Scarica Riassunto Sintetico e completo del Manuale di giustizia Amministrativa di Aldo Travi e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Amministrativo solo su Docsity! 1 GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA Aldo Travi LEZIONI INTRODUTTIVE Premessa Nel diritto amministrativo la garanzia del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione ha un rilievo primario: la stessa evoluzione del diritto amministrativo esprime la ricerca di equilibrio fra l’amministrazione, che deve disporre di strumenti adeguati per attuare le finalità assegnatele, e il cittadino, che deve essere garantito da comportamenti arbitrari o da sacrifici indebiti imposti dall’amministrazione. Nello Stato di diritto più evoluto un punto di equilibrio è ricercato principalmente attraverso il principio di legalità, che subordina il potere dell’amministrazione a regole predeterminate e che comporta un’ampia riserva al legislatore per la disciplina dell’azione amministrativa autoritativa. Il diritto amministrativo, nel disciplinare l’attività amministrativa, detta regole che valgono anche a garanzia del cittadino. L’osservanza della legalità nell’attività amministrativa non è un compito affidato in primo luogo a un giudice o ad altri organismi giustiziali. La coerenza dell’azione amministrativa con i principi su cui essa dovrebbe reggersi è innanzitutto un dovere preciso dell’amministrazione e deve modellare la sua azione in ogni occasione. Gli istituti di “giustizia amministrativa” svolgono solo un ruolo suppletivo e, in un certo modo, successivo. La loro utilità consiste, in genere, nell’offrire un rimedio quando, nonostante tutto, il diritto sostanziale non sia stato osservato. Gli istituti della giustizia amministrativa Con l’espressione “giustizia amministrativa” sono designati alcuni istituti diretti specificamente ad assicurare la tutela dei cittadini nei confronti dell’amministrazione. In sostanza, ci si riferisce all’insieme di strumenti sostanziali e processuali che ‘ordinamento giuridico appresta per assicurare la tutela del cittadino (appunto nei confronti della pubblica amministrazione). Questi istituti sono stati elaborati per la tutela del cittadino che abbia subito un pregiudizio dalla pubblica amministrazione; l’intervento del cittadino nel procedimento amministrativo si colloca in una logica differente. I suoi interventi sono infatti strumenti di partecipazione al procedimento amministrativo, diretti ad assicurare uno svolgimento corretto ed equilibrato della funzione amministrativa, e non strumenti di giustizia amministrativa. Una parte della dottrina ha preso in esame il rapporto fra gli istituti di giustizia amministrativa e i controlli sull’attività amministrativa. Anche i controlli sugli atti sono previsti per assicurare la regolarità e la correttezza dell’azione amministrativa e in genere riguardano un’attività amministrativa già conclusa. Un criterio distintivo sarebbe identificabile nel fatto che i controlli attuerebbero un interesse oggettivo (ossia l’interesse alla conformità dell’operato dell’amministrazione al diritto), mentre gli istituti di giustizia amministrativa assicurerebbero in modo specifico l’interesse del cittadino. Ad ogni modo, gli istituti di giustizia amministrativa non si esauriscono negli strumenti per la tutela giurisdizionale dei cittadini nei confronti dell’amministrazione: di conseguenza la distinzione fra i controlli e gli istituti di giustizia amministrativa non può essere ricercata nei caratteri specifici della funzione giurisdizionale. 2 Fra gli istituti di giustizia amministrativa sono compresi anche i ricorsi amministrativi: con essi la contestazione del cittadino è proposta a un organo amministrativo e la decisione è assunta con un atto amministrativo, senza alcun esercizio di funzione giurisdizionale. La controversia, in questo caso, si svolge ed è risolta nell’ambito dell’attività amministrativa. Non si ha però, neppure per i ricorsi amministrativi, l’esercizio di un’attività assimilabile a quella di controllo. Le ragioni di un sistema di giustizia amministrativa Nel nostro ordinamento e, in generale, nei Paesi dell’Europa continentale gli istituti di giustizia amministrativa si caratterizzano per una loro separatezza rispetto agli strumenti ordinari di tutela del cittadino. La giustizia amministrativa in questi Paesi si contrappone così alla giustizia comune, ossia agli istituti per la tutela dei cittadini nei loro rapporti con soggetti equiordinati. Sulla giustizia comune campeggia l’autorità giurisdizionale ordinaria, considerata da sempre come il giudice per eccellenza e la cui caratterizzazione come autorità appartenente a un ordine autonomo rappresenta uno dei risultati più importanti della concezione dello Stato e dei poteri pubblici nella società moderna. Anche gli istituti di giustizia amministrativa sono strettamente dipendenti dall’evoluzione dei rapporti fra cittadino, amministrazione e autorità giurisdizionale (ordinaria), ma in varia misura sono stati più puntualmente condizionati dalle vicende particolari dei singoli Paesi. Uno dei modelli più significativi, anche per valutare l’evoluzione del nostro ordinamento, è senz’altro quello francese. In Francia è radicato un sistema di contenzioso amministrativo nel quale le controversie fra il cittadino e l’amministrazione sono sottratte al giudice ordinario e sono devolute a un giudice speciale (questo giudice in origine era il Consiglio di Stato, al quale si sono poi aggiunti i Tribunali amministrativi, di primo grado, e le Corti amministrative d’appello). Un modello profondamente diverso fu accolto originariamente in Belgio: in questo Paese la Costituzione del 1831 stabilì che anche nei confronti dell’amministrazione il sindacato giurisdizionale fosse riservato al giudice ordinario (regola ormai superata nel secondo dopoguerra, con l’introduzione di un giudice speciale). In Italia, infine, si è passati da un sistema di contenzioso amministrativo modellato su quello francese a un sistema di giurisdizione unica (1865), e poi a un sistema articolato in una giurisdizione del giudice ordinario e in una giurisdizione del giudice amministrativo (1889). Due motivi diversi costituiscono i problemi nodali affrontati da ogni sistema di giustizia amministrativa: le ragioni di specificità dell’amministrazione nell’ordinamento giuridico e l’esigenza di una tutela effettiva del cittadino anche nei confronti dell’amministrazione – autorità. Il primo motivo ha influenzato in modo particolare l’assetto della giustizia amministrativa anche nel nostro Paese. Le origini della giustizia amministrativa: cenni al sistema francese La concezione dell’amministrazione come soggetto tipicamente diverso dagli altri si affermò, nelle prime fasi dello Stato liberale, in un contesto ispirato al principio della separazione dei poteri. Nella Francia degli ultimi decenni del XVIII secolo e degli anni della Rivoluzione si era affermata l’esigenza che il Potere esecutivo, nel quale era inserita l’amministrazione, dovesse essere un potere distinto dagli altri, anche se non superiore agli altri. In Francia alle origini di questa immunità degli atti dell’amministrazione rispetto al sindacato del giudice ordinario vi furono certamente ragioni ideologiche, ma anche considerazioni politiche contingenti. Esse riflettevano il contrasto secolare fra Governo e Parlamenti. In questo senso risultano particolarmente significativi due decreti del primo periodo rivoluzionario: 5 c) In altre materie individuate specificatamente da leggi speciali, la tutela dei cittadini era demandata a giudici speciali del contenzioso amministrativo. d) Negli altri casi la competenza spettava al giudice ordinario, ossia ai giudici civili. Un sistema del genere lasciava ampio spazio alla possibilità di conflitti, positivi o negativi, fra amministrazione e giudici, e fra giudici del contenzioso amministrativo e giudici ordinari. I conflitti si presentavano quando due autorità di ordini diversi rivendicavano la medesima competenza, oppure escludevano entrambe la propria competenza. Ai giudici ordinari del contenzioso amministrativo non erano conferiti poteri di annullamento rispetto agli atti amministrativi dedotti in giudizio. Certamente era diffusa la convinzione che l’annullamento costituisse un atto riservato all’amministrazione. Il declino dei tribunali del contenzioso amministrativo Quasi subito dopo la riforma del 1859 fu sottratto alla giurisdizione dei giudici ordinari del contenzioso amministrativo il contenzioso fiscale. A sostegno del sistema del contenzioso amministrativo risultavano invocati particolarmente tre ordini di considerazioni: a) La tutela dell’interesse pubblico. Sembrava essenziale che l’attuazione dell’interesse pubblico non fosse ostacolata da un intervento del giudice; attraverso un sistema di contenzioso amministrativo sembrava che questa esigenza fosse meglio garantita. b) L’esclusione delle garanzia di inamovibilità ed imparzialità previste per i giudici ordinari. La mancanza di queste garanzie era ritenuta da alcuni un fattore positivo, perché avrebbe consentito di far valere in modo più efficace la responsabilità dei giudici del contenzioso amministrativo. c) La specialità del diritto dell’amministrazione. Le controversie demandate ai giudici del contenzioso amministrativo riguardavano istituti diversi da quelli del diritto comune: sembrava perciò opportuno che fossero demandate a un giudice diverso da quello ordinario, che acquisisse un’esperienza e una conoscenza più approfondita su questioni di quel genere. La legge 20 marzo 1865, n. 2248 Si afferma da un lato l’esigenza di un giudice speciale, che abbia un’esperienza specifica in un settore del diritto diverso da quello comune; dall’altro si teme che l’introduzione di un giudice speciale si risolva in un regime processuale privilegiato per l’amministrazione, incompatibile con l’ideologia dello Stato liberale. Il dibattito raggiunse il suo culmine nelle discussioni alla Camera sull’assetto della giustizia amministrativa subito dopo l’Unità. Le discussioni condussero all’approvazione di una legge che aboliva i giudici ordinari del contenzioso amministrativo: la legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E (c.d. legge di abolizione del contenzioso amministrativo). La legge 20 marzo 1965m n. 2248, attuò l’unificazione dell’ordinamento amministrativo italiano, abrogando le discipline degli Stati preunitari che erano rimaste ancora in vigore. La Legge n. 2248 del 1865 allegato E è importante per le seguenti norme: 1) Art 2: sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questioni di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa. 6 2) Art 4: quando la contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non potrà essere rievocato o modificato se non sovra il ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso. 3) Art 5: in questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi a leggi. Il legislatore individua alcuni settori nei quali non operano i limiti di cui all’art 2 della legge del 1865, ovvero delle materie in cui il giudice ordinario ha una giurisdizione piena sulla controversia e può annullare, sospendere e riformare l’atto amministrativo. I principali procedimenti devoluti per legge al giudice ordinario sono: 1. Opposizione a sanzioni amministrative. 2. Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera. 3. Provvedimenti di espulsione, convalida o revoca permesso di soggiorno, ricongiungimento familiare dei cittadini extracomunitari ecc. 4. Impugnazione innanzi al tribunale civile delle decisione dell’autorità garante per la riservatezza dei dati personali rese su ricorso degli interessati. 5. Determinazioni adottate in materia di obiezione di coscienza. Era costituita da sei testi normativi, che furono designati come “allegati” alla legge stessa: - Allegato A – Legge sull’amministrazione comunale e provinciale. - Allegato B – Legge sulla sicurezza pubblica. - Allegato C – Legge sulla sanità pubblica. - Allegato D – Legge sul Consiglio di Stato. - Allegato E – Legge sul contenzioso amministrativo. - Allegato F – Legge sui lavori pubblici. L’allegato D disciplinava l’assetto del Consiglio di Stato. Non erano previste particolari garanzie di indipendenza né per quanto riguarda la nomina dei suoi componenti, né per quanto riguardava la loro inamovibilità; la continuità con l’amministrazione era sottolineata dalla possibilità per i Ministri di intervenire alle sedute direttamente o attraverso delegati. Fu confermata l’articolazione nelle tre sezioni precedenti (interno, grazia – giustizia – culti, finanze). Al Consiglio di Stato erano assegnate tipicamente competenze consultive. Nella normativa sul Consiglio di Stato si faceva riferimento al ricorso al Re, designato come ricorso straordinario perché poteva essere proposto solo dopo l’esaurimento dei rimedi ordinari, ossia dei ricorsi gerarchici. Il ricorso al Re era coerente con il dettato dello Statuto albertino, che riferiva all’autorità del Re il complesso dell’amministrazione. In alcune ipotesi tassative il Consiglio di Stato esercitava, inoltre, funzioni giurisdizionali, come giudice speciale. Al Consiglio di Stato fu conferita una competenza di particolare rilevanza istituzionale: la risoluzione di conflitti fra amministrazione e autorità giurisdizionale. L’allegato E viene frequentemente designato come legge di abolizione del contenzioso amministrativo, perché all’art. 1 disponeva la soppressione dei c.d. giudici ordinari del contenzioso amministrativo. Si tenga presente che invece nessuna innovazione era apportata alla giurisdizione 7 dei c.d. giudici speciali del contenzioso amministrativo. Nell’allegato E fu delineato il seguente assetto della giustizia amministrativa: a) Tutte le cause per le contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile e politico furono assegnate al giudice ordinario. b) Gli affari non compresi nell’ipotesi precedente furono riservati alle autorità amministrative. Si poteva trattare, pertanto, solo di vertenze che non avessero natura penale e che non avessero come oggetto un diritto civile e politico. Il bilancio dell’allegato E nei primi anni successivi al 1865 La riforma del 1865 non rifletteva un’ideologia politica particolare. D’altra parte la riforma intendeva realizzare il passaggio da un sistema di tutela nei confronti del contenzioso dell’amministrazione, imperniato sul modello precedente del contenzioso amministrativo, a un altro sistema, imperniato sul giudice ordinario. Il sistema delineato dall’allegato E della legge n. 2248/1865 avrebbe potuto assicurare, in astratto, una efficace tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione. Sarebbe stato necessario, però, attuare in modo adeguato l’art. 3 della legge, sulla tutela del cittadino nel procedimento amministrativo e attraverso i ricorsi gerarchici. E invece la norma sulla partecipazione nel procedimento non venne applicata. Inoltre, sarebbe stata necessaria un’applicazione della legge che riconoscesse al giudice ordinario tutti gli spazi di tutela che precedentemente erano stati assegnati ai tribunali del contenzioso amministrativo. Invece, nell’interpretazione degli artt. 2 e 3 della legge, prevalse una linea restrittiva. L’interpretazione sulla portata degli artt. 2 e 3 era rimessa, in ultima istanza, al Consiglio di Stato, al quale spettava decidere, come giudice dei conflitti, se una vertenza fosse di competenza dell’autorità giurisdizionale (ordinaria) o fosse invece riservata all’amministrazione. In conclusione, emergeva nelle decisioni del Consiglio di Stato la tendenza ad escludere la competenza del giudice civile quando la vertenza riguardasse provvedimenti dell’autorità amministrativa, e ciò anche quando questi provvedimenti dell’autorità amministrativa non fossero fondati su valutazioni discrezionali. La competenza del giudice civile veniva ammessa esclusivamente in presenza di atti dell’amministrazione emanati non a tutela di un interesse pubblico generale, ma a tutela di un interesse personale o patrimoniale dell’amministrazione stessa. La legge sui conflitti del 1877 Queste considerazioni furono all’origine di un nuovo intervento legislativo sulla materia dei conflitti, con la legge 31 marzo 1877, n. 3761. La legge attribuì alla Corte di cassazione di Roma la decisione sui conflitti, sia positivi che negativi, insorti fra Amministrazione e autorità giudiziaria (c.d. conflitti di attribuzione), ovvero fra giudici ordinari e giudici speciali (c.d. conflitti di giurisdizione). Alla Cassazione di Roma fu attribuito inoltre il potere di decidere i ricorsi proposti contro le sentenze dei giudici speciali, impugnate per incompetenza ed eccesso di potere. In tutti questi casi la Cassazione doveva decidere a sezioni unite. L’AFFERMAZIONE DI UNA GIURISDIZIONE AMMINISTRATIVA L’istituzione della Quarta sezione I risultati della riforma del 1865 apparvero ben presto insoddisfacenti: la tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione era tutt’altro che realizzata e l’abolizione del sistema del 10 La possibilità di una cognizione incidentale dei diritti consentiva di evitare che, in un giudizio amministrativo, la necessità di esaminare una questione inerente a diritti soggettivi comportasse sempre la sospensione del giudizio e la rimessione delle parti avanti al giudice civile. b) In alcune materie particolari elencate dalla legge, fra le quali il pubblico impiego, al giudice amministrativo fu attribuita la possibilità di conoscere e di giudicare in via principale anche i diritti soggettivi. In queste materie, pertanto, la tutela giurisdizionale non era articolata fra tutela degli interessi legittimi (demandata l giudice amministrativo) e tutela dei diritti soggettivi (demandata al giudice ordinario), ma era devoluta interamente al giudice amministrativo (c.d. giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo). Dalla riforma del 1923 emergeva, comunque, in modo chiaro che: - Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, il riparto fra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria seguiva il criterio della distinzione per materie. Le materie assegnate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo erano però individuate in via tassativa e non esemplificativa (la più importante era il pubblico impiego). - Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, nelle vertenze per diritti soggettivi il giudice amministrativo disponeva degli stessi poteri di cognizione e di decisione che gli spettavano nel caso di giurisdizione sugli interessi legittimi. Il giudizio, quindi, non era sottoposto alle regole del codice di procedura civile ma era la tutela dei diritti che veniva assoggettata alle regole del giudizio amministrativo. - Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, la tutela dei diritti era aggiuntiva rispetto a quella degli interessi. Di conseguenza, si potevano avere casi di giurisdizione esclusiva nei quali il giudice amministrativo esercitava solo una giurisdizione di legittimità (ipotesi normale), ma anche casi di giurisdizione anche in merito. - Anche nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo poteva conoscere in via incidentale delle situazioni di diritto soggettivo, non inerenti alla materia devoluta alla giurisdizione esclusiva, che fossero però rilevanti per la decisione. Al giudice amministrativo era preclusa la cognizione di questioni inerenti allo stato e alla capacità delle persone, o di questioni di falso. - Al giudice ordinario, inoltre, anche nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo erano riservate le questioni attinenti a diritti patrimoniali conseguenziali alla pronuncia di legittimità dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre. L’entrata in vigore della Costituzione e l’istituzione dei Tar Dopo il testo unico 26 giugno 1924, n. 1054, la disciplina della giurisdizione amministrativa e del processo amministrativo rimase sostanzialmente immutata per oltre sette anni. In questo periodo si consolidò il modello di una giurisdizione amministrativa indirizzata alla tutela degli interessi legittimi e incentrata principalmente nell’impugnazione di atti. Anche l’entrata in vigore della Costituzione comportò, in un primo tempo, mutamenti limitati. La Costituzione repubblicana avrebbe potuto avviare una riflessione di molte soluzioni accolte rispetto alla tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti dell’amministrazione. Nei primi anni dell’ordinamenti repubblicano le innovazioni più evidenti riguardarono l’assetto organizzativo della giurisdizione amministrativa, ma non furono determinate dalla Costituzione. Con il d.l. 5 maggio 1948, n. 642, era stata istituita una Sesta sezione del Consiglio di Stato in sede 11 giurisdizionale, omologa alla Quarta e alla Quinta. Subito dopo venne istituito il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regine Siciliana, organo equiordinato al Consiglio di Stato. Solo nella seconda metà degli anni ’60 del Novecento l’incidenza dei principi costituzionali risultò più evidente, soprattutto in considerazione delle norme sull’indipendenza del giudice (art. 101 Cost.). Con la legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Legge Tar), furono istituiti, nei capoluoghi di ciascuna Regione, i Tribunali amministrativi regionali (Tar); successivamente, in otto Regioni furono istituite anche sezioni staccate presso altrettanti capoluoghi di provincia. I Tar furono istituiti come giudici amministrativi di primo grado, dotati di competenza generale per le controversie per gli interessi legittimi e per quelle su diritti soggettivi devoluti alla giurisdizione esclusiva. Ad essi furono assegnate anche le controversie sulle operazioni elettorali per le elezioni amministrative. Nei confronti delle sentenze del Tar fu previsto l’appello alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato (art. 28), che pertanto si configurarono come giudici di secondo grado. Le innovazioni successive e il codice del processo amministrativo Per quasi un ventennio dopo l’istituzione dei Tar gli interventi legislativi sulla giustizia amministrativa furono limitati: evidentemente sembrava raggiunto un equilibrio di fondo. Tra gli interventi più significativi vi fu l’estensione in materia edilizia. Elementi sostanziali di novità emersero invece nella legislazione a partire dai primi anni ’90 del Novecento. Gli interventi legislativi seguivano due indirizzi principali: erano dettate discipline speciali per accelerare lo svolgimento del processo, specialmente per alcune vertenze, ed erano incrementati in modo consistente i casi di giurisdizione esclusiva. Fu ad esempio introdotta la legge 7 agosto 1990 (modificata poi nel 2005) che, nel prevedere il diritto di accesso ai documenti amministrativi, introdusse per la sua tutela un rito speciale, di competenza del giudice amministrativo, caratterizzato da procedure accelerate. Il secondo indirizzo riscontrabile nella legislazione dello stesso periodo fu rappresentato dall’introduzione di ulteriori ipotesi di giurisdizione esclusiva. Si affermava il disegno di privilegiare il ruolo del giudice amministrativo nelle vertenze con l’amministrazione che risultassero più importanti per gli interessi generali della collettività. Alcuni problemi aperti La funzione del codice del processo amministrativo fu accompagnata da un dibattito che riguardò anche le scelte di fondo che stavano maturando con la nuova disciplina. Oggetto di discussione furono soprattutto il rapporto con la giurisdizione civile, l’idoneità degli strumenti previsti per la tutela dei diritti soggettivi nella giurisdizione esclusiva, i mezzi istruttori, le tipologie delle pronunce del giudice. Nel dibattito fu richiamato anche il tema della funzionalità del processo amministrativo, ossia della sua idoneità a rendere giustizia al cittadino in tempi ragionevoli. L0eccessiva durata media del processo amministrativo rappresenta, da questo punto di vista, il problema più grave. In altri Paesi, per ridurre il carico di lavoro degli organi giurisdizionali e più in generale per evitare al cittadino di dover affrontare i costi e i tempi di un giudizio, sono stati valorizzati i rimedi alternativi di soluzione delle controversie. I più recenti progetti di riforma della giustizia civile, nel nostro Paese, hanno dato ampio rilievo agli strumenti di conciliazione e di mediazione. 12 L’INTERESSE LEGITTIMO Considerazioni introduttive La figura dell’interesse legittimo inerisce, innanzitutto, alla dimensione sostanziale delle relazioni giuridiche fra amministrazione e cittadini nell’ambito pubblicistico e perciò trascende i temi della giustizia amministrativa. Nel nostro diritto amministrativo le posizioni giuridicamente rilevanti del cittadino nei confronti dell’amministrazione vengono articolate in interessi legittimi e diritti soggettivi. L’interesse legittimo è una figura centrale nei rapporti fra cittadino e amministrazione; rappresenta l’elemento fondamentale per la giurisdizione amministrativa. L’interesse legittimo è inteso come una posizione diversa e alternativa rispetto al diritto soggettivo. Irrinunciabili in uno Stato democratico sono le garanzie e l’ampiezza della tutela nei confronti dell’amministrazione, e non le nozioni e le forme attraverso le quali tale tutela è interpretata. L’interesse legittimo non si identifica con il diritto soggettivo (può collegarsi o essere compreso in esso). Il diritto soggettivo è la posizione di vantaggio fatta ad un soggetto dall’ordinamento in ordine ad un bene consistente nell’attribuzione al medesimo soggetto di una forza concretatesi nella disponibilità di strumenti vari (facoltà, pretese, poteri) atti a realizzare in modo pieno l’interesse al bene. Nel diritto soggettivo confluiscono due aspetti: 1. Situazione di potere: il potere è riconosciuto dall’ordinamento in relazione ad un determinato bene per cui il titolare del diritto può esercitare lo stesso senza alcun limite, salvo quello di rispettare gli altrui diritti e di non abusare del proprio. 2. Situazione di libertà: il titolare può esercitare il suo diritto o le singole facoltà in esso comprese. Vi sono diverse definizioni che vengono date all’interesse legittimo: 1. Interesse legittimo come interesse individuale strettamente connesso con l’interesse pubblico, protetto dall’ordinamento attraverso la tutela giuridica di quest’ultimo. Questa definizione coglie un aspetto essenziale dell’interesse legittimo ovvero quello del collegamento esistente tra interesse legittimo ed interesse pubblico. La sua teoria però è inesatta laddove si concentra esclusivamente sul piano della tutela, sulla disciplina del potere pubblico e, solo in via riflessa ed accidentale, su quella che concerne l’interesse del privato. 2. Interesse legittimo come interesse strumentale. Per cui vediamo che la definizione di interesse si fonda sulla pretesa del singolo a che l’azione amministrazione sia legittima per cui egli pretende che il potere amministrativo sia esercitato nel rispetto delle regole poste dall’ordinamento. Questa teoria ha il merito di definire la relazione tra interesse legittimo individuale ed interesse pubblico ma non riesce a spiegare in che modo la posizione del titolare dell’interesse si distingua da quella di tutti gli altri consociati. 3. Natura processuale dell’interesse legittimo che considera esso come puro potere di azione ed in particolare il potere del privato leso da un provvedimento amministrativo di provocare l’annullamento da parte del giudice amministrativo. Detta tesi scaturisce dalla considerazione per cui l’interessa si presenta quasi sempre come forma di reazione all’esercizio scorretto del potere amministrativo e non rileva autonomamente, indipendentemente da una lesione e quindi di un piano diverso da quello procedimentale e processuale. 15 Il diritto dell’Unione europea impone, in tutti gli ambiti del suo intervento, una tutela efficace del cittadino nei confronti dell’amministrazione; nello stesso tempo non contempla la figura dell’interesse legittimo, anche perché essa è utilizzata quasi solo nel diritto italiano. Il diritto dell’Unione, per i rapporti fra cittadino e amministrazione, non discrimina fra diritti soggettivi e interessi legittimi. Di conseguenza, prevede una tutela del cittadino che non è condizionata, nei suoi risultati, dalla qualificazione delle posizioni soggettive nel nostro ordinamento come interesse legittimo, anziché come diritto soggettivo. Nel complesso, l’incidenza del diritto dell’Unione europea potrebbe condurre nel nostro Paese ad attenuare la contrapposizione fra interesse legittimo e diritto soggettivo. • Diritti soggettivi assoluti La Corte di cassazione, al fine di tutelare maggiormente i diritti soggettivi, inizia ad individuare alcuni diritti soggettivi assoluti, insensibili all’esercizio del potere autoritativo dell’amministrazione e la cui giurisdizione rimane in capo al giudice ordinario. Il contrasto tra diritto assoluto e provvedimento amministrativo si traduce nella declaratoria di nullità di quest’ultimo per difetto assoluto di attribuzione. Uno dei diritti soggettivi sembra essere il diritto alla salute anche se gli orientamenti della giurisprudenza non sono univoci per cui esso viene considerato sia come diritto fondamentale assolutamente incomprimibile, sia come interesse legittimo al corretto esercizio del potere di organizzazione del servizio sanitario nazionale. Il contributo della giurisprudenza; la questione dei diritti “costituzionalmente tutelati” Ad opera della Corte di Cassazione, quale giudice di giurisdizione, si è consolidata, ormai da tempo, una interpretazione comune sull’identificazione della maggior parte delle situazioni corrispondenti ad interessi legittimi. Per distinguere gli interessi legittimi dai diritti soggettivi, la giurisprudenza ha accolto una serie di criteri. In questa sede vengono richiamati quelli più significativi: I) Tesi della distinzione fra norme d’azione e norme di relazione. Alla stregua di questa concezione, l’ordinamento comprenderebbe norme d’azione, che disciplinano un potere e il suo esercizio, e norme di relazione, che disciplinano un rapporto intersoggettivo e i suoi effetti. A questa coppia di norme corrisponderebbe la coppia “interesse legittimo – diritto soggettivo”. II) Tesi della distinzione fra attività vincolata nell’interesse pubblico e attività vincolata nell’interesse privato. Uno dei problemi maggiori è rappresentato dalla valutazione delle posizioni soggettive di fronte all’attività vincolata dell’amministrazione. Secondo la giurisprudenza, l’interesse legittimo si caratterizzerebbe per il suo confronto con un interesse pubblico. Di conseguenza, se il potere dell’amministrazione è discrezionale, sarebbe configurabile un interesse legittimo; se invece il potere è vincolato, allora si dovrebbe distinguere se il potere sia attribuito nell’interesse del cittadino (vi sarebbe in questo caso un diritto soggettivo) o nell’interesse dell’amministrazione (vi sarebbe in questo caso un interesse legittimo). Pertanto, secondo la Cassazione, in certi casi di attività vincolata il cittadino sarebbe titolare di un diritto nei confronti dell’amministrazione al rilascio di un provvedimento amministrativo. In altri casi, invece, a fronte di provvedimenti vincolati si ammettono interessi legittimi. 16 III) Tesi della distinzione fra cattivo esercizio del potere e carenza di potere. Alla stregua di questa tesi, accolta dalla Cassazione a partire dal secondo dopoguerra, non è sufficiente la considerazione della titolarità del potere da parte dell’amministrazione per identificare la posizione del cittadino come di interesse legittimo: la valutazione deve coinvolgere anche il vizio (prospettato) rispetto all’atto amministrativo. Infatti, nel caso di cattivo esercizio di potere (: vizi di incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere) l’illegittimità del provvedimento non incide sulla sua efficacia (finché il provvedimento non sia annullato) ed è configurabile solo una posizione di interesse legittimo. Invece, nel caso di carenza di potere (: straripamento di potere o incompetenza assoluta, carenza di presupposti necessari) il vizio preclude la stessa efficacia giuridica dell’atto e la posizione soggettiva del cittadino rimane quella originaria, come era in assenza dell’intervento dell’amministrazione. Se vi è carenza di potere, infatti, l’amministrazione, in realtà, non esercita in modo efficace alcun potere e pertanto non sarebbe identificabile neppure un interesse legittimo. La legge 11 febbraio 2005, n. 15, ha distinto, in termini generali, fra ipotesi di annullabilità dell’atto amministrativo e ipotesi di nullità. La nullità si configura, in particolare, nel caso del provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali e del provvedimento che è viziato da difetto assoluto di attribuzione. L’atto amministrativo nullo, secondo i principi generali, dovrebbe essere inefficace: di conseguenza, l’atto amministrativo nullo non potrebbe neppure incidere sulla posizione soggettiva del cittadino, estinguendola o modificandola. IV) Teoria dei diritti “costituzionalmente tutelati”. Nei rapporti con l’amministrazione disciplinati dal diritto pubblico il cittadino non è sempre titolare di un interesse legittimo: in alcuni casi è stato escluso che gli atti dell’amministrazione potessero essere qualificati come esercizio di un potere amministrativo e si riconosce senz’altro al cittadino la titolarità di un diritto soggettivo. Si pensi ai c.d. diritti personalissimi (diritto all’integrità personale, diritto al nome), sui quali l’amministrazione per definizione non può incidere perché non è mai titolare di un potere, o a certi diritti definiti e tutelati come tali dal legislatore anche in relazioni giuridiche di diritto pubblico (diritto all’indennità di esproprio, diritto del cittadino rispetto a trattamenti sanitari obbligatori). A queste situazioni, che trovano riscontro nel diritto positivo la Cassazione negli ultimi decenni del Novecento assimilò il caso di altri diritti ritenuti particolarmente importanti sul piano costituzionale: in particolare il diritto alla salute o alla salubrità dell’ambiente. Era così delineata la figura dei c.d. diritti costituzionalmente tutelati o protetti. L’interesse legittimo come posizione soggettiva differenziata e qualificata Non è sufficiente, però, la configurabilità di un potere dell’amministrazione perché si possa identificare anche un interesse legittimo. L’interesse legittimo è anzitutto una posizione che identifica un interesse proprio del cittadino: per questa ragione non può essere considerato come una posizione meramente riflessa rispetto al potere dell’amministrazione. L’interesse legittimo non è neppure una posizione diffusa, di cui possano essere titolari i cittadini in quanto tali, ma è una posizione soggettiva, di cui cioè sono titolari solo soggetti determinati. L’esercizio di un potere 17 dell’amministrazione può interessare, seppure in modi diversi, tutti i cittadini. Non tutti i cittadini, però, sono titolari di un interesse legittimo rispetto a quell’esercizio del potere: rispetto all’esercizio del potere espropriativo, titolari di un interesse legittimo è il proprietario che viene espropriato, non invece qualsiasi cittadino di quel Comune. Vengono considerati due criteri cumulativi: 1. Il primo ed elementare è quello della c.d. differenziazione: proprio perché l’interesse legittimo è una posizione soggettiva, esso presuppone in capo al titolare la sussistenza di una posizione di interesse diversa e più intensa rispetto a quella della generalità dei cittadini. L’interesse legittimo deve perciò essere differenziato; tuttavia questo criterio non è sufficiente, anche perché rischia di essere approssimativo. 2. Il secondo criterio è quello della qualificazione: perché si possa avere un interesse legittimo è necessario che il potere dell’amministrazione coinvolga un soggetto che, rispetto a tale potere, sia titolare di un interesse non solo differenziato, ma anche sancito e riconosciuto dall’ordinamento. In altre parole, l’identificazione dei soggetti più direttamente interessati dovrebbe essere effettuata non secondo criteri “quantitativi” o “economici”, ma secondo criteri squisitamente giuridici, e quindi sulla base della norme che disciplina il potere. La qualificazione viene frequentemente ricavata dalla giurisprudenza in base alla rilevanza attribuita a quell’interesse dall’ordinamento nel suo complesso e all’incidenza concreta dell’azione amministrativa su tale interesse. L’interesse legittimo come posizione di diritto sostanziale In passato l’attenzione sulla figura dell’interesse legittimo si è concentrata particolarmente su un aspetto: quello della modalità della tutela nel caso di lesione di un interesse legittimo. Seguendo questa prospettiva si rilevava, innanzitutto, come la tutela offerta all’interesse legittimo fosse tipicamente impugnatoria: a fronte del carattere costitutivo del potere amministrativo e, in particolare, del provvedimento attraverso il quale il potere si realizza con effetti esterni, sembrava logico che la tutela dovesse avere un carattere altrettanto costitutivo, perché doveva eliminare l’effetto giuridico prodotto dall’esercizio del potere. Si noti che in questo modo si istituiva un parallelismo fra il carattere costituivo del potere e il carattere costitutivo della tutela offerta all’interesse legittimo: questo parallelismo consentiva di porre su un identico piano, quanto agli effetti, l’attività amministrativa e il sindacato giurisdizionale su di essa. All’interesse legittimo sembrava corrispondere perciò una tutela tipica, di tipo costitutivo, diretta ad elidere gli effetti del provvedimento lesivo. Mentre la tutela del diritto soggettivo assicurerebbe direttamente la pretesa al bene della vita in cui si sostanzia il diritto, la tutela dell’interesse legittimo attuerebbe solo un soddisfacimento indiretto, che si realizza attraverso l’eliminazione degli atti amministrativi lesivi. Si tendeva a considerare l’interesse legittimo come una figura di ordine squisitamente processuale, per lo meno nel senso che avrebbe assunto rilievo solo sul piano dell’azione giurisdizionale, e cioè ai fini della legittimazione al ricorso e ai fini dell’individuazione del soggetto abilitato a contestare la legittimità dell’operato dell’amministrazione. Questa concezione oggi sembra recessiva, ma non è stata abbandonata del tutto, e comunque ha condizionato in profondità la giurisprudenza (basti pensare alla rigidità con cui fino alla fine del secolo scorso veniva negato il risarcimento dei danni per lesione degli interessi legittimi). Nel nostro ordinamento la tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo si configura, in genere, come tutela successiva: presuppone che sia già intervenuta una lesione dell’interesse protetto. Per 20 Nel nostro Paese, la disciplina dell’amministrazione è ricondotta tipicamente al diritto civile; nei suoi sviluppi, concernenti il risarcimento dei danni provocati da provvedimenti dell’amministrazione, ha avuto una notevole importanza per la figura dell’interesse legittimo. a) Fino agli ultimi anni del Novecento, le vertenze risarcitorie erano riservate al giudice civile e la giurisprudenza civile ammetteva una responsabilità dell’amministrazione solo nel caso di lesione di un diritto soggettivo. Pertanto, se il danno era arrecato invece a un interesse legittimo, era escluso un diritto al risarcimento. Si ricavava anche una regola pratica sul rapporto fra giurisdizioni. Se il risarcimento doveva essere preceduto dall’annullamento del provvedimento lesivo, era necessario esperire l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo prima dell’azione civile per i danni, che allora era riservata al giudice ordinario. Solo dopo l’annullamento del provvedimento si poteva ammettere il diritto al risarcimento. b) La giurisprudenza era pertanto ampiamente negativa riguardo alla risarcibilità degli interessi legittimi. Il risarcimento del danno causato ad interessi legittimi era tendenzialmente escluso; in genere il risarcimento era ammesso solo per la lesione di un diritto soggettivo. Questa posizione fu abbandonata dalla Cassazione con la sentenza delle Sezioni Unite 22 luglio 1999, n. 500. Gli argomenti invocati per il mutamento di indirizzo furono, innanzitutto, di ordine sostanziale. Nella sentenza la Cassazione riconosceva espressamente la natura sostanziale dell’interesse legittimo e rilevava la coerenza fra la natura sostanziale e la possibilità del risarcimento, nel caso di lesione. Nello stesso tempo, però, sottolineava la specificità dell’interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo, sostenendo che per il risarcimento non era sufficiente la lesione dell’interesse legittimo in quanto tale, ma che era necessaria anche una lesione al “bene della vita” correlato all’interesse. Nel caso del diritto, la lesione del bene della vita è lesione dell’interesse sostanziale che si identifica col diritto soggettivo e perciò, di regola, non richiede verifiche particolari. In concreto, quando l’interesse legittimo riguarda una posizione di vantaggio che il cittadino intende conservare nei confronti dell’amministrazione che esercita il suo potere, il danno risarcibile si identifica col sacrificio della posizione di vantaggio (: bene della vita) ad opera del provvedimento illegittimo. Gli interessi legittimi che ineriscono alla conservazione di un bene o di un’altra posizione di vantaggio attuale sono designati interessi oppositivi. Invece, se l’interesse legittimo inerisce alla pretesa del cittadino di ottenere un provvedimento favorevole che gli attribuisca un bene o una posizione di vantaggio (c.d. interesse pretensivo), un danno risarcibile si configura concretamente solo se la pretesa del cittadino sarebbe stata destinata ad ottenere un esito positivo. Si noti che, in questo quadro, viene meno anche la necessità di subordinare l’azione per danni al previo annullamento del provvedimento amministrativo. Tale necessità si ricavava dall’esigenza di ripristinare la posizione originaria di diritto soggettivo, estinta dal provvedimento amministrativo (o degradata in interesse legittimo). Nel momento in cui si riconosce la risarcibilità dell’interesse legittimo, non vi è più la necessità dell’annullamento del provvedimento lesivo. Le Sezioni Unite, nell’ammettere la possibilità del risarcimento per lesioni di interessi legittimi, precisarono che in questo caso si doveva applicare pienamente il modello di responsabilità extracontrattuale previsto dall’art. 2043 c.c. Per il risarcimento degli interessi legittimi era quindi essenziale la dimostrazione della imputabilità dell’illecito all’amministrazione a titolo di colpa o di dolo. 21 c) L’intervento delle Sezioni Unite fu accolto con favore dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Alla pronuncia del 1999 fece però seguito, l’anno successivo, la legge n. 205/2000, che estese la giurisdizione amministrativa alle vertenze risarcitorie: di conseguenza, la giurisdizione per il risarcimento dei danni per lesione ad interessi legittimi fu devoluta globalmente ai giudici amministrativi. Nello stesso tempo, su alcuni profili nodali si è avviato un vivace dibattito. La giurisprudenza amministrativa si orientò nel senso che il risarcimento richiedesse il previo annullamento dell’atto lesivo; questa soluzione fu criticata dalla Cassazione. Un altro profilo controverso fu rappresentato dal peso assegnato dalla Cassazione alla lesione al “bene della vita”, soprattutto con riferimento agli interessi pretensivi. La tesi secondo cui per questi interessi il risarcimento dei danni sarebbe stato subordinato alla dimostrazione della spettanza di un risultato utili fu subito oggetto di riserve e critiche. Interessi legittimi e interessi semplici Dal novero delle posizioni soggettive istituzionalmente garantite nel nostro ordinamento rimangono estranei i c.d. interessi semplici. In genere essi vengono individuati in via negativa: corrispondono agli interessi che non assurgono né al livello dei diritti soggettivi; né al livello degli interessi legittimi. Sono interessi semplici, per esempio, gli interessi dei cittadini che non risultano differenziati: fra essi la giurisprudenza include, in genere, gli interessi dei cittadini rispetto alle modalità di un servizio pubblico reso alla collettività. La tutela degli interessi semplici è prevista solo in casi eccezionali, da disposizioni che hanno una portata tassativa. La gravità di questa conseguenza ha suscitato un ampio dibattito, che ha coinvolto sia la dottrina che la giurisprudenza. La discussione ha riguardato in primo luogo gli interessi c.d. collettivi o di categoria (interessi dei soggetti appartenenti a una categoria lavorativa, professionale, di utenti…). Nei confronti degli atti amministrativi che riguardano specificamente la categoria, può configurarsi in capo a ciascun appartenente un interesse qualificato. In questo ambito, però, operano anche organismi privati (associazioni sindacali) o talvolta pubblici (ordini professionali) che sono rappresentativi o esponenziali della categoria. In passato, si è discusso se, nei confronti dell’attività amministrativa concernente la categoria, fossero titolari di un interesse legittimo anche gli organismi che rappresentassero la categoria: l’organismo rappresentativo farebbe valere infatti un interesse che non sarebbe direttamente proprio, ma che piuttosto sarebbe specifico dei suoi associati e solo di riflesso coinvolgerebbe l’organismo stesso. La giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto in capo a questi organismi la titolarità dell’interesse di categoria e la capacità di farlo valere come un proprio interesse legittimo. La discussione più vivace ha riguardato, però, gli interessi diffusi, che corrispondono all’interesse generale dei cittadini a certi beni comuni, come l’ambiente, ecc. e per i quali la giurisprudenza negli anni ’70 del Novecento aveva escluso ogni tutela, argomentando proprio sulla loro distinzione dagli interessi legittimi. In seguito al dibattito suscitato da questa giurisprudenza, il legislatore interveniva con alcune disposizioni speciali che ammettevano la tutela di determinati interessi diffusi, demandandola però non al singolo cittadino interessato, bensì a particolari associazioni. Nel nostro ordinamento, la tutela degli interessi legittimi è assicurata, anche da disposizioni costituzionali, con riferimento ai vizi di legittimità; invece solo raramente è ammessa con riferimento ai vizi di merito. 22 I PRINCIPI COSTTIUZIONALI SULLA TUTELA GIURISDIZIONALE DEL CITTADINO NEI CONFRONTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE I principi dei Trattati UE e della CEDU L’art. 1 c.p.a. afferma che la giurisdizione amministrativa deve attuare una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione: riconosce così che anche la giurisdizione amministrativa deve conformarsi al livello della tutela del cittadino desumibile dei principi costituzionali. Lo stesso articolo richiama, agli stessi fini, i principi del diritto europeo (principi del diritto dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Il riferimento al diritto dell’Unione europea concerne, innanzitutto, i Trattati europei. Il Trattato di Lisbona richiama a sua volta la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, assegnandole lo stesso valore giuridico dei Trattati. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e vari altri atti comunitari delineano un sistema di garanzie nei confronti dell’Unione, con riflessi importanti anche per la tutela dei cittadini. Con riferimento ai singoli istituti processuali, va segnalata l’ampia giurisprudenza della Corte di giustizia sulle misure cautelari nei confronti degli atti amministrativi, che ha avuto riflessi sulla disciplina italiana, in particolare affermando l’esigenza di arricchire i contenuti della tutela e di ammettere, in materia di appalti pubblici, misure cautelari ante causam. Tuttavia, fino ad oggi, anche gli interventi della Corte di giustizia non sembrano indirizzati a definire in modo organico un diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione. La preoccupazione principale della Corte pare soprattutto un’altra: quella di assicurare che le modalità di tutela giurisdizionale negli ordinamenti nazionali siano adeguate all’esigenza di salvaguardare gli interessi e il diritto dell’Unione europea. Il diritto europeo richiamato dall’art. 1 c.p.a. (codice processo amministrativo) è rappresentato anche dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (c.d. Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Il rilievo della Convenzione è cresciuto, perché la Corte costituzionale ha affermato che la sua violazione può essere motivo di illegittimità costituzionale. L’art. 6 dispone: “ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale, costituito dalla legge…”. Sistema comunitario e sua influenza sui modelli nazionali di giustizia L’influenza del diritto comunitario sui sistemi di giustizia amministrativa degli Stati membri si esplica anche attraverso il rilievo dei principi generali dell’ordinamento comunitario che sono elaborati dalla Corte di giustizia e vincolanti per gli stati membri. Tra tali principi ricordiamo: 1. Giusto processo (il processo deve fornire risposta in un termine ragionevole, il giudice deve essere precostituito per legge, indipendente ed imparziale ecc) 2. Effettività della tutela (le posizioni tutelate devono trovare protezione in sede giurisdizionale e dunque ogni controversia deve avere un suo giudice nazionale o comunitario. In altre parole il principio di effettività si presenta come il diritto al giudice in relazione ai diritti ed alle libertà garantite dal diritto dell’Unione qualora esse vengano violate). 25 amministrativa. La discussione non si è ancora spenta e verte particolarmente sulla contiguità, nel Consiglio di Stato, di funzioni giurisdizionali e di funzioni consultive. I principi sull’azione: l’art. 24 e 111 L’art. 24, comma 1, Cost. garantisce il diritto d’azione, sia per la tutela di diritti soggettivi, che per la tutela di interessi legittimi (Tutti possono agire in giudizio per la tutela di propri diritti soggettivi e interessi legittimi). La norma ha suscitato una serie di vincoli e di problemi: A) È di rango costituzionale il principio secondo cui la tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione è articolata in tutela dei diritti soggettivi e in tutela degli interessi legittimi. B) La collocazione, sullo stesso piano, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi ha fatto sorgere la convinzione che la Costituzione sancisse una certa interpretazione dell’interesse legittimo, da intendersi come posizione qualificata di carattere sostanziale, proprio perché anche il diritto soggettivo è tipicamente posizione di carattere sostanziale. Di conseguenza, per effetto dell’interpretazione accolta dalla norma costituzionale, l’interesse legittimo assurgerebbe al rango di interesse individuale del cittadino che lo fa valere. In realtà, non sembra che da una disposizione costituzionale come l’art. 24 si possano desumere argomenti specifici a favore dell’interpretazione sostanziale dell’interesse legittimo. La norma afferma il principio della pienezza della tutela e orienta in questo senso sia la disciplina del processo civile che quella del processo amministrativo. Rispetto all’assetto della giustizia amministrativa, i principi desumibili dall’art. 24 Cost. hanno avuto una rilevanza particolare. All’art. 24 è ricondotto il criterio dell’effettività della tutela giurisdizionale, in base al quale ogni situazione giuridica riconosciuta sul piano sostanziale deve essere considerata come valore guida per qualsiasi interpretazione della giustizia amministrativa e dei suoi istituti. Inoltre l’art. 24 Cost. è stato la ragione per alcuni interventi significativi della Corte costituzionale su singoli istituti della giustizia amministrativa: a) Rilevanza del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale rispetto alla tutela cautelare. La garanzia del diritto di azione comporta anche la necessità che sia assicurata la possibilità di esercitare tale diritto in tutte le modalità che sono ad esso connaturate. In particolare comporta non solo la possibilità di una tutela nei confronti dell’amministrazione attraverso l’impugnazione di provvedimenti in vista del loro annullamento, ma anche la possibilità di chiedere al giudice amministrativo misure cautelari, per evitare che la durata del giudizio produca un danno irreparabile all’interesse del ricorrente. Il ricorso al giudice amministrativo non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato: solo con istanza della parte, per evitare un pregiudizio grave e irreparabile, è possibile chiedere la sospensione del provvedimento. Nel caso del processo amministrativo la Corte costituzionale ha sempre valutato con rigore gli interventi del legislatore che limitavano la possibilità di una tutela cautelare. Essa affermò che la tutela cautelare ineriva naturalmente alla tutela giurisdizionale e che, in particolare, la possibilità di sospensione del provvedimento impugnato costituiva una componente della tutela giurisdizionale di annullamento. 26 b) Rilevanza del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale nel giudizio in materia di pubblico impiego. In questa materia la Corte costituzionale ha dato rilievo anche all’esigenza di assicurare per i pubblici dipendenti una tutela equipollente a quella ammessa ai dipendenti con rapporto di lavoro privato. Oggi, in base al codice, la tutela cautelare nel processo amministrativo non incontra più limiti riconducibili alla tipicità delle misure ammesse. c) Rilevanza del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale e limiti alla c.d. giurisdizione condizionata. per “giurisdizione condizionata” si intende l’accesso alla tutela giurisdizionale che risulti subordinato al previo esperimento di un ricorso in via amministrativa. In questi casi, poiché l’azione giurisdizionale è ammessa solo dopo la presentazione del ricorso amministrativo, non è possibile adire immediatamente il giudice. La questione dell’ammissibilità della giurisdizione condizionata ha pertanto due risvolti: il primo attiene alla subordinazione dell’azione giurisdizionale a un adempimento estraneo al processo, come è il ricorso amministrativo; il secondo attiene alla esclusione della immediatezza della tutela giurisdizionale. La prima giurisprudenza della Corte affermò che l’art. 24 non avrebbe contemplato, fra i contenuti del diritto di azione, anche il diritto all’immediatezza dell’azione: la garanzia costituzionale avrebbe riguardato la indefettibilità dell’azione giurisdizionale, e non la sua immediatezza. A partire dalla fine degli anni ’80 del Novecento è maturato un diverso indirizzo della Corte costituzionale, che ha considerato con maggiore severità le disposizioni che condizionavano l’ammissibilità della tutela giurisdizionale al previo esperimento di un ricorso amministrativo. d) Rilevanza del principio della effettività della tutela giurisdizionale e subordinazione della tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi al previo espletamento di un procedimento amministrativo. In materia di indennità di esproprio sono configurabili posizioni di diritto soggettivo: la loro tutela è devoluta al giudice ordinario. e) Illegittimità dell’arbitrato obbligatorio. La possibilità per le parti di convenire che una vertenza sia decisa da arbitri, anziché dal giudice, è ammessa pacificamente nel nostro ordinamento per quanto concerne le vertenze in tema di diritti soggettivi. Il codice di procedura civile, nel disciplinare la devoluzione ad arbitri di controversie (art. 806 ss.), non pone limitazioni particolari rispetto alle controversie con una Pubblica amministrazione. In passato la Corte di cassazione escludeva che le parti potessero rimettere ad arbitrato le vertenze devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, perché considerava l’arbitrato come alternativo al giudizio civile. Il codice di procedura civile prevede che la devoluzione ad arbitri di una controversia richieda un accordo fra le parti, di natura contrattuale (compromesso, o clausola compromissoria). Alcune leggi speciali, tuttavia, avevano previsto forme di forme di arbitrato obbligatorio, nel senso che al privato era precluso il ricorso al giudice nei confronti dell’amministrazione ed era ammessa la tutela solo davanti a un collegio arbitrale, pur in assenza di compromesso o di clausola compromissoria. La Corte costituzionale ha ritenuto illegittime queste disposizioni, rilevando che l’esclusione della competenza del giudice può trovare fondamento solo in una scelta compiuta dalle parti; ha dichiarato 27 illegittime anche quelle disposizioni che introducevano forme di arbitrato obbligatorio nelle vertenze fra il cittadino e l’amministrazione in tema di liquidazione di indennità, di rapporti patrimoniali per servizi pubblici, di appalti pubblici, di tariffe amministrative. In passato le previsioni di arbitrati obbligatori avevano riguardato soprattutto i contratti pubblici. Attualmente, in questo ambito, la devoluzione della controversia non è imposta dalla legge, ma è rimessa sempre a una scelta dell’amministrazione, che deve essere dichiarata all’inizio della procedura di evidenza pubblica; all’aggiudicatario, inoltre, è riconosciuta la facoltà, da esercitarsi entro un termine perentorio, di escludere l’arbitrato. L’art. 111 Cost. stabilisce che il processo deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti: la garanzia costituzionale del contraddittorio, che era precedentemente desunta dall’art. 24 Cost., oggi assume ancora maggiore evidenza, come componente del giusto processo. Il principio del contraddittorio si esprime in primo luogo nella regola secondo cui il giudice non può statuire sulla domanda se le parti nei cui confronti sia stata proposta non siano state regolarmente evocate in giudizio. Il principio del contraddittorio integra innanzitutto il diritto di difesa. Esso vale non soltanto per il processo di cognizione, ma si applica ad ogni ordine del processo amministrativo; si estende pertanto anche al giudizio di esecuzione. Il principio del contraddittorio ha una portata anche più generale: esige che ogni parte sia posta nelle condizioni di interloquire su ogni questione rilevante per la decisione della vertenza. La giurisprudenza amministrativa spesso ha invocato il principio del contraddittorio anche a favore del ricorrente, come elemento di diritto d’azione, per sostenere, ad esempio, che il cittadino deve essere posto nelle condizioni di conoscere con pienezza l’attività amministrativa che intende contestare in giudizio. Nel principio del contraddittorio troverebbero, cos’, una maggiore garanzia istituti che precedono la stessa instaurazione del giudizio, come l’accesso agli atti amministrativi, o che consentono di integrarne l’oggetto. I principi sull’azione: l’art. 113 Cost. L’art. 113 Cost. detta una serie di regole che attengono alla tutela del cittadino nei confronti dell’amministrazione. Queste regole sono espresse dal principio secondo cui la circostanza che un’amministrazione sia parte in causa, o che il giudizio verta su di un atto amministrativo non può in alcun modo giustificare limitazioni alla tutela giurisdizionale del cittadino. Anzi, la considerazione che si tratta di un soggetto pubblico deve condurre al superamento della concezione dell’amministrazione come potere separato e all’assoggettamento della sua attività alle esigenze della legalità, con esclusione di qualsiasi privilegio processuale. a) L’art. 113 Cost. definisce il rapporto fra la garanzia della tutela giurisdizionale e la posizione dell’amministrazione. La tutela giurisdizionale contro gli atti della Pubblica amministrazione è sempre ammessa (anche lo stato di detenzione non può giustificare la limitazione della tutela giurisdizionale). La norma costituzionale precisa che la garanzia della tutela giurisdizionale contro gli atti dell’amministrazione vale sia per i diritti soggettivi che per gli interessi legittimi. La distribuzione della giurisdizione fra giudice ordinario e giudice amministrativo deve essere tale da assicurare la pienezza di tale tutela. b) L’art. 113 Cost. impedisce di circoscrivere i margini della tutela giurisdizionale, in relazione alla tipologia degli atti amministrativi impugnati o della tipologia dei vizi fatti valere in giudizio. 30 posizione giuridica soggettiva, come risulta dagli atti introduttivi del giudizio. Ciò che rileva è la situazione soggettiva che viene fatta valere, così come prospettata dal cittadino nella sua domanda giudiziale. c) La tesi accolta dalla Cassazione è stata designata più di recente come tesi del petitum sostanziale: ciò che rileva ai fini del riparto giurisdizionale non è la prospettazione ad opera della parte della situazione giuridica fatta valere in giudizio, ma è l’effettiva natura di questa posizione e la sua oggettiva qualificazione come diritto soggettivo o interesse legittimo. I limiti esterni della giurisdizione civile vanno identificati sulla base di questo criterio. Il giudice non può fermarsi alla qualificazione della posizione soggettiva come enunciata da una parte, ma deve verificare d’ufficio l’esattezza di tale qualificazione. I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di cognizione Il tema dei limiti interni della giurisdizione ordinaria attiene all’individuazione dei poteri che il giudice civile, nelle controversie di sua competenza, può esercitare nei confronti dell’amministrazione. Si tratta quindi di stabilire quali pronunce possano essere assunte davanti al giudice civile, nelle controversie sui diritti soggettivi, rispetto a una pubblica amministrazione. A questi fini ha portata generale l’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, che vieta al giudice ordinario di revocare o modificare l’atto amministrativo. In passato, però, il divieto di revoca e di modifica dell’atto amministrativo è stato interpretato estensivamente, nella logica di assicurare una maggiore protezione dell’amministrazione da interventi del giudice ordinario. Naturalmente, ne risultava drasticamente limitata la tutela dei diritti soggettivi del cittadino. a) A questi fini è necessario, in primo luogo, considerare la nozione di atto amministrativo (o di atto dell’autorità amministrativa). Questa nozione è decisiva per individuare i poteri del giudice ordinario nei confronti dell’amministrazione. In passato questa nozione veniva identificata tendenzialmente con qualsiasi atto dell’amministrazione posto in essere nell’interesse pubblico. Se si accoglie questa concezione, si deve concludere che oggetto di protezione non possono essere soltanto i provvedimenti amministrativi, ma devono essere anche i comportamenti materiali dell’amministrazione di per sé non regolari, ma comunque indirizzati a soddisfare un interesse pubblico. Questa interpretazione è stata considerata a lungo con favore della Cassazione. Essa comporta, però, una netta riduzione dei poteri del giudice ordinario, in funzione dell’esigenza generica di garantire l’interesse pubblico. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione questa interpretazione non ha più alcuna ragion d’essere. Oggetto di protezione non può essere una qualsiasi modalità con cui l’amministrazione persegua l’interesse pubblico, ma può essere solo ciò che già in base alla legge è soggetto a un regime differenziato. La garanzia può riguardare solo l’atto amministrativo, come espressione del potere dell’amministrazione; pertanto là dove l’amministrazione non esercita un potere conferitole dalla legge, non si può ammettere alcuna limitazione ai poteri del giudice. La garanzia dell’atto amministrativo, in definitiva, trova la sua ragione e la definizione del suo ambito nel principio di legalità: là dove non opera il principio di legalità, non vi può essere alcuna immunità dall’intervento giurisdizionale. 31 b) Il tema dei limiti interni della giurisdizione civile è stato affrontato soprattutto, però, con riferimento alle tipologie di sentenze che il giudice ordinario può emettere nei confronti dell’amministrazione. Le uniche sentenze compatibili con l’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo sembravano essere le sentenze di mero accertamento e le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro. Le prime erano ammesse proprio perché il loro carattere dichiarativo esclusive che potessero avere un’efficacia esecutiva e quindi garantiva da qualsiasi incidenza su un’attività provvedimentale dell’amministrazione. Per le sentenze di condanna al pagamento di somme di denaro, la giustificazione era più complessa; in definitiva, anche una condanna del genere obbligava l’amministrazione a porre in essere una propria attività, tuttavia la condanna al pagamento di somme di denaro fu ammessa, sia perché il pagamento di una somma si traduce in un dare tipicamente fungibile, sia perché altrimenti sarebbe stata esclusa qualsiasi garanzia per il cittadino nei confronti dell’amministrazione. Oggi l’interpretazione è questa: il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. In conclusione, oggi non si può ammettere una preclusione generale, per il giudice ordinario, a pronunciare sentenze costitutive o di condanna nei confronti dell’amministrazione. Rimane ferma soltanto la garanzia dell’atto amministrativo in senso proprio. Essa preclude al giudice civile di annullare un atto amministrativo o di condannare l’amministrazione all’esercizio del potere. Non importa, invece, se l’esecuzione della sentenza possa comportare di riflesso la necessità di un’attività amministrativa. Per eseguire la sentenza stessa. La disapplicazione degli atti amministrativi Come si è già accennato, la legge di abolizione del contenzioso amministrativo assegnò al giudice ordinario, quasi a compensare l’esclusione di un potere di annullamento degli atti amministrativi, la capacità di procedere alla c.d. disapplicazione. Dopo aver disposto, all’art. 4, che i giudici civili non potevano revocare o modificare l’atto amministrativo e dovevano limitarsi a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, l’art.5 della legge del 1865 disponeva che “in questo, come in ogni altro caso le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi e i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi. Il rapporto fra le due disposizioni è all’origine di un dibattito che non si è ancora risolto. L’art. 5, con l’inciso “in questo, come in ogni altro caso”, sembra alludere a una portata più ampia rispetto all’art. 4: probabilmente, però, ha soprattutto un carattere rafforzativo e sottolinea la portata del principio affermato. Punti fermi che possiamo andare a definire sono: la disapplicazione presuppone l’esistenza di una controversia su un diritto soggettivo (perché inerisce ai limiti interni della giurisdizione ordinaria); il sindacato sugli atti amministrativi e sui regolamenti ai fini della loro disapplicazione concerne solo la legittimità, e non l’opportunità, degli stessi; attraverso la disapplicazione il giudice può sindacare la legittimità dell’atto amministrativo anche d’ufficio, per il solo fatto che l’atto è un elemento rilevante per la decisione, senza la necessità di domande o eccezioni delle parti; il sindacato sulla legittimità dell’atto non è soggetto all’osservanza di alcun termine particolare. In questo modo la disapplicazione si presenta come elemento di un modello di tutela alternativo 32 rispetto all’impugnazione del provvedimento, e non come una sorta di compensazione per il giudice ordinario del divieto di annullamento. Il giudice ordinario e i procedimenti speciali nei confronti dell’amministrazione Le regole desumibili dagli artt. 4 e 5 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo hanno una portata generale. Ciò non significa però che esse non incontrino deroghe o eccezioni. La stessa giurisprudenza è indirizzata ad escludere che i limiti affermati dall’art. 4 possano essere invocati per circoscrivere la tutela possibile rispetto a diritti perfetti o diritti costituzionalmente protetti. a) La tutela giurisdizionale del cittadino dei provvedimenti amministrativi con cui siano state applicate sanzioni amministrative pecuniarie spetta in genere al giudice ordinario. La previsione di una competenza del giudice ordinario per il sindacato di un provvedimento amministrativo suscitò in passato ampie discussioni nella dottrina e fu prospettata da alcuni autori la tesi secondo cui si sarebbe trattato in realtà di una ipotesi eccezionale di giurisdizione del giudice ordinario estesa anche ad interessi legittimi. In materia di sanzioni amministrative il cittadino può ricorrere proponendo opposizione contro l’ordinanza ingiunzione, mentre prima dell’emanazione del provvedimento sanzionatorio è ammessa soltanto la presentazione di difese e documenti nel procedimento sanzionatorio. La contestazione può investire qualsiasi profilo della pretesa sanzionatoria dell’amministrazione. Il giudizio non segue quindi la logica dell’art. 4 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo: al giudice ordinario è conferito espressamente un potere di sospensione e di annullamento del provvedimento amministrativo. Inoltre, la previsione espressa di un potere di modifica del provvedimento determina una piena fungibilità dei poteri decisori del giudice rispetto ai poteri dell’amministrazione. c) Per gli accertamenti e per i trattamenti sanitari obbligatori in condizioni di degenza ospedaliera, l’art. 35 della legge 23 dicembre 1978, n. 883, prevede che il Sindaco sia competente a ordinare l’effettuazione del trattamento; il provvedimento del Sindaco è immediatamente efficace, ma deve essere convalidato dal giudice tutelare entro un termine perentorio molto breve. d) Nei confronti del provvedimento del Prefetto di espulsione di stranieri, il d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ha previsto che la tutela vada esperita in genere avanti al giudice ordinario: il ricorso va proposto entro 60 giorni al giudice civile. e) La decisione del Garante su un ricorso proposto a tutela dei diritti di privacy può essere impugnata dagli interessati, entro 30 giorni dalla comunicazione, davanti al Tribunale civile. Le disposizioni processuali particolari per il giudizio in cui sia parte un’amministrazione statale La circostanza che parte in giudizio sia una pubblica amministrazione non comporta, di per sé, alcuna variazione delle regole del processo comune: semmai in alcune disposizioni viene attribuito rilievo alla materia su cui verte il giudizio. Unica variazione di rilievo rispetto alle regole ordinarie è quella determinata dalla disciplina dell’Avvocatura dello Stato, nel caso di giudizi in cui sia parte un’amministrazione statale. La difesa in giudizio delle amministrazioni statali spetta all’Avvocatura dello Stato, che ha sede presso ciascun distretto di Corte d’appello. L’Avvocatura dello Stato rappresenta e assiste l’amministrazione statale in forza della legge, senza la necessità di uno specifico mandato; di 35 costituzionale, di assicurare una tutela degli interessi legittimi è risultata prevalente anche rispetto alla disciplina legislativa del processo amministrativo. Un ulteriore elemento di complessità è rappresentato dalla giurisdizione esclusiva. In proposito, uno dei principali obiettivi del codice è stata l’introduzione di modalità di tutela più congrue per i diritti soggettivi: in particolare è stata prevista in via generale un’azione autonoma di condanna. Le classificazioni generali: la giurisprudenza di legittimità L’art. 7 c.p.a. definisce l’ambito della giurisdizione amministrativa, con formule generali che vanno lette alla luce dell’art. 103 Cost. e della giurisprudenza costituzionale recente. L’art. 7 prende in considerazione la giurisdizione di legittimità, ne definisce l’ambito attraverso il riferimento alle vertenze concernenti atti o provvedimenti delle pubbliche amministrazioni, a quelle concernenti omissioni e a quelle concernenti il risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi. In questo modo, però, finisce con l’essere trascurato l’elemento storicamente determinante e tuttora fondamentale per definire la giurisdizione di legittimità, che è rappresentato dalla tutela giurisdizionale degli interessi legittimi. La giurisdizione di legittimità è generale proprio perché ha ad oggetto la garanzia degli interessi legittimi. Al giudice amministrativo è assegnata la giurisdizione per le vertenze risarcitorie per lesione di interessi legittimi, anche quando esse siano proposte in via autonoma. Le domande risarcitorie hanno ad oggetto un diritto soggettivo: il diritto al risarcimento dei danni. Solo per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone e per l’incidente di falso, ogni decisione è riservata al giudice ordinario. Si tratta infatti di questioni che possono essere decise solo con efficacia di giudicato. La giurisdizione esclusiva Accanto alla giurisdizione generale sugli interessi legittimi, in alcuni casi è assegnata al giudice amministrativo una giurisdizione anche sui diritti soggettivi (c.d. giurisdizione esclusiva). In questi casi il cittadino può agire davanti al giudice amministrativo non solo per tutelare i suoi interessi legittimi o per ottenere il risarcimento dei danni cagionati a tali interessi, ma anche più in generale per tutelare i diritti soggettivi che egli vanta nei confronti di un’amministrazione. Il giudizio può quindi anche vertere su diritti soggettivi diversi dal risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi. Le materie di giurisdizione esclusiva oggi sono sempre più numerose e importanti. Le ipotesi più significative di giurisdizione esclusiva oggi concernono: - Le controversie già assegnate alla giurisdizione esclusiva dalla legge 7 agosto 1990, n. 241. Sono quelle in tema di risarcimento del danno per inosservanza del termine per la conclusione del procedimento, in tema di accordi pubblici, in tema di segnalazione certificata di inizio attività, in tema di silenzio assenso, in tema di accesso ai documenti amministrativi, ecc. - Le controversie concernenti la concessione di beni pubblici. - Vari ordini di controversie in materia di pubblici servizi. - Le controversie relative alle procedure per l’affidamento di contratti di lavori, servizi o forniture da parte delle amministrazioni. - Le controversie concernenti atti o provvedimenti in materia di urbanistica e di edilizia. - Le controversie in materia di occupazioni d0urgenza o espropriazioni per pubblica utilità. 36 - Le controversie relative a rapporti di lavoro del personale in regime pubblicistico (c.d. pubblico impiego). - Le controversie concernenti i provvedimenti adottati dalla Banca d’Italia, da alcune Autorità indipendenti. - Le controversie concernenti i provvedimenti dell’Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni. - Le controversie concernenti le procedure amministrative in tema di impianti di produzione e infrastrutture di trasporto di energia. - Le controversie concernenti i provvedimenti del Sindaco. Nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo può pronunciarsi, con efficacia di giudicato, sia su interessi legittimi che su diritti soggettivi, ferma restando la competenza del giudice ordinario per le questioni concernenti lo stato e la capacità delle persone e per l’incidente di falso. La competenza del giudice amministrativo, nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva, si estende inoltre alle domande risarcitorie, sia per lesione di diritti soggettivi che per lesione di interessi legittimi. La giurisprudenza esclusiva nel codice del processo amministrativo: problemi aperti e nuove prospettive La giurisdizione esclusiva fu introdotta dal legislatore perché in molte vertenze (come in quelle in materia di pubblico impiego) il criterio di riparto di fondo sulle situazioni soggettive risultava insoddisfacente sul piano pratico. In questi casi interessi legittimi e diritti soggettivi risultavano strettamente correlati e un riparto fondato sulla natura delle posizioni soggettive avrebbe potuto obbligare il cittadino a promuovere una pluralità di giudizi, davanti al giudice amministrativo e davanti al giudice ordinario, in relazione a una identica vicenda: l’assegnazione di una vertenza alla giurisdizione esclusiva doveva invece rappresentare un elemento di semplificazione. Per individuare il giudice competente non sarebbe stato più necessario procedere alla verifica della natura delle posizioni soggettive ma stabilire se la vertenza rientrava o meno nell’ambito devoluto dal legislatore al giudice amministrativo in via esclusiva. Il riparto tra giudice amministrativo e giudice ordinario, nelle ipotesi di giurisdizione esclusiva, segue pertanto il criterio della materia: art. 7 c.p.a. Le vertenze riconducibili a quella certa materia vanno proposte davanti al giudice amministrativo, anche se il cittadino faccia valere in giudizio un diritto soggettivo. Non è sempre agevole però. Nell’art. 133 c.p.a. in alcuni casi la devoluzione al giudice amministrativo è prevista rispetto a una generalità di controversie, definite semplicemente per l’inerenza a un istituto generale; in altri casi, invece, è disposta rispetto a singoli procedimenti o provvedimenti (in questo ultimo caso, il giudice amministrativo può decidere anche su vizi che determinano la nullità dell’atto amministrativo, ma non su vertenze che prescindano da un atto dell’amministrazione). Di fronte a queste difficoltà in passato Cassazione e Consiglio di Stato avevano dibattuto soprattutto sulla possibilità di adottare criteri estensivi o restrittivi per la lettura delle previsioni di giurisdizione esclusiva. Secondo la Corte, l’assegnazione di materie, da parte del legislatore, alla giurisdizione esclusiva deve presupporre una relazione (“coinvolgimento”) fra l’ambito devoluto alla giurisdizione esclusiva e un “potere amministrativo”. 37 Alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nel 2004, appare più difficile ammettere, nei casi dubbi, la devoluzione di una vertenza al giudice amministrativo, quando rispetto all’oggetto della vertenza non sia rilevante l’espressione di un potere dell’amministrazione. I problemi maggiori in tema di giurisdizione esclusiva concernono però l’ampiezza e l’effettività della tutela dei diritti soggettivi nella giurisdizione amministrativa. Il criterio della materia, per la giurisdizione esclusiva, comporta che tutte le vertenze fra il cittadino e l’amministrazione inerenti a quella materia siano devolute al giudice amministrativo, senza che sia determinante l’individuazione di un interesse legittimo o di un diritto soggettivo. Se il cittadino è leso in un suo interesse legittimo da un provvedimento, la sua impugnazione secondo le regole generali (art. 29 c.p.a.) non subisce deroga per il fatto che la vertenza inerisca a una materia devoluta alla giurisdizione esclusiva. Inoltre il giudice amministrativo non è soggetto alle limitazioni stabilite dagli artt. 4 e 5 della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, perché esse sono dettate per il giudice ordinario. Di conseguenza il giudice amministrativo, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva, se accoglie il ricorso contro un provvedimento, annulla l’atto impugnato e non può procedere alla disapplicazione, che è rimedio alternativo all’impugnazione e all’annullamento. Il Consiglio di Stato, alla fine degli anni ’30, superò l’equivalenza fra ricorso al giudice amministrativo e impugnazione di un provvedimento, elaborando la distinzione fra provvedimenti ed atti “paritetici”. Quando sia in discussione un diritto soggettivo del cittadino e l’atto dell’amministrazione non costituisca l’esercizio di un potere, ma sia meramente “ripetitivo” di un assetto già stabilito dalla norma, allora non è richiesta l’impugnazione dell’atto, perché comunque la posizione soggettiva fatta valere in giudizio non dipende da esso: si pensi alla vertenza promossa dall’impiegato pubblico nei confronti dell’amministrazione che si rifiuti di corrispondergli la retribuzione dovuta. Il rifiuto dell’amministrazione in questo caso non è un provvedimento che esprima la posizione di un “potere” di un’autorità pubblica, ma è un “atto paritetico”, ossia un atto o un comportamento posto in essere dall’amministrazione come avrebbe potuto porlo in essere un soggetto di diritto comune. Pertanto, in presenza di un atto paritetico non vi è necessità di impugnare l’atto dell’amministrazione e il ricorso non è neppure soggetto a un termine di decadenza. L’art. 12 c.p.a. consente la devoluzione ad arbitrato delle vertenze su diritti assegnate alla giurisdizione esclusiva. La devoluzione di una vertenza su diritti alla giurisdizione esclusiva comporta che l’ultima parola sull’interpretazione delle norme applicabili alla vertenza spetti al Consiglio di Stato, e non alla Cassazione. Le classificazioni generali: la giurisdizione estesa al merito Nel processo amministrativo la prima distinzione generale prospettata storicamente ha riguardato due diverse modalità di tutela degli interessi legittimi, riconducibili entrambe all’impugnazione di atti amministrativi nelle forme dell’azione costitutiva. Dopo l’istituzione della giurisdizione esclusiva, in alcuni casi particolari anche la giurisdizione sui diritti fu associata alla giurisdizione di merito. La stessa soluzione è stata attuata anche nel codice del processo amministrativo, dove l’estensione della giurisdizione al merito non è limitata alla tutela degli interessi legittimi. L’estensione riguarda ipotesi particolari, corrispondenti alla c.d. giurisdizione di merito, rappresentate da alcuni 40 quest’ultimo si differenzia sensibilmente dal giudizio civile di esecuzione forzata, quanto a presupposti: fra l’altro, non è necessario un titolo esecutivo come invece richiede l’art. 474 c.p.c., e di conseguenza non è neppure necessario un intervento tipicamente sostitutivo del giudice amministrativo. Inoltre ha modalità di attuazione specifiche: inerisce alla giurisdizione di merito e perciò consente un intervento tipicamente sostitutivo del giudice amministrativo rispetto all’amministrazione. Nei giudizi promossi a tutela di interessi legittimi, l’azione costitutiva si risolve nell’impugnazione del provvedimento lesivo. In questo modo col ricorso viene richiesto al giudice amministrativo l’annullamento del provvedimento impugnato (art. 29 c.p.a.). Sempre nei giudizi promossi a tutela di interessi legittimi, prima del codice la giurisprudenza escludeva l’azione di accertamento nei casi in cui fosse stata esperibile l’azione di annullamento e questo principio è oggi sancito puntualmente nel codice (il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento). Il giudice non può La contestazione di legittimità di un provvedimento amministrativo può essere svolta solo attraverso un’azione costitutiva, impugnando il provvedimento per chiederne l’annullamento, e se è ammessa l’impugnazione non è consentita un’azione di mero accertamento. Rispetto ai giudizi promossi a tutela di diritti soggettivi, il codice contempla espressamente un’azione di condanna per l’adempimento delle obbligazioni. L’azione di annullamento La disciplina del processo amministrativo si incentra storicamente su un’azione costitutiva: il ricorso al giudice amministrativo è inteso innanzitutto come strumento per impugnare un atto amministrativo al fine di ottenerne l’annullamento. Si tratta quindi di una tutela tipicamente successiva, perché presuppone che l’amministrazione abbia già leso l’interesse del cittadino. Il risultato offerto dalla tutela costitutiva nel processo amministrativo è di regola l’annullamento del provvedimento impugnato; solo nei casi di giurisdizione di merito è ammessa la riforma (art. 34 c.p.a.). In entrambi i casi la domanda giudiziale va proposta entro un termine di decadenza, normalmente di 60 giorni. L’azione di annullamento si presenta, con caratteri sostanzialmente identici, anche quando sia contestato, anziché un provvedimento amministrativo, il silenzio assenso. D’altra parte il silenzio assenso, anche se non è un atto amministrativo, produce gli stessi effetti di un provvedimento. Nel processo amministrativo l’azione di annullamento ha carattere generale: essa è sempre ammessa, ogni qualvolta assuma rilievo un provvedimento lesivo dell’amministrazione. Al carattere generale si associa il carattere di necessarietà dell’azione di annullamento. L’esito dell’azione di annullamento risulta del tutto analogo a quello che può essere perseguito attraverso propri atti dalla stessa amministrazione, in particolare attraverso l’annullamento d’ufficio. L’annullamento in via amministrativa richiede un interesse pubblico specifico. L’azione di mero accertamento Di azione di mero accertamento (o azione dichiarativa) nel processo amministrativo si parla propriamente con riguardo alle vertenze per diritti soggettivi nelle materie di giurisdizione esclusiva. Invece un’azione di mero accertamento a tutela di interessi legittimi è esclusa nei casi in cui sia possibile l’impugnazione di un provvedimento, e problemi particolari concernono la tutela degli interessi legittimi nei casi in cui la lesione non sia riconducibile a un provvedimento amministrativo. 41 Il codice del processo amministrativo non contempla espressamente un’azione generale di accertamento: si limita, infatti, a prevedere un’azione per la declaratoria della nullità degli atti amministrativi. L’ammissibilità dell’azione di accertamento, a tutela dei diritti, si ricava però dai principi generali ed è sostenuta da un’ampia tradizione giurisprudenziale. Oggetto di accertamento può essere sia un diritto patrimoniale, che un diritto non patrimoniale. L’azione di accertamento non è soggetta al termine di decadenza di 60 giorni previsto invece per l’impugnazione dei provvedimenti. Nel processo civile l’azione di accertamento nelle vertenze fra privati in genere è diretta soltanto a risolvere situazioni di incertezza rispetto a una situazione giuridica. Nelle vertenze con l’amministrazione, si deve considerare, però, anche il principio sancito dall’art.4 della legge del 1865, secondo cui l’amministrazione è sempre tenuta a conformarsi al giudicato. Nel caso di inosservanza del dovere dell’amministrazione di conformarsi al giudicato, è esperibile il giudizio di ottemperanza, che assicura l’esecuzione della sentenza e di tutti gli obblighi che ne derivano. In questo modo, anche una sentenza di accertamento nei confronti di un’amministrazione può essere idonea ad innescare una tutela esecutiva. In conclusione, nelle vertenze su diritti devolute alla giurisdizione esclusiva, l’azione di accertamento può rappresentare il rimedio a una lesione di un diritto soggettivo provocata dall’amministrazione. Un’azione di accertamento deve inoltre ammettersi quando la vertenza abbia ad oggetto un provvedimento nullo. In questo caso non i è spazio per un’azione costitutiva: l’atto nullo non produce effetti giuridici, neppure nei confronti dell’amministrazione, mentre l’azione costitutiva presuppone sempre la suscettibilità dell’atto impugnato a produrre effetti giuridici. Il codice ha introdotto comunque una disciplina specifica dell’azione per l’accertamento della nullità di un provvedimento o di un atto amministrativo, per tutti i casi in cui la relativa controversia sia di competenza del giudice amministrativo. In particolare ha previsto che il relativo ricorso vada proposto nel rispetto di un termine di decadenza di 180 giorni (per la decorrenza del termine, vale la disciplina stabilita dall’art. 41 c.p.a.). questa previsione non si applica però alla deduzione della nullità dell’atto per elusione o violazione del giudicato. La decorrenza del termine non ha però riflessi sull’efficacia dell’atto, perché anche il provvedimento nullo è, per definizione, improduttivo di effetti giuridici. L’azione di condanna Nel processo amministrativo l’azione di condanna fu introdotta dalla legge istitutiva dei Tar (art. 26). L’utilità specifica della condanna, rispetto a una sentenza di accertamento del debito, era rappresentata dalla possibilità per il creditore di disporre di un titolo esecutivo, idoneo a consentire l’esecuzione forzata nelle forme previste dal libro terzo del codice di procedura civile. La legge istitutiva dei Tar ammetteva però una sentenza di condanna soltanto nei casi di giurisdizione esclusiva (e quindi nei confronti di un privato poteva ammettersi soltanto un’azione di mero accertamento, che risultava di scarsa utilità) ed esclusivamente per il pagamento di somme di denaro dovute all’amministrazione). Il codice non contempla più la prima limitazione; quindi l’azione di condanna può essere proposta anche dall’amministrazione, per l’adempimento di obbligazioni di un privato nei suoi confronti. Oggi, nel capo del codice dedicato alle azioni, la condanna è prevista in termini più generali (art. 30 c.p.a.). Per l’adempimento di obbligazioni, non è più limitata né alle pronunce contro l’amministrazione, né alle pronunce a contenuto pecuniario. Nella giurisdizione di legittimità la condanna all’adempimento di obbligazioni è ammessa solo per il risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi, ma nelle materie di giurisdizione 42 esclusiva può riguardare l’adempimento di qualsiasi obbligazioni inerente alla materia devoluta alla giurisdizione esclusiva. Un’attenzione particolare, nel codice, è riservata all’azione di condanna nelle vertenze risarcitorie (art. 30 c.p.a.). In particolare sono affrontati due profili di rilievo. Il primo profilo è rappresentato dai risultati conseguibili con la tutela risarcitoria. Viene precisato che la domanda di risarcimento del danno può avere ad oggetto, oltre che il risarcimento per equivalente, anche il risarcimento in forma specifica. Il giudice amministrativo può pronunciare sentenze di reintegrazione in forma specifica negli stessi casi in cui avrebbe potuto pronunciarle il giudice civile. La tutela risarcitoria demandata al giudice amministrativo non è circoscritta al risarcimento per equivalente. Il secondo profilo di rilievo è rappresentato dai rapporti fra tutela impugnatoria e tutela risarcitoria, ossia fra la domanda di annullamento di un provvedimento lesivo e la domanda di risarcimento dei danni provocati da quel provvedimento. Il codice ammette in via principale l’autonomia della domanda risarcitoria. L’accoglimento di tale domanda non ha come presupposti l’impugnazione e l’annullamento del provvedimento lesivo. Al giudice amministrativo può essere richiesto il risarcimento dei danni per lesione a interessi legittimi, anche se l’atto amministrativo lesivo non sia stato impugnato. L’autonomia della domanda risarcitoria è temperata dall’introduzione di un specifico termine di decadenza per l’azione risarcitoria nel caso di lesione a interessi legittimi. L’azione va proposta entro un termine di 120 giorni che decorre dal momento in cui è verificato il fatto o, nel caso di danno prodotto direttamente da un provvedimento (caso di pregiudizio a interessi legittimi), dalla conoscenza del provvedimento stesso. Se il provvedimento lesivo sia stato impugnato, la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o successivamente alla sentenza di annullamento, fino a 120 giorni dal suo passaggio in giudicato. Per quanto riguarda la liquidazione del danno, il codice esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti (art. 30 c.p.a.). La tutela nei confronti del silenzio; l’azione di adempimento; la tutela del diritto di accesso Nel processo amministrativo, come nel processo civile, la nozione di azione di condanna non è pacifica. Il codice ha ricondotto all’azione di condanna anche la domanda al giudice amministrativo di ordinare all’amministrazione il rilascio di un provvedimento. a) Il c.d. silenzio (o silenzio rifiuto) è la situazione che si verifica quando un’amministrazione, nel termine prescritto, non abbia assunto alcun provvedimento, pur essendo tenuta a provvedere. Condizione fondamentale perché si possa configurare un “silenzio” è pertanto la configurabilità, a carico dell’amministrazione, di un dovere di provvedere: un dovere del genere manca quando la legge rimette alla piena discrezionalità dell’amministrazione la decisione anche sull’an del provvedere. Chi agisce nei confronti del silenzio deve vantare una posizione differenziata e qualificata rispetto al potere amministrativo. La tutela nei confronti del silenzio – rifiuto viene configurata come una forma di tutela successiva, che pone rimedio a una lesione già intervenuta. Il ricorso non è soggetto al termine ordinario di decadenza di 60 giorni, purché entro 1 anno dalla scadenza del termine per l’ultimazione del procedimento. Il giudizio verte innanzitutto sull’accertamento del dovere dell’amministrazione di provvedere e sul suo inadempimento, ma non si esaurisce così. Il giudice, se accoglie il 45 Per i ricorsi proposti in materia di pubblico impiego dal personale in servizio, è competente il Tar nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio del pubblico dipendente (c.d. foro del pubblico impiego: art. 13). Il criterio dell’efficacia dell’atto non è stato ritenuto applicabile nel caso di impugnazione di atti di enti locali o di organi periferici dello Stato: in queste ipotesi è applicato soltanto il criterio della sede dell’organo che ha emanato l’atto, senza la necessità di verifiche sull’efficacia dell’atto stesso. Nel caso di ricorso proposto da più ricorrenti (c.d. cumulo soggettivo) la competenza del Tar periferico in base al criterio dell’efficacia dell’atto o al foro del pubblico impiego presuppone che per tutti i ricorrenti l’atto impugnato esaurisca la sua efficacia nell’ambito della circoscrizione del Tar o, rispettivamente, che tutti i ricorrenti prestino servizio presso uffici con sedi comprese nella circoscrizione di quel Tar. Più complesso è il caso del ricorso proposto contro atti connessi (c.d. cumulo oggettivo). Il codice considera soltanto il ricorso proposto contro due atti, di cui il primo sia un atto presupposto e l’altro sia un atto applicativo. In questo caso, se rispetto a ciascuno dei due atti sarebbe competente un Tar diverso, il ricorso va diretto al Tar competente per l’impugnazione dell’atto da cui deriva l’interesse a ricorrere: tale è tipicamente l’atto applicativo. Tuttavia, se l’atto presupposto è un atto normativo o generale, la competenza va determinata secondo le regole che valgono per l’impugnazione di tale altro atto: in questo caso la competenza rispetto all’atto presupposto prevale, perché il suo annullamento comporta in genere effetti più ampi rispetto a quelli propri dell’atto applicativo. Se il cumulo oggettivo si verifica in seguito all’impugnazione successiva di atti sopravvenuti, resta ferma la competenza del giudice competente rispetto all’impugnazione del primo atto, salvo che non si configuri rispetto agli atti sopravvenuti la competenza funzionale dell’atto. Il codice, ai fini della competenza territoriale per le vertenze devolute alla giurisdizione esclusiva, disciplina puntualmente solo i giudizi nel pubblico impiego. Le regole sulla competenza territoriale hanno carattere inderogabile: la loro violazione può essere rilevata anche d’ufficio dal Tar e può costituire motivo di appello. Quando il Tar dichiara la propria incompetenza si pronuncia con ordinanza, in cui viene anche indicato quale sia il Tar ritenuto competente. Se la causa è riassunta tempestivamente avanti al giudice così indicato, il giudizio prosegue e non matura alcuna competenza. L’inderogabilità della competenza è una delle innovazioni più evidenti del codice rispetto alla disciplina previgente. Oggi l’incompetenza può essere rilevata dal Tar finché la causa non è decisa in primo grado (art. 15). La verifica della competenza è preliminare rispetto a qualsiasi pronuncia cautelare: pertanto, se il giudice si ritiene incompetente, non può neppure adottare misure cautelari. Le misure cautelari adottate dal Tar hanno una “ultrattività” e conservano la loro efficacia per 30 giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza dello stesso Tar o del Consiglio di Stato che dichiara l’incompetenza. b) La previsione della inderogabilità della competenza ha reso necessaria l’introduzione di una serie di rimedi, per il caso che il ricorso sia presentato a un Tar incompetente. Il Tar rileva la propria incompetenza anche d’ufficio: se si ritiene incompetente, è tenuto a dichiararlo e lo dichiara con ordinanza. La verifica della competenza è ineludibile per il Tar ed è preliminare rispetto a qualsiasi pronuncia non solo di merito, ma anche di ordine cautelare. In particolare, se nel giudizio sia stata proposta una istanza cautelare, il Tar, se ritiene di essere incompetente, non può accogliere l’istanza, ma deve dichiarare la propria 46 incompetenza. Infine, le parti diverse dal ricorrente, se ritengono che il Tar adito sia incompetente, possono eccepirlo nei termini fissati per la costituzione in giudizio; l’eccezione viene trattata con una procedura accelerata e decisa con ordinanza. L’ordinanza del Tar che si pronuncia sulla competenza in sede cautelare o in seguito a una eccezione di incompetenza può essere impugnata dalle parti con regolamento di competenza (art. 15 c.p.a.). Di conseguenza oggi nel processo amministrativo il regolamento di competenza proposto dalle parti si configura come mezzo di gravame. Il regolamento di competenza è diretto al Consiglio di Stato ed è assoggettato a una procedura accelerata. Questo decide con ordinanza, vincolante per i Tar, nella quale indica quale Tar sia competente per la controversia e provvede per le spese. Anche in questo caso, se il giudizio viene riassunto tempestivamente avanti al Tar dichiarato competente, non si verificano decadenze. Invece la pronuncia del Tar che rilevi d’ufficio l’incompetenza all’esito del giudizio di primo grado è soggetta ad appello. c) La regola della inderogabilità della competenza fu introdotta nelle ultime fasi di redazione del codice; nelle fasi precedenti l’inderogabilità era circoscritta ad alcune ipotesi particolari e solo rispetto ad essere sarebbe stata configurabile una competenza funzionale di determinati Tar. Nel testo finale le ipotesi di competenza funzionale sono rimaste: si caratterizzano per il fatto che la competenza territoriale del Tar si fonda in questi casi su norme speciali. I casi di competenza funzionale nel codice rispecchiano innanzitutto una tendenza di riservare al Tar Lazio varie controversie in relazione al coinvolgimento di interessi generali e non frazionabili o di particolare delicatezza per gli interessi locali coinvolti. Altri casi di competenza funzionale sono rappresentati: dalla competenza del Tar Lombardia; dalla competenza territoriale per i giudizi abbreviati contemplati dall’art. 119 c.p.a. d) Per quanto riguarda il Consiglio di Stato, va ricordato che per le funzioni giurisdizionali erano state istituite tre sezioni (la Quarta, la Quinta e la Sesta); il riparto di competenze fra le sezioni giurisdizionali, in seguito alla riforma del 1923, ha assunto solo un rilievo interno. Il compito più importante assegnato alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato è quello di giudice di appello nei confronti delle pronunce dei Tar. Se la questione sottoposta al Consiglio di Stato può dar luogo a contrasti di giurisprudenza o risulti di particolare importanza, la decisione ne può essere rimessa all’Adunanza plenaria. Essa è costituita dalle diverse sezioni giurisdizionali e svolge un’importante funzione nomofilattica e di raccordo nella giurisprudenza amministrativa. Nei confronti delle sentenze del Tar Sicilia l’appello va proposto al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana. Le parti: le parti necessarie Anche nel processo amministrativo vale la distinzione fra parti necessarie e parti non necessarie: la garanzia del contraddittorio rispetto alle prime costituisce una condizione per la validità della sentenza, mentre nei confronti delle seconde è consentita la partecipazione al giudizio, ma non vi è alcun obbligo di portare a loro conoscenza il ricorso né di integrare rispetto ad essi il contraddittorio. Nel processo amministrativo parti necessarie sono, oltre al ricorrente, anche l’amministrazione resistente e i controinteressati, soggetti titolari di un interesse qualificato che può essere 47 pregiudicato dal ricorso e su cui può avere incidenza diretta il giudicato; le altre parti possono essere titolari solo di un interesse diverso, che le legittima solo a intervenire. Questo modello è stato esteso a qualsiasi tipologia di azione proposta davanti al giudice amministrativo, anche indipendentemente dall’interesse qualificato (diritto soggettivo o interesse legittimo). Il ruolo riconosciuto alle parti nel processo amministrativo riflette l’importanza attribuita al profilo di ordine soggettivo. Il processo amministrativo è a garanzia di posizioni soggettive (interessi legittimi e diritti soggettivi) ed è perciò processo di parti in senso stretto, nonostante che il giudizio riguardi l’atto di un soggetto pubblico. a) Il ricorrente, infatti, fa valere in giudizio un proprio interesse legittimo o, nei casi di giurisdizione esclusiva, un proprio diritto soggettivo. L’interesse qualificato del ricorrente non rappresenta, pertanto, un mero criterio di identificazione del soggetto legittimato a proporre l’azione, ma identifica la posizione soggettiva su cui verte il giudizio. Il carattere soggettivo dell’interesse fatto valere esclude che il ricorrente possa essere considerato come un mero rappresentante della collettività e che quindi il processo amministrativo sia strumentale all’interesse generale alla correttezza dell’azione amministrativa. Il ricorso può essere proposto anche da più soggetti congiuntamente fra loro (ricorso collettivo), purché le loro posizioni siano omogenee. b) Parte necessaria nel processo amministrativo è anche l’amministrazione che ha emanato l’atto impugnato, o rispetto alla quale è maturato il silenzio, o nei cui confronti viene fatto valere il diritto soggettivo, in caso di giurisdizione esclusiva. L’amministrazione resistente, nel processo, è parte e non autorità: di conseguenza è soggetta in tutto o per tutto alle regole del processo, su un piano di parità rispetto alle altre parti, senza immunità o privilegi che possano ricondursi alla titolarità del potere amministrativo. L’amministrazione che ha emanato l’atto impugnato è evocata in giudizio perché il giudizio verte su un suo atto. c) Infine sono parti necessarie i controinteressati. Sono tali i soggetti ai quali l’atto impugnato conferisce un’utilità specifica. Di conseguenza essi sono titolari di un interesse qualificato alla conservazione dell’atto impugnato. Nel caso in cui vi sia più di un controinteressato, il ricorso è ammissibile anche se notificato a uno solo di essi; nei confronti degli altri, però, deve essere effettuata l’integrazione del contraddittorio, nei tempi e con le modalità disposte dal Tar (art. 49 c.p.a.), sempre che essi non siano già intervenuti spontaneamente. I controinteressati sono in una posizione simmetrica rispetto al ricorrente: se il ricorrente lamenta una lesione a un suo interesse legittimo, determinata da un provvedimento amministrativo, i controinteressati invece traggono dall’atto impugnato la realizzazione del loro interesse legittimo. Per l’identificazione dei controinteressati, secondo la giurisprudenza maturata prima del codice, non è sufficiente, però, il requisito di ordine sostanziale appena richiamato e rappresentato dall’attribuzione a tali soggetti di un’utilità specifica ad opera del provvedimento impugnato. La giurisprudenza ritiene necessario anche un requisito di ordine formale, e cioè che il controinteressato sia identificato o facilmente identificabile alla stregua dell’atto amministrativo stesso. I controinteressati non identificati nell’atto amministrativo (c.d. controinteressati non intimati o controinteressati sostanziali) possono intervenire nel processo amministrativo e proporre ogni difesa ammessa per i controinteressati. 50 Il rapporto con la disciplina del processo civile In vari casi il codice del processo amministrativo rinvia espressamente a disposizioni del codice di procedura civile. Ciò vale, in particolare, per la disciplina del regolamento di giurisdizione (art. 10), per le cause di astensione e ricusazione del giudice (artt. 17 e 18), per le cause di ricusazione del verificatore o del consulente tecnico (art. 20), per le spese del giudizio (art. 26), ecc. L’art. 39 c.p.a. introduce però anche un rinvio più generale: le disposizioni del codice di procedura civile si applicano al processo amministrativo per quanto non disposto dal presente codice e in quanto compatibili o espressione di principi generali (c.d. rinvio esterno). L’art. 39 solleva vari interrogativi. Essi nascono innanzitutto dalla difficoltà di individuare l’effettiva portata del rinvio. Il carattere residuale della disposizione non toglie nulla alla sua problematicità. Le leggi sul processo amministrativo non contemplavano disposizioni analoghe, ma la frammentarietà e l’incompletezza della disciplina comportavano spesso l’esigenza di fare riferimento ad altre discipline processuali per colmare le lacune. In questo contesto era importante capire se si poteva procedere alla integrazione della disciplina del processo amministrativo attraverso le regole processual-civilistiche. Nel dibattito precedente al codice è maturata, però, una soluzione differente. È prevalsa la convinzione che, di regola, il rinvio alla norma processual-civilistica non potesse operarsi indiscriminatamente. Il processo amministrativo costituisce un sistema processuale autonomo e distinto da quello civile. Di conseguenza, i rapporti fra i due sistemi processuali non possono essere risolti nei termini di rapporto fra una disciplina generale e una disciplina speciale. Solo quando le regole del codice di procedura civile riflettono principi e istituti che sono accolti nei medesimi termini anche nel processo amministrativo, allora è corretto dare rifermento ad esse. Il riferimento, in questi casi, però, non è tanto a disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili, ma ad istituti di cui sia stata riconosciuta la comunanza rispetto ai due ordini di processi. IL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO L’introduzione del giudizio Il secondo libro del codice nel codice del processo amministrativo è dedicato al giudizio di primo grado. Viene dettata una disciplina di carattere generale: in base all’art. 38 c.p.a. (sul c.d. rinvio interno), per tutto quanto non disposto dal codice, vale per i giudizi di impugnazione, per i riti speciali, e per il giudizio di ottemperanza. Il giudizio avanti al Tar è introdotto con la notifica di un ricorso. Il ricorso è oggi l’atto introduttivo del processo amministrativo e col quale è proposta la domanda giudiziale, indipendentemente dai contenuti della domanda o dagli interessi tutelati. Nel processo amministrativo, di norma, il ricorso viene prima notificato alle altre parti e solo successivamente viene depositato. a) I contenuti necessari del ricorso sono descritti dall’art. 40 c.p.a. Il ricorso deve indicare, oltre all’organo giurisdizionale cui è diretto, la generalità del ricorrente, del suo difensore e delle altre parti necessarie; deve indicare l’oggetto della domanda, identificando, nel caso dell’azione di annullamento, l’atto impugnato; inoltre, deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici su cui si fonda la domanda; deve indicare, ancora, i mezzi di prova e i provvedimenti chiesi al giudice. Il ricorso è sottoscritto dall’avvocato, con l’indicazione della procedura speciale. 51 L’art. 44 stabilisce che il ricorso è nullo, in caso di difetto di sottoscrizione e di incertezza assoluta sulle persone o sull’oggetto della domanda, e tale nullità è rilevabile d’ufficio (art. 44). Nell’azione di annullamento, la domanda è identificata dalla richiesta di annullamento di un certo atto in relazione alle censure proposte; in difetto dell’enunciazione del vizio, il ricorso contro un provvedimento è inammissibile. Le censure sono i motivi del ricorso e consistono nella deduzione dei vizi dell’atto impugnato, che ne giustificano l’annullamento. Per vizio dell’atto va inteso il profilo specifico in cui sia storicamente concretato il contrasto fra l’atto impugnato e l’ordinamento giuridico e non la categoria astratta di illegittimità. Certi vizi possono essere individuati semplicemente negando la sussistenza di un elemento dell’atto amministrativo. La parte, in via di principio, può graduare le censure secondo l’ordine che ritenga più conveniente, purché lo dichiari in modo esplicito. Indipendentemente da ogni graduazione, alcune censure avrebbero comunque la precedenza: fra esse l’illegittimità dell’atto per vizio di incompetenza. L’individuazione dell’oggetto della domanda e dei motivi specifici su cui essa si fonda deve però essere adatta all’azione concretamente esperita. Per esempio, nel giudizio sul silenzio non è proposta alcuna impugnazione (perché non vi è alcun atto impugnabile) e di conseguenza non sono neppure configurabili censure per vizi di legittimità di un atto. Nei casi di giurisdizione esclusiva, quando non sia impugnato un provvedimento e la controversia verta su diritti soggettivi, nel ricorso deve essere identificato il diritto fatto valere in giudizio, secondo i principi accolti anche nel processo civile. b) Il ricorso per l’annullamento di un provvedimento amministrativo deve essere notificato, a pena di inammissibilità, all’amministrazione che ha emanato il provvedimento impugnato e ad almeno uno dei controinteressati, entro 60 giorni dalla comunicazione, o pubblicazione o piena conoscenza del provvedimento stesso. La notifica a un’amministrazione statale deve essere effettuata presso l’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede il Tar competente. L’annullamento di un atto amministrativo è assoggetta a un termine perentorio (di regola, di 60 giorni). Questo termine riflette l’esigenza di certezza nelle situazioni giuridiche, per l’amministrazione e per i cittadini interessati. Il termine decorre dalla comunicazione (o notificazione) dell’atto amministrativo, per i diretti destinatari; dalla pubblicazione su albo o pubblicazione ufficiale per i non diretti destinatari. Ai fini della decorrenza del termine, la comunicazione o pubblicazione dell’atto amministrativo ha come equipollente la sua piena conoscenza. Essa viene identificata non con la conoscenza completa dell’atto, ma con la conoscenza dei contenuti essenziali dell’atto, in modo che l’interessato sia in grado di coglierne la lesività. Per i giudizi a tutela di diritti soggettivi che non comportino l’impugnazione di provvedimenti, come si è già accennato, non opera un termine di decadenza per il ricorso. Dato che non viene impugnato un provvedimento, non valgono le esigenze che hanno determinato l’assoggettamento del ricorso a un termine decadenziale. Un termine particolare è stato introdotto dal codice per la notifica del ricorso diretto a far dichiarare la nullità di un atto amministrativo. Per la notifica degli atti il codice del processo amministrativo richiama la disciplina del processo civile. Nel caso di nullità della notifica del ricorso, la costituzione delle parti intimate ha effetto sanante, che incontra qui però il limite dei diritti acquisiti anteriormente alla comparizione (art. 44). La costituzione delle parti intimate, quindi, se avviene dopo il 52 termine di 60 giorni stabilito per la notifica del ricorso, non preclude di rilevare l’inammissibilità del ricorso. c) L’originale del ricorso, con la prova della notifica, deve essere depositato, a pena di irricevibilità, entro 30 giorni dal perfezionamento dell’ultima notifica, presso la segreteria del Tar adito. Questi adempimenti vanno oggi effettuati con modalità telematica. Con il deposito del ricorso si attua la costituzione in giudizio del ricorrente. d) Nel caso di impugnazione di un provvedimento, l’assoggettamento della notifica a un termine perentorio dovrebbe comportare sempre l’inammissibilità del ricorso, quando il termine non sia stato rispettato. In realtà si ammette che, quando l’inosservanza del termine sia stata determinata da un errore scusabile, il giudice amministrativo ossa concedere alla parte la rimessione in termini per consentirle di procedere a una nuova notifica. L’istituto della rimessione in termini per errore scusabile ha oggi una portata generale; opera ogni qualvolta l’inosservanza del termine per la notifica del ricorso sia riconducibile a ragioni oggettivamente apprezzabili o nel caso di inosservanza del termine per la notifica del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti. I motivi aggiunti L’assoggettamento dell’azione di annullamento a un termine perentorio (art. 29 c.p.a.) comporta che, una volta proposto il ricorso e decorso il termine di 60 giorni per l’impugnazione, siano precluse ulteriori censure nei confronti dell’atto impugnato. Il ricorrente che abbia già impugnato un provvedimento e solo successivamente sia venuto a conoscenza di un vizio, può integrare il ricorso originario con i c.d. motivi aggiunti. Originariamente i motivi aggiunti erano pertanto l’atto processuale col quale il ricorrente modificava la domanda, facendo valere anche i vizi del provvedimento impugnato dei quali egli fosse venuto a conoscenza solo dopo la notifica del ricorso. In realtà la giurisprudenza ha ammesso che, con i motivi aggiunti, il ricorrente possa far valere nel giudizio non solo i vizi ulteriori dell’atto già impugnato, ma anche l’impugnazione di altri provvedimenti, purché connessi con quello impugnato. I motivi aggiunti rispecchiano esigenze e caratteri comuni al ricorso. I termini processuali da osservare per la notifica (60 giorni), i termini e le modalità per il deposito, ecc. rispecchiano la disciplina modellata per il ricorso. La costituzione delle altre parti e il ricorso incidentale Entro 60 giorni dalla notifica del ricorso, l’amministrazione resistente e le altri parti intimate (nell’azione di annullamento si tratta dei controinteressati) possono costituirsi in giudizio, depositando una memoria con le loro difese e istanze istruttorie (c.d. controricorso) e i relativi documenti. Se il ricorso principale non è stato notificato a tutti i controinteressati, ma è stato notificato ad almeno uno di essi, ovvero, nei casi di giurisdizione esclusiva, se non è stato notificato a tutti i litisconsorti necessari, il giudice amministrativo ordina l’integrazione del contraddittorio. A tal fine fissa il termine ed eventualmente le modalità per la notifica del ricorso da parte del ricorrente alle altre parti. Le parti nei cui confronti sia stato integrato il contraddittorio da tale momento possono svolgere tutte le attività processuali che ritengono opportune. 55 fornire senz’altro una giustificazione oggettiva: varrebbe solo a sanare una negligenza processuale. c) Per quanto riguarda il terzo profilo fondamentale, relativo al vincolo che comporta il risultato dell’istruttoria per la decisione del giudice, va tenuto presente che il processo amministrativo si basa sul principio del libero apprezzamento del giudice: le prove raccolte nel giudizio sono rimesse, quanto alla loro valutazione, al prudente apprezzamento del giudice (art. 64 c.p.a.). Questo principio comporta l’esclusione delle prove legali, come il giuramento o la confessione, che si caratterizzano invece per vincolare il giudice alla verità di un certo fatto, precludendogli di assumere una decisione difforme (art. 63). All’esclusione fa eccezione la disciplina dell’atto pubblico, che anche nel processo amministrativo ha l’efficacia prevista dall’art. 2700 c.c. I provvedimenti istruttori e i singoli mezzi istruttori I poteri istruttori del giudice amministrativo si estendono oggi a tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, fatti salvi il giuramento e l’interrogatorio formale. Sono confermati nel codice i tre mezzi istruttori tradizionalmente contemplati dalle leggi sul processo amministrativo: la richiesta di chiarimenti all’amministrazione, la richiesta di documenti e le verificazioni. La richiesta di chiarimenti consiste nella richiesta all’amministrazione di informazioni su fatti rilevanti per il giudizio. Nel processo amministrativo può essere indirizzata anche nei confronti di un’amministrazione che sia parte in causa. La richiesta di documenti può avere per oggetto qualsiasi documento inerente alla materia del contendere che risulti nella disciplina dell’amministrazione. Inoltre, il giudice amministrativo può richiedere l’esibizione dei documenti anche nei confronti delle altre parti e nei confronti di terzi. Le verificazioni possono avere contenuti molto ampi e in particolare, secondo la giurisprudenza, possono riguardare anche l’accertamento di fatti o di situazioni complesse. Il giudice può acquisire in questo modo anche gli elementi tecnici che sono necessari per un apprezzamento dei fatti. Il codice contempla la possibilità per il giudice amministrativo di disporre una consulenza tecnica (art. 63). La consulenza è affidata direttamente dal giudice: deve essere in condizioni di terzietà rispetto alle parti, proprio come è richiesto per il processo civile. La verificazione e la consulenza non sono normalmente mezzi di prova: dovrebbero consentire di acquisire gli elementi tecnici necessari per comprendere il significato e il valore di quel fatto. I mezzi istruttori fin qui esaminati erano contemplati, prima del codice, nel processo amministrativo nel caso di giurisdizione di legittimità. Il codice ha però ammesso anche gli altri mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile. In particolare, il codice prevede che, su istanza di parte, il giudice amministrativo possa ammettere la prova testimoniale. L’introduzione di questa prova è accompagnata però da una significativa riserva. La prova testimoniale è ammessa solo in forma scritta. In genere i provvedimenti istruttori del giudice possono essere adottati dal Presidente o da un magistrato da lui delegato, in qualsiasi momento del processo fino all’udienza di discussione. I provvedimenti istruttori sono adottati con ordinanza (art. 36 c.p.a.). Gli incidenti del giudizio Come si verifica anche nel processo civile, una serie di eventi può incidere sullo svolgimento del giudizio, condizionandone l’ulteriore corso a procedimenti avanti ad altri giudici o comunque impedendo la prosecuzione del giudizio, fino al compimento di ulteriori atti di impulso. Questi 56 eventi possono determinare la sospensione o l’interruzione del giudizio; la loro disciplina è dettata solo sommariamente nel codice del processo amministrativo. Per quanto riguarda la sospensione necessaria per ragioni di pregiudizialità, vanno considerate inerenti allo stato o alla capacità delle persone e l’incidente di falso: la decisioni su queste questioni è riservata al giudice civile e il giudice amministrativo non può provvedere su di esse neppure in via incidentale. In questi casi la sospensione del giudizio deve essere disposta sulla base di una semplice valutazione della rilevanza della questione rispetto al giudice amministrativo. La sospensione è invece rimessa oggi a una valutazione di opportunità del giudice amministrativo. Il processo amministrativo deve essere sospeso, inoltre, quando il collegio abbia sollevato una questione di legittimità costituzionale. Anche nel processo amministrativo è ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione, secondo quanto previsto dall’art. 41: il regolamento è proposto dalle parti, con istanza diretta alla Corte di Cassazione, finché sul ricorso non sia intervenuta una decisione del Tar. La proposizione del regolamento non comporta però automaticamente la sospensione. La sospensione è disposta con ordinanza dal Tar. Infine, nel codice del processo amministrativo è richiamato l’istituto dell’interruzione del processo, per il quale è fatto rinvio alla disciplina del processo civile (art. 299 c.p.c.). La decisione Perché il ricorso possa essere esaminato dal giudice è richiesto di norma un atto di impulso processuale, costituito dalla domanda del Presidente di fissare l’udienza di trattazione del ricorso stesso. L’istanza di fissazione dell’udienza va presentata entro 1 anno dal deposito del ricorso. In caso di urgenza, la parte può chiedere al presidente del Tar di anticipare la fissazione dell’udienza, rispetto al normale criterio di trattazione secondo l’ordine cronologico: a tal fine deve presentare un’ulteriore domanda, l’istanza di prelievo (art. 71 c.p.a.). In seguito alla presentazione dell’istanza, il Presidente fissa l’udienza di discussione del ricorso, di cui deve essere data comunicazione alle parti con un preavviso pari di norma ad almeno 60 giorni (art. 71). Le parti costituite possono depositar e documenti fino a 40 giorni liberi prima dell’udienza, memorie conclusionali fino a 30 giorni prima e memorie di replica fino a 20 giorni prima. O depositi sono effettuati mediante modalità telematiche. Questi termini possono essere abbreviati fino alla metà, in caso di urgenza, su istanza di parte. Nell’udienza, che è pubblica, ciascuna delle parti può intervenire, attraverso il proprio difensore, per illustrare sinteticamente le proprie ragioni al collegio. Il Consiglio di Stato ha ritenuto che nell’udienza possa intervenire anche la costituzione in giudizio dell’amministrazione resistente o dei controinteressati, fermo restando che essi possono svolgere le loro difese soltanto in forma orale. Dopo l’udienza, il collegio, se non ritiene di dover adottare pronunce interlocutorie o pronunce istruttorie, procede alla decisione del ricorso e pronuncia la sentenza. In base all’art. 74 c.p.a. in alcuni casi il giudice amministrativo può decidere il ricorso, con una sentenza in forma semplificata. La sentenza in forma semplificata si caratterizza per una motivazione sintetica, incentrata sui soli profili decisivi della vertenza. È ammessa in via generale quando il ricorso risulti manifestatamente fondato o manifestatamente infondato, inammissibile, improcedibile o irricevibile. 57 La decisione del ricorso può intervenire, sempre con una sentenza in forma semplificata, anche in via anticipata, nella fase cautelare. Se nella camera di consiglio per l’esame dell’istanza cautelare l’esito finale del ricorso risulta già chiaro, non ha senso prolungare ulteriormente il giudizio. Nella sentenza il Tribunale provvede anche sulle spese processuali, secondo le regole stabilite nel codice di procedura civile (art. 26 c.p.a.). Nel codice del processo amministrativo alla condanna alle spese processuali si associa la possibilità di ottenere un’ulteriore condanna pecuniaria, per sanzionare la condotta della parte soccombente, che abbia agito o resistito in giudizio temerariamente. La sentenza deve essere sottoscritta dal presidente del collegio giudicante e dall’estensore e viene depositata, unitamente al dispositivo, presso la segreteria del Tar. Il deposito comporta la pubblicazione della sentenza: da quel momento la sentenza produce i suoi effetti e decorre il termine semestrale per l’eventuale impugnazione. Dal deposito della sentenza la segreteria dà comunicazione alle parti; la notifica della sentenza costituisce, invece, un adempimento della parte e determina la decorrenza del termine breve per l’eventuale impugnazione. Infine il codice ammette che in taluni casi il giudizio sia definito con un decreto presidenziale, senza che vi sia la necessità di alcuna udienza. La definizione del giudizio con decreto è prevista nel caso che si sia verificata l’estinzione del giudizio, o nel caso che il ricorso sia improcedibile. Nei confronti del decreto presidenziale le parti possono proporre opposizione al collegio. Il rito camerale Nel quarto libro del codice sono contemplati anche vari riti speciali, che presentano profili di peculiarità anche quanto a svolgimento del giudizio, e che attengono alle vertenze in specifiche materie. Più in generale, il codice del processo amministrativo prevede uno svolgimento più celere, che viene designato nella prassi come rito camerale, per alcune controversie. Si tratta del giudizio di ottemperanza, del giudizio sul silenzio, del giudizio in materia di accesso, delle opposizioni ai decreti presidenziali di estinzione o improcedibilità del giudizio. Queste controversie, in relazione al loro oggetto, richiedono, o ammettono, una decisione in tempi ravvicinati. Pertanto anche gli adempimenti delle parti sono assoggettati a termini abbreviati: tutti i termini processuali sono ridotti a metà, salvo quelli per la notifica del ricorso principale. Per la decisione dei ricorsi non è necessaria una istanza di fissazione d’udienza, e la trattazione è fissata d’ufficio, con particolare celerità. Di regola il ricorso è trattato nella prima camera di consiglio utile, decorsi 30 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione delle parti intimate. Il giudice amministrativo decide il ricorso senza necessità di un’udienza pubblica, ma semplicemente in camera di consiglio. LA TUTELA CAUTELARE I caratteri generali della tutela cautelare nel processo amministrativo La tutela cautelare, anche nel processo amministrativo, ha sempre carattere di strumentalità: la misura cautelare ha lo scopo immediato di assicurare l’efficacia pratica del provvedimento definitivo; realizza, così, l’esigenza di evitare che la durata del giudizio possa rendere praticamente inutile per il ricorrente la decisione finale. L’esecuzione di un provvedimento amministrativo può 60 garanzia del contraddittorio, per consentire a tutte le parti intimate di costituirsi in giudizio e di presentare le loro difese. Le parti possono depositare memorie e documenti fino a 2 giorni prima della camera di consiglio, ma possono costituirsi per la trattazione orale anche soltanto in camera di consiglio; nella camera di consiglio sono sentiti i difensori delle parti che ne abbiano fatto richiesta, per discutere l’istanza cautelare. La richiesta di una misura cautelare non può essere trattata fino a quando non sia stata depositata l’istanza di fissazione dell’udienza di discussione. La presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza è stata prescritta dal codice per evitare che il ricorrente, una volta ottenuta una misura cautelare, non coltivi il giudizio e così prolunghi al massimo gli effetti della misura ottenuta. Il collegio chiamato a provvedere sulla domanda di misura cautelare innanzitutto deve verificare la propria competenza. Infatti, l’inderogabilità della disciplina della competenza territoriale dei Tar comporta anche la previsione per il giudice di adottare misure cautelari in controversie demandate alla competenza di altro Tar. Sulla richiesta di misura cautelare il collegio provvede con una ordinanza motivata (art. 55 c.p.a.), che viene pubblicata mediante deposito in cancelleria; l’ordinanza è efficace fin dal momento del suo deposito. L’obbligo di motivazione delle pronunce cautelari, benché sancito dalla legge, in passato spesso non veniva rispettato; questa prassi era grave, perché solo dalla motivazione dell’ordinanza è possibile stabilire sulla base di quali ragioni il giudice amministrativo abbia accolto o respinto l’istanza cautelare. Nell’ordinanza che provvede sulla domanda cautelare il giudice liquida anche le spese della fase cautelare del giudizio (art. 57). La trattazione dell’istanza cautelare rappresenta in genere la prima occasione per il collegio di venire a contatto con le parti nel giudizio. Il codice ha previsto che nel corso dell’esame dell’istanza cautelare il collegio possa adottare i provvedimenti istruttori utili per il giudizio e per l’integrità del contraddittorio. Nella legislazione più recente si è affermata, inoltre, la tendenza a collegare la fase cautelare con la decisione del ricorso, per due ordini di esigenze. Innanzitutto, il collegio, se ritiene che l’istanza cautelare sia fondata e nello stesso tempo che le ragioni per la tutela cautelare possano essere soddisfatte con una decisione sollecita del ricorso, può limitarsi a fissare la data dell’udienza di discussione. Inoltre, se si verificano le condizioni stabilite nell’art. 60, il collegio può definire il giudizio in camera di consiglio con sentenza in forma semplificata. La tutela cautelare nei casi di particolare urgenza La pronuncia sull’istanza cautelare è ordinariamente di competenza del collegio e, anche a garanzia del contraddittorio con tutte le parti necessarie, l’ordinanza cautelare può intervenire solo dopo il decorso di un certo periodo di tempo della notifica della relativa istanza. In base al codice, in caso di estrema gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio, la misura cautelare può essere richiesta al Presidente del Tar o della sezione cui il ricorso principale sia stato assegnato, previa notifica della relativa istanza alle altre parti. Il Presidente, dopo aver verificato la competenza del Tar adito, provvede con un decreto motivato, non impugnabile ma revocabile. Il decreto che provvede su un’istanza cautelare è efficace fino all’ordinanza del collegio, al quale va sottoposta l’istanza cautelare nella prima camera di consiglio utile. Anche in questo ultimo caso, comunque, la tutela cautelare ha carattere incidentale e si svolge nell’ambito di un giudizio instaurato col ricorso principale. 61 Il codice del processo amministrativo ha esteso la possibilità di una tutela cautelare “ante causam” ad ogni ordine di vertenze devolute al giudice amministrativo. In caso di eccezionale gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la previa notifica del ricorso chi sia legittimato a proporre un ricorso può presentare un’istanza al Presidente del Tar e chiedere l’adozione delle misure cautelari interinali, necessarie per assicurare la tutela fino a quando non possa essere proposto il ricorso e non possa essere trattata l’istanza cautelare nelle forme ordinarie. L’istanza deve comunque essere notificata alle altre parti. Il Presidente, dopo aver verificato la competenza del Tar, provvede con decreto, sentite, ove possibile, le parti, e omessa ogni altra formalità. I rimedi ammessi nei confronti delle ordinanze cautelari L’ordinanza cautelare adottata dal collegio di regola ha effetto fino alla sentenza che definisce quel grado di giudizio. Se il giudizio si estingue, la misura cautelare perde efficacia nel momento in cui l’estinzione è dichiarata dal giudice: non si applicano al processo amministrativo le innovazioni introdotte nell’art. 669-octies c.p.c., in base alle quali alcune misure cautelari concesse dal giudice civile conservano la loro efficacia anche nel caso di estinzione del processo. Una ultrattività, peraltro limitata, della misura cautelare del giudice amministrativo è prevista nel caso in cui venga dichiarato il difetto di giurisdizione o di competenza. In questi casi, l’ordinanza cautelare conserva i suoi effetti per un periodo stabilito dalla legge, pari a 30 giorni, così da consentire alla parte di riassumere il processo avanti al giudice dotato di giurisdizione o di competenza. L’ordinanza che provvede su una istanza cautelare non fa stato nel giudizio: anche le eventuali valutazioni circa la fondatezza dei motivi di ricorso non producono alcun vincolo sulla sentenza. Inoltre, l’ordinanza è passibile di revoca, su richiesta della parte che vi abbia interesse e, nel caso di rigetto dell’istanza cautelare, l’istanza può essere riproposta. Può essere richiesta la revoca dell’ordinanza nel caso di sopravvenienza di elementi nuovi, esterni rispetto al giudizio. La revoca può intervenire solo su istanza di parte. La parte deve richiedere la revoca allo stesso giudice che ha emesso l’ordinanza in questione; la sua istanza è soggetta alla medesima procedura prevista per l’istanza cautelare. Nei confronti dell’ordinanza collegiale del Tar che decide sull’istanza cautelare è consentito, inoltre, l’appello al Consiglio di Stato. La previsione dell’appello contro le ordinanza cautelari è stata confermata nel codice, ex art. 62. L’appello è ammesso non per fatti nuovi, ma per l’ingiustizia dell’ordinanza stessa: con l’appello la parte contesta che il giudice di primo grado si sia pronunciato sull’istanza cautelare in modo appropriato o corretto e chiede perciò il riesame dell’ordinanza da parte del giudice di secondo grado. La decisione sull’appello cautelare è assunta dal Consiglio di Stato con ordinanza. Quando accoglie l’appello, il Consiglio di Stato provvede sull’istanza cautelare con gli stessi poteri del giudice di primo grado. Se adotta una misura cautelare, la sua ordinanza è comunicata al Tar che è tenuto a fissare a breve l’udienza per la decisione del ricorso nel merito. L’esecuzione delle ordinanze cautelari La sospensione del provvedimento impugnato può risultare talvolta già di per sé idonea ad assicurare che l’interesse del ricorrente non sia irrimediabilmente pregiudicato alla durata del giudizio: ciò vale, in particolare, nei casi in cui la sospensione del provvedimento precluda all’amministrazione di dar corso ad atti di esecuzione. Altre volte, invece, la misura cautelare comporta la necessità per l’amministrazione di svolgere una certa attività e quindi di porre in essere 62 un certo comportamento. Se l’amministrazione non compie l’attività necessaria per attuare la misura cautelare, l’ordinanza rischia di non produrre risultati pratici. Per assicurare l’esecuzione di una pronuncia del giudice amministrativo è istituito il giudizio di ottemperanza. Il giudice adotta le misure necessarie per assicurare l’esecuzione dell’ordinanza cautelare e, a tal fine, dispone di tutti i poteri che sono ammessi per il giudizio di ottemperanza. In particolare, può dettare ordini all’amministrazione, può nominare Commissari che si sostituiscano all’organo inadempiente, ecc. LA SENTENZA E LE IMPUGNAZIONI La sentenza Il giudizio amministrativo è definito in genere da una sentenza, che viene deliberata dal collegio (art. 33 c.p.a.). La pronuncia può riguardare l’intero contenuto della domanda (c.d. sentenza definitiva), oppure soltanto una parte di essa (c.d. sentenza parziale). Solo in alcuni casi, quando si sia verificata una causa di estinzione del giudizio, oppure il ricorso sia divenuto improcedibile, alla relativa declaratoria provvede il Presidente con un decreto. Il decreto presidenziale definisce il giudizio con la stessa efficacia di una sentenza definitiva e, se non viene opposto, passa in giudicato. Rispetto all’ordinamento procedente, il codice del processo amministrativo accoglie una definizione più rigorosa delle pronunce del giudice amministrativo. Il termine sentenza è riservato alla pronuncia che definisce in tutto o in parte il giudizio. Nel codice del processo amministrativo, sentenza è anche la pronuncia del giudice su questioni pregiudiziali attinenti al processo, nonché su questioni preliminari di merito, anche se non definisca il giudizio. Per le sentenze, in coerenza con i principi sull’ordine di esame delle questioni, si è soliti distinguere fra sentenze di rito e sentenze di merito. L’art. 35 considera fra le sentenze di rito quelle che dichiarano l’irricevibilità, l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso, nonché quelle che dichiarano l’estinzione del giudicato. Alle sentenze di rito il codice riconduce pertanto anche le sentenze sulle c.d. condizioni per l’azione, la cui qualificazione è in realtà controversa. Invece il codice include fra le sentenze di merito anche quelle che dichiarino la cessazione della materia del contendere (art. 34). Essa si verifica quando nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta. Questa situazione si riscontra quando il provvedimento impugnato venga annullato d’ufficio dall’amministrazione resistente in termini conformi all’interesse del ricorrente. Nel caso di denuncia della giurisdizione, dovuta al fatto che la vertenza inerisce alla giurisdizione di altro giudice nazionale, il Tar deve indicare nella sua sentenza anche quale sia il giudice dotato di giurisdizione. Se la parte ripropone tempestivamente la sua domanda davanti al giudice così indicato, sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda presentata avanti al Tar. Per alcuni autori, il secondo giudizio rappresenterebbe una mera prosecuzione del primo, secondo il modello della “translatio iudicii”. Se la domanda viene riproposta tempestivamente, non assumono rilievo eventuali decadenze che possano essere maturate dopo tale domanda, anche se essa era stata proposta avanti a un giudice sprovvisto di giurisdizione. Invece, eventuali decadenze maturate prima di tale domanda rimangono ferme, fatta salva soltanto la possibilità per il secondo giudice di valutare se ricorrano le condizioni per concedere alla parte la rimessione in termini, per il caso di errore scusabile. Se la domanda è stata riproposta tempestivamente, le prove già eventualmente raccolte dal primo giudice possono essere valutate come argomento di prova del secondo giudice. Il giudice che la 65 sentenze del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione, nei confronti delle sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato sono ammessi, infine, la revocazione e l’opposizione di terzo. Prima del codice, la disciplina delle impugnazioni era abbastanza lacunosa. Le difficoltà avevano riguardato particolarmente l’appello al Consiglio di Stato, che era il mezzo di impugnazione più importante. L’interprete doveva misurarsi con l’esigenza di adattare al processo amministrativo le disposizioni sulle impugnazioni civili, ma molte volte la loro compatibilità col processo amministrativo risultava dubbia. Il codice del processo amministrativo ha introdotto una disciplina più puntuale delle impugnazioni, con la quale è data risposta a molti degli interrogativi ancora aperti; ad altri interrogativi è dato riscontro attraverso rinvii espliciti alle disposizioni del codice di procedura civile. Alla disciplina concernente i singoli mezzi di impugnazione della sentenza, il codice del processo amministrativo ha premesso alcune disposizioni dedicate alle “impugnazioni in generale”. I primi articoli sulle impugnazioni in generale, dopo l’elencazione dei mezzi di impugnazione (art. 91 c.p.a.), considerano alcuni profili di ordine essenzialmente formale concernenti l’instaurazione del nuovo grado di giudizio. In particolare sono disciplinati i termini entro cui vanno notificate le impugnazioni, il luogo in cui vanno eseguite le notifiche e il termine per il deposito della notifica. I termini per proporre le impugnazioni sono di due ordini (art. 92): il termine “breve”, che decorre dalla notifica della sentenza, è di regola pari a 60 giorni, mentre il termine “lungo”, che rileva se non sia intervenuta la notifica della sentenza, è di regola pari a 6 mesi dalla pubblicazione di essa. L’impugnazione si propone con ricorso che deve essere notificato alla controparte nei termini appena indicati. Analogamente a quanto previsto per il codice civile, la notifica va effettuata alla controparte presso la residenza dichiarata o il domicilio eletto da essa nell’atto di notifica della sentenza o, in difetto, presso il difensore, o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio. Alla notifica dell’impugnazione deve seguire il suo deposito presso la cancelleria del giudice adito. Il deposito dell’appello, della revocazione e dell’opposizione di terzo va effettuato entro 30 giorni dall’ultima notifica; insieme con l’atto di impugnazione notificato, va depositata anche una copia della sentenza impugnata (art. 94). a) Il contraddittorio è disciplinato per due profili nodali: l’individuazione delle parti necessarie e le modalità per evocarle in giudizio (art. 95 c.p.a.). Rispetto al secondo profilo il codice ripropone le soluzioni accolte dalla giurisprudenza precedente: per la regolare introduzione del giudizio è sufficiente notificare l’impugnazione a una sola delle controparti e non è necessaria la notificazione ad almeno uno tra gli eventuali controinteressati; nei confronti di tutte le parti l’integrazione del contraddittorio può essere ordinata successivamente dal giudice. Per quanto riguarda il primo profilo, il codice identifica come parti necessarie del giudizio d’impugnazione “tutte le parti in causa” nelle impugnazioni di sentenze pronunciate in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti (: è trasparente il rinvio all’art. 331 c.p.c. nelle ipotesi di litisconsorzio necessario), nonché tra le parti che hanno interesse a contraddire negli altri casi (: in questo caso la notifica dell’impugnazione è necessaria nei confronti delle sole parti che hanno interesse a contraddire). b) Il tema delle impugnazioni incidentali, nelle sue diverse articolazioni, rappresenta uno dei profili cruciali nella disciplina della impugnazione delle sentenze. Nel processo amministrativo questo profilo è di particolare importanza, perché si verifica spesso, 66 soprattutto nel caso dell’azione di annullamento, che il giudizio di primo grado coinvolga una molteplicità di soggetti. Inoltre si possono presentare diverse situazioni intermedie di accoglimento parziale. L’impugnazione della sentenza, in queste condizioni, coinvolge interessi variegati e di soggetti diversi. Analogamente al codice di procedura civile, il codice del processo amministrativo sancisce l’obiettivo della concentrazione delle impugnazioni di una medesima sentenza, per realizzare una economia processuale e, soprattutto, per evitare decisioni contrastanti. Infatti è spesso richiamato l’art. 331 c.p.c., che impone a chi abbia ricevuto la notifica dell’impugnazione di una sentenza di proporre le proprie doglianze nei confronti della stessa sentenza mediante una impugnazione incidentale nel medesimo processo. Di conseguenza, anche nel processo amministrativo vige la regola secondo cui tutte le impugnazioni successive alla prima devono essere proposte dalle altre parti con una impugnazione incidentale, nel giudizio promosso per effetto della prima impugnazione. Per consentire alle altri parti di proporre una impugnazione nel nuovo grado di giudizio, il codice di procedura civile considera due situazioni distinte: 1) La prima situazione concerne la sentenza civile pronunciata fra più parti in causa “inscindibile” o in cause tra loro dipendenti: se l’impugnazione non sia stata notificata a tutte le parti, il giudice civile ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti, fissando il termine per la notifica nei loro confronti; se la notifica non viene effettuata, l’impugnazione è dichiarata inammissibile (art. 331 c.p.c.). Questa previsione è riproposta nel codice del processo amministrativo, nell’art. 95. 2) La seconda situazione concerne invece la sentenza pronunciata fra più parti in cause “scindibili” (si pensi al caso del litisconsorzio facoltativo): se l’impugnazione non sia stata notificata a tutte le parti, il giudice civile ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti, per consentire anche ad esse di proporre la loro impugnazione nel medesimo giudizio; a questo scopo fissa il termine per la notifica nei loro confronti. Se però la notifica non viene effettuata, il giudizio rimane sospeso, fino alla scadenza del termine entro il quale la parte non intimata avrebbe potuto a sua volta proporre impugnazione. In questo caso il contraddittorio ha lo scopo di portare a conoscenza delle altre parti l’esistenza dell’impugnazione, affinché esse possano a loro volta proporre impugnazione incidentale. L’ipotesi dell’impugnazione in cause “scindibili” fra più parti assume rilievo anche nel processo amministrativo. c) L’impugnazione incidentale di regola deve essere notificata alle altre parti nel termine di 60 giorni dalla notifica della prima impugnazione e, comunque prima della decorrenza dei termini per il passaggio in giudicato della sentenza (art. 96 c.p.a.). L’impugnazione incidentale proposta entro tale termine è “tempestiva”. Il codice di procedura civile ammette anche le impugnazioni incidentali “tardive” (impugnazioni incidentali proposte decorso il termine per proporre l’impugnazione). Anche il codice del processo amministrativo ammette l’impugnazione incidentale tardiva; questa può riguardare anche capi autonomi della sentenza. d) Per valutare la portata della disciplina delle impugnazioni incidentali è perciò necessario considerare la portata della nozione di “capo di sentenza” nel processo amministrativo”. 67 L’impugnazione di una sentenza non deve necessariamente riguardare l’intera sentenza impugnata, ma può riguardare anche una parte soltanto di essa. Chi propone impugnazione (sia essa principale che incidentale) in genere critica e rimette in discussine la sentenza con riferimento alle situazioni in essa contenute che ritiene contrarie ai suoi interessi. Come entità minima della sentenza si suole indicare il “capo di sentenza”. L’impugnazione può riguardare uno o più capi di sentenza; rispetto a quelli non gravati da impugnazioni se non intervenga una impugnazione incidentale, si forma il giudicato. La nozione di “capo di sentenza” risulta ancora più controversa nel processo amministrativo, soprattutto con riferimento all’azione di annullamento. Risultato di queste incertezze è, in dottrina, la presenza di interpretazioni che, con riferimento sempre all’azione di annullamento, spaziano dalla tesi che identifica il “capo” di sentenza in base al “petitum” del ricorso (: l’annullamento di un determinato provvedimento) e che quindi delinea un ambito più ampio per la nozione di “capo” (: ad ogni provvedimento impugnato corrisponde un capo di sentenza), a quella che invece identifica il “capo” con il singolo profilo di illegittimità fatto valere nel ricorso (: a ciascun vizio esaminato nella sentenza corrisponde un “capo” distinto). Su una posizione intermedia si colloca la tesi secondo cui la nozione di “capo di sentenza” dovrebbe essere conformata alle utilità che l’accoglimento di una censura comporta per il ricorrente. Nella giurisprudenza amministrativa prevale la tendenza che identifica come unità minima della sentenza, ai fini dell’impugnazione di una sentenza, qualsiasi pronuncia espressa su una questione sollevata dalle parti o rilevata d’ufficio nel giudizio di primo grado. Questa conclusione non è però pacifica. e) Nel processo amministrativo, nel giudizio d’impugnazione, può intervenire chi vi ha interesse; l’intervento deve essere proposto con un atto da notificare alle altre parti (art. 97 c.p.a.). f) Nel giudizio promosso in seguito all’impugnazione della sentenza può essere richiesta la sospensione dell’esecuzione della sentenza stessa (art. 98 c.p.a.). La sospensione va richiesta con le modalità e secondo i principi esaminati in merito alle misure cautelari nel giudizio di primo grado. L’appello al Consiglio di Stato: considerazioni preliminari In seguito all’istituzione dei Tribunali amministrativi regionali, nel processo amministrativo vige il c.d. doppio grado di giurisdizione: nei confronti delle sentenze (parziali o definitive) dei Tar la parte soccombente può proporre l’appello al Consiglio di Stato (art. 100 c.p.a.). L’appello si presenta come rimedio a critica libera, concesso alla parte soccombente per far valere, oltre agli errori e ai vizi, anche la semplice ingiustizia della sentenza di primo grado. Ha un carattere rinnovatorio (o sostitutivo), perché di regola la decisione del Consiglio di Stato che accolga l’appello si sostituisce a quella del Tar. La disciplina dell’appello nel codice del processo amministrativo è limitata a pochi articoli (artt. 100-105). Legittimate a proporre appello sono le parti necessarie nel giudizio di primo grado. La legittimazione a proporre appello è riconosciuta dal codice anche all’interventore ad opponendum nel giudizio di primo grado, quando esso risulti titolare di una posizione giuridica autonoma rispetto alle altre parti (art. 102). In ogni altra ipotesi l’interventore è legittimato a proporre appello solo nei confronti dei capi di sentenza che lo riguardino direttamente. 70 a) Per quanto riguarda il primo punto, il Consiglio di Stato riteneva di poter rilevare d’ufficio alcuni vizi della sentenza impugnata: si trattava del difetto di giurisdizione, della nullità, inammissibilità o irricevibilità della domanda originaria, dell’irregolare costituzione del rapporto processuale. Il difetto di giurisdizione sarebbe invece stato rilevabile in appello soltanto se fosse stato dedotto dalle parti. b) L’art. 105 c.p.a. prevede alcune ipotesi di decisioni del Consiglio di Stato di annullamento (senza riforma) della sentenza appellata, con rinvio degli atti al giudice di primo grado. L’annullamento della sentenza con rimessione al giudice di primo grado è prevista nel caso di nullità della sentenza di primo grado; la nullità è intesa come ipotesi di “inesistenza” giuridica della sentenza. Infine, la rimessione al giudice di primo grado è prevista nel caso in cui il Consiglio di Stato riformi la sentenza del Tar che ha declinato la giurisdizione, o la sentenza o l’ordinanza del Tar che ha pronunciato sulla competenza. c) Il codice non considera invece l’ipotesi di annullamento senza rinvio, che era contemplata espressamente dalla legge istitutiva dei Tar. Il Consiglio di Stato, se accerta che il Tar si è pronunciato sul merito del ricorso nonostante un vizio insanabile dell’atto introduttivo, o nonostante la presenza di cause impeditive o estintive del giudizio, o in difetto delle condizioni per l’azione, si limita ad annullare la sentenza di primo grado, senza un rinvio. d) Il Consiglio di Stato, se annulla la sentenza del Tar che abbia ritenuto erroneamente di avere giurisdizione su quella controversia e ritiene che la giurisdizione sia devoluta a un altro giudice nazionale, lo dichiara nella sua sentenza, indicando il giudice competente. La sentenza del Consiglio di Stato che riformi o annulli una sentenza di primo grado, produce gli effetti espansivi contemplati dall’art. 336 c.p.c. In particolare, oltre ai capi di sentenza riformati o annullati, travolge anche i capi di sentenza che di essi sono conseguenza necessaria e che pertanto non possono conservare un’efficacia autonoma (c.d. effetto espansivo interno). Inoltre, la riforma o l’annullamento di un capo di sentenza travolge gli atti che la parte soccombente abbia posto in essere in esecuzione del capo stesso (c.d. effetto espansivo esterno). La revocazione L’art. 106 c.p.a. ammette nei confronti delle sentenze dei Tar e del Consiglio di Stato il rimedio della revocazione. Le disposizioni del codice sono molto scarne. I casi di revocazione previsti dall’art. 395 c.p.c. riguardano: - La sentenza che sia effetto di dolo di una parte in danno a un’altra (art. 395, n.1). - La sentenza pronunciata in base a prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza o che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate false prima della sentenza (art. 395, n.2). - Il caso di ritrovamento dopo la sentenza di uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forma maggiore o per fatto dell’avversario (art. 395, n.3). - La sentenza che sia affetta da errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa (art. 395, n.4). Si tratta dell’ipotesi di revocazione più importante e più discussa: l’errore di fatto 71 che consente la revocazione deve essere stato determinante per la sentenza, e non deve concernere le valutazioni dei fatti compiute dal giudice, ma deve consistere in una errata od omessa percezione del contenuto materiale degli atti o dei documenti prodotti nel giudizio. - La sentenza contraddittoria con altra precedente passata in giudicato, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione (art. 395, n. 5). - La sentenza affetta da dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato (art. 395, n.6). Il codice del processo amministrativo chiarisce il rapporto fra appello e revocazione. La revocazione nei confronti delle sentenze dei Tar è ammessa se i motivi non possono essere dedotti con l’appello (art. 106); dato che tutti i motivi di revocazione sono astrattamente deducibili nell’appello, questa disposizione va interpretata nel senso che la revocazione delle sentenze dei Tar è ammessa solo nei casi e nelle condizioni indicati dall’art. 396 c.p.c. Si tratta dei casi di revocazione c.d. straordinaria (art. 395, nn. 1-2-3-6: vizi non percepibili immediatamente dal testo della sentenza), purché il fatto che determina la revocazione sia stato scoperto o sia stato accertato solo dopo la scadenza del termine per l’appello. Il ricorso per revocazione si propone avanti al medesimo giudice che ha emesso la sentenza. L’opposizione di terzo Nel processo amministrativo il rimedio dell’opposizione di terzo è stato disciplinato per la prima volta dal codice. L’opposizione di terzo può essere proposta dal soggetto che era contemplato in origine nel codice, ossia dal terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile: a tale soggetto la legittimazione era già stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza. Terzo titolare di una posizione autonoma e incompatibile è il soggetto al quale non sia opponibile la sentenza (e perciò terzo in senso proprio) e che sia titolare di una posizione giuridica non dipendente da quella delle parti in causa (autonoma) e non passibile di essere soddisfatta unitamente a quella della parte vittoriosa (incompatibile). La giurisprudenza amministrativa prima del codice aveva sostenuto che la legittimazione a proporre l’opposizione di terzo dovesse riconoscersi anche a un’altra categoria di soggetti: il controinteressato (o il litisconsorte necessario) pretermesso. Questa soluzione rimane ferma. Il codice ha disciplinato il rapporto fra opposizione di terzo e appello, che in precedenza era stato oggetto di notevoli oscillazioni giurisprudenziali. In base al codice, nei confronti della sentenza, il terzo può proporre soltanto l’opposizione; essa va diretta al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Pertanto ogni confusione con l’appello è superata. Se sia già stato proposto appello, il terzo deve introdurre la sua domanda intervenendo nel giudizio di appello. Invece, se una parte proponga appello dopo che il terzo abbia già proposto l’opposizione, il giudice dell’opposizione deve fissare un termine al terzo perché intervenga nel giudizio d’appello e l’opposizione diventa improcedibile. Il codice ha introdotto nel processo amministrativo anche l’opposizione di terzo revocatoria. Legittimati a proporla sono i creditori e gli aventi causa di una parte: sono tutelati così i titolari di una posizione dipendente, che in quanto tali non possono proporre un’opposizione di terzo ordinaria. Essi possono proporre opposizione soltanto nei confronti della sentenza che sia effetto di dolo o collusione a loro danno (art. 108). Il ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione Nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato è ammesso il ricorso alla Corte di cassazione per motivi di giurisdizione: per i soli motivi inerenti alla giurisdizione (art. 111 Cost; art. 110 c.p.a.). 72 Il ricorso alla Corte di cassazione è ammesso per denunciare la violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa; la violazione dei limiti esterni può concretarsi sia in una erronea declinatoria di giurisdizione, sia nell’accoglimento del ricorso in ipotesi esorbitanti rispetto alla giurisdizione amministrativa. Di conseguenza il ricorso è possibile sia nel caso che il giudice amministrativo abbia deciso una questione riservata all’amministrazione, o devoluta al giudice ordinario o a un altro giudice speciale, sia nel caso che abbia declinato la propria giurisdizione in ipotesi in cui invece la questione sarebbe stata di sua competenza. La disciplina processuale del ricorso contro le sentenze del Consiglio di Stato per motivi di giurisdizione è dettata dal codice di procedura civile (art. 362 c.p.c.). Il ricorso va proposto nei termini previsto per il ricorso per cassazione (art. 325 c.p.c.), ossia nel termine di 60 giorni dal deposito della decisione, nel caso che essa non sia stata notificata. Quando sia impugnata una sentenza del Consiglio di Stato, sulla questione di giurisdizione si pronunciano di regola le sezioni unite della Cassazione. Il codice del processo amministrativo ha introdotto la possibilità di una sospensione dell’esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, in pendenza del ricorso per cassazione (art. 111). La sospensione è disposta dallo stesso Consiglio di Stato, su istanza di parte, in caso di “eccezionale gravità e urgenza”. IL GIUDICATO AMMINISTRATIVO E L’ESECUZIONE DELLA SENTENZA Il giudicato amministrativo Il passaggio in giudicato (c.d. giudicato formale) di una sentenza del giudice amministrativo si ha quando nei suoi confronti non è più ammessa una impugnazione c.d. ordinaria: l’appello al Consiglio di Stato, il ricorso alla Corte di cassazione per motivi di giurisdizione, la revocazione nei casi previsti dall’art. 395, nn. 4 e 5 c.p.c. Per valutare quali effetti comporti il passaggio in giudicato delle sentenze del giudice amministrativo si suole distinguere fra: - Giudicato solo interno: la sentenza comporta in questo caso un vincolo (nel senso che la questione decisa con forza di giudicato non può più essere posta in discussione) solamente rispetto alle ulteriori fasi di quel giudizio. - Giudicato anche esterno: la sentenza comporta in questo caso un vincolo anche rispetto a giudizi diversi, che possano instaurarsi fra le medesime parti, nei quali assuma rilevanza la medesima questione. Le sentenze di rito comportano tipicamente solo vincoli interni. Le sentenze di merito, invece, si caratterizzano per la loro idoneità a comportare vincoli esterni. Le sentenze di merito si pronunciano sulla situazione giuridica sostanziale dedotta in giudizio. Col passaggio in giudicato, le loro statuizioni acquistano pertanto valore di giudicato sostanziale. L’identificazione delle statuizioni che acquistano questo valore ripropone problematiche comuni al processo civili: si tratta del tema dei limiti oggettivi del giudicato. La cessazione della materia del contendere viene dichiarata dal giudice amministrativo se nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta (art. 34 c.p.a.). Nel caso di un’azione di annullamento, questa situazione si verifica quando l’amministrazione, nel corso del giudizio, abbia annullato o riformato l’atto impugnato in senso conforme alla pretesa del ricorrente. 75 È contemplata la capacità del giudice dell’ottemperanza di adottare anche misure ordinatorie nei confronti dell’amministrazione dirette all’esecuzione, come la fissazione di termini per provvedere, la precisazione di modalità esecutive, ecc. Il codice attribuisce al giudice dell’ottemperanza anche il potere di imporre alla parte inadempiente il versamento al ricorrente di somme di denaro, che maturano periodicamente in seguito al ritardo nell’adempimento. Tali misure di esecuzione indiretta sono disposte dal giudice, su richiesta del ricorrente. Il codice riconosce espressamente al giudice dell’ottemperanza anche il potere di dichiarare la nullità degli atti adottati in violazione o in elusione del giudicato (art. 114). La nullità può essere dichiarata d’ufficio, anche nel giudizio di ottemperanza, e non è soggetta a termini contemplati per altre ipotesi di nullità. L’esecuzione della sentenza può richiedere diversi ordini di valutazioni. Secondo alcune interpretazioni il giudizio di ottemperanza presenterebbe profili compositi, perché nel giudizio confluirebbero profili propri dell’attività di cognizione oltre che quelli tipici dell’esecuzione. In particolare si presenterebbero le caratteristiche dell’attività di cognizione per i profili dell’azione amministrativa non predeterminati nei suoi contenuti della sentenza. Il giudizio di ottemperanza è richiamato dall’art. 34 c.p.a. In tutte le vertenze che comportino una condanna pecuniaria, se le parti non si oppongono, il giudice amministrativo può limitarsi a fissare nella sentenza i criteri per la liquidazione dell’importo dovuto, demandando alla parte debitrice di proporre, sulla base di tali criteri, un’offerta alla parte vittoriosa. Se l’offerta non viene accolta, o se una volta accolta non viene eseguita, la determinazione dell’importo dovuto può essere richiesta dalla parte interessata al giudice, con il ricorso per l’ottemperanza. Il commissario “ad acta” Il giudice amministrativo, nel giudizio di ottemperanza, esercita una giurisdizione estesa nel merito e, pertanto, può sostituirsi all’amministrazione che non abbia dato esecuzione alla sentenza. L’intervento sostitutivo del giudice può avvenire in forma diretta, o in forma indiretta, attraverso la nomina del c.d. commissario “ad acta” che si sostituisce a sua volta all’amministrazione. La possibilità di una sostituzione del giudice dell’ottemperanza crea molte incertezze, quando l’esecuzione richieda valutazioni tipicamente discrezionali. In genere il giudice amministrativo, adito con ricorso per l’ottemperanza, non provvede direttamente ad adottare le misure di competenza dell’amministrazione rimasta inadempiente, ma preferisce nominare un commissario “ad acta” che assuma tutti gli atti necessari per dare esecuzione alla sentenza. Il commissario si sostituisce agli organi amministrativi. Secondo alcuni il commissario “ad acta” avrebbe dovuto essere considerato come un organo straordinario dell’amministrazione: la sua nomina avrebbe comportato la sua sostituzione agi organi amministrativi ordinariamente competenti, come organo straordinario competente solo per l’esecuzione di quella sentenza. Tuttavia, proprio perché organo straordinario dell’amministrazione, il commissario avrebbe dovuto essere considerato come un’autorità amministrativa, con la conseguenza, fra l’altro, che i suoi atti, in quanto normali atti amministrativi, avrebbero dovuto essere impugnati davanti al giudice amministrativo secondo le regole generali previste per l’azione di annullamento. Nella giurisprudenza precedente al codice, sembrava prevalere la tesi che il commissario operasse come ausiliario del giudice, in un ruolo non molto diverso da quello del consulente o dell’esperto nel processo civile. Il codice del processo amministrativo ha preso posizione su alcuni punti concreti. Infatti: 76 - Ha considerato il commissario “ad acta” nel capo del primo libro dedicato agli ausiliari del giudice (art. 21), e ha chiarito che nei suoi confronti valgono gli stessi motivi di ricusazione previsti dall’art. 51 c.p.c. per il giudice ed estesi dall’art. 63 c.p.c. al consulente tecnico. - Ha assegnato al giudice dell’ottemperanza la competenza a pronunciarsi su tutte le questioni insorte fra le parti concernenti l’esatta ottemperanza della sentenza, precisando espressamente che fra esse sono comprese quelle inerenti agli atti del commissario e definendo la relativa procedura. In particolare, ha stabilito che le contestazioni delle parti cadano proposte, entro un termine perentorio di 60 giorni, con un reclamo che nello stesso termine deve essere notificato alle altre parti e depositato al giudice dell’ottemperanza. Invece le contestazioni dei terzi vanno proposte con l’azione ordinaria di annullamento. Per effetto di queste disposizioni, molti dei problemi pratici che avevano suscitato in precedenza il dibattito sulla figura del commissario sembrano superati. Lo svolgimento del giudizio di ottemperanza Il ricorso per l’ottemperanza va proposto nelle forme ordinarie, e perciò va notificato all’amministrazione e a tutte le altre parti del giudizio di merito. La circostanza che si tratti di un giudizio di esecuzione non indebolisce l’esigenza di garantire il contraddittorio. In molti casi, dopo una sentenza, possono presentarsi situazioni in cui è controverso se si configuri una inottemperanza o se invece si configurino ordinari vizi di legittimità amministrativa. In casi del genere, l’ordinanza plenaria ha riconosciuto la possibilità che sia proposto un unico ricorso al giudice per l’ottemperanza. Il ricorso non è soggetto a termini di decadenza. Può essere proposto fino a quando non sia prescritto il diritto all’esecuzione della sentenza: tale diritto è assoggettato alla prescrizione ordinaria di 10 anni, decorrenti dalla data del passaggio in giudicato della sentenza (art. 114). Competente è il giudice che ha pronunciato la sentenza. Il riparto di competenza ha carattere funzionale. Il processo si svolge secondo le regole generali stabilite per il giudizio di cognizione (art. 38), con le peculiarità previste per il rito camerale; pertanto i termini processuali sono ridotti a metà (art. 97). Il giudice si pronuncia sul ricorso sempre con una sentenza in forma semplificata (art. 114). Nei confronti delle decisioni assunte dal Tar in sede di ottemperanza, sono ammessi l’appello al Consiglio di Stato e gli altri gravami previsti dall’art. 91 c.p.a. La decisione del Consiglio di Stato assunta in sede di ottemperanza è impugnabile avanti alla Corte di cassazione, per violazione dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa.