati e a maturare opinioni con ragionevolezza e rigore scientifico. Per raggiungere tali risultati, però, è necessario che il docente non sia un ripetitore di informazioni e nozioni ex cathedra, ma una persona che stimola la curiosità e l’interesse del discente, nel contesto di una relazione educativa centrata sul rispetto reciproco e sulla chiara definizione degli obiettivi comuni da raggiungere. Il docente non dovrà essere centrato su sé stesso, ma dovrà porre attenzione alla persona dell’alunno e questo potrà realizzarsi solo grazie alla sua capacità empatica. Non si deve pensare erroneamente che la relazione educativa è limitata solo all’aula durante la lezione perché la convivenza quotidiana offre molte opportunità di incontro, come ad esempio una breve conversazione in corridoio durante la ricreazione o al cambio dell’ora. Molte sono, infatti, le occasioni per incoraggiare l’alunno, congratularsi con lui, chiedere come sta, e così via, con l’obiettivo di dimostrare a ciascun che all’insegnante interessano molto la sua situazione, i suoi desideri, i problemi, gli interessi e il suo mondo. Ogni alunno, infatti, ha bisogno di essere riconosciuto per sentirsi degno e meritevole di attenzione e di affetto, per costruire un senso di sé stabile e sicuro e per sviluppare una buona autostima. Per questo motivo è necessario che l’insegnante dimostri di accettare e accogliere la personalità dell’alunno e questo atteggiamento che si deve manifestare concretamente in un rispetto profondo per tutto ciò che egli propone e attua. È necessario naturalmente non focalizzarsi sul singolo alunno, ma su di esso in quanto facente parto di un gruppo; quindi, l’insegnante deve saper promuovere la partecipazione e la collaborazione in classe tra compagni, al fine di favorire l’instaurarsi di relazioni socio-affettive tra alunni attraverso il lavoro di gruppo, il gioco collaborativo, il tutoring. Nella relazione educativa è, quindi, di fondamentale importanza la comunicazione che consiste nello scambio di informazioni e di influenzamento fra due o più persone in un determinato contesto (Watzlawick, Beavin, & Jackson, 1967). Non si può pensare solo alla comunicazione limitata alla comunicazione verbale perché come sostiene Watzlawick, infatti, non si può non comunicare: anche i gesti, le parole, il silenzio, la mimica, ecc. sono una forma di comunicazione. Tutto il processo di insegnamento-apprendimento, dunque, è mediato dalla comunicazione e ciò deve ritenersi un assunto fondamentale per la comprensione del rapporto educativo. Sia che si tratti del più semplice livello comunicativo di trasmissione di nozioni, sia che si guardi al processo educativo a livello più ampio di formazione della personalità dell’allievo, l’insegnante deve sempre riuscire a comunicare in maniera efficace. Occorre allora 7 privilegiare il dialogo, l’ascolto empatico, la comunicazione efficace e non solo efficiente che attiene alla quantità di informazioni trasmesse, senza tenere conto del modo in cui sono recepite. Per questo tipo di comunicazione, infatti, ciò che conta è solo esporre la lezione, completare il programma, occuparsi della propria disciplina, avere alunni preparati e colti. L’efficacia della comunicazione, invece, è verificata attraverso il feedback, ovvero un’informazione di ritorno da parte degli alunni, che possa far comprendere all’insegnante cosa è arrivato all’alunno di quanto comunicato da lui stesso e permetta allo stesso alunno di essere cosciente del proprio livello educativo. La comunicazione è efficace, inoltre, quando il messaggio è recepito dall’interlocutore così come era previsto dall’insegnante. Saper comunicare con un alunno in maniera efficace, quindi, non significa esclusivamente essere in grado di saper fare discorsi interessanti su temi fondamentali, ma essere in grado di padroneggiare le competenze relazionali ed empatiche che stimolano l’interesse e la curiosità degli alunni tenendo presente le emozioni, andando oltre le parole, sapendo attendere senza avere fretta di arrivare alle conclusioni e senza interrompere, riuscendo così a cogliere le emozioni attraverso la comunicazione non verbale. Oltre alla capacità comunicativa di importanza cruciale è la capacità di ascolto. L’insegnante, infatti, deve essere in grado di cogliere i messaggi verbali e non verbali degli alunni tenendo sempre presente i tre livelli di ascolto. I. Ascolto a tratti: l’ascolto è passivo, l’attenzione rimane su di sé, perché il vero interesse dell’ascoltatore è quello di riuscire a parlare; II. sentire le parole: si sente cosa sta dicendo l’emittente, ma senza ascoltare veramente ciò che intende dire; l’interesse è rivolto più al contenuto che ai sentimenti da cui si rimane distaccati; III. ascolto attivo o empatico: l’ascoltatore si astiene dal giudicare e si mette dal punto di vista dell’interlocutore, è attento e presente, non si fa distrarre, fa attenzione anche alla comunicazione non verbale, sospende i propri pensieri e sentimenti per capire quelli dell’interlocutore. L’ascolto empatico da parte dell’insegnante permette di riconoscere le emozioni all’interno delle dinamiche comunicative migliorando così anche l’alfabetismo emozionale degli alunni, in quanto l’ascolto attivo permette di andare al di là delle parole e di comprendere anche l’emozione dell’interlocutore. Il vissuto emotivo, infatti, può a volte non essere riconosciuto dalla persona stessa, così all’interno della relazione educativa, attraverso quello che Fonagy (1991) definisce rispecchiamento, l’insegnante può cogliere l’emozione dell’alunno, accogliere dentro di sé questo vissuto emotivo e restituirlo al bambino denominando l’emozione. Ciò è 10 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 1 - La scuola come comunità e la relazione educativa Lezione 3 La valutazione nella relazione educativa Momento importante del processo educativo è quello della valutazione che può mettere a dura prova il rapporto instaurato tra insegnante e alunno in quanto gli studenti sentono la pressione del momento valutativo. Quasi sempre lo studente in questi momenti può manifestare ansia, scoraggiamento, nervosismo, atteggiamenti oppositivi ed altro ancora. La bravura dell’insegnante consiste nel fare in modo di non essere percepito come giudice e rendere la valutazione come un momento positivo, incoraggiando e rasserenando gli alunni e facendo, così, percepire il momento valutativo come qualcosa di positivo e necessario per il processo educativo. L’insegnante deve porre particolare attenzione al momento della comunicazione degli esiti valutativi tenendo sempre presente gli effetti che tale comunicazione può avere sugli studenti e sulle loro reazioni emotive. Egli deve comunicare l’esito della valutazione rimanendo focalizzato sulla performance e non sull’alunno come persona: per esempio, l’insegnante potrebbe dire “hai svolto bene questo compito…” specificando quali compiti e quali aspetti sono stati svolti in maniera esatta, accurata, creativa ecc. e quali, invece, sono stati affrontati in maniera carente, insufficiente, incompleta, inesatta. L’insegnante non dovrebbe, invece, esprimere giudizi sulla persona, come per esempio “sei stato bravo”, “sei pigro”, “sei distratto”, ecc., né tantomeno esprimere giudizi quali: “sei il solito…”. La valutazione dovrebbe tendere sempre verso l’autovalutazione, promuovendo nell’alunno la percezione realistica di sé e la consapevolezza delle sue effettive possibilità di miglioramento, per poter così orientare il suo impegno successivo verso la giusta direzione. L’alunno che diventa sempre più consapevole delle sue capacità, infatti, svilupperà sempre più le competenze metacognitive che gli permetteranno di raggiungere il successo scolastico. In una relazione educativa efficace l’alunno deve poter sentire l’insegnante non come un giudice che seleziona e classifica, ma come un educatore che vuole valorizzare ciascuno, rintracciando l’eccellenza e le potenzialità di tutti. Egli deve, inoltre, mettersi in discussione, chiedendosi di fronte ai risultati conseguiti dai discenti se ha offerto a tutti l’opportunità di apprendere quanto poi è stato valutato. Questo tipo di valutazione sarà percepita dagli studenti come un momento utile a comprendere i propri punti di forza e di debolezza ed a ricevere incoraggiamento e indicazioni dall’insegnante su come potere conseguire il successo in un 11 determinato compito. Naturalmente per la realizzazione di una buona relazione educativa è fondamentale fare attenzione al clima scolastico che determina e nello stesso tempo è il risultato di una equilibrata convivenza democratica fra tutti gli operatori della scuola, gli studenti. Con il termine clima, infatti, si intende il tono sociale ed emotivo di un’organizzazione lavorativa (Chiari, 1994), di cui costituisce una caratteristica relativamente stabile. Esiste un’influenza reciproca tra il clima e i comportamenti, ossia, in una relazione di causalità circolare, i comportamenti contribuiscono a determinare il clima e contemporaneamente vengono modellati da esso. Per quanto riguarda in particolare il clima nelle organizzazioni scolastiche, Moos (1979) ha individuato dei fattori nei diversi ambiti: - per quanto riguarda l’ambito relazionale: - il coinvolgimento; - il senso di appartenenza; - il sostegno degli insegnanti; - per la categoria dello sviluppo personale: - l’orientamento al compito; - la competitività; - per il cambiamento e la stabilità del sistema: - l’organizzazione; - il regolamento; - la chiarezza dei ruoli; - le innovazioni. Il clima è una componente fondamentale nella vita dell’istituzione scolastica perché produce effetti, anche se non sempre riconoscibili in maniera consapevole. Sta alla responsabilità e alla competenza delle figure professionali che operano all’interno del microsistema scolastico, dirigenti, docenti e operatori scolastici, far in modo che il clima sia orientato verso una direzione cooperativa. In particolare l’insegnante, in quanto figura di riferimento primario per lo studente, ha il compito di predisporre situazioni educative in cui sia possibile il riconoscimento reciproco. Accanto al concetto di clima scolastico, è introdotto quello di clima della classe, che è il risultato delle relazioni tra insegnante e studenti e tra studenti e studenti. Il clima di classe viene misurato in base alle percezioni di studenti ed insegnanti, il clima scolastico è solitamente misurato solo sulla base delle percezioni degli insegnanti. Il clima di una classe è il risultato, oltre che degli aspetti relazionali già in precedenza accennati, 12 anche della condivisione fra studenti e insegnanti delle regole utilizzate per organizzare la vita della classe e delle occasioni che vengono offerte agli alunni di discutere all’interno del gruppo di ciò che li riguarda. Sono numerosi studi e le ricerche che hanno rilevato la relazione tra clima scolastico positivo, performance, e soddisfazione lavorativa; l’ambiente sociale della classe ha un’influenza importante sugli atteggiamenti, sugli interessi, sulla produttività, sull’impegno e sul rendimento. Il clima di una scuola (e di una classe) varia anche in relazione alla percezione di efficacia degli insegnanti e alle aspettative che essi hanno rispetto alle potenzialità degli studenti; le variazioni riguardo a queste due dimensioni incidono significativamente sulla motivazione sia degli alunni che dei docenti. Da quanto finora esposto si può evincere che è importante e auspicabile realizzare un clima positivo necessario a una proficua relazione educativa, cosa che nella realtà non è semplice da realizzare. Le difficoltà possono ostacolare la positiva relazione tra insegnante e alunni, considerando che il mestiere educativo è tra i più difficili in quanto l’insegnante deve individuare e superare le proprie debolezze in una relazione che spesso mette a dura prova la sua pazienza e il suo equilibrio. Ostacolo a una relazione educativa efficace sono, ad esempio, le paure dell’insegnante. Innanzitutto dobbiamo prendere in considerazione le emozioni negative che può provare l’insegnante e tra queste è fondamentale la paura della classe in base alle precedenti esperienze negative: la paura di affrontare una classe rende l’insegnante insicuro, angosciato, aggressivo e può far sperimentare la rinuncia e la demotivazione. Una delle possibili soluzioni di questo problema è il confronto con altri colleghi, possibile solo in presenza di relazioni positive tra colleghi e di un clima scolastico caratterizzato da apertura e collaborazione. Il docente che non si apre e non confida ai colleghi le proprie ansie e difficoltà per paura di essere valutato negativamente sperimenta un senso di solitudine nell’affrontare problemi che preferisce nascondere o addirittura negare anziché affrontare. Le paure dell’insegnante e la sua insicurezza si ripercuotono negativamente sul clima di classe che sarà caratterizzato da distacco, tensione, contrapposizione e caos e ciò accrescerà a sua volta gli effetti del vissuto negativo dell’insegnante. È necessario che l’insegnante rifletta sulle proprie difficoltà e riconosca i propri vissuti emotivi evitando così di ricorrere al meccanismo di difesa della proiezione. Non riconoscendo i propri punti deboli continuerà ad attribuire la colpa all’esterno, agli alunni discoli, ai genitori non rispettosi, alla società, ai media etc. Se il problema è localizzato esclusivamente all’esterno, infatti, egli non si metterà in discussione e 15 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 1 - La scuola come comunità e la relazione educativa Lezione 4 Relazioni tra clima scolastico e soddisfazione lavorativa Numerosi studi e ricerche hanno rilevato la relazione tra clima scolastico positivo, performance e soddisfazione lavorativa; relazione tra clima della classe e atteggiamenti, interessi, impegno e rendimento. Il clima di una scuola e di una classe varia anche in relazione alla percezione di efficacia degli insegnanti e alle aspettative che essi hanno in merito alle potenzialità degli studenti. Queste variazioni, come dimostrano numerosi studi psicologici, incidono significativamente sulla motivazione degli alunni e degli insegnanti. Thomas Gordon, psicologo di orientamento umanistico, rifacendosi ad autori quali Maslow e Rogers, ha trattato negli anni Settanta del secolo scorso la qualità della relazione tra insegnanti e alunni. Egli si chiede cosa renda soddisfacente l’insegnamento e non fonte di stress e afferma che il fattore determinante è la capacità del docente di stabilire un rapporto con gli studenti. Ritiene che la qualità del suddetto rapporto sia più incisiva di quanto non lo sia la materia oggetto di studio. A questo punto, non è più importante quello che viene insegnato ma ‘come’ viene insegnato, perché qualsiasi insegnamento può diventare interessante se impartito da un docente che sappia instaurare una relazione di reciproco rispetto con gli alunni, così come qualsiasi insegnamento può diventare noioso se l’insegnante stabilisce un rapporto con gli studenti che li faccia sentire oppressi, distaccati, umiliati. La qualità della relazione educativa può favorire l’efficacia dell’insegnamento e può rendere la scuola un luogo in cui diminuiscano i conflitti. Gordon non si è limitato a teorizzare ma ha proposto un vero e proprio metodo con specifiche tecniche idonee alla creazione di un’atmosfera socio-affettiva favorevole in classe che a sua volta ha ripercussioni positive sull’apprendimento degli alunni. Prima di illustrare il metodo Gordon è necessario esporre brevemente il pensiero degli autori Maslow e Rogers che rappresentano la cornice teorica delle tecniche gordoniane. Gordon pone alla base della sua trattazione la teoria dei bisogni di Maslow, secondo cui ogni individuo è unico e irripetibile. Tutti gli uomini sono accomunati dai bisogni, i quali sono strutturati in una struttura a piramide secondo cui se non sono soddisfatti i bisogni più elementari non si possono soddisfare quelli posti ai livelli superiori. La piramide dei bisogni di Maslow è così composta: 16 - bisogni fisiologici, legati alla sopravvivenza (fame, sete…); - bisogni di sicurezza o protezione; - bisogni di appartenenza (affetto, amicizia, intimità…); - bisogni di stima (rispetto, prestigio…); - bisogni di realizzazione di sé. Maslow considera le persone problematiche come persone che non hanno soddisfatto i loro bisogni e, quindi, senza giudizi di valore (persone cattive, malate, ecc.). Per l’autore, infatti, l’uomo è per sua natura buono, così come buoni sono i suoi bisogni e i suoi sentimenti. Il male, inteso come malessere o disagio, insorge dalla frustrazione dei bisogni. L’idea del bambino che ne deriva è positiva e ottimistica, nel senso che la natura positiva del bambino va incoraggiata creando attorno a lui un clima di libertà e fiducia. L’insegnante, quindi, deve favorire negli alunni delle qualità, che caratterizzano le persone auto- realizzate, cioè quelle che hanno soddisfatto i loro bisogni a ogni livello. Tra queste qualità vi sono: l’accettazione di sé, degli altri e della natura, la spontaneità, la sincerità e la naturalezza, l’autonomia e l’indipendenza, l’umorismo, la creatività e l’originalità, la capacità di vivere ogni esperienza intensamente. Carl Rogers (anch’esso punto di riferimento della teoria di Gordon) ritiene ogni essere umano capace di apprendere per sua natura. Nella relazione educativa, si ha apprendimento quando l’alunno sperimenta la proposta didattica dell’insegnante come significativa in base ai suoi fini e modifica la propria esperienza. Rogers evidenzia e definisce, inoltre, il concetto di apprendimento significativo come quell’apprendimento fondato sull’esperienza e vissuto come rilevante per gli interessi vitali dell’alunno e che prevede partecipazione totale e auto-motivazione. Se si insegnano cose ritenute importanti dall’alunno, il processo di apprendimento sarà accompagnato da una forte carica emotiva e motivazionale e gli apprendimenti saranno integrati nel progetto di vita del bambino. L’insegnante deve essere “centrato sullo studente” e ciò fa sì che gli allievi diventino protagonisti attivi della propria vita e del proprio apprendimento. Le ricerche da lui condotte hanno dimostrato l’importanza di un clima facilitante nel favorire lo sviluppo e la maturazione dei soggetti in crescita. Tale clima si costruisce grazie a una relazione tra insegnante e allievi fondata sulla stima e sul rispetto reciproco. Per instaurare una relazione positiva con gli alunni, l’insegnante deve essere autentico e l’alunno deve sentirsi accettato e amato. L’insegnante, dunque, deve essere genuinamente se stesso, deve dire ciò che pensa ed esprimere i suoi sentimenti positivi e negativi, deve essere empatico e, senza giudicare, deve essere in grado di comprendere cosa prova l’alunno, deve inoltre avere stima e rispetto dei bambini che devono 17 essere apprezzati per le loro qualità e capacità. Egli, dunque, deve essere un facilitatore dell’apprendimento, offrire sostegno, consulenza e incoraggiamento per promuovere personalità mature e autonome, capaci di auto- educarsi. Le due teorie accennate sono alla base del metodo integrato proposto da Gordon. Egli suggerisce alcune tecniche all’interno di un metodo integrato utile a costruire una relazione efficace tra insegnanti e alunni. Gordon rifiuta l’idea che gli insegnanti devono controllare gli alunni e ottenere la loro obbedienza. Questa idea, infatti, finisce con il promuovere la dipendenza anziché l’autonomia, con il generare conflitti dai quali si esce da vinti o vincitori e, in ultima analisi, la scuola diventa fonte di stress e di frustrazione sia per i docenti, che devono far fronte alla svogliatezza degli alunni, sia per gli alunni, che si sentono obbligati ad andare a scuola e a sottostare a una disciplina che non sentono come propria. L’insegnante, d’altro canto, se assume il ruolo di chi sa sempre tutto e non sbaglia mai, sarà in continua tensione per ottenere il rispetto da parte degli alunni solo in modo coercitivo. Se, invece, come sostenuto anche da Rogers, il docente si relaziona in maniera autentica, se mostra fiducia nell’alunno senza criticarlo e correggerlo continuamente, creerà un rapporto di empatia e di rispetto reciproco senza la necessità di imporre le regole di comportamento in maniera autoritaria. L’insegnante, dunque, deve scendere dal piedistallo che lo mette in una posizione di superiorità rispetto all’alunno e deve assumere una dimensione più umana ed autentica, per dare spazio a quelli che Gordon definisce i cinque ingredienti di una buona relazione tra docente e alunni: - franchezza e trasparenza; - considerazione (ognuno sa di essere importante per l’altro); - interdipendenza dell’uno dall’altro; - distinzione (ogni individuo è accettato nella propria unicità e diversità); - rispetto delle esigenze altrui. Il docente deve essere in grado di utilizzare bene alcune tecniche comunicative utili a impostare una relazione pedagogicamente costruttiva tra insegnanti e alunni. Gordon consiglia di dedicare i primi dieci minuti della giornata alle confidenze da parte degli alunni, i quali possono, in questo modo esprimere i loro vissuti, le ansie, le preoccupazioni, i disagi che, ascoltati ed elaborati grazie all’ascolto dell’insegnante e del gruppo-classe, non vengono percepiti come comportamenti negativi. Questo tempo viene definito tempo relazionale. Per creare un clima positivo, si può inoltre proporre il circle time cioè un momento in cui gli allievi si mettono in cerchio e discutono su un argomento scelto da loro. L’insegnante assume il ruolo di facilitatore e l’effetto è quello di aumentare la vicinanza emotiva, la collaborazione 20 3. valutazione degli aspetti negativi e positivi delle proposte; 4. scelta della proposta più idonea; 5. attuazione; 6. verifica dei risultati. Sia il metodo senza perdenti che il problem solving insegnano il reciproco rispetto e la cooperazione, promuovendo la creatività nelle persone. I problemi e i conflitti vengono considerati eventi normali, non distruttivi, anzi, sono vissuti come opportunità per consolidare e rinsaldare la relazione educativa. 21 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 1 - La scuola come comunità e la relazione educativa Lezione 5 Teorie e terminologia della pedagogia utili alla comprensione della relazione educativa L’attività del docente in classe oggi è ispirata dalle teorie pedagogiche e psicologiche che sono il risultato dell’evoluzione del pensiero pedagogico e didattico che ha avuto inizio nell’antica età. È necessario, quindi, conoscere e comprendere i movimenti pedagogici e gli strumenti educativi e didattici elaborati nel corso dei secoli che hanno influenzato e determinato quelli che sono il pensiero educativo e la didattica di oggi. L’esposizione dei movimenti pedagogici, il pensiero degli autori più rappresentativi, le linee metodologiche e gli strumenti educativi e didattici da essi elaborati sono strutturati in ordine cronologico proprio per mettere in evidenza la loro connessione con la realtà storica e la concatenazione e lo sviluppo delle teorie nel corso dei secoli. Viene evidenziato inoltre il passaggio dalla pedagogia alle scienze dell’educazione e il dibattito sul ruolo della pedagogia nella “società liquida” (Bauman, 2000). Verrà dedicato, anche, un momento alla terminologia proprio per rendere più chiari i concetti di alcuni termini ricorrenti nel discorso sulle teorie pedagogiche per evitare che possano essere utilizzati in modo equivoco e fuorviante. La Pedagogia è una disciplina che da secoli affronta le diverse problematiche legate alla educabilità delle generazioni essa diventa scienza autonoma nel secondo dopoguerra quando, con il diffondersi di nuovi indirizzi storiografici, si affranca dalla filosofia e si configura come scienza pratica che ha come proprio oggetto di riflessione la prassi educativa. In questo modo, quindi, si passa dal concetto di pedagogia a quello di scienze dell’educazione. Affermare che la Pedagogia è una scienza significa definirne, nel modo più preciso possibile, l’oggetto d’indagine, il metodo di ricerca e la dimensione pratica. Per quanto concerne il campo d’indagine essa riflette sulla natura dell’uomo, sull’esperienza educativa, sui valori concepiti come mete o fini da realizzare. Il metodo sperimentale proprio della pedagogia consiste nell’effettuare osservazioni ed esperimenti, effettuare attività precise e rigorose che permettono di verificare i risultati dell’azione educativa. La dimensione pratica di essa si risolve nella scelta di strumenti e metodi educativi in relazione al contesto in cui si deve operare. Il termine pedagogia deriva dal greco país che significa fanciullo e ágoghè che indica l’azione 22 del condurre, del guidare: perciò vuol dire “arte di guidare i fanciulli”. Il pedagogo, nella polis greca, era lo schiavo incaricato di condurre il figlio del suo padrone a scuola, alla palestra e in seguito, questi divenne uno schiavo abbastanza colto da aiutare il fanciullo nello studio. Comprendiamo, quindi, come la Pedagogia rappresentasse sin dal suo nascere non solo una riflessione sull’educazione, ma anche e soprattutto un farsi carico dell’educando, un prendersene cura, un condurlo affinché la sua educazione avesse luogo positivamente. Oggi si preferisce parlare di scienze dell’educazione, termine con il quale si intende un complesso di scienze (psicologia, sociologia, antropologia, statistica) che spesso hanno un loro autonomo campo di indagine e un loro autonomo, seppur in fieri, statuto epistemologico. Nella configurazione di questa prospettiva interpretativa, fondamentale è stato il contributo offerto da John Dewey (The Sources of a Science of Education,1929), che formula una lunga e approfondita elaborazione concettuale sulla tematica della scientificità dell’educazione. Il filosofo americano ritiene, infatti, che la questione della scientificità dell’educazione sia connessa alla funzione fondamentale della scienza di “liberare gli individui”. La pedagogia riflette sull’educazione senza perdere mai di vista l’evoluzione culturale e sociale e, nel contempo, tiene sempre presente la necessità del soggetto di essere posto in condizione di vivere attivamente e positivamente il divenire e, quindi, di non subirlo. Tutto ciò ha luogo senza perdere mai di vista la specificità dal fanciullo. Oggi educare per replicazione, trasmissione, omologazione a modelli rigidi prefissati, come avveniva in tempi non lontani, non è più effettuabile in quanto sono mutate le condizioni sociali, culturali, antropologiche, etc., per cui non è più pensabile una cultura pedagogica che abbia le sue basi solo nella sterile trasmissione di informazioni tra il docente e il discente e configurabile come il riempimento di un contenitore da parte di chi possiede la cultura ed è, quindi, posto in posizione dominante. Al giorno d’oggi, infatti, la relazione pedagogica (come già detto, sempre tenendo conto della specificità dell’alunno e, inoltre, della relazione stessa) è pensata in un’ottica paritaria. È inammissibile, inoltre, pensare alla didattica e alla relazione educativa come a una sterile replicazione di modelli rigidamente prefissati. Lo stesso alternarsi delle diverse teorie pedagogiche rappresenta la migliore riprova di questi periodici mutamenti di prospettiva, dato che l’abbandono delle vecchie teorie e l’affacciarsi delle nuove è la diretta conseguenza della presa di coscienza dei cambiamenti intervenuti nella società. Viviamo, infatti, in un’epoca nella quale si delinea “un’emergenza educativa” senza precedenti: cambiamenti troppo rapidi nel campo dei valori fondamentali, quali la concezione del mondo e della vita, la morale, gli usi e costumi, i rapporti umani, la religione, l’arte, rendono l’uomo e la società, “insicuri e confusi” (Brezinka, 2011). 25 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 1 - La scuola come comunità e la relazione educativa Lezione 6 La psicologia e le teorie dell’apprendimento alla base della relazione educativa Accanto a una capillare disamina del pensiero pedagogico si ritiene sia opportuno esaminare parimenti il pensiero psicologico relativo allo sviluppo dell’individuo alla base della teoria dell’apprendimento. Abbiamo, infatti, detto che la relazione educativa, l’istruzione, la didattica debbano tenere conto dell’individuo, del suo sviluppo e del vissuto. Mentre la pedagogia ha origini molto lontane essendo nata nell’antica Grecia molti secoli fa, la psicologia come scienza autonoma nasce nella seconda metà dell’Ottocento anche se lo studio della mente trova le sue origini nell’antichità. Nella seconda metà dell’Ottocento ci si comincia a occupare dello studio della psiche e, quindi, di sensazioni, emozioni e attività intellettive applicando allo studio della mente le metodologie che erano applicate alle scienze della natura. La sua nascita risale a un gruppo di studiosi riunitosi attorno alla figura del fisiologo Wundt che diede vita a Lipsia nel 1879 al primo laboratorio di psicologia sperimentale che analizza il modo in cui la mente elabora le sensazioni provenienti dal corpo. Essa è la scienza che studia il comportamento degli individui e i loro processi mentali, le dinamiche del pensiero e i rapporti tra questi è l’ambiente. La parte che maggiormente interessa al mondo della scuola è la psicologia dello sviluppo che ha visto la luce in tempi molto recenti. La sua nascita si deve al crollo di illusione. Precedentemente, infatti, si riteneva che non fosse necessario investigare scientificamente su come si sviluppasse la psiche di un bambino in quanto si credeva erroneamente che non fosse necessario in quanto ciascun adulto aveva già vissuto ed esperito ciò che i bambini provavano approcciandosi alla realtà. Ciò si dimostrò un errore grossolano, in quanto ci si rese conto che i bambini non sono tutti uguali per cui la generalizzazione che si effettuava era sbagliata. Il primo a rendersi conto dell’errore è stato l’americano G. Stanley Hall. Egli, durante una visita a Berlino, che aveva come scopo la visita di alcuni laboratori di psicologia, è stato colpito da una ricerca in cui venivano approfondite le conoscenze dei bambini che stavano per iniziare la scuola materna. Egli è stato sorpreso dal constatare che ciascun bambino aveva idee e credenze (talvolta anche bizzarre) sulla realtà che entravano in conflitto con l’idea, generalmente accettata in quel periodo, che sosteneva l’omogeneità del pensiero fanciullesco e la replicazione di esso senza tener conto delle differenze individuali. Egli ha anche approfondito ciò 26 conducendo, in seguito, uno studio simile negli Stai Uniti. A lui si deve, infatti, l’impulso agli studi riguardo lo sviluppo psicologico dell’individuo che si è concretizzato anche nella fondazione di una rivista relativa a questi argomenti nel 1891, Pedagogical Seminary. Ormai tutti concordano nel ritenere che per pianificare le attività di insegnamento-apprendimento è necessario conoscere le fasi dello sviluppo psichico del bambino al fine di utilizzare metodi e strumenti efficaci, prevedere contenuti pertinenti e porsi obiettivi adeguati. La scuola, infatti, come ambiente educativo e di apprendimento, ha il compito di favorire lo sviluppo cognitivo, affettivo e sociale di ciascun discente, valorizzando le potenzialità e le attitudini di ogni singolo alunno. Nonostante l’enorme quantità di studi, ricerche e teorie all’interno della psicologia dello sviluppo, siamo lontani ancora dalla condivisione di un modello unico e universalmente valido di sviluppo umano che veda delineate in modo univoco le fasi di sviluppo con precise caratteristiche. A causa, soprattutto, della complessità della materia, i vari modelli teorici (anche quelli più accreditati) hanno messo in luce solo alcuni aspetti dello sviluppo della persona, privilegiandone alcuni e tralasciandone altri. Al fine di rendere comprensibile la nuova idea di scuola e di insegnamento/apprendimento riteniamo necessario esaminare le principali teorie della psicologia dello sviluppo facendo una distinzione tra teorie dello sviluppo corporeo, cognitivo e affettivo-sociale. Distinguere tra sviluppo corporeo, cognitivo e affettivo-sociale non è facile in quanto la distinzione netta tra essi appare, a volte, un po’ forzata perché i vari aspetti dello sviluppo sono strettamente connessi tra loro. Come vedremo in seguito, la trattazione va distinta in base all’ambito di sviluppo perché, quando si tratta un determinato tipo di sviluppo, il riferimento a certi autori e teorie è d’obbligo (solo per fare degli esempi, Piaget per lo sviluppo cognitivo, Freud per lo sviluppo affettivo); quindi, proponiamo tale distinzione per facilitare lo studio, che risulterebbe più confusionario offrendo semplicemente una carrellata di autori e teorie. Il concetto di sviluppo può essere definito come il processo evolutivo di un organismo che prevede cambiamenti strutturali, funzionali e di organizzazione. I cambiamenti implicati in questo processo possono derivare dalla maturazione intrinseca (cioè dallo sviluppo di capacità innate), dall’influenza dell’ambiente, dall’apprendimento e dall’interazione tra predisposizioni genetiche e stimolazioni ambientali. Il concetto di sviluppo va separato, pur avendo delle connessioni, dai concetti di crescita, maturazione e apprendimento. Il concetto di crescita, infatti, fa riferimento ai cambiamenti quantitativi mentre il concetto di sviluppo sia ai cambiamenti quantitativi sia a quelli qualitativi; il concetto di maturazione, invece, mette in risalto il dispiegarsi di capacità intrinseche ed 27 innate, a differenza del concetto di apprendimento che si riferisce al cambiamento in funzione dell’esperienza. Lo sviluppo, quindi, è legato ai cambiamenti vincolati dai geni ma anche influenzati dall’esperienza. La psicologia è considerata la disciplina delle teorie dell’apprendimento perché sin dall’inizio dell’Ottocento fornisce risultati e concetti che contribuiscono al rinnovamento dei metodi di insegnamento e delle pratiche di apprendimento. Le principali teorie che stanno alla base della relazione educativa, come vedremo successivamente, sono il comportamentismo e il cognitivismo. Il primo considera l’apprendimento come un cambiamento di comportamenti che si ha rispondendo agli stimoli. Il secondo, invece, che si sviluppa verso gli anni Cinquanta, considera l’apprendimento come rielaborazione dell’informazione attraverso l’attività e i processi interni inerenti all’acquisizione delle conoscenze e considera l’individuo come un elaboratore umano. Il termine indica: “l’insieme delle attività e dei processi interni inerenti all’acquisizione delle conoscenze, alle informazioni, alla memoria, al pensiero, alla creatività, alla percezione, come pure alla comprensione e alla risoluzione de problemi” (Legendre, Dictionnaire de l’education, 1993, p.205) Altra teoria importante del Novecento è il costruttivismo secondo cui la conoscenza non deriva dalla trasmissione del sapere, ma è costruita dal discente e, quindi, per l’apprendimento è necessario che l’allievo sia attivo, costruendo così la propria conoscenza con l’interazione con l’ambiente che deve essere ben costruito e in cui vengono realizzate attività che stimolano la cognizione, la metacognizione e l’affettività. 30 Questa figura, cui spettava in parte il compito educativo, rappresentava il modello più vicino al ragazzo e perciò doveva guadagnarsi tutta la sua fiducia e il suo affetto. Nel V secolo ci fu una vera e propria rivoluzione pedagogica dovuta a un gruppo di pensatori, noti come Sofisti, che possiamo definire i primi insegnanti professionisti e, quindi, retribuiti. Essi sono i primi maestri pagati e il prodotto di una società in cui il sapere diventa una professione. Ad Atene c’era stata una progressiva apertura sociale ed educativa nei confronti della borghesia e, quindi, era necessario per i giovani aristocratici curare non solo la prestanza fisica ma anche l’abilità dialettica per difendere i loro privilegi. I nuovi ricchi, da parte loro, non potendo vantare doti spirituali derivate dalla famiglia cercavano di compensare queste con l’educazione che potevano acquisire in quanto non era un diritto di sangue. Essi inaugurano un modello educativo centrato sull’acquisizione di competenze e abilità quali la padronanza della grammatica, della retorica e della dialettica. Al di là dello sviluppo dell’arte di scrivere e di parlare, però, è una pedagogia piuttosto superficiale a livello di obiettivi, metodi, di concezioni del mondo e della vita. È una pedagogia che tende a privilegiare il successo per il successo, l’apparire rispetto all’essere e che dava molta importanza allo stile, alla scelta delle amicizie, alla ricercatezza delle citazioni e persino al sedersi e al vestirsi. Nel loro ideale educativo non c’era spazio per l’umiltà, il limite, l’incertezza. I Sofisti sono stati definiti democratici da alcuni educatori per distinguerli dai precettori che prestavano i loro servizi soltanto ai figli dell’alta borghesia e della nobiltà. Essi volevano dimostrare che valori e conoscenze possono essere insegnati e non ricevuti per via ereditaria. Il loro ideale pedagogico era che l’educazione non è un processo naturale, essa deve essere, infatti, guidata da persone esperte e attuata in un ambiente adatto che favorisca la crescita e lo sviluppo armonico. Socrate (469-399 a.C.) è una figura di spicco tra i filosofi greci e un riferimento anche per la pedagogia. Egli è associato alla corrente dei Sofisti, ma in realtà la sua posizione ideologica e educativa si differenzia molto dal loro pensiero. Egli riteneva, innanzitutto, che l’educazione non è funzionale alla politica né ad alcun’altra professione, ma è orientata esclusivamente alla formazione dell’uomo. Mentre ai Sofisti interessava il dialogo ai fini dell’affermazione e della vittoria personale, per Socrate il dialogo serviva a far emergere la consapevolezza del Sé, delle proprie forze e possibilità. La sua attenzione è concentrata, come i Sofisti, sull’uomo, ma in particolare sulla sua interiorità. Egli, infatti, vuole sviluppare le capacità interiori e non tanto quelle pubbliche. Il pensiero socratico era volto a condurre l’uomo a riconoscere che la vera conoscenza consiste nella consapevolezza di non sapere. Da qui il motto “Conosci te stesso”. 31 Per Socrate la virtù non può essere insegnata, ma portata alla luce attraverso due mezzi: l’ironia e la maieutica. L’ironia serve a destrutturare le convinzioni radicate nel discepolo, mostrandone l’assurdità e la superficialità; la maieutica, che si esercita attraverso il dialogo, è utile a far “partorire” la verità che si trova dentro ad ogni uomo. Altri tratti che lo differenziano dai Sofisti sono il non richiedere alcun compenso economico (mentre i Sofisti erano i professionisti dell’insegnamento) e, soprattutto, il fatto che mentre i Sofisti scrivevano testi d’appoggio alle loro lezioni, Socrate non scriveva nulla e, cosa più importante, non si propose mai come insegnante nel senso più tradizionale, ma come interlocutore scomodo; la sua didattica consisteva nel confronto e nel dialogo. L’attualità del pensiero socratico consiste nella tesi secondo la quale un uomo che conosce se stesso, conoscerà anche i suoi lati negativi, saprà dominarli, agendo in modo virtuoso. L’ignoranza, di contro, porterà a scambiare l’immediatezza degli impulsi e delle passioni per verità. 32 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 2 - Excursus storico delle principali figure del mondo pedagogico Lezione 2 Da Platone all’Ellenismo Platone (428- 348 a. C.) espone la sua concezione educativa nella Repubblica e nelle Leggi. Il suo modello educativo è basato sul modello di predestinazione sociale e, infatti, per lui ogni persona è predestinata fin dalla nascita a una determinata attività, a rivestire un ruolo sociale per cui l’educazione è illusoria. Egli divide in tre categorie gli individui, quelli plasmati con l’oro che sono i governanti, quelli plasmati con l’argento, ossia i soldati, e quelli plasmati con metalli vivi, gli artigiani o il popolo. Questa tripartizione è correlata alla tripartizione dell’anima: i governanti che hanno l’anima razionale, i soldati che hanno l’anima irascibile e il popolo e gli artigiani che l’hanno appetente. I governanti devono sapere gestire l’ardimento del soldato e contenere gli appetiti del popolo facendo loro trovare sfogo in un lavoro volto alla produzione. Lo scopo del processo educativo è la formazione, quindi, del cittadino perfetto che sa comandare e ubbidire secondo giustizia. La riflessione educativa di Platone trae la sua ispirazione dal dualismo filosofico con cui spiega la realtà umana (l’uomo è primariamente un’anima imprigionata nel corpo). Da qui il rifiuto dell’ideale del guerriero spartano e una netta predominanza per tutte quelle attività e conoscenze che portano alla virtù. La ginnastica lascia il posto alle pratiche igieniche, dietetiche e alla danza, come dominio e controllo del proprio corpo. In queste attività anche la musica ha un ruolo fondamentale perché armonizza anima e corpo e, infine, la matematica e la filosofia hanno un ruolo determinante per la formazione dell’uomo. Con ciò, Platone pone le basi del disciplinarismo, infatti, egli teorizza il valore formativo di alcune discipline, a prescindere dal loro rapporto con la vita e dal loro uso possibile. Egli si fa, inoltre, promotore di un’educazione pubblica e paritetica cioè destinata a maschi e femmine e possibilmente sotto il controllo dello Stato. Platone ha delineato un vero e proprio curricolo. L’educazione (la paideia) ha inizio intorno al settimo anno di età e si esplica soprattutto nella ginnastica, nel canto, nella musica e nella danza, discipline che armonizzano il fisico e la psiche. Accanto a queste discipline ci sono le lettere, la matematica, le scienze e l’astronomia in particolare. Il fanciullo, infatti, non dovrà solo saper contare, ma dovrà essere avviato al calcolo, alla conoscenza delle misure, delle superfici e del calendario, conoscenze utili nella prassi quotidiana. La scuola primaria dura fino ai dieci anni ed è seguita dalla scuola secondaria fino ai diciotto anni. A quest’età l’educazione 35 scuola era quello di dare una formazione generale, letteraria, scientifica, artistica e fisica, e quindi enciclopedica. La scuola superiore, infine, era riservata a pochi e prevedeva due fasi: l’efebia (destinata all’addestramento fisico) e la specializzazione (retorica e filosofia). Non esistevano studi universitari, se si escludono gli studi di medicina e i musei che erano veri e propri centri di documentazione e di ricerca. In età ellenistica non si può ancora parlare di istruzione pubblica vera e propria (ne erano esclusi gli strati sociali più bassi), il curricolo scolastico non si curava di conoscere l’alunno e, infine, si andava delineando un maggior interesse per la retorica (l’uomo colto si identificava con colui che sapeva padroneggiare la parola) a scapito delle scienze. Il merito della pedagogia ellenistica è l’aver veicolato un nuovo modo di rapportarsi al sapere e alla cultura e l’aver posto in essere un’organizzazione scolastica efficiente e globale, pur con i limiti di un curricolo nozionistico e di metodi rigidi e astratti. 36 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 2 - Excursus storico delle principali figure del mondo pedagogico Lezione 3 L’educazione nella Roma antica e l’educazione Cristiana La cultura romana, a differenza di quella greca, non ha un’opera pedagogica a cui riferirsi e, quindi, il pensiero educativo da Catone a Quintiliano si rivolge all’interno della tradizione in cui bisogna individuare i valori e i principi comuni della vita di un popolo contadino i cui valori erano la famiglia, la dedizione alla Stato, il rispetto delle leggi, della tradizione, della pietas, della fermezza, della dignità e del lavoro. Questi valori sono quelli delle leggi non scritte, del mos maiorum e di quelle scritte già a partire dalle dodici tavole per rispondere ai conflitti sociali tra patrizi e plebei. Il principale punto di riferimento dell’educazione è la famiglia che comprendeva tutti coloro che erano sotto la tutela del pater familias. Il bambino fino ai sette anni era educato dalle donne; poi i maschi accompagnavano i padri negli impegni quotidiani, a sedici anni indossavano la toga virile e partecipavano alla vita pubblica iniziando il tirocinio sotto la guida di un anziano della famiglia e, poi, il servizio militare. La pedagogia romana fa capo a tre nomi importanti che corrispondono ai tre periodi storici: Catone, Cicerone, Quintiliano. Nella prima età arcaica (dalle origini alla monarchia) era la famiglia a provvedere all’educazione dei fanciulli. L’obiettivo indiscusso era la formazione nel ragazzo di una coscienza morale integerrima, sulla base del mos maiorum (costume degli antenati). A tal fine, si trasmetteva un rigido sistema di valori (controllo dei sentimenti, devozione per la patria, rispetto per il padre e gli anziani) sia con il racconto di fatto significativi sia con opportuni consigli. Nel caso in cui il padre fosse impedito in questo suo compito di educatore, veniva delegato un parente di fiducia. Le ragazze, invece, erano affidate alle cure della madre che le istruiva sulla gestione della famiglia e della casa. Strenuo difensore di questa pratica educativa fu Catone, che fu il difensore dei valori e dell’identità romana di cui temeva la dissoluzione per il contatto con i Greci. L’educazione scolastica romana a partire dal II secolo a.C., quando il dominio di Roma si allarga sul Mediterraneo e prevale su Cartagine e gli Stati ellenistici, non offre nei confronti della cultura ellenistica e greca caratteri innovativi o di originalità. Le variazioni più vistose riguardano la ginnastica e lo sport che presso i Romani assunsero un significato igienico- sanitario e non più solo di preparazione militare mentre la danza e la musica furono ritenute segno di effeminatezza. Un rilievo di particolare importanza venne attribuito principalmente 37 alla scuola secondaria, di matrice greca (insegnanti e lingua erano greci), dove accanto all’arte della retorica fu introdotto più tardi anche lo studio del latino. Figura rappresentativa di questo periodo è Marco Tullio Cicerone, il quale nella sua opera De Oratore traccia un percorso educativo del cittadino romano e si sofferma in particolare sugli studi di retorica. Egli si preoccupava, infatti, di dimostrare la necessità di padroneggiare le lingue latina e greca e dello studio della filosofia e dell’eloquenza in quanto la retorica poteva ritenersi il mezzo che avrebbe conferito prestigio al giovane e gli avrebbe permesso di intervenire con competenza nella vita pubblica. Anche Quintiliano, il codificatore dell’educazione imperiale, reputa centrale il tema della formazione dell’oratore. Egli con la sua opera, Institutiones oratoriae, intende fornire una guida agli educatori e agli insegnanti. Quintiliano si dichiara favorevole all’educazione pubblica, condanna i castighi corporali, rifiuta la necessità dello sforzo e della fatica per l’apprendimento e l’educazione e promuove, invece, la lode e l’incoraggiamento, il piacere e il gioco. Egli, inoltre, insiste sull’importanza del buon esempio e dell’istruzione precoce sin dal primo anno di vita, in quanto in età precoce la memoria è più plastica. Ai fini, poi dell’apprendimento della lettura e della scrittura, reputa necessario l’utilizzo di alcuni sussidi. La sua opera, intrisa di consigli didattici, è un punto di riferimento per i secoli successivi per l’apprendimento della lettura e della scrittura. L’importanza di Quintiliano è l’aver sottolineato la necessità di porre l’attenzione sullo sviluppo del bambino, e sulla gradualità dell’intervento, e l’avere definito l’insegnante come un precettore austero ma non arcigno, cordiale ma non in misura esagerata, poco irascibile, il cui insegnamento è chiaro, semplice ed equilibrato nella valutazione dei comportamenti e degli esiti scolastici. Il suo, dunque, era un modello educativo basato sull’osservazione, sull’esperienza e sul buon senso. Quintiliano può essere definito un protagonista della pedagogia umanista, sostenuta da una metodologia e didattica attuale. Egli afferma, infatti, il principio dell’educabilità di tutti gli uomini, in quanto per lui imparare è qualcosa di naturale. È il primo a distinguere chiaramente natura e cultura, attribuendo alla cultura un ruolo preponderante nella formazione della personalità. Altri elementi degni di attenzione e innovativi, come abbiamo detto, sono la critica alla crudeltà pedagogica delle punizioni corporali, la necessità dell’uso della psicologia da parte del docente e il riconoscimento del valore del gioco e della passione personale nei processi di apprendimento. Nel passaggio dalla scuola romana a quella cristiana non si verificano grandi cambiamenti in quanto nei primi secoli il messaggio cristiano convive nella scuola pagana che viene ritenuta necessaria per fornire gli elementi culturali di base. L’educazione cristiana non comportò particolari iniziative se non l’istituzione del catecumenato 40 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 2 - Excursus storico delle principali figure del mondo pedagogico Lezione 4 Dal Medioevo all’Umanesimo Il periodo che va da Sant’Agostino (345-430) a S. Tommaso d’Aquino (1221-1274) è lungo, denso di avvenimenti e di cambiamenti. La crisi dell’Impero Romano, il lento e faticoso affermarsi del Sacro Romano Impero, la sua dissolvenza fino all’affermarsi dei Comuni, delle Signorie, dei Principati e degli Stati Nazionali non contribuirono a creare una situazione favorevole alla formazione di modelli educativi originali. Il modello di educazione cristiana continuava a permeare l’istruzione e l’attenzione per la scuola primaria era ancora minima. Una larga fascia della popolazione era esclusa dalla frequenza delle scuole e per coloro che invece la frequentavano l’apprendimento della lettura e della scrittura era strumentale e non culturale. La diffusione, inoltre, del volgare, accanto al latino, complicò ulteriormente la situazione. Il mestiere, la bottega e l’apprendistato vivevano sull’esperienza e sull’imitazione e lo stesso si può affermare per la civiltà e la cultura cavalleresca. In tutto il Medioevo la tendenza della Chiesa fu di controllare le istituzioni scolastiche: l’invito, infatti, a diffondere l’istruzione religiosa è presente nei documenti dei concili, nelle encicliche e all’interno delle regole degli ordini religiosi a partire dai Benedettini, Domenicani e Francescani. Con il sorgere dei Comuni e con la nascita e lo sviluppo dell’artigianato e delle professioni (avvocati, notai, medici) si ha un vero cambiamento di prospettiva che si concretizza soprattutto nelle scuole municipali, fucine dei nuovi mestieri, dove accanto al potenziamento della scrittura era vivo l’interesse per i saperi strumentali e pratici. Accanto alle arti liberali assumono un ruolo importante le arti del trivio cioè la grammatica, la dialettica e la retorica e quelle del quadrivio cioè l’aritmetica, la geometria, la musica, l’astronomia e le conoscenze scientifiche. Il sistema scolastico medievale era caratterizzato dalla rigida disciplina, dall’autorità del maestro, da un insegnamento basato sull’ascolto e sulla memorizzazione che lasciava pochissimo spazio all’attività ludica e all’iniziativa degli alunni. Una figura di spicco di questo periodo è San Tommaso D’Aquino (1225- 1274) che è uno dei maggiori rappresentanti della Scolastica e punto di raccordo tra la cristianità e la filosofia classica. Egli recupera i concetti aristotelici di atto e potenza ed elabora il suo pensiero adattandolo al dogma cristiano. Egli fu forse il pensatore più importante del Medioevo, in quanto cerca di superare il contrasto tra la rivelazione cristiana e la ragione umana. Per lui il 41 rapporto educativo è un passaggio dalla potenza all’atto. L’educazione, infatti, è il rapporto tra due soggetti (maestro-allievo) mediato dai dati culturali che vengono trasmessi dal maestro, detentore dell’auctoritas (scienza in atto), all’allievo portatore di una facoltà di apprendimento del sapere in potenza. È questa una concezione, quindi, gerarchica e trasmissiva dell’educazione. Dio, il vero maestro, infonde nell’anima il principio interiore. Dato che l’intelletto dell’allievo possiede la scienza solo in potenza ed è il discepolo che impara, il maestro non può trasferire il suo sapere, può, però, solo aiutarlo, stimolando la natura dalla conoscenza potenziale a quella attuale. Nel processo educativo, quindi, l’educando opera un processo di trasformazione interiore dalla potenza di apprendere all’atto innescato dal di fuori; il maestro è solo il veicolo di un sapere che già esiste e, quindi, l’educando non è una tabula rasa, ma detiene in potenza un certo sapere. Per Tommaso D’Aquino si impara vivendo, attraverso l’esperienza del mondo sensibile; l’educando è, quindi, il soggetto dell’educazione (c’è quasi un’anticipazione del puericentrismo) che deve conformarsi, per apprendere, al mondo reale, conoscere e padroneggiare le sue leggi. L’acquisizione del sapere può realizzarsi attraverso due modalità didattiche differenti: l’autoeducazione quando l’allievo raggiunge da solo la conoscenza o l’eteroeducazione che si ha quando il maestro o un agente esterno aiuta il discepolo ad acquisire il sapere. Tutto l’impianto pedagogico di San Tommaso è, dunque, teso a dimostrare che il fine dell’educazione è lo stato di virtù e prevede al suo vertice la prudenza. L’educazione è, dunque, un processo redentivo che si identifica con la formazione etico- cristiana. L’approccio all’educazione e, quindi, alla pedagogia subisce un notevole cambiamento durante l’Umanesimo che è caratterizzato dallo spostamento dell’attenzione dalla sfera religiosa dell’individuo a quella umana, alla humanitas. In questo periodo si assiste alla rinascita degli studi classici in quanto l’uomo va sempre più allontanandosi dallo studio contemplativo del Medioevo. Gli Umanisti usano l’intelletto e la ragione con cui vogliono liberare l’uomo da ciò che era oscuro nel Medioevo e cercano di conoscere in modo meno rigido. Erasmo da Rotterdam, infatti, afferma che l’uomo riesce a conoscere se stesso grazie al lume della ragione. La pedagogia in questa età è centrata sull’affermarsi dell’individualità e della creatività personale per cui in questo periodo non c’è un’idea univoca della pedagogia. La pedagogia dell’Umanesimo è da considerare una risposta attenta a una richiesta di educazione e di formazione che venne da specifici strati della società e da particolari istituzioni. Al contrario del Medioevo, in cui prevaleva uno scarso interesse per l’educazione dell’infanzia, i nuovi gruppi sociali emergenti ritenevano che l’infanzia e la giovinezza costituissero una vera e propria ricchezza per la famiglia, il casato e il ceto di appartenenza. La famiglia, specie se 42 borghese o nobile, tendeva a educare i propri figli in funzione delle proprie attività economiche, politiche, religiose e militari. La nuova borghesia, quindi, si fa portatrice di un modello educativo nuovo, un modello educativo liberale e umanistico, fortemente radicato sul piano storico e sociale. Da qui deriva l’esigenza di verificare i programmi delle scuole esistenti, di creare delle proprie scuole e di scegliere maestri preparati. Diventa necessario iniziare il processo educativo fin dalla nascita, estendere l’istruzione a tutti anche se per tutti si intende solo l’utenza che allora era rappresentata esclusivamente da borgesi e nobili. In questo periodo un ruolo importante hanno avuto i collegi-convitti, nati come risposta alla richiesta della nuova classe politica di dare un’educazione, un’istruzione e una cultura adeguata ai tempi. Gli ideali pedagogici e umanisti trovano espressione concreta in alcune scuole soprattutto in quella di Vittorino da Feltre (1378-1446). Egli è stato uno dei massimi esponenti della pedagogia del periodo e il suo nome è legato alla Giocosa, il collegio che istituì nella casa messagli a disposizione del principe Gonzaga di Mantova. La scuola era aperta a tutti: nobili, ricchi, ma anche ad un ristretto numero di poveri ed era, inoltre, permessa la frequenza anche delle femmine, benché solo della famiglia Gonzaga. Questo collegio in poco tempo ebbe un numero così elevato di iscritti da rendere necessario l’assunzione di altri insegnanti. Alla base di questi studi c’era lo studio dei classici greci e latini e, al contrario di altre scuole del tempo, egli ha promosso una formazione a più ampio spettro che aveva alla radice una forte impronta morale. L’atmosfera scolastica era pervasa da austerità e letizia. Vittorino si preoccupava di curare il corpo, la mente e lo spirito e agli esercizi fisici accompagnava la danza, il canto e la musica. Permeato da un profondo spirito religioso impartiva un’accurata preparazione religiosa e morale. Il curricolo prevedeva oltre allo studio delle discipline del Trivio e del Quadrivio, la conoscenza della filosofia e della letteratura greca e latina. Dal punto di vista pedagogico, Vittorino propugnava l’attenzione alle differenze individuali e quindi, nell’insegnamento teneva conto dei vari interessi degli allievi; egli dava, poi molto peso alla memoria che doveva essere esercitava fin dall’infanzia. La sua scuola è l’espressione di un modello educativo e didattico di qualità. La comunità educante di Vittorino, ispirata ai valori della solidarietà, del rispetto e della collaborazione, pur avendo costituito un esempio eccezionale, non trovò degni continuatori. Rimangono, comunque, indiscusse le sue doti pedagogiche e morali e il suo desiderio di formare uomini liberi e padroni di sé. Altra figura centrale dell’Umanesimo e del Rinascimento fu Erasmo da Rotterdam (1466- 1536), un personaggio eclettico che era venuto a contatto con molte personalità di ogni genere 45 genitori a estendere al massimo l’istruzione. Tutti, a suo modo di vedere, dovevano almeno imparare a leggere, scrivere e far di conto e i più capaci potevano proseguire fino a padroneggiare la Sacra Scrittura, le lingue classiche, la storia, la dialettica e la musica. Inoltre ha ritenuto doveroso aiutare economicamente i ragazzi poveri e meritevoli a conseguire un’istruzione adeguata. Dal punto di vista metodologico egli indicava nel gioco e nel piacere lo sprone naturale all’apprendimento. Accanto a questi lati positivi c’è, però, il fatto che egli impoverisce le basi pedagogiche dell’Umanesimo in quanto promuove una formazione che antepone quella religiosa alle altre. In risposta alla riforma protestante la chiesa Cattolica si è adoperata a istituire alcune scuole religiose per l’indottrinamento in difesa della cattolicità e si è preoccupata solo in misura marginale dell’istruzione popolare. L’ordine religioso più importante fu quello dei Gesuiti fondato da Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) che per quanto riguarda l’educazione, con la Ratio Studiorum, segnarono una svolta fondamentale nella gestione, nelle finalità e nelle metodologie delle scuole soprattutto occidentali e cristiane. Le prime istituzione erano destinate alla formazione dei religiosi (la Compagnia di Gesù), ma ben presto esse accolsero altri ragazzi diventando veri e propri collegi. Queste scuole erano basate sull’ordine e sul metodo. In tutta Europa, nelle scuole gestite dai Gesuiti, ci si atteneva alla Ratio Studiorum, un caposaldo nella storia delle istituzioni educative moderne e contemporanee. Con i gesuiti, la scuola diventa una vera e propria istituzione che prevede una gestione, un metodo, un curricolo e un sistema di valutazione. Nulla viene lasciato al caso: la scansione delle attività, l’orario, la presenza dei registri, dei tabelloni, del calendario di prove ed esami e le elencazioni di diritti e doveri del personale docente, l’impiego del tempo libero, i tempi e le modalità di studio e anche le passeggiate. La strutturazione dei corsi prevedeva l’umanistico, il filosofico, il teologico e gli autori oggetto di studio erano quelli tradizionali con particolare attenzione a Cicerone. Altro elemento comune ai collegi gesuiti era l’obbligo di parlare latino anche nella ricreazione. Lentamente la nobiltà e la nuova borghesia trovarono nella scuola dei Gesuiti un punto di riferimento culturale e valoriale. La disciplina morale, religiosa e intellettuale forniva garanzie per i nuovi strati sociali tesi a occupare posizioni di prestigio nella società. Con l’istituzione dei collegi si ampliò la tendenza a mandare i figli in collegio per diverse ragioni: innanzitutto, perché venne abbandonata la pratica del precettore sia per difficoltà economiche sia perché una sola persona non poteva essere in grado di fornire un’istruzione completa; in secondo luogo perché si affermò il principio di delegare ad un’istituzione il compito di istruire ed educare sul piano civile i fanciulli in quanto si riteneva che le famiglie non fossero più in grado di controllare i comportamenti dei fanciulli. 46 Il barocco, che caratterizza il Seicento, fa da cerniera tra due momenti culturali significativi: l’Umanesimo rinascimentale e l’Illuminismo. In ambito pedagogico, in questo periodo, si elaborano nuove teorie sistematiche che vedono l’uomo al centro pur mantenendone la posizione subordinata rispetto a Dio. Il XVII secolo è un periodo di indiscussa fioritura degli studi pedagogici che ha portato a un notevole fermento sia sul piano teorico sia su quello pratico nei confronti della tematica educativa. In linea generale si può dire che, mentre le scuole elementari furono trascurate, lasciate in balia del volontariato, fu prestata molta attenzione alle scuole secondarie come confermato dal moltiplicarsi di testi scolastici relativi alle scuole superiori anche se queste quasi sempre restavano affidate all’iniziativa privata o agli istituti religiosi. Non esistevano istituzioni specifiche per la preparazione degli insegnanti, ma, nonostante ciò, si riuscirono a formare ottimi insegnanti. Questo periodo fa da sfondo all’attività pedagogia di Comenio e Locke. Giovanni Amos Comenio (1592- 1670), che viene considerato il padre della didattica, è il primo pedagogista che scrive un testo di didattica in cui esamina con rigore il problema della metodologia. Con la sua opera Didactica magna nasce la didattica moderna nel senso che viene indicata la necessità di rivedere e attuare con razionalità e scientificità l’attività educativa e scolastica, rispettando le leggi dello sviluppo personale e razionalizzando il lavoro e gli interventi formativi. Il sistema pedagogico di Comenio si fonda sull’idea che l’uomo tende per sua natura a Dio in quanto tutti gli uomini sono chiamati a ritornare a Dio dopo aver realizzato la conoscenza del mondo, la rettitudine dei costumi e la pietà religiosa. Comenio, dunque, sostiene che l’uomo persegue come fine ultimo la salvezza, il ritorno a Dio, ma sottolinea anche la necessità dell’impegno umano, individuale e collettivo a operare “coi nostri mezzi” tra cui giudica fondamentale l’impegno educativo. Come per Lutero, l’educazione e l’istruzione devono essere estese a tutti e ritenute un momento fondamentale di crescita e di presa di coscienza di essere parte del creato. Egli riassume il suo programma con la formula “insegnare tutto a tutti” e con queste parole non indica come finalità dell’insegnamento dare a tutti una cultura enciclopedica, ma sostiene che a ciascuno debbano essere trasmesse le idee base che costituiscono ogni settore del sapere, i fondamenti su cui si reggono le scienze. Per questa ragione è indispensabile una mediazione tra i contenuti di apprendimento e gli schemi mentali di chi apprende per adeguarli alla natura specifica e all’età. Comenio ha tracciato un metodo di insegnamento rigoroso, attento allo sviluppo della persona e del bambino in particolare. Egli afferma che occorre tener conto dei livelli di sviluppo, valorizzare gli interessi e promuovere la motivazione seguendo il modo naturale di apprendere: dal concreto all’astratto. I suoi testi scolastici rispettano tale principio e sono costruiti facendo costante ricorso alla realtà e alle 47 immagini. Ribadisce anche che una metodologia rigorosa non può prescindere dalla programmazione degli obiettivi, dalla scelta dei contenuti, dalla loro articolazione in sequenze e dalla verifica dei risultati. In questa programmazione è importante anche l’ordine logico dei contenuti che deve essere coniugato secondo il criterio della gradualità in modo da escludere il nozionismo e realizzare un apprendimento solido e duraturo. Comenio prevede anche che il curricolo abbia carattere ciclico: passando di grado in grado, si insegnano sempre le stesse materie, ma a differenti livelli di complessità e di approfondimento. Anche la struttura scolastica da lui ideata è modellata sull’ordine naturale di sviluppo dell’individuo: la scuola materna per l’infanzia, le scuole di lingua nazionale per la fanciullezza, il ginnasio per l’adolescenza e l’Accademia per la giovinezza. Nella riflessione pedagogica di Comenio non manca l’attenzione ai docenti. Egli si sofferma, infatti, sulle buone doti che l’insegnante deve possedere da un punto di vista intellettuale e morale e sull’importanza della conoscenza degli allievi per instaurare buoni rapporti con loro. Il metodo di Comenio è rivoluzionario e ha avuto il merito di superare l’improvvisazione didattica, ma è stato criticato per l’eccessiva razionalizzazione della didattica, basata su un metodo di validità universale che di conseguenza privilegia l’oggettività del metodo rispetto alla soggettività dell’alunno. Altro pensatore del Seicento che ha influenzato il pensiero filosofico e pedagogico è stato John Locke (1632-1704) che elabora un’idea filosofica che anticipa le idee dell’Illuminismo. Innanzitutto la sua teoria smentisce l’innatismo delle idee in quanto ritiene che esse derivano tutte dall’esperienza e questo rifiuto ha una ricaduta pedagogica rilevante in quanto evidenzia che l’educazione non può consistere nella trasmissione acritica di verità e valori morali prefissati dalla tradizione, ma educare equivale a mettere gli uomini nella condizione di cercare la verità, di definire le regole della loro condotta e di essere tolleranti in quanto neanche l’idea di Dio è innata. Il percorso formativo deve mirare alla costruzione di una personalità corretta per cui le attività didattiche devono fare emergere la capacità critica e, poiché per lui è importante il rapporto individuo-società, il fine ultimo dell’educazione è l’inserimento dell’individuo nella società stessa. In quanto sostenitore del principio di democrazia e partecipazione attiva alla gestione dello Stato, ritiene che l’educazione non deve trasmettere un modello di comportamento passivo ma promuovere il senso della libertà individuale e civile. Egli si interessa soprattutto dell’educazione dei giovani maschi di famiglia ricca e ritiene che l’educazione debba essere individualizzata e basata sull’osservazione del bambino da parte del precettore che deve creare un percorso formativo a partire dalle attitudini e capacità di questi. Ritiene, inoltre, che la scuola privata sia preferibile a quella pubblica in quanto in questa egli 50 2 anni), educazione dei sensi (dai 2 a 12 anni), educazione dell’intelletto (dai 13 ai 15 anni), educazione sentimentale, sessuale, religiosa (dai 15 ai 20 anni) e educazione alla saggezza e alla politica (dai 20 anni in poi). Il protagonista del libro è Emilio, un giovane orfano condotto in campagna dove con l’ausilio di un pedagogo dovrà maturare spontaneamente la sua formazione. L’intento di Rousseau attraverso questo scritto è mostrare, come fosse un esperimento scientifico, che esiste una bontà naturale che, una volta preservata dalle influenze negative esterne, è in grado di dirigere l’intera formazione dell’uomo. Il precettore è qui pensato come lo scienziato che si limita a sterilizzare l’ambiente in cui l’esperimento deve svolgersi, senza apportare un suo contributo personale. Rousseau tenta, quindi, di assimilare la pedagogia alla scienza. La dottrina dell’educazione naturale teorizzata da Rousseau ha una doppia valenza: spontanea e graduale. È spontanea perché avviene in modo naturale e a contatto con la natura, lontano dalle fonti corruttrici della società; è graduale perché asseconda i ritmi di sviluppo del soggetto e le caratteristiche psicologiche dell’età. Il primo intervento dell’educatore con i bambini molto piccoli consiste nell’educazione negativa, vale a dire “nel preservare il cuore dal vizio e la mente dall’errore”. Durante l’infanzia è, quindi, preminente la cura per lo sviluppo del corpo e il sostegno per superare paure e angosce. Il bambino dovrà avere la libertà di movimento e la possibilità di sperimentare situazioni per affrontare il dolore e le avversità. In questa fase non è opportuno iniziarlo all’obbedienza o alla vita morale. Nella fase successiva (fino ai 12 anni), il bambino verrà condotto a esperire e vivere impegni che richiedano lealtà e sincerità e a cimentarsi nelle prime forme di lavoro manuale. Anche in questa fase dovrà essere evitato ogni tipo di insegnamento tradizionale o il ricorso a principi astratti di una ragione ancora inesistente. Il terzo periodo è quello più felice per antonomasia, è il tempo dell’educazione positiva, del lavoro, dell’istruzione, delle aspirazioni e dei desideri. Questa è l’età in cui emerge la ragione che assume la sua funzione strumentale nella vita dell’uomo e in cui devono essere stimolate la motivazione, gli interessi e l’esperienza diretta. Dopo i quindici anni, quando ormai il soggetto è nel pieno dell’adolescenza e delle pulsioni sessuali, il precettore potrà iniziarlo al concetto di bene e di male, al problema religioso e allo studio della storia in quanto ormai è in grado di valutare e non di ridurre tutto a una mera memorizzazione. Si giunge così all’inserimento in famiglia e nel mondo sociale e alla scelta della sposa. Riguardo all’educazione delle donne, la posizione di Rousseau ha destato numerose polemiche per il modo in cui vuole realizzarla. Sofia, la futura consorte di Emilio, è destinata in quanto 51 donna, all’uomo e quindi a essere sposa e madre: tutta la sua formazione deve essere volta a questo fine. Il filosofo ginevrino, parlando di donna, si attiene alla concezione dominante della sua epoca, senza apportare innovazioni alla sua educazione, ma si sforza di sottolinearne la differenza e la complementarietà nei confronti dell’uomo e ciò esclude il concetto di inferiorità in senso pieno. Rousseau, quindi, non è solo colui che ha scoperto l’infanzia, ma anche quello che ha scoperto la crisi adolescenziale, termine da lui effettivamente usato. Le sue intuizioni più importanti sono l’aver compreso il processo di maturazione graduale che caratterizza la realtà umana, e che va assecondato nel rispetto dei suoi ritmi, senza imporre accelerazioni, e, in secondo luogo, l’aver saputo cogliere le due fasi dello sviluppo della ragione: la giovinezza e l’età adulta. Tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento nasce la consapevolezza del problema dell’educazione popolare. La rivoluzione industriale prima, infatti, e l’aumento della popolazione poi avevano determinato una vera e propria emergenza sociale e i bambini sfruttati, emarginati ed esclusi non potevano più essere ignorati. Da questo momento in poi la riflessione pedagogica verterà sui temi, destinati a occupare un posto rilevante nella pedagogia e nella politica scolastica occidentale: l’interesse per l’educazione popolare, la ricerca di una metodologia educativa e didattica adeguata, il problema della formazione professionale richiesta dello sviluppo industriale. Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827) è una delle figure di maggior spicco del pensiero pedagogico dell’età Romantica, la classica figura dell’educatore, filantropo, che lavora, riflette e scrive. La sua è una pedagogia vissuta e sofferta anche e soprattutto per suoi fallimenti. Nel 1769 a Neuhof aveva aperto la fattoria-scuola destinata all’educazione dei poveri che intendeva associare all’istruzione il lavoro manuale. Il progetto naufragò dopo pochi anni così come fallirono anche altre iniziative, ma queste esperienze, costituirono una svolta decisiva nel suo pensiero. Successivamente diventò maestro elementare a Burgdorf dove iniziò una nuova fase della sua ricerca e spostava l’attenzione dalla pedagogia generale ai problemi didattici. La sua esperienza più significativa fu la scuola di Yverdon dove ebbe modo di perfezionare la sua metodologia didattico-educativa. La sua vita, dunque, fu volta al riscatto sociale dei poveri e all’accoglienza dei disabili anche gravi in nome del comune diritto all’educazione. La sua concezione educativa si basa sul pensiero di Rousseau e la propria esperienza. Secondo lui, l’uomo ha in se stesso ciò che gli occorre per il suo sviluppo e, quindi, non va sollecitato nel suo processo educativo in quanto l’educazione per se stessa è considerata un processo. I principi regolatori dell’educazione e del suo metodo possono essere sintetizzati in naturalità, riferita alla realtà dell’educando; in concretezza, nel senso di attenzione al singolo e alle situazioni storico- 52 ambientali; in gradualità, principio che viene esteso a tutti gli ambiti dell’educazione, e in elementarità, in cui consiste la caratteristica specifica del suo metodo e del suo impegno democratico. Pestalozzi critica la didattica verbalistica in uso e insiste sull’idea che l’apprendimento deve fondarsi sull’esperienza del soggetto. Da qui i due criteri fondamentali della didattica: l’intuizione e la gradualità. L’intuizione è il fondamento di ogni conoscenza e deriva dall’approccio diretto con la realtà per giungere ai concetti e al giudizio. A tal riguardo egli afferma che tutta l’attività conoscitiva si può organizzare attorno a tre campi elementari: la lingua, la forma e il numero, che stanno alla base delle principali disciplina scolastiche. Per quanto concerne la gradualità, invece, egli ritiene che un metodo comprensibile debba partire da elementi semplici, da sviluppare successivamente in una serie graduale e continua. Il principio di elementarità è, poi, garanzia di democraticità infatti l’apprendimento degli elementi più semplici e dunque più facili fa sì che la conoscenza sia alla portata di tutti e ogni nuova acquisizione equivale a un’elevazione della condizione umana del soggetto. La scuola, vista all’inizio come una artificiosa concorrente della famiglia, diventa poi l’istituzione sussidiaria all’educazione familiare e, infine, è ritenuta indispensabile per l’effettiva formazione dell’uomo. Sebbene Pestalozzi è ritenuto il padre dell’educazione popolare, non si occupò solo di scuola elementare, ma anche dell’organizzazione degli studi secondari dove l’apprendimento doveva avvenire attraverso l’esperienza. Egli distingue l’educazione in religiosa, intellettuale e tecno-artistica necessarie per la crescita e lo sviluppo delle facoltà umane che lui sintetizza nella formula “cuore, mente, mano”: al primo corrisponde l’educazione etico-religiosa fondata sull’amore e sulla fiducia; alla mente è associato lo sviluppo attraverso l’educazione intellettuale che, a partire dall’intuizione, deve giungere all’astrazione e generalizzazione; alla mano, invece, è associata l’educazione artistica e la formazione professionale. L’importanza del suo pensiero è l’aver associato la teoria alla prassi e l’aver riconosciuto l’esperienza prioritaria nel processo di apprendimento. Il nome di Friederick Fröbel (1782-1850) è legato al giardino d’infanzia, Kindergarten, come istituzione dedicata all’infanzia e luogo di comunità educativa in cui il bambino può esprimersi liberamente attraverso il gioco. Egli risente dello spirito romantico del suo tempo ed elabora l’idea di educazione come processo che conduce il soggetto a intuire e, quindi, a prendere coscienza che ciò che gli appare come molteplicità è riconducibile a Dio, di cui l’uomo è creatura ed espressione. Nella sua opera più importante, “L’educazione dell’uomo”, Fröbel dedica uno spazio centrale all’educazione durante l’infanzia e la fanciullezza. L’educazione della prima infanzia (fino ai tre anni) è riservata alla famiglia ed è caratterizzata da un’accelerazione dello sviluppo fisico- 55 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 3 – Pedagogia contemporanea e componente psicologica della relazione educativa Lezione 1 Pedagogia contemporanea Nella prima metà del XIX secolo con la nascita in Francia e la sua diffusione in Europa del Positivismo, movimento che sostiene il primato della conoscenza scientifica e valorizza il progresso dello sviluppo tecnologico e capitalistico, avviene una rivoluzione in tutte le scienze umane che investe anche la pedagogia che, ormai nel nuovo contesto culturale può e deve essere considerata una delle scienze umane. Nuove scienze quali la psicologia, la psichiatria e la sociologia accanto alla medicina configurano il sapere come scienza e anche la pedagogia viene approfondita per individuarne lo statuto epistemologico. In questo periodo, inoltre, diventano eclatanti e oggetto di studio alcuni fenomeni sociali e psicologici quali l’handicap, la follia, la delinquenza, l’emarginazione, l’alcolismo e perciò si rendeva necessario individuare strumenti adeguati per decifrarli, capirli e affrontarli. La psicoanalisi e la psicologia saranno importantissime e spingeranno verso una pedagogia e didattica speciale. Aristide Gabelli (1830- 1901), uno dei più prestigiosi nomi dell’Ottocento, diventa promotore di un’educazione alla democrazia e di un’istruzione finalizzata a formare lo “strumento testa”. Tutto ciò porterà nel Novecento alla nascita di una pluralità di modelli educativi, molto differenziati tra di loro, tanto che esso è riconosciuto come il “secolo pedagogico” per eccellenza. La svolta pedagogica riguarda in primo luogo la scuola, la quale diventa obbligatoria per un numero crescente di anni e si adegua alle richieste della società. Il progresso tecnologico e industriale, la caduta dei regimi totalitari, la nascita di associazioni e movimenti operai, l’emancipazione delle donne e la contestazione dei giovani sono fenomeni storici che hanno avuto un peso rilevante sulla scolarizzazione e sulle innovazioni metodologiche e contenutistiche. È questo il periodo della nascita delle scuole nuove e delle scuole attive. Che non devono essere confuse tra di loro e che hanno in comune solo l’insoddisfazione per il funzionamento e per i risultati delle scuole vigenti, la rilettura della pedagogia di Rousseau e una maggiore attenzione all’educando. I teorici dell’educazione nuova denunciano l’autoritarismo delle scuole tradizionali, il prevalere dei programmi, l’esaltazione del ruolo del maestro, la teorizzazione dello sforzo e dei castighi, il distacco dalla vita concreta e lo studio di contenuti nozionistici non adatti all’evolversi delle 56 situazioni socio-economiche. Da ciò derivano due orientamenti nuovi: il puerocentrismo o centralità dell’allievo nel processo educativo e il primato dell’esperienza, della partecipazione e dell’iniziativa. Le scuole nuove, di solito collocate in campagna, si caratterizzavano per spazi architettonici ampi, per rapporti più umani tra insegnanti e allievi, per la vita in comune e per la coeducazione. Particolare interesse è rivolto all’educazione fisica e sportiva, all’apprendimento delle lingue moderne, della storia, della geografia. In queste scuole sono previste accanto alle attività espressive l’acquisizione di capacità critiche in un regime di libertà, di tolleranza e dialogo. In Italia le scuole nuove sono legate al nome delle sorelle Agazzi: Carolina (1870-1945) e Rosa (1866-1951) e di Maria Montessori; nel panorama mondiale figura centrale è John Dewey (1859-1952) e il suo pensiero. John Dewey è considerato il fondatore della scuola attiva, così chiamata perché pone l’alunno in presenza di situazioni problematiche reali. La scuola attiva si caratterizza per la sostituzione delle lezioni con attività ed esperienze concrete che nascono dagli interessi degli alunni. È questa una sorta di rivoluzione in quanto scompaiono le classi che lasciano il posto ai laboratori; scompaiono i banchi sostituiti da tavoli per il lavoro collettivo; scompaiono le materie di studio sostituite da attività che nascono dai bisogni e dagli interessi degli alunni. Il maestro assume il ruolo di facilitatore degli apprendimenti degli alunni. In questo modello di scuola si afferma il ruolo pragmatico, attivo della conoscenza, delle idee e la necessità di una loro verifica pratica e razionale. Cucinare, tessere, produrre oggetti sono attività che nascono dall’elaborazione di un’idea, di un progetto che in corso d’opera può essere riformulato, cambiato e aggiustato. I ragazzi sono impegnati a costruire, indagare, a mettere in atto strategie per risolvere eventuali problemi che sorgono durante il lavoro di produzione. Il pensiero è stimolato, in questo modo, dall’attività in cui il discente è impegnato, da qui nasce il concetto di attivismo, tanto caro a Dewey. Il principio alla base del sistema pedagogico di Dewey è il richiamo all’esperienza, intesa come il rapporto problematico tra l’individuo e le cose. L’esperienza è, per il pedagogista americano, innanzitutto un fare oltre che un conoscere. Il pensiero assume la funzione di guida, di superamento degli ostacoli, di modificazione e cambiamento delle cose. A differenza della tradizione pedagogica, Dewey assegna un ruolo attivo al pensiero per cui la scuola deve cessare di essere un luogo di trasmissione del sapere e assumere la configurazione di luogo di esperienze e di attività che, in quanto vissute dagli alunni, li coinvolgono nei loro interessi e ne stimolano l’attività del pensiero. In altre parole, la scuola deve essere scuola attiva, nel senso che deve sollecitare l’impiego intelligente del pensiero e prima della cultura formalizzata nelle discipline, deve trovare posto l’azione e l’esperienza direttamente vissuta. Per caratterizzare la sua scuola Dewey preferisce usare la 57 definizione di scuola progressiva, perché a differenza della scuola attiva non è solo luogo di sviluppo del singolo ma luogo di sviluppo sociale e democratico in cui l’intelligenza del singolo è presupposto di progresso scientifico, culturale e sociale. La pedagogia, per la duplice funzione in chiave individuale e sociale, deve poggiarsi sulla psicologia e la sociologia. È da qui che nasce la necessità di analizzare il fenomeno educativo da diverse prospettive: quella psicologica e quella sociologica. Non si può parlare in Dewey di un’educazione intellettuale, morale o sociale come fossero scindibili infatti, quella intellettuale che concerne lo sviluppo del pensiero, non è realizzabile se non mediante la prassi e questo comporta un rapporto con gli altri e, dunque, un rapporto etico-sociale. Nel processo educativo sono da evitare: l’egocentrismo e il piacere personale a discapito degli altri; l’imitazione che favorisce la pigrizia e non promuove la crescita e lo sviluppo; l’imposizione che è contraria alla libertà. In quest’ottica si delinea la figura dell’educatore che nella prospettiva deweyana, è considerato come colui che facilita, stimola e orienta l’attività di un soggetto con quella degli altri. Nell’organizzazione dell’istituzione scolastica, inoltre, vanno presi in considerazione l’interesse e il lavoro, che è alla base della didattica Learning by doing e tutte quelle attività che il discente conduce a casa o fuori. La scuola deve essere intesa come vita semplificata. Dewey, inoltre, distingue quattro livelli fondamentali di scuola corrispondenti ai periodi dello sviluppo umano: infanzia dai 4 a 6 anni, primaria dagli 8 a 12 anni, secondaria dai 14 ai 18 anni e, infine, l’università. I primi tre livelli sono intervallati da un anno di transizione necessario all’adeguamento del singolo e al rispetto dei ritmi di sviluppo. Egli si è interessato soprattutto della primaria, sebbene abbia lasciato appunti e indicazioni sugli altri livelli. Tutti i livelli di scuola prevedono l’organizzazione del curricolo in vista delle attività pratiche e di laboratorio che devono realizzare gli allievi. L’attività del cucinare, per esempio, pone l’allievo di fronte ad una serie di problemi reali che vanno dal reperimento dei prodotti, alla loro provenienza, ai tempi e i modi di cottura, alla dimensione sociale del consumo e ai prezzi. L’attività solleva, dunque, problemi di fisica, matematica, geografia ed economia che intervengono però non come materie di studio, ma come luoghi in cui è possibile reperire le risposte sollecitate dall’esperienza. Affinché l’esperienza possa definirsi educativa, inoltre, deve possedere la caratteristica della continuità e dell’interazione. Per continuità intendiamo la continuità con l’ambiente di vita del ragazzo cioè la famiglia, gli amici e l’ambiente sociale in genere. Per interazione, invece, intendiamo il legame tra l’individuo e la società. La concezione di Dewey ha dato un grande apporto al rinnovamento pedagogico nel mondo che è possibile riscontrare nelle sue opere così come ha introdotto alcuni termini ricorrenti nel lessico pedagogico: esperienza, congetture, supposizioni, apprendimento per scoperta, intenzionalità, fare, 60 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 3 – Pedagogia contemporanea e componente psicologica della relazione educativa Lezione 2 Dibattito pedagogico. Passaggio dalla psicologia dell’età evolutiva a quella del ciclo di vita. Negli ultimi decenni, soprattutto, in Italia, si è sviluppato un interessante dibattito sulle tematiche epistemologiche dell’identità della pedagogia anche se non c’è stata una comparazione della situazione italiana con i modelli più significativi della pedagogia contemporanea. La pedagogia, nata in ambito filosofico, vi è rimasta ancorata per quasi due millenni. Ora, è divenuta scienza che si completa con settori disciplinari sempre più vasti. Con la nascita delle varie scienze dell’educazione (psicologia, sociologia, antropologia, biologia, etc.) il quadro della disciplina è mutato e si verificata un’evoluzione continua e lenta. Nel panorama attuale la riflessione pedagogica può essere ricondotta a quattro correnti principali: pedagogie tradizionali, pedagogie sperimentali, pedagogie analitiche e pedagogie critiche. Le pedagogie tradizionali sono dette tali perché, pur elaborando tematiche rispondenti alle esigenze tradizionali, assumono modelli e ideali già collaudati. In questa prospettiva l’educazione viene vista come un processo intenzionale finalizzato a un ideale o un progetto da realizzare. Nel panorama attuale, infatti, ancora si trova un filone di pensiero che concepisce la pedagogia come filosofia di valori di cui l’uomo non è artefice. E in questo filone di pensiero si cerca di superare in termini tradizionali conflitti e tensioni in campo educativo, cercando di risolvere problemi socio-educativi senza attaccare l’ortodossia religiosa. Appartengono a questo filone le pedagogie cristiane e quelle che si rifanno a una teoria antropologica, come il razzismo, o sociale, come il comunismo. È importante l’opera di Don Milani e di Paulo Freire che vogliono dare alle fasce più disagiate una via di riscatto attraverso un’alfabetizzazione volta a creare una presa di coscienza della propria condizione. Le pedagogie sperimentali, invece, sperano di poter giungere a soluzioni universalmente valide e indubitabili pur non escludendo aggiornamenti e revisioni varie. L’attenzione di questi studiosi si rivolge principalmente alla ricerca e alla validazione di nuovi procedimenti per il raggiungimento di alcuni obiettivi didattici. Le pedagogie analitiche si caratterizzano per l’analisi scientifica del linguaggio pedagogico e si interessano preminentemente a un’analisi critica del lessico pedagogico come presupposto per evitare incomprensioni ed equivoci. 61 Le pedagogie critiche comprendono tutti quei pedagogisti che, partendo da una contestazione radicale di altre posizioni pedagogiche, hanno tentato di elaborare proposte o prospettive diverse che, talvolta, si caratterizzano più per ciò che intendono rifiutare che per ciò che positivamente promuovono o ricercano. Abbiamo visto che la pedagogia è una scienza complessa e come tale sono complesse le relazioni che ha instaurato con le altre discipline per il raggiungimento del suo fine ultimo, cioè l’educazione del fanciullo. Una delle discipline che è necessario tenere presente è la psicologia, in quanto essa ha contribuito allo sviluppo e all’ampliamento del campo d’indagine. La parte della psicologia che la pedagogia ha tenuto e deve sempre tenere in grande considerazione è la psicologia dello sviluppo e dell’apprendimento. La nascita della psicologia dello sviluppo venne stimolata intorno alla seconda metà dell’Ottocento dalla teoria dell’evoluzione di Darwin e dal fenomeno della scolarizzazione di massa. Fu Herbert Spencer nel 1852 a dare per primo la definizione del termine evoluzione come quel fenomeno che consiste in un mutamento da un’omogeneità incoerente a un’eterogeneità coerente, attraverso continue differenziazioni ed integrazioni. Spencer sottolineava, inoltre, come l’evoluzione riguardasse sia il mondo biologico sia il contesto sociale nel quale ogni individuo è inserito. La psicologia dello sviluppo ha avuto un’evoluzione autonoma dalla psicologia generale, dalla quale sin dall’inizio si è distinta sia per l’oggetto di indagine cioè il comportamento del bambino sia soprattutto per il metodo, caratterizzato da un metodo biografico e dall’osservazione del comportamento spontaneo del bambino. L’analisi psicologica delle varie fasi di vita e del percorso evolutivo ha rilevato come sia semplicistico distinguere due grandi fasi: l’immaturità e la maturità. La fase immatura, cioè quella infantile, è caratterizzata dal cambiamento mentre quella matura o adulta è caratterizzata, invece, da stabilità ed equilibrio. Secondo tale prospettiva lo sviluppo seguirebbe una traiettoria lineare che va dal cambiamento dell’età infantile o immatura verso un maggior livello di equilibrio, cioè età matura o adulta, anche se nell’età adulta si possono vivere dei cambiamenti. Ogni età ha la propria specificità con prerogative proprie, irripetibili e con compiti specifici. La vita umana costituisce un percorso evolutivo che non si snoda in modo lineare, ma che, invece, presenta continui cambiamenti sotto la spinta di fattori interni ed eventi esterni. Il passaggio da uno stadio all’altro avviene mediante un processo di ristrutturazione globale che coinvolge tutta la persona, rimettendo sempre in discussione gli equilibri e le sintesi precedenti. Sono proprio queste fasi di passaggio o transizioni a determinare i compiti di sviluppo che possiamo definire abilità psicosociali che, insieme agli eventi critici, consentono di raggiungere la fase successiva. Questi periodi di transizione sono abitualmente cruciali e decisivi per il successivo sviluppo 62 della persona ma sono caratterizzati anche da difficoltà, sofferenza e confusione. Il concetto di maturità è, dunque, collegato allo svolgersi della vita psichica umana, alla fase evolutiva e alla specificità del soggetto. Alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso si è attuato il passaggio dalla psicologia evolutiva, o psicologia dello sviluppo, a quella del ciclo di vita. Con la psicologia dello sviluppo si dava maggiore attenzione allo sviluppo inteso come processo che interessava l’individuo dai primi anni di vita fino all’età matura in cui egli raggiungeva il suo pieno sviluppo somato-psichico. Il dare allo sviluppo un termine con la maturità sembrò riduttivo e questa teoria evolutiva fu sostituita dalla psicologia dell’arco di vita, in quanto si capì che era necessario prestare attenzione all’evoluzione della persona lungo tutto il suo arco di vita, dal concepimento all’età senile. La psicologia dell’età evolutiva si occupava di osservare e studiare ciò che avviene dalla fase dell’infanzia fino all’adolescenza fase che si concludeva al diciottesimo anno di età, anche se oggi si parla di “tarda adolescenza”, estendendo le caratteristiche dell’adolescenza fino al venticinquesimo anno di età e considerava concluso il percorso di crescita con il raggiungimento della maturità nell’età adulta. La psicologia del ciclo di vita, invece, che ha ricevuto un decisivo impulso dalla teoria di Erik Erikson (1902-1994), studia le diverse tappe dell’esistenza distinte in base a specifici passaggi evolutivi o dilemmi. La psicologia dell’arco di vita, con il contributo di Lev Vygotskij (1896-1034) e privilegiando i fattori sociali e culturali, sottolinea come le fasi di sviluppo non possano distinguersi in base all’età cronologica in quanto la crescita continua e durante la quale lo sviluppo si manifesta come un processo dinamico costituito da una serie di cambiamenti che avvengono in ciascuna delle fasi principali della vita. Si parla oggi, inoltre, di teoria dei sistemi evolutivi e di contestualismo evolutivo per cui lo sviluppo implica processi di trasformazione incrementali che producono una successione di cambiamenti tali da rendere più complessa l’articolazione dei tratti strutturali e funzionali della persona e le sue interazioni con l’ambiente, mantenendo allo stesso tempo un’organizzazione coerente come un tutto inscindibile. La psicologia dello sviluppo nel ciclo di vita guarda, dunque, ai processi di sviluppo che consentono di andare verso una prospettiva del ciclo di vita (life span development) e osserva i cambiamenti lungo tutto l’arco di vita della personalità umana, gli sviluppi di capacità e il continuo interagire con gli stimoli ambientali. In base alle principali teorie dello sviluppo è possibile distinguere almeno cinque momenti: - infanzia: durante la quale il processo di adattamento all’ambiente nel bambino è 65 geneticamente determinati. I bambini di 4-6 mesi, ad esempio, hanno la capacità innata di discriminare fonemi non presenti nella propria lingua, capacità che perdono a 10-12 mesi in quanto non hanno ricevuto stimolazioni dall’ambiente. Il modello interazionista indaga l’influenza che l’esperienza può avere su un’abilità che secondo le fasi biologiche deve ancora maturare, che è in fase di maturazione o che ha completato il processo di maturazione. Un’abilità può iniziare a svilupparsi dopo il contatto con una certa esperienza (induzione); oppure può accelerare il suo sviluppo dopo un’esperienza (facilitazione); infine, si può perdere in mancanza di una certa esperienza (perdita). Tutti questi studi sono correlati dalla scoperta della plasticità del cervello e quindi dalla convinzione che la corteccia cerebrale, anche degli adulti, ha un discreto grado di equipotenzialità, cioè può riorganizzarsi in funzione dell’esperienza e delle stimolazioni ricevute per svolgere nuove funzioni. La plasticità del cervello consente all’uomo di adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali e conferma che non è possibile avere rigidi modelli universali del comportamento umano che presenta, invece, un grado di flessibilità tale da rendere complesso il discorso sullo sviluppo dell’organismo umano. Un individuo, ad esempio, può reagire ad uno stimolo in base alla propria esperienza in un modo diverso da come reagiscono gli altri. In relazione al problema della continuità e discontinuità nello sviluppo ci sono teorie per cui lo sviluppo è continuo e persistono nel tempo funzioni e processi, che sono misurabili nel corso dello stesso: ad esempio, la durata dell’attenzione visiva nella prima infanzia risulta predittiva delle capacità verbali e intellettive in età scolare. Le teorie che considerano lo sviluppo come continuo in genere prevedono un accrescimento quantitativo. Parlare dello sviluppo come discontinuo, invece, significa in genere considerare i cambiamenti qualitativi come si riscontra nella teoria di Piaget. È interessante comprendere anche l’andamento dello sviluppo corporeo e come esso incida su quello della psiche. Lo sviluppo corporeo, infatti, procede parallelamente allo sviluppo psichico durante tutta la durata della vita. È necessario distinguere il concetto di sviluppo da quello di accrescimento (o crescita). Lo sviluppo rimanda a processi complessi che comportano l’acquisizione da parte dell’individuo degli strumenti necessari per l’adattamento all’ambiente; l’accrescimento, invece, rimanda più a un incremento somatico di tipo quantitativo. Sviluppo e crescita si integrano e si interconnettono con tutti gli aspetti emozionali, comportamentali e psichici della persona. La scienza che studia l’accrescimento corporeo è l’auxologia, che si basa su un approccio multidisciplinare e sull’osservazione del modo in cui crescono gli individui secondo 66 determinate variabili (peso, statura, circonferenza cranica, ecc.). Tale processo caratterizza la trasformazione progressiva dell’organismo, dal concepimento all’età adulta ed è di tipo dinamico e non lineare in quanto i tempi di sviluppo dei diversi organi e apparati sono diversi. Sulla base di studi e osservazioni da parte di diversi autori sono state individuate le tappe dello sviluppo corporeo, regolate dalle cosiddette leggi dell’accrescimento: - la Legge di Viola, secondo la quale lo sviluppo ponderale e la differenziazione morfologica sono in un rapporto inverso di intensità. Le fasi in cui prevale l’aumento di peso e non la differenziazione delle forme sono seguite da fasi in cui la massa aumenta di poco e prevale la differenziazione morfologica; - la Legge delle due costellazioni morfogenetiche endocrine, formulata da Pende, prevede che vi siano due tipologie di ormoni che stimolano una la crescita ponderale e l’altra la differenziazione morfologica; - la Legge delle piccole e delle grandi alternanze, formulata da Godin, sostiene che il processo di allungamento e ingrossamento delle ossa avviene a fasi semestrali e in modo alternato: se in una fase un osso si ingrossa e un altro si allunga, nel semestre successivo avviene l’inverso. Nel complesso le tappe dello sviluppo corporeo sono illustrate nella classificazione di Carl Heinrich Stratz (1858-1924) che individua 4 diverse fasi: 1. turgor primus (fino ai 4 anni): prevale l’aumento ponderale all’allungamento staturale; 2. proceritas prima (dai 5 ai 7 anni): i rapporti si invertono e prevale l’aumento staturale; 3. turgor secundus (dagli 8 agli 11 anni): prevale nuovamente un aumento di peso, corrispondente alla fase prepuberale e puberale, in cui il ragazzino e la ragazzina si preparano alla maturazione sessuale; 4. proceritas secunda, aumenta velocemente la statura che raggiunge quella adulta definitiva, mentre ancora siamo in presenza di una struttura funzionale (cardiaca e muscolare in particolare) non ancora adeguata. Anche a causa dell’intensa carica emozionale che caratterizza questa fase, il ragazzo appare maldestro e scoordinato. Lo sviluppo fisico e motorio dipende in larga misura dalla maturazione biologica, ma anche dall’esercizio e, dunque, le stimolazioni da parte dell’ambiente sociale possono facilitare l’acquisizione di capacità motorie. In definitiva, il comportamento motorio dell’adulto, è il risultato di un lungo e complesso processo di maturazione fisica, psichica e cognitiva. La motricità nel neonato si esprime attraverso i riflessi presenti sin dalla nascita: il riflesso della ricerca del seno, il riflesso di afferramento, il riflesso di Moro (il neonato protende le braccia in avanti quando cade all’indietro) e il riflesso del camminare. 67 Già a tre mesi compaiono i primi movimenti volontari e finalizzati, mentre i riflessi vanno via via scomparendo. I primi movimenti volontari sono la prensione, il raggiungimento della posizione eretta e, poi, la deambulazione. A poco a poco, durante la prima infanzia, i movimenti diventano sempre più precisi, fluidi e coordinati. Dai sei anni di età si definisce la lateralizzazione e la dominanza emisferica e si evolve considerevolmente la coordinazione motoria che porta allo sviluppo della motricità fine che è espressa nel disegno e nella scrittura, ad esempio, della corsa, del salto, delle prese e dei lanci. Dagli otto anni in poi si osservano un miglior controllo motorio e anche una maggiore ampiezza e precisione delle prestazioni fisiche, facilitate anche da una maggiore ricerca del risultato e del successo che è caratteristica di questa fase dal punto di vista psicologico. L’insegnante dovrà tener conto di questo rapido sviluppo e favorirlo aiutando il fanciullo nel raggiungimento di quelle competenze che ancora devono emergere e svilupparsi, prima fra tutte lo schema corporeo. Si deve a Schilder l’elaborazione del concetto di schema corporeo che comportò una visione globale e interdisciplinare che supera la scissione soma-psiche. Schilder ritiene, infatti, che lo schema corporeo si costituisca non solo sulla base delle sensazioni (cinestesiche, tattili, ecc.), ma, soprattutto, mediante l’integrazione di queste sensazioni con i vissuti esistenziali ed emotivi del singolo soggetto. Il concetto di schema corporeo venne sviluppato da Merleau-Ponty in una prospettiva gestaltica: lo schema corporeo, infatti, “non sarà più il semplice risultato delle associazioni stabilite nel corso dell’esperienza, ma una presa di coscienza globale della mia postura nel mondo intersensoriale” (Merleu- Ponty, 1965, p. 153) Il corpo è sentito e vissuto non solo perché è situato nel mondo, ma anche perché è orientato verso uno scopo. È nell’azione e nel movimento che si comprende il concetto di schema corporeo. Lo schema corporeo si costruisce gradualmente. Secondo Salonia (2011) un bambino che è stato visto nel suo corpo, confermato con le parole e il contatto fisico, incoraggiato a sperimentare le proprie potenzialità (muoversi, manipolare l’ambiente) costruirà uno schema corporeo vitale, integrando corpo reale e corpo vissuto. Ciò significa che il modo in cui noi percepiamo e ci rappresentiamo il nostro corpo deriva anche da come lo percepiscono gli altri, dai messaggi che mi comunicano e dall’esperienza corporea che ho fatto. La formazione dello schema corporeo va di pari passo con lo sviluppo dell’identità corporea. 70 I due processi sono strettamente interconnessi in tutte le operazioni cognitive e l’adattamento è dato da un equilibrio fra essi: i tentativi compiuti per assimilare la realtà comportano piccole modifiche nelle strutture cognitive in quanto esse si adeguano a elementi nuovi. Nel suo approccio egli si muove all’interno dello strutturalismo (cfr. Levi-Strauss e De Saussure) che è interessato a come le parti sono organizzate in un tutto. Con lo sviluppo cambia la natura delle strutture cognitive che Piaget definisce schemi e che sono pattern organizzati di comportamento che riflettono un particolare modo di interagire con l’ambiente, ad esempio lo schema del succhiare. Con la crescita man mano gli schemi si differenziano e il bambino, ad esempio, distingue quali sono gli oggetti da succhiare. Secondo la teoria di Piaget lo sviluppo cognitivo avviene attraverso una serie di stadi che sono ben differenziati tra di loro e sono periodi di tempo in cui il pensiero e il comportamento del bambino riflettono un tipo particolare di struttura mentale. Il passaggio da uno stadio a un altro implica un cambiamento strutturale e, anche se ciascuno stadio deriva dallo stadio precedente, questo lo incorpora e lo trasforma. Per questo motivo gli stadi seguono una sequenza invariante e universale. Vi possono essere delle differenze individuali imputabili solo alla velocità con cui le persone progrediscono attraverso gli stadi. Riteniamo sia necessario descrivere brevemente gli stadi piagettiani. Nel periodo senso-motorio (dalla nascita ai 2 anni circa) il bambino, che alla nascita non conosce nulla del mondo, ha un grande potenziale che gli permette di conoscere ogni cosa. Egli progredisce attraverso sei stadi nella costruzione di un pensiero senso motorio. 1. 0-1 mese: modificazione dei riflessi. Il neonato è un fascio di riflessi che sono risposte fisse attivate da stimoli particolari e che vengono attivati un certo numero di volte (ad esempio il riflesso della suzione). Questi riflessi sono inizialmente generalizzati e, via via, si differenziano in quanto aumenta la capacità di discriminare gli oggetti del mondo (dito, tettarella, ciuccio, seno, etc.). 2. 1-4 mesi: reazioni circolari primarie. Il bambino scopre per caso un risultato interessante da qualche suo comportamento e allora tenta di ottenerlo nuovamente (ad esempio: succhiarsi il dito, ascoltare i propri vocalizzi). 3. 4-8 mesi: reazioni circolari secondarie. Mentre le reazioni circolari primarie sono centrate sul corpo del neonato, le reazioni circolari secondarie sono centrate sul mondo esterno (ad esempio: suonare un sonaglio). 4. 8-12 mesi: coordinazione degli schemi secondari. Sorge l’intenzionalità e la capacità di anticipare gli eventi e di pianificare le azioni per ottenere uno scopo. Il bambino, in questa fase, è in grado di distinguere mezzi e fini. 71 5. 12-18 mesi: reazioni circolari terziarie. La distinzione tra mezzi e fini è finalizzata a trovare nuovi mezzi (ad esempio, il bambino tira la coperta per avvicinare un oggetto che vi si trova sopra). Il bambino si comporta come uno scienziato che deliberatamente agisce per prove ed errori per vedere quali sono i risultati della sua sperimentazione. 6. 18-24 mesi: invenzione di mezzi nuovi mediante combinazioni mentali. Il bambino abbandona i tentativi per prove ed errori e utilizza simboli mentali per rappresentarsi oggetti ed eventi così il suo pensiero comincia a non essere più manifesto. Nel periodo senso motorio il bambino acquisisce la nozione di oggetto permanente: un oggetto continua ad esistere anche quando non è visto o da lui sentito. Egli gradualmente, inoltre, capisce che le sue azioni, ed egli stesso, sono separati dall’ambiente. Il periodo successivo viene definito da Piaget come periodo preoperazionale (dai 2 ai 7 anni circa). In questo periodo il bambino acquisisce la funzione semiotica cioè la capacità di servirsi di un oggetto o di un evento al posto di un altro: un significante evoca un significato. I significanti possono essere parole, gesti, immagini mentali e oggetti e sono di due tipi: simboli e segni. I simboli hanno una certa somiglianza con gli oggetti o eventi che sostituiscono, mentre la relazione tra questi ultimi e i segni è arbitraria. Mentre i simboli compaiono nel gioco simbolico, i segni sono più difficili da apprendere perché il bambino piccolo pensa che il nome di un oggetto sia intrinseco all’oggetto stesso. In questa fase lo sviluppo del pensiero rappresentativo permette l’acquisizione del linguaggio, quindi per Piaget il pensiero precede il linguaggio e non dipende da esso. Caratteristica del bambino in questa fase è l’egocentrismo che non ha accezione negativa in quanto egli tende a percepire e interpretare la realtà solo dal proprio punto di vista, senza riuscire a mettersi nei panni degli altri. Nel periodo delle operazioni concrete (dai 7 agli 11 anni circa) il bambino gradualmente impara ad utilizzare le operazioni, cioè azioni interiorizzate che fanno parte di una struttura organizzata. Per verificare se il bambino ha acquisito la capacità di utilizzare le operazioni, Piaget ricorre al compito della conservazione: sotto gli occhi del bambino viene travasato il liquido da un recipiente ad un altro di forma diversa. Il bambino che “conserva” valuterà anche la forma del secondo contenitore, il bambino che “non conserva” valuterà, invece, solo il livello del liquido. Altre operazioni sono quelle matematiche del sommare, sottrarre, moltiplicare, dividere e ordinare. Il bambino, anche nell’ambito della sfera sociale, è decentrato. Le operazioni che è in grado di fare, tuttavia, rimangono a livello concreto, reale o rappresentato e coinvolgono solo ciò che è e non ciò che potrebbe essere. Secondo Piaget in quello da lui definito periodo delle operazioni formali (dagli 11 ai 15 anni 72 circa) il pensiero diventa logico, astratto e ipotetico. L’adolescente, in grado di utilizzare un pensiero ipotetico-deduttivo, sa risolvere un problema geometrico, sa valutare sillogismi e sa prendere in considerazione idee astratte. Egli sogna del suo futuro e immagina se stesso in vari ruoli sociali e lavorativi e discute di varie questioni morali, etiche e politiche. È capace di riflettere sul proprio e sull’altrui pensiero, tuttavia permane ancora una traccia di egocentrismo nel sottovalutare i problemi pratici e nell’immaginare e voler raggiungere un ideale di sé e del mondo. Piaget non è stato esente da critiche e queste riguardano, soprattutto, l’aver centrato la sua teoria sullo sviluppo cognitivo senza prestare attenzione alla sfera affettiva. Altro importante psicologo da dover esaminare per cogliere appieno lo sviluppo cognitivo dell’infante e come esso si rapporti al mondo sin dalla più tenera età è Vygotskij e la sua teoria storico-culturale. Egli sottolinea l’importanza delle condizioni materiali di vita e delle variabili contestuali che influenzano lo sviluppo delle strutture mentali e della personalità. L’ambiente a cui lui fa riferimento, però, non è quello dei comportamentisti, in quanto ha più una prospettiva socio-culturale perché si riferisce ai concreti rapporti sociali che riflettono la particolare organizzazione del lavoro e la particolare configurazione storica della società. Vygotskij pone attenzione ai processi cognitivi, specie quelli più complessi, prodotti e regolatori del rapporto tra organismo e ambiente. Fra tutti i processi cognitivi egli dà un’importanza fondamentale al linguaggio che dapprima svolge una funzione interpsichica di comunicazione e, poi, viene interiorizzata come funzione intrapsichica di regolazione del pensiero. A differenza di Piaget, quindi, il linguaggio precede il pensiero. Proprio come due persone comunicano tra loro il bambino comunica con se stesso pensando. Per Vygotskij il linguaggio è lo strumento psicologico più importante in quanto libera dall’esperienza immediata, che è percettiva, rendendo possibile la rappresentazione di questa e il linguaggio costruisce il pensiero, organizzando le categorie, rappresentando il passato e progettando il futuro. Per Vygotskij, così come per i contestualisti in generale, l’unità di analisi più piccola è il “bambino-in-un-contesto” in quanto la mente è per sua natura sociale ed è difficile dire dove finisca e dove inizi il mondo esterno. Le pratiche educative che cambiano nelle varie società, in senso diacronico e geografico, incidono direttamente sui pensieri dei bambini. L’interazione tra il bambino e l’adulto o tra bambini in senso interpsichico viene internalizzata sul piano intrapsichico e, in questo senso, il pensiero è sempre sociale e riflette la cultura in cui opera la diade. Secondo Vygotskij: - pensiero e linguaggio all’inizio sono indipendenti: il pensiero non è verbale e il 75 dividendo l’età mentale per l’età cronologica e moltiplicando il valore ottenuto per cento che è il punteggio medio ottenibile. Merito di Binet fu quello di avere avviato lo studio psicometrico dell’intelligenza che ha portato allo sviluppo delle teorie e dei reattivi successivi e a un dibattito non ancora concluso. Secondo alcuni autori, primo fra tutti Spearman, esiste un’intelligenza generale cioè una componente unitaria che è costituita da varie abilità fra di loro correlate proprio perché fanno capo ad una componente comune: l’intelligenza generale. Secondo altri autori, inoltre, vi sarebbero componenti diverse dell’intelligenza o, addirittura, intelligenze diverse e in alcuni soggetti queste possono svilupparsi in modo diverso tra di loro. Riveste una grande importanza anche il contesto culturale e sociale che può stimolare alcune componenti più di altre. Queste idee sono proprie dei modelli di Stenberg e di Gardner e risultano molto utili all’interno della psicologia dell’educazione perché fanno riflettere sull’importanza di utilizzare moduli diversi, di valorizzare i vari tipi di intelligenza e di riconoscere le capacità di ciascun alunno. Secondo Robert Sternberg (1949), l’intelligenza si esprime attraverso tre modalità fondamentali: − analitica, che è la capacità di scomporre, confrontare, esaminare, scendere nei dettagli, giudicare, valutare, chiedersi e spiegarsi il perché delle cose e spiegarne le cause; − abilità pratica che permette di usare strumenti, di saper organizzare, attuare progetti concreti e dimostrare come si fa; − creativa è quella che permette l’intuizione, l’immaginazione, la scoperta, l’abilità a produrre il nuovo, il saper ipotizzare, saper immaginare e saper inventare. Altro contributo importante allo studio dell’intelligenza è quello di Howard Gardner (1943). Secondo Gardner non esiste qualcosa chiamata “intelligenza” che possa essere obiettivamente misurata e ricondotta a un singolo numero (Q.I.), ma tutti possiamo sviluppare le nostre diverse intelligenze se siamo messi nelle condizioni appropriate di incoraggiamento, arricchimento e istruzione. Secondo l’autore, ciascuno è dotato di almeno sette intelligenze diverse, ossia è intelligente in sette modi diversi. 1. Intelligenza logico/matematica: capacità di usare i numeri in maniera efficace e di saper ragionare bene. Questa intelligenza include sensibilità verso principi e relazioni e abilità nella valutazione di oggetti concreti o astratti. Comprende: - il riconoscimento di modelli astratti; - il ragionamento induttivo; - il ragionamento deduttivo; 76 - il saper discernere relazioni e connessioni; - il saper svolgere calcoli complessi; - il pensiero scientifico e amore per l’investigazione. 2. Intelligenza linguistico/verbale: Capacità di usare le parole in modo efficace sia oralmente sia per iscritto. Questa intelligenza include padronanza nel manipolare la sintassi o la struttura del linguaggio, la fonologia, i suoni e la semantica. Comprende: - la facilità di parola; - il saper spiegare, insegnare e apprendere verbalmente; - il saper convincere altri (linguaggio e scrittura persuasiva); - l’analisi meta-linguistica; - lo humour basato sulla lingua; - la memoria verbale. 3. Intelligenza cinestetica: abilità nell’uso del proprio corpo per esprimere idee e sentimenti e, inoltre, facilità a usare le proprie mani per produrre o trasformare cose. Questa intelligenza include specifiche abilità fisiche quali la coordinazione, la forza, la flessibilità e la velocità. Comprende: - il controllo dei movimenti del corpo “volontari”; - i movimenti del corpo “pre-programmati”; - l’esternazione della consapevolezza attraverso il corpo; - la connessione mente-corpo; - le abilità mimetiche; - il perfezionamento delle funzioni del corpo. 4. Intelligenza visivo/spaziale: abilità a percepire il mondo visivo/spaziale accuratamente e a operare trasformazioni su quelle percezioni. Questa intelligenza implica sensibilità verso il colore, la linea, la forma e lo spazio. Include la capacità di visualizzare e rappresentare idee in modo visivo e spaziale. Comprende: - l’immaginazione attiva; - il saper trovare la propria strada nello spazio (forte senso dell’orientamento); - il formare immagini mentali (visualizzare); - il rappresentare graficamente (pittura, disegno, scultura); - il riconoscere relazioni di oggetti nello spazio; - la manipolazione mentale degli oggetti; - l’accurata percezione da angoli diversi; - la memoria visiva. 77 5. Intelligenza musicale: capacità di percepire, discriminare, trasformare ed esprimere forme musicali. Capacità, inoltre, di discriminare con precisione altezza dei suoni, timbri e ritmi. Comprende: - l’apprezzamento per la struttura della musica e del ritmo; - la sensibilità verso i suoni e i modelli vibratori; - il riconoscimento, creazione e riproduzione di suono, ritmo, musica, toni e vibrazioni; - l’apprezzamento delle caratteristiche qualità dei toni e dei ritmi. 6. Intelligenza intrapersonale: riconoscimento di sé e abilità ad agire adattativamente sulla base di quella conoscenza. Avere un’accurata descrizione di sé, coscienza dei propri stati d’animo più profondi, delle intenzioni e dei desideri; capacità per l’autodisciplina, la comprensione di sé e l’autostima. Abilità di incanalare le proprie emozioni in forme socialmente accettabili. Comprende: - la concentrazione mentale; - il saper essere memore e attento; - la metacognizione (“pensare al pensare”); - la coscienza e discriminazione della gamma delle proprie emozioni; - la coscienza delle aspettative e delle motivazioni personali; - il senso del sé; - la coscienza spirituale. 7. Intelligenza interpersonale: abilità di percepire e interpretare gli stati d’animo, le motivazioni, le intenzioni e i sentimenti altrui. Ciò può includere sensibilità verso le espressioni del viso, della voce, dei gesti e abilità nel rispondere agli altri efficacemente e in modo pragmatico. Comprende: - la comunicazione verbale/non verbale efficace; - la sensibilità verso gli stati d’animo, i sentimenti, i temperamenti altrui; - il saper creare e mantenere la “sinergia”; - il profondo ascolto e profonda comprensione delle prospettive altrui; - l’empatia; - il lavorare in gruppo in modo cooperativo. A queste sette intelligenze Gardner ha aggiunto l’intelligenza naturalistica, che è la capacità di riconoscere e classificare gli oggetti naturali quali piante, animali, ecc., e l’intelligenza esistenziale, ossia la capacità di riflettere sulle questioni fondamentali dell’esistenza e di ragionare per categorie universali. 80 quale possono interferire emozioni negative nel caso in cui esse non vengono controllate e specialmente quando le situazioni diventano particolarmente frustranti. La motivazione è strettamente connessa al concetto di autoefficacia di Bandura. 4. Riconoscimento delle emozioni altrui: empatia, che si riferisce alla capacità di sentire le emozioni di un’altra persona, che non può prescindere dalla capacità di sentire le proprie emozioni, specialmente attraverso il canale non verbale; per poter condividere le emozioni, è necessario infatti avere chiaro il confine tra me e l’altro e l’empatia è alla base della gestione delle relazioni. 5. Gestione delle relazioni: è considerata da Goleman un’arte, che può svilupparsi se sono presenti altre due capacità: l’autocontrollo e l’empatia, che emergono a partire dai due anni di età. Per Goleman l’intelligenza emotiva può essere allenata e potenziata in tutte le fasi della vita, ma è durante l’infanzia che il bambino ha la massima capacità di apprendimento per cui è un momento cruciale e delicato dello sviluppo di questa. Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della psicoanalisi, ha dato vita non solo ad un nuovo metodo terapeutico, ma anche ad una chiave di lettura della psiche e della civiltà umana da cui non si può prescindere in quanto ha permeato tutta la cultura del Novecento. Per quanto riguarda il riferimento di Freud all’educazione, egli nella sua “Introduzione alla psicoanalisi” (1915) definisce l’applicazione della psicoanalisi alla pedagogia come un argomento da tenere in grande considerazione in quanto importantissimo e ricco di promesse per il futuro e lo ritiene, inoltre, uno dei compiti più importanti per la sua psicoanalisi. In realtà l’educazione, per Freud, fino ad allora aveva fallito nel suo compito e aveva arrecato molti danni ai bambini. L’eccessiva repressione delle pulsioni, infatti, aveva prodotto un disagio che spesso si esprimeva nella nevrosi vera e propria dell’adulto. Egli sottolinea l’importanza della vita infantile non perché ebbe a che fare con i bambini, ma perché, nel trattamento delle nevrosi nell’adulto, l’analisi delle cause dei sintomi lo conduceva sempre puntualmente all’infanzia del paziente. È per questo che egli attribuisce molta importanza all’infanzia, in particolare ai primi cinque anni di vita. Il difficile, quasi impossibile, compito dell’educazione è quello di insegnare al bambino a padroneggiare le proprie pulsioni, ad inibirle e a reprimerle. La repressione delle pulsioni, infatti, conduce alla nevrosi e la pedagogia dovrebbe muoversi nel difficile equilibrio tra il lasciar fare e il proibire ricercando di volta in volta la giusta proporzione, decidendo cosa proibire, quando e in quali modi e considerando anche che ogni soggetto è unico e non esiste un metodo educativo universalmente valido. 81 Freud arriva alla conclusione che l’unica preparazione adeguata alla professione di educatore è un addestramento psicoanalitico approfondito perché se gli insegnanti e gli educatori in genere sperimentano, innanzitutto, sulla propria pelle l’analisi, allora potranno comprendere gli errori della propria educazione e così tratteranno i loro figli e i loro alunni con maggior consapevolezza, risparmiando a questi ultimi ciò che hanno subito loro da piccoli. La teoria di Freud poggia su due famosi modelli che descrivono la psiche dell’uomo: le due topiche freudiane. La prima distingue Conscio, Preconscio e Inconscio: - il sistema psichico Conscio comprende i contenuti psichici di cui il soggetto ha coscienza; - il Preconscio contiene quei contenuti che facilmente senza resistenza e senza aiuti esterni possono affiorare alla coscienza; - l’Inconscio, infine, include tutti quei contenuti che, pur non compresi nel campo attuale della coscienza, sono dinamicamente attivi e cioè esercitano una certa pressione per poter diventare coscienti. Essi incontrano delle resistenze e spesso riescono a esprimersi solo attraverso dei derivati, quali il sogno, il sintomo, il lapsus, etc. Freud dà ampio spazio ai meccanismi di difesa tra i quali la rimozione è il principale in quanto porta a rendere inconscio un contenuto inaccettabile alla coscienza morale del soggetto che Freud nella seconda topica definisce Super-Io. La seconda topica, dunque, comprende Es, Io e Super-Io: - l’Es è completamente inconscio e comprende tutte le pulsioni del soggetto sia quelle innate sia quelle rimosse. Egli raggruppa le pulsioni in sessuali e aggressive; - l’Io è il mediatore tra le istanze dell’Es e del Super-Io e tra mondo interno e realtà esterna. È in parte conscio e in parte inconscio. È l’Io, infatti, che ha le varie funzioni psichiche coscienti quali percezione, attenzione, vigilanza, memoria, ecc., ma è anche l’Io che mette in atto i meccanismi di difesa tesi a contrastare l’angoscia legata ai vari conflitti che possono crearsi tra Es e Super-Io e tra interno ed esterno; - il Super-Io è in buona parte inconscio e deriva dall’interiorizzazione di divieti, proibizioni, principi dei genitori e della società. Rappresenta la coscienza morale e comprende la sfera degli ideali. Freud nei Tre saggi sulla sessualità (1905) delinea delle fasi di sviluppo psicosessuale considerate fondamentali per lo sviluppo della vita psichica. Le fasi si avvicendano in base alla parte del corpo su cui si concentra la libido (energia sessuale). Nella sua teoria egli ritiene che la carica libidica legata a una zona non scompaia del tutto. Può accadere, inoltre, che rimanga 82 fissata e, quindi, non trovi sfogo (dando luogo a ciò che egli definisce fissazione) e ciò comporta una regressione alla fase di sviluppo precedente e comporta la formazione di sintomi nevrotici e, quindi, una psicopatologia. Le tre fasi dello sviluppo che sono alla base della teoria freudiana sono: - fase orale (0-18 mesi). La libido è localizzata su bocca, labbra e lingua per cui il bambino raggiunge una gratificazione erotica dalla stimolazione di tali zone, dette erogene. Il bambino esplora il mondo con la bocca e per questo porta tutto alla bocca. Questa è la prima modalità di relazione con il mondo e, con la comparsa dei denti, il bambino inizia a provare piacere a mordere e masticare e inizia la fase definita sadico- orale. Da un punto di vista psicologico la fase orale ha a che fare con alcuni tratti depressivi, quali la tendenza al vittimismo e la dipendenza. - fase anale (18-36 mesi circa). Durante questa fase le tensioni e gratificazioni sessuali si localizzano nella zona anale in concomitanza con l’acquisizione del controllo degli sfinteri. Dopo l’anno e mezzo di vita, infatti, le sensazioni di piacere/dispiacere sono associate all’espulsione e ritenzione delle feci, le quali rappresentano un oggetto di forte interesse per il bambino. La capacità di controllare volontariamente la defecazione è alla base dello sviluppo dell’autonomia e dell’autostima, infatti, la decisione di defecare o meno costituisce simbolicamente la capacità di opporsi o di accondiscendere ai dettami dei genitori e della società in genere. La fissazione (o regressione) in questa fase, secondo Freud, causata da un’eccessiva imposizione o comunque dall’incapacità di risolvere i conflitti tipici di questo periodo, può avere due destini: la fissazione anale espulsiva che è legata all’eccessivo permissivismo, e la fissazione anale ritentiva che è causata, al contrario, da un’educazione rigida. La prima si manifesta con la tendenza a defecare nei luoghi più disparati e, nell’adulto, con una personalità disordinata, manipolativa, distruttiva e crudele. La seconda, invece, si manifesta con la tendenza a trattenere le feci e, nell’adulto, con una personalità ossessiva, eccessivamente organizzata e ordinata. - Fase fallica (3-6 anni circa): la libido comincia a concentrarsi sui genitali anche se in realtà l’oggetto di maggior interesse è rappresentato dal pene sia per i maschietti sia per le femminucce, le quali sperimentano l’invidia del pene. È in questa fase che si manifesta il complesso di Edipo (desiderio verso il genitore di sesso opposto e competizione con il genitore dello stesso sesso) dalla cui risoluzione dipenderà la salute 85 dell’individuo. Per la Klein vedremo che il fine delle pulsioni è il piacere e che l’oggetto è solo un mezzo per raggiungerlo. La Klein è stata la prima ad applicare la tecnica dei principi della psicoanalisi al trattamento del bambino e nel fare ciò ha incontrato molti ostacoli perché i bambini erano meno propensi a parlare degli adulti, ma più disposti ad agire e perciò vide nel gioco l’unico mezzo per accedere alle fantasie e alla vita interiore dei bambini. Il metodo privilegiato dagli psicologi del tempo per la psicoanalisi degli adulti, infatti, era il metodo delle libere associazioni. La Klein ha dato molta importanza alla vita fantasmatica del bambino che ha origine nei primissimi mesi di vita del bambino. Egli, infatti, in questo periodo ha una vita psichica particolarmente ricca di ciò che l’autrice definisce “fantasmi”, ossia immagini che il bambino sente come presenti, ma che sono irreali sul piano oggettivo-percettivo. Particolarmente importanti sono due oggetti fantasmatici: l’oggetto buono e l’oggetto cattivo. Il primo è il risultato di esperienze di piacere derivanti dal soddisfacimento dei suoi bisogni. Il secondo, invece, trae la sua origine da esperienze di frustrazione Nel pensiero della Klein sono presenti due posizioni, la posizione schizoparanoide e la posizione depressiva. La prima è presente all’incirca nei primi quattro mesi di vita e vede coincidere l’oggetto buono con la presenza fisica della madre e l’oggetto cattivo con la sua assenza. Dal momento che per il lattante è inaccettabile l’assenza della madre questa è scissa in due oggetti, uno buono e uno cattivo; ciò accade perché il bambino non è ancora in grado di accettare l’assenza della madre. L’oggetto buono è idealizzato e quello cattivo diventa la concretizzazione dell’odio assoluto. L’oggetto diventa persecutorio perché su di esso è proiettato l’odio del bambino e, a causa di ciò, diventa un oggetto persecutorio. Da ciò questa fase trae il suo nome, infatti ‘schizo’ significa proprio ‘scissione’. Nella posizione depressiva che è presente verso i 5-8 mesi del bambino, il bambino è in grado di integrare l’oggetto scisso, cioè la madre, che è sia fonte di soddisfazione sia fonte di frustrazione. Tale integrazione genera un senso di colpa che è legato al fatto che essa, odiata se fonte di insoddisfazione, è anche quella che fornisce cure e dedizione. Il bambino, che in questa fase percepisce la differenza tra il sé e l’altro, teme che il suo odio possa distruggere il suo oggetto d’amore, cioè la madre. Egli da un lato vorrebbe possedere questo oggetto d’amore, ma nel contempo teme di essere abbandonato e vuole proteggerlo dai suoi impulsi distruttivi. La posizione depressiva, inoltre, è caratterizzata da tre emozioni: - l’esperienza della colpa, legata alla possibilità che il bambino distrugga l’oggetto d’amore; - il lutto per aver perso la madre, dal momento che l’ha annientata; 86 - la riparazione, alla quale il bambino può ricorrere quando, con il ritorno della madre, si rende conto che l’amore per l’oggetto può ricostruirlo nonostante sia stato annientato dall’impulso distruttivo. Per la Klein, inoltre, sono fondamentali i sentimenti di invidia e gelosia. L’invidia deriva dalla pulsione di morte ed è un’energia distruttiva perché non potendo ottenere l’oggetto d’amore l’individua desidera la sua distruzione. La gelosia, invece, si fonda sull’amore che è pulsione di vita e in questo senso l’oggetto d’amore è desiderato tutto per sé e si desidera la distruzione di tutto ciò che si frappone tra sé e il possesso dell’oggetto amato. Per comprendere, infatti, appieno la psicologia kleiniana è soprattutto la parte concernente tali sentimenti dobbiamo tenere presente il rapporto dell’Io con l’oggetto e i sentimenti di amore e distruzione che derivano da esso. Riteniamo si opportuno riportare le parole della stessa Klein. “Dobbiamo ricordare che, in senso lato, l’odio è una forza distruttiva e disintegrante che tende verso la privazione e la morte, e l’amore una forza armonizzante, unificatrice e tendente alla vita e al piacere. […] Lo scopo fondamentale della vita è vivere e vivere piacevolmente. Nel tentativo di raggiungere questo, ognuno di noi cerca di affrontare le forze distruttive e di sistemarle dentro di sé sfogandole, deviandole e fondendole in modo da ottenere la massima sicurezza possibile nella vita, e magari anche nei piaceri; scopo questo che può essere raggiunto con infiniti adattamenti sottili e complicati. I differenti risultati in ogni individuo sono in complesso il prodotto della costante interazione, dalla nascita alla morte, di due fattori variabili: la forza delle tendenze amore e odio (le forze emotive in noi) e l’influenza dell’ambiente.” (Klein & Riviere, 1969, pp. 9-10) Per la Klein il conflitto amore-odio è generato dalla relazione oggettuale del bambino con il senso materno e, quindi, con la madre, relazione che come abbiamo già visto è alla base dello sviluppo dell’Io. Il seno è il prototipo della bontà materna e al bambino dà la prova costante della sua bontà e ciò contribuisce a creare il senso di sicurezza. L’esperienza emotiva del bambino è, quindi, caratterizzata dal continuo processo di perdita e riconquista dell’oggetto ed è il primo oggetto che coincide con il senso d’invidia. Invidia, avidità e impulsi distruttivi si auto potenziano e sono, quindi, interdipendenti e accrescono le difficoltà nel costruire l’oggetto buono. Dall’invidia del seno che nutre e dalla paura di averlo rovinato con i suoi sentimenti di odio nasce il senso di colpa nella fase schizoparanoide, in cui il bambino non ha i mezzi per elaborarlo. Soltanto nella fase depressiva potrà provare senso di colpa, ma anche speranza. La sanità psichica deriva, nella teoria kleiniana, dall’equilibrio tra pulsione di vita e pulsione di morte. Nella posizione schizoparanoide, in particolare, se l’invidia e le angosce persecutorie non sono bilanciate da esperienze di gratificazione il soggetto svilupperà una patologia di tipo psicotico. Se nella posizione depressiva, invece, fallisce l’elaborazione del lutto e l’esperienza 87 della riparazione si svilupperà una nevrosi. 90 III. indipendenza. La madre è stata interiorizzata e il bambino percepisce dentro di sé un ambiente che dà sostegno e permette un’esistenza autonoma e soddisfacente, con la capacità di stare da soli. Per arrivare all’interdipendenza ogni individuo deve raggiungere tre obiettivi: l’integrazione, la personalizzazione, attraverso cui il bambino esperisce il corpo come parte di sé e sente il Sé nel suo corpo, la relazione d’oggetto che permette di distinguere il me dal non-me e la realtà interna dalla realtà esterna. Nel passaggio dalla fase della dipendenza all’indipendenza, il bambino passa anche dall’onnipotenza assoluta alla visione realistica che distingue la realtà interna dalla realtà esterna riconoscendo alla madre un’esistenza autonoma dai propri desideri. Questa esperienza deve essere acquisita gradualmente, per non essere traumatica. Tale gradualità dell’esperienza è garantita dallo spazio transazionale che è una sorta di luogo psichico sia costruito soggettivamente sia percepito oggettivamente. L’esperienza transazionale permette al bambino di iniziare a percepire la realtà esterna senza esserne traumatizzato perché è ancora presente il nucleo dell’onnipotenza soggettiva che permette al bambino, e poi anche all’adulto, di giocare creativamente, di vivere la realtà oggettiva senza esserne sopraffatti, esprimendo la propria originalità e la propria passione. I tipici fenomeni transazionali che si manifestano tra i 4 e i 12 mesi sono la suzione del pollice o del lenzuolino e l’attaccamento a un oggetto, detto appunto transizionale, come una copertina o un peluche che è vissuto come posto tra sé e non-sé, sia come realtà interna sia come realtà esterna e che sopravvive sia all’amore istintivo e alle coccole sia all’odio e agli attacchi. L’oggetto transizionale permette il passaggio non traumatico dall’onnipotenza soggettiva alla realtà oggettiva condivisa: la madre esiste come altro da me. Lo spazio transizionale non è tipico solo di una fase dello sviluppo del bambino, ma è lo spazio potenziale tra individuo e ambiente in cui avviene l’esperienza creativa. Nel bambino lo spazio potenziale è lo spazio del gioco. Il gioco, infatti, è uno stato di intensa partecipazione e produce quasi un isolamento in se stessi in cui il bambino manipola fenomeni esterni al servizio dei propri sogni. Il gioco, inoltre, per essere tale, deve essere soddisfacente, implicare la fiducia nell’ambiente e la capacità di stare soli. Inoltre, i bambini nel gioco scoprono se stessi e la propria originale personalità attraverso la creatività e in questo modo costruiscono quello che Winnicott chiama Vero Sé. Questo si sviluppa contrapponendosi al Falso Sé che, invece, si sviluppa quando, in mancanza di una madre sufficientemente buona che abbia la sensibilità di andare incontro ai bisogni del bambino con cure adeguate, il bambino deve adattarsi alla mamma e all’ambiente in generale. Il 91 bambino, così, svilupperà un falso sé compiacente e accondiscendente e costruito ad immagine e somiglianza della madre e non permetterà al suo vero Sé di emergere e di sviluppare l’integrazione dell’Io. Il falso Sé si costruisce attraverso un’iperattività delle funzioni mentali e intellettive che sono scisse da quelle emotive e affettive e che proteggono un vero Sé che non si è potuto integrare ma è rimasto frammentato. In questo modo il soggetto si preoccupa di adeguarsi alla realtà in modo conformistico e costruendo legami superficiali e convenzionali. Nella terapia analitica con i bambini Winnicott ha introdotto la tecnica dello scarabocchio in cui si traccia uno scarabocchio su un foglio e si chiede al bambino di aggiungere qualcosa, successivamente si invertono i ruoli realizzando alla fine dei veri e propri disegni. Lo scarabocchio è una rappresentazione dell’inconscio, ed è paragonabile ai sogni e perciò può essere interpretato. Esso, oltre ad essere uno strumento diagnostico, è anche una tecnica terapeutica perché è una forma di holding, nella quale il piccolo paziente può, via via, scoprire e integrare parti di sé che non conosceva. Sul piano pedagogico, Winnicott sottolinea l’importanza dell’autenticità di cui il bambino può fare esperienza per costruire il suo sé integrato. Il non essere riconosciuto e, quindi, autenticamente incontrato comporta nel bambino una riduzione della libertà che è alla base di un vissuto di inautenticità e di futilità. Educatori troppo concentrati su modelli stereotipati e ossessionati dalla disciplina verso comportamenti adattivi e socializzanti e che seguono prassi educative di tipo addestrativo e condizionante porterebbero i bambini a plasmare il proprio sé in base alle richieste ambientali, sperimentando, inoltre, l’esperienza dell’annichilimento del sé. Se, al contrario, il bambino può fare esperienza di relazioni educative autentiche scoprirà e costruirà il proprio sé in modo autentico ed originale. 92 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 4 - Sviluppo della psicologia sociale: Melanie Klein, Donald Winnicott ed Erik Erikson. Le principali teorie dell’apprendimento Lezione 3 Teoria dello sviluppo psicologico: Erik Erikson Erik Erikson (1902-1994) ha elaborato una teoria dello sviluppo della personalità che ha avuto molto seguito. Egli lavorando con diverse culture si era reso conto della necessità di rivedere la teoria psicoanalitica di Freud aggiungendo una dimensione psicosociale. Egli riteneva, infatti, che la cultura avesse un peso maggiore di quanto teorizzato da Freud. Erikson sostiene che le crisi che tutti gli individui incontrano nella loro vita non siano qualcosa di negativo ma, anzi, siano necessarie per l’evoluzione dell’individuo stesso. Tutta l’esistenza umana è, infatti, caratterizzata da problemi e conflitti fra esigenze opposte, il modo in cui si affrontano le crisi evolutive determinerà un passo avanti per i successivi compiti evolutivi oppure avrà come risultato difficoltà e sofferenza. All’impostazione freudiana che vede lo sviluppo come un susseguirsi di fasi di tipo psicosessuale, Erikson contrappone una concezione dello sviluppo come un insieme di tappe di tipo psicosociale che hanno sullo sfondo il concetto di identità e ognuna caratterizzata da una crisi specifica. Più che di contrapposizione, in realtà, si tratta di un accostamento nel senso che Erikson utilizza i concetti della teoria freudiana, ma li amplia in una concezione psicosociale. Erikson, per esempio, mette a confronto il piacere che prova il bambino durante la fase orale quando vocalizza (componete psicosessuale) con il ruolo che va assumendo la comunicazione verbale nella relazione con la madre e gli altri significativi (componente psicosociale). Per Erikson, inoltre, lo sviluppo è un processo continuo, interessa tutto l’arco di vita ed è necessario affinché si progredisca lungo le fasi di sviluppo. L’idea di sviluppo in Erikson chiama in causa sia la maturazione sia le aspettative sociali e queste, insieme, creano otto crisi che è necessario che l’individuo risolva per procedere nel suo sviluppo. Ogni crisi, o problema, è tipica di una fase, ma non è mai del tutto risolta. L’autonomia, infatti, è il problema centrale nel bambino di due anni, ma è un problema che rimane anche negli stadi successivi. Il concetto di crisi è inteso in senso positivo: la crisi, infatti, è evolutiva, in quanto implica una scelta che porterà al superamento di una conflittualità con un accresciuto senso di unità interiore. Ogni crisi, inoltre, può avere come risultato effetti negativi o effetti positivi. Nella 95 relazione significativa. Il compito evolutivo è quello di legare la propria identità a quella di altre persone all’interno di relazioni intime, di amore e di amicizia. All’opposto dell’intimità, c’è il rischio che fallisca il forte investimento emotivo nella relazione con l’Altro che porta all’isolamento. La settima fase è quella della generatività, concetto caro a Erikson, secondo cui il soggetto adulto diventa cittadino attivo e partecipe, dà il suo contributo al progresso della società, si impegna nel proprio lavoro e nella cura della propria famiglia. Il rischio opposto è che l’individuo si chiuda in se stesso e si abbandoni a un senso di vuoto e di inaridimento (ciò che Erikson chiama stagnazione). L’ultima fase è quella della vecchiaia durante la quale si fa un bilancio sulla propria vita e si riflette su ciò che si è fatto e da ciò può derivare un senso di coerenza e completezza della propria vita che Erikson definisce integrità dell’Io o, al contrario, il rimpianto per ciò che non si è fatto, il disprezzo per la vecchiaia e un senso di fallimento che può portare alla disperazione. 96 MODULO 1 - PEDAGOGIA E PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO Unità didattica 4 - Sviluppo della psicologia sociale: Melanie Klein, Donald Winnicott ed Erik Erikson. Le principali teorie dell’apprendimento Lezione 4 Teoria dell’attaccamento: Bowlby e Hainsworth Nel Novecento del secolo scorso nasce e si sviluppa anche la teoria dell’attaccamento. Anche se non è stato il primo ad occuparsi di tali studi, John Bowlby (1907-1990) è considerato il padre di questa teoria perché nel rapporto madre-bambino non si limita a considerare solo gli istinti e le pulsioni, come faceva Freud, ma ha indagato sulle motivazioni che sono alla base della relazione tra madre e bambino e che non è caratterizzata solo dal nutrimento, ma dal desiderio di protezione e calore affettivo da parte della madre. La teoria di Bowlby ha le sue radici nella teoria psicoanalitica di Freud e nell’etologia. Negli anni Cinquanta in Inghilterra Bowlby portò l’etologia all’attenzione degli psicologi dello sviluppo. L’idea centrale della sua teorizzazione è che la relazione di attaccamento precoce tra neonato e figura che se ne prende cura è cruciale per uno sviluppo normale. Secondo Bowlby il bambino è geneticamente predisposto a instaurare una relazione di attaccamento con una figura adulta di riferimento e tale predisposizione è innata. I comportamenti di segnalazione, come pianto, balbettio, sorriso, sia spontaneo sia quello “sociale” o “di risposta”, comunicano i bisogni del bambino e incoraggiano l’adulto ad andare da lui. Il sorriso sociale, inoltre, è presente anche nei bambini nati ciechi e conferma l’idea di Bolwby che i comportamenti di segnalazione sono innati. Durante i primi 2 mesi di vita, nella fase che egli definisce di preattaccamento, prevalgono i sistemi di segnalazione sociale che permettono di realizzare il contatto e la vicinanza con un qualsiasi adulto. Dai 2 ai 7 mesi di età, periodo in cui si sviluppa l’attaccamento, i comportamenti del bambino si rivolgono verso una o due persone particolari che sono preferite rispetto agli altri. All’inizio, non viene osservata alcuna reazione alla separazione, ma, successivamente, specialmente durante la fase dell’attaccamento vero e proprio (7-24 mesi d’età), si osservano il pianto alla separazione dalla figura di riferimento, la ricerca attiva di essa e l’esplorazione in sua presenza, in quanto il bambino ritiene la figura di riferimento la sua base sicura, quella che è sicuro, ormai, di ritrovare anche dopo il suo allontanamento per l’esplorazione del mondo circostante. Dai 24 mesi circa in poi la relazione interiorizzata permette al bambino di tollerare la separazione, pervenendo ad una prima forma di autonomia 97 e alla capacità di stare solo. Basandosi sull’osservazione delle reazioni di angoscia e protesta manifestate dai bambini separati dalla madre, Bowlby perviene alla conclusione che, affinché la crescita individuale non venga ostacolata, il bambino deve vivere una relazione affettuosa, stabile e continua con la madre e da questo rapporto entrambi devono trarre soddisfazione e giovamento. Le scoperte di J. Bowlby relative alla relazione affettiva madre-bambino emergono quasi casualmente. Egli mentre lavorava, intorno agli anni’30, presso il Centro d’Igiene Mentale Infantile di Londra, rimase particolarmente colpito dal fatto che spesso i bambini maggiormente disturbati avevano alle spalle lunghi periodi di ospedalizzazione o cambiamenti frequenti della figura di accudimento. L’incarico offertogli successivamente negli anni ‘50 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per la quale Bowlby prese parte ad un’indagine sistematica sulla salute mentale dei bambini senza famiglia, nell’Europa del dopo guerra, rese evidente l’importanza delle cure materne. A quell’epoca, tuttavia, non tutti erano d’accordo sul significato delle sue osservazioni. Per la teoria psicoanalitica, infatti, l’amore per la madre derivava dalla gratificazione di pulsioni orali e, similmente, la teoria dell’apprendimento basava la dipendenza sul rinforzo secondario. Per tale motivo Bowlby, convinto della fondamentale importanza del ruolo materno, ma insoddisfatto dalle spiegazioni date da quelle teorie allora dominanti, si accosta ai concetti dell’etologia, riponendo grande fiducia nella validità delle osservazioni condotte da Harlow che studiò il legame di attaccamento osservando dei macachi e i loro cuccioli. In sintesi, Bowlby riconduce l’attaccamento a una motivazione intrinseca primaria che, differenziatasi progressivamente per selezione naturale, fa capo a una necessità di contatto fisico e per la quale il bisogno di protezione risulta prioritario rispetto alla necessità di alimentarsi o di scaricare pulsioni. Dal senso di fiducia e di affidabilità sperimentati dalla figura di attaccamento primaria, gli esseri umani di ogni età potranno costruire la base sicura da cui trarre maggiore profitto e da cui sperimentare, in modo adeguato, nuovi legami affettivi. La formulazione teorica bowlbiana trova ampie conferme dagli studi empirici sull’attaccamento portati avanti da M. Ainsworth. Più specificatamente, sulla base dei continui scambi affettivi e sociali con la madre, e dunque in rapporto alla qualità della interazione madre-figlio, il bambino struttura mentalmente delle immagini interiori o delle rappresentazioni interne sia di se stesso sia della sua figura di attaccamento primaria. Nell’ambito di tali rappresentazioni intrapsichiche, i primi legami di