Scarica Riassunto Procedura Civile Balena Volume I (Integrato con Riforma Cartabia) e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Civile solo su Docsity! 1 DIRITTO PROCESSUALE CIVILE (BALENA) + RIFORMA CARTABIA (d.lgs. 149/2022) VOLUME UNO – I PRINCIPI Capitolo I – IL DIRITTO PROCESSUALE CIVILE E LA FUNZIONE GIURSDIZIONALE Il DIRITTO PROCESSUALE è quella branca del diritto che disciplina l’insieme dei procedimenti attraverso cui si esercita la giurisdizione (che costituisce una delle funzioni essenziali dello Stato, accanto a quella legislativa e a quella amministrativa). Il diritto sostanziale mira a regolare in astratto tutti i possibili conflitti intersubiettivi, attribuendo posizioni di vantaggio (diritti, facoltà, poteri ecc.) e le corrispondenti situazioni di svantaggio (doveri, obblighi, soggezioni ecc.); il diritto processuale serve, invece, a disciplinare l’intervento del giudice quando lo stesso sia necessario al fine di rendere concreto ed effettivo l’assetto di interessi delineato dal diritto sostanziale [nello specifico, il diritto processuale civile governa l’esercizio della giurisdizione in materia civile]. La differenza tra legislazione e giurisdizione appare dunque evidente; problematico è, invece, definire il “proprium” dell’attività giurisdizionale, ossia i caratteri minimi essenziali che la differenziano dalla funzione amministrativa, preordinata anch’essa all’applicazione della legge. - Sul piano oggettivo è lo stesso Codice di procedura civile – che costituisce la fonte normativa più importante per la materia che stiamo analizzando – a ricondurre alla giurisdizione 2 fenomeni eterogenei, quali la 1) giurisdizione contenziosa e 2) giurisdizione volontaria; quest’ultima, dal punto di vista funzionale, appare assai prossima all’attività tipica dello Stato-amministrazione. Inoltre, vi sono organi che, seppur senz’altro estranei all’apparato giurisdizionale, sono per legge strutturati in modo considerevolmente autonomo rispetto all’esecutivo e ad essi sono attribuite funzioni tipiche della giurisdizione, quali la composizione di conflitti e l’irrogazione di sanzioni (: Autorità amministrative indipendenti - es. Autorità di garanzia nelle comunicazioni e Autorità garante della concorrenza e del mercato). Da quanto detto si evince che, se ci si sofferma su profili meramente oggettivi, l’attività giurisdizionale mal si presta ad una ricostruzione unitaria. - Sembra preferibile privilegiare l’aspetto soggettivo, rinunciando ad una definizione ontologica e riconoscendo come giurisdizione semplicemente quell’attività che promana dal giudice (da intendersi come ufficio giudiziario e non come persona fisica), si estrinseca in forme tipiche ed è assistita da determinate garanzie procedimentali. Il criterio soggettivo trova puntuale fondamento nell’art. 102 della Costituzione, ai sensi del quale: “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”. à Da ciò si evince che la giurisdizione non potrà essere esercitata da organi non appartenenti alla magistratura; in ogni caso, non è detto che ogni atto o provvedimento ascrivibile ad un ufficio giudiziario abbia necessariamente natura giurisdizionale, dal momento che è possibile e frequente che determinati organi cumulino in sé funzioni giurisdizionali e funzioni amministrative (esempio: presidente del tribunale, il quale è investito di compiti squisitamente giurisdizionali, ma nella direzione e nell’organizzazione del suo ufficio esercita attività di amministrazione pura.) In conclusione, dunque, il criterio soggettivo si integra con quello obiettivo e la linea di demarcazione potrà desumersi in virtù dell’interesse tutelato. LA GIURISDIZIONE CONTENZIOSA Obiettivo tipico ed essenziale della giurisdizione è quello di assicurare l’attuazione del diritto sostanziale, nell’eventualità in cui sorga un conflitto intersoggettivo. 2 Il diritto sostanziale attribuisce in astratto posizioni di vantaggio (situazioni giuridiche attive: diritti, poteri, facoltà) e le corrispondenti posizioni di svantaggio (situazioni giuridiche passive: doveri, obblighi, soggezioni e oneri) in presenza di determinati presupposti di fatto [ad es. chi ha subìto un danno ingiusto ha il diritto di vederselo risarcire da colui che lo abbia determinato con un proprio comportamento doloso o colposo – art- 2043 c.c.]. Nella maggioranza dei casi, tale regolamentazione “statica” è di per sé idonea a governare la realtà giuridica ed a risolvere ogni possibile conflitto d’interessi, dato che il titolare del diritto riesce a realizzare il vantaggio assicuratogli dal diritto sostanziale attraverso il comportamento del soggetto obbligato. Tuttavia, in certi casi ciò non avviene vuoi perché sorge un contrasto fra le parti circa l’applicazione della norma sostanziale, vuoi perché si verifica la c.d. crisi di cooperazione da parte del soggetto obbligato, il quale omette di tenere quel determinato comportamento necessario per la realizzazione dell’interesse del titolare del diritto. Qualora si verifichi una crisi di cooperazione, il conflitto diviene effettivo, ma ciò non esclude ancora che le parti riescano a comporlo autonomamente. N.B: In questi casi l’ordinamento rimane indifferente all’eventuale sorgere di un conflitto, come pure al modo in cui le parti ritengano eventualmente di comporlo, soprattutto perché gli interessi coinvolti sono di natura privatistica, sicché sono le parti, in linea di principio, a poterne invocare la tutela. La giurisdizione (la tutela giurisdizionale) interviene, invece, qualora a seguito di un conflitto, il titolare del diritto ne lamenti la lesione e chieda all’ordinamento di assicurargli la soddisfazione del proprio interesse, facendo a meno della cooperazione del soggetto obbligato. In tal caso si rende necessario il ricorso al PROCESSO, nel quale il giudice (: ossia un organo pubblico del quale l’ordinamento garantisce una posizione di autonomia, indipendenza ed imparzialità) dovrà innanzitutto accertare l’esistenza del diritto di cui viene lamentata la lesione e, successivamente, assicurarsi che il diritto in questione possa essere attuato anche contro la volontà del soggetto che l’ha leso. La giurisdizione fin qui considerata è giurisdizione contenziosa: presuppone l’esistenza di un conflitto intersoggettivo e mira alla composizione e alla risoluzione, in via autoritativa, del conflitto stesso. Tuttavia, ciò non vuol dire che il processo fallisca nel caso in cui lo stesso si esaurisce senza arrivare ad una decisione, magari perché le parti lo abbiano abbandonato, avendo esse ad es. trovato un accordo. Anche in tale ipotesi, infatti, l’attività giurisdizionale consegue pur sempre il risultato di condurre ad una (auto)risoluzione del conflitto. IL DIRITTO D’AZIONE (ART. 24 COST.) E I SUOI POSSIBILI CONDIZIONAMENTI La funzione della giurisdizione contenziosa, pur essendo meramente strumentale rispetto al diritto sostanziale, è egualmente essenziale ed irrinunciabile. Non a torto si è spesso affermato che la ragion d’essere della giurisdizione è da individuarsi nel divieto di autotutela, oggi esplicitamente consacrato negli artt. 392 e 393 c.p. che sanziona l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle cose e sulle persone. Va comunque ribadito che l’ordinamento, se non approntasse gli strumenti necessari per assicurare il conseguimento delle utilità e dei beni astrattamente garantiti dal diritto sostanziale, rinuncerebbe alla sua stessa “giuridicità” à L’essenzialità della giurisdizione contenziosa trova oggi un esplicito riconoscimento nell’art. 24, 1°comma, Cost. ai sensi del quale “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, nonché, per ciò che esplicitamente concerne i rapporti tra cittadino e P.A., nell’art. 113: “contro gli atti della pubblica amministrazione la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti”. à In tal modo si è voluta consacrare l’esistenza di un autonomo diritto, il diritto di azione, che ha natura strumentale rispetto ai diritti attribuiti dal diritto sostanziale ma, a differenza di questi ultimi, non può essere escluso dal legislatore ordinario; ciò significa che al riconoscimento di un determinato diritto, si accompagna automaticamente il riconoscimento del diritto di adire l’autorità giudiziaria per ottenerne tutela. In ciò consiste l’atipicità del diritto d’azione. Oggi, pertanto, non sarebbero concepibili ipotesi di pura e semplice negazione della tutela giurisdizionale di diritti accordati sul piano sostanziale (ipotesi che invece non erano infrequenti nel passato). 5 - Arbitrato irrituale/libero: le parti incaricano gli arbitri di definire la controversia mediante una determinazione contrattuale, destinata ad operare sul piano meramente sostanziale, senza mai poter ambire all’efficacia tipica della sentenza. N.B. In passato, ci sono state ipotesi in cui il legislatore ha imposto il ricorso all’arbitrato rituale per talune categorie di controversie (es. in materia di appalto di opere pubbliche) ma la Corte costituzionale , a partire dagli anni ’90, ha dichiarato l’illegittimità delle relative norme per contrasto con artt. 24 e 102 Cost, ribadendo il principio in base al quale “solo a fronte della concorde e specifica volontà delle parti (liberamente formatasi) sono consentite deroghe alla regola della statualità della giurisdizione”. Capitolo II - GIURISDIZIONE CONTENZIOSA Sezione I - Le forme di tutela Nell' ambito della GIURISDIZIONE CONTENZIOSA occorre distinguere dal punto di vista funzionale 3 diverse forme di tutela ciascuna caratterizzata da una propria finalità: 1) TUTELA COGNITIVA: mira a conseguire certezza in ordine all'esistenza o inesistenza di un diritto o di un'altra situazione giuridica attiva che l'attore vanti nei confronti del convenuto, e determinare l'obbligo che ne scaturisce in capo allo stesso convenuto oppure le modificazioni giuridiche chieste dall'attore e destinate a prodursi nella sfera giuridica del convenuto. 2) TUTELA ESECUTIVA: è diretta a conseguire l'attuazione forzata e dunque l'effettiva soddisfazione del diritto – già accertato attraverso l'esercizio della tutela cognitiva oppure risultante da un titolo esecutivo formatosi al di fuori del processo – nell'ipotesi in cui manchi la collaborazione del soggetto obbligato. 3) TUTELA CAUTELARE: è strumentale alle prime due, nel senso che serve ad assicurare l'utile e proficuo esercizio e allo stesso tempo è tendenzialmente provvisoria perché è destinata a durare per il tempo strettamente necessario a portare a compimento il processo di cognizione ed eventualmente ad avviare il processo esecutivo. 1) TUTELA COGNITIVA ed il suo rapporto con il giudicato La tutela cognitiva (o di cognizione) mira essenzialmente a conseguire certezza circa l’esistenza o comunque relativamente al modo di essere del diritto o del rapporto giuridico controverso. Certezza che, a seconda dei casi, può risultare di per sé sufficiente a soddisfare l’interesse dell’attore, oppure può aprire la strada all’utilizzazione degli ulteriori strumenti processuali che sono preordinati a garantire la concreta realizzazione del diritto riconosciuto esistente. Per comprendere come la tutela cognitiva consegua la certezza in ordine al diritto controverso, è necessario introdurre il concetto di cosa giudicata (o giudicato sostanziale); a riguardo, l’art. 2909 c.c. prevede che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”. Per sentenza passata (formalmente) in giudicato si intende quella che ha raggiunto un certo grado di stabilità e, pertanto, non è più soggetta alle impugnazioni ordinarie ma solo a quelle straordinarie. In virtù di tale stabilità, il legislatore ricollega alla sentenza passata in giudicato l’attitudine a far stato relativamente all’esistenza o all’inesistenza, nonché al modo di essere del rapporto oggetto del giudizio à dunque, nel momento in cui la sentenza passa in giudicato è ad essa che dovrà aversi riguardo per la concreta regolamentazione del rapporto controverso e tale regolamentazione non potrà rimettersi in discussione in alcun altro giudizio, se non per fatti successivi alla formazione del giudicato. Se, invece, la sentenza accertasse l’inesistenza del diritto vantato dall’attore, questi non avrebbe la possibilità di riproporre la domanda in un nuovo processo, magari utilizzando prove che non aveva dedotto nel primo, se non allegando fatti successivi alla sentenza. 6 à In proposito si suole dire che il giudicato copre il dedotto e il deducibile, nel senso che si esclude la possibilità di far valere, in un altro processo, non solo le ragioni dedotte nel primo giudizio e già disattese dal giudice, ma anche quelle che, pur essendo attuali, non siano state fatte valere nella sede precedente. È proprio da ciò che deriva la certezza che costituisce l’obiettivo essenziale della tutela cognitiva, il che consente di comprendere perché quest’ultima sia solitamente preordinata alla pronuncia di un provvedimento idoneo al giudicato sostanziale. La tutela cognitiva può esercitarsi in varie forme e modi: 1) La prima distinzione riguarda estensione e “profondità” (: accuratezza) dell’accertamento cui essa conduce: COGNIZIONE ORDINARIA à si parla si cognizione ordinaria come sinonimo di cognizione piena ed esauriente, con riferimento a tutti i processi che, essendo caratterizzati da un complesso di esaurienti garanzie, fanno sì che la decisione sia fornita del massimo grado di affidabilità ed attendibilità, affinché le si possa senz’altro attribuire l’autorità di cosa giudicata a norma dell’art.2909 c.c. Tali garanzie mirano, sia ad assicurare la piena realizzazione del principio del contraddittorio fra le parti, sia a consentire al giudice di conoscere tutti i fatti rilevanti e comprendono un congruo sistema di rimedi (impugnazioni) contro eventuali errori del giudice stesso. Il concetto di cognizione ordinaria è diverso e più ampio rispetto a quello di processo ordinario; con quest’ultimo ci si riferisce a quel modello di processo (: disciplinato dagli artt.163 ss.) che il legislatore considera come “processo-tipo”, utilizzabile per la tutela di qualunque diritto per cui non sia previsto un rito diverso. Esso, tuttavia, rappresenta soltanto uno dei molteplici processi a cognizione piena ed esauriente previsti dal nostro ordinamento, esistendo altri modelli processuali c.d “speciali” che forniscono egualmente garanzie e quindi rientrano nell’ambito della cognizione ordinaria. Tipico esempio (di altri modelli di processo a cognizione piena ed esauriente) è il processo del lavoro (artt. 409 ss.) che ha in realtà un ambito di applicazione ben più vasto del mero lavoro pubblico o privato, dato che costituisce il modello di riferimento, tra l’altro, per le controversie in materia di assistenza e previdenza obbligatorie, per tutte le controversie agrarie e per le opposizioni a verbali di accertamento di violazioni del codice della strada. COGNIZIONE SOMMARIA à a differenza di quella ordinaria, non fornisce le stesse garanzie di attendibilità ed affidabilità del risultato finale, ossia dell’accertamento cui perviene il giudice. Tale sommarietà può derivare: o Da modalità semplificate di attuazione del contraddittorio o, addirittura, dalla sua esclusione (ciò si verifica, in particolare, nel procedimento per ingiunzione, la cui peculiarità consiste nel condurre ad un provvedimento di condanna senza che il preteso debitore sia sentito); o Dal tipo di prove che il giudice può utilizzare per formare il proprio convincimento (si pensi all’art.28 l.300/70 in tema di repressione dell’attività antisindacale); o Dal fatto che il provvedimento di accoglimento della domanda si fondi su un comportamento processuale (omissivo) del convenuto, che di regola non sarebbe sufficiente per decidere (si pensi all’ordinanaza di convalida di sfratto, che può essere pronunciata a norma dell’art.663 non solo quando il conduttore-convenuto compaia in giudizio e non si opponga allo sfratto, ma anche quando egli ometta di comparire); o Dalla circostanza che l’accertamento del giudice riguardi alcuni soltanto dei fatti rilevanti per la decisione (è il caso dell’ordinanza prevista dall’art.665 nel procedimento per convalida di sfratto, con la quale il giudice ordina il rilascio senza aver ancora esaminato tutte le difese del convenuto). N.B. In concreto, non sempre la sommarietà di un procedimento emerge in modo inequivocabile dal suo mero raffronto con le caratteristiche del processo ordinario. Un elemento utile all’interprete è rappresentato dalla forma del provvedimento che il legislatore prescrive per la decisione: infatti, il provvedimento tipicamente idoneo al giudicato è la sentenza. Pertanto, qualora per la definizione di un processo sia prevista la pronuncia di una sentenza, sicuramente quest’ultima dovrà fondarsi su una cognizione piena ed esauriente 7 1. Il contrario, invece, non è sempre vero, dato che sono frequenti i casi in cui la previsione di una diversa forma di provvedimento (ordinanza) è motivata con l’esigenza di semplificare la materiale redazione del provvedimento stesso e non con la sommarietà della cognizione. La riforma del 2009 ha previsto che l’attore possa liberamente utilizzare, in luogo al processo ordinario, un diverso rito definito “PROCEDIMENTO SOMMARIO DI COGNIZIONE”, che si conclude con un’ordinanza pienamente idonea ad acquisire l’autorità della cosa giudicata. Pertanto, l’aggettivo “sommario” sta ad indicare una certa semplificazione del procedimento, che il legislatore ha disciplinato in modo assai scarno (rimettendone la concreta regolamentazione allo stesso giudice), e non una cognizione qualitativamente meno approfondita o meno affidabile di quella ordinaria. à Tale processo, sebbene sia definito in primo grado con ordinanza, è pur sempre un procedimento (speciale) a cognizione piena ed esauriente, che dovrebbe rimpiazzare quello ordinario nelle controversie più semplici. N.B. Le forme di tutela sommaria vera e propria implicano per definizione, una deviazione rispetto alle garanzie offerte dalla cognizione piena e, conseguentemente, vanno attentamente valutate quanto alla loro compatibilità con gli artt. 24 e 3, Cost., soprattutto dal punto di vista della tollerabilità della compressione che ne deriva al diritto di difesa del convenuto. LA FUNZIONE DELLA TUTELA SOMMARIA: CAUTELARE O NON CAUTELARE ed il suo rapporto con la tutela ordinaria (domanda) DISTINZIONE FUNZIONALE à La TUTELA SOMMARIA si distingue tra tutela sommaria cautelare e tutela sommaria non cautelare [distinzione che si fonda innanzitutto sulla diversa funzione che ad esse compete): - TUTELA SOMMARIA CAUTELARE: costituisce un genus a sé stante rispetto alla tutela cognitiva e a quella esecutiva ed è estremamente strumentale rispetto al processo a cognizione piena e a quello ad esecuzione forzata, dei quali dovrebbe assicurare la proficuità. I provvedimenti cautelari servono ad impedire che, nel tempo necessario per portare a compimento il processo di cognizione (ed eventualmente quello esecutivo), il diritto azionato subisca un pregiudizio irrimediabile o che, comunque, intervengano modificazioni tali da rendere sostanzialmente inutile, per l’attore, l’accoglimento della domanda (es. si può ricorrere al sequestro conservativo per evitare che il debitore svuoti il proprio patrimonio, sottraendo così al creditore la possibilità di ottenere la concreta soddisfazione del proprio diritto). - TUTELA SOMMARIA NON CAUTELARE: invece, risponde ad esigenze di economicità della tutela giurisdizionale; cioè mira ad offrire una sorta di scorciatoia rispetto alla cognizione ordinaria, ogni qual volta ricorrano particolari situazioni che potrebbero rendere eccessivo o superfluo, un provvedimento a cognizione piena ed esauriente (es. quando il comportamento processuale del convenuto lascia presupporre la fondatezza della domanda dell’attore) DISTINZIONI EVENTUALI à Accanto a questa fondamentale differenza funzionale, ce ne sono altre 2, meno evidenti, perché solo eventuali: 1) Contenuto: - il provvedimento sommario non cautelare, dato che deve surrogare quello a cognizione piena, deve avere un contenuto del tutto simile a quest’ultimo, cioè implica un’anticipazione (anche parziale) degli effetti che deriverebbero dalla sentenza di accoglimento della domanda; - il provvedimento sommario cautelare, invece, ha un contenuto più vario che non coincide necessariamente con quello del provvedimento a cognizione piena. 1 Un raro esempio di provvedimento sommario per il quale è prescritta la pronuncia con sentenza è la condanna con riserva di eccezioni 10 nonché, eventualmente, della successiva esecuzione forzata, ed è utilizzabile ancor prima che il processo a cognizione sia stato instaurato 2. Nella tutela cautelare è possibile distinguere una fase deputata alla cognizione ed una preordinata all’attuazione del provvedimento. Tuttavia, le 2 fasi sono inscindibilmente collegate fra loro, poiché la prima non gode di una propria autonomia e serve unicamente a verificare la sussistenza delle 2 condizioni (domanda) cui è subordinata la concessione della misura cautelare. Tali condizioni sono: A) PERICULUM IN MORA: sta ad indicare che la misura cautelare presuppone una situazione di pericolo per il diritto tutelato che può derivare: a. dalla possibilità che, nel tempo occorrente per portare a compimento il processo di cognizione e/o di esecuzione, la situazione di fatto venga alterata in modo irreversibile, tanto da pregiudicare la successiva attuazione coattiva del diritto à rispondono le misure cautelari conservative, le quali cristallizzano la situazione, evitando che la realizzazione del diritto possa divenire impossibile (es. il sequestro giudiziario del bene oggetto della rivendita può assicurarne la custodia nelle more del processo di cognizione); b. dalla possibilità che la soddisfazione tardiva del diritto da tutelare risulti inutile (o scarsamente utile) per il creditore o comunque arrechi a quest’ultimo un danno non rimediabile ex post. à nel caso in cui il pericolo riguardi il protrarsi dello stato di insoddisfazione del diritto, si potrà ricorrere ai provvedimenti cautelari di tipo anticipatorio, che sono in grado di produrre effetti in tutto o in parte analoghi a quelli che deriverebbero da una sentenza di accoglimento della domanda (in tal modo anticipando, sebbene provvisoriamente, il risultato che il titolare del diritto può sperare di conseguire al termine del processo ordinario di cognizione e di esecuzione). B) FUMUS BONI IURIS: sta ad indicare la sommarietà che contraddistingue la cognizione cautelare, contrapponendola alla cognizione ordinaria, piena ed esauriente. Il giudice del cautelare, dunque, non è chiamato ad accertare l’esistenza del diritto, ma dovrà limitarsi ad un giudizio di probabilità o di verosimiglianza o addirittura di non manifesta infondatezza della stessa. Tuttavia, parte della dottrina ha obiettato che sarebbe incongruo, per scongiurare il pericolo che minacci un ipotetico diritto meramente probabile, consentire al giudice la pronuncia di un provvedimento che, a sua volta, potrebbe determinare a carico della parte che lo subisce un pregiudizio non più eliminabile ex post. Pertanto, è preferibile l’opinione secondo cui il convincimento che il giudice deve conseguire, prima di accogliere la domanda cautelare, è qualitativamente uguale da quello che gli sarebbe richiesto nel processo a cognizione piena. à la sommarietà deriva dalla necessità di provvedere in tempi assai brevi, limitando l’istruttoria a prove di celere acquisizione e, eventualmente, assunte senza il rispetto delle formalità prescritte per il processo ordinario. 3 Sezione II - Le azioni di cognizione e le sentenze cui conducono Le azioni di cognizione si dividono, a seconda del tipo di pronuncia che l’attore chiede al giudice, in: 1) azioni di mero accertamento; 2) azioni di condanna; 3) azioni costitutive. 2 Per lungo tempo quest’autonomia funzionale non aveva trovato particolari ricadute sul piano pratico, perchè la Corte cost. aveva sempre negato che essa potesse essere inclusa sotto la garanzia del diritto d’azione; la svolta si ebbe con la sentenza n.190/1985, nella quale la Consulta sancì l’essenzialità della tutela cautelare. Oggi, pertanto, è lecito affermare che l tutela in questione trova una propria autonoma collocazione nell’ambito del diritto alla tutela giurisdizionale. 3 Precisiamo che la sommarietà può riguardare esclusivamente l'accertamento dei fatti, poiché, riguardo alla fondatezza della domanda in iure, la posizione del giudice del procedimento cautelare non differisce da quella del giudice del processo a cognizione piena. 11 1) AZIONE DI MERO ACCERTAMENTO (l’azione e la sentenza di mero accertamento) L’azione di mero accertamento mira esclusivamente a fare certezza circa l’esistenza ed il modo di essere di un determinato rapporto giuridico (azione di accertamento positivo), oppure circa l’inesistenza di un diritto da altri vantato, che si assume non essere mai sorto o essersi comunque estinto (azione di accertamento negativo). Nel c.c. vi sono norme dalle quali è possibile desumere l’ammissibilità di un’azione di mero accertamento (positivo o negativo) di diritti reali 4 ed altre che sono riferibili ad azioni di mero accertamento (negativo) di negozi giuridici (tali sono ritenute le azioni di nullità e di simulazione dei contratti). Più controversa è l’ammissibilità del mero accertamento di diritti relativi, aventi cioè ad oggetto una specifica prestazione da parte di un soggetto determinato; per questi ultimi particolarmente discussa è l’ipotesi del mero accertamento negativo, tenuto conto che, quando l’attore chiede, ad es., di accertare l’inesistenza di un credito vantato dal convenuto nei suoi confronti, non è chiaro quale sia il diritto che egli fa valere in giudizio e per il quale invoca la tutela. Invece, la giurisprudenza non si pone troppi dubbi circa la generale ammissibilità dell’azione di mero accertamento, sia esso positivo o negativo. In favore di tale soluzione, si asserisce che in alcune situazioni l’azione di mero accertamento è l’unica forma di tutela idonea a rimuovere una situazione di incertezza che sia fonte di danno per l’attore. Si può allora ritenere che la soluzione positiva circa l’ammissibilità dell’azione di mero accertamento anche al di fuori delle fattispecie contemplate dalla legge, trovi un argomento decisivo nell’art. 24, 1° comma, Cost. e nella relativa atipicità del diritto d’azione. L’azione di mero accertamento incontra, ovviamente rigorose limitazioni: A) Un primo limite riguarda l’oggetto: è pacifico che l’azione di accertamento debba vertere su un diritto o uno status, ma mai sull’esistenza o sull’interpretazione di norme giuridiche astrattamente considerate, né su meri fatti estratti dal contesto di un determinato rapporto giuridico. Tuttavia, fanno eccezione alcune azioni previste dalla legge, che riguardano la verificazione di una scrittura privata al fine di accertare l’autenticità della relativa sottoscrizione, e la querela di falso nei confronti di un atto pubblico o di una scrittura privata. B) Oltre a tale limite, l’azione di mero accertamento è subordinata alla condizione dell’interesse ad agire (art.100), il quale può costituire un filtro considerevole dell’efficacia di tali azioni. Fermi restando questi limiti, non sembra che l’azione in esame possa essere subordinata ad ulteriori condizioni o presupposti. 2) AZIONE DI CONDANNA (domanda) L’azione di condanna si verifica quando l’attore non si limita a domandare l’accertamento del diritto dedotto in giudizio, ma chieda al giudice di verificarne l’intervenuta lesione, a causa dell’inadempimento del debitore e, conseguentemente, di condannare quest’ultimo alla prestazione di dare o di fare necessaria per realizzare il proprio interesse. Tale pronuncia costituisce il presupposto per la successiva attuazione coattiva del diritto, vuoi attraverso l’esecuzione forzata, vuoi attraverso altri strumenti di esecuzione indiretta. L’effetto tipico della sentenza di condanna risiede nella idoneità a dar vita all’esecuzione coattiva. Accanto a tale effetto vi sono altri effetti secondari della condanna: - Art. 2818: prevede che ogni sentenza che porta condanna al pagamento di una somma o all’adempimento di altra obbligazione, nonché al risarcimento dei danni da liquidarsi successivamente sia titolo per l’iscrizione d’ipoteca giudiziale sui beni del debitore; ciò chiaramente al fine di consentire all’attore di procurarsi una garanzia specifica per l’ipotesi in cui il debitore non adempia spontaneamente all’obbligo impostogli dal provvedimento. - Art. 2953: stabilisce che qualora il diritto dedotto in giudizio sia soggetto ad una prescrizione più breve di quella ordinaria decennale, la pronuncia di una sentenza di condanna passata in giudicato converte la prescrizione breve in prescrizione ordinaria, con la conseguenza che l’azione esecutiva sarà eseguibile nel termine di dieci anni. Condanna ed esecuzione forzata (domanda) 4 In particolare, gli artt. 1079 e 948, riguardanti rispettivamente l’actio confessoria e l’actio negatoria servitutis. 12 Come accennato, l’effetto principale della domanda di condanna è quello di procurare all’attore un titolo che gli consenta, se il soggetto obbligato non adempie spontaneamente il comando contenuto nella sentenza, di avviare il processo esecutivo, nella forma corrispondente al contenuto della domanda. à Dato che l’effetto tipico della sentenza di condanna è quello di costituire titolo esecutivo, la dottrina ha ravvisato una forte correlazione tra l’azione di condanna e l’esecuzione forzata. Peraltro, il processo esecutivo incontra un limite invalicabile nell’eventuale infungibilità dell’obbligo di fare gravante sul debitore 5 e, in tali situazioni, il diritto potrà trovare attuazione solo con la cooperazione del debitore stesso, non essendo indifferente. Accanto a tali ipotesi, va considerato il caso degli obblighi di natura negativa (ossia di non fare) 6 che implicano il dovere di astenersi da comportamenti che possano turbare il godimento della res. Spesso è lo stesso legislatore a prevedere che il giudice pronunci condanne a contenuto inibitorio, consistenti nell’ordine di cessare o di non reiterare un determinato comportamento illecito, eventualmente accompagnato dalla condanna alla rimessione in pristino. In queste situazioni, l’esecuzione forzata non è idonea ad assicurare l’attuazione del diritto, attraverso la realizzazione diretta dell’interesse del suo titolare, poiché non è in grado di impedire il compimento dell’attività che ne costituisce violazione, ma può servire ex post ad attuare coattivamente le misure riparatorie che a tale violazione conseguono (consistenti, a seconda dei casi, nel risarcimento del danno oppure nella rimessione in pristino, che implica un obbligo di disfare). In tutti questi casi, dunque, l’effettività della tutela giurisdizionale passa necessariamente attraverso il ricorso agli strumenti di esecuzione indiretta. L’esecuzione indiretta attraverso le misure coercitive (domanda) Per assicurare l’effettiva realizzazione dell’interesse del titolare del diritto leso, qualora la sentenza di condanna non trovi attuazione attraverso l’esecuzione forzata, bisogna ricorrere alle misure coercitive, quali strumenti preordinati a disincentivare l’inadempimento dell’obbligo imposto dalla sentenza di condanna. Tali misure coercitive possono consistere in vere e proprie sanzioni penali o sanzioni civili che rendono più gravose le conseguenze dell’inadempimento della sentenza di condanna. La riforma del 2009 ha introdotto una misura civile generale, applicabile alle sole condanne aventi ad oggetto obblighi di fare infungibili o di non fare (ed espressamente esclusa nelle controversie di lavoro subordinato, pubblico o privato, nonché in quelle di lavoro parasubordinato), stabilendo che il giudice (art. 614 bis), con il provvedimento di condanna fissi, su istanza di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Quanto alle misure di natura penale, l’unica disposizione idonea ad assicurare l’attuazione di qualunque provvedimento di condanna è rappresentata dalla norma (art. 388 c.p.) che sanziona (con la reclusione o con la multa) chi, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, compie sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti 7 Più numerose sono le misure coercitive (penali e civili) previste a garanzia di determinate condanne, che solitamente attribuiscono rilievo alla mera inosservanza volontaria del provvedimento del giudice. In realtà, il legislatore può impiegare le misure coercitive anche solo per rafforzare la tutela già offerta dall’esecuzione forzata, anzi, il ricorso a tale tecnica è l’unica soluzione quando ci si trovi in presenza di obblighi di fare in tutto o in parte infungibili, oppure di obblighi di non fare, rispetto ai quali l’esecuzione forzata non sarebbe utilizzabile. IPOTESI PARTICOLARI DI CONDANNA: CONDANNA GENERICA (domanda) Di regola, nel pronunciare la condanna, il provvedimento del giudice deve determinare compiutamente l’oggetto della prestazione cui il debitore è tenuto. 5 Si pensi all’obbligo del datore di reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato o di adibire il lavoratore stesso alle diverse mansioni corrispondenti alla sua qualifica 6 Si pensi soprattutto ai diritti assoluti, che per definizione implicano, in campo agli omnes, il dovere di astenersi da comportamenti che possano turbare il godimento della res. 7 Ma gli elementi soggettivi ed oggettivi in essa richiesti ne circoscrivono notevolmente il rilievo pratico. 15 Azioni costitutive necessarie: quelle che mirano ad una modificazione (concernente un diritto indisponibile) che le parti non avrebbero alcuna possibilità di conseguire per altra strada, attraverso la propria autonomia negoziale, neppure volendolo entrambe (es. impugnazioni del matrimonio ai sensi agli artt.117 ss. c.c., domanda di divorzio o separazione personale e azione di disconoscimento di paternità). In questi casi, è difficile individuare un diritto sottostante, preesistente al processo, che sia diverso dal puro e semplice diritto d’azione tant’è che, probabilmente, tali azioni meriterebbero una collocazione autonoma sia rispetto alla giurisdizione contenziosa, sia rispetto a quella volontaria. Infatti, parte della dottrina utilizza a riguardo il concetto di giurisdizione (o processi) a contenuto oggettivo, per sottolineare come tali processi vertano semplicemente sul dovere per il giudice di provvedere. Non sempre, però, la linea di confine tra l’azione costitutiva e l’azione di mero accertamento è netta, poiché vi sono casi, riguardanti rapporti giuridici sottratti alla disponibilità delle parti, in cui il legislatore richiede, per un’esigenza di certezza, che l’esistenza o l’inesistenza del rapporto venga accertata dal giudice, ma nel contempo lascia intendere che l’accertamento riguarda, per l’appunto, una situazione determinatasi prima e fuori del processo, rispetto alla quale la sentenza mantiene una funzione meramente dichiarativa. SENTENZE DETERMINATIVE Oltre alle sentenze di mero accertamento, di condanna e quelle costitutive, parte della dottrina utilizza l’ulteriore categoria delle sentenze determinative, che costituirebbero una figura trasversale rispetto alle altre, nel senso che potrebbero aversi sentenze “meramente determinative”, “determinative di condanna”, o “determinative costitutive”. Mentre, secondo una differente opinione, rappresenterebbero una species all’interno del genus delle sentenze costitutive. La nozione di sentenza determinativa allude alle ipotesi in cui il giudice è chiamato ad integrare o a specificare il contenuto di un diritto o di un obbligo, che virtualmente preesiste rispetto al suo intervento, ma non è compiutamente determinato. A tal fine, il giudice esercita una discrezionalità che potrebbe definirsi tecnica, dovendosi pur sempre ispirare a parametri e criteri oggettivi. Si pensi al caso in cui il giudice debba stabilire la misura degli alimenti, in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle condizioni economiche di chi deve somministrarli. L’autonomia e la concreta utilità di tale categoria di sentenze appaiono dubbie, dato che la necessaria integrazione della norma sostanziale, ad opera del giudice, deve considerarsi un fenomeno assolutamente normale, discendendo dall’inevitabile elasticità e genericità delle nozioni e dei concetti di cui il legislatore è costretto ad avvalersi nella definizione delle fattispecie sostanziali. Il problema, semmai, è quello di stabilire se il diritto o l’obbligo, così come definito dalla pronuncia del giudice, debba considerarsi nato solo con tale pronuncia, oppure nel momento stesso in cui, sul piano sostanziale, si erano verificati tutti i presupposti presi in considerazione nel provvedimento determinativo. Sezione III - Il diritto e l’azione 23. La relatività del concetto di azione Quello dell’azione è un concetto essenzialmente relativo, infatti esso risente della profonda diversità di obiettivi che contraddistingue le azioni di cognizione rispetto a quelle esecutive e cautelari. Lo stesso legislatore parla di “azione” in modo non univoco e spesso come mero sinonimo di diritto soggettivo. Il diritto all’azione si sostanzia, almeno per quel che concerne l’azione di cognizione, nel diritto ad ottenere dall’autorità giudiziaria un provvedimento su una determinata domanda. - Secondo la concezione più astratta, dato che l’azione si ricollegherebbe al dovere del giudice di rispondere comunque alla domanda, essa tenderebbe ad ottenere un provvedimento indipendentemente dal contenuto della decisione e finanche quando quest’ultima fosse di inammissibilità o di rigetto. - Tesi opposta è quella dell’azione in senso concreto, che identifica la stessa col diritto ad ottenere dal giudice una decisione di accoglimento della domanda. In quest’ultima prospettiva appare chiaro che tra gli elementi costitutivi del diritto d’azione viene ricompresa anche l’esistenza di una volontà di legge favorevole all’attore, cioè la sussistenza di tutte le condizioni cui è subordinata la fondatezza della domanda e, dunque, l’esistenza stessa del diritto dedotto in giudizio. dedotto in giudizio e l’inadempimento del correlato obbligo, ma determina essa stessa la modificazione giuridica idonea a realizzare l’interesse dell’attore vittorioso (si vuole affermare che la sentenza costitutiva è self executing). 16 - La concezione più diffusa è però una via di mezzo fra le due, giacché definisce l’azione come il diritto ad ottenere un provvedimento di merito, ossia una pronuncia che decida sulla fondatezza della domanda, anche se in modo sfavorevole per l’attore. Accogliendo tale definizione, l’esistenza del diritto d’azione viene svincolata dalla concreta esistenza del diritto dedotto in giudizio e dipende da 2 elementi, le c.d. condizioni dell’azione: 1. LEGITTIMAZIONE AD AGIRE; 2. INTERESSE AD AGIRE. 24. Le c.d. condizioni dell’azione di cognizione e i presupposti processuali La legittimazione ad agire (legitimatio ad causam) e l’interesse ad agire, rappresentano gli elementi costitutivi del diritto d’azione (à infatti, il giudice deve accertare la sussistenza di esse in via preliminare rispetto alla pronuncia sul merito) e, dunque, del diritto ad ottenere una pronuncia sul merito della causa, ossia sulla fondatezza della domanda 11. Le 2 condizioni dell’azione, dunque, sono condizioni di decidibilità della domanda nel merito. Pertanto, la decisione che neghi una di queste condizioni dell’azione rientra nel novero delle pronunce meramente processuali. Tuttavia, è comunque da ritenere che un provvedimento di questo tipo partecipi dell’efficacia decisoria propria delle sentenze di merito, sebbene non possa fare stato sul rapporto giuridico che era stato dedotto in giudizio e sul quale il giudice ha rifiutato di giudicare proprio a causa del ritenuto difetto di legittimazione o dell’interesse ad agire. È possibile, dunque, distinguere le condizioni dell’azione dai presupposti processuali, i quali si riferiscono alla domanda giudiziale e servono ad instaurare validamente e regolarmente il processo: anch’essi condizionano la possibilità che il giudice pervenga ad una pronuncia sul merito della causa. La categoria dei presupposti processuali abbraccia una quantità di requisiti eterogenei, che possono riguardare l’instaurazione stessa del processo, oppure la possibilità che esso prosegua verso la propria meta naturale, costituita dalla decisione sul rapporto giuridico controverso. Talora si afferma che le condizioni dell’azione, a differenza dei presupposti processuali, potrebbero anche sopravvenire nel corso del giudizio, dovendo sussistere solo al momento della decisione. D’altro canto, non è sempre vero che, per i presupposti processuali, valga la regola opposta, ossia che essi debbano necessariamente preesistere all’instaurazione del processo. 25. La legittimazione ad agire e le ipotesi di sostituzione processuale LEGITTIMAZIONE AD AGIRE (o legitimatio ad causam) 12: è il primo elemento costitutivo del diritto d’azione (o condizione dell’azione), serve ad individuare a chi l’azione spetti (titolarità dell’azione). Il criterio ordinario di legittimazione è: il diritto di azione compete a chiunque faccia valere nel processo un diritto assumendo di esserne il titolare. In altre parole, per stabilire se il soggetto che ha proposto la domanda sia legittimato ad agire, si guarda esclusivamente alla domanda stessa e alla circostanza che in essa si affermi di essere il titolare del diritto dedotto in giudizio. Naturalmente potrà accadere che il processo pervenga ad accertare che tale diritto non esiste o che appartiene ad altri, ma ciò attiene al merito della causa e non implica una negazione del diritto d’azione, la cui sussistenza deve essere valutata in base alla mera prospettazione dell’attore. Il criterio ordinario di legittimazione si desume (a contrario) dall’art. 81 c.p.c. sostituzione processuale “fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui.” Lo stesso art. 81 lascia intendere che vi sono casi tassativamente indicati dal legislatore in cui è consentito far valere nel processo, in nome proprio, un diritto altrui. Queste sono le ipotesi di legittimazione straordinaria, dette anche di sostituzione processuale e caratterizzate dal fatto che il sostituto processuale è abilitato ad agire, in nome proprio, per ottenere una decisione circa un rapporto giuridico cui egli è dichiaratamente estraneo e di cui è titolare il sostituito. 11 Infatti, solo se il giudice ritiene sussistenti queste 2 condizioni ha il dovere di pronunciare sul merito (invece, se manca la legittimazione ad agire e/o l’interesse ad agire, il giudice si deve fermare, essendoci carenza del diritto d’azione). 12 Da non confondersi con la legittimazione processuale (o legitimatio ad processum), che attiene al tema della capacità processuale. 17 Esempio tipico è quello dell’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c., in cui si consente al creditore di esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore, allorché questi ometta di farlo. Si badi che, anche in questo caso, l’attore agisce in realtà a tutela di un proprio diritto o interesse (ad es. nell’azione surrogatoria si tratta del credito vantato dal sostituto nei confronti del debitore), oppure quando la legittimazione sia attribuita ad un organo pubblico (es. p.m.) nell’adempimento di un dovere a lui imposto dalla legge, qualora la legittimazione sia attribuita ad un organo pubblico. Altre fattispecie di sostituzione processuale possono ravvisarsi, ad es. in tema di impugnazione del matrimonio, quando la relativa legittimazione sia estesa ai parenti, al p.m. e a tutti coloro che possono vantare un interesse legittimo ed attuale (art. 117 c.c.) o di nullità del contratto (art. 1421 c.c.); nell’azione confessoria o negatoria servitutis esperibile dall’usufruttuario, nonché nelle c.d. azioni dirette, una varietà di ipotesi caratterizzate dal fatto che a determinati creditori si consente di dedurre in giudizio un credito del proprio debitore, per poi trovare diretta soddisfazione del proprio credito nei confronti del debitor debitoris. Da quanto visto si evince che il rilievo pratico della legittimazione ad agire è piuttosto modesto, perché avviene spesso che l’attore, senza poter vantare alcun titolo di legittimazione straordinaria, pretenda di esercitare un diritto dichiaratamente altrui. Altrettanto limitata è la concreta utilità della c.d. LEGITTIMAZIONE A CONTRADDIRE, che attiene alla titolarità passiva dell'azione à essa spetta a chi, nella prospettazione della domanda, venga indicato quale titolare dell'obbligo o della diversa situazione soggettiva passiva dedotta in giudizio. La legittimazione a contraddire nasce quindi dalla correlazione fra colui contro il quale l’azione è proposta e colui che nella domanda l’attore indica essere o il titolare passivo del diritto, o il soggetto che ha violato tale diritto. In base a quanto detto si può affermare che il più delle volte si adopera impropriamente l’espressione difetto di legittimazione (attiva o passiva) con riferimento a situazioni nelle quali, in realtà, è in discussione l’esistenza stessa del diritto in favore dell’attore, oppure l’esistenza dell’obbligo in capo al convenuto. Va poi aggiunto che il problema della legittimazione ad agire e a contraddire può porsi in termini ben più concreti con riguardo all’istituto del litisconsorzio necessario (art. 102 cpc), che attribuisce al giudice il potere-dovere di verificare che al giudizio siano stati chiamati a partecipare tutti coloro nei confronti dei quali la decisione deve produrre effetti. 26. L’interesse ad agire L’art. 100 c.p.c. stabilisce che “per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse”. Il requisito dell’INTERESSE AD AGIRE rappresenta la seconda condizione dell’azione e dovrebbe assicurare che alla tutela giurisdizionale si acceda solo quando essa può risultare utile all’attore à infatti, non basta che l’attore affermi che il diritto esiste e di esserne titolare, ma deve anche dimostrare che questo diritto necessita della tutela giurisdizionale. Parte della dottrina nega l’effettiva ed autonoma importanza di tale requisito. Tuttavia, sembra prevalere l’opinione secondo cui l’interesse ad agire svolgerebbe un ruolo autonomamente apprezzabile solo nell’ambito dell’azione di mero accertamento ed in quella cautelare (nella quale ultima si identificherebbe con il periculum in mora). Non nell’azione costitutiva perché, trattandosi di un’azione consentita in ipotesi tipiche, la valutazione dell’interesse ad agire sarebbe stata compiuta a monte dallo stesso legislatore (e rimarrebbe assorbita dalla sussistenza dei fatti costitutivi del diritto alla modificazione giuridica cui mira); non nell’azione di condanna, poiché la relativa sentenza presuppone l’inadempimento e, dunque, una lesione già attuale del diritto da cui non può non scaturire l’interesse alla tutela giurisdizionale. Tuttavia, non può escludersi che il requisito dell’interesse ad agire viene eccezionalmente in rilievo anche in relazione a domande costitutive o di condanna. Per queste ultime proprio l’interesse ad agire potrebbe limitare la proponibilità di azioni di condanna aventi ad oggetto obblighi di fare infungibili o non suscettibili d’esecuzione forzata, per i quali non fossero concretamente utilizzabili strumenti di esecuzione indiretta. Quanto alle azioni di mero accertamento, la tesi più diffusa è che l’interesse ad agire si ricolleghi alla lesione o al pericolo attuale di lesione (apprezzabile e non meramente teorico), che derivi all’attore dal permanere di una situazione obiettiva d’incertezza circa l’esistenza o l’inesistenza di un rapporto giuridico.[incertezza provocata dalla circostanza che il convenuto abbia contestato un diritto dell’attore stesso oppure abbia nei suoi confronti vantato un proprio diritto]. 20 trattamento processuale per taluni versi differenziato fra le parti – che risulti in qualche misura privilegiato per taluna di esse – purché tale differenziazione sia ragionevole, cioè giustificata da un’oggettiva disparità fra le parti medesime, e non si traduca in un’indebita compressione del diritto d’azione o di difesa. 31. LA RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO Ancora l’articolo 111, 2°comma Cost. prevede che la legge assicuri la ragionevole durata del processo 13. Tale principio è di primaria importanza e lo si potrebbe far discendere dallo stesso art.24 Cost., dato che in molti casi una decisione, pur favorevole, se interviene troppo tardi rispetto al momento in cui la parte ha adito il giudice, può risultare concretamente inutile e rischia di risolversi in un sostanziale diniego di tutela. Ad ogni modo, quella dell’art. 111 è una disposizione di mero indirizzo, priva di ricadute immediate sul processo anche perché ogni causa ha i propri tempi fisiologici (che risentono della peculiarità della controversia e dell’urgenza che le parti abbiano di pervenire alla decisione). Se il legislatore volesse dare effettiva attuazione al principio in questione, dovrebbe operare per un verso sugli aspetti organizzativi e strutturali, assicurando un rapporto adeguato tra il numero complessivo delle controversie ed il numero dei magistrati addetti alla loro trattazione e, per altro verso, sul piano strettamente processuale, dovrebbe prevedere strumenti atti ad evitare che una delle parti o lo stesso giudice possano ritardare ad libitum il momento della decisione. Fino ad oggi, invece, alle varie riforme che hanno inciso sul processo, non hanno corrisposto efficaci innovazioni idonee ad incrementare la produttività degli uffici giudiziari, con la conseguenza che i tempi medi dei nostri giudizi civili sono andati via via crescendo, attestandosi su livelli di gran lunga superiori a quelli di tutti gli altri paesi europei e determinando condanne risarcitorie sempre più frequenti dello Stato italiano da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il legislatore è stato dunque costretto ad intervenire con una legge ad hoc (Legge Pinto 89/2001) per disciplinare, attraverso una specifica normativa processuale (attribuendo la relativa competenza, in unico grado, alla Corte d’appello), il diritto ad una equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole previsto dall’art.6 della citata Convenzione. Nel 2012, la disciplina è stata modificata stabilendosi che il diritto all’equa riparazione è subordinato all’esperimento di taluni rimedi preventivi, teoricamente idonei a velocizzare il processo. 32. IL PRINCIPIO DEL GIUSTO PROCESSO REGOLATO DALLA LEGGE Il riformato articolo 111, Cost. afferma che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”. Enunciato questo cui non è affatto facile attribuire una portata concreta ed autonoma, specialmente per quel che riguarda il concetto di “giusto processo”. Fermo restando che si tratta di una disposizione priva di contenuto immediatamente precettivo, l’alternativa offerta all’interprete è duplice: - il concetto di giusto va interpretato nel senso di individuare una sorta di sintesi delle garanzie che il legislatore ha poi consacrato nei commi successivi dello stesso art. 111; - oppure, com’è preferibile, ritenere che il processo “giusto” sia quello che riesce a dare concreta e fedele attuazione a quell’assetto di interessi astrattamente delineato dal diritto sostanziale. IN ALTRE PAROLE, il principio potrebbe dirsi rispettato solo quando il processo: 1) fosse congegnato in modo tale da rendere l’accertamento del giudice il più possibile attendibile e conforme alla realtà dei fatti (verità materiale); 2) fosse munito degli strumenti occorrenti per far concretamente conseguire alla parte che ha invocato la tutela giurisdizionale, tutte quelle utilità che il legislatore sostanziale le aveva in astratto garantito. Quanto all’esigenza che il processo sia “regolato dalla legge”, è chiaro che essa non può essere intesa in termini assoluti, dato che è inevitabile che alcuni aspetti della disciplina processuale (es. la fissazione di alcuni termini) siano rimessi all’apprezzamento del magistrato, dovendo appunto essere adattati alla peculiarità del singolo processo. L’art. 111, 1° comma, pone tuttavia dei limiti: 13 Di “termine ragionevole” parlava già l’art.6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 21 - in primo luogo, deve ritenersi esclusa, per il processo giurisdizionale14, la possibilità di affidare genericamente al giudice l’integrale regolamentazione del processo; - in secondo luogo, ogni eventuale deroga rispetto al principio di precostituzione legislativa ed uniforme della disciplina processuale, deve risultare giustificata dall’esigenza di tener conto delle possibili peculiarità del processo e dev’essere sufficientemente precisata e circoscritta quanto ai presupposti del potere attribuito al giudice, onde evitare che tale potere possa sfociare in discrezionalità assoluta. 33. L’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE E LA GARANZIA DEL RICORSO PER CASSAZIONE: RINVIO. CENNI SULLA PRONUNCIA SECONDO EQUITÀ L’articolo 111, 6°comma Cost. prevede che tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Questo perché la motivazione costituisce un requisito indispensabile per ricostruire l’iter logico della decisione e, nel contempo, consente di verificare che la stessa risponda ai canoni oggettivi derivanti dal diritto e dalla ragione, evitando che il giudice possa risolvere la controversia in base a proprie intuizioni soggettive. Deve ritenersi, peraltro, che il legislatore costituzionale abbia inteso riferirsi ai provvedimenti giurisdizionali aventi contenuto decisorio. Si discute se siano o meno compatibili con il precetto costituzionale diverse soluzioni che prevedono ipotesi di motivazione non obbligatori, ma subordinata ad esempio all’esplicita richiesta di una delle parti. L’ articolo 111 7° comma prevede un’altra garanzia ammettendo il ricorso in Cassazione per violazione di legge contro le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, oltre che (art.111, 8° comma) nei confronti delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Tale disposizione implicitamente presuppone l’obbligo per il giudice di decidere secondo la legge; obbligo ribadito, in termini più puntuali, nell’articolo 113 c.p.c. ai sensi del quale il giudice, nel pronunciarsi sulla causa, “deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità” (che consiste nella possibilità di discostarsi dalla soluzione che gli sarebbe imposta da quella norma, per cercare altrove la regola non scritta cui attenersi per la soluzione del caso concreto). A tal proposito, si è soliti distinguere in base alla circostanza che il giudizio secondo equità sia necessario, in quanto previsto dalla legge, oppure riposi sulla volontà comune delle parti (c.d. equità concordata). Mentre quest’ultima ipotesi (contemplata nell’art. 114 cpc, limitatamente alle cause riguardanti “diritti disponibili delle parti”, e praticamente sconosciuta alle parti) non presenta particolari problemi, l’equità necessaria (prevista dall’art.113, 2° cpc per tutte le decisioni rese dal giudice di pace in cause di valore non superiore ai 1100 €, ad eccezione di quelle derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari e dei giudizi di opposizione ad ordinanza di ingiunzione) suscita dubbi di illegittimità costituzionale, in relazione sia all’art. 101, 2°comma, Cost. che prevede che i giudici siano soggetti solo alla legge, sia in relazione all’art. 111, 7° comma, Cost., giacché si risolve in un espediente diretto a giustificare il mancato sindacato di legalità della decisione da parte del giudice dell’impugnazione. Infatti, fino al 2006 le sentenze rese secondo equità erano sottratte all’appello e al ricorso per cassazione per violazione di legge. à Tali dubbi sono stati parzialmente superati, dato che la Corte Costituzionale (sent. 206/2004) ha ritenuto illegittimo (per contrasto con gli artt.24 e 101 Cost.) l’art. 113, 2°comma, Cost. nella parte in cui non prevede che il giudice di pace, pur decidendo secondo equità, sia vincolato all’osservanza dei principi informatori della materia. Inoltre, successivamente il legislatore, modificando l’art. 339, ha ammesso l’appello nei confronti delle sentenze di equità del giudice di pace, ancorché esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie, o dei principi regolatori della materia. [Decidere secondo equità: la possibilità di discostarsi dalla soluzione che gli sarebbe imposta da quelle norme, per ricercare altrove, la regola non scritta cui attenersi nella soluzione del caso concreto] 14 A differenza di quanto previsto in relazione al processo arbitrale ex art.816 bis. 22 Capitolo IV - DOMANDA E DIFESE DEL CONVENUTO 34. I FATTI RILEVANTI PER LA DECISIONE: IN PARTICOLARE, I FATTI PRINCIPALI Compito essenziale del giudice è determinare le conseguenze giuridiche derivanti da certi fatti. Si è soliti contrapporre i fatti principali a quelli secondari. FATTI PRINCIPALI: sono quelli rilevanti in via diretta per l’accertamento dell’esistenza o dell’inesistenza del diritto dedotto in giudizio, poiché appartengono alla fattispecie legale ed astratta cui la domanda fa riferimento e condizionano, in positivo o in negativo, la fondatezza della domanda medesima, sicché la loro individuazione va compiuta in base ad un’analisi di natura strettamente sostanziale 15. I fatti principali si distinguono, secondo l’art. 2697 c.c. (che riguarda l’onere della prova e che stabilisce che i fatti costitutivi devono essere provati dall’attore che li allega, i fatti modificativi, estintivi o impeditivi devono essere provati dal convenuto) in: - Fatti costitutivi: cioè quei fatti da cui la disciplina sostanziale fa dipendere la nascita del diritto dedotto in giudizio; così, fatti costitutivi del diritto alla garanzia per vizi della cosa sono: l’avvenuta conclusione di un contratto di compravendita; la presenza, nella cosa venduta, di vizi aventi le caratteristiche di cui all’art.1490; la tempestiva denuncia di tali vizi al venditore. - Fatti impeditivi: caratterizzati dal fatto di paralizzare l’efficacia dei fatti costitutivi, impedendo loro di determinare la nascita del diritto; ancora con riguardo all’esame su indicato, fatti impeditivi del diritto alla garanzia sono la conoscenza dei vizi da parte del compratore, la loro facile riconoscibilità, l’esistenza di un patto di esclusione della garanzia. - Fatti estintivi: sono quelli idonei a determinare l’estinzione di un diritto anteriormente nato; ad es., fatti estintivi dell’obbligazione sono l’adempimento, la novazione, la remissione, la confusione, la compensazione; inoltre, ogni diritto (tranne quelli indisponibili e gli altri espressamente indicati dalla legge) si estingue per prescrizione; - Fatti modificativi: sono quei fatti che producono la modificazione di un diritto già sorto. Il più delle volte, in realtà, la modificazione implica l’estinzione totale o parziale del diritto originario e la nascita di un diritto diverso. N.B. Il ruolo dei vari fatti principali, nella cognizione del giudice, può essere diverso a seconda che la domanda sia accolta o rigettata. - Infatti, per poter accogliere la domanda, il giudice – salvo che non si tratti di una domanda di mero accertamento negativo – dovrà verificare tanto la sussistenza di tutti i fatti costitutivi, quanto l’insussistenza di tutti i fatti impeditivi, estintivi o modificativi eventualmente allegati dal convenuto o rilevabili d’ufficio dal giudice. - Al contrario, al fine di rigettare la domanda, è sufficiente accertare l’inesistenza di alcuno soltanto dei fatti costitutivi richiesti, oppure l’esistenza di alcuno soltanto dei molteplici fatti impeditivi, estintivi o modificativi. Il giudice gode di ampia discrezionalità nella scelta del motivo sul quale fondare il rigetto: nel senso che egli, in presenza di una pluralità di questioni concernenti l’inesistenza di taluno dei fatti costitutivi oppure l’esistenza di fatti impeditivi, estintivi o modificativi, non soltanto non è tenuto a risolvere tutte le questioni, ma neppure è vincolato al rispetto di alcun ordine logico predeterminato nell’esame delle stesse. Infatti, egli potrà privilegiare, in presenza di una pluralità di questioni egualmente idonee a condurre al rigetto della domanda, l’esame di quelle di più pronta ed agevole soluzione (c.d. principio della ragione più liquida). Solitamente, i fatti principali sono fatti semplici, cioè meri fatti, che non possono formare oggetto di un autonomo accertamento à essi, infatti, non hanno valenza autonoma, ma rilevano solo per l'esistenza o 15 Così, ad es, il diritto alla risoluzione del contratto per vizi della cosa venduta presuppone: 1) che sia stato concluso un contratto di compravendita; 2) che tale contratto non sia nullo; 3) che la cosa sia affetta da vizi che la rendono inidonea all’uso cui è destinata o ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore; 4) che il vizio sia stato denunciato al venditore entro 8gg dalla scoperta; 5) che il compratore, al momento del contratto, ignorasse i vizi della cosa e che questi ultimi, cmq, non fossero facilmente riconoscibili; 6) che le parti non abbiano pattuito l’esclusione della garanzia; 7) che la cosa non sia perita per caso fortuito o per colpa del compratore, né sia stata da questi alienata o trasformata; 8) che non sia trascorso un anno dalla consegna. 25 costitutivi del diritto dedotto in giudizio, occorrenti per individuare in maniera univoca quest’ultimo 18. Con la conseguenza che ad ogni variazione di tali fatti dovrebbe inevitabilmente corrispondere una domanda diversa. N.B.: vedere l’art.125, nonché gli artt. 163, 3° n.2 e 414 n.2, che disciplinano il contenuto dell’atto introduttivo del processo ordinario e di quello del lavoro. Tenuto conto che nel corso del processo è tendenzialmente esclusa (salve le eccezioni previste dalla legge) sia la proposizione di domande nuove, sia la radicale trasformazione delle domande originarie (mutatio libelli), se ne deduce: - per un verso, che è preclusa anche ogni variazione dei fatti costitutivi allegati a sostegno delle domande formulate negli atti introduttivi; - per altro verso che, in caso di rigetto di una determinata domanda rimane liberamente proponibile in un successivo giudizio (perchè diversa da quella sulla quale si è formato il giudicato). In concreto, questi principi subiscono deroga in almeno 2 direzioni: - in relazione a quei diritti per i quali si ritiene non essere necessaria, quanto meno al fine dell’identificazione della domanda, la specificazione dei relativi fatti costitutivi; - rispetto a quelle variazioni più o meno marginali, tali da lasciare sostanzialmente immutati i fatti medesimi. 39. L’INDIVIDUAZIONE DEL DIRITTO DEDOTTO IN GIUDIZIO: DIRITTI AUTODETERMINATI E DIRITTI ETERODETERMINATI La dottrina più recente contrappone le DOMANDE AUTODETERMINATE a quelle ETERODETERMINATE. La distinzione si basa sul presupposto che la causa petendi serve ad individuare in maniera univoca il diritto azionato, ma non sempre l’indicazione dei fatti costitutivi è indispensabile a tal fine. à ad es. considerando il diritto di proprietà, una volta che l’attore abbia indicato di voler rivendicare la proprietà di un determinato bene, poco importa che egli deduca di averla acquistata per usucapione, per accessione o per contratto (perché il diritto di proprietà rispetto ad uno stesso bene non può certo sussistere più volte in capo ad un medesimo soggetto). In casi come questi si parla di DIRITTO AUTODETERMINATO (nonché di domanda autodeterminata): per l’identificazione del diritto è sufficiente il petitum (mediato), mentre si può prescindere dalla specificazione dei fatti costitutivi, il cui variare non incide sull’identità del diritto stesso. INVECE, il DIRITTO ETERODETERMINATO 19 si ha quando il diritto non può essere individuato prescindendo dai relativi fatti costitutivi, dato che esso può ripetersi un numero indefinito di volte tra i medesimi soggetti: Tizio può pretendere da Caio il pagamento di una somma di denaro una prima volta a fronte di un contratto di mutuo, una seconda volta invocandola quale corrispettivo di un contratto di locazione ecc. In questi casi, la modificazione dei fatti costitutivi implica sempre, in linea di principio, la deduzione in giudizio di un diritto diverso. à Secondo questa impostazione, sono autodeterminate le domande basate sul diritto di proprietà o altro diritto reale di godimento, su un diritto assoluto in genere, su uno status, o su un diritto di credito avente ad oggetto una prestazione specifica. Tutte le altre domande, con cui si deduca un diritto di credito avente ad oggetto una prestazione generica o un diritto reale di garanzia, sono invece domande eterodeterminate.20 18 Di regola, invece, alla luce del principio “iura novit curia”, l’esposizione delle ragioni giuridiche della domanda non può influire sull’identificazione della causa petendi e, dunque, della domanda, se non quando risulti concretamente indispensabile per comprendere quale diritto sia stato effettivamente dedotto in giudizio. 19 È questa l’ipotesi più frequente. 20 Questa distinzione è molto utile per affrontare il problema dell’idntificazione della domanda, anche se lascia scoperte delle zone d’ombra à in questo senso particolarmente controversi sono i diritti potestativi (cioè quelli aventi ad oggetto una modificazione giuridica). Fra varie tesi proposte in materia, si può ritenere che la soluzione che fa riferimento al solo petitum e dunque riconduce i diritti potestativi nella categoria dei diritti autodeterminati sia la 26 40. MUTAMENTO E MODIFICAZIONE DELLA DOMANDA Il nostro ordinamento, fatte salve alcune eccezioni, esclude la possibilità che, a processo iniziato, siano proposte domande nuove. Tuttavia, il legislatore consente espressamente la modificazione e, nel caso del rito ordinario, anche la precisazione delle domande originarie. Per quanto concerne il concetto di “modificazione”, deve distinguersi 21: Mutatio libelli: corrispondente al mutamento della domanda, cioè la trasformazione radicale della domanda, precluso in ogni caso e in qualunque momento; Emendatio libelli: consistente nella mera modifica non sostanziale della domanda stessa, che è invece consentita seppur a talune condizioni ed entro certi limiti temporali. 22 Una recente decisione delle Sezioni Unite ha sconfessato l’orientamento tradizionale, riconoscendo che la modificazione (emendatio) può anche implicare una variazione radicale di taluno degli elementi oggettivi della domanda (petitum o causa petendi) o di entrambi, a condizione che la domanda modificata riguardi la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con la domanda originaria e si presenti come alternativa rispetto a quest’ultima, nel senso che non si aggiunga ad essa, bensì la sostituisca. à Così, si consente alle parti di correggere le proprie domande iniziali, laddove ne ravvisino l’esigenza nella primissima fase del processo, senza essere costrette ad instaurare a tal fine un nuovo processo. 41. LA PRECISAZIONE DELLA DOMANDA La precisazione della domanda, espressamente menzionata nell’articolo 183, 5°comma, costituisce un quid minus rispetto alla modificazione della domanda stessa, e per questo motivo, deve ritenersi soggetta ad un diverso e più liberale regime processuale, essendo consentita per tutto il corso del processo e non soltanto – come la modificazione – nella fase iniziale dello stesso. Anche in questo caso, però, non è affatto chiaro dove si collochi la linea di confine tra le due ipotesi, che risente dell’ampiezza concretamente attribuita alla emendatio libelli. 23 Dovrebbe, in ogni caso, rimanere del preferibile, perché sul piano sostanziale sembra difficile concepire la coesistenza, in capo al medesimo soggetto, di una pluralità di diritti aventi ad oggetto la stessa modificazione giuridica di un identico rapporto. 21 Tale orientamento si è consolidato a seguito della riforma del 1950, la quale ammise lo ius variandi per tutto il corso del giudizio di 1° grado. 22 N.B. tuttavia, quando si tratta di definire in concreto i confini fra la mutatio e l’emendatio, le soluzioni appaiono dominate dall’incertezza. Per tentare di individuare qualche punto fermo, occorre distinguere a seconda che le variazioni riguardino i soggetti, il petitum o la causa petendi. a) Quanto ai soggetti, sembra difficile ipotizzare delle variazioni, dal lato attivo o passivo, che non incidano sull'identità della domanda. Può semmai accadere che l’attore o il convenuto siano stati indicati in modo inesatto o incompleto, ma in questo caso la conseguenza sarà data dalla nullità (sanabile) della domanda stessa. b) Per quanto concerne l'oggetto, la giurisprudenza mostra maggiore rigidità in relazione all'identità del bene giuridico perseguito dall'attore (cioè al petitum mediato), mentre appare un po' più flessibile rispetto al tipo di provvedimento concretamente richiesto al giudice (petitum immediato), le cui variazioni vengono spesso ricondotte nell’ambito della mera emendatio libelli (così, ad es., la Cassazione ha ritenuto che l’originaria domanda di risoluzione del contratto di appalto per inadempimento dell’appaltatore possa essere rimpiazzata dalla domanda di riduzione del relativo corrispettivo). c) Le variazioni concernenti la causa petendi sono quelle che danno luogo a maggiori problemi e per le quali si registrano le maggiori incertezze à la giurisprudenza in particolare afferma che si ha mutamento della causa petendi (e quindi un'inammissibile mutatio libelli) ogni volta che vengano dedotti in corso di causa fatti costitutivi nuovi e diversi da quelli originariamente allegati, in modo tale da ampliare in misura sostanziale il tema dell'indagine [in questo modo implicitamente ammette che possa aversi una mera emendatio, quando i fatti costitutivi vengano modificati in misura marginale]. Tenuto però conto che il legislatore usa a questo riguardo il concetto di precisazione della domanda, sembra preferibile ascrivere a quest’ultima le modificazioni quantitativamente irrilevanti dei fatti costitutivi, e limitare l'emendatio libelli alle sole variazioni dei fatti costitutivi di diritti autodeterminati. 23 Tenuto conto di quanto detto precedentemente, può ritenersi che costituiscano MERA PRECISAZIONE, ad es: - con riguardo al petitum e alle azioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, l'indicazione del quantum della domanda, inizialmente omessa o la sua variazione (anche in aumento); 27 tutto estranea alla precisazione della domanda la variazione o l’allegazione di nuovi fatti secondari, laddove tali fatti vengano intesi come qualitativamente diversi dai fatti principali ed operanti, a differenza di questi ultimi, sul terreno meramente probatorio. 42. LE ECCEZIONI E LE DIFESE DEL CONVENUTO à domanda: differenza tra eccezione e mera difesa Di fronte alla domanda proposta dall’attore, il convenuto (o, più in generale, il destinatario della domanda stessa) può difendersi in vario modo, può avere diverse “reazioni” [ad es. limitandosi a contestare i fatti allegati dall’attore o le argomentazioni giuridiche da lui addotte, oppure allegando a propria volta dei fatti nuovi, o infine proponendo egli stesso delle nuove domande] 24: 1) ECCEZIONI PROCESSUALI: sono quelle con cui si contesta la possibilità di decidere attualmente il merito della causa (pronunciare sulla fondatezza o infondatezza della domanda) in conseguenza del difetto di un presupposto processuale (giurisdizione, competenza, capacità processuale dell’attore) o di una condizione dell’azione, oppure dell’invalidità di uno o più atti processuali. A seconda dei casi, l’accoglimento dell’eccezione può condurre: - ad una sentenza di rigetto in rito, ossia per ragioni meramente processuali; - oppure, quando il vizio sia rimediabile, può condurre ad un provvedimento diretto alla regolamentazione / regolarizzazione del processo. Per quanto riguarda il regime di rilevabilità delle eccezioni processuali, non esistono regole generali, ma il legislatore non manca di fornire indicazioni specifiche (es. 1) in alcuni casi il rilievo dell’impedimento o del vizio processuale è riservato a taluna delle parti ed è ammesso entro termini assai brevi – v. l’art.38, 1° limitatamente all’incompetenza per territorio derogabile; 2) mentre in altre ipotesi è consentito in ogni stato e grado del giudizio, anche ad opera del giudice – v. l’art.11, ult. parte, l.218/95; 3) e, in altre ancora, viene previsto un regime intermedio – v. l’art.38, 1° e 3° in relazione all’incompetenza per materia, valore o territorio inderogabile). 2) MERE DIFESE: possono consistere in argomentazioni puramente giuridiche, dirette a confutare le conclusioni dell’avversario, oppure nella contestazione dei fatti (solitamente costitutivi, a meno che non si tratti di un’azione di mero accertamento negativo) che l’avversario stesso ha allegato a fondamento della domanda. Ciò avviene o attraverso la negazione diretta di tali fatti (eccezioni improprie) o attraverso l’allegazione di altri fatti secondari incompatibili rispetto a quelli dell’avversario. à Così, ad es. di fronte alla domanda di pagamento del corrispettivo di merci che l’attore afferma di avergli venduto e consegnato, il convenuto potrebbe puramente e semplicemente negare di aver mai ricevuto quelle merci, oppure potrebbe allegare che il luogo in cui esse sono state recapitate gli è del tutto estraneo. In linea di principio, per la formulazione di tali difese, in fatto o in diritto, non è prevista alcuna specifica limitazione temporale; 3) ECCEZIONI DI MERITO: consistono nell’allegazione di un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, esplicitamente o implicitamente diretta a conseguire il rigetto della domanda, di regola attraverso l’accertamento negativo del diritto posto a fondamento di quest’ultima. à L’eccezione di per sé non estende in nessun caso l’oggetto del processo, così come determinato dalla domanda, bensì mira a far accertare l’inesistenza del diritto già dedotto in giudizio. Nell’ambito delle eccezioni di merito (definite proprie in contrapposizione alle mere difese di fatto) bisogna distinguere le ECCEZIONI IN SENSO LATO dalle ECCEZIONI IN SENSO STRETTO; distinzione che si fonda essenzialmente sul regime di rilevabilità del fatto (impeditivo, estintivo o modificativo) che ne costituisce l’oggetto: - quanto alla causa petendi, ogni variazione degli elementi di diritto della domanda e la specificazione o modificazione di circostanze marginali relative a fatti principali, che siano tali da far ritenere sostanzialmente immutati i fatti medesimi. 24 Va precisato, però, che il convenuto potrebbe anche non fare assolutamente nulla nel processo à a questo proposito si parla tecnicamente di contumacia, che si ha quando il convenuto sceglie di non costituirsi in giudizio. N.B: questa scelta non determina per il convenuto alcuna conseguenza sfavorevole (perché non è detto che, se non costituisce in giudizio, perderà automaticamente la causa). 30 GIUDICE DI PACE Il giudice di pace è un giudice onorario e dunque non professionale, istituito in sostituzione del vecchio conciliatore, con la l. 374/1991, entrata in vigore nel 1995. Per l’ufficio del giudice di pace è previsto un ruolo organico di 4700 posti e il suo ambito territoriale è rappresentato dal circondario, con sede nei comuni indicati nella nuova tabella A allegata alla l.374/1991, salva la possibile istituzione di sedi distaccate. Per i giudici di pace è richiesta la laurea in giurisprudenza (e di regola l’abilitazione alla professione forense). Inoltre, ed è previsto un compenso, rapportato alla quantità di lavoro effettivamente svolto, mentre i conciliatori prestavano la propria opera gratuitamente e non era previsto alcun particolare titolo di studio. Oggi è previsto che l’età del giudice di pace (che dura 4 anni ed è confermabile una sola volta) dev’essere compresa fra i 30 ed i 70 anni ed è stata considerevolmente attenuata l’incompatibilità con la professione di avvocato. Al giudice di pace è attribuita competenza civile, in primo grado, relativamente alle cause considerate dal legislatore di minor importanza. In quelle il cui valore è max 1100€, inoltre, è previsto che la decisione sia pronunciata secondo equità, anziché secondo diritto. IL TRIBUNALE In seguito alla soppressione delle preture, il tribunale è rimasto l’unico giudice togato (di regola composto da magistrati professionali, legati da uno stabile rapporto di servizio con l'amministrazione) competente in primo grado. Esso conosce, quale giudice di secondo grado, delle impugnazioni portate contro le sentenze del giudice di pace. Tradizionalmente, il tribunale era sempre stato un giudice collegiale ma le riforme del ‘90 e del ’98 l’hanno trasformato in un organo monocratico, che giudica in composizione collegiale (con 3 magistrati) nei soli casi previsti espressamente dalla legge. Ai sensi dell’art. 42 ord. giud. il tribunale ha sede in ogni capoluogo determinato da un’apposita tabella ed il suo ambito territoriale coincide con il circondario (che comprende più mandamenti). La recente revisione delle circoscrizioni giudiziarie, attuata col d.lgs. 155/2012 ha soppresso tutte le sezioni distaccate ed un certo numero di tribunali più piccoli: i tribunali residui sono 140. Per quanto concerne l’articolazione interna, il tribunale è diretto dal presidente e può essere costituito in più sezioni, ciascuna delle quali è designata a trattare – promiscuamente o separatamente – affari civili, affari penali, giudizi in grado di appello e controversie in materia di lavoro, previdenza e assistenza obbligatorie. Ad ogni sezione è assegnato un certo numero variabile di magistrati, comunque non inferiore a 5 e, qualora la pianta organica lo preveda, un presidente di sezione. La distribuzione del lavoro tra le varie sezioni e, all’interno delle stesse, tra i vari magistrati, compete, rispettivamente, al presidente del tribunale e al presidente della singola sezione. Oggi, siffatti poteri risultano opportunamente limitati dalle tabelle, che per ciascun ufficio giudiziario predeterminano la ripartizione del tribunale in sezioni, la destinazione ad esse dei singoli magistrati ed i criteri obiettivi da utilizzare, da parte del dirigente dell’ufficio o del presidente di sezione, nell’assegnazione degli affari alle singole sezioni, nonché ai singoli collegi e magistrati. LA CORTE D’APPELLO La corte d’appello ha sede nei comuni capoluogo dei distretti indicati in altra apposita tabella (art. 52 ord. giud.) e costituisce un giudice sempre collegiale, composto da 3 magistrati, col titolo di consiglieri. Ad essa compete la giurisdizione nelle cause di appello avverso le sentenze del tribunale, fatte salve alcune ipotesi eccezionali in cui è investita di competenza in unico grado, ad es. nelle controversie relative ai provvedimenti d’iscrizione nelle liste elettorali o nelle cause concernenti la determinazione dell’indennità di esproprio. La corte d’appello, diretta dal primo presidente, può essere costituita in più sezioni, ognuna presieduta da un proprio presidente, una delle quali incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia di lavoro e materia previdenziale ed un’altra designata a giudicare sulle impugnazioni proposte contro i provvedimenti del tribunale per i minorenni. Attualmente le corti d’appello sono 26, cui vanno aggiunte 3 sezioni distaccate. CORTE DI CASSAZIONE La Corte suprema di cassazione ha sede a Roma ed ha giurisdizione sull’intero territorio nazionale. Essa è collocata al vertice dell’organizzazione giudiziaria ed ha il compito di assicurare, quale organo supremo della 31 giustizia, l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni (art. 65 ord. giud.). Anche la Cassazione è costituita in più sezioni, attualmente 5 per la sezione civile, una delle quali si occupa esclusivamente delle cause di lavoro e previdenziali, ed un'altra del solo contenzioso tributario. Un’ulteriore sezione, istituita nel 2009, ha la funzione di esaminare preliminarmente tutti i ricorsi, per individuare quelli che si prestano ad una decisione in camera di consiglio; essa non possiede un proprio organico e, quindi, si avvale di magistrati appartenenti a tutte le altre sezioni. La Cassazione decide sempre collegialmente, col numero invariabile di 5 votanti o, qualora giudichi nella sua composizione più autorevole – a sezioni unite – con l’intervento di 9 magistrati, appartenenti alle singole sezioni civili. Ad essa sono addetti un primo presidente (affiancato da un primo presidente “aggiunto”), i presidenti di sezione ed un certo numero di consiglieri. Funzione: è quella c.d. di nomofilachia, consistente nell’assicurare l’osservanza e la corretta applicazione del diritto oggettivo da parte dei giudici di merito. Ma, di fatto, la funzione di gran lunga più importante che essa svolge è quella di garantire l’uniformità dell’interpretazione del diritto, anche e soprattutto attraverso la risoluzione dei contrasti giurisprudenziali che spesso si manifestano tra i giudici di merito. Infatti, nonostante nel nostro ordinamento il precedente giurisprudenziale non costituisca fonte del diritto e non vincoli il giudice (soggetto solo alla legge), le decisioni della Corte di cassazione finiscono con l’avere una notevole efficacia conformativa sulla giurisprudenza di merito, specialmente quando danno luogo ad orientamenti consolidati. Qualora si abbia un contrasto interno alla stessa Cassazione (quando la medesima quaestio iuris sia risolta in modo difforme da sezioni diverse o addirittura da collegi diversamente composti della stessa sezione), è previsto che il primo presidente possa investire della questione le sezioni unite (374, 2°), per ottenere una decisione particolarmente autorevole che, nella maggior parte dei casi, riesce a porre fine al contrasto. Per favorire l’effettiva conoscibilità degli orientamenti della Corte, l’art. 68 ord. giud. prevede che presso di essa sia costituito un apposito ufficio “del massimario e del ruolo”, al quale sono assegnati magistrati della stessa Corte e a cui compete la “massimazione” delle sentenze, ossia la formulazione dei principi di diritto in esse affermati. 48. GARANZIE COSTITUZIONALI DELL’ORDINAMENTO GIUDIZIARIO Per quanto attiene alle garanzie che la Costituzione appresta alla magistratura, la Costituzione dedica la Sezione I del Titolo IV della Parte II alle garanzie riguardanti l'ordine giudiziario e la magistratura (artt. 101- 110). Meritano una particolare menzione: - Art. 101 2°comma, ai sensi del quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge, il ché per un verso esclude l’esistenza di veri e propri rapporti gerarchici (e istituisce una relazione immediata fra il singolo giudice e la legge che è chiamato ad applicare) e, per altro verso, impedisce che nel nostro ordinamento abbia efficacia vincolante il precedente giurisprudenziale; - Artt. 104 29 e 105 30, che definiscono la magistratura come un ordinamento autonomo e indipendente da ogni altro potere, attribuendone le funzioni di (auto)governo ad un apposito organo costituzionale, ossia il Consiglio superiore della magistratura, esso stesso autonomo ed indipendente sia dall’esecutivo che dal legislativo, cui sono riservati in via esclusiva le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati; - Art. 106, secondo cui le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso. La stessa norma prevede che l’ordinamento giudiziario possa ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli. Il 3° comma consente di designare all’ufficio di consiglieri di Cassazione – per meriti insigni – professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati, iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori, che abbiano almeno 15 anni di servizio nella professione forense; 29 “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. 30 “Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme sull'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. 32 - Art. 107, 1°comma 31, garantisce l’inamovibilità dei magistrati, riservando al Consiglio superiore della magistratura ogni decisione relativa alla sospensione, dispensa o destinazione ad altra sede o funzione; - Art. 108, 1° comma, pone una riserva di legge per le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura. 49. CANCELLIERE L’ordinamento giudiziario prevede che “ogni corte, tribunale ordinario ed ufficio del giudice di pace ha una cancelleria ed ogni ufficio del pubblico ministero ha una segreteria” (Art.3), precisando che “il personale delle cancellerie e delle segreterie fa parte dell’ordinamento giudiziario” (Art.4, c.3). Tutto ciò, però, non è sufficiente a far luce sulle numerosissime funzioni attribuite dalla legge al cancelliere, né a risolvere la controversa questione della natura giuridica di quest’ultimo (se si tratti, cioè, di un organo amministrativo o addirittura giurisdizionale). Le molteplici attribuzioni (artt.57 e 58 cpc) del cancelliere non si prestano ad una definizione unitaria perché comprendono, accanto ad attività di supporto al giudice anche funzioni del tutto autonome. In primo luogo, il cancelliere rappresenta il necessario collegamento fra i litiganti e l’ordinamento giurisdizionale giacché per un verso tutte le istanze che le parti rivolgono al giudice, a cominciare dall’atto introduttivo, vanno depositate in cancelleria (salvo quelle formulate direttamente in udienza), e per altro verso gli stessi provvedimenti resi dal giudice vengono resi noti alle parti per il medesimo tramite, dopo essere stati depositati in cancelleria. In secondo luogo, rilevanti sono le funzioni di documentazione 32 spettanti al cancelliere, il quale documenta a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge (di regola attraverso un processo verbale) le attività proprie e quelle degli organi giudiziari e delle parti ed assiste il giudice in tutti gli atti dei quali deve essere formato il processo verbale. Per quanto attiene alla sentenza, in particolare, il cancelliere ha la responsabilità della sua pubblicazione (condizione perchè la sentenza venga giuridicamente in vita), che si ha dopo che il giudice l’ha depositata in cancelleria, certificando tale avvenuto deposito in calce al provvedimento ed annotando quest’ultimo nell’apposito registro cronologico dei provvedimenti e degli altri atti originali dell’ufficio. Inoltre, il cancelliere si occupa di: - iscrizione a ruolo della causa e gli adempimenti ad essa conseguenti, tra cui la formazione del fascicolo d’ufficio; - rilascio di copie ed estratti autentici dei documenti prodotti dalle parti o degli stessi atti processuali e dei provvedimenti del giudice, nonché il rilascio di talune specifiche certificazioni previste dalla legge (ad es. dell’avvenuto passaggio in giudicato della decisione); - conservazione del fascicolo d’ufficio della causa e dei fascicoli rispettivi delle parti, insieme ai documenti in essi inseriti; - esecuzione delle comunicazioni e della richiesta di notificazioni prescritte dalla legge o dal giudice; - ricezione dei depositi giudiziari. Il cancelliere è civilmente responsabile, ai sensi dell’art. 60, sia quando rifiuta, senza giustificato motivo, di compiere un atto che gli è stato legalmente richiesto o comunque quando ometta di compierlo nel termine fissatogli, su istanza di parte, dal giudice; sia quanto ha compiuto un atto nullo con dolo o colpa grave. 50. UFFICIALE GIUDIZIARIO L’ufficiale giudiziario è definito (ex dpr 1229/1959, che disciplina tuttora l’ordinamento degli ufficiali giudiziari) come un ausiliario dell’ordine giudiziario. Le mansioni dell’u.g. sono, al pari di quelle del cancelliere, molteplici ed eterogenee. Ad esso competono funzioni meramente materiali, come l’assistenza al giudice in udienza (però da tempo soppressa dalla prassi 31 “I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall'ordinamento giudiziario o con il loro consenso”. 32 Art.57: “il cancelliere documenta a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge, le attività proprie e quelle degli organi giudiziari e delle parti”; comma 2: “egli assiste il giudice in tutti gli atti dei quali deve essere formato processo verbale”; comma 3: “quando il giudice provvede per iscritto, salvo la legge disponga altrimenti, il cancelliere stende la scrittura e appone la sua sottoscrizione dopo quella del giudice”. 35 54. La più recente evoluzione Negli ultimi anni sono intervenute novità che hanno ridisegnato i confini tra le 2 giurisdizioni: A) Sentenza n.500/1999: la Cassazione a sezioni unite ammise la risarcibilità del danno per lesione di interessi legittimi (pretensivi) in passato completamente esclusa. Decisione che negò che il danno provocato da un atto amministrativo illegittimo fosse risarcibile (azione risarcitoria) solo se preventivamente fosse stato annullato l’atto medesimo da un giudice amministrativo, e riconobbe al titolare del diritto leso, la possibilità di optare liberamente tra la domanda di annullamento (dinanzi al g.a.) e l’azione diretta al risarcimento (dinanzi al g.o.). Però, tale principio è stato ridimensionato dai successivi interventi del legislatore, il quale temeva in una moltiplicazione delle azioni di danno nei confronti delle pubbliche amministrazioni, con conseguenze economiche insostenibili per l’erario. Nel nuovo codice del processo amministrativo (2010 – d.lgs.104/2010), infatti, la materia del risarcimento del danno provocato da un’attività amministrativa illegittima è così disciplinata: • le controversie relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma, sono comunque attribuite in via esclusiva alla giurisdizione del g.a.; • la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi dev’essere proposta, a pena di decadenza, entro 120 giorni dal giorno in cui il fatto si è verificato o dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo; se però è stata proposta l’azione di annullamento (entro il termine di decadenza di 60 gg), la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio (di primo grado), o in via autonoma sino a 120 giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. 36 B) Il legislatore ha semplificato il tradizionale problema del riparto di giurisdizione ricorrendo, in alcuni settori particolarmente importanti per la P.A., alla tecnica della giurisdizione esclusiva, che si fonda sulla materia della causa e prescinde totalmente dalla natura della posizione soggettiva prospettata (diritto soggettivo o interesse legittimo). Le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del g.a. elencate dall’art. 133 del codice del processo amministrativo. 37 55. I rapporti tra giudice ordinario e pubblica amministrazione L’art. 37 c.p.c. (Difetto di giurisdizione) tratta i rapporti tra il giudice (ordinario o speciale) e l’amministrazione nell’ambito delle questioni di giurisdizione. L’art. 41, 2°comma c.p.c. (Regolamento di giurisdizione), a proposito del regolamento di giurisdizione, parla di “difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione”; il giudice ordinario difetterebbe di giurisdizione qualora fosse chiamato ad imporre alla P.A. un provvedimento o un comportamento che invece rientra nella sfera di discrezionalità dell’amministrazione stessa: si pensi, ad es, al caso in cui un cittadino, in tale qualità e senza dedurre l’esistenza di alcuna obbligazione contrattuale, chiedesse al giudice di condannare il Comune alla realizzazione di una determinata opera pubblica. Si tratta di ipotesi in cui vengono dedotte dinanzi al giudice situazioni soggettive (interessi semplici) che non sono tutelabili in via giurisdizionale, non avendo la consistenza né di diritti né di interessi legittimi. 38 36 Come si vede, risulta confermata la tendenziale autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento, ma allo stesso tempo essa è sottratta al giudice ordinario ed è circoscritta entro limiti temporali meno angusti rispetto a quelli cui è tradizionalmente soggetta l’impugnazione dell’atto amministrativo. N.B: tale disciplina non può trovare applicazione quando il risarcimento del danno si ricolleghi non ad un’attività amministrativa, ma ad un mero comportamento della PA, che non sia riconducibile all’esercizio di un potere amministrativo à in queste ipotesi la giurisdizione appartiene certamente al g.o. 37 Va sottolineato che tale tecnica, se da un lato può sicuramente semplificare il riparto di giurisdizione, dall’altro non è però priva di inconvenienti, in quanto, attribuendo al g.a. una fetta non trascurabile della giurisdizione su diritti, la sottrae inevitabilmente alla fondamentale garanzia costituzionale del ricorso per Cassazione per violazione di legge. Anche in considerazione di ciò la Corte costituzionale ha escluso che il legislatore ordinario sia libero di creare a propria discrezione nuove ipotesi di giurisdizione amministrativa esclusiva ed ha affermato, invece, che questa può riguardare solamente particolari materie, in cui la pubblica amministrazione agisce come “autorità”, ossia come soggetto investito di un pubblico potere e quindi in posizione di supremazia rispetto al cittadino. 38 È chiaro che, se non fosse per la previsione di cui agli artt. 37 e 41, la relativa questione atterrebbe semplicemente al merito della causa (e non alla giurisdizione), o al più potrebbe dar luogo ad uno dei “conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato” menzionati dall’art.134 Cost., che li attribuisce alla competenza della Corte costituzionale. 36 La giurisprudenza ha superato alcune incertezze relative al tipo di provvedimento che è possibile chiedere al giudice nei confronti della P.A, escludendo che dall’articolo quattro della legge del 1865 All. E discendono particolari limitazioni. 39 56. I limiti della giurisdizione italiana La concreta disciplina dei limiti della giurisdizione nazionale, fino al 1995, era inserita nel codice civile (artt.2- 4 c.c.) dal quale traspariva un atteggiamento nazionalistico del legislatore, il quale utilizzava come criterio essenziale quello della cittadinanza del convenuto (es. negava che la giurisdizione italiana fosse derogabile dalle parti e fosse preclusa dalla previa instaurazione della medesima causa dinanzi al giudice di un altro Stato). 40 La l. 218/1995, ebbe come obiettivo quello di avvicinare la disciplina comune a quella della Convenzione di Bruxelles, operante come rinvio recettizio nell’art. 3 41. L’attuale disciplina comune (applicabile solo in assenza di una normativa speciale, di origine comunitaria o convenzionale) ha dei tratti essenziali, in particolare per quel che concerne i criteri di collegamento, ossia gli elementi cui il legislatore fa riferimento per definire i limiti della giurisdizione italiana. La sussistenza di uno qualunque di tali elementi è condizione necessaria e sufficiente perché il giudice italiano possa conoscere della controversia, prescindendo dalla cittadinanza dell’attore (anche allo straniero, infatti, si ritiene competa il diritto d’azione garantito dell’art.24 Cost.) A) Criteri di collegamento generali: validi per ogni controversia, senza alcun riferimento al suo oggetto, sono: - il domicilio o la residenza del convenuto in Italia; - l’esistenza in Italia di un suo rappresentante autorizzato a stare per lui in giudizio a norma dell’art.77 c.p.c.; - l’accettazione (preventiva o successiva) della giurisdizione italiana; B) Criteri di collegamento speciali: sono destinati ad operare in relazione a determinate categorie di controversie. Per essi l’art. 3, 2°comma, l.218/1995 rinvia a determinate sezioni della Convezione di Bruxelles (sez. II, III, IV del titolo II della Convenzione) precisando che, quando si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione della Convenzione, si prescinde dalla circostanza che il convenuto sia domiciliato o meno nel territorio di uno Stato contraente. (allorché si tratti invece di altra materia, la giurisdizione sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio). C) Nella specifica materia della giurisdizione volontaria, la giurisdizione sussiste: - quando i criteri di competenza per territorio attribuirebbero l’affare al giudice italiano; - quando il provvedimento richiesto concerne un cittadino italiano o una persona residente in Italia, o riguarda situazioni o rapporti cui è applicabile la legge italiana; D) Nella materia cautelare, vi è giurisdizione italiana quando il giudice nazionale ha giurisdizione di merito, nonché quando il provvedimento dev’essere eseguito in Italia; il legislatore ha omesso di disciplinare i limiti della giurisdizione in materia esecutiva, ma deve ritenersi applicabile il principio di territorialità. Altra innovazione della l. 218/1995 ha riguardato la derogabilità della giurisdizione italiana. L’art. 4, infatti, consente che quest’ultima sia derogata a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero, alla duplice condizione che: 1. la deroga sia provata per iscritto; 2. la causa verta su diritti disponibili. Tuttavia, la deroga Le ragioni di questa scelta del legislatore vanno individuate sul piano storico con riguardo alla genesi del regolamento di giurisdizione, che in origine serviva a permettere alla PA di sottrarsi al giudice di merito, spostando la controversia dinanzi ad un altro organo, ad essa più gradito. 39 così, ad es, non si dubita più che nei confronti della PA sia ammissibile una sentenza costitutiva oppure di condanna ad un facere, alla sola condizione che la modificazione giuridica richiesta al giudice oppure il facere oggetto della condanna costituiscano un atto dovuto per la PA e dunque non contrastino con l’esistenza di poteri discrezionali della stessa (si tratta, come già detto, di questioni attinenti al merito e quindi estranee alla giurisdizione). 40 Col passare degli anni, però, L’Italia ha aderito a varie convenzioni internazionali, recependo una disciplina che era ispirata a criteri molto distanti da quelli posti alla base del sistema codicistico. In particolare, la Convenzione di Bruxelles del 1968, che regolava i rapporti tra le varie giurisdizioni nazionali all'interno della CEE e risultava applicabile ogni volta che il convenuto fosse domiciliato nel territorio di uno Stato membro, mise maggiormente in risalto la difformità tra la disciplina italiana e quella internazionale. 41 La tecnica del rinvio recettizio, peraltro, fa sì che esso debba intendersi riferito alla normativa comunitaria che negli anni successivi ha rimpiazzato (per tutti gli Stati membri tranne che per la Danimarca) la suddetta Convenzione: dapprima, a partire dal 1° marzo 2002, il regolamento (CE) 44/2001, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, ed oggi il regolamento (UE) 1215/2012, che ha lo stesso oggetto ed è divenuto applicabile (in sostituzione di quello del 2001) dal 10 gennaio 2015. 37 è inefficace se il giudice straniero o gli arbitri convenzionalmente designati declinino la giurisdizione o comunque non possano conoscere la causa. 57. IL REGIME DEL DIFFETTO DI GIURSDIZIONE (eccezione di giurisdizione à in particolare, il difetto nei confronti della p.a.) Il regime del difetto di giurisdizione si desume: - dall’art. 37 c.p.c. nel caso in cui riguardi i rapporti tra il giudice ordinario e il giudice speciale o la P.A.; - nel caso in cui siano in gioco i limiti della giurisdizione italiana, il regime del difetto di giurisdizione si desume dall’art. 11 l. 218/1995. In base all’art. 37 c.p.c., l’eventuale difetto di giurisdizione del giudice ordinario rispetto ad un giudice speciale o alla pubblica amministrazione è rilevabile anche d’ufficio, senza particolari limiti temporali, in qualunque stato e grado del processo. Ciò significa che la relativa questione può essere sollevata per la prima volta anche nel giudizio di legittimità – cioè dinanzi alla Corte di cassazione – a meno che non vi sia di ostacolo un anteriore giudicato derivante dalla mancata impugnazione di una sentenza con cui il giudice di primo o di secondo grado aveva espressamente o implicitamente affermato la sussistenza della propria giurisdizione. 42 * Nuovo art.37 c.p.c. (Riforma): “Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della p.a. è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo. Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o dei giudici speciali è rilevato anche d’ufficio nel giudizio di primo grado. Nei giudizi di impugnazione può essere rilevato solo se oggetto di specifico motivo, ma l’attore non può impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito”. à Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti del giudice amministrativo o dei giudici speciali può essere rilevato anche d’ufficio unicamente nel giudizio di primo grado; nei giudizi di impugnazione, invece, può essere rilevato solo se oggetto di specifico motivo. L’attore non può più impugnare la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui adito. à dunque, è stata limitata la possibilità di rilevare, anche d’ufficio, il difetto di giurisdizione «in ogni stato e grado e del processo». Più nel dettaglio: Nell’ambito delle novità introdotte nel Libro I del codice di rito, appare importante evidenziare la modifica dell’art. 37 c.p.c., con la quale è stata limitata la possibilità di rilevare, anche d’ufficio, il difetto di giurisdizione «in ogni stato e grado e del processo». Nella Relazione illustrativa si evidenzia che la modifica si pone in linea con il significato attribuito all’art. 37 c.p.c. dall’interpretazione della giurisprudenza di legittimità, improntato ai principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo. Ed infatti, le Sezioni Unite già nel 2008 hanno ritenuto che, quando il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione e le parti abbiano prestato acquiescenza, non contestando la relativa sentenza sotto tale profilo con un motivo di impugnazione, non è consentito al giudice della successiva fase impugnatoria rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione, trattandosi di questione ormai coperta dal giudicato implicito. Di conseguenza, nei giudizi di impugnazione, il difetto di giurisdizione è rilevabile solo se dedotto con specifico motivo di gravame avverso il capo della pronuncia che vi abbia statuito, anche in modo implicito. Si esclude, altresì, che l’attore, una volta incardinato il giudizio dinanzi al giudice ordinario, possa ripensare a tale scelta, 42 Questo principio, pacifico fino a pochi anni fa, è stato di recente sconfessato dalle Sezioni unite, le quali, muovendo dall’idea che ogni sentenza di merito contenga un’affermazione implicita della sussistenza della giurisdizione del giudice adito, hanno sostenuto che, qualora la parte interessata (che può essere solo il convenuto) nell’impugnare la sentenza di merito non censuri espressamente anche la decisione implicita sulla giurisdizione, il giudice dell’impugnazione (qualunque esso sia) non può sollevare d’ufficio la relativa questione, che resta definitivamente coperta dal giudicato implicito. Tale soluzione, palesemente ispirata al principio della ragionevole durata del processo, appare inconciliabile col disposto di cui all’art.37, perché finisce col circoscrivere la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione al solo giudizio di 1° grado. 40 proponibilità del regolamento sia esclusa, oltre che da una sentenza di merito, anche da qualunque sentenza definitiva o non, su una questione processuale, quindi anche da una sentenza (dichiarativa o declinatoria) sulla giurisdizione. L’istanza di regolamento si propone con ricorso alle Sezioni unite ed il relativo procedimento è retto dalla disciplina ordinaria del giudizio di Cassazione (artt.364 ss.). È previsto che la sua proposizione, comprovata dal deposito di una copia del ricorso già notificato alle altre parti nella cancelleria del giudice investito della causa di merito, produca la sospensione del relativo giudizio finché non interviene la decisione delle Sezioni unite; la quale, qualora riconosca la giurisdizione del giudice ordinario, consente alle parti di riassumere il processo entro il termine perentorio di sei mesi dalla comunicazione della sentenza. N.B. In origine si trattava di una sospensione obbligatoria ed incondizionata, che favoriva l’uso distorto del regolamento con finalità dilatorie. La riforma del ’90 ha, invece, previsto che il giudice sospende il processo, con ordinanza, solo quando non ritiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. In questo modo, si consente al giudice a quo di negare la sospensione quando l’istanza si palesi ictu oculi inammissibile o infondata. 60. Il regolamento su questione di giurisdizione sollevata dal prefetto L’art. 41 2°comma c.p.c., consente alla sola P.A. che non sia parte in causa, di chiedere in ogni stato e grado del processo, fino a quando non si sia formato un giudicato positivo sulla giurisdizione, che le Sezioni unite dichiarino il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, a causa dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione stessa. È previsto che il prefetto possa provocare, attraverso proprio decreto (che deve essere notificato alle parti e al procuratore della Repubblica presso il Tribunale o al procuratore generale presso la Corte d’appello), la necessaria sospensione del giudizio di merito, escludendo qualunque preventiva valutazione del giudice adito circa la fondatezza e/o l’ammissibilità della richiesta di regolamento. Tanto più che il dovere-potere di sospendere il giudizio compete non già al giudice della causa, bensì al capo del relativo ufficio giudiziario, il quale, una volta che il p.m. gli abbia comunicato il decreto prefettizio, provvede senza neppure essere tenuto a sentire le parti. In concreto poi, le Sezioni unite vengono investite della questione di giurisdizione solo a condizione che una delle parti proponga ricorso nel termine perentorio di 30 giorni dalla notificazione del decreto di sospensione; termine la cui scadenza dovrebbe determinare l’estinzione o comunque l’improcedibilità del giudizio di merito. Sezione III - LA COMPETENZA (domanda) COMPETENZA: parte di giurisdizione concretamente attribuita a ciascun giudice. Le norme sulla competenza servono a ripartire il complesso degli affari civili fra i vari uffici giudiziari, tenendo conto tanto di esigenze obiettive di economicità ed efficienza dei processi, quanto degli interessi e delle comodità delle parti. I criteri adoperati a questo scopo sono 3: - MATERIA: fa riferimento al tipo di rapporto controverso (diritti reali immobiliari, locazioni, successioni...) e, se utilizzato accortamente, non crea troppi problemi all’interprete; - VALORE: allude al rilievo economico della causa ed è spesso fonte di dubbi per la difficoltà di determinare in modo preciso il valore della controversia. à Entrambi i criteri, talvolta combinati fra loro, servono a stabilire, in senso verticale e in modo univoco, quale fra i giudici ordinari 44 possa conoscere di una determinata causa. - TERRITORIO: opera in senso orizzontale, dato che mira a ripartire il contenzioso tra i vari uffici giudiziari (dello stesso tipo) diffusi sul territorio nazionale e, non di rado, può condurre all’individuazione di una pluralità di fori concorrenti; nel qual caso è l’attore a poter scegliere. I criteri di competenza operano prescindendo dalla volontà delle parti, che pertanto non possono apporvi delle deroghe, salvo che nei casi stabiliti dalla legge (art.6). Fa eccezione la competenza per territorio, che può essere convenzionalmente derogata (art.28 – foro stabilito per accordo delle parti – e art.29 – forma ed effetti dell’accordo delle parti), purché l’accordo risulti da atto scritto e si riferisca ad uno o più affari 44 Giudice di pace, tribunale per i minorenni e corte d’appello. 41 determinati. La deroga, però, attribuisce al giudice designato una competenza meramente concorrente, a meno che l’accordo non stabilisca espressamente la sua competenza esclusiva. L’articolo 28 c.p.c. (Foro stabilito per accordo delle parti) prevede che la competenza per territorio sia inderogabile: - nelle cause in cui è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero; - nei processi di esecuzione forzata e di opposizione alla stessa; - nei procedimenti cautelari e possessori; - nei procedimenti in camera di consiglio; - in tutti gli altri casi in cui l’inderogabilità sia disposta espressamente dalla legge. In relazione a tali ipotesi si parla anche di competenza funzionale, concetto in realtà più ampio, dato che abbraccia anche i casi in cui la competenza viene stabilita con riguardo ad elementi che non hanno a che fare con la materia, il valore o il territorio, ma riguardano un determinato rapporto tra il giudice e la causa 45. Quando si parla di competenza in senso proprio, si fa riferimento, di regola, ai rapporti tra diversi uffici giudiziari; i rapporti tra le varie sezioni ed i vari magistrati, all’interno di ciascun ufficio giudiziario sono, invece, estranei – sempre in linea di principio – al regime della competenza, e sono governati da altre disposizioni. 62. COMPETENZA PER MATERIA E PER VALORE (domanda) La competenza civile viene ripartita, in senso verticale, utilizzando (spesso in combinazione tra loro) i criteri della materia e del valore: - La competenza del giudice di pace si desume dall’articolo 7 c.p.c., che gli attribuisce: • Tutte le cause relative a beni mobili di valore max 5.000€ (a seguito della Riforma: €10.000), sempre che la legge non preveda la competenza di un altro giudice; • Le cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione di veicoli e di natanti, valore max 20.000€ (a seguito della Riforma: €25.000); È poi prevista una competenza senza limiti di valore, quindi per materia, per: 1) Le cause relative all’apposizione di termini ed osservanza delle distanze stabilite dalla legge, dai regolamenti o dagli usi riguardo al pianta mento degli alberi e delle siepi; 2) Le cause relative alla misura e alle modalità d’uso dei sevizi di condominio di case; 3) Le cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di fumo o di calore, esalazioni, rumori, scuotimenti e simili propagazioni che superino la normale tollerabilità; 4) Le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali o assistenziali. Altre competenze per materia del giudice di pace sono poi previste, ad es., dall’art.6, d.lgs. 150/2011, in materia di opposizione all’ordinanza di ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative e dall’art. 12 del medesimo d.lgs. in tema di cancellazione dall’elenco dei protesti. - La competenza del tribunale è individuata dall’art. 9 c.p.c. anzitutto in via negativa, ossia con riferimento a tutte le cause per le quali non sia prevista la competenza di altro giudice; in positivo è previsto che il tribunale sia esclusivamente competente: • Per tutte le cause di valore indeterminabile; • Per le cause in materia di imposte e tasse (azzerata, ormai è attribuita alle commissioni tributarie); • Per le cause concernenti lo stato e la capacità delle persone (es. separazione personale dei coniugi, divorzio, interdizione) e i diritti onorifici; • Per le querele di falso; • Per l’esecuzione forzata. 45 si consideri, ad es, la competenza del giudice dell’impugnazione, che si ricollega alla provenienza del provvedimento impugnato; oppure, quella del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo che, a norma dell’art.645, si propone davanti all’ufficio giudiziario al quale appartiene il giudice che ha emesso il decreto. 42 63. Le regole per la determinazione del valore della causa Il principio fondamentale, nella determinazione del valore della causa ai fini della competenza, è che deve guardarsi essenzialmente alla domanda (art. 10), indipendentemente dall’esito cui essa conduce (es. se l’attore ha chiesto la condanna del convenuto a 10.000€, il valore resta così fissato pure se il giudice, poi, accoglie la domanda per 500€.) Sempre dall’art.10 c.p.c. (Determinazione del valore) si desume che il valore della causa: - in caso di pluralità di domande proposte nello stesso processo contro la stessa parte, è dato dalla somma delle domande medesime. Si parla in tal caso di cumulo oggettivo, ossia dell’ipotesi in cui le più domande provengano dalla stessa parte; - il valore della causa comprende, accanto al capitale, gli interessi scaduti, le spese ed i danni maturati anteriormente alla proposizione della domanda. Una serie di regole, contenute negli artt. 11 ss, concorre a determinare il valore di certi tipi di cause: - Cause relative a quote di obbligazioni tra più parti (art.11). Se la domanda, proposta da o contro più persone riguarda l’adempimento pro quota di un’obbligazione, il valore della causa si determina in base all’intera obbligazione; - Cause relative ad obbligazioni e divisioni (art.12). Quando la causa verte sull’esistenza, la validità o la risoluzione di un rapporto giuridico obbligatorio, il suo valore si determina in base alla sola parte del rapporto che è in contestazione. Nel caso della divisione, invece, il valore è pari a quello della massa attiva da dividere; - Cause relative a prestazioni alimentari e a rendite (art.13). Qualora il titolo sia controverso, il valore è pari: all’ammontare delle somme dovute per due anni, se si tratta di causa avente ad oggetto prestazioni alimentari periodiche; a venti annualità se la controversia è relativa a rendite perpetue o al canone nell’enfiteusi perpetua. Se, infine, la causa verte su rendite temporanee o vitalizie, o sul diritto al canone nell’enfiteusi a tempo, il valore si ottiene cumulando le annualità richieste, sino ad un massimo di dieci; - Cause relative a somme di denaro o a beni mobili (art.14). Somme di denaro = il valore si determina in base alla somma indicata dall’attore e, se questa manca, la causa si presume di competenza del giudice adìto. Beni mobili = si fa riferimento al valore dichiarato dall’attore e, se tale indicazione manca, la competenza sarà del giudice adito. Nell’ipotesi in cui la causa verta su beni mobili, il convenuto può contestare, non oltre la sua prima difesa, il valore dichiarato o presunto (art.14, c.2) à in questo caso il giudice deve decidere la questione, ai soli fini della competenza, in base a ciò che risulta dagli atti e senza apposita istruzione. Qualora il convenuto ometta di contestare il valore, questo rimane fissato, anche agli effetti del merito, nei limiti della competenza del giudice adito. Laddove l’attore abbia proposto una pluralità di domande, una delle quali non precisata nel valore, quest’ultima deve intendersi di valore pari al limite massimo della competenza del giudice, sicché sommata all’altra, implica un superamento della competenza, salvo che l’attore dichiari esplicitamente di voler contenere l’importo complessivo delle proprie domande entro quel limite massimo; - Cause relative a beni immobili (art.15). Per la determinazione del valore di tali cause sono previsti, a seconda del diritto controverso, diversi coefficienti di moltiplicazione del reddito dominicale (nel caso di terreni) o della rendita catastale (in caso di fabbricati). Inutili perché il g.d. pace non ha competenza in materia di immobili (a seguito alla soppressione delle preture); - Cause relative all’esecuzione forzata (art.17). Il valore delle cause di opposizione all’esecuzione forzata è dato dal credito per cui si procede, allorché si tratti di opposizione del debitore ai sensi dell’art.615, oppure dal valore dei beni controversi, se l’opposizione sia proposta da terzi a norma dell’art.619. 64. COMPETENZA PER TERRITORIO (domanda) Nell’ambito dei criteri di competenza territoriale (artt.18 ss.) bisogna distinguere quelli concernenti: FORI GENERALI: applicabili a qualunque causa ed individuati in base ad elementi soggettivi; FORI SPECIALI: utilizzabili solo per cause aventi un determinato oggetto o riguardanti determinati soggetti, si dividono in: • fori esclusivi: che prevalgono su quelli generali (derogabili per accordo delle parti (art.28), in assenza di una diversa previsione di legge) • fori facoltativi e concorrenti: offrono solo un’opzione in più all’attore, senza escludere il ricorso ai fori generali. I FORI GENERALI sono disciplinati dagli artt. 18 o 19 c.p.c., a seconda che sia convenuta in giudizio una: - Persona fisica: la competenza spetta, salvo diversa disposizione, al giudice del luogo in cui il convenuto ha la residenza o il domicilio, o nel caso in cui queste siano sconosciute, la propria dimora. Se poi è sconosciuta 45 N.B. I principi della continuazione del processo e del vincolo – seppur parziale – per il giudice ad quem, valgono solo a condizione che la causa venga tempestivamente riassunta. in caso contrario il processo si estinguerebbe e la pronuncia di incompetenza perderebbe efficacia; sicché, qualora la domanda fosse successivamente riproposta, il giudice nuovamente adito potrebbe valutare la propria competenza nei consueti limiti indicati dall’art.38. Sezione IV - Il principio della perpetuatio iurisdictionis (domanda: perpetuatio iurisdictionis ed eventuali deroghe) 67. Il momento determinante ai fini della giurisdizione e della competenza L’attribuzione della giurisdizione e della competenza dipende dai criteri fissati dal legislatore, i quali prendono in considerazione elementi del tutto estrinsechi alla domanda e sono suscettibili di mutare nel tempo. 48 Per quanto attiene alle conseguenze della variazione di tali elementi o della modificazione stessa delle disposizioni di legge regolatrici della giurisdizione o della competenza, allorché il legislatore non abbia provveduto a dettare un’opportuna disciplina transitoria, l’art.5 c.p.c. (Momento determinante della giurisdizione e della competenza) prevede il principio della perpetuatio iurisdictionis, stabilendo che la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, rimanendo irrilevanti invece i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo (intervenuti dopo tale momento, coincidente con l’instaurazione del giudizio). Ratio: 1) l’esigenza di evitare che la durata del processo si risolva in danno dell’attore che ha ragione, e 2) non vanificare il principio costituzionale secondo cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art.25, c.1 Cost.). Infatti, se mancasse tale disposizione sarebbe facile per il convenuto rendere incompetente nel corso del giudizio, il giudice che era stato correttamente individuato dall’attore. Le sole ipotesi di modificazioni normative cui si ritiene inapplicabile l’art.5 sono quelle che si traducano: - nell’immediata soppressione dell’ufficio giudiziario presso il quale pende la causa; - che derivino dalla dichiarazione di incostituzionalità di una delle norme distributive della giurisdizione o della competenza; - le variazioni che riguardano la domanda stessa (non gli elementi estrinseci)à il mutamento della domanda originaria, al pari della proposizione di domande nuove in corso di causa, può implicare il sopravvenire del difetto di giurisdizione o dell’incompetenza, spogliando conseguentemente della causa il giudice adito. Infine, prevale l’opinione che l’articolo 5 operi solamente per i mutamenti che implicherebbero l’incompetenza o il difetto di giurisdizione del giudice dinanzi al quale la causa era stata correttamente incardinata, e non anche nel caso in cui, invece, il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti l’attribuzione della giurisdizione o della competenza al giudice adito, che ne era privo al momento della proposizione della domanda. à Questa interpretazione restrittiva risponde a ragioni di economia processuale, dato che sarebbe incongruo imporre al giudice di declinare la giurisdizione o la competenza rispetto ad una causa che poi potrebbe e dovrebbe essere riproposta proprio dinanzi a lui. Sezione V - L'astensione, la ricusazione e la responsabilità del giudice 68. IL RAPPORTO TRA L’ASTENSIONE E LA RICUSAZIONE DEL GIUDICE, IN PARTICOLARE, LE IPOTESI DI ASTENSIONE OBBLIGATORIA E ASTENSIONE FACOLTATIVA (art. 51) – domanda L’art.111 2°comma Costituzione esprime il fondamentale principio della terzietà e della imparzialità del giudice, che è alla base degli istituti dell’astensione e della ricusazione. L’articolo 51 c.p.c. (Astensione del giudice) contempla una serie di situazioni in cui l’obiettività di giudizio del magistrato e la sua equidistanza dalle parti potrebbero essere compromesse e, di conseguenza, è attribuito al giudice, a seconda dei casi, l’obbligo o la facoltà di astenersi dal trattare e decidere la causa. 48 Si pensi, ad es, alla residenza ed al domicilio del convenuto, che rilevano sia per la competenza (art. 18 cpc), sia per la giurisdizione (art.31 l.218/95) 46 Inoltre, nelle sole ipotesi di astensione obbligatoria, è consentito alle parti di proporre istanza di ricusazione del giudice, allorché questi abbia omesso di astenersi. Oggetto della tutela sono 1) per un verso il diritto delle parti di non farsi giudicare da un giudice che potrebbe non essere imparziale e, 2) per altro verso, l’interesse del giudice stesso a sottrarsi ad una decisione che potrebbe risultargli scomoda. 49 Le fattispecie di astensione obbligatoria sono tassative e riguardano situazioni in cui il giudice ha un qualche interesse nella causa, o ne ha già conosciuto in altra occasione ed eventualmente in altra veste, o ha determinati rapporti con una delle parti o dei rispettivi difensori. NEL DETTAGLIO, il giudice ha l’obbligo di astenersi: 1) se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto à L’ipotesi più grave è che si tratti di un interesse diretto, che gli consentirebbe addirittura di assumere la qualità di parte del processo. Questa è l’unica ipotesi in cui si ritiene che la mancata astensione renda nulla la sentenza. Invece, si parla di interesse indiretto in ogni altra ipotesi in cui al giudice possa derivare un vantaggio o uno svantaggio dall’esito del giudizio; 2) se egli stesso o il coniuge è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori 3) se egli stesso o il coniuge ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori; 4) se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico; à L’ipotesi più frequente è quella del magistrato che abbia già conosciuto della causa in altro grado del processo (domanda: cosa si intende per altro grado). La giurisprudenza in passato ha sempre ritenuto che per “altro grado” dovesse intendersi esclusivamente l’impugnazione vera e propria dinanzi ad un diverso ufficio giudiziario. La Corte costituzionale ha affermato che l’espressione “in altro grado del processo” deve ricomprendere anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario. È inevitabile estendere tale fattispecie di astensione a tutte le opposizioni ed i rimedi, lato sensu impugnatori, esperibili dinanzi allo stesso ufficio giudiziario che ha già provveduto (ad es. all’opposizione a decreto ingiuntivo), nonché, a fortiori, alla revocazione e all’opposizione di terzo; 5) Se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; oppure se è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa. L’astensione facoltativa si ha, invece, al di fuori di queste ipotesi, in ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza. In tali circostanze, l’astensione è rimessa all’iniziativa del magistrato, per il quale essa potrebbe costituire, dal mero punto di vista deontologico, un vero e proprio dovere, sanzionabile sul piano disciplinare. Inoltre, solo nel caso di astensione facoltativa, il legislatore ha imposto l’autorizzazione da parte del capo dell’ufficio. Tuttavia, spesso la prassi fa ricorso alla richiesta d’autorizzazione anche nei casi di astensione obbligatoria. 69. RICUSAZIONE (art. 52) – domanda Qualora ricorra una delle fattispecie di astensione obbligatoria, ciascuna delle parti ha la possibilità di proporre istanza di ricusazione del giudice, seppur in termini di tempo ristretti. Il ricorso, contenente i motivi specifici e l’indicazione dei mezzi di prova, dev’essere depositato in cancelleria non oltre 2 giorni prima dell’udienza, se l’istante è già a conoscenza dell’identità del giudice, altrimenti prima della trattazione o della discussione (art.52). Scaduto questo termine, le parti non possono più far valere il 49 il giudice, infatti, ha un vero e proprio obbligo di decidere, del quale le norme sull’astensione (obbligatoria o facoltativa) rappresentano deroghe. Per questo, l’art.51, c.2, in relazione all’astensione facoltativa, prevede che il magistrato interessato non possa astenersi di propria iniziativa, ma debba chiederne l’autorizzazione al capo dell’ufficio. 47 motivo di ricusazione, neppure in via d’impugnazione della sentenza successivamente pronunciata, a meno che non sussista un interesse diretto del giudice nella causa. Stando all’articolo 52 3°comma c.p.c. (“la ricusazione sospende il processo”), la proposizione dell’istanza di ricusazione dovrebbe implicare l’automatica sottrazione della causa al giudice ricusato e la contestuale investitura del giudice competente a decidere sull’istanza medesima. La giurisprudenza, però, ha riconosciuto allo stesso giudice ricusato il potere di valutare, seppur sommariamente, l’ammissibilità e la fondatezza dell’istanza, per escludere la sospensione allorché essa sia stata palesemente avanzata al di fuori dei casi e dei termini previsti dalla legge (ciò significa negare che gli effetti della sospensione si producano automaticamente). La decisione sulla richiesta di ricusazione compete al presidente del tribunale, se è ricusato un giudice di pace; o al collegio, quando sia ricusato un magistrato del tribunale o della corte. Per il relativo procedimento è previsto solo che debba essere sentito il giudice ricusato e debbano assumersi, ove occorra, le prove offerte. La decisione è presa nella forma dell’ordinanza non impugnabile, che potrà dichiarare inammissibile o infondata la ricusazione e, in tal caso, la parte ricusante potrà essere condannata ad una pena pecuniaria di max 250€. Qualora, invece, con ordinanza viene accolto il ricorso, verrà designato il magistrato che dovrà sostituire quello ricusato. In entrambi i casi l’ordinanza dev’essere comunicata dal cancelliere alle parti, affinché queste possano provvedere alla riassunzione della causa nel termine perentorio di sei mesi. 70. La responsabilità civile dei magistrati Nel testo originario del codice la materia della responsabilità civile del giudice era disciplinata dagli artt. 55 e 56, che prendevano in considerazione solo le ipotesi di dolo, frode o concussione e quella del diniego di giustizia, in cui il giudice avesse omesso di provvedere nel termine fissato dalla legge, nonostante un’espressa diffida della parte. L’art.56, inoltre, con una disposizione di dubbia costituzionalità, subordinava la possibilità dell’azione risarcitoria ad un’autorizzazione discrezionale del Ministro della giustizia (pertanto, il danneggiato non aveva alcuna garanzia di un effettivo ristoro). In seguito al referendum popolare del 1987, la l.117/1988 ha esteso la responsabilità alle ipotesi di colpa grave, pur tipizzandole in modo molto restrittivo. Inoltre, ha escluso che l’azione risarcitoria possa essere prospettata direttamente nei confronti del magistrato, cui fa da “scudo”, invece, lo Stato. Tratti salienti della disciplina: A) Le fattispecie che possono dar luogo a risarcimento del danno – solo patrimoniale per quanto concerne l’attività del giudice civile – sono, ai sensi degli art. 2 e 3: - un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato con dolo; - un comportamento, un atto o un provvedimento posto in essere dal magistrato con colpa grave. La colpa grave può derivare solo da: a) una grave violazione di legge determinata da negligenza inscusabile; b) da un’affermazione, determinata da negligenza inscusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c) dalla negazione, determinata da negligenza inscusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; - Il diniego di giustizia, che ricorre quando il magistrato rifiuti, ometta o ritardi il compimento di atti del suo ufficio, a condizione che sia trascorso il termine previsto dalla legge e siano altresì trascorsi inutilmente e senza giustificato motivo, 30 giorni dal momento in cui la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento. N.B. Non può, invece, mai essere fonte di responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove. B) Se sussiste un’ipotesi di responsabilità, l’azione risarcitoria va proposta nei confronti dello Stato, che ne risponde civilmente; più precisamente nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri. Se invece il danno deriva da un fatto costituente reato, lo Stato sarebbe corresponsabile civile e l’azione è proponibile direttamente nei confronti del magistrato. L’azione contro lo Stato non è consentita prima che siano stati esperiti i mezzi d’impugnazione e gli altri rimedi predisposti dall’ordinamento per eliminare l’atto o il provvedimento da cui deriva il danno; inoltre è soggetta ad un termine di decadenza di due anni, decorrenti dal momento in cui è divenuta esperibile. C) Il procedimento è disciplinato dalle norme ordinarie ed è attribuito alla competenza del tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello. 50 La circostanza che due o più cause abbiano tra loro in comune uno o più elementi (soggetti, petitum, causa petendi) può avere varie conseguenze. Prima di affrontare il tema della connessione di cause è opportuno esaminare due diverse situazioni, nelle quali le relazioni tra le cause ed i rispettivi processi sono particolarmente intense e che lo stesso legislatore ha disciplinato separatamente dalla connessione, lasciando dunque intendere che rimangano ad essa estranee: la LITISPENDENZA e la CONTINENZA. 73. LITISPENDENZA INTERNA (art 39, 1 c.p.c.) Articolo 39 comma 1 c.p.c. “Se una stessa causa è proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, anche d'ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone la cancellazione della causa dal ruolo.” Il termine litispendenza può avere 2 significati: 1) Anzitutto può indicare la pendenza della causa, il cui momento iniziale – in base all’art.39 c.p.c. – va individuato, per tutti i processi che iniziano con atto di citazione, nel giorno in cui quest’ultimo viene notificato (al primo destinatario, qualora i convenuti siano più di uno). Per i processi che iniziano con ricorso da depositare, invece, rilevante è la data in cui l’atto introduttivo viene depositato nella cancelleria del giudice adito. In ogni caso, la litispendenza così intesa cessa col passare in giudicato della sentenza che definisce il processo, qualunque sia il contenuto. 2) La litispendenza può indicare anche l’anomala situazione in cui una stessa causa – o meglio, due cause identiche dal punto di vista oggettivo e soggettivo – pende contemporaneamente dinanzi a uffici giudiziari diversi, intesi come diversi uffici giudiziari. Tale situazione è considerata inaccettabile, vuoi perché implica uno spreco di attività processuale, vuoi perché può dar luogo a due giudicati tra loro contrastanti. La soluzione consiste nell’imporre al giudice successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, di troncare il processo dinanzi a sé, dichiarando con ordinanza la litispendenza e disponendo allo stesso tempo la cancellazione della causa dal ruolo. A tale provvedimento il giudice in questione deve pervenire in base al mero rilievo dell’attuale pendenza dell’altro processo, senza poter in alcun modo sindacare se il giudice preventivamente adito sia o no competente. La questione relativa alla competenza potrà essere sollevata e risolta, eventualmente, solo nell’ambito del primo processo e, qualora il primo giudice dovesse declinare la propria competenza in favore di quello che ha già dichiarato la litispendenza, la causa potrebbe essere riassunta dinanzi a quest’ultimo ai sensi dell’art.50. Diverso è il regime dell’ipotesi in cui le due cause identiche pendano contemporaneamente davanti allo stesso ufficio giudiziario. In tale ipotesi, l’art.273 c.p.c. (Riunione di procedimenti relativi alla stessa causa) prevede che la duplicazione dei procedimenti si risolva attraverso la riunione degli stessi, che avviene in modo assai semplice se essi pendono dinanzi allo stesso magistrato; altrimenti tale riunione avviene facendo intervenire il presidente del tribunale, il quale, sentite le parti, provvede con decreto determinando la sezione e/o il giudice davanti al quale deve proseguire l’ormai unico procedimento. La prassi più garantista è quella di realizzare la riunione dinanzi al giudice previamente adito. Deve ritenersi che la riunione non implichi una vera e totale fusione dei procedimenti e che il giudice debba trattare soltanto quello anteriormente iniziato, decidendo esclusivamente sulla scorta dei fatti in esso allegati e del materiale istruttorio ivi raccolto; a meno che, non potendo tale procedimento condurre ad una decisione sulla domanda, venga meno l’impedimento alla trattazione e alla decisione di quello successivamente instaurato. 74. CONTINENZA DI CAUSE (art 39, 2 c.p.c.) Art.39, 2 comma: “Nel caso di continenza di cause, se il giudice preventivamente adito è competente anche per la causa proposta successivamente, il giudice di questa dichiara con ordinanza la continenza e fissa un termine perentorio entro il quale le parti debbono riassumere la causa davanti al primo giudice. Se questi non è competente anche per la causa successivamente proposta, la dichiarazione della continenza e la fissazione del termine sono da lui pronunciate.” 51 La nozione di continenza di cause non è definita nel 2°comma dell’art.39 c.p.c., ma solo presupposta, non è quindi chiaro in cosa essa differisca dalla litispendenza e dalla connessione (contemplata al successivo art.40). Quel che è certo è che, in questo caso, si tratta di cause in qualche misura diverse, pur essendo legate da nessi particolarmente intensi. L’obiettivo del legislatore è dunque quello di assicurare la trattazione congiunta ed unitaria delle cause – c.d. simultaneus processus – al fine di evitare contrasti di giudicato. Si applica il criterio della prevenzione, essendo previsto che a spogliarsi della causa debba essere il giudice successivamente adito, che deve dichiarare con ordinanza la continenza (previo controllo della competenza del giudice preventivamente adito rispetto ad entrambe le cause) e nel contempo deve fissare alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti all’altro giudice. Tuttavia, se il giudice adito per primo non è competente anche per la causa promossa dinanzi al secondo giudice, è lui a dover dichiarare la continenza, spogliandosi conseguentemente della causa e rimettendola al giudice adito per secondo. Ovviamente, anche la disciplina dell’art.39, 2°comma presuppone che le cause in rapporto di continenza pendano dinanzi ad uffici giudiziari diversi, altrimenti la disciplina pertinente sarebbe quella della riunione obbligatoria ex art.273. Per quanto attiene all’ambito d’applicazione del regime dell’art.39.2°comma, l’opinione più diffusa intende la continenza come una sorta di litispendenza parziale, caratterizzata dal fatto che le cause, identiche per soggetti e per causa petendi, differiscano in termini meramente quantitativi rispetto al petitum, rimanendo unico il diritto dedotto in giudizio. Secondo tale opinione, in sostanza, vi è continenza quando una causa ha un oggetto più ampio rispetto ad un’altra, la quale ultima può considerarsi virtualmente contenuta nella prima. (à come esempi classici possono indicarsi il caso in cui sia stato chiesto in un processo il pagamento di una rata e in un altro il pagamento dell’intero debito; oppure quello in cui una causa verta sul mero accertamento del diritto e nell’altra venga chiesta, a parti invertite, anche la condanna). Invece, la giurisprudenza utilizza un concetto di continenza più esteso, riconducendovi anche le ipotesi in cui domande contrapposte delle parti, dal petitum completamente diverso, traggano origine dal medesimo rapporto fondamentale e siano tra loro incompatibili (es. domanda di adempimento del contratto e domanda di risoluzione o annullamento dello stesso). Ipotesi in cui il giudicato di accoglimento formatosi in un processo determinerebbe inevitabilmente il rigetto della domanda proposta nell’altro. Infine, rilevante è che sebbene l’art.39 non ponga alcuna limitazione temporale alla dichiarazione di continenza, quest’ultima non avrebbe senso allorché l’altro processo fosse ormai giunto in prossimità della fase decisoria, poiché in tal caso la fusione delle due cause sarebbe inattuabile. 75. LITISPENDENZA INTERNAZIONALE Quando due o più cause identiche pendono contemporaneamente dinanzi ad uffici giudiziari diversi, coinvolgendo, oltre al giudice italiano, anche giudici di un altro Stato, si parla di litispendenza internazionale. La disciplina pertinente si desume dall’art.7 l. 218/1995, per cui “quando, nel corso del giudizio, sia eccepita la previa pendenza tra le stesse parti di domanda avente il medesimo oggetto e il medesimo titolo dinanzi a un giudice straniero, il giudice italiano se ritiene che il provvedimento straniero possa produrre effetto per l’ordinamento italiano, sospende il giudizio”. Resta fermo il criterio della prevenzione 52, ma a differenza della litispendenza interna: - Il riferimento ad una “eccezione” di litispendenza lascia intendere che solo le parti possono sollevare la questione (anche se non si ritiene che vi siano limitazioni temporali), mentre il giudice non può rilevarla d’ufficio; - Prima di poter dichiarare la litispendenza, il giudice deve verificare (nei limiti in cui ciò sia possibile prima che il processo pendente all’estero giunga al termine) che sussistano le condizioni richieste per il riconoscimento del futuro provvedimento straniero. È doveroso accertare che il giudice straniero possa conoscere la causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano, e dunque che sussista uno dei criteri di collegamento giurisdizionale previsti dalla legge italiana; - La dichiarazione di litispendenza internazionale non chiude definitivamente il processo, ma lo sospende, al fine di evitare che tale dichiarazione di litispendenza possa tradursi in un diniego di giustizia qualora il 52 Che in questa ipotesi va applicato tenendo presente che la pendenza della causa davanti al giudice straniero si determina secondo la legge dello Stato in cui il processo si svolge (art. 7, 2°) 52 processo straniero non pervenga ad una decisione di merito o comunque quest’ultima non sia riconoscibile in Italia. In queste ipotesi, il giudizio può riprendere in Italia tramite riassunzione ad istanza della parte interessata, se il giudice straniero declina la propria giurisdizione o se il provvedimento straniero sia riconosciuto nell'ordinamento italiano. Nel caso in cui, invece, la giurisdizione straniera appartiene ad uno Stato membro dell’UE, il regolamento del 2012 (art.29 del Reg. 1215/2012) stabilisce che “qualora davanti alle autorità giurisdizionali di Stati membri differenti e tra le medesime parti siano state proposte domande aventi il medesimo oggetto e il medesimo titolo”, il giudice successivamente adito deve sospendere d’ufficio il procedimento finché sia stata accertata la competenza dell’autorità giurisdizionale adita il precedenza. Una volta che sia intervenuto tale accertamento, deve dichiarare la propria incompetenza a favore del giudice adito preventivamente. Ciò in forza della maggior fiducia che caratterizza i rapporti tra le varie giurisdizioni nazionali all’interno dell’Unione e che conduce ad un automatico riconoscimento delle decisioni emesse in un altro Stato membro. La giurisprudenza della Corte di giustizia europea ha adottato un concetto di litispendenza endocomunitaria più ampio di quello recepito nel diritto interno, ritenendo che la nozione di “medesimo oggetto” non possa essere limitate alle cause assolutamente identiche (: identità formale delle domande), ma debba abbracciare anche le ipotesi in cui tali domande, proposte dinanzi a giudici di Stati diversi, differiscano per il rispettivo oggetto e siano tra loro contrapposte ed incompatibili, pur traendo origine dal medesimo rapporto. Sezione II - La connessione di cause (domanda) 76. LA CONNESSIONE Connessione: quando due o più cause (domande) hanno in comune uno o più elementi identificativi (soggetti, petitum, causa petendi), pur non essendo identiche (altrimenti è litispendenza). In presenza di tale nesso, il legislatore consente, seppur a determinate condizioni, il cumulo e la trattazione congiunta delle cause in un unico giudizio (simultaneus processus), vuoi per ragioni di economia processuale, vuoi per evitare decisioni disarmoniche o addirittura contrastanti. Per favorire la realizzazione del cumulo di cause connesse, il legislatore prevede delle deroghe agli ordinari criteri di competenza, dirette a consentire che un unico giudice possa conoscere di tutte le cause pur quando esse, separatamente considerate, andrebbero proposte dinanzi a diversi uffici giudiziari. Il codice, infatti, affronta il tema della connessione muovendo dalle modificazioni della competenza che essa può determinare. Possono distinguersi diverse forme di connessione: 77. CONNESSIONE MERAMENTE SOGGETTIVA Connessione meramente soggettiva: riguarda i soli soggetti, attivi e passivi, delle domande; le quali differiscono, invece, per ogni aspetto oggettivo. Tale situazione è contemplata dall’articolo 104, 1°comma c.p.c. (Pluralità di domande contro la stessa parte) che consente di proporre contro la stessa parte, nel medesimo processo, più domande anche non altrimenti connesse, purché sia osservata la norma dell’art.10, 2°comma c.p.c. L’unico effetto di tale connessione è che, ad iniziativa dell’attore, le domande proposte nello stesso processo contro la medesima persona si sommano (cumulano) tra loro (interessi, spese, e danni anteriori alla proposizione si sommano col capitale). à In tal caso, si parla di cumulo oggettivo per definire il cumulo delle più domande in un unico processo (riguarda più cause diverse fra le stesse parti). Vengono in rilievo solo ragioni di economia processuale e di comodità delle parti e conseguentemente non è prevista alcuna deroga ai criteri ordinari di competenza, diretta a favorire il simultaneus processus. Quest’ultimo sarà concretamente attuabile solo quando uno stesso ufficio giudiziario risulti competente – per materia e territorio (anche derogabile) – per tutte le cause. Quanto alla competenza per valore, invece, il problema non si pone poiché l’art.10, 2°comma (espressamente richiamato dall’art.104), prevede che il valore complessivo della causa si determini sommando le più domande proposte (dalla stessa parte) contro la stessa parte; il che vuol dire che potrebbe essere investito della pluralità di domande, un giudice diverso da quello che sarebbe stato competente a conoscerle separatamente. 55 à In ogni caso, laddove le cause non vengano trattate congiuntamente, la pregiudizialità-dipendenza può determinare un rischio notevole di giudicati (logicamente) contraddittori, legato all’eventualità che l’esistenza del medesimo rapporto pregiudiziale venga affermata in un processo e negata nell’atro. Il simultaneus processus è favorito attraverso deroghe agli ordinari criteri di competenza (si tratta, però, di deroghe formulate in modo tutt’altro che limpido e che, quindi hanno dato luogo a diversi dubbi interpretativi. Prevale l’opinione che la connessione non possa mai derogare ai criteri della competenza per materia o per territorio funzionale. Tuttavia, dopo l’istituzione del giudice unico in primo grado e la soppressione delle preture, gli ostacoli alla trattazione congiunta in presenza di una connessione qualificata, sono divenuti meno frequenti, specialmente per quel che concerne la competenza verticale. Dato che, se i criteri ordinari della materia e/o del valore dovessero attribuire una causa al giudice di pace e l’altra al tribunale, l’art.40, 6°comma, farebbe prevalere senz’altro la competenza del giudice togato. Pertanto, fatta eccezione per le ipotesi in cui è prevista la competenza della Corte d’appello in primo ed unico grado, l’impedimento alla realizzazione del simultaneus processus potrebbe derivare solo dalla competenza per territorio inderogabile ex art.28. 81. A) ACCESSORIETÀ L’art.31 c.p.c. Cause accessorie stabilisce che la domanda accessoria può cumularsi a quella principale, dinanzi al giudice territorialmente competente per quest’ultima; fermo restando che se le domande sono proposte contro la medesima parte, il loro valore si somma, ai sensi dell’art.10, 2°. Accessoria: la domanda che, dal punto di vista del risultato perseguito dall’attore, ha un rilievo secondario rispetto alla domanda principale ed il cui accoglimento è subordinato all’accoglimento di quest’ultima, da cui discende in modo pressoché automatico. Si pensi, ad es. alla domanda (principale) di risoluzione del contratto di compravendita o di locazione e alla domanda (accessoria) di restituzione o rilascio del bene. 82. B) GARANZIA L’art.32 c.p.c. (Cause di garanzia) fa riferimento alle ipotesi in cui un soggetto – garante – è obbligato a tenere indenne un altro soggetto – garantito - dalle conseguenze economiche negative che possono a quest’ultimo derivare dall’eventuale soccombenza in una causa promossa nei suoi confronti da un terzo (es. obbligo di garanzia gravante sul venditore per l’evizione che il compratore subisca per effetto di diritti fatti valere da un terzo sul bene, nonché le ipotesi in cui il debitore, dopo aver pagato, ha diritto di regresso verso altri obbligati). In questi casi, nei quali è evidente che il diritto alla garanzia dipenda, sul piano sostanziale, anche dall’esistenza del diritto vantato dal terzo nei confronti del garantito, la domanda di garanzia può essere proposta autonomamente, dopo che il giudizio principale (cioè quello promosso dal terzo) si è già concluso con la soccombenza del garantito. Vi è il rischio, però, che il garante – rimasto escluso dal primo processo e dunque non vincolato alla relativa decisione – possa rimettere in discussione, nel secondo processo, anche il diritto del terzo. à Tale eventualità è esplicitamente contemplata, quanto all’ipotesi dell’evizione, dall’art.1485 c.c., secondo cui il compratore, convenuto in giudizio da un terzo che pretende di avere diritti sulla cosa venduta, ha l’onere di chiamare in causa il venditore, affinché lo stesso possa contrastare la pretesa del terzo. Qualora non assolva a quest’onere, e venga poi condannato, egli perde il diritto alla garanzia se il venditore, nel nuovo processo promosso dal compratore evitto, prova che esistevano ragioni sufficienti per far respingere la domanda. La chiamata in garanzia consente al garantito di chiedere la condanna del garante, prima ancora che si sia verificato il presupposto sostanziale della garanzia, cioè la soccombenza dello stesso garantito; cosicché, laddove sia la domanda principale, sia quella di garanzia, risultino fondate, la condanna del garantito e del garante possano essere contestuali. Per favorire la realizzazione del simultaneus processus l’art.32 stabilisce che la domanda di garanzia può proporsi al giudice territorialmente competente per la domanda principale. Se poi il valore della causa di garanzia eccede la competenza del giudice della causa principale, quest’ultimo è tenuto a rimettere entrambe le cause al giudice superiore, assegnando un termine per la loro riassunzione. Tale disciplina, secondo la giurisprudenza prevalente, troverebbe applicazione nei soli casi di garanzia propria, ossia quando l’obbligo di garanzia discende dalla legge o dal medesimo rapporto giuridico sul quale 56 si fonda la domanda principale; non anche nel caso di garanzia impropria, che si ha quando l’obbligo di garanzia deriva da un diverso rapporto 55. In quest’ultima ipotesi il cumulo di cause, come pure la chiamata del garante nel giudizio, sarebbe pur sempre ammesso, ma senza alcuna deroga agli ordinari criteri di competenza. à Tale distinzione non appare persuasiva, sia perché l’art.32 non la prevede, sia perché la connessione tra la domanda principale e quella contro il garante, nel caso di garanzia impropria, appare qualitativamente simile da quella che caratterizza la garanzia propria, essendo comunque definibile in termini di pregiudizialità-dipendenza. (quindi sia propria sia impropria) 83. C) ACCERTAMENTO INCIDENTALE (domanda: accertamento incidentale ed effetti esterni del giudicato) L’art.34 c.p.c. (Accertamenti incidentali) contempla l’ipotesi in cui, per legge o per esplicita domanda di una delle parti, debba decidersi con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale appartenente per materia o valore alla competenza di un giudice superiore. Il giudice adito, in tal caso, deve rimettere tutta la causa al giudice superiore, assegnando un termine perentorio per la riassunzione della stessa. Le questioni pregiudiziali cui allude la norma sono quelle di merito 56, ossia quelle concernenti l’esistenza o l’inesistenza di un rapporto giuridico diverso da quello oggetto del processo, che però condiziona – in quanto elemento costitutivo o, al contrario, elemento estintivo, impeditivo o modificativo – l’esistenza o l’inesistenza dell’oggetto del processo stesso. In altre parole, l’art.34 ipotizza anzitutto che: - Tra i fatti principali rilevanti per la domanda originaria vi siano uno o più fatti-diritti, che riguardano un altro e distinto diritto o status, che potrebbe essere oggetto di accertamento in un diverso ed autonomo giudizio; - Che sulla (in)esistenza di uno di tali fatti-diritti sorga contrasto fra le parti 57; - Che, per legge o in conseguenza di un’esplicita domanda di una delle parti, sia necessario decidere con autorità di giudicato sull’(in)esistenza del rapporto pregiudiziale. à Solo in virtù di tali presupposti, dunque, il giudice adito dovrà verificare se la decisione sul rapporto pregiudiziale rientri o meno nella sua competenza per materia e/o valore. È opinione diffusa che l’art.34 offra importanti indicazioni per la ricostruzione dell’oggetto del processo nonché, correlativamente, dei limiti del giudicato. Si desume che anche quando in una causa sorge una questione pregiudiziale, quest’ultima non viene decisa con efficacia di giudicato, bensì risolta dal giudice ai soli fini della decisione sulla domanda (incidenter tantum), enza che la soluzione ad essa data nella sentenza possa valere ad altro fine o possa vincolare i giudici di altri processi nei quali la medesima questione dovesse venire in rilievo. Ciò conferma che l’oggetto del processo rimane sempre circoscritto alla domanda, senza estendersi alle questioni che pure ne condizionano la decisione. Si spiega perché il sorgere di una questione pregiudiziale non ponga di per sé problemi di competenza, neppure quando la cognizione del rapporto pregiudiziale spetterebbe, in base ai criteri ordinari, ad un giudice superiore. Però, può avvenire che una volta sorta la questione pregiudiziale, il giudice debba decidere anche su di essa con efficacia di giudicato, vuoi perché è la legge ad esigerlo 58, vuoi perché è una delle parti ad avanzare una domanda in tal senso, chiedendo dunque che si decida – ad ogni effetto e non incidenter tantum – sull’esistenza del rapporto pregiudiziale. È questa la domanda di accertamento incidentale (cui allude la rubrica dell’art.34), per la quale dovranno sussistere le consuete condizioni quanto a legittimazione e ad interesse ad agire. In conseguenza a tale domanda, la questione pregiudiziale diventa causa pregiudiziale, e quest’ultima viene a cumularsi a quella principale originaria. Se la causa pregiudiziale appartiene alla competenza per materia o per valore dello stesso giudice o di un giudice inferiore, nulla questio; invece, se la causa pregiudiziale esorbita la competenza del giudice adito, quest’ultimo rimette entrambe le cause al giudice superiore, affinché si realizzi il simultaneus processus dinanzi a lui. 55 Per es. nelle vendite a catena, quando l’acquirente finale agisce per vizi della cosa nei confronti del dettagliante e quest’ultimo si rivolga al grossista che gliel’ha venduta. 56 Non sono quelle di rito (attinenti alla sussistenza di presupposti processuali o condizioni dell’azione). 57 Se così non fosse, non si avrebbe una questione, ma si parlerebbe di un punto pregiudiziale, che il giudice porrebbe a base della decisione senza doversene realmente occupare 58 Si ritiene che ciò valga per le questioni concernenti lo stato delle persone. 57 Questa disciplina conferma, a contrario, che la trattazione congiunta di cause connesse per pregiudizialità- dipendenza non può mai trovare ostacolo nella diversa competenza per territorio (derogabile) prevista per le singole cause. 84. D) COMPENSAZIONE (domanda: art.35 – esempio in cui la legge stabilisce che il giudice debba conoscere della questione pregiudiziale con autorità di cosa giudicata) L'art. 35 c.p.c. (Eccezione di compensazione) prende in considerazione il caso in cui sorga una particolare questione pregiudiziale, avente ad oggetto l'esistenza di un controcredito opposto in compensazione (legale o giudiziale). La compensazione, traducendosi in un fatto estintivo del debito che il convenuto allega al solo fine di ottenere il rigetto (totale o parziale) della domanda, dà luogo ad una eccezione e quindi, pur riguardando propriamente un fatto-diritto che potrebbe essere oggetto di autonomo accertamento, non dovrebbe estendere l'ambito oggettivo del giudizio; a meno che, essendo sorta questione pregiudiziale sull'esistenza del controcredito, una delle parti non avanzasse un'esplicita domanda di accertamento incidentale (ai sensi dell’art.34). à La disciplina dell'art. 35 diverge, invece, in parte da tali principi: se il controcredito è contestato ed eccede la competenza per valore del giudice adito, nega a questo la possibilità di decidere l'eccezione di compensazione, sulla quale dovrà comunque pronunciarsi il giudice superiore. In altre parole, allorché sia proposta un'eccezione di compensazione, l'eccezione resta tale, e quindi non amplia l'oggetto del giudizio, solo se il controcredito non è contestato dall'attore. Invece, in caso di contestazione sorge una causa pregiudiziale, che va a cumularsi a quella originaria e può esorbitare la competenza del giudice adito. L’articolo 35 fa riferimento alla sola ipotesi in cui sia competente per valore un giudice superiore: questa particolare ipotesi di connessione (al pari di quella contemplata dall’art.34) viene intesa nel senso che consente di derogare alla sola competenza per territorio e a quella per valore di giudice inferiore (non anche alla competenza per materia o funzionale). Se è lo stesso giudice originariamente adito poter decidere sul controcredito contestato, il simultaneus processus si realizzerà dinanzi a lui. In caso contrario, l’articolo 35 prevede che tutta la causa sia rimessa al giudice superiore. Rispetto all’art.34, però, il giudice ha qui un’ulteriore possibilità: se la domanda principale è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, può decidere su di essa e rimettere al giudice superiore la sola decisione concernente l'esistenza del controcredito, eventualmente subordinando l'esecuzione della propria sentenza di condanna alla prestazione di una cauzione. 85. E) DOMANDA RICONVENZIONALE (domanda: sistema di preclusioni e rimessione in termini) L’art.36 c.p.c. (Cause riconvenzionali) non fornisce una definizione della domanda riconvenzionale, limitandosi a disciplinare le sole “domande riconvenzionali che dipendono dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione”. Tali domande possono essere cumulate a quella principale e decise nello stesso processo, purché non eccedano la competenza per materia o valore del giudice adito. In caso contrario, il giudice applica le disposizioni relative all’accertamento incidentale e alla compensazione; il che significa che, se la domanda principale è fondata su un titolo non controverso o facilmente accertabile, potrà decidere su di essa e rimettere al giudice superiore la sola causa concernente la riconvenzionale; altrimenti gli rimetterà entrambe le cause. Riconvenzionale: evoca l’idea della controdomanda che il convenuto, non limitandosi a chiedere il rigetto della domanda proposta dall’attore, formula a propria volta nei confronti di quest’ultimo, facendo valere un diritto diverso da quello oggetto della domanda principale, pur essendo ad esso collegato. Si tratterebbe di domande soggettivamente coincidenti, seppur a parti contrapposte. Tuttavia, deve ritenersi che il concetto di riconvenzionale abbracci (oltre alla domanda formulata dal convenuto nei confronti dell’attore) anche: - la domanda che lo stesso attore proponga successivamente contro il convenuto (reconventio reconventionis); - la domanda proposta da taluno dei convenuti nei confronti di un altro convenuto; - tutte le domande (comprese quelle di accertamento incidentale) provenienti da chi è già parte nel processo e dirette contro un altro soggetto che parimenti ha in precedenza acquisito la qualità di parte. 60 à In altre parole, all’art. 40 c.p.c., che disciplina la connessione tra cause assoggettate a riti diversi, è stata prevista la prevalenza del rito semplificato di cognizione nei casi in cui si determina una connessione "forte" tra una causa sottoposta a tale rito e una causa invece da trattarsi con rito speciale diverso da quelli di cui agli artt. 409 e 422 c.p.c. (comma 2). L’intervento risponde alla finalità di operare un coordinamento fra l’eventuale coesistenza del nuovo rito semplificato di cognizione e altri riti speciali diversi da quelli in materia lavoristica e di locazione. 89. Il potere di separazione delle cause cumulate Gli artt. 103 2°comma e 104, 2°comma c.p.c. attribuiscono al giudice il potere discrezionale di disporre, nel corso dell’istruzione o in fase decisionale, la separazione delle cause fino a quel momento trattate congiuntamente, qualora le parti ne facciano istanza o anche d’ufficio, quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe troppo gravoso il processo. Il provvedimento di separazione fa sì che ciascuna delle cause torni a svolgersi autonomamente, oltretutto dinanzi al giudice inferiore che fosse eventualmente competente rispetto a taluna di esse. Le disposizioni in esame sembrano riferirsi indiscriminatamente ad ogni ipotesi di cumulo di cause (iniziale o successivo, oggettivo o successivo). Parte della dottrina ritiene che le esigenze di economia processuale, che sono alla base del potere di separazione, non dovrebbero mai poter operare in presenza di una connessione particolarmente intensa, qual è quella della pregiudizialità- dipendenza, che contraddistingue un po’ tutte le fattispecie di connessione qualificata e può dar luogo, qualora le cause procedano autonomamente, a contrasti di giudicati evidenti. Pertanto, spesso si è affermato che la separazione in questi casi non sarebbe ammessa, poiché si tratterebbe di un cumulo di cause inscindibile. Tuttavia, la giurisprudenza sembra rifiutare tale distinzione e, inoltre, la non impugnabilità del provvedimento di separazione rende di scarso rilievo pratico il problema. Capitolo VIII – LE PARTI E I DIFENSORI 90. La nozione di parte Il termine parte può assumere significati differenti. Esso allude: - soggetti del rapporto sostanziale dedotto in giudizio; - genericamente i soggetti che agiscono nel processo senza distinguere tra parte e difensore; - parte rappresentata, distinguendola dal suo difensore con procura. PARTE: soggetto che agisce in nome proprio nel processo e nei cui confronti si produrranno gli effetti, favorevoli o sfavorevoli dei provvedimenti del giudice. Dato che si tratta di una nozione del tutto interna al processo, che prescinde dalla titolarità del rapporto giuridico controverso, si parla in tal caso di parte in senso processuale. 61 La qualità di parte (da cui discende la titolarità di una serie di situazioni giuridiche, attive e passive: diritti, doveri, poteri, oneri) può acquistarsi in vari modi: - per aver dato vita al processo attraverso l’atto introduttivo (attore); - per essere stato destinatario di quest’ultimo (convenuto); - in conseguenza di un intervento, volontario o coatto; - per essere succeduti a taluna delle parti originarie; - per il solo fatto di essere indicati come parte, seppur per errore, nel provvedimento del giudice. 91. CAPACITÀ DI ESSERE PARTE E CAPACITÀ PROCESSUALE; legittimazione processuale (domanda: capacità della parte) Si è soliti distinguere, in ambito processuale, tra capacità di essere parte e capacità processuale. 62 61 In tal senso, ad es., è parte il sostituto processuale, che agisce in nome proprio, facendo valere un diritto dichiaratamente altrui, mentre il sostituito, cioè il titolare del diritto stesso, lo diviene solo se e quando sia chiamato effettivamente a partecipare al giudizio instaurato dal legittimato straordinario; è altresì parte il terzo che intervenga nel processo, anche nelle ipotesi in cui si limiti a sostenere le ragioni di una delle parti, senza far valere alcun proprio diritto (art. 105, 2°). 62 Equivalente alla distinzione di diritto sostanziale fra capacità giuridica e capacità di agire. 61 Capacità di essere parte: coincide con la capacità giuridica e spetta, dunque, a tutti i soggetti o enti (anche privi di personalità giuridica) cui è riconosciuta quest’ultima. Capacità processuale: da intendersi come la capacità di agire nel processo. Il nesso con la capacità d’agire emerge chiaramente dall’art.75, 1°comma c.p.c. per cui “sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere”. Il legislatore subordina alla capacità processuale la possibilità di stare in giudizio, e dunque il potere di porre in essere gli atti del processo: si parla, in tal senso, di legittimazione processuale (o legitimatio ad causam). La capacità processuale si acquista (di regola) con la maggiore età, al pari della capacità di agire, salvi i casi in cui la legge richieda un’età diversa, come avviene in materia di “diritto di autore” (16 anni). Parallelamente, sulla capacità processuale possono incidere gli stessi eventi giuridici suscettibili di escludere, limitare o condizionare la capacità di agire. Infatti, il 2°comma dell’art.75 stabilisce che le persone che non hanno il libero esercizio dei diritti possono stare in giudizio solo a patto di essere rappresentate, assistite o autorizzate secondo le norme che regolano la loro capacità. Il riferimento è anzitutto alla minore età, all’interdizione, all’inabilitazione e alle altre situazioni da cui può derivare la perdita o la limitazione della capacità di agire (es. dichiarazione di fallimento, che determina l’incapacità del fallito limitatamente ai rapporti di diritto patrimoniale). In questi casi, il soggetto incapace o limitatamente capace potrà stare in giudizio, a seconda dei casi, tramite un soggetto che lo rappresenti legalmente (genitore, tutore, curatore) al quale competerà in via esclusiva la legittimazione processuale; oppure insieme ad un altro soggetto che lo assiste (il curatore, quando si tratta di inabilitato o di minore emancipato), configurandosi in tale ultima situazione una fattispecie di legittimazione processuale congiunta. Vi sono ipotesi contemplate dall’art.75 2°comma, in cui la proposizione di un’azione o la mera costituzione in un giudizio da altri instaurato sono subordinate al rilascio di un’autorizzazione da parte di un determinato organo. Tale autorizzazione è richiesta per integrare la capacità processuale del rappresentante di una persona fisica incapace, ma si è soliti estenderne la portata anche alle ipotesi (che in realtà parrebbero estranee alla capacità di agire e, conseguentemente, a quella processuale) in cui l’autorizzazione sia prescritta, invece, da disposizioni (di legge o statutarie) che disciplinano il procedimento di formazione della volontà di un ente, pubblico o privato. 92. RAPPRESENTANZA PROCESSUALE (domanda: rappresentanza del procuratore e dell’institore) La rappresentanza, anche in ambito processuale, è caratterizzata dalla circostanza che il rappresentante agisce in nome e per conto del soggetto rappresentato 63. • Rappresentanza legale: l’art.75. 2 comma c.p.c. comma richiama le ipotesi in cui determinati soggetti incapaci o limitatamente capaci, possono stare in giudizio solo nella persona del soggetto cui la stessa legge attribuisce tale potere di agire in nome altrui (nomine alieno). • Rappresentanza organica: i commi successivi dell’art.75 si riferiscono alla rappresentanza organica nella quale vi è una sorta di immedesimazione tra rappresentante e rappresentato. Essa serve a descrivere il modo in cui si manifesta all’esterno la volontà delle persone giuridiche e degli altri enti diversi dalla persona fisica. Infatti, il co.3 precisa che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto; mentre, secondo il co.4, le associazioni e i comitati, privi di personalità giuridica, stanno in giudizio per mezzo delle persone cui compete, in base ad accordi degli associati, la presidenza o la direzione degli stessi. Una situazione analoga ricorre ogniqualvolta il legislatore riconosca una qualche soggettività giuridica, seppur imperfetta, ad entità diverse dalla persona fisica (es. amministratore di condominio a cui è attribuito un limitato potere di rappresentanza, sostanziale e processuale, dei singoli condomini). • Rappresentanza (processuale) volontaria: si fonda su una libera scelta del rappresentato, estrinsecata attraverso il conferimento di un’apposita procura. Il codice si limita a prendere in considerazione la sola rappresentanza processuale del “procuratore generale” e di “quello preposto a determinati affari”, 63 È evidente la differenza con la sostituzione processuale, in cui il sostituto fa valere in nome proprio un diritto altrui 62 ossia di soggetti cui compete anche il potere di rappresentanza sostanziale. Essi, in base all’art.77 c.p.c. (Rappresentanza del procuratore e dell’institore), non possono stare in giudizio per il preponente quando questo potere non è stato loro conferito espressamente per iscritto. Se ne deduce, dunque, che il mero conferimento della rappresentanza sostanziale non implica, di per sé, il potere di agire o di essere convenuto in nome del rappresentato, nei giudizi in cui si controverta dei rapporti cui fa riferimento la procura sostanziale, essendo a tal fine richiesta l’esplicita attribuzione, per iscritto, della rappresentanza processuale. Le sole deroghe riguardano: - il compimento di atti urgenti e la richiesta di misure cautelari, attività che non tollererebbero un differimento e che, conseguentemente, rientrano sempre nei poteri del rappresentante sostanziale; - il procuratore generale di chi abbia la residenza ed il domicilio all’estero e l’institore, ai quali il potere di rappresentanza processuale si presume senz’altro conferito e, pertanto, non necessita di apposita menzione. L’opinione prevalente ritiene di poter dedurre che la rappresentanza processuale volontaria non possa mai andar disgiunta da quella sostanziale, pena l’invalidità della procura (meramente processuale) ed il conseguente difetto di legittimazione processuale del rappresentante. In realtà, si tratta di una deduzione opinabile, ove si consideri unicamente l’art.77; semmai, l’unico elemento che potrebbe addursi in favore di tale tesi – basato sull’argomentazione a contrario – è offerto dall’art.317, che espressamente prevede, dinanzi al solo giudice di pace, la possibilità che le parti si facciano “rappresentare da persona munita di mandato scritto in calce alla citazione o in atto separato”. Nella pratica, poi, l’inscindibilità della rappresentanza processuale da quella sostanziale, viene “aggirata” mediante l’espediente di attribuire al delegato anche poteri di rappresentanza sostanziale. à Ad ogni modo, nei casi di rappresentanza processuale, ci si trova in presenza di una parte complessa costituita sia dal rappresentante che dal rappresentato. Rappresentato: è parte in senso processuale, cioè destinatario degli effetti del processo e degli atti che in esso vengono compiuti. Rappresentante: è parte in senso formale, e ad esso compete la legittimazione processuale (in via esclusiva in caso di: rapp.legale. – in via concorrente in caso di: rapp.volontaria). Infine, lo stesso rappresentante può subire gli effetti del processo, allorché sussistano le condizioni per una sua condanna al pagamento delle spese del giudizio. 93. CURATORE SPECIALE L’art.78 c.p.c. (Curatore speciale) prevede la nomina di un curatore speciale in 2 situazioni: 1) Quando manca la persona cui spetta la rappresentanza o l’assistenza dell’incapace, della persona giuridica o dell’associazione non riconosciuta, e vi sono ragioni di urgenza, tali da non poter attendere che si provveda nei modi ordinari; 2) Quando vi sia un conflitto di interessi – anche meramente potenziale – tra rappresentante e rappresentato 64. In queste ipotesi, al curatore speciale spetta la legittimazione processuale, in luogo della parte (quando debba assumerne la rappresentanza), o accanto ad essa (quando debba solo assisterla). I soggetti che possono prendere l’iniziativa per la nomina sono, in base all’art.79 (Istanza di nomina del curatore speciale): - lo stesso soggetto che dovrà beneficiare della rappresentanza o dell’assistenza del curatore, sebbene sia incapace; - i suoi prossimi congiunti; - il rappresentante, quando la nomina si renda necessaria per conflitto d’interessi; - qualunque altra parte in causa che vi abbia interesse; - il pubblico ministero (in ogni caso). La competenza, a seconda dei casi e salvo le ipotesi in cui sia competente il tribunale per i minori, appartiene al giudice di pace oppure al presidente dell’ufficio giudiziario (tribunale, corte d’appello o corte di cassazione) davanti al quale si intende proporre la causa (art.80); il quale provvede con decreto, dopo aver assunto le opportune informazioni e sentite possibilmente le parti interessate. Il decreto di nomina dev’essere comunque comunicato dall’ufficio al pubblico ministero, affinché questi possa attivarsi per 64 Per es. quando il tutore debba promuovere un’azione contro l’incapace. 65 97. PROCURA Il nostro ordinamento esige che il difensore-rappresentante sia sempre munito di una procura scritta, redatta secondo le formalità indicate nell’art.83 c.p.c. (Procura alle liti), ispirate dalla preoccupazione che la parte rappresentata possa “sconfessare” l’operato del proprio avvocato, magari in relazione all’andamento del processo. Distinguiamo: Procura generale: allorché sia conferita per un numero indefinito di controversie, anche future (procura ad lites). Procura speciale: qualora sia conferita per una causa determinata (procura ad litem). In altri casi, l’aggettivo “speciale” viene inteso nel senso che la procura debba riguardare espressamente un determinato procedimento d’impugnazione, o addirittura un determinato atto del procedimento, per il quale il legislatore non ritiene sufficiente la procura conferita per l’intero grado del giudizio. La procura dovrebbe essere rilasciata con atto pubblico o scrittura privata autenticata, il ché richiederebbe l’intervento di un notaio o altro pubblico ufficiale a ciò abilitato. Tuttavia, limitatamente alla procura speciale, l’art.83, 3°comma, consente che essa sia apposta in calce (alla fine) o a margine di taluni atti processuali e che, in questi casi, l’autografia della sottoscrizione della parte sia certificata dallo stesso difensore destinatario del mandato. L’art.83 fa esplicito riferimento agli atti lato sensu iniziali di qualunque processo, di cognizione o di esecuzione: la citazione, il ricorso, il controricorso, la comparsa di risposta o d’intervento, il precetto, la domanda d’intervento nell’esecuzione. La riforma del 2009 vi ha pure inserito un riferimento all’eventuale “memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione di quello originariamente designato”. Tale elencazione non ha carattere tassativo e, al riguardo, si esige unicamente che si tratti di atti depositati contestualmente alla costituzione in giudizio della parte, in modo da assicurare che in questo momento il mandato sia stato già conferito. Il 3°comma dell’art.83 precisa che la procura speciale si considera apposta in calce anche quando sia rilasciata su un foglio separato che sia però congiunto materialmente all’atto cui si riferisce. Il che conferma come le formalità previste dall’art.83 mirano alla tutela dell’affidamento dell’avversario, il quale viene posto a riparo dalle eventuali contestazioni concernenti i rapporti interni tra la parte ed il proprio difensore oppure dai possibili limiti del mandato a quest’ultimo attribuito. Lo stesso 3°comma, infine, prende in considerazione l’eventualità che la procura ad litem debba accedere ad un atto processuale redatto come documento informatico e trasmesso attraverso strumenti telematici. In tale ipotesi sono previste 2 possibilità: - se la stessa procura è formata come autonomo documento informatico, sottoscritto con firma digitale, quest’ultimo può essere virtualmente congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia; - se invece la procura è stata originariamente conferita con le modalità tradizionali – supporto cartaceo con sottoscrizione autografa – il difensore può ricavarne una copia informatica, autenticare quest’ultima con la propria firma digitale e trasmetterla in via telematica come allegato del documento informatico cui essa accede. Il legislatore, poi, non disciplina direttamente il contenuto della procura, limitandosi a precisare che quella speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell'atto non è espressa volontà diversa67 Infine, l’art.85 c.p.c. (Revoca e rinuncia alla procura) stabilisce che la procura può essere sempre revocata (ad opera della parte che l’aveva conferita) e il difensore può sempre rinunciarvi, ma la revoca e la rinuncia non hanno effetto nei confronti dell'altra parte finchè non sia avvenuta la sostituzione del difensore (ciò per evitare possibili tattiche dilatorie)à (domanda: effetti della rinuncia alla procura dell’avvocato) 98. I poteri del difensore. 67 Ciò significa che (tenuto conto che per il ricorso per Cassazione e per la revocazione è richiesta una procura ad hoc), il mandato ad litem conferito per il processo di 1° grado, non vale di regola anche per l’appello, se non contiene uno specifico riferimento a quest’ultimo. 66 L’art.84 c.p.c. (Poteri del difensore) nel definire i poteri che competono al difensore-procuratore, attribuisce a quest’ultimo il potere di compiere e ricevere, nell’interesse della parte rappresentata, tutti gli atti del processo che per legge non sono espressamente riservati alla parte medesima. In generale, lo stesso art. 84 sottrae al difensore il compimento di atti che importano disposizione del diritto in contesa, se non ne ha ricevuto espressamente il potere. Quindi egli, di regola, non può transigere o conciliare la controversia quando la parte non gli abbia conferito esplicitamente tali poteri (con la stessa procura conferitagli per il giudizio o con atto separato). Altre norme specifiche, poi, richiedono una procura ad hoc per determinati atti particolarmente delicati 68 o idonei ad incidere sulla prosecuzione della causa69, se non addirittura, seppur indirettamente, sullo stesso diritto controverso70. Al di fuori di queste limitazioni, i poteri del difensore devono ritenersi estesi a tutti gli atti ch’egli reputi opportuni nell’interesse del proprio assistito, compresa la proposizione di domande nuove e la chiamata in causa di terzi; alla sola condizione che, laddove si tratti di domande formulate nel corso del giudizio, esse siano oggettivamente connesse a quelle originarie. Il difensore con procura diviene, dal momento della costituzione in giudizio, il destinatario naturale di tutte le notificazioni e le comunicazioni diretta alla parte da lui rappresentata. CAPITOLO IX – IL PROCESSO CON PLURALITÀ DI PARTI Sezione I – IL LITISCONSORZIO ORIGINARIO (domanda) Litisconsorzio: indica la presenza nel processo di una pluralità di parti, alcune delle quali potrebbero anche avere un interesse ed una posizione processuale comuni 71. Si suole parlare di litisconsorzio attivo, passivo o misto, a seconda che la pluralità di parti riguardi chi ha proposto la domanda, oppure i destinatari della stessa, o entrambi. Il litisconsorzio, inoltre, può essere: Originario: se si determina fin dal momento in cui si instaura il processo Successivo: qualora si realizzi nel corso del giudizio, conseguentemente all’intervento di nuove parti o ad un fenomeno di successione processuale. Facoltativo: quando il processo può instaurarsi tra più parti Necessario: quando deve instaurarsi tra più parti 100. LITINSCONSORZIO FACOLTATIVO (ORIGINARIO) L’art.103 c.p.c. Litisconsorzio facoltativo prevede 2 ipotesi: Litisconsorzio proprio: si ha quando più parti agiscano o siano convenute nello stesso processo quando tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono (: si presuppone una connessione oggettiva propria). Litisconsorzio improprio: quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente, dalla risoluzione di identiche questioni (: corrisponde ad una connessione impropria). La facoltatività del litisconsorzio è dunque riferita alla genesi del cumulo soggettivo di cause, rimessa alla volontà dell’attore. N.B. Ed è chiaro che un cumulo di cause tra parti diverse può attuarsi anche nel corso del processo, attraverso la chiamata o l’intervento volontario di terzi, che potrebbero essere destinatari o autori essi stessi di nuove domande. 68 Es. art.221, che riguarda la proposizione della querela di falso. 69 Es. art.306 in tema di rinuncia agli atti del giudizio. 70 È questo il caso del deferimento del giuramento decisorio. 71 Es. un’azione confessoria servitutis, proposta nei confronti dei più comproprietari del preteso fondo servente. 67 101. LITINSCONSORZIO NECESSARIO (à domanda: anche con esempi) L’art.102 1°comma c.p.c. Litisconsorzio necessario enuncia il principio per cui “se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo”. Inoltre, al 2° comma viene aggiunto che qualora ciò non avvenga 72, il giudice deve ordinare alle parti l’integrazione del contraddittorio, fissando a tal fine un termine perentorio (la scadenza di tale termine perentorio conduce all’estinzione del processo). L’art.102 viene considerata dalla dottrina una “norma in bianco”, dato che non è precisato quando “la decisione non può pronunciarsi che in confronto a più parti”, e dunque in quali ipotesi si configura il litisconsorzio necessario. In verità, vi sono alcune ipotesi in cui la necessità del litisconsorzio è prevista espressamente dalla legge (es. in relazione all’azione di disconoscimento di paternità e all’azione surrogatoria). Non c’è dubbio, però, che il litisconsorzio necessario trovi applicazione anche in diverse fattispecie. 102. Il litisconsorzio determinato dalla deduzione di un rapporto unico plurisoggettivo Particolari dubbi sorgono nei casi in cui la necessità del litisconsorzio discende da ragioni sostanziali, ossia dalla circostanza che il processo ha ad oggetto un rapporto giuridico unico ma plurisoggettivo. A tal proposito, occorre precisare che la mera deduzione in giudizio di un rapporto giuridico unico con pluralità di parti non è sufficiente, di per sé, a rendere necessaria la partecipazione di tutti i suoi contitolari 73. La dottrina dominante nega che l’art.102, nelle ipotesi in cui la causa verta su un rapporto plurisoggettivo, costituisca una mera applicazione del principio del contradditorio (Art.101), e sia dunque preordinato a tutelare il diritto di difesa dei litisconsorti necessari. Si ritiene, invece, che la necessità del litisconsorzio possa essere imposta a tutela dell’oggettiva utilità della sentenza, in relazione al risultato che l’attore si prefigge, cioè al petitum della domanda. à L’art.102 opererebbe nelle situazioni in cui gli effetti del provvedimento chiesto al giudice non possono prodursi se non, congiuntamente, per tutti i contitolari del rapporto plurisoggettivo dedotto in giudizio quale causa petendi, pena la sua inutilità. In altre parole, si tratta di ipotesi nelle quali la decisione, se non potesse spiegare la propria efficacia rispetto a tutti i contitolari del rapporto, non sarebbe di alcuna utilità per l'attore, poiché non potrebbe raggiungere il risultato giuridico da lui perseguito (es. sentenza di scioglimento della comunione che fosse pronunciata senza la partecipazione di alcuni condomini e che, conseguentemente, risulterebbe concretamente inutile per tutti). È per questo motivo che si è soliti parlare, in relazione a tali ipotesi, di litisconsorzio necessario secundum tenorem rationis nonché, con riguardo alla decisione pronunciata nei confronti di alcuni soltanto dei litisconsorti necessari, di sentenza inutiliter data. 103. Le fattispecie La concreta individuazione delle ipotesi di litisconsorzio necessario resta contorta, dato che il parametro sul quale essa si fonda, ossia l’oggettiva utilità della sentenza, non sempre può essere apprezzato in termini assoluti e comunque a priori. Questo è il motivo per cui le soluzioni della giurisprudenza appaiono dominate da un notevole empirismo. I punti sui quali si registrano gli indirizzi più univoci riguardano le azioni costitutive e quelle di condanna. Azioni costitutive: si ritiene che esse, avendo come obiettivo una modificazione giuridica, esigano sempre la partecipazione di tutti i contitolari del rapporto sul quale tale modificazione dovrebbe operare, non essendo concepito che gli effetti costitutivi del provvedimento perseguito dall’attore si producano per alcuni soltanto 72 Cioè, se il processo non sia instaurato fra tutti i litisconsorti necessari. 73 Ciò è confermato dalla disciplina delle obbligazioni solidali, caratterizzate dalla possibilità che ciascuno dei co- debitori sia chiamato ad adempiere per l’intero o, viceversa, che ciascuno dei co-creditori agisca per esigere autonomamente l’adempimento dell’intera obbligazione, senza che al processo debbano partecipare, rispettivamente, gli altri co-debitori o gli altri co-creditori. Quindi, per capire quale sia l’ulteriore elemento da cui può derivare la necessità del litisconsorzio bisogna appurare, prima di tutto, a quale finalità risponda la disposizione in esame. 70 à Nell’intervento adesivo dipendente, invece, l’oggetto del processo resta immutato, poiché il terzo si limita a sostenere le ragioni di alcuna delle parti. 1) INTERVENTO PRINCIPALE L’intervento principale è detto anche ad opponendum o ad escludendum, poiché il terzo propone una propria domanda contro tutte le parti originarie, facendo valere un diritto autonomo rispetto a quello già dedotto in giudizio e con esso incompatibile: autonomo nel senso che prescinde, sul piano sostanziale, dall’esistenza del diritto vantato da ciascuna delle parti; incompatibile perché non può coesistere con esso, riguardando lo stesso bene della vita. à Solitamente, dunque, si tratterà di connessione per identità dell’oggetto, che dà luogo a relazioni di incompatibilità o alternatività tra le varie domande. Esempio: il terzo che, intervenendo in un giudizio in cui le parti si contendono la proprietà di un bene, esercita a propria volta un’azione di rivendica del bene medesimo, sostenendo di averne acquistato la proprietà in base ad un titolo autonomo (ad es. per averlo usucapito). In ogni caso, il diritto del terzo ben potrebbe essere tutelato in un altro autonomo processo, senza dover temere alcun pregiudizio giuridico dalla sentenza nel frattempo pronunciata tra le parti; sicché, se il terzo decide di intervenire, è solo per ragioni di economia processuale o per evitare che l’accoglimento della domanda tra le parti possa rendergli più difficoltosa la successiva realizzazione del proprio diritto. 2) INTERVENTO DECISIVO AUTONOMO L’intervento adesivo autonomo è quello attraverso cui il terzo, pur vantando un diritto che non è subordinato rispetto a quello controverso tra le parti, propone una domanda nei confronti di taluna soltanto di esse, assumendo una posizione del tutto compatibile, invece, con quella di altra parte. In tali ipotesi, la connessione può riguardare, a seconda dei casi, il solo titolo oppure il titolo e l’oggetto della domanda originaria. Esempio di connessione per identità del titolo: ad esempio, allorché il terzo subacquirente, intervenendo nel giudizio in cui un creditore ha proposto domanda revocatoria dell’atto di compravendita, non si limiti a sostenere le ragioni del proprio dante causa, ma chieda altresì di accertare che l’eventuale accoglimento dell’azione revocatoria non potrebbe pregiudicare il proprio acquisto, per l’anteriorità della trascrizione di quest’ultimo. Esempio di connessione per titolo e l’oggetto: si ha allorché sia stato dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo ed intervenga un altro contitolare del rapporto medesimo. Ad esempio, si può ipotizzare, che la domanda originaria, confessoria o negatoria servitutis, sia stata proposta da taluno dei comproprietari del fondo e che nel corso del processo intervenga un altro comproprietario, proponendo a sua volta un’identica domanda. Si tratta pur sempre di ipotesi, dunque, nelle quali il terzo avrebbe potuto agire o essere convenuto fin dal primo momento insieme alle parti originarie, senza poter comunque essere pregiudicato, per legge (de iure), dalla decisione che dovesse essere pronunciata senza la sua partecipazione. 3) INTERVENTO ADESIVO DIPENDENTE L’intervento adesivo dipendente si ha quando il terzo non fa valere nel processo un proprio diritto, né propone una sua domanda, ma si limita a sostenere le ragioni di alcuna delle parti, avendovi un proprio interesse (art.105, 2°). I problemi relativi a tale istituto sono 2: a) comprendere quale sia la funzione dell’intervento, per appurare quale tipo di interesse debba vantare il terzo per poter partecipare al giudizio; à a tal proposito, si ritiene che l’intervento presupponga una relazione lato sensu di pregiudizialità- dipendenza tra il diritto dell’interveniente e quello oggetto del giudizio fra le parti. Pertanto, il terzo può essere interessato all’esito di tale giudizio, dal quale potrebbe indirettamente derivargli un vantaggio o un nocumento giuridicamente rilevante; fermo restando che il diritto del terzo rimane estraneo al 71 processo e viene allegato esclusivamente come titolo della sua legittimazione, ossia per giustificare l’interesse ad intervenire. Controverso è se tale interesse ricorra nei soli casi in cui li terzo, anche se non intervenisse, risentirebbe ugualmente l’efficacia c.d. riflessa del giudicato 79, o se, invece, affinché ricorra l’interesse è sufficiente un collegamento assai meno intenso sul piano processuale. Considerando che, l’opinione prevalente limita le ipotesi in cui un terzo può risentire degli effetti del giudicato inter alios, si ritiene che l’interesse prescritto dall’art.105 sussista per il solo fatto che vi sia la mera possibilità che l’interveniente consegua un vantaggio (ancorché eventuale e legato all’esito della causa) dalla decisione di accoglimento o di rigetto della domanda. Così, ad esempio, legittimato all’intervento è sicuramente, nella causa fra locatore e conduttore in cui si discuta della nullità o della risoluzione del contratto di locazione, il subconduttore, che sarebbe comunque soggetto agli effetti della relativa sentenza; ma legittimato sarà pure, nel giudizio fra lavoratore e datore di lavoro avente ad oggetto l’accertamento del rapporto di lavoro, l’ente previdenziale, i cui diritti ed obblighi dipendono, sul piano sostanziale, dall’esistenza di quel rapporto, sebbene esso, rimanendo estraneo al giudizio, non sarebbe vincolato dalla decisione resa inter partes 80. b) ricostruire i poteri processuali concretamente spettanti all’interveniente (con particolare riguardo al diritto di impugnare la sentenza) 81. à l’interveniente adesivo dipendente, salvo che non sia eccezionalmente investito di legittimazione straordinaria ad agire per l’accertamento del rapporto pregiudiziale cui è estraneo, ha una legittimazione meramente secondaria, potendo solo partecipare al giudizio che sia stato instaurato da uno dei titolari del rapporto. Pertanto, i suoi poteri vengono accostati a quelli (del tutto subordinati rispetto ai poteri delle parti), riconosciuti dall’art.72, 2° al pubblico ministero che intervenga in una causa in cui è privo del potere d’azioni. Tradizionalmente si esclude che egli possa autonomamente impugnare la decisione resa sul rapporto pregiudiziale, allorché non l’abbiano fatto le parti titolari del rapporto medesimo. 112. INTERVENTO COATTO DI TERZI (domanda) Gli artt.106 e 107 disciplinano, rispettivamente, l’intervento su istanza di parte e quello per ordine del giudice. Prescindendo dall'ipotesi della chiamata in garanzia (che è consentita esclusivamente alle parti e dunque è contemplata dal solo art. 106), entrambe le norme fanno riferimento, come presupposto per la chiamata in causa del terzo, alla circostanza che la causa sia a lui comune. A tal proposito, è controverso se la “causa comune” possa riferirsi a tutte le ipotesi di connessione per l’oggetto e/o per il titolo che giustificherebbero l’intervento volontario del terzo, o se, invece, si adatti a taluna soltanto di esse. Si ritiene che, sia per l’art.106 che per l’art.107, debba preferirsi l’interpretazione più estensiva (: ampi spazi di “manovra” alle parti – nell’intervento coatto ex art.106 – e al giudice – nell’intervento coatto ex art.107). In concreto, l’intervento coatto deve ritenersi utilizzabile nelle seguenti situazioni: A) In presenza di una connessione per alternatività o incompatibilità tra il rapporto giuridico oggetto del processo e quello di cui sarebbe titolare il terzo. Cioè quando l’esistenza del diritto o dell’obbligo attribuito al terzo, e dunque la fondatezza della domanda proponibile dall’interveniente o nei suoi confronti, escluderebbe la fondatezza della domanda originaria, essendo sostanzialmente identico il rispettivo petitum 79 Cioè sarebbe vincolato alla decisione resa fra le parti, quanto all’esistenza o inesistenza del rapporto pregiudiziale. 80 In questo caso l’intervento dell’ente per un verso porta ad un’estensione del futuro giudicato nei suoi confronti, ma per altro verso mira ad assicurare che tale giudicato sul rapporto pregiudiziale sia ad esso favorevole, al fine di evitare di dover subire successive azioni giudiziali o di dover autonomamente provare l’esistenza del rapporto pregiudiziale nel successivo giudizio in cui facesse valere il proprio diritto a percepire i contributi obbligatori da parte del datore di lavoro. 81 Tale problema non ha motivo di porsi per l'intervento principale e per quello adesivo autonomo, giacché in tali casi l'interveniente propone una propria domanda e, relativamente ad essa, è parte ad ogni effetto. 72 (bene giuridico perseguito) 82. Si tratta di ipotesi in cui il convenuto o sostiene che il vero obbligato non è lui, ma un altro soggetto, oppure, senza negare la propria obbligazione, afferma che il vero titolare del diritto dedotto in giudizio non è l’attore, bensì un terzo. Nel primo caso, la chiamata in giudizio del terzo consente di proporre una domanda alternativa di condanna del convenuto o del terzo; nel secondo caso, invece, evita al convenuto il rischio di essere condannato nei confronti dell’attore e di dover successivamente pagare anche il terzo; B) Quando il terzo (al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio volontario) sia indicato quale contitolare del rapporto plurisoggettivo già oggetto del processo, sì che le parti originarie potrebbero avere interesse ad estendere nei suoi confronti gli effetti del futuro giudicato (così, ad es, qualora l’azione confessoria o negatoria servitutis fosse stata proposta da uno dei comproprietari del fondo, la chiamata in giudizio degli altri assicurerebbe al convenuto una maggiore utilità dell’eventuale sentenza di rigetto, ponendolo al riparo da ulteriori domande analoghe); C) Quando il terzo sia titolare di un rapporto giuridico dipendente da quello oggetto del processo: in tal caso l’intervento coatto potrebbe rappresentare uno strumento di tutela del terzo (qualora si tratti di un soggetto che subirebbe comunque gli effetti indiretti della decisione, anche se non partecipasse al giudizio), oppure un mezzo per estendere nei suoi confronti l’efficacia riflessa della sentenza. Va sottolineato che, tranne per quest’ultima ipotesi, l’intervento coatto (tranne che nelle ipotesi c) deve rendere quanto meno possibile un allargamento oggettivo del processo, che conduca il giudice a decidere anche sul rapporto facente capo al terzo. Si tratta, dunque, di stabilire se a tal fine sia o no necessaria la proposizione di un’apposita domanda (vuoi contestualmente alla chiamata del terzo, vuoi nel successivo corso del processo), da una delle parti originarie o dallo stesso chiamato in causa. In realtà, considerando che l’intervento coatto può essere chiesto da una qualunque delle parti, oppure può essere ordinato dal giudice, è logico ritenere che esso debba in ogni caso condurre, di per sé, all’accertamento con efficacia di giudicato del rapporto facente capo al chiamato, pur quando nessuna esplicita domanda sia stata formulata in tal senso. Perché possa aversi, invece, una sentenza di condanna del terzo o a favore di quest’ultimo, deve ritenersi indispensabile una specifica domanda, rispettivamente proveniente da una delle parti (solitamente l’attore) o dal terzo; non essendo pensabile che la domanda originaria possa estendersi automaticamente nei confronti del terzo o, peggio ancora, in suo favore. 113. L'intervento per ordine del giudice (art.107) Nel caso di intervento per ordine del giudice (iussu iudicis), la chiamata del terzo dipende da una valutazione di opportunità rimessa, per l’appunto, al giudice (art.107) e ciò contraddistingue l’ordine in questione rispetto a quello di integrazione necessaria del contraddittorio, previsto dall’art.102. Il legislatore ha omesso di indicare, però, quali siano gli elementi che debbano essere valutati a tal fine. Parte della dottrina ritiene che all’istituto siano attinenti esigenze istruttorie, oltre che di economia processuale: nel senso che esso consentirebbe di acquisire, grazie alla partecipazione del terzo, una più adeguata cognizione anche del rapporto originariamente dedotto in giudizio. Si ritiene che l’art.107 attribuisca al giudice (di primo grado) un potere assolutamente discrezionale, non censurabile in sede d’impugnazione. Nella prassi, tuttavia, è raro che tale potere venga esercitato dal giudice di propria iniziativa, senza alcuna sollecitazione delle parti, che magari vi ricorrono quando non sono più in tempo per chiamare esse stesse il terzo a norma dell’art.269. Sezione III - Lo svolgimento del processo litisconsortile 114. Scindibilità o inscindibilità nel cumulo soggettivo di cause. Il litisconsorzio unitario e il litisconsorzio necessario c.d. processuale à domanda: problema del litisconsorzio unitario Il giudizio con pluralità di parti può, in ogni caso, dar luogo ad una serie di questioni del tutto sconosciute al processo che si svolga tra due parti soltanto. 82 Ad es., il destinatario agisce contro l’assicuratore per i danni subìti dalla merce trasportata e poi, avendo questi dedotto l’inoperatività della copertura assicurativa, propone domanda di risarcimento nei confronti del vettore. 75 in capo alla stessa. Oggi, l’art.2495 2°comma, c.c., riguardante le società di capitali, impone la soluzione opposta, prevedendo che “fermo restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori rimasti insoddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi”. La giurisprudenza ha ritenuto che il medesimo principio debba valere anche per le società di persone. Parte della dottrina nega che vi sia un fenomeno successorio e ritiene che il processo pendente, essendo venuta meno una delle parti, dovrebbe essere definito con una pronuncia processuale o di cessazione della materia del contendere. L’opinione prevalente ritiene, invece, che possa comunque ammettersi una successione dei soci alla società. La giurisprudenza più recente ha preferito ricondurre tale fenomeno nell’ambito dell’art.110. Il successore universale subentra anche nel diritto controverso, ossia nello specifico rapporto giuridico oggetto del processo fra le parti originarie. Tuttavia, l’applicazione dell’art.110 sembra prescindere da tale presupposto, sicché vi sono fattispecie in cui la legittimazione del successore universale va riconosciuta quantunque egli non abbia acquistato il diritto controverso: così avviene quando il processo abbia ad oggetto un rapporto intrasmissibile, in ragione del suo carattere strettamente personale (es. giudizio di separazione personale o di divorzio), o sia comunque destinato ad estinguersi in seguito alla morte del suo titolare (es. usufrutto). à In queste ipotesi il processo potrà comunque continuare nei confronti del successore universale, ma solo al fine di ottenere una sentenza che dia atto dell’impossibilità di decidere sul merito della domanda. La prosecuzione del giudizio menzionata dall’art.110, non avviene automaticamente, poiché l’estinzione della parte originaria determina di regola l’interruzione del processo, affinché possa ricostruirsi un contraddittorio effettivo nei confronti del successore universale. La ripresa del processo è subordinata ad un nuovo atto d’impulso (la riassunzione) proveniente o da una delle parti superstiti, o dallo stesso successore universale. 118. LA SUCCESSIONE A TITOLO PARTICOLARE NEL DIRITTO CONTROVERSO L’art.111 c.p.c. disciplina il caso in cui il trasferimento realizzato nel corso del processo riguardi, a titolo particolare, solo il diritto controverso, ossia quello oggetto della causa. Ciò può avvenire: 1) a causa di morte (quando il diritto stesso sia stato oggetto di un legato). à Quando il trasferimento sia intervenuto mortis causa, si avrà un mutamento soggettivo della causa, tenuto conto che la parte originaria è venuta a mancare. La peculiarità della disciplina consiste nella circostanza che il processo continua nei confronti non del legatario, successore del diritto controverso (e dunque nuovo titolare di quest’ultimo), bensì nei confronti del successore universale, ossia dell’erede (evitando così alle parti di doversi attivare anche per l’individuazione dell’eventuale legatario). 2) per atto tra vivi (es. attraverso la vendita, da parte del convenuto, del bene per cui l’attore aveva proposto domanda di rivendica) à Anche l’ipotesi di trasferimento inter vivos è ispirata alla tutela delle parti originarie. Il c.p.c. si preoccupa di evitare che il trasferimento del diritto controverso – dipendente, in questo caso, dalla volontà di una delle parti (l’alienante) – possa pregiudicare l’altra parte. Il problema potrebbe porsi per entrambe le parti ma, se mancasse la disciplina contenuta nell’art.111, il rischio maggiore graverebbe sull’attore. Per evitare un risultato lesivo soprattutto del diritto d’azione tutelato dall’art.24 Cost., il legislatore prevede che la successione a titolo particolare non faccia venir meno la legittimazione (ad agire o a contraddire) dell’alienante o del successore universale e che, quindi, il processo continui in ogni caso nei suoi confronti. Si ritiene che in tali ipotesi la parte originaria assuma la veste di sostituto processuale del successore, cui si è ormai trasferita la titolarità del rapporto controverso. Inoltre, l’art.111 ultimo comma prevede che la sentenza pronunciata contro l’alienante o l’erede spiega i suoi effetti 84 anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile da lui, sebbene questi sia 84 Da intendersi anche come effetti esecutivi, laddove si tratti di un provvedimento di condanna. 76 rimasto eventualmente estraneo al giudizio [ciò costituisce un’eccezione al principio secondo cui la sentenza non può pregiudicare chi non abbia assunto la qualità di parte nel processo]. Tuttavia, la regola dell’estensione degli effetti nei confronti del successore a titolo particolare, subisce alcune limitazioni à infatti, lo stesso art.111 fa espressamente salve: - le norme sull’acquisto in buona fede dei beni mobili à È previsto (art.1153 c.c.) che l’acquirente di beni mobili, che ne acquisti il possesso in buona fede in forza di un titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà, diventa proprietario anche se tale non fosse il suo dante causa (acquisto a non domino). Pertanto, tale principio trova applicazione pur quando il trasferimento interessi una res litigiosa, potendo l’acquirente in buona fede, validamente opporre il proprio acquisto anche all’attore poi risultato vittorioso. - le norme sulla trascrizione à Questo secondo caso, riguarda il complesso di norme che disciplinano la trascrizione di atti relativi a beni immobili, al fine di risolvere ogni possibile conflitto che dovesse insorgere, nella circolazione di tali beni, tra più soggetti che abbiano acquistato diritti dal medesimo dante causa. L’art.111 fa riferimento a quelle disposizioni (artt.2652 e 2653 c.c.) che prescrivono la trascrizione di tutta una serie di domande giudiziali riguardanti atti soggetti a trascrizione o comunque diritti reali immobiliari 85. Gli effetti della trascrizione della domanda possono ricondursi ad un unico fondamentale principio: in caso di accoglimento della domanda, gli effetti della sentenza retroagiscono alla data in cui la domanda era stata trascritta; il che consente alla sentenza stessa di prevalere su trascrizioni o iscrizioni di altri atti, pregiudizievoli per l’attore vittorioso, che siano eventualmente intervenute dopo quella data. 119. I poteri processuali del successore a titolo particolare Sebbene il processo continui, in linea di principio, fra le parti originarie o, nel caso di trasferimento mortis causa, nei confronti dell’erede, il legislatore non si disinteressa della posizione del successore a titolo particolare (che è divenuto il titolare del rapporto oggetto del giudizio ed è quindi destinato a subire gli effetti della futura sentenza). Infatti, il 3° comma dell’art.111 prevede: - in primo luogo, che il successore a titolo particolare possa in ogni caso intervenire nel processo, di propria iniziativa, oppure esservi chiamato da una delle parti originarie. Si tratta di un intervento esente dalle limitazioni temporali cui è normalmente soggetto l’intervento coatto. Anzi, è possibile che una volta che si sia realizzata la partecipazione dell’acquirente o del legatario al processo, l’alienante o il successore universale ne venga estromesso (se le altre parti vi consentano). - In secondo luogo, la soggezione del successore agli effetti della sentenza è mitigata dalla possibilità di impugnarla, pure quando non sia intervenuto e, pertanto, non abbia assunto formalmente la qualità di parte nel giudizio di primo grado. Dottrina e giurisprudenza sono divise circa l’ambito d’applicazione di tale disciplina: 1) Una prima tesi, basandosi sull’interpretazione letterale dell’art.111, ritiene che possa parlarsi di trasferimento a titolo particolare del diritto controverso solo quando il diritto trasferito, inter vivos o mortis causa, è proprio lo stesso oggetto del processo, non essendo invece sufficiente la mera identità del petitum mediato (bene giuridico perseguito dall’attore)86. 2. Una seconda tesi, opta per un’interpretazione estensiva della norma tale da ricomprendervi ogni ipotesi in cui, nella pendenza del giudizio, sorga una situazione giuridica (attiva o passiva) che tragga origine e dunque dipenda sul piano sostanziale da quella oggetto del processo. 85 Per es, le domande di risoluzione dei contratti traslativi di tali diritti, oppure quelle volte ad ottenere, ai sensi dell’art.2932 c.c., l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre. 86 Stando a questa impostazione, restano estranee all’art.111 quelle situazioni in cui il diritto trasferito non coincide con quello oggetto del contendere fra le parti originarie (come nel caso in cui il trasferimento riguardi un diritto diverso e derivato da quello controverso), con la conseguenza che il successore-avente causa, pur essendo egualmente soggetto all’efficacia (riflessa) della sentenza che verrà pronunciata nei confronti del proprio dante causa, non potrebbe impugnarla ai sensi dell’art.111, ult.co. 77 à In ogni caso, si ritiene che l’intervento del successore non possa comunque implicare una regressione del processo e che, conseguentemente, egli debba accettare la causa nello stadio in cui ormai si trova, subendo anche le preclusioni eventualmente già maturate a carico delle parti originarie. Capitolo XI – GLI ATTI PROCESSUALI Sezione I - La forma degli atti in generale 120. Forma, contenuto e volontà nell'atto processuale. Cenni sul c.d. Processo telematico PROCESSO: inteso come una species del genus “procedimento”, può essere definito come una sequela di atti tra loro in varia misura correlati e preordinati a provocare e rendere possibile la pronuncia di un provvedimento giurisdizionale (finale) cui sono, dunque, strumentali. Ciò implica che gli atti del processo sono normalmente privi di una propria autonomia funzionale; sebbene possa succedere che all’interno del processo “principale” s’innestino dei sub-procedimenti, in qualche misura distinguibili dal processo principale e talora del tutto svincolati dalle sorti di questo. La nozione di atto processuale abbraccia tutti gli atti che si inseriscono in tale sequela procedimentale, determinando effetti nel processo, che per lo più consisteranno nella nascita (o nella modificazione o estinzione) di poteri, oneri o doveri aventi ad oggetto il compimento di altri atti processuali (es. dalla notificazione dell’atto di citazione discende l’onere di costituzione sia per l’attore che per il convenuto, nonché lo stesso dovere del giudice di decidere). Per tutti gli atti del processo il legislatore detta regole puntuali quanto ai requisiti di forma e di contenuto, delineando in tal modo veri e propri modelli tipici. La disciplina del PROCESSO TELEMATICO prevede la possibilità di porre in essere gli atti del processo come documenti informatici; sicché la forma scritta tradizionale è destinata ad essere in larga parte sostituita da quella del documento informatico, regolata dal d.lgs. 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale). Tanto più che d.l. 179/2012 prevede che nei procedimenti civili dinanzi al tribunale, il deposito degli atti processuali e dei documenti da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite ha luogo esclusivamente con modalità telematiche. Il concetto di FORMA viene utilizzato per gli atti processuali con riferimento ai relativi elementi contenutistici (forma-contenuto). Secondo un’accezione ancora più ampia, la forma investirebbe anche le prescrizioni di natura temporale riguardanti il compimento degli atti processuali; col risultato di poter ricollegare alla violazione di quelle prescrizioni i principi propri della materia delle invalidità formali. Infine, è opinione diffusa che la puntuale regolamentazione formale degli atti processuali escluda ogni possibile rilevanza dei vizi di volontà, sia che si riferiscano al processo formativo della volontà medesima, sia che attengano alla fase della sua attuazione; a patto che, ovviamente, non manchi addirittura la volontarietà nel compimento dell’atto. 121. Le regole generali concernenti la forma degli atti Gli artt.121 c.p.c. Libertà di forme e seguenti dettano alcune disposizioni generali in materia di atti processuali, tanto in relazione alla forma in senso stretto quanto con riguardo alla forma contenuto. Principio della libertà di forme: per cui, salvi i casi in cui la legge richieda forme determinate, gli atti processuali possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. Lo scopo si intende come la funzione oggettiva che l’atto stesso assolve nel processo. à Dunque, dato che la scelta è vincolata e limitata dallo scopo dell’atto, è senz’altro preferibile parlare di strumentalità delle forme, piuttosto che di libertà. *NUOVO ART.121 (Riforma): “Libertà di forme. Chiarezza e sinteticità degli atti” “Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”. à sono stati introdotti all’art. 121 c.p.c. i principi di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e del giudice. Al fine di codificare i principi menzionati, è stato modificato l’art. 121 c.p.c., sia nella rubrica, sia nel testo del 80 ispirato al principio di liberà piuttosto che a quello di preclusione, nel senso che in esso devono ritenersi illimitatamente consentite alle parti tutte le attività che non siano espressamente circoscritte nel tempo. 124. La rimessione in termini Le conseguenze negative dello spirare di un termine perentorio o del maturare di una preclusione sono superabili solo quando la legge, in considerazione dell’oggettiva scusabilità del comportamento della parte incorsa nella decadenza, consenta la rimessione in termini. Nel testo originario del codice, tale istituto era idoneo ad operare solo in relazione alle decadenze derivanti dallo spirare di termini per la proposizione di impugnazioni o comunque per l’instaurazione del processo. Successivamente, la riforma del 2009 ha codificato nell’art.153, 2°comma c.p.c. Improrogabilità dei termini perentori, il principio secondo cui “la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”. à Il giudice, in tal caso, provvede ai sensi dell’art.294, 2° e 3°comma c.p.c. Rimessione in termini e dunque con ordinanza, dopo aver ammesso la prova dell’impedimento, ossia delle circostanze, non dipendenti dalla volontà della parte né ad essa imputabili, che hanno impedito alla stessa di rispettare il termine perentorio per il compimento di una determinata attività processuale. Ciò farebbe pensare che il provvedimento di rimessione in termini debba sempre precedere il compimento dell’attività processuale per la quale sia maturata una preclusione; in realtà è ben possibile che tale provvedimento si risolva nella valutazione ex post di un’attività già compiuta 87. In ogni caso, il nodo cruciale nell’interpretazione dell’art.153, 2°comma, è quello concernente il concetto di “causa non imputabile”; concetto tanto generico da far sì che il giudice goda di ampia discrezionalità. In linea di principio, si esclude che la rimessione in termini possa concedersi in presenza di comportamenti negligenti imputabili non direttamente alla parte, bensì ad altri soggetti abilitati ad operare nel processo in nome e per conto della stessa (tra cui lo stesso difensore). Si è andata affermando l’idea che la rimessione in termini possa utilmente invocarsi nei casi in cui la parte sia incorsa in una decadenza per aver fatto affidamento su un orientamento giurisprudenziale consolidato, che sia improvvisamente mutato (c.d. overruling) 125. Il computo dei termini Un termine processuale può essere fissato dalla legge o dal giudice, in relazione ad un certo numero di ore, giorni, mesi o anni, oppure con riferimento ad un determinato momento o fase del processo (es. l’incompetenza può essere rilevata dal convenuto nella comparsa di risposta o dal giudice entro la prima udienza di trattazione). Nel computo dei termini occorre tener presente alcune regole: - Quando si tratti di temine ad ore / giorni, solitamente non si tiene conto dell’ora o del giorno iniziale (dies a quo) MA si tiene conto dell’ora e del giorno finale (dies ad quem), a meno che la legge non parli espressamente di termine libero; in tal caso deve escludersi dal computo del termine pure l’ora o il giorno finale; - Per il computo dei termini a mesi / anni, si osserva il calendario comune; - Quando si tratti di un termine espresso in mesi, il termine spirerà nel giorno del mese di scadenza corrispondente al dies a quo del mese iniziale; se poi nel mese di scadenza dovesse mancare il giorno corrispondente, il termine scadrà nell’ultimo giorno del medesimo mese di scadenza; - I giorni festivi si computano nel termine; se però il dies a quem viene a coincidere con un giorno festivo oppure (trattandosi di atti da compiere fuori dell’udienza, es. una notifica o il deposito in cancelleria di una memoria) con un sabato, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo. 126. La sospensione feriale dei termini Il decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative è sospeso di diritto dal 1° al 31° agosto di ogni anno, e riprende a decorrere dalla fine del periodo di sospensione. 87 Es: ipotesi in cui la parte soccombente in primo grado non riesca, per circostanze ad essa non imputabili, a proporre l’appello entro il termine di decadenza previsto dalla legge: in questo caso sarebbe incongruo subordinare il compimento dell’attività processuale già preclusa ad un provvedimento preventivo di rimessione in termini (anzi, deve ritenersi che la parte interessata, ogni volta in cui si tratti di un’attività che non presuppone necessariamente un intervento del giudice, abbia l’onere di provvedervi nel più breve tempo possibile dopo la scadenza del termine). 81 Stando alla sua formulazione letterale, la norma dovrebbe applicarsi ai soli termini processuali, ossia propri di un processo già iniziato, ancorché eventualmente già definito in una sua fase. Ciononostante, dopo interventi della Corte costituzionale si è venuto affermando un orientamento interpretativo più liberale secondo cui la disciplina in questione sarebbe direttamente applicabile anche ai termini stabiliti per l’instaurazione del processo, allorché si tratti di una decadenza che può essere evitata solo attraverso la proposizione della domanda giudiziale o l’impugnazione della delibera assembleare di una S.p.A. Pertanto, tutti i termini che dovrebbero scadere in una data posteriore al 31 luglio restano sospesi per 31 giorni e riprendono a decorrere dal 1°settembre; mentre, se si tratta di un termine il cui decorso dovrebbe iniziare durante il predetto periodo feriale, il relativo dies a quo viene differito al 1°settembre. In tal modo tutti i termini annuali subiscono un prolungamento di almeno 31 giorni. Una notevole insidia, deriva dalla circostanza che la sospensione dei termini non si applica ad alcuni procedimenti che il legislatore ha considerato particolarmente urgenti : le controversie individuali di lavoro e quelle in materia di assistenza e previdenza obbligatoria; le cause relative ad alimenti; i procedimenti per l’adozione di ordini di protezione familiare, di sfratto o di opposizione all’esecuzione; i procedimenti cautelare; quelli concernenti la dichiarazione o la revoca dei fallimenti; ed infine le cause che siano state dichiarate urgenti con un provvedimento ad hoc. Sezione III - I provvedimenti del giudice I modelli formali previsti per i provvedimenti del giudice sono 3: la sentenza, l’ordinanza e il decreto. È la legge che prevede quale di essi dev’essere concretamente utilizzato nelle diverse situazioni. Nel caso in cui manchi una siffatta prescrizione, l’art.131, 2°comma c.p.c. Forma dei provvedimenti in generale prevede che il provvedimento sia dato in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo; la scelta dovrà comunque avvenire nell’ambito dei tre modelli indicati, non essendo prevista la possibilità di creare altre forme atipiche di provvedimento. Ultimo comma: prevede che per ogni provvedimento collegiale dev’essere redatto un sommario processo verbale, da cui risulti l’unanimità della decisione oppure il dissenso che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, abbia eventualmente espresso su ciascuna delle questioni decise. La norma fu introdotta al fine di consentire al magistrato dissenziente, in caso di decisione resa da un organo collegiale, di separare e distinguere la propria posizione da quella della maggioranza. Essa, tuttavia, pareva eccessiva rispetto allo scopo, anche perché ne sarebbe derivata la necessita di conservare presso la cancelleria, in plico sigillato, un gran numero di verbali, quanto meno finché non fossero spirati i termini per la proposizione dell’eventuale azione risarcitoria nei confronti dello Stato. à Conseguentemente, intervenne la Corte costituzionale, rendendo siffatto adempimento meramente facoltativo e subordinandolo alla circostanza che taluno dei componenti del collegio lo richiedesse. 128. SENTENZA (domanda) Domanda: 1) Tipi di sentenze non definitive; 2) Sentenza definitiva vs parzialmente definitiva (ai fini del differimento) La sentenza è il provvedimento – c.d. decisorio – normalmente prescritto dal legislatore ogniqualvolta si debba decidere sulla domanda, e dunque sull’esistenza o inesistenza del diritto o status dedotto in giudizio, oppure su una qualunque questione, attinente al merito della causa o al processo (es. sulla giurisdizione), dalla quale potrebbe derivare la definizione del processo medesimo. In relazione all’oggetto si distingue tra: Sentenza di merito: è soltanto quella che pronuncia sulla fondatezza della domanda, accogliendola o rigettandola; Sentenza processuale: verte esclusivamente su questioni attinenti al processo. La distinzione è tutt’altro che pacifica, poiché lascia impregiudicata la classificazione delle sentenze che, pur avendo ad oggetto questioni concernenti la fondatezza della domanda, non decidono su quest’ultima (es. la sentenza con cui il giudice, in un giudizio avente ad oggetto l’adempimento di un credito di origine contrattuale, si limiti a respingere l’eccezione di prescrizione o di inadempimento sollevata dal convenuto, disponendo la prosecuzione dell’istruttoria della causa). In tal caso, si può parlare di sentenza sul merito, ma non è certo che la sua efficacia sia pari a quella della sentenza di merito. 82 In relazione al diverso regime d’impugnazione si distingue tra: Sentenze definitive: la sentenza conclude il processo, quanto meno dinanzi al giudice adito (es. la sentenza con cui il giudice accoglie o rigetta l’unica domanda oggetto del giudizio, oppure declina la giurisdizione o afferma di non poter decidere il merito, ad es. per il difetto di una condizione dell’azione) Sentenze non definitive: non pone fine al giudizio (es. la sentenza che accoglie o rigetta solo alcune delle domande cumulate nel processo nonché quella che si limita a risolvere una o più questioni, di merito o processuali, senza porre fine al giudizio). à In ogni caso, la peculiarità della sentenza sta anzitutto nel suo regime di stabilità: una volta pronunciata, essa vincola immediatamente anche lo stesso giudice da cui promana (che non può ritrattarla, ritirarla) e può essere “riformata” o annullata solo attraverso le impugnazioni, per lo più consentite entro precisi termini temporali. Inoltre, se si tratta di una sentenza di merito, una volta passata in giudicato, essa acquisterà quella peculiare autorità (ex art.2909 c.c.) tale per cui essa farà stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa. DUNQUE, la sentenza è il provvedimento più complesso dal punto di vista della forma-contenuto. L’art.132 c.p.c. Contenuto della sentenza esige che essa contenga: 1) L’indicazione del giudice che l’ha pronunciata 88; 2) L’indicazione delle parti e dei rispettivi difensori; 3) Le conclusioni del pubblico ministero e delle parti à Dovrebbero servire a valutare se il giudice abbia avuto presenti le effettive richieste delle parti, anche in relazione al rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato; 4) La concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione; In ciò consiste la motivazione (prescritta ex art.111, c. 6, Cost. per tutti i provvedimenti giurisdizionali), che consente, anche in vista dell’eventuale impugnazione, di ricostruire e sindacare l’iter logico attraverso il quale il giudice è pervenuto a determinate conclusioni. L’art. 118 disp. att., a riguardo, prevede che siano esposte concisamente e in ordine le questioni discusse e decise dal collegio ed indicati le norme di legge e i principi di diritto applicati, consentendo che la dottrina venga menzionata solo per orientamenti, senza specifici riferimenti normativi e vietando ogni citazione di autori giuridici. 5) Il dispositivo (cioè il decisum, la situazione concreta che costituisce la parte normativa della sentenza), la data della decisione (coincidente con quella in cui essa è stata deliberata in segreto nella camera di consiglio) e la sottoscrizione del giudice. Per quanto riguarda quest’ultimo elemento (particolarmente importante, perchè della sua eventuale mancanza derivano gravi conseguenze) à mentre originariamente, per la sentenza resa da un organo collegiale, era richiesta la firma di tutti i componenti del collegio, la riforma del 1977 ha previsto che siano sufficienti le firme del presidente e dell’estensore (magistrato incaricato della redazione della motivazione). Se il presidente o l'estensore non possono sottoscrivere per morte o altro impedimento sopravvenuto dopo la deliberazione in camera di consiglio, in luogo del presidente firma il componente più anziano del collegio; se invece manchi la sottoscrizione dell'estensore, è sufficiente la sola sottoscrizione del presidente. È necessario in entrambi i casi che prima delle sottoscrizioni sia fatta espressa menzione dell'impedimento. à Indipendentemente dalla data della deliberazione, la sentenza acquista rilevanza giuridica solo dal giorno dopo della sua pubblicazione: consistente in un’attività combinata del giudice, che ne deposita l’originale in cancelleria, e del cancelliere, che deve dare atto di tale avvenuto deposito in calce alla sentenza, apponendovi data e firma e deve poi informare le parti costituite, entro 5 giorni, mediante un biglietto di cancelleria contenente il testo integrale del provvedimento (art.133 c.3). La pubblicazione è l’elemento formale che consente di ricollegare la decisione all’ufficio giudiziario e che, nel contempo, segna il momento in cui la sentenza viene giuridicamente in vita e diventa immodificabile. Prima di tale momento, la sentenza rileva come mero atto interno, tant’è che si ritiene che, in caso di ius superveniens anteriore alla pubblicazione – derivante da modifica legislativa o da un intervento della Corte costituzionale – il giudice 88 Da intendersi sia come ufficio giudiziario da cui la decisione formalmente promana, sia come magistrato/i- persone fisiche che l’hanno deliberata. 85 Una particolare ipotesi è oggi rappresentata, in seguito alla riforma del 2009, dalla decisione delle sole questioni di competenza, per le quali è prescritta la forma dell’ordinanza: in tal caso, la scelta del legislatore deriva esclusivamente dall’intento di agevolare la materiale redazione del provvedimento, che tuttavia conserva il regime di stabilità tipico della sentenza, escludendo ogni possibile ripensamento del giudice e, nel contempo, è assoggettato ad una specifica impugnazione, ossia il regolamento di competenza. Sezione IV - LE COMUNICAZIONI E LE NOTIFICAZIONI 131. COMUNICAZIONI Comunicazione: l’attività attraverso la quale il cancelliere dà notizia a determinati soggetti di un certo atto o fatto del processo, o di un provvedimento del giudice; attività che materialmente consiste nella consegna, diretta o indiretta, di una copia del biglietto di cancelleria, recante le indicazioni prescritte dall’art. 45 disp.att. La comunicazione si distingue dalla notificazione sia per il soggetto cui compete – cancelliere anziché ufficiale giudiziario – sia perché può avere ad oggetto, oltre ad un atto del processo, anche un mero fatto. Le modalità di trasmissione del biglietto di cancelleria, invece, potrebbero essere identiche a quelle previste per la notificazione. L’art.136 c.p.c. prevede che la comunicazione può eseguirsi in vari modi: - consegna diretta; - la trasmissione del biglietto di cancelleria a mezzo posta elettronica certificata; - qualora, poi, nessuna delle due modalità sia concretamente utilizzabile, il biglietto viene trasmesso a mezzo di telefax (* l’invio del biglietto di cancelleria a mezzo telefax non è più previsto a seguito della Riformaà ormai quella modalità di comunicazione è desueta) oppure è affidato all’ufficiale giudiziario perché lo notifichi nei modi ordinari. Questa disciplina va oggi integrata con l’art.16 del d.l. 179/2012, convertito dalla l. 221/2012, per cui: - Le comunicazioni (e le notificazioni) a cura della cancelleria si effettuano, di regola, solamente tramite posta elettronica certificata, agli indirizzi risultanti da pubblici elenchi o accessibili alle p.a.; - Qualora i soggetti che per legge hanno l’obbligo di munirsi di una p.e.c. (es. difensori) non vi abbiano provveduto, le comunicazioni a cura della cancelleria si effettuano col mero deposito dell’atto in cancelleria; e lo stesso vale quando il messaggio di p.e.c. non venga consegnato per cause imputabili al destinatario. Infine, la giurisprudenza ammette che le comunicazioni possano eseguirsi in forme diverse da quelle prescritte dalla legge, purché in grado di assicurare una conoscenza effettiva, da parte del destinatario, dell’atto o del fatto che ne sono oggetto (es. con la presa visione del provvedimento da comunicare, attestata dal destinatario con l’apposizione della data e della propria firma a margine o in calce all’originale stesso). Orientamento condiviso solo se non c’è un termine perentorio. 132. NOTIFICAZIONI Notificazione: è un procedimento preordinato, attraverso l’attività di un soggetto qualificato, a conseguire la certezza legale della conoscenza di un atto da parte di uno o più soggetti determinati, ogniqualvolta tale certezza sia necessaria perché si producano gli effetti propri dell’atto stesso (come per l’atto di citazione), oppure altri effetti relativi al processo in cui l’atto si inserisce (es. la certificazione della sentenza fa decorrere il termine per l’impugnazione). Questo risultato si ottiene, ove possibile, consegnando o trasmettendo direttamente al destinatario una copia conforme dell’atto da notificare e documentando la relativa attività nell’originale dell’atto stesso. Il legislatore si preoccupa di predisporre una pluralità di procedimenti di notificazione, individuando anche i possibili consegnatari dell’atto da notificare, ossia coloro che possono ricevere la notifica in luogo del destinatario. A volte il ricorso ad un determinato procedimento può risultare praticamente obbligato, altre volte, chi effettua la notificazione ha a propria disposizione una pluralità di opzioni. Sebbene il complesso di formalità prescritte dalla legge miri ad assicurare la conoscenza effettiva dell’atto da parte del destinatario à tale obiettivo resta estraneo allo scopo giuridicamente rilevante della notifica, che nella maggior parte dei casi può tutt’al più assicurare che l’atto pervenga nella sfera di normale conoscibilità da parte del soggetto cui è indirizzato. 86 Di regola le notificazioni sono eseguite dall’ufficiale giudiziario, il quale ha una competenza generalmente circoscritta al mandamento ove ha sede l’ufficio cui è addetto, e può dunque provvedere alle sole notificazioni da eseguire in tale ambito territoriale; a meno che non si avvalga del servizio postale: in tal caso può eseguire la notifica senza alcuna limitazione. La l. 53/1994 prevede che alla notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale possano provvedere anche gli stessi avvocati, che siano stati autorizzati dal consiglio dell’ordine cui appartengono. A parte questa ipotesi, è possibile che, pur essendo la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario, la materiale trasmissione e consegna dell’atto sia in realtà affidato a diversi soggetti (es. all’agente postale o all’autorità consolare). 133. PROCEDIMENTO DI NOTIFICAZIONE e INVALIDITÀ Perché il procedimento abbia inizio è sempre necessaria l’istanza di parte (o la richiesta del pubblico ministero o del cancelliere), che però non è soggetta a formalità particolari, infatti, può essere proposta anche verbalmente dalla parte stessa o dal suo difensore o altro incaricato. Lo svolgimento del procedimento dev’essere documentato nei suoi tratti essenziali, in un’apposita relazione, che l’ufficiale giudiziario deve stilare in calce all’originale e alla copia dell’atto (c.d. relata di notifica). Tale relazione, datata e sottoscritta dallo stesso ufficiale giudiziario, certifica l’esecuzione della notifica e la persona alla quale è consegnata la copia e le sue qualità, nonché il luogo della consegna, oppure le ricerche, anche anagrafiche, fatte dall’ufficiale giudiziario, i motivi della mancata consegna e le notizie raccolte sulla reperibilità del destinatario. Il codice prevede che la notificazione sia nulla allorché non sono state osservate le disposizioni circa la persona alla quale dev’essere consegnata la copia, o se vi è incertezza assoluta sulla persona a cui è fatta o sulla data (art.160). Per quel che concerne le conseguenze della nullità, l’art.291 1°comma c.p.c. Contumacia del convenuto consente che l’invalida notifica dell’atto di citazione sia rinnovata, su ordine del giudice ed entro il termine perentorio dallo stesso fissato, e che la rinnovazione impedisca ogni decadenza. Tale disposizione dev’essere considerata espressione di un principio generale, invocabile ogniqualvolta l’invalidità della notifica implicherebbe la perdita di un diritto o di un potere processuale da parte del notificante. Peraltro, pur se controverso, anche in relazione all’eventuale prescrizione che fosse teoricamente maturata prima del verificarsi della rinnovazione o comunque della sanatoria. Tuttavia, si ritiene che tale disciplina non sia utilizzabile allorché la notificazione debba considerarsi non semplicemente nulla, bensì inesistente, per non essersi concluso il relativo procedimento oppure per essere stata la notifica eseguita presso una persona ed un luogo che non hanno alcun riferimento con il destinatario. 134. Il momento in cui si perfeziona la notifica Art. 149. (Notificazione a mezzo del servizio postale). In passato, si riteneva che il completarsi della notifica condizionasse il prodursi di ogni effetto della stessa, simultaneamente nei confronti del destinatario e della parte istante. Quindi, il rischio di eventuali ritardi o disguidi nell’esecuzione della notifica, ancorché non imputabili al richiedente, gravasse esclusivamente su quest’ultimo. La svolta si ebbe in relazione alla notificazione a mezzo posta che, stando all’originario art.149 c.p.c., produceva i suoi effetti solamente dal giorno in cui l’atto veniva effettivamente recapitato al destinatario. In tale occasione, la Corte Costituzionale dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art.149, sancì il rivoluzionario principio secondo cui “la notifica deve intendersi eseguita, per il notificante, fin dalla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, indipendentemente dal momento in cui quest’ultimo lo spedisce”. à Poco tempo dopo, la Consulta fu nuovamente investita della questione, con riferimento alle notifiche internamente e direttamente eseguite dallo stesso ufficiale giudiziario. Essa optò per una decisione interpretativa di rigetto, in cui sostenne che il medesimo principio affermato per le notifiche a mezzo posta doveva valere per tutte le forme di notificazioni disciplinate dagli artt.138 ss. del codice. Oggi, è pacifico che ogniqualvolta per l’esecuzione della notifica siano previsti termini perentori a carico del notificante, la tempestività della stessa debba valutarsi con riguardo al giorno in cui l’atto è stato consegnato all’ufficiale giudiziario. Si tratta di una mera anticipazione degli effetti della notifica, subordinata alla 87 circostanza che il procedimento, poi, arrivi realmente a compimento. Inoltre, tale anticipazione serve unicamente ad evitare che il ritardo nell’esecuzione della notifica faccia incorrere la parte richiedente in una scadenza. Ad ogni altro fine, invece, la notificazione produrrà effetti – simultaneamente per il notificante e per il destinatario – dal giorno in cui il procedimento notificatorio deve considerarsi concluso. Gli effetti della notifica rispetto al destinatario, invece, continueranno a prodursi solo quando il relativo procedimento di notificazione possa dirsi completato. 135. La notificazione in mani proprie o presso il domiciliatario - quella presso la residenza, la dimora o il domicilio del destinatario - L’articolo 138 c.p.c. Notificazione in mani proprie prevede che l’ufficiale giudiziario debba, di regola, eseguire la notifica “mediante consegna della copia nelle mani proprie del destinatario, presso la casa di abitazione oppure, se ciò non è possibile, ovunque lo trovi nell’ambito della circoscrizione dell’ufficio giudiziario al quale è addetto”. Inoltre, sebbene non si possa costringere il destinatario a ricevere l’atto, è stabilito che il suo eventuale rifiuto, documentato nella relazione dell’ufficiale giudiziario, equivale a notificazione regolarmente eseguita in mani proprie. - L’articolo 139 c.p.c. Notificazione nella residenza, nella dimora o nel domicilio c.p.c. prevede che, tra i possibili consegnatari, l’ufficiale giudiziario deve preferire una persona di famiglia, oppure se estranea, addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, che non sia minore di 14 anni o palesemente incapace, o in palese conflitto d’interessi col destinatario. Se non vi è nessuna di queste persone, o se le stesse rifiutano l’atto, la copia dev’essere consegnata al portiere dello stabile e, in subordine, ad un vicino di casa che accetti di riceverla. In questi ultimi casi, il legislatore prescrive la sottoscrizione di una ricevuta e l’invio al destinatario di una lettera raccomandata in cui gli si da notizia dell’avvenuta notificazione. Ipotesi particolari sono poi contemplate per il caso in cui il destinatario viva stabilmente su una nave mercantile o sia un militare in attività di servizio; nel primo caso la notifica può avvenire anche tramite consegna dell’atto al capitano della nave; nel secondo caso, se la notifica non avviene in mani proprie del destinatario, è prescritto, come formalità essenziale, che la consegna della copia sia seguita dalla consegna di una seconda copia al pubblico ministero, che dovrà farla pervenire al comandante del corpo al quale il militare appartiene. *NUOVO ART.139 (Riforma): All’art. 139 c.p.c., il quarto comma è stato sostituito dal seguente: «Se la copia è consegnata al portiere o al vicino, l’ufficiale giudiziario ne dà atto nella relazione di notificazione, specificando le modalità con le quali ne ha accertato l’identità, e dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata». à se la copia è consegnata al portiere o al vicino, questi non deve più sottoscriverla: l’atto giudiziario ne darà atto nella relazione di notificazione, specificando le modalità con le quali ne ha accertato l’identità. L’estensione della potestà certificatoria che l’ufficiale giudiziario (pubblico ufficiale) ha già nel caso in cui il ricevente rifiuti la firma o non possa firmare, agevola il flusso telematico degli atti processuali (: agevola l’uso di strumenti informatici e telematici). Eliminando l’obbligo di firma del portiere o del vicino del destinatario si: 1) dematerializza il flusso di ritorno al richiedente della copia dell’atto notificato; 2) semplifica l’attività notificatoria dell’ufficiale giudiziario, riducendo la quantità di carta che deve produrre e trasportare con sé quando si reca sui luoghi di notifica e consentendogli di redigere una relata di notifica in via esclusivamente telematica. - L’articolo 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario è un’altra forma di notificazione generalmente consentita, salvo espresso divieto normativo. Allorché il destinatario abbia eletto domicilio presso una persona o un ufficio, la notifica può effettuarsi presso tale luogo, vuoi attraverso consegna diretta nelle mani della persona o del capo dell’ufficio, vuoi nelle mani di uno dei soggetti indicati dall’articolo 139 c.p.c. notificazione nella residenza, nella dimora o nel domicilio (persona di famiglia o addetta alla casa, ufficio o azienda). Di solito, la notificazione presso il domiciliatario rappresenta una mera facoltà per il notificante, 90 Il ricorso a questa forma di notificazione è obbligatorio, per l’ufficiale giudiziario, relativamente agli atti da notificare fuori dal comune in cui ha sede il proprio ufficio. Invece, è facoltativa negli altri casi, a meno che non sia la parte a chiedere o l’autorità giudiziaria a disporre, che la notifica sia eseguita di persona. In questo procedimento, l’ufficiale giudiziario dovrà solo scrivere la relazione di notificazione, in cui dev’essere menzionato l’ufficio postale attraverso il quale avviene la spedizione della copia; e dovrà presentare a tale ufficio la copia stessa dell’atto da notificare in una busta chiusa, sulla quale vengono apposti: le indicazioni concernenti il destinatario, il numero del registro cronologico sul quale l’ufficiale giudiziario annota gli atti da notificare, la sottoscrizione dello stesso ufficiale giudiziario ed il timbro del relativo ufficio. Insieme alla busta dev’essere presentato anche l’avviso di ricevimento, che, una volta restituito al mittente, verrà allegato all’originale dell’atto e costituirà la prova dell’avvenuta notificazione. La fase del procedimento affidata all’amministrazione postale è poi disciplinata in maniera analoga, seppur non identica, rispetto all’ipotesi in cui la notifica sia eseguita direttamente dall’ufficiale giudiziario. 141. La notificazione per via telematica L’articolo 149-bis c.p.c. Notificazione a mezzo posta elettronica consente all’ufficiale giudiziario, in assenza di un espresso divieto di legge, di eseguire la notifica tramite posta elettronica certificata, anche – ove occorra – previa estrazione di copia informatica del documento cartaceo. La notifica si esegue, dunque, mediante trasmissione di una copia informatica dell’atto, sottoscritta con firma digitale, all’indirizzo di p.e.c. del destinatario risultante da elenchi pubblici o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, e s’intende perfezionata nel momento in cui il gestore della p.e.c. rende disponibile il documento informatico nella casella di posta del destinatario, indipendentemente dall’avvenuta lettura del messaggio e dell’atto da parte del destinatario stesso. La relazione di notificazione, in tale ipotesi, viene redatta su un separato documento informatico, sottoscritto dall’ufficiale giudiziario con firma digitale e congiunto all’atto notificato mediante strumenti informatici, che deve contenere i consueti elementi prescritti dall’articolo 148 c.p.c. Relazione di notificazione, indicando, invece che il luogo di consegna, l’indirizzo di posta elettronica cui l’atto è stato inviato. Una volta eseguita la notifica, l’atto notificato è restituito, anche per via telematica, al soggetto che l’aveva richiesta, insieme alla relazione di notificazione e alle ricevute della p.e.c. attestanti l’invio e la consegna del messaggio. *NUOVO ART.149-bis (Riforma): “Notificazione a mezzo posta elettronica certificata eseguite dall'ufficiale giudiziario” à sempre in attuazione del principio di delega volto alla semplificazione del procedimento di notificazione eseguito dall’ufficiale giudiziario avvalendosi delle nuove tecnologie, è stato modificato l’art. 149 bis c.p.c., disponendo la notificazione via posta elettronica certificata (pec) anche per gli atti notificatori tipicamente propri dell’ufficiale giudiziario, come il pignoramento presso terzi, purchè il destinatario sia un soggetto per il quale la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato risultante dai pubblici elenchi oppure quando abbia eletto domicilio digitale. 142. Le notificazioni eseguibili dal difensore La l. 53/1994 consente che alcune forme di notificazione siano compiute dallo stesso avvocato (difensore con procura), il quale può utilizzare i seguenti procedimenti: A) Può eseguire la notifica avvalendosi del servizio postale. Egli, dopo aver scritto la relata di notifica sull’originale e sulla copia ed aver compilato l’apposita busta e l’avviso di ricevimento con indicazioni analoghe a quelle prescritte all’ufficiale giudiziario, si limita a presentare il tutto all’ufficio postale. A questo punto, è l’ufficiale postale che, dopo aver apposto il timbro di vidimazione in calce all’originale e alla copia, deve inserire quest’ultima nella busta. In tal modo, è la stessa amministrazione postale ad identificare la copia effettivamente spedita al destinatario; il che è utile nel caso in cui dovesse essere contestata la conformità di siffatta copia all’originale; B) Se destinatario è un altro avvocato, che abbia la qualità di domiciliatario di una parte e sia iscritto nello stesso albo del notificante, la notifica può anche essere eseguita direttamente, mediante consegna di copia dell’atto nel domicilio del destinatario. In questo caso, la notifica è subordinata a 2 specifiche formalità: 91 1) la preventiva vidimazione e datazione dell’originale e della copia da parte del consiglio dell’ordine nel ci albo sono iscritti il difensore notificante e il difensore destinatario; 2) la sottoscrizione del consegnatario tanto sull’originale e sulla copia, quanto sull’apposito registro cronologico del difensore notificante, seguita, quando la consegna sia effettuata a persona diversa dal destinatario, dall’annotazione delle generalità e della qualità rivestita dal consegnatario medesimo. A tal proposito, qualora il consegnatario rifiuti di ricevere la copia o di sottoscrivere i suddetti documenti, si ritiene che tale rifiuto impedisca l’esecuzione della notifica, dato che la sottoscrizione rappresenta una formalità essenziale di documentazione della notificazione; C) Infine, qualora l’indirizzo elettronico del destinatario risulti da pubblici elenchi, la notifica può avvenire anche a mezzo di p.e.c., purché lo stesso avocato notificante adoperi un proprio indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi. In tal ipotesi, la notificazione avviene mediante allegazione dell’atto da notificare al messaggio di posta elettronica; atto che può consistere in un documento informatico nativo o nella copia informatica di un documento originariamente formato su supporto analogico (di regola un documento cartaceo). In quest’ultimo caso il notificante deve attestarne, nella relazione di notificazione, la conformità all’originale. Quanto alla relazione di notifica, essa dev’essere redatta come documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale ed allegato allo stesso messaggio di posta elettronica certificata con cui viene trasmesso l’atto. à Indipendentemente dalla forma adoperata per la notifica, se questa ha ad oggetto un atto di opposizione a decreto ingiuntivo o d’impugnazione, il difensore notificante deve anche provvedere a depositare copia dell’atto notificato presso la cancelleria del giudice che ha pronunciato il provvedimento, affinché il cancelliere possa farne annotazione sull’originale del provvedimento. 143. Altre forme di notificazione Alcune forme di notificazione richiedono una preventiva autorizzazione del giudice o addirittura possono essere disposte d’ufficio dal giudice medesimo, il quale ha un ruolo essenziale per determinare il procedimento stesso della notifica. A) La prima di tali ipotesi è rappresentata dalla notificazione per pubblici proclami, consentita [tranne che nei giudizi dinanzi al giudice di pace] allorché la notificazione nei modi ordinari sarebbe difficile per il gran numero di destinatari o per la difficoltà nell’identificarli tutti. La relativa autorizzazione compete al capo dell’ufficio giudiziario dinanzi al quale si procede, su istanza della parte interessata e sentito il pubblico ministero. Parte dell’iter è prevista dal legislatore e consiste nel deposito di una copia dell’atto nella casa comunale del luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario adito, nonché nella pubblicazione di un estratto di esso nella Gazzetta Ufficiale. Per il resto è lo stesso giudice che determina, con decreto di autorizzazione steso in calce all’atto da notificare, sia i destinatari ai quali la notificazione dev’essere eseguita nelle forme ordinarie, sia le ulteriori modalità che ritiene più opportune per portare l’atto a conoscenza degli altri interessati. La notificazione si ha per avvenuta quanto, esaurite le varie formalità, l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria dell’ufficio giudiziario dinanzi al quale si procede; B) La seconda ipotesi da considerare (articolo 151 c.p.c. Forme di notificazione ordinate dal giudice) consente al giudice, quando lo consigliano circostanze particolari o esigenze di maggiore celerità, di riservatezza o di tutela della dignità, di ordinare anche d’ufficio, con decreto steso in calce all’atto, che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge, anche per mezzo di telegramma collazionato. Si tratta di una norma in bianco, sia per quanto attiene ai suoi presupposti applicativi, sia per ciò che concerne il procedimento notificatorio, che è integralmente rimesso alla determinazione del giudice. Si ritiene, in ogni caso, che per un verso le modalità di tali notifiche non possano individuare consegnatari diversi da quelli indicati nel codice per le altre forme tipiche di notificazione, e per altro verso debbano fornire, quanto alla trasmissione della copia e alla sua conformità all’originale, un grado di certezza non diverso da quello offerto dai procedimenti ordinari. 92 Sezione V – L’INVALIDITÀ DEGLI ATTI PROCESSUALI (domanda: nullità degli atti processuali – art.156) 144. SPECIE DELLA INVALIDITÀ IN MATERIA PROCESSUALE Anche rispetto al processo si è soliti distinguere varie gradazioni di invalidità: - Irregolarità: si riferisce ai vizi che non influenzano l’efficacia dell’atto (vizi innocui), i quali hanno come unica conseguenza, di solito, l’obbligo per le parti e per il giudice di provvedere alla regolarizzazione dell’atto medesimo, salve le diverse sanzioni previste dalla legge; - Annullabilità: ricorre quando, a causa di un determinato vizio, l’atto – pur di per sé efficace – si trovi in una situazione di precarietà, potendo essere eliminato con un provvedimento costitutivo del giudice, su iniziativa della parte legittimata. Questa iniziativa può essere esercitata solo entro un certo termine previsto dalla legge, scaduto il quale l’atto diverrebbe inattaccabile; - Nullità: individua la condizione dell’atto affetto da un vizio insanabile che ne preclude ab origine i consueti effetti, sì che la parte interessata può, in ogni momento e senza limiti di tempo, chiedere al giudice che ne dichiari l’inefficacia; - Inesistenza: (creazione dottrinale) ricorre allorché l’atto sia privo finanche dei requisiti minimi essenziali per essere riconosciuto come appartenente ad un determinato modello legale. à Invero, la nullità all’interno del processo si atteggia quasi sempre come mera annullabilità del provvedimento finale, poiché la possibilità di attaccare e caducare quest’ultimo, in conseguenza del vizio, è limitata nel tempo (salvo ipotesi eccezionali). Si distingue tra: Nullità formali: riguardanti un vizio di forma in senso lato Nullità extraformali: derivanti da un difetto di legittimazione, in senso ampio, del soggetto da cui promana l’atto. Difetto che potrebbe inerire, ad es., alla capacità della parte al potere rappresentativo del difensore, come anche all’investitura del giudice. La disciplina codicistica della nullità, risultante dagli artt.156 ss. (Domanda: artt.156 ss, tutta la disciplina delle nullità), parrebbe prendere in considerazione essenzialmente le nullità formali, ma i principi in essa racchiusi sono in larga misura adattabili anche a quelle non formali. Tanto più che lo stesso legislatore, nell’art.158, fa espresso riferimento ad una nullità – quella derivante da vizi di costituzione del giudice – avente senz’altro natura extraformale. 145. I principi in materia di nullità Le disposizioni concernenti la forma-contenuto degli atti processuali sono numerose e ciascuna di esse esige, per ciascun tipo di atto, una molteplicità di requisiti. Ciò non significa, tuttavia, che la mancanza di uno qualunque di tali requisiti determini la nullità dell’atto. La regola fondamentale contenuta nel 1°comma dell’articolo 156 c.p.c. (Rilevanza della nullità) stabilisce che “non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge”. à Per cui le fattispecie di nullità sono tassative e circoscritte alle ipotesi in cui il legislatore ha espressamente previsto che la mancanza di un determinato requisito determini la nullità dell’atto. In ogni altro caso, invece, il vizio sarà motivo di mera irregolarità, emendabile attraverso l’iniziativa delle parti o dello stesso giudice. Il principio di tassatività subisce, tuttavia, delle deroghe: - Il 2°comma dell’art.156, consente che la nullità sia pronunciata allorché il vizio, pur non essendo espressamente contemplato dalla legge come motivo di nullità, consista nella mancanza di requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell’atto 89. - Il 3°comma dell’art.156, invece, opera in senso diametralmente opposto, escludendo che la nullità, pur prevista dalla legge, possa mai essere pronunciata quando l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato (c.d. sanatoria per convalidazione oggettiva) (es. la nullità di una notificazione resta superata allorché il 89 In questi casi, quindi, bisogna stabilire quale sia lo “scopo” dell’atto, cioè la funzione che esso oggettivamente svolge nel processo, per poi verificare, con un giudizio ex ante, se l’elemento che manca sia o meno essenziale per il conseguimento di tale scopo. 240513 95 giurisprudenza ha talvolta arbitrariamente distinto, nell’ambito di tale categoria, alcuni vizi ritenuti tanto gravi da rendere la sentenza inesistente e, dunque, da sottrarla al fondamentale principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione. 149. Inesistenza, nullità assoluta ed inefficacia della sentenza Sentenza inesistente: non disciplinata dal legislatore, si ritiene che debba circoscriversi alle sole ipotesi in cui manchi un provvedimento idoneo ad inserirsi in un procedimento giurisdizionale e comunque a produrre alcuno degli effetti tipici della sentenza. La sentenza inesistente non può essere oggetto d’impugnazione, non essendo assoggettabile ai rimedi propri delle sentenze. Il concetto di inesistenza dovrebbe riguardare, oltre l’ipotesi della pseudo-sentenza proveniente da chi non è giudice, i soli casi in cui ci si trovi al cospetto di un atto che pur potendolo divenire, non è ancora una sentenza, non essendosi compiuto l’iter a tal fine previsto, attraverso il deposito in cancelleria e la pubblicazione. à Non si ha inesistenza quando la sentenza non è sottoscritta (ex art.161, 2°); questa rappresenta l’unica ipotesi di nullità veramente assoluta, poiché non sanata dal passaggio in giudicato e rilevabile sine die. Vi sono poi situazioni in cui la sentenza, pur essendo di per sé idonea a passare formalmente in giudicato e dunque divenire (relativamente) immutabile, non è in grado, vuoi per vizi ed essa estrinseci, vuoi per ragioni inerenti al suo contenuto, di produrre l’effetto di accertamento proprio della sentenza di merito passata in giudicato, o comunque effetti di altra natura (es. omessa pronuncia su taluna delle domande oggetto del giudizio; sentenza resa nei confronti di un soggetto inesistente; sentenza priva di dispositivo o dal dispositivo impossibile, indeterminabile, incomprensibile o contraddittorio; sentenza pronunciata a contraddittorio non integro, nelle ipotesi di litisconsorzio necessario secundum tenorem rationis). In questi casi, che spesso vengono ricondotti all’inesistenza e che, invece, sarebbe preferibile inquadrare tra le ipotesi di inefficacia della sentenza, il vizio della decisione implica inevitabilmente la sua nullità (quantomeno ai sensi dell’art.156, 2°); e tuttavia, (non essendovi motivo alcuno per derogare al principio racchiuso nell’art.161,1°) la sua rilevabilità resta pur sempre preclusa dal passaggio in giudicato, indipendentemente dalle conseguenze che il vizio potrà successivamente determinare in ordine alla concreta estensione della cosa giudicata o comunque rispetto agli effetti della sentenza. 150. Il problema dei provvedimenti resi in forma erronea Nel caso di provvedimenti resi in una forma diversa da quella che la legge prescrive, il problema è particolarmente serio allorché sia stata impiegata la forma della sentenza, in luogo dell’ordinanza o del decreto, o viceversa, dovendosi in tal caso stabilire: - Se l’errore sia di per sé motivo di nullità; - Se la validità formale del provvedimento debba comunque valutarsi secondo gli elementi prescritti per la forma corretta o se, al contrario, debba aversi riguardo agli elementi richiesti per il tipo di provvedimento erroneamente utilizzato dal giudice; - Quale regime di stabilità e quali rimedi debbano trovare applicazione. Per quanto riguarda le prime due questioni, la giurisprudenza prevalente ritiene che l’impiego di una FORMA ERRONEA non produca, di per sé, la nullità del provvedimento, ma che la validità di quest’ultimo presupponga la sussistenza dei requisiti di forma-contenuto minimi prescritti per il modello che il giudice avrebbe dovuto adottare. Ciò implica che: Sentenza à resa in luogo del decreto o dell’ordinanza = sempre salvabile Ordinanza / Decreto à resi in luogo della sentenza = inevitabilmente ed insanabilmente nulli, quanto meno in relazione al requisito della sottoscrizione; dato che per la sentenza sono richieste le firme del presidente del collegio e dell’estensore, mentre per l’ordinanza e per il decreto (collegiali) è richiesta quella del solo presidente. Questa soluzione suscita perplessità, dato che l’iter di formazione della sentenza è completamente diverso e la sottoscrizione dell’estensore si giustifica per il fatto che la sentenza-documento viene in vita in un momento diverso e posteriore rispetto a quello della deliberazione; a differenza dell’ordinanza e del decreto, 96 per i quali non v’è questa discrasia temporale e non può neppure parlarsi di estensore, dato che la motivazione ricade sotto la diretta responsabilità del collegio. Più delicata è la terza questione relativa al REGIME DI STABILITÀ ed ai rimedi applicabili 94. L’opinione maggioritaria preferisce attenersi al principio della prevalenza della sostanza sulla forma del provvedimento. Si ritiene che sia l’effettivo contenuto del provvedimento l’elemento determinante per stabilire tanto il regime di stabilità, quanto i rimedi. In realtà, questa soluzione non risulta pienamente appagante sia perché costringe le parti a sindacare, in un certo senso, la congruità del modello formale scelto dal giudice per il provvedimento, ma anche perché non di rado lo stesso legislatore prevede la pronuncia di un’ordinanza dal contenuto decisorio; sicché la scelta dell’uno o dell’altro modello formale è legata all’esistenza di specifici presupposti, se non addirittura ad un potere discrezionale del giudice (es. l’ordinanza di convalida di licenza o di sfratto non è diversa, quanto agli effetti, da una sentenza di condanna al rilascio dell’immobile). Inoltre, la riforma del 2009 ha creato il procedimento sommario di cognizione, che pur avendo natura di processo a cognizione piena, si conclude con un’ordinanza del tutto equivalente ad una sentenza, poiché è soggetta ad appello ed è idonea, se non impugnata, ad acquisire l’autorità del giudicato sostanziale. Tutto ciò conferma, allora, che il contenuto di un provvedimento – ciò che la giurisprudenza intende per sostanza, contrapposta alla forma – non può essere assunto quale elemento univoco cui ricondurre un determinato regime di stabilità e di rimedi. Capitolo XII - LE SPESE DEL PROCESSO (domanda: spese processuali; determinazione delle spese; quando il giudice cautelare si pronuncia sulle spese) Il processo è fonte di varie e considerevoli spese per le parti, comprendenti le somme da pagare a vario titolo allo Stato o ad organi pubblici (ad es. per l’imposta di bollo o di registro, oppure quale corrispettivo per l’esecuzione delle notificazioni), nonché i compensi a determinati soggetti privati che prestano la loro opera nel processo (consulenti tecnici o altri ausiliari del giudice), a cominciare ovviamente da quelli dovuti ai difensori. L’importo complessivo di tali spese può risultare, in proporzione, particolarmente gravoso nelle controversie di più modesto valore, nelle quali spesso esso finisce col superare lo stesso vantaggio economico che l’attore può sperare di conseguire dal processo. Ciò premesso, i principi cui s’informa il nostro ordinamento in questa materia sono essenzialmente 2: 1) l’onere di anticipazione e 2) la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte vincitrice. La materia è regolata dal d.p.r. 115/2002 (t.u. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia). 1) ONERE DI ANTICIPAZIONE DELLE SPESE L’art.8, 1°comma, d.p.r. 115/2002, stabilisce che ciascuna parte deve provvedere alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede (es. richiesta di notificazione), ed è comunque tenuta ad 94 Guardando all'interesse e all'affidamento delle parti, è chiaro che la soluzione più rassicurante e garantistica sarebbe quella di far prevalere in ogni caso l'elemento formale su quello contenutistico, escludendo quindi che l'ordinanza o il decreto, erroneamente pronunciati su una questione che avrebbe dovuto risolversi con sentenza, possano mai acquisire la stabilità propria di quest'ultima, dando luogo al fenomeno del giudicato (in tal senso sembrerebbe deporre l’espressa previsione dell’art.279, 4°, secondo cui i provvedimenti del collegio, che hanno forma di ordinanza, comunque motivati, non possono mai pregiudicare la decisione della causa”. Tale soluzione, però, non è priva di inconvenienti ove la si valuti in relazione ai rimedi esperibili contro il provvedimento reso in forma erronea à essa, infatti, conduce ad assoggettare alle impugnazioni caratteristiche della sentenza dei provvedimenti che, in ragione del loro oggetto, non avrebbero dovuto esserlo, e per altro verso ad escludere ogni forma di impugnazione nei confronti dell’ordinanza o del decreto (pronunciati al posto della sentenza prescritta dalla legge). 97 anticipare quelle occorrenti per gli atti necessari al processo quando l’anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato. Fra le spese oggetto di anticipazione va menzionato il contributo unificato di iscrizione a ruolo, disciplinato dagli artt.9 ss. del citato d.p.r. e dovuto, per ciascun grado di giudizio, dalla parte che deposita il ricorso introduttivo o si costituisce per prima in giudizio, nonché, limitatamente ai processi esecutivi di espropriazione forzata, dalla parte che fa istanza per l’assegnazione o la vendita dei beni pignorati. Il relativo importo varia a seconda del tipo di procedimento nonché, quando si tratti di processi contenziosi, in proporzione al valore della causa, che deve pertanto risultare da un’apposita dichiarazione inserita nelle conclusioni dell’atto introduttivo. Se poi, nel corso del processo, viene proposta da un’altra parte una domanda riconvenzionale o comunque nuova, la parte che la propone è tenuta a farne espressa dichiarazione e a pagare un ulteriore ed autonomo contributo unificato, commisurato al valore della nuova domanda. Tale contributo, dal quale sono esenti i procedimenti indicati nell’art.10 del d.p.r., assorbe l’imposta di bollo che dovrebbe applicarsi agli atti e ai provvedimenti processuali, nonché al rilascio di copie autentiche degli stessi. Il codice prevedeva la possibilità di imporre all’attore la prestazione di una cauzione per il rimborso delle spese al convenuto, nel caso in cui avesse perso; ma tale istituto fu soppresso dalla Corte costituzionale. 2) LA CONDANNA DELLA PARTE SOCCOMBENTE L’onere di anticipazione costituisce di solito, almeno per il processo di cognizione, un criterio meramente provvisorio, applicabile nel corso del processo. Per la ripartizione finale e definitiva delle spese del processo, il codice utilizza il criterio della soccombenza, stabilendo che il giudice, ogniqualvolta pronunci sentenza con la quale chiude il processo davanti a sé 95, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa (articolo 91 c.p.c. Condanna alle spese). Per quel che concerne le spese successive è previsto che esse siano liquidate: dal cancelliere con una nota in margine alla sentenza, per quel che riguarda le spese della sentenza stessa oppure dall’ufficiale giudiziario, con una nota in margine all’atto quanto alle spese di notificazione della sentenza, del titolo esecutivo e del precetto. à Contro la relativa liquidazione è ammesso reclamo al capo dell’ufficio cui appartengono il cancelliere o l’ufficiale giudiziario. In linea di principio, dunque, “CHI PERDE PAGA” sopportando non soltanto le proprie spese, ma pure quelle sostenute dall’altra parte. E questo per una responsabilità essenzialmente oggettiva, che prescinde da qualunque colpa; dato che il proporre una domanda risultata poi infondata oppure il resistere ad una domanda che viene poi accolta, costituisce un comportamento del tutto lecito. Quando vi è una pluralità di parti soccombenti, il giudice può ripartire le spese tra loro in proporzione del rispettivo interesse nella causa, oppure può condannarle in solido, allorché abbiano un interesse comune. Se la sentenza nulla precisa, la condanna s’intende ripartita per quote eguali (art.97). Di regola la condanna alle spese può essere pronunciata solo nei confronti della parte, in senso processuale, e non anche nei confronti del soggetto che eventualmente sta in giudizio in sua vece. à L’art.94 c.p.c., però, prevede che eccezionalmente gli eredi con beneficio d’inventario, i tutori, i curatori ed in generale coloro che rappresentano o assistono la parte in giudizio, possano essere condannati personalmente in presenza di motivi gravi che il giudice è tenuto a specificare nella sentenza. La norma sembra riferibile a tutte le ipotesi di rappresentanza (legale, volontaria o organica), con la sola esclusione di quella tecnica. È chiaro, dunque, che il rappresentante acquista, se pur limitatamente alla condanna alle spese, la qualità di parte, soprattutto in relazione all’impugnazione della sentenza. 154. Deroghe che al criterio della soccombenza. In particolare, la compensazione delle spese Il criterio per cui le spese vanno poste a carico della parte soccombente, non è assoluto. In primo luogo, è consentito al giudice di escludere, nella condanna, la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ritenga eccessive o superflue. In secondo luogo, è poi previsto che una parte, pure se vittoriosa, possa essere condannata al rimborso delle spese, anche non ripetibili, provocate all’altra parte dalla violazione del dovere di comportarsi in giudizio con 95 Quindi, anche quando si tratti di una pronuncia definitiva meramente processuale