Scarica Riassunto Misurare ciò che conta e più Appunti in PDF di Economia Pubblica solo su Docsity! MISURARE CIO’ CHE CONTA CAPITOLO 1: PERCHE’ IL PROGRAMMA “OLTRE IL PIL” CONTINUA AD ESSERE IMPORTANTE Questo capitolo si concentra su ciò che è cambiato in seguito all’uscita nel 2009 del lavoro della Commissione sulla misurazione della performance economica e del progresso sociale (Commissione Stiglitz, Sen, Fitoussi). Nel gennaio del 2008, prima della crisi finanziaria, il presidente Sarkozy istituì una Commissione incaricata di esaminare l’adeguatezza delle metriche con cui valutiamo la performance economica e il progresso sociale. Il timore era che il PIL non fosse una misura onnicomprensiva della performance. Il PIL misura il volume di beni e servizi prodotti all’interno di un Paese in un dato periodo di tempo. Non è una misura del successo del Paese. I suoi limiti sono ormai noti, e venivano messi in luce già 50 anni fa. Nonostante le sue carenze, il PIL è rimasto l’approssimazione principale del successo di un Paese. Dopo la Grande depressione i governi iniziarono a raccogliere i dati necessari per misurare il PIL. La teoria keynesiana, che spiegava il livello di produzione economica nei termini della domanda espressa dai diversi settori dell’economia e sosteneva che l’azione dei governi potesse garantire la piena occupazione, rese necessario disporre di indicatori migliori per valutare lo stato dell’economia. Kuznets e Stone ricevettero il premio Nobel anche per il contributo offerto alla definizione di un sistema di contabilità nazionale che includeva il PIL, concetto sviluppato da Kuznets. Con il passare del tempo e la sempre maggiore sofisticatezza delle analisi delle interrelazioni tra le diverse serie di dati, l’attenzione rivolta a queste ultime, e in particolare ai limiti del PIL, diminuì. Benchè il PIL fosse stato progettato e usato per misurare l’attività del mercato, pian piano divenne un modo per valutare lo stato generale di salute della società. Kuznets aveva avvertito circa il fatto che, nel giudicare problemi economici e politiche pubbliche, bisogna tenere in mente la distinzione tra breve e lungo periodo. Le metriche contano, e sia nella crisi finanziaria del 2008 sia in quella politica del 2016, i nostri sistemi di contabilità nazionale basati sul PIL non hanno avvertito in modo adeguato circa quello che stava per accadere. Statistiche del PIL e Grande recessione Anche quando si focalizzano sui redditi di mercato, a volte le statistiche di contabilità nazionale possono non riuscire a restituire il quadro completo. Nel settembre 2008 gli USA (e il mondo) precipitarono in quella che è stata definita Grande recessione, la peggior flessione globale dopo la Grande depressione. Nonostante ciò, molti economisti continuavano ad affermare lo stato di buona salute del sistema economico. Qualche anno prima, Alan Greenspan, per lungo a capo della Federal Reserve, liquidava i timori di una possibile bolla dei prezzi degli asset. Gli indicatori che avrebbero potuto rappresentare, per i decisori politici, segnali di avvertimento di che cosa stava per accadere erano disponibili, ma non facevano parte di un sistema di resoconto consolidato, e furono perlopiù ignorati. In altri casi, questi indicatori non erano disponibili. in altri casi, le prime stime del PIL del periodo non riuscirono a restituire il senso delle reali dimensioni della recessione. L’attenzione ricadeva sui movimenti passati del PIL, nella speranza che la Grande moderazione prevalente prima della crisi potesse continuare in futuro. Un anno dopo, mentre nel 2009 il PIL cominciava a crescere, il presidente Obama annunciò che l’economia stava guarendo. Gli indicatori economici aggregati, come il PIL, non apparivano in sintonia con i fatti. Ciò che stava accadendo non si rispecchiava nel PIL. In molti casi, a beneficiare in modo spropositato della crescita del PIL erano coloro che si trovavano in cima alla scala dei redditi: negli USA si stima che il 91% di tutti i guadagni da reddito nei primi tre anni dalla ripresa sia andato al 1% della popolazione. Un fenomeno simile si registrava in Europa. Nei successivi tre anni, la crescita del reddito medio delle famiglie in Europa, misurata dalle contabilità nazionali, fu inferiore alla crescita del PIL, e la crescita del reddito mediano risultò inferiore rispetto alla crescita del reddito medio. Una lezione chiara proveniente dalla crisi è che è necessario disporre di un insieme più ampio di statistiche, inclusi dati più granulari che rispecchino le diverse situazioni dei vari gruppi di popolazione di un Paese. Il PIL non è costruito per valutare la situazione economica delle singole famiglie. Se il PIL sale del 5%, ciò non significa che ciò accada alla famiglia tipica. Il PIL descrive ciò che accade alla produzione totale dell’economia e al reddito medio generato da questa produzione, a prescindere dalla distribuzione. Nella “ripresa” degli USA il problema è stato che il PIL da solo non sintetizzava la situazione reale delle famiglie. Per esempio, quando nel 2015 l’Irlanda ha visto il PIL raggiungere il 26%, il reddito pro capite disponibile per le famiglie era cresciuto solo del 2,7%. Se, in base al PIL, l’economia viene percepita come ben avviata sulla ripresa, potrebbero non essere attuate le policy necessarie. Allo stesso modo, in assenza di metriche riguardanti il livello di insicurezza economica non si procede intervenendo per rafforzare la rete di protezione e tutela sociale. Tutto ciò porta a delle crisi di fiducia dei cittadini verso i governi. Oggi la gran parte dei Paesi OCSE sta affrontando una crisi di fiducia, che in alcuni casi risale indietro nel tempo. Nel 2017 meno del 20% degli americani credeva che il governo federale facesse quasi sempre la cosa giusta, rispetto all’80% del 1964. I dati relativi a un insieme più ampio di Paesi mostrano che la fiducia nei governi nazionali, la cui media nei paesi OCSE si aggira intorno al 40%, è scesa di 10 punti o più in molti dei Paesi più colpiti dalla crisi (es. Spagna), mentre è migliorata in quelli meno colpiti (Germania). Furono queste preoccupazioni a spingere Sarkozy a istituire la Commissione. La commissione e le sue principali raccomandazioni La Commissione, guidata da Stiglitz, Sen e Fitoussi, era composta da celebri economisti e altri studiosi di scienze sociali. La questione centrale era valutare il PIL come misura della performance, identificarne i limiti Come società, inoltre, ci preoccupiamo della distribuzione del benessere, e le persone preferiscono modelli di crescita i cui benefici vengano condivisi. Sono quindi molti i motivi per cui il PIL non è una buona misura del benessere collettivo. Come ricordava Kuznets, il PIL era stato costruito con un’ambizione molto modesta, ovvero misurare il livello delle attività di mercato. Con il passare del tempo è diventato una misura del benessere, ed è in questo impiego che presenta delle problematiche. La Commissione sulla misurazione della performance economica e del progresso sociale, e il suo successore, ovvero il Gruppo di esperti di alto livello sulla misurazione della performance economica e del progresso sociale, avevano entrambi la missione di sviluppare metriche migliori per la misurazione della performance economica e del progresso sociale, una migliore comprensione dei limiti delle metriche usate, e una superiore intelligenza del modo in cui queste metriche migliori possono portare a politiche migliori. La Commissione ha esaminato problemi di lunga data (es. misurazione dei servizi pubblici), oltre a tre ambiti tematici: valutazione delle disuguaglianze economiche, sostenibilità e qualità della vita. Quest’ultima comprendeva il nuovo campo di studi relativo alla sfera del benessere soggettivo, ovvero le metriche derivanti da inchieste condotte tra gli individui nelle quali gli intervistati riflettono sulla loro vita. Si è visto che tali indagini offrono informazioni rilevanti e affidabili riguardo al benessere individuale, le quali non sono contenute in altre metriche, e che richiamano l’attenzione ad altri aspetti del benessere (es. connessione sociale). Un dialogo nazionale Il rapporto della Commissione sosteneva che dialogare a livello nazionale per definire che cosa includere nel pannello di indicatori fosse una componente importante dell’impegno democratico. Molti gruppi della società civile di vari Paesi hanno agito, premendo per modificare il sistema di misurazione, e molti governi hanno risposto implementando iniziative e impegnandosi per ancorare gli indicatori di benessere al processo decisionale politico. La crescente partecipazione ai forum mondiali dell’OCSE su “Statistica, conoscenze e politiche pubbliche” è una testimonianza di questo successo. La volontà di avere metriche che rispecchino la particolare situazione all’interno di un paese può scontrarsi con la necessità di avere metriche che consentano di raffrontare i paesi tra loro. Entrambe le propsettive sono importanti. La Better Life Initiative dell’OCSE lanciata nel 2011, e il suo rapporto biennale How’s Life? Measuring well-being, offrono un pannello di indicatori di benessere che può servire a paragonare i paesi membri. Ogni nazione ha sviluppato il proprio pannello adattando i parametri in modo da rispecchiare le circostanze specifiche. Concluso il mandato, la Commissione indicava la necessità di fare di più a livello internazionale. Da qui, l’OCSE ha preso l’iniziativa di ospitare lo Hleg per proseguire i lavori. Il Gruppo ha deciso di focalizzarsi su alcuni temi selezionati che il rapporto iniziale non aveva trattato sufficientemente. È il caso per esempio della vulnerabilità, il rischio che un’economia possa precipitare in condizioni non sostenibili, e della resilienza, ovvero la capacità di un’economia di riprendersi da uno shock. Altri aspetti riguardano l’andare oltre il PIL e il riscaldamento globale. I suddetti fenomeni sono stati privilegiati rispetto ad altri sia per la loro importanza, sia per la concreta possibilità di sviluppare metriche capaci di misurarli. Uno degli obiettivi del rapporto della Commissione sulla misurazione della performance economica e del progresso sociale era quello di evidenziare il ruolo delle metriche negli ambiti di politica pubblica e di suscitare un dialogo tra teoria economica, pratica statistica e politica economica. Il rapporto della Commissione mostrava come le trasformazioni che avvengono in un’economia e in una società incidono sia su ciò che vogliamo misurare, sia sull’adeguatezza delle nostre metriche. Per esempio, prima che il problema del cambiamento climatico fosse avvertito, non vi era stata ragione di misurare le emissioni di CO2. Il rapporto notava anche che le trasformazioni delle varie economie avevano portato a dipendere dalle imputazioni, cioè da cifre non raccolte direttamente dalle statistiche ufficiali ma stimate in modo indiretto. Dalla pubblicazione del rapporto nel 2009 vari sono stati i cambiamenti che hanno messo in luce la necessitò di un nuovo rapporto. Maggiore insicurezza economica e minore fiducia La grande recessione ha avuto due conseguenze: una crescita dell’insicurezza economica e l’indebolimento della fiducia delle persone soprattutto nei confronti delle istituzioni pubbliche. La Commissione non ha però individuato delle metriche per misurare questi due aspetti. Nel frattempo, la crescente preoccupazione per l’aumento delle disuguaglianze e del riscaldamento globale ha posto ulteriore enfasi sulla sostenibilità in tutte le sue dimensioni. Questo ha portato all’accordo globale raggiunto nel settembre 2015 a New York sugli SDGs, la cui ampia portata garantisce la sostenibilità. Nel dicembre dello stesso anno, a Parigi si è arrivati alla definizione dell’obiettivo comune di ridurre le emissioni globali di gas serra, in modo da limitare gli aumenti di temperatura a 1,5-2 C. Gli SDG, approvati all’unanimità dall’AG dell’ONU, erano la testimonianza del potere che hanno obiettivi concordati. Nel 2000 le nazioni del mondo avevano raggiunto un accordo sugli MDG, un insieme di propositi che avrebbe dovuto dimezzare la povertà estrema e innalzare altri aspetti degli standard di vita nei PVS. L’attenzione convogliata dagli MDG aveva svolto un ruolo ai fini dei successi ottenuti dalla comunità internazionale rispetto a quei propositi, ma, pur essendo stati raggiunti, gli MDG rivelarono alcuni limiti: se la povertà estrema a livello globale si era dimezzata, la povertà in Africa rimaneva elevata. I nuovi SDG si proponevano di definire norme globali, e non solo per i PVS ma anche per i PS. Contrasti nacquero riguardo a che cosa dovesse essere incluso negli SDG. Furono compiuti tentativi di inglobare alcuni attributi dello stato di diritto o anche la proprietà della terra. L’agenda 2030 che ne uscì mescolava fini e mezzi. Un ambito nel quale fu raggiunto ampio consenso riguardava la necessità di definire un obiettivo legato alla disuguaglianza di reddito. Gli MDG avevano richiamato l’attenzione sulla povertà estrema, calcolata in base a una medesima soglia per tutti i paesi. Mentre le negoziazioni procedevano, emersero preoccupazioni più ampie, relative non solo a coloro che si trovavano in fondo alla scala dei redditi. Alcuni si preoccupavano del calo di uguaglianza di opportunità, altri dello schiacciamento della classe media, ecc. Erano tutti aspetti diversi dalla distribuzione del reddito. Benchè nessuna misura unica della disuguaglianza avrebbe potuto coglierli tutti, vi erano ottime ragioni per includere una qualche misura della disuguaglianza del reddito. L’esigenza di completezza degli SDG esercitò un effetto in parte negativo, in quanto si arrivò ad un numero troppo elevato di indicatori, che non permetteva il raggiungimento di tutti gli obiettivi. Per aiutare i Paesi a identificare gli ambiti in cui gli sforzi sono più necessari, l’OCSE ha iniziato a sviluppare uno strumento con cui valutare la distanza che i Paesi devono colmare per raggiungere dei traguardi degli SDG. Nel corso del tempo, la distribuzione del reddito può variare, e osservare il numero dei poveri convoglia l’attenzione solo sulla percentuale di popolazione al di sotto di una soglia monetaria. Il pericolo di questa misura è che i paesi possono migliorarla solo concentrandosi su coloro che si trovano sotto soglia. Invece, il gap di povertà misura la profondità della povertà, cioè quanto dovrebbe aumentare il reddito nazionale per fare uscire tutti da quella condizione. Grande preoccupazione oggi si ha sullo schiacciamento della classe media, la riduzione del reddito mediano e la percentuale di popolazione che si trova intorno alla metà della scala di distribuzione. Per cogliere queste preoccupazioni, la quota del reddito nazionale che va a coloro che si trovano nei decili centrali sembra una metrica più appropriata. Altre voci, basate sull’osservazione che la percentuale goduta dalla classe media era abbastanza simili in molti paesi, si sono espresse a favore dell’indice di Palma, il rapporto cioè tra la quota di reddito nazionale che va al primo 10% della popolazione e quella che va all’ultimo 40%. Gli SDG possono essere visti anche come componenti di un’esplicita definizione normativa globale. A livello pratico, molti paesi stanno organizzando le loro agende politiche intorno agli SDG, in particolare intorno agli obiettivi che giudicano più salienti. Una volta definiti gli obiettivi nazionali, questi Paesi dovranno agire per capire se dedicare più risorse ad ambiti specifici. Per capire come stiamo andando ci si deve rifare ai 232 indicatori definiti, anche se ogni Paesi si va a focalizzare solo su alcuni in base alle priorità. Idealmente, definire questi obiettivi con un processo aperto dovrebbe potenziare la democrazia, la solidarietà, la fiducia e la coesione sociale. Implicazioni delle metriche oltre il PIL per le politiche pubbliche Il grande slancio a lavorare per andare al di là del PIL nasceva dal desiderio di migliorare le decisioni di politica pubblica. Quando le metriche economiche non includono effetti come quelli relativi al degrado ambientale, non abbiamo modo di sapere se il benessere di un Paese cresce nel momento in cui, per esempio, aumenta il ricorso all’energia generata dal carbone. In alcuni Paesi esistono, all’interno dei rispettivi sistemi di contabilità nazionale, metriche migliori del PIL, che consentirebbero di prendere decisioni migliori, ma questi indicatori non vengono impiegati con regolarità. Si potrebbe per esempio ritenere che la privatizzazione della previdenza sociale porti a un incremento del PIL per via di un aumento di efficienza, mentre un calcolo corretto del valore della previdenza sociale potrebbe evidenziare la minore efficienza del settore privato rispetto a quello pubblico nel fornire tali servizi, anche se il primo genera profitti. Poiché le politiche del PIL non colgono appieno tutti gli effetti avversi delle flessioni economiche sul benessere delle persone, i decisori politici, per combattere la recessione, hanno fatto forse meno di quanto avrebbero deciso di fare se avessero avuto metriche migliori. Il rapporto della Commissione non ha solo spronato un importante lavoro da parte degli enti statistici nazionali e delle università, ma ha anche contribuito a fondare un movimento globale che si è espresso in commissioni parlamentari, iniziative della società civile ecc. A livello internazionale, momenti fondamentali di questo movimento sono i forum mondiali organizzati dall’OCSE. Un cambiamento cruciale seguito all’uscita del rapporto della Commissione del 2009 è stato la maggiore accettazione della necessità di sviluppare misure del benessere collettivo, insieme a una più profonda comprensione del fatto che le politiche rigidamente fondate sulla crescita del PIL possono rivelarsi sbagliate. I motivi di interesse erano molti, per esempio gli ambientalisti temevano che focalizzarsi sul PIL inducesse a non dare attenzione all’ambiente, e ciò a ragione, in quanto le misure attuali non tengono conto del degradamento delle risorse. L’esperienza del Consiglio dei consulenti economici degli USA sotto il presidente Clinton è rivelatrice, in quanto premette per espandere il convenzionale approccio al PIL, fino a includere una metrica del PIL verde. Il Congresso però minacciò di tagliare i finanziamenti alle agenzie federali coinvolte nello studio, a seguito di un’azione da parte di lobby del carbone. Lo stesso vale per altri ambiti. Anche coloro che auspicavano politiche più attive desideravano che le metriche cambiassero. I più attenti alle disuguaglianze temevano che concentrarsi sul PIL avrebbe distolto l’attenzione sulla distribuzione. Tutte queste ragioni sono confluite in un gran numero di iniziative di misurazione a livello dei singoli Paesi e a livello internazionale. Con la presentazione del rapporto, Sarcozy aveva chiesto all’INSEE (istituto francese di statistica e studi economici) di farsi garante della dell’implementazione delle raccomandazioni a livello nazionale, e all’OCSE di farsene carico a livello internazionale. La risposta della Comunità statistica è stata forte, in quanto da una parte hanno cercato di fare un miglior uso delle statistiche esistenti, riunendole in un pannello di indicatori capace di offrire un’immagine completa del benessere. Dall’altra parte si sono dedicate a gettare le fondamenta sulle quali costruire nuove statistiche. La risposta al lavoro della Commissione è andata oltre lo sviluppo delle metriche, cercando un modo per applicarle alle decisioni politiche. Servono strumenti istituzionali che costringano gli organismi pubblici ad agire in base all’evidenza degli indicatori. In alcuni Paesi come l’Italia, i parlamenti nazionali hanno premuto per avere metriche migliori, temendo che metriche inadeguate dessero adito a decisioni di budget sbagliate. In altri paesi come la Nuova Zelanda è stato il tesoro a porsi alla guida dello sviluppo di parametri più ampi. In altri Paesi ancora, l’uso di metriche di benessere a fini di politica pubblica si è focalizzato sull’allineamento delle priorità e degli interventi dei dipartimenti governativi e dei vari livelli di amministrazione, e sull’identificazione di cosa funziona meglio in relazione a obiettivi specifici. Tutte queste iniziative condividono l’ambizione comune di ancorare alla pratica politica preoccupazioni collettive che attualmente non ricevono attenzione. CAPITOLO 2: LA MISURAZIONE DELLE FLESSIONI ECONOMICHE Il sistema di contabilità del reddito nazionale fu elaborato in origine all’interno della teoria keynesiana. La speranza era che, se avessimo misurato meglio il PIL, saremmo riusciti a gestire meglio il ciclo economico e a evitare lunghi periodi di recessione. Si sperava addirittura di poter costruire modelli in grado di prevedere le recessioni e intervenire preventivamente. Il tema appare saliente dal momento che il rapporto della Commissione uscì pochi mesi dopo il crollo della Lehman Brothers nel settembre 2008. Il significato della crisi era chiaro per i membri della commissione: il PIL non misurava la sostenibilità. Era evidente che la crescita del PIL USA era stata costruita su un grande debito privato, parziale conseguenza di una sopravvalutazione degli asset immobiliari. Scegliere le metriche giuste Problemi legati al contenuto informativo delle metriche economiche standard erano emersi anche prima della crisi. Molti pensavano che l’economia del proprio paese andasse meglio di come in realtà andava. Negli USA il PIL stava crescendo, ma era chiaro che buona parte di quella crescita si basava su una bolla immobiliare che stava portando famiglie e imprese a consumare e investire più di quanto sarebbe stato giustificato da una valutazione più sobria dello stato del mercato. Quando vi sono segnali che un’economia potrebbe trovarsi in una bolla immobiliare, cioè quando il rapporto tra i prezzi immobiliari mediani e il reddito mediano è esageratamente elevato, si dovrebbe osservare maggiormente un insieme di indicatori della salute finanziaria dell’economia e del suo sistema bancario. Le bolle immobiliari si accompagnano a rapidi aumenti del prestito bancario. Un’analisi della percentuale delle famiglie che avrebbero potuto avere difficoltà a rifinanziare i mutui avrebbe rilevato la fragilità finanziaria dell’economia. Gran parte dei dati necessari per fare queste valutazioni era disponibile prima della crisi, anche se in alcuni casi non era aggiornata, ma non esisteva alcun controllo. La teoria economica standard contribuì in maniera importante alla mancata valutazione dei rischi che l’economia stava correndo. I modelli macroeconomici concentrati sugli agenti rappresentativi ignorano la distribuzione delle attività e delle passività tra essi, supponendo che la distribuzione non conti. Questa teoria implicava che tutti ciò di cui si aveva bisogno erano dati sulla media. Un tale approccio ignorava i rischi dovuti ai collegamenti finanziari tra le banche e le possibili conseguenze di una bancarotta a cascata, in cui il fallimento di un’istituzione avrebbe portato a ulteriori crolli. Ricerche recenti hanno mostrato in che modo i nostri modelli econometrici non valutano in maniera adeguata la discesa del PIL durante le recessioni, né la robustezza delle prospettive di crescita per il futuro. Spesso ciò accade perché sottostimiamo la diminuzione di ricchezza dovuta alla distruzione di capitale economico, umano e sociale, direttamente a causa della flessione, o indirettamente a causa di risposte politiche inappropriate. Questi tipi di capitale veicolano benefici di mercato e non di mercato, nel senso che sono importanti per sostenere il benessere delle persone, ma anche come vettori della futura crescita del PIL. La ricchezza mancante La figura mostra il livello del PIL pro capite dal 1991 al 2019 negli USA e nell’area euro, insieme a un’estrapolazione ricavata dalla performance precedente alla crisi per il periodo successivo al 2009. La linea continua mostra i livelli effettivi del PIL reale pro capite, mentre la linea tratteggiata costruisce una curva lineare basata su dati storici dal 1991 al 2006: i rombi mostrano la differenza percentuale annuale tra il PIL effettivo e le sue proiezioni pro capite per ogni anno, mentre i quadrati si riferiscono alle differenze percentuali cumulative a partire dal 2009. Per quanto Un importante aspetto del benessere individuale è la sicurezza economica. La risposta dei governi è offrire varie forme di assicurazione sociale, soprattutto contro la disoccupazione, che mettono insieme i rischi di diversi gruppi di lavoratori. In numerosi Paesi europei e negli USA, i sussidi di disoccupazione sono aumentati per ammortizzare l’impatto negativo sui redditi dovuto alla crescente disoccupazione. Nella maggior parte dei paesi, però, l’assicurazione per la disoccupazione copre solo una percentuale di coloro che non hanno lavoro, e non copre chi sta entrando nella forza lavoro. Pochissimi Paesi offrono un’assicurazione contro la sottoccupazione. Più lunga è una recessione, più elevato è il costo della sicurezza economica delle persone. Migliori misure dell’insicurezza economica avrebbero mostrato le perdite individuali provocate dalla crisi. Il senso di benessere delle persone è crollato verticalmente nei Paesi più colpiti dalla recessione. Chi è disoccupato riferisce di avere un calo di autostima, oltre a riferire di una maggior prevalenza di esperienze negative di vario genere e di avere meno frequenza di momenti positivi. Ciò suggerisce che i costi della disoccupazione superano la perdita del reddito subita da coloro che perdono il lavoro, rispecchiando l’esistenza di effetti non pecuniari associati alla disoccupazione e i timori e le ansie generati dalla disoccupazione nella società. Gli individui considerano il lavoro come una parte importante della loro identità e della sensazione di avere un valore. Misurare il benessere soggettivo metterebbe in luce questo aspetto. Se i decisori politici avessero avuto a disposizione un pannello di indicatori in grado di rispecchiare in misura più ampia ciò che stava accadendo, avrebbero compreso le conseguenze provocate dalla flessione economica sul benessere. Le economie che subiscono profonde flessioni possono non riprendersi mai del tutto. Anche quando il PIL torna a crescere, tale crescita non è mai sufficiente a colmare il divario tra il livello al quale l’economia si trovava e quello che avrebbe raggiunto. Anche se la crescita torna ai tassi precedenti la recessione, il valore attuale scontato della perdita è enorme. Oltre a interrogarsi sugli effetti della crisi sul PIL, molti si chiedono se gli effetti a lungo termine di una profonda recessione si estendano anche al suo futuro tasso di crescita. Ricerche recenti hanno suggerito che, anche se le economie non ritornano mai ai livelli di PIL pre-crisi, il tasso di crescita a lungo termine rimane inalterato. Ma le flessioni profonde vanno a incidere sul capitale umano e compromettono le capacità di un paese di investire in ricerca, il che può danneggiare la crescita per un periodo di tempo esteso. L’uso errato delle metriche esistenti: un focus sulle passività del governo L’altro lato della medaglia è il costo di rispondere alla crisi. Un uso improprio delle statistiche può aver portato molti paesi a sovrastimare questi costi. Tra i modi standard di gestire il ciclo economico negli ultimi 75 anni vi è stato quello di aumentare la spesa pubblica, la quale può generare un incremento del PIL con effetto moltiplicatore. Questo accade in particolare quando politiche del genere vengono attuate tramite l’azione concertata di diverse amministrazioni. Tuttavia, durante le flessioni economiche, il gettito fiscale scende e, soprattutto in paesi con reti sociali sviluppate, la spesa pubblica è già elevata, e quindi i deficit fiscali aumentano. Le spese governative, non accompagnate da un aumento delle tasse, portano a ulteriori incrementi del debito pubblico. Durante l’ultima crisi, alcuni governi strettamenti focalizzati sul deficit, erano contrari a rispondere alla flessione con un aumento della spesa. In Europa, una rigida interpretazione del Patto di crescita e stabilità esigerebbe che i governi dell’area euro mantenessero i rispettivi deficit al di sotto del 3% del PIL anche in tempi di recessione, sebbene alcuni Paesi abbiano superato quel limite in conseguenza della crisi. Imporre limiti al deficit e al debito pubblico danneggia il funzionamento degli stabilizzatori automatici proprio nel momento in cui sono necessari. L’applicazione dei vincoli di bilancio ha trasformato le politiche fiscali dei governi da strumenti di contrasto al ciclo economico a interventi prociclici, che aggravano le flessioni economiche, e ciò si è visto in Paesi colpiti dalla crisi. Questa attenzione alle passività dei governi è un altro esempio di uso sbagliato dei dati. Ciò che conta affinchè un Paese nel complesso vada avanti è il bilancio della nazione, insieme ai bilanci dei settori istituzionali. Il bilancio mostra sia le attività che le passività. Se l’aumento delle spese governative assume la forma di maggiori investimenti, il bilancio non dovrebbe peggiorare, perché attività e passività aumentano della stessa quantità. È un errore guardare solo alle passività. Esiste però un’importante differenza tra il bilancio di un governo e il bilancio di un’impresa. L’impresa non beneficia degli effetti moltiplicatori che il suo incremento di spesa esercita sui ricavi, mentre il governo si. Se un’impresa si indebita per comprare un bene, il suo bilancio migliora se il rendimento di quell’asset supera il costo del capitale. Questo non vale per i conti del governo, che beneficerà anche del maggiore gettito fiscale generato dall’espansione. Soprattutto durante una flessione profonda il bilancio pubblico potrebbe migliorare anche se il ritorno dell’investimento fosse inferiore al tasso di interesse pagato dal governo sul debito. Che a un paese convenga o no indebitarsi all’estero dipende da come investe i fondi. Se si indebita per i consumi correnti, allora il bilancio del paese peggiora e, in assenza di effetti macroeconomici, le prospettive delle generazioni future si deteriorano. Al contrario, se si indebita per finanziare investimenti con un ritorno elevato, il bilancio migliora. Vi è un’altra ragione per cui occorre prendere visione dei bilanci di tutti i settori dell’economia, oltre a quello governativo, ovvero che le dimensioni elevate dei deficit e dei debiti complessivi del Paese possono rispecchiare i deficit e il debito delle famiglie e delle imprese, anche quando la posizione fiscale del governo è solida. Durante una crisi, spesso accade che questi debiti si trasformino velocemente in debiti pubblici. Succede soprattutto alle passività delle banche. Nella maggior parte dei casi, lo spostamento delle passività dal settore privato a quello pubblico è il risultato di pressioni politiche interne, come quando un potente settore finanziario spinge il governo a salvare le banche, sostenendo che altrimenti l’intero Paese soffrirà. Nel valutare la situazione finanziaria di un governo, si dovrebbe guardare al di là del suo bilancio e considerare il rischio che in futuro le passività private diventino pubbliche. È per questo che la Data Gap Initiative del G20 include tra le sue raccomandazioni quella di registrare le transazioni che hanno luogo tra i diversi settori dell’economia per scoprire quando la debolezza finanziaria di un settore può tracimare in un altro. Costruire conti di capitale Oggi, pochi governi costruiscono questi bilanci generali del governo e della nazione. Le informazioni sulle attività finanziarie detenute dai governi e da altri settori dell’economia sono normalmente disponibili, ma questo non vale per le attività non finanziarie, come le reti di infrastrutture, le scuole ecc. Problemi esistono anche sulla colonna delle passività. Al di là delle passività governative registrate in bilancio, possono generarsi passività governative registrate in bilancio, possono generarsi passività fuori bilancio dovute agli obblighi contrattuali del governo, passività contingenti associate alle garanzie fornite alle istituzioni finanziarie e passività implicite che, pur non avendo forma contrattuale, rappresentano una promessa ai cittadini di continuare a offrire benefici in futuro. Ulteriori questioni emergono rispetto alla distinzione tra governo nazionali e altri soggetti pubblici. Implementare alcune delle raccomandazioni della Data Gap Initiative del G20 significherebbe offrire un miglior quadro di ciò che accade alla ricchezza generale di un paese e alla situazione finanziaria del suo governo. Non consentirebbe tuttavia di vedere tutto, perché non tutte le forme di capitale vengono considerate. Si possono costruire bilanci più completi, anche se per farlo si devono compiere alcune valutazioni. Una riguarda la linea di confine delle attività da includere. Per esempio, strutture, spese in ricerca e sviluppo, sono comprese nella categoria delle attività dei bilanci nazionali. Altri asset potrebbero essere riportati in questa linea di confine, per esempio il capitale umano. Anche la maggior parte delle spese sanitarie dovrebbero essere comprese tra gli investimenti. La ragione per cui le attività citate non compaiono sui bilanci è quasi sempre non di principio ma pragmatica: le nuove attività vengono incluse solo quando è possibile sviluppare misure robuste e confrontabili per le quali siano disponibili dati. Occorre generare dati che sostengano la creazione di bilanci nazionali e settoriali più completi. Quando le attività pubbliche non sono misurate come dovrebbero, mentre le passività finanziarie lo sono, si attira ingiustamente l’attenzione su questa colonna del bilancio. Lo stesso accade a causa di conti di capitale e bilanci nazionali incompleti. Ciò ha contribuito a definire linee di politica pubblica come il Patto di crescita e stabilità dell’area euro, che limita i deficit dei governi al 3% e i debiti al 60. Durante la Grande recessione, i deficit governativi sono cresciuti in conseguenza degli stabilizzatori automatici e delle politiche 6. Il benessere soggettivo 7. L’insicurezza economica 8. La sostenibilità 9. La fiducia SDG Questi obiettivi ampliavano il raggio di azione al di là degli Obiettivi di sviluppo del millennio formulati nel 2000. Gli sdg prevedono di garantire la condivisione del progresso economico e sociale così come la sostenibilità ambientale, economica e sociale. Gli obiettivi furono portati da 8 a 17, con 169 traguardi associati. Intendevano richiamare l’attenzione dei decisori politici, ma anche dei cittadini, su temi giudicati importanti dalla comunità internazionale. La proliferazione degli obiettivi fu il frutto dell’inevitabile tensione tra la spinta ad ampliare ed espandere gli indicatori necessari a valutare e monitorare il progresso economico e sociale, e l’esigenza di mantenere un numero relativamente ristretto di indicatori di primo livello, per facilitare il discorso nazionale e il processo di decisione politica. I traguardi e gli indicatori per il monitoraggio globale sono però evidentemente troppi. Concentrarsi su alcuni di essi è importante soprattutto per i PVS, dove le risorse sono limitate. Dato che i diversi paesi vivono in circostanze diverse, è naturale che si focalizzino e debbano focalizzarsi su obiettivi diversi. Le differenze tendono a essere particolarmente significative tra i PS e i PVS. Tuttavia, il fatto che i diversi Paesi perseguano obiettivi diversi ha un costo, perché rende difficile confrontare i due gruppi. I paesi stessi devono essere consapevoli dei benefici della confrontabilità. D’altra parte, è probabile che molti Paesi in situazioni simili scelgano obiettivi simili. Anche dopo che l’insieme degli obiettivi è stato deciso, la scelta delle metriche può fare la differenza, e le metriche sulle quali i PVS potrebbero volersi concentrare possono differire da quelle dei paesi più sviluppati. Per esempio, per l’sdg 1 (porre fine alla povertà) l’indicatore concordato è il numero di persone che vivono sotto la soglia di povertà, pari a 1,9 dollari americani a testa al giorno. La gran parte dei PS ha già raggiunto questo traguardo: povertà significa di solito qualcosa di diverso nel mondo sviluppato. Si può sennò considerare l’sdg 10, che riguarda la riduzione delle disuguaglianze. L’indicatore scelto per raggiungere e sostenere la crescita del reddito del 40% più povero della popolazione è il tasso di crescita della spesa familiare o del reddito pro capite. Palma ha sostenuto che una misura più ragionevole della disuguaglianza di reddito è il rapporto tra la quota del reddito nazionale che va al primo 10% della popolazione e la quota che va al 40% più povero. Una questione importante che è stata sollevata riguarda l’identificazione di policy globali, ovvero fare riferimento al cambiamento climatico e alle disuguaglianze di reddito globali. DISUGUAGLIANZE DI REDDITO E DI RICCHEZZA Ai tempi del rapporto della Commissione nel 2009, eravamo consapevoli del fatto che una delle ragioni per cui il PIL non era una buona misura della performance economica e sociale era che non teneva conto della distribuzione. Negli anni successivi al rapporto, l’attenzione dedicata alla disuguaglianza di reddito è cresciuta molto, in parte grazie alla disponibilità di nuovi dati che mostravano la natura a lungo termine del fenomeno e la quota crescente del reddito nazionale che veniva intercettata dall’1%, e in parte a causa dell’aumento delle disuguaglianza di reddito in numeri assoluti. Analisi comparate dei dati hanno anche mostrato le differenze tra i paesi riguardo a questa crescita di disuguaglianza, le quali suggeriscono che i fattori nazionali, in particolare le politiche pubbliche e le istituzioni, contano molto. Le disuguaglianze di reddito, le sue cause, le sue conseguenze e le azioni da intraprendere per provi rimedio sono diventate il punto focale delle discussioni di politica pubblica. Varie ricerche hanno sottolineato i diversi fattori ai quali si devono la disuguaglianza di reddito e i suoi incrementi nel corso del tempo, che includono sia le trasformazioni della struttura economica, il ruolo più ampio del settore dei servizi, un più forte potere di mercato delle imprese; sia un più debole potere contrattuale dei lavoratori. I cambiamenti di policy agiscono sulla distribuzione dei redditi di mercato e dei redditi disponibili. Possono essere cambiamenti apportati alle regole che governano i mercati del lavoro, la corporate governance, la globalizzazione e l’antitrust; cambiamenti che riguardano la trasmissione di vantaggi e svantaggi da una generazione all’altra, come le imposte. In ogni caso, le politiche pubbliche tese a ridurre le disuguaglianze richiederanno dati migliori. Il rapporto delle commissioni sottolineava anche altri tipi di disuguaglianze, in termini di salute, istruzione, senso di sicurezza, accesso alla giustizia ecc. Molti di questi indicatori sono correlati. Il rapporto mostrava come ci si dovesse concentrare sulle famiglie (o meglio sugli individui) come unità di analisi, osservando tutte le dimensioni che incidono sul benessere. Per più di 30 anni, mentre il divario tra i redditi dei principali mercati emergenti (Cina, India, Brasile) e i redditi dei paesi avanzati si riduceva, quello all’interno di molti paesi avanzati è aumentato. In alcuni casi, l’aumento delle disuguaglianze tra i redditi di mercato veniva compensato dalle tasse e dai trasferimenti. Gli USA erano il caso più estremo, perché il reddito mediano aggiustato all’inflazione era di poco superiore al livello di 25 anni prima, e i salari reali superavano a stento quelli di 60 anni prima. Brako Milanovic ha riunito in un quadro globale ciò che stava accadendo all’interno dei paesi e nel confronto tra essi. Un unico diagramma sintetizza buona parte della storia. Due gruppi della popolazione globale sono andati molto bene: i vertici della scala mondiale (punto D), ossia il primo 1%, e la classe media emergente in Cina e in India intorno al 50esimo percentile ( C ). Questi due gruppi sono stati i principali beneficiari della globalizzazione. Vi sono invece due gruppi di perdenti: quelli più poveri, ovvero le popolazioni residenti in territori di guerra o quelle che vivono di agricoltura di sussistenza nei PVS (A), e la classe media dei lavoratori europei e americani (B). impiegando le metriche standard di definizione della disuguaglianza, ovvero Gini si osserva che gli effetti della riduzione della disuguaglianza tra i Paesi e quelli dell’aumento delle disuguaglianze all’interno di questi si compensano tra loro. Ma riassumere con il coefficiente di Gini significa non considerare buona parte della storia: il malcontento della classe media dei paesi avanzati e di coloro che si trovano in fondo alla piramide dei redditi. I dati di Milanovic potrebbero essere inficiati da una serie di presupposti e da problemi di misurazione, e dunque non dipingere un quadro completo dell’ampia mutabilità dei livelli e della variazioni della disuguaglianza di reddito tra Paesi. La disuguaglianza di reddito negli USA non è solo più elevata di quella degli altri paesi avanzati, è anche cresciuta di più. In molti paesi OCSE, l’aumento della disuguaglianza si è concentrato nei primi anni 90 del secolo scorso; mentre in germania è iniziato nei primi anni 2000. Alcuni paesi dell’America Latina hanno visto una riduzione delle disuguaglianze di reddito. In Cina la riduzione della povertà è stata accompagnata da una crescita delle disuguaglianze. Questioni generali sui dati Oggi esistono dati comparati sulla distribuzione del reddito nei Paesi OCSE, ma quando ebbe inizio l’onda della crescita della disuguaglianza, tra gli anni 70 e 80, non erano disponibili. Nei singoli Paesi si iniziò a notare questa crescita della disuguaglianza, ma il fenomeno veniva spesso individuato come causa di specificità del Paese. In realtà, l’incremento delle disuguaglianze economiche divenne un andamento sempre più comune ed evidente nei Paesi, in parte come conseguenza del fatto che vennero adottate anche altrove politiche adottate in UK e USA. La disuguaglianza dei redditi ha iniziato a essere fonte di preoccupazione molto tempo dopo. I dati odierni sulle disuguaglianze economiche sono spesso più deboli nei Paesi che ne avrebbero più bisogno, come i PVS, che stanno avendo una crescita economica robusta ma condivisa in modo diseguale. Come documenta Nora Lustig, benchè esistano dati di vario genere relativi alle disuguaglianze economiche, spesso si basano su stime costruite dai ricercatori. Anche quando sono disponibili dati microeconomici di buona qualità, accedervi è spesso impossibile. Inoltre, la maggior parte dei dati sulla disuguaglianza la misura con cui i dati forniti dagli individui corrispondono a definizioni accurate di reddito e consumo. Per le economie avanzate, la disuguaglianza economica viene misurata di norma in base al reddito equivalente, mentre per gli altri Paesi si usano più comunemente i consumi o il reddito pro capite. Le notevoli differenze di dimensione tra le famiglie di diversi Paesi e nel corso del tempo rendono più complicato il confronto. In alcuni PVS il concetto stesso di famiglia può essere difficile da definire. Se in linea di principio la variabile reddito che deve essere considerata è il reddito disponibile, dunque al netto di imposte e trasferimenti, spesso non è chiaro quale sia l’idea di reddito degli individui. In modo simile, gli impatti delle imposte sui consumi e i sussidi economici vengono di norma ignorati. Come mostra Lustig, mentre in generale si riconosce che le capacità di consumo delle famiglie sono ridotte o aumentate dalle imposte o dai sussidi, tenerne conto non fa tradizionalmente parte delle convenzioni seguite nell’analisi delle disparità di benessere economico. Gli studi sull’incidenza fiscale che prendono in considerazione le imposte, evidenziano conseguenze distributive significative. Gli stessi database secondari divergono, a seconda che i microdati vengano rettificati per tenere conto di risposte parziali o mancanti e per lasciare fuori le eccezioni. Questo rende incoerenti tra loro i data set, che così possono generare stime diverse del livello di disuguaglianza anche quando la fonte dei dati sottostanti è la stessa. Descrivere la disuguaglianza di reddito: scelta dell’indicatore Anche presentare i dati sulle disuguaglianze di reddito dà origine ad alcuni problemi. La statistica di riepilogo abituale è il coefficiente di Gini, che varia da 0 a 1. Questo indice viene calcolato in base alla curva di Lorenz, che rappresenta le quote cumulative della popolazione rispetto alle quote cumulative del reddito percepito. Il coefficiente di Gini è due volte l’area tra la curva e la bisettrice. Solo quando la curva di un anno si trova sotto quella di un altro anno per tutti i punti si può dire che un coefficiente di Gini più alto indichi un incremento di disuguaglianza. Ogni volta che le curve si incrociano, la valutazione delle variazioni di disuguaglianza tra i redditi dipende dal peso attribuito ai diversi segmenti della curva. Alcune società per esempio potrebbero preoccuparsi di più dello svuotamento della classe media. Ma anche quando le curve non si incrociano, per le decisioni di politica pubblica è importante sapere cosa avviene in ogni punto della distribuzione. Insieme alle misure che riepilogano la distribuzione del reddito totale, bisognerebbe registrare le misure di disuguaglianza che ne colgono gli sviluppi nelle varie parti della distribuzione. Nel 1970 Atkinson ha elaborato una misura basata sul benessere, che valuta, date le preoccupazioni della società verso la disuguaglianza, la perdita di benessere collettivo che si deve alla disuguaglianza di reddito. Con questa misura ci si chiede a quanta parte del proprio reddito le persone sarebbero disposte a rinunciare se in tal modo potessero eliminare del tutto la disuguaglianza. Supponendo livelli ragionevoli di avversione alla disuguaglianza, la perdita di benessere si rivela elevata. Anche questa misura può sottostimare il prezzo della disuguaglianza, perché si focalizza sull’eliminazione dell’intera disuguaglianza. La questione rilevante è quanto un Paese sarebbe disposto a pagare per liberarsi di un po’ di disuguaglianza. Quella che serve è una misura marginale. Questa misura è stata sviluppata da Stiglitz. Usare le metriche della disuguaglianza per progettare una politica pubblica In molti ambiti della regolamentazione, per esempio concernenti l’ambiente e la sicurezza, è pratica comune richiedere un’analisi costi-benefici. Allo stesso modo, per qualunque decisione di politica pubblica si dovrebbe esigere una valutazione delle conseguenze distributive, cosa che il FMI ha iniziato a fare. Sarebbe consigliabile valutare gli impatti esercitati sulla distribuzione del reddito dalle modifiche apportate alle regolamentazioni del mercato del lavoro. Statistiche di macro e micro livello riguardo alle risorse economiche delle famiglie I sistemi di contabilità nazionale sono dati dopo la Grande depressione dalla necessità di disporre delle informazioni necessarie a gestire l’economia e si basano sull’idea keynesiana che, per gestire l’economia, i governi possono usare politiche monetarie e fiscali. Spesso però l’impatto della distribuzione del reddito sulla macroeconomia e l’impatto delle politiche macroeconomiche sulla distribuzione del reddito non sono stati compresi, e non sono stati considerati nella discussioni di politica pubblica. Oggi la situazione è diversa, in quanto ricerche del FMI e dell’OCSE mostrano che disuguaglianze di reddito più elevate possano aver ridotto la crescita del PIL. Una concomitanza negativa del genere era prevedibile dopo la crisi del 2008, quando le debolezze della domanda rappresentarono un vincolo cruciale alla crescita a causa delle diverse propensioni a spendere ai diversi livelli della distribuzione. Esistono enormi difficoltà di metodo per qualunque ricerca volta a conciliare dati micro e macro. Le difficoltà sono ancora superiori quando si vogliono identificare la direzione causale tra i due livelli e il ruolo degli altri fattori nella spiegazione della loro concomitanza. Le politiche monetarie non ortodosse impiegate dalle banche centrali per sostenere l’economia dopo la crisi hanno avuto notevoli impatti sulla distribuzione del reddito. Occorre integrare i dati macroeconomici e quelli relativi alla distribuzione del reddito. In passato, le statistiche di micro e macro livello sul benessere economico delle famiglie si sviluppavano su binari paralleli, ma portavano a volte a conclusioni molto diverse riguardo alla maniera in cui gli standard di vita delle famiglie, nella media, erano cambiati nel tempo. Come è ovvio, la coerenza tra i due livelli micro e macro è importante, e in questi casi la disparità dei numeri dovrebbe richiamare l’attenzione sulle carenze delle rispettive fonti. da tempo gli studiosi sono consapevoli delle discrepanze e hanno elaborato alcune spiegazioni dei relativi motivi. Tuttavia, un’azione coordinata a livello internazionale è iniziata solo nel 2011 quando l’OCSE e Eurostat hanno condotto uno studio di fattibilità in merito alla compilazione di misure relative alla distribuzione del reddito, dei consumi e dei risparmi delle famiglie all’interno di parametri di contabilità nazionale basati su dati di micro livello. Lavorando sulla coerenza, possiamo ottenere un’immagine molto più accurata di come stanno andando le cose. La ricerca riportata da Alvaredo e altri mette in luce i progressi raggiunti ai fini di armonizzare i due insiemi di dati e di impiegare congiuntamente contabilità nazionali, inchieste e dati fiscali insieme ad altre fonti statistiche. Mentre la maggior parte delle analisi che riguardano l’aumento delle disuguaglianze di reddito si basa su misure sintetiche ricavate da inchieste, la valutazione del passo della crescita del reddito delle persone per i vari punti della distribuzione si scontra con le ampie differenze che caratterizzano la crescita del reddito misurata da fonti di micro e macro livello. Integrare le statistiche di micro e macro livello riguardanti i redditi delle famiglie in modi che siano coerenti con il totale macroeconomico del PIL e delle sue componenti è necessario, se si vogliono raggiungere conclusioni più solide riguardo ai rapporti tra attività macroeconomica, politiche pubbliche e distribuzione. Comprendere questi rapporti è importante non solo perché le decisioni macroeconomiche possono portare a conseguenze distributive non volute, ma anche perché le disuguaglianze economiche incidono sulla trasmissione delle politiche monetarie e fiscali e sulla valutazione dei rischi di default legati alle variazioni dei prezzi degli asset. Disuguaglianze orizzontali Le disuguaglianze verticali come quelle considerate descrivono le differenze tra ricchi e poveri. Le disuguaglianze orizzontali descrivono invece le differenze tra individui o gruppi di individui in condizioni più o meno simili, come per esempio uomini e donne. Le disuguaglianze orizzontali si associano spesso a discriminazione e comportano conseguenze morali, sociali, politiche ed economiche. Le disuguaglianze orizzontali possono portare instabilità politica quando i gruppi svantaggiati riescono a costruire coalizioni basate sulle proprie identità condivise. Alcuni tipi di disuguaglianza orizzontale sono più complicati di altri da misurare. I Paesi a insediamento tradizionale dispongono da tempo di raccolte di dati che tengono conto dell’etnia, mentre in molti Paesi europei raccogliere tale tipo di dati è allo stato iniziale. Si può obiettare che, trascurando di raccogliere dati del genere, questi Paesi chiudono gli occhi davanti alle forme di discriminazione più gravi. Alcuni dei criteri con cui si confrontano le disuguaglianze orizzontali tra i diversi Paesi non possono contare su convenzioni e definizioni statistiche consolidate. Un esempio è quello della disabilità per la quale non esiste ancora una definizione accettata sul piano generale. In altri casi non esistono criteri statistici perché questi tipi di disuguaglianze orizzontali sono entrati nel dibattito pubblico solo di recente. Altri tipi di disuguaglianze orizzontali sono compresi meglio, ma sollevano questioni in termini di misurazione. Concentrarsi sulle risorse economiche delle famiglie non rivela il modo in cui le risorse economiche vengono distribuite all’interno delle famiglie stesse. Sappiamo che le risorse si distribuiscono in modo diseguale all’interno delle famiglie, soprattutto nelle società povere. Tuttavia, raccogliere dati Politiche pubbliche Se i dati disponibili evidenziano che le disuguaglianze di risultato tra i figli sono ampie e crescenti nel tempo, questi dati sono limitati sia dal punto di vista dei traguardi considerati sia da quello dell’età dei figli. Tuttavia, quando questi dati esistono, potrebbe essere possibile intervenire per tempo ed evitare in seguito azioni correttive più costose. La sempre maggiore disponibilità di dati su tali disuguaglianze, soprattutto relativamente ai figli di genitori situati nella parte inferiore della piramide distributiva, ha suscitato a livello mondiale un’impennata di interesse nei confronti dell’istruzione. Andando avanti nella vita, gli individui affrontano vari tipi di shock, e anche la capacità di reazione a tali shock sono determinate in ampio modo dalle circostanze. Questa è la principale fonte di disuguaglianza di opportunità che si sperimenta da adulti. Disporre di dati in tal senso consentirebbe di valutare il ruolo delle politiche sociali. Allo stesso modo, è importante l’opportunità di vivere a lungo e in salute. Soprattutto nei paesi dove i servizi pubblici alla salute sono inadeguati, l’aspettativa di vita diminuisce. Salute e risultati economici sono interrelati. Il genere è un altro fatto chiave nella configurazione delle disuguaglianze di risultato, e molti degli indicatori usati di solito per mappare le disuguaglianze di genere indicano l’esistenza di una progressiva, ma lenta, riduzione di questa disuguaglianza. Tale conclusione appare meno netta quando si controllano le caratteristiche che influiscono sulla retribuzione (istruzione, esperienza lavorativa). Quando si controllano alcune di queste caratteristiche, non si registra alcuna riduzione del divario tra le retribuzioni. Cioè, una delle circostanze presenti alla nascita, il sesso, rimane una determinante critica dei risultati. Non esiste uguaglianza di opportunità se il sistema economico tratta in modo diverso in base al genere. Ciò implica che le politiche mirate solo ad accrescere, per esempio, la frequentazione scolastica femminile, non riescono ad ovviare alla discriminazione salariale. Per colmare il gap serve un’azione continua, concertata e coordinata, e in tal senso servono data set standardizzati riferiti a lunghi periodi di tempo. Benessere soggettivo L’obiettivo del progresso economico e sociale è quello di incrementare il benessere delle persone. Per valutare il benessere soggettivo si deve andare oltre il PIL. La domanda che economisti e psicologi si pongono è: la crescita del PIL sta aumentando il benessere percepito? Un importante stimolo a questo lavoro, e a includere nelle indagini domande relative al benessere, è scaturito dall’analisi elaborata nel rapporto della Commissione, il quale sottolineava il potenziale di questo approccio. Lo stato del benessere soggettivo fornisce informazioni che non si trovano nelle statistiche economiche convenzionali. Come affermano Stone e Krueger, le misure del benessere soggettivo richiedono agli individui di compilare una graduatoria dei vari aspetti della loro esistenza. Un caso emblematico è il netto declino della valutazione della propria vita da parte dei cittadini di molti Paesi arabi negli anni precedenti la Primavera araba, nonostante si registrasse una robusta crescita del PIL e miglioramenti in termine di salute e istruzione. È stato inoltre notato che il modo in cui gli individui valutano la propria vita permette di prevedere i risultati elettorali meglio delle misure economiche convenzionali e che la valutazione inferiore della propria vita espressa mediamente dai cittadini quando il PIL scende è pari al doppio del valore che attribuiscono ai guadagni derivanti da un incremento del PIL di entità simile. A partire dal 2009 vi sono stati grandi progressi circa l’identificazione di misure del benessere soggettivo, e alla base del successo di queste ultime vi sono diverse scoperte compiute dai ricercatori: 1. Le informazioni ottenute in questo modo sono replicabili e le statistiche prodotte sono molto affidabili 2. Queste misure hanno spiegazioni intuitive Spiegare il benessere soggettivo fornisce gli strumenti con cui potenziare il benessere individuale e sociale, e tali misure possono aiutare a spiegare altre variabili oggetto di interesse. Per esempio, esiste una correlazione positiva tra le condizioni di salute delle persone e il loro benessere soggettivo, ma può accadere che uno scarso benessere soggettivo porti a conseguenze negative per la salute. Riconoscere le interrelazioni è importante perché: 1. Aiuta a comprendere i canali attraverso cui i cambiamenti di politica pubblica possono influenzare la performance economica a il benessere collettivo 2. In molti casi aiuta a comprendere che possono determinarsi effetti moltiplicatori, dunque anche effetti indiretti che portano a poter influire sulla vita delle persone Questioni tecniche La Commissione nel 2009 sosteneva che il benessere soggettivo era un costrutto multidimensionale comprendente vari aspetti, ognuno dei quali richiede una metrica specifica e una migliore comprensione dei rispettivi fattori determinanti. Le misure valutative si ricavano chiedendo a una persona di riflettere sulla propria vita ed esprimere una valutazione. Le misure ricavate dalle domande appaiono ampiamente coerenti con le scelte individuali, perché tendiamo a prendere decisioni in base alla previsione dell’impatto che avranno sulla valutazione della nostra vita. Le misure esperienziali sono diverse: valutano i sentimenti, le emozioni, gli stati d’animo in un dato momento. L’eudemonia misura invece fino a che punto una persona crede che la sua vita abbia un significato e uno scopo, ed è legata al funzionamento psicologico dell’individuo. Queste metriche a volte producono immagini diverse. Nella maggior parte delle autovalutazioni, le persone riflettono sulle esperienze passate e non sul benessere soggetti al momento. Le due cose possono differire, e al fine della progettazione di una politica rileva la percezione al momento. Per evitare problemi dovrebbe essere portata avanti una raccolta di dati in tempo reale o prossimo, che però risulta costosa. L’ordine in cui le domande vengono poste è importante, ed esiste anche un problema di confrontabilità interpersonale. I diversi gruppi possono interpretare le domande in modo diverso. Questi problemi di confrontabilità affliggono la teoria del benessere, e attualmente non si dispone dell’evidenza necessaria ad accertarsi se le differenze interpersonali relative all’uso di una scala di risposta siano casuali o sistematiche per gruppi e Paesi. Le ricerche che esaminano l’importanza delle influenze culturali sulle risposte delle persone mostrano che queste influenze spiegano solo una parte delle diverse valutazioni. Possiamo in tal senso valutare la maniera in cui il mutare delle circostanze influenza il benessere soggettivo. Un tema ricorrente è il rapporto tra benessere soggettivo e reddito. I primi studi sulla felicità di Easterlin suggerivano che anche quando i Paesi raggiungevano un certo livello di PIL pro capite, il loro livello di benessere soggettivo non aumentava. Studi recenti hanno migliorato questo aspetto. Sappiamo adesso che la forma e la forza del rapporto dipendono da quale aspetto del benessere soggettivo si considera. Ai livelli di reddito più bassi, l’associazione tra PIL e benessere soggettivo risulta positiva qualunque sia l’aspetto considerato, mentre a livelli di reddito superiori, il benessere valutativo si associa positivamente al PIL pro capite, al contrario del benessere esperienziale. Molti altri fattori oltre al reddito influenzano il benessere. Gli studi sul benessere soggettivo ci hanno permesso di farci un’idea del modo in cui le persone vivono la propria vita. Esistono anche altri indicatori (es. tassi di depressione), ma sono da considerare come estremi. Nella maggior parte dei paesi occidentali le valutazioni che si esprimono sulla propria vita seguono una U a seconda dell’età, un andamento che non vale per il benessere esprienziale e che si scontra con quello dei paesi più poveri. Questa relazione vale aldilà dei luoghi di nascita, il che suggerisce che le priorità cambiano quando si invecchia e implica che le politiche a favore degli anziani dovrebbero concentrarsi su un insieme di aspetti che vanno oltre la sicurezza economica di chi è in età avanzata. Se sono notevoli i progressi compiuti nella raccolta dei dati sul benessere, si tratta di progressi inadeguati, soprattutto al momento di valutare i cambiamenti che hanno avuto luogo nel corso del tempo o nei vari Paesi. Un modo poco costoso per aumentare la disponibilità dei dati è aggiungere alle indagini esistenti domande che riguardano il benessere soggettivo. Ci si potrebbe chiedere: se gli individui valutano la sicurezza, perché l’insicurezza economica non si riflette nei prezzi di mercato? L’incremento di valore dei prodotti sul mercato concepiti per ridurre l’insicurezza non dovrebbe quindi riflettersi in un PIL superiore? Per alcuni aspetti è già così. Il mercato infatti offre assicurazioni che aiutano a limitare l’insicurezza economica, e il valore di tali prodotti viene incluso nel PIL. Tuttavia, a causa delle asimmetrie informative, dei costi di transazione e di altri fallimenti di mercato, non esistono metodi assicurativi per molti aspetti importanti. I sistemi di protezione sociale sono stati creati per affrontare questi fallimenti del mercato e per ridurre l’insicurezza economica che si associa a condizioni come disoccupazione, disabilità ecc. d’altra parte, le riforme degli ultimi anni hanno spesso spostato i rischi dai governi agli individui, riducendo la misura in cui tali rischi vengono mutualizzati. Per esempio, negli USA prima della creazione di pensioni pubbliche, il mercato non offriva rendite vitalizie. Eppure, le riforme dei sistemi pensionistici pubblici hanno optato per un maggiore affidamento al settore privato. Secondo una relazione dell’UE sull’adeguatezza delle pensioni, la parziale privatizzazione delle pensioni in UK potrebbe aver avuto l’effetto di ridurre del 52% le protezioni pensionistiche di coloro che percepiscono il salario medio. Esistono in letteratura vari studi che mostrano che nei mercati il rischio di fallimento è elevato. I programmi di assicurazione sociale sono stati creati per far fronte ai fallimenti dei mercati assicurativi e sono spesso più efficienti dei programmi privati. Alcune di queste istituzioni pubbliche possono essere considerate uno dei contratti sociale che scaturiscono dal processo democratico. Quando mantenere questi contratti diventa costoso, le riforme politiche devono affrontare il rischio che possono anche accrescere l’insicurezza economica di gruppi di popolazione meno in grado di sopportarla. Se le nostre metriche non rispecchiano i benefici che l’assicurazione sociale offre quando crea una più elevata sicurezza economica, vi sarà la tendenza a focalizzarsi sui loro costi, sottovalutando i benefici. Questi ultimi superano il valore di un semplice aumento di sicurezza individuale. Individui più sicuri sono più produttivi, e di ciò beneficia il fisco. Le preoccupazioni relative all’azzardo morale suggeriscono che offrire un’assicurazione completa non sia sempre desiderabile. L’attacco alla social security si è però spinto oltre il livello giustificabile in questi termini, specialmente quando tante persone si sentono insicure. È chiaro che dobbiamo valutare le politiche per il loro impatto in termini di sicurezza. Sia la globalizzazione che il cambiamento tecnologico aumentano la probabilità di rischio. Quindi, la loro accelerazione dovrebbe essere accompagnata da protezioni sociali più elevate e diverse. In ogni caso, sarebbe meglio considerare ex ante gli effetti della globalizzazione e della tecnologia sull’insicurezza, piuttosto che cercare di ovviare ex post alle conseguenze. Metriche Quando si progettano le metriche dobbiamo tenere in mente due distinzioni critiche. La prima è tra misure oggettive e soggettive. La seconda è tra pannelli dell’insicurezza economica basati su più misure e misure integrate che cerchino di cogliere la sicurezza individuale o familiare in una misura unica. I pannelli di indicatori sono di norma preferibili. Una delle sfide principali è identificare un insieme di misure di sicurezza economica che possa essere impiegato in un più ampio pannello di indicatori di benessere. Queste misure dovrebbero essere: 1. Confrontabili tra Paesi 2. Disponibili per periodi di tempo lunghi tali da consentire un monitoraggio 3. Strettamente legate all’esperienza effettiva delle persone 4. In grado di fornire informazioni ai decisori politici mentre cercano di intervenire sulla sicurezza economica Le inchieste condotte per valutare la sicurezza hanno il vantaggio di rispecchiare la percezione degli individui delle loro condizioni economiche personali e familiari. Hanno però due difetti: - Non sono state condotte per intervalli di tempo significativi - Pongono domande diverse a seconda dei Paesi Le domande possono essere raggruppate in varie categorie, e nelle inchieste sulle famiglie dovrebbero essere inclusi tutti i tipi di domande: 1. Valutazione generale dell’economia 2. Percezione delle riserve su cui contare 3. Aspettative riguardo a shock futuri Le misure oggettive tentano di quantificare gli shock che possono attendere un individuo così come l’entità delle riserve che permettono agli individui di gestirli. Una di queste misure concerne la fascia di popolazione che ha subito una significativa perdita di reddito. Questa misura è disponibile in molti paesi industrializzati, ed evidenzia ampie differenze tra i Paesi OCSE, molti dei quali vedono un’insicurezza crescente. Serve altro lavoro per selezionare il tipo di misura migliore, per comprenderne le proprietà e per mettere in relazione l’insicurezza con altri aspetti della performance economica e del benessere individuale. La limitata disponibilità di dati affidabili e raffrontabili ha rappresentato un grande ostacolo. Ci sono tre difetti principali delle statistiche esistenti: - Bacino limitato di dati longitudinali a lungo termine - Debolezza dei dati di natura amministrativa - Assenza di domande regolari I governi dovrebbero cessare di trascurare gli effetti esercitati sull’insicurezza dai cambiamenti della struttura economica e di politica pubblica. Sostenibilità La sua importanza è stata enfatizzata con gli SDGs. Si parla in particolare di equità intergenerazionale. Valutare la sostenibilità significa determinare se il livello di benessere attuale può essere conservato per le generazioni future. Il concetto di sostenibilità include necessariamente il futuro. Valutare la sostenibilità comporta assunzioni e scelte normative di vario tipo. Se la ricchezza aumenta, è presumibile che in futuro la società potrà continuare a sostenere il suo benessere pro capite. Ma per garantire questo risultato, vi è bisogno di una misura completa della ricchezza e dobbiamo impiegare le giuste valutazioni. Nel rapporto del 2009, la Commissione mostrava che le misure della sostenibilità del benessere sono concettualmente diverse dalle misure dell’attuale benessere, se non per il fatto che l’attuale benessere individuale è minato dalla preoccupazione per la sostenibilità stessa. La minaccia più immediata alla sostenibilità è legata all’ambiente. In passato, i limiti ambientali sono stati ignorati dagli economisti, che hanno costruito modelli per la crescita senza fine. Circa mezzo secolo fa il Club di Roma ha iniziato a parlare di limiti della crescita (rapporto Meadows). La risposta fu data da un’ondata di tecno-ottimismo, ormai in discussione. La crisi del 2008 ha mostrato come il nostro sistema economico potrebbe non essere sostenibile. Buona parte della crescita del PIL prima della crisi si fondava su una bolla, e quando questa è esplosa, è venuta meno anche quella che sembrava prosperità. Nel 2009, la Commissione sottolineò l’importanza di osservare la sostenibilità tenendo conto di tutte le dimensioni: ambientale, economica e sociale. Le metriche standard infatti non coglievano questi aspetti, e ci si chiese quali indicatori potessero rispecchiare la sostenibilità. La conclusione a cui si giunse è che, se i mercati funzionassero bene, si potrebbe creare una misura completa del capitale di un Paese, cioè del valore delle risorse che una generazione trasferisce alla successiva. Questo includerebbe tutte le forme di capitale, e lasciando alle generazioni future una dotazione di capitale superiore, probabilmente gli standard di vita di questi saranno buoni. In tal caso si afferma che la crescita è sostenibile, e si parla di capital approach alla sostenibilità. La Commissione riconobbe l’esistenza di molti problemi in questo approccio basato sul capitale, specialmente per quanto attiene all’implementazione. In particolare, i mercati per il futuro spesso non funzionano bene, e nel caso delle risorse naturali il fallimento di mercato è ancora più evidente, perché non attribuiamo un prezzo alle emissioni di carbonio. Un altro approccio si focalizza sul reddito generato, ma questo approccio presenta due problemi: 1. È impossibile identificare con precisione quanta parte del reddito generato è il risultato di un investimento in capitale e quanto dipende dagli sforzi del singolo 2. Un tale approccio suggerisce che l’unico valore del capitale umano sia di produrre una maggior quantità di beni e servizi, e ciò è sbagliato. Se entrambi gli approcci descritti mirano a cogliere il valore monetario del capitale umano, un approccio più pratico è quello impiegato dall’OCSE per misurare le abilità cognitive e lavorative cruciali che gli adulti devono possedere per prosperare nella società. Capitale sociale e fiducia Il capitale sociale è entrato nel discorso economico solo di recente. Il rapporto della Commissione si rendeva conto dell’importanza del capitale sociale e sottolineava la rilevanza dei legami sociali all’interno della comunità per il benessere collettivo e individuale. L’ampiezza della connessione con gli altri membri della società varia tra persone, ma chi ha più relazioni interpersonali è facilitato. Un fonte delle disuguaglianze di opportunità è infatti la distribuzione diseguale del capitale sociale. Il capitale sociale fa si che i contratti vengano onorati senza ricorrere al tribunale. La gran parte dei rapporti economici non si basa su contratti, ma su una fiducia generalizzata. La fiducia è da sempre considerata fondamentale. Secondo la letteratura sul capitale sociale, formalizzata dalla teoria dei giochi, nei giochi ripetuti agire in modo più cooperativo e affidabile è razionale. Di recente sono state impiegate spiegazioni sociologiche e psicologiche per spiegare i comportamenti cooperativi, come per il microcredito. Lo Hleg si concentra sulla fiducia. Algan definisce la fiducia come la credenza di una persona che un’altra persona o istituzione agirà in modo coerente con le sue aspettative di comportamento positivo. Il concetto di fiducia è utile in quanto: 1. Esistono modi coerenti di misurarla 2. I diversi livelli di fiducia si possono spiegare su basi teoriche e del senso comune 3. Si può dimostrare che le metriche della fiducia sono correlate ad altre misure della performance economica e del benessere individuale La crisi del 2008 ha minato non solo la sicurezza economica, ma anche la fiducia. Il perché è riconducibile alla diffusa percezione dell’iniquità con cui la recessione è stata gestita. Dovremmo pensare alla fiducia come a un bene del nostro patrimonio, un asset fondamentale del capitale sociale. Costruirla richiede tempo, ma può dissiparsi velocemente. Ne conseguono così effetti di isteresi importanti, ossia impatti a lungo termine di azioni passate sulle circostanze e i comportamenti presenti e futuri. Esistono forme diverse di fiducia. Una distinzione è quella tra fiducia interpersonale e fiducia istituzionale. Queste sono però anche collegate. Quando le istituzioni sono disfunzionali e le regole del gioco vengono percepite come inique, riducono la disponibilità degli individui a cooperare tra loro. Diventa così difficile implementare politiche tese al bene comune. Di solito, inoltre, la fiducia diminuisce al crescere della distanza di rapporto tra le persone, quindi passando da una dimensione locale a una globale. Metriche La mancanza di misure attendibili della fiducia ha contribuito alla mancata focalizzazione dei decisori politici sul tema. Le misure sulla fiducia istituzionale si basano su inchieste non ufficiali, che impiegano un’unica domanda. Nonostante ciò, le misure esistenti mostrano differenze notevoli tra i Paesi per quanto riguarda i livelli di fiducia negli altri e la fiducia istituzionale, oltre a una grande tendenza a ribasso in alcuni posti (USA). Di solito la fiducia si misura in base a risposte fornite alle domande di un’inchiesta. La fiducia generalizzata, ovvero verso gli estranei, viene valutata dalla World Values Survey con una domanda generica. La fiducia generalizzata è collegata ad alcuni fenomeni positivi: il PIL pro capite, il benessere soggettivo, la produttività totale dei fattori, lo sviluppo finanziario, le relazioni cooperative ecc. Gli studi hanno dimostrato l’esistenza di enormi differenze non solo tra Paesi ma anche tra regioni. I Paesi con livelli più alti tendono ad avere redditi pro capite superiori, e ciò vale sia per la generalizzata che per l’istituzionale, che sono correlate anche a livelli più elevati di istruzione. La fiducia è meno evidente tra persone senza occupazione e nuclei monoparentali con uno o più figli. La fiducia è negativamente correlata alla disuguaglianza di reddito, la quale a sua volta è stata correlata a una minore fiducia nelle istituzioni. La fiducia è minata da tutto ciò che va contro il senso di equità. Gli impatti avversi sulla fiducia sono tra i costi nascosti della disuguaglianza, e questo è uno dei motivi alla base della tesi per cui la disuguaglianza di reddito impatta negativamente sulla performance economica. Le società pagano un prezzo elevato alla disuguaglianza, tra cui la perdita di fiducia. Se i modelli descritti qui valgono all’interno dei Paesi Ocse, è importante studiare i fattori determinanti della fiducia nel contesto delle loro circostanze specifiche. La letteratura ha ricondotto la crescita del capitalismo moderno alla fiducia. Il sistema finanziario moderno non sarebbe nato senza gli elevati livelli di fiducia presenti in alcune città stato italiane come Firenze. La fiducia, come descritto da Arrow, conta molto in un’economia di mercato. In assenza di regole informali come un comportamento fiducioso, i mercati non emergono, i guadagni derivanti dagli scambi si perdono e le risorse non vengono allocate. Da questo punto di vista, la fiducia e le regole informali che configurano la cooperazione possono spiegare le differenze di sviluppo economico. Le risposte alle domande delle inchieste sulla fiducia consentono di formulare previsioni riguardo ai risultati macroeconomici, ma è molto minore la comprensione dei meccanismi microeconomici. La fiducia ha a che fare col benessere soggettivo: per esempio le relazioni interpersonali fondate su cooperazione influenzano la salute e la felicità. La mancanza di fiducia ha conseguenze anche politiche. Un aumento dell’insicurezza economica e del livello di disoccupazione danneggiano la fiducia nelle istituzioni, e ciò accresce il consenso elettorale verso partiti populisti. La fiducia si radica nei luoghi e nelle comunità coese, i cui membri si comportano in modo affidabile. La diversità, se non sostenuta da politiche di integrazione, può erodere il senso di fiducia comunitario e il sostegno alle politiche redistributive. Una scarsa fiducia istituzionale conduce a una minor partecipazione elettorale e politica. La politica Poiché la fiducia svolge un ruolo cruciale nella spiegazione dei risultati che vengono raggiunti sul piano economico e sociale, è importante identificare le istituzioni e le politiche necessarie al suo sviluppo. I decisori politici devono prestare attenzione a quegli interventi che potrebbero eroderla. Le azioni e i procedimenti che vengono percepiti come iniqui danneggiano la fiducia. In Europa, le politiche di austerità imposte ai paesi in crisi sono state percepite come ingiuste e hanno danneggiato la fiducia nell’UE Misura la fiducia apre la strada allo sviluppo di metriche in grado di rispecchiare il punto di vista del popolo. Alcuni fattori candidati a rappresentare determinanti significative sono ovvi: quando le preferenze dei cittadini non trovano risposta nelle legislazioni, si danneggia la fiducia nel comportamento democratico delle istituzioni. È facile inoltre che le azioni che limitano la partecipazione democratica sono nocive per la fiducia. L’identificazione di politiche che promuovano la fiducia nella maniera più efficace è progredita per ora in modo limitato. L’evidenza al momento ha a che fare soprattutto con l’importanza dell’istruzione, con un focus sulle abilità sociali e sui metodi di insegnamento. Dobbiamo migliorare le attuali misure della fiducia. I passi avanti compiuti dall’economia sperimentale e dalla psicologia hanno reso possibile verificare le correlazioni esistenti tra la fiducia espressa dagli intervistati e la fiducia e le altre norme cooperative osservate negli esperimenti sociali. I risultati suggeriscono che le misure ricavate dalle inchieste sono valide. In futuro quindi sarà importante includere le domande di queste indagini tra le attività di raccolta dei dati predisposte abitualmente e su larga scala dagli uffici statistici nazionali. Allo stesso modo, è importante un impegno circa le misure complementari alla fiducia che gli esperimenti sociali possono offrire usando campioni rappresentativi della popolazione. Algan descrive il modo in cui queste misure vengono implementate congiuntamente dall’Ocse e da Sciences Po a parigi. I risultati possono essere impiegati per valutare la qualità statistica dei dati delle inchieste e per capire i fattori 1- Definizione dell’agenda: una revisione degli obiettivi di policy può portare a identificare ambiti che richiedono un intervento governativo e successivamente un’assegnazione di priorità e la definizione di un’agenda. Questo stadio coinvolge governi, agenzie di pianificazione, ma anche cittadini 2- Formulazione policy (ex ante): disamina delle opzioni disponibili, valutazione dei costi, benefici e fattibilità, determinazione strumenti. Coinvolge agenzie di pianificazione, organismi di governo responsabili della progettazione. 3- Implementazione: coinvolge programmi esecutivi e gli interventi di policy degli organismi di governo responsabili 4- Monitoraggio: prerequisito della valutazione degli impatti di una policy è che gli interventi siano monitorati sia durante che dopo l’implementazione. Il monitoraggio richiede un punto degli input impiegati, degli output generati e dei risultati osservati. Possono essere coinvolte agenzie di pianificazione, enti di governo e portatori di interessi. 5- Valutazione ex post: valutazione dei risultati. Può coinvolgere agenzie di pianificazione, portatori di interessi e uffici di revisione. Esperienze di alcuni Paesi con l’implementazione degli indicatori di benessere nel ciclo di policy Ecuador: il concetto di buen vivir è stato incorporato nella Costituzione. Scozia: indicatori di benessere sono stati investiti di un ruolo centrale, essendo stati integrati nel qudro dei parametri e delle procedure di monitoraggio della performance. Gli indicatori di benessere sono usati soprattutto nella fase di formulazione della policy (Nuova Zelanda e Ecuador) o nella fase di valutazione. In Francia, Italia e Svezia compaiono nella fase di agenda setting e su di essi si basano le relazioni al Parlamento all’inziio del processo di decisione del bilancio. Buthan, Messico, Colombia, Slovenia, Costa Rica: hanno sviluppato parametri e indicatori di benessere. Il numero e il tipo di indicatori impiegati variano tra paesi. In Svezia, Italia e Francia il numero di indicatori è molto limitato (12 in Italia), per facilitare la discussione alle Camere. In Nuova Zelanda e UK, gli uffici nazionali statistici forniscono un’ampia varietà di indicatori, usati per l’analisi costi benefici o per la valutazione ex post (UK: What Works Center for Wellbeing) o per la progettazione ex ante (Nuova Zelanda). Ecuador e Scozia sono tra i due estremi. Il tipo di indicatori di alto livello relativi ai risultati varia tra paesi a seconda del loro specifico impiego nel processo decisionale. In Italia, uno dei criteri impiegati per selezionare gli indicatori per la legge di bilancio è stato la capacità di prevedere le tendenze rilevanti in futuro a medio termine (3 anni). In base a tale criterio, gli indicatori di benessere soggettivo sono stati esclusi dalla lista a causa della raccolta dati limitata e dalle preoccupazioni relative alla qualità dei dati. Al contrario, il Centro UK è attento alle misure del benessere soggettivo e ha identificato un certo numero di politiche da modificare quando si usano questi parametri. In alcuni Paesi, i parametri di benessere coinvolgono il Parlamento indipendentemente dal fatto che le relative politiche vengano avviate prima dal Parlamento stesso o dal Governo. In Francia, Italia e Paesi Bassi l’obiettivo è che il Parlamento disponga delle basi di evidenza necessarie per chiedere conto al governo delle sue decisioni tramite una relazione annuale sugli impatti delle politiche sugli indicatori. In altri casi alla guida vi è un organismo del governo centrale: in Nuova Zelanda è il Tesoro ad essere responsabile del Living Standards Frameworks. Alcune delle iniziative hanno beneficiato della presenza di leadership forti. Un esempio è l’Ecuador, dove fu l’ex Presidente Correa a iniziare una revisione della costituzione per incorporare il concetto di benessere. Gran parte delle iniziative è comunque recente, e quindi dobbiamo aspettare adeguamenti e modifiche. In particolare, è essenziale garantire continuità di impegno politico anche quando cambia legislatura. Ciò può richiedere il ricorso a ampie forme di consultazione pubblica, per costruire un consenso e una coalizione intorno a parametri di benessere durevoli nel tempo. Difficoltà vi possono essere quando le iniziative sono associate a una figura politica. Quali passi sono necessari affinchè l’impiego di tali metriche a livello di policy diventi la norma? Quali strumenti sono più efficaci per suscitare l’attenzione? Dimostrare l’esistenza di rapporti di causalità in un contesto di policy è difficile. Le condizioni sperimentali primarie perché si possano stabilire cause ed effetti sono rare quando si cerca di migliorare la vita delle persone in modo equo ed equilibrato. Nel caso delle metriche di benessere, alcuni problemi riguardano la natura multidimensionale del benessere. Una sfida ulteriore all’uso di parametri nei PVS è la preoccupazione che una tale agenda possa distogliere l’attenzione da ciò che è spesso considerato fondamentale, cioè la crescita economica. La crescita del PIL può essere necessaria per fornire le risorse che servono ad affrontare il benessere, ma non è sufficiente: una crescita che non vada a beneficio della maggioranza e che non sia sostenibile non è una buona crescita- Uso dei dati sul benessere soggettivo nelle analisi di politica pubblica Il modo in cui gli individui valutano e vivono la loro vita è considerato un elemento importante con cui descrivere il loro benessere, ma non è l’unica variabile. Il benessere soggettivo presenta caratteristiche che lo rendono adatto a essere impiegato in modo specifico nella analisi di politica pubblica. In particolare, si è rivelato sensibile a un’ampia gamma di circostanze oggettive, come il reddito. Per via di queste caratteristiche, l’analisi dei vettori del benessere soggettivo dei cittadini può migliorare la progettazione e la valutazione delle politiche. Le misure del benessere soggettivo sono importanti anche per la determinazione dei costi e dei benefici non monetari dei progetti e delle politiche, il che fa del benessere soggettivo una componente importante della progettazione e valutazione. Alcuni programmi pubblici hanno raccolto dati sul benessere soggettivo dei partecipanti per mostrare l’effetto prodotto su questi ultimi da un intervento di policy. Tali valutazioni hanno messo in luce conseguenze che altrimenti sarebbero andate perse. I dati sul benessere soggettivo vengono anche usati nelle analisi costi benefici per valutare costi e benefici non monetari. Il benessere soggettivo può essere rilevante anche per politiche mirate a obiettivi più specifici, come la salute. Le politiche che rafforzano il benessere soggettivo raggiungono in modo indiretto anche altri risultati. Conclusioni Oggi il mondo della politica necessita di informazioni riguardo ad aspetti delle nostre società che qualche decennio fa erano poco compresi. I nostri sistemi devono rispecchiare le preoccupazioni della collettività, e anticipare quelle future. I progressi compiuti nella misurazione del benessere in seguito al rapporto del 2009 hanno contribuito a modificare i termini della questione. Al momento, l’interrogativo più difficile è il come usare le metriche nei processi di policy. CAPITOLO 5: DODICI RACCOMANDAZIONI PER I PROSSIMI PASSI Concludiamo con tre considerazioni generali: a. La serie di iniziative messe in atto dopo il 2009 è andata ben oltre le aspettative. Il rapporto ha creato un vocabolario con cui avvicinarsi al programma, riunendo così correnti di ricerca fino ad allora slegate. b. Il programma oltre il PIL viene a volte definito contro la crescita. In realtà, l’impiego più completo di indicatori avrebbe portato a una crescita del PIL più robusta. La tesi è che non è crescita reale quella che fa aumentare il PIL senza un aumento del benessere della maggioranza. c. Nonostante i progressi, siamo lontani dall’obiettivo, in quanto gran parte delle raccomandazioni incluse nel rapporto del 2009 rimane rilevante e servono ulteriori passi verso l’implementazione. 12 raccomandazioni dei presidenti dello Hleg 1. Nessuna metrica da sola rappresenterà mai una buona misura dello Stato di salute di un Paese. Le politiche devono essere guidate da un pannello di indicatori, i quali devono consentire una valutazione delle condizioni in cui vivono gli individui