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Riassunto Sociologia dei new media - Renato Stella, Sintesi del corso di Sociologia Dei Media

Riassunto dettagliato dei 7 capitoli

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 05/03/2019

Manu1511
Manu1511 🇮🇹

4.4

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Scarica Riassunto Sociologia dei new media - Renato Stella e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Dei Media solo su Docsity! 1 Sociologia dei new media CAP. 1 I new media sono davvero nuovi? Le innovazioni tecnologiche che definiscono la novità dei nuovi media non sono così recenti: il primo sito web ufficiale è nato nel 1991 al CERN di Ginevra, ma le originarie applicazioni di Internet sono ancora precedenti; infatti, già nel 1969 ARPANET collega quattro campus statunitensi. Dal 1986 alla rete di ARPANET si connettono anche alcune università italiane grazie all’ateneo di Pisa. Il web dunque ha una lunga gestazione tra gli Usa e l’Europa e per una trentina d’anni il suo prototipo è a disposizione solo di pochi utilizzatori che lavoravano all’interno delle università o che sono appassionati di computer e nuove tecnologie. I new media diventano invece tali a partire dal momento in cui la loro diffusione raggiunge dimensioni di massa, vale a dire intorno al 2000. Lo stesso accade in parallelo anche ad altri supporti: il telefonino, il tablet, i pc portatili, gli smartphone ecc., destinati in tempi recenti a integrarsi e convergere tra loro sino a diventare un unico grande medium. Inoltre, ed è questo il motivo più importante, come ci ricorda McLuhan (1990), ogni nuovo mezzo di comunicazione tende a riassumere in sé molte delle funzioni assolte dai media precedenti. Così è accaduto, ad esempio, con la televisione che ha assorbito la radio (quiz e telegiornali), il teatro (varietà e prosa), il cinema (film e serial). Internet fa molto di più: è telefono, radio, televisione, cinema, enciclopedia ecc. con un’estensione e una complessità mai conosciute in precedenza. Tuttavia, questo non è ancora sufficiente per dire che i nuovi media sostituiscano interamente i vecchi. Soprattutto se immaginiamo che la sostituzione comporti la scomparsa degli uni a vantaggio degli altri. La continuità tra vecchi e nuovi media può essere vista da tre prospettive diverse, attraverso le quali si può guardare alla novità dei new media: 1. I supporti: la carta invece del file elettronico, il cd invece dell’mp3. 2. L’organizzazione dei linguaggi e dei contenuti: i testi e le immagini, la linearità di lettura o il multitasking. 3. Gli accessi e la produzione: abilità nel cercare risorse e informazioni, chi crea contenuti dei siti, dei blog, dei social network e come lo fa. Esse si riproducono insieme, si condizionano a vicenda ma non è detto che, al progredire dell’una, corrisponda il parallelo progredire delle altre con la stessa velocità. Il fatto che i computer (supporti) esistano e che essi consentano una serie di operazioni tecniche, non vuol dire che tutti coloro che li utilizzano sappiano connettersi e navigare allo stesso modo o nel modo più adeguato alle potenzialità permesse dai computer e dalla rete. Tuttavia, supporti, organizzazione dei linguaggi, accessi e produzione spesso riprendono stili e modalità dei vecchi media, un po’ perché i nuovi media ne sono la continuazione, un po’ perché è il modo col quale tradizionalmente si risponde alle sfide che vengono dalle innovazioni: si utilizza quanto si conosce allo scopo di far fronte a ciò che appare inedito. L’idea è che i new media, se determinano certamente una rivoluzione nella nostra quotidianità e nel modo con cui possiamo metterci in contatto gli uni con gli altri, lo fanno collocandosi su una tradizione già esistente. Un esempio di questo è la neotelevisione: anche se non ce ne rendiamo conto, una più stretta collaborazione tra media e pubblici era cominciata già negli anni ‘70 con la radio e avrà poi il suo massimo sviluppo con la 2 neotelevisione a partire dagli anni ’80. Nella prima parte della loro storia radio e televisione si proponevano con una funzione pedagogica e divulgativa, mettendo a disposizione degli spettatori strumenti culturali come opere letterarie, musica colta ecc., da cui la maggioranza della popolazione era storicamente stata esclusa. A partire dagli anni ’80 invece la neotelevisione, facendo leva su una sempre maggior omologia tra i propri programmi e i gusti delle audience, abbandona una tale funzione, aumentando le occasioni in cui i pubblici possono fare esperienza diretta dei programmi entrandovi come protagonisti (concorrenti di quiz, ospiti di talk show, personaggi dei reality ecc.). ciò sancisce un passaggio cruciale tra differenti usi del medium televisivo. Non più prodotti culturali realizzati dall’industria per i propri pubblici, ma semmai creati con i pubblici, mentre giunti al web 2.0 bisognerà finalmente parlare di prodotti culturali confezionati dai pubblici. Ovviamente, che i media siano orientati al pubblico (neotelevisione) o che il pubblico possa collaborare a produrre i contenuti dei media (web 2.0) fa una bella differenza. Un conto, infatti, è che gli autori televisivi adeguandosi a regole di marketing, tendano in considerazione i gusti, le inclinazioni e i desideri di consumo dei propri pubblici, altro è che pubblici provvedano da soli a realizzare quel che appare essere conforme a propri gusti e alle proprie inclinazioni. C’è da sottolineare un primo importante aspetto: al di là dell’innovazione tecnologica, i nuovi media funzionano in un certo modo anche perché sono esistiti i media vecchi che hanno aperto la strada a un sempre maggior coinvolgimento di pubblici e consumatori nell’elaborazione dei propri contenuti. Alcune caratteristiche della novità dei nuovi media. La novità dei nuovi media non si traduce in una sostituzione, ma semmai in un affiancamento e a volte in una convergenza con i media tradizionali. La televisione non ha ucciso il cinema, la radio non ha fatto sparire i giornali, anche se l’avvento di un nuovo medium ha comunque sempre comportato delle crisi di ristrutturazione per quelli che lo precedevano. La tv ha in parte assorbito il cinema con i serial, la fiction; il cinema produce film con un occhio alla possibilità di poterli trasmettere in televisione ecc. Lo stesso sta accadendo con internet: tv, radio, cinema, giornali continuano ad essere quello che sono, ma è sin da ora immaginabile un passaggio definitivo di alcuni (o tutti) nel web, perché è tecnicamente già possibile. La versione digitale del quotidiano usa New York Times, ad esempio, dal 2011 è parzialmente a pagamento, mentre il numero degli accessi online ha già superato gli abbonati del giornale cartaceo. Ciò vuol dire che l’essere in rete può allargarne ulteriormente le capacità espressive, arricchendolo di testimonianze sonore o video, di documenti originali, di feedback dei lettori che sarebbe impossibile utilizzare nell’edizione cartacea. Si allargano i confini della consultazione che il lettore può fare delle diverse pagine e rubriche del giornale, che diviene più ricca e plurale, oltre alla possibilità che gli è concessa di trasformarsi a sua volta in una fonte di notizie o collaborare ai dibattiti nei blog avviati dalla redazione. Wikipedia in tale prospettiva è un esempio emblematico: il controllo esercitato da équipe di esperti, per nulla dilettanti e autodidatti, ha prodotto infatti voci di alta qualità. In definitiva, occorre evitare l’equivoco di pensare che al passaggio dalla carta alla rete vengano meno le procedure produttive necessarie a fare un buon giornale, un buon manuale o una buona enciclopedia. La novità tecnica non trascina con sé necessariamente una parallela novità delle routine creative, per cui chiunque può partecipare alla produzione di qualsiasi contenuto senza più distinzione tra competenze ed esperienze. Il dilettantismo, in queste materie, è più pericoloso della manipolazione scientifica delle notizie, perché basato proprio sulla buona fede dei lettori che si fanno giornalisti o di consumatori di testi che ne divengono produttori attraverso tutta l’epica dei prosumer, ossia coloro che non si limitano a un consumo passivo dei contenuti di siti e blog ma partecipano attivamente alla loro produzione. Affidare al popolo della rete la possibilità di esprimere qualsiasi idea, come accade in un talk show, ma senza un moderatore che metta ordine tra le diverse posizioni, non produce più informazione ma più confusione. 5 di libri, programmi divulgativi, concerti di musica classica ecc. La cultura di massa è dunque una risorsa positiva che collaborava a ripartire tra molti ciò che in passato era solo di pochi. • Apocalittici: per questi studiosi i media che allora erano nuovi, hanno rappresentato una diversa forma di oppressione simbolica che toglieva libertà di scelta e autonomia alle persone di basso ceto e poco acculturate, proprio perché la produzione industriale di cultura finiva col fornir loro risorse simboliche e linguistiche stereotipate e semplici, consumabili appunto. La cultura di massa è dunque uno strumento con cui pochi continuano a ingannare grandi gruppi di individui procurando loro adattamenti cinematografici di classici del teatro o della letteratura, arrangiamenti popolari di musica colta, o orchestrazioni di taglio colto di arie popolari, con lo scopo di offrire a tutti il senso di essere all’altezza dei consumi legittimi. È chiaro che un tale dibattito, pur con basi diverse, si ripropone oggi con la comparsa e lo sviluppo dei nuovi media. Usare per due o tre ore al giorno i social network contribuisce alla capacità individuale di mettersi in relazione con gli altri o al contrario isola e condanna milioni di individui a una sorta di patologica virtualizzazione della realtà? Alcuni studiosi lamentano che l’uso eccessivo dei nuovi media sia in grado di cambiare funzioni e aree del cervello con effetti di lungo termine fino ad oggi incalcolabili. Al di là del confronto tra scuole e discipline sembra che assumere il ruolo di apocalittici o integrati, magari cambiandosi di nome (oggi si preferisce parlare di ottimisti e pessimisti riguardo a internet), sia ancora abbastanza di moda e che ciò accada ogni volta che un’innovazione tecnologica scombina le tradizionali relazioni comunicative e mediate tra gli individui. La cultura digitale. Se la cultura di massa in parte si rinnova e in parte scompare con l’avvento dei new media, possiamo riferirci a qualche altro tipo di cultura specifica che investa l’uso del web e dei cellulari, chiamandola cultura digitale. Con cultura digitale si intende l’insieme delle trasformazioni che riguardano: • L’agire collettivo: il modo con cui organizzazioni e istituzioni incorporano le nuove tecnologie e vi si adattano. • L’agire individuale: attraverso il mutare delle relazioni tra persone reso possibile dai nuovi media o anche dal connubio essere umano-macchina che si fa sempre più stringente e interconnesso. Tutti questi cambiamenti non sono solo tecnologici e non producono solo conseguenze culturali. Portano piuttosto a delle trasformazioni economiche e politiche di straordinaria rilevanza: • Ambito politico: viene meno la contrapposizione tra est e ovest europeo (fine della guerra fredda) con la nascita di un veloce processo di globalizzazione a cui i new media hanno contribuito. • Ambito economico: per i paesi occidentali, il sistema economico tende a spostare il proprio centro della produzione materiale a quella dei beni immateriali legati ai servizi. L’ingresso sulla scena dei new media ha ampiamente sostenuto tali sviluppi rendendoli più semplici e convenienti. Dagli anni ’70, per dare un nome al nuovo assetto della società, si è iniziato a parlare di società post-moderna o post-industriale o post-fordista, al fine di sottolineare il triplo passaggio dalla globalizzazione, all’espansione di un’economia sempre più immateriale, fino alla centralità dei nuovi media che si costituiscono come motori ed effetti di tali evoluzioni. Di sicuro nella società in cui viviamo la conoscenza e l’informazione assumono un ruolo di rimo piano non solo per la vita quotidiana ma per le possibilità di sviluppo e per l’interazione di interi sistemi politico-economici. 6 Il termine cultura digitale, allora, non comprende solo l’acquisizione individuale di capacità pratiche come il saper usare il computer, ma nell’ambito delle trasformazioni che investono differenti sfere dei sistemi sociali acquista un peso e un significato molto più ampi. Stiamo parlando di un insieme di conoscenze, esperienze, contenuti e relazioni simboliche molto complesse che inaugurano un interno mondo di azioni e di significati. Si tratta di una cultura perché è trasmissibile, cumulabile, capace di auto-trasformarsi e adattarsi in ragione di esigenze tecniche o sociali. Essa poi possiede dei connotati collettivi: • Funziona per un piccolo gruppo: come nei social network o nei blog dove un limitato numero di persone può ritrovarsi per coltivare un proprio interesse. • Funziona per grandi comunità che si estendono globalmente: l’idea che sia necessario addestrare i bambini sin dalle scuole primarie all’uso del computer è ormai quasi universale. La cultura digitale diventa essa stessa un linguaggio. Possiamo comunicare quasi con chiunque sulla terra avendo due competenze: conoscere l’inglese e sapere in che modo si confeziona e si spedisce una mail. Non solo: possiamo mandare una mail anche a istituzioni importanti come la Casa bianca, avendo buone probabilità di ricevere risposta. Ciò modifica l’idea stessa di prossimità nei riguardi di persone e istituzioni potenti che si mostrano più accessibili e trasparenti, meno sacre che in passato. Però, che ci sia oggi uno spazio comunicativo più ampio entro il quale possiamo ricavarci un posto di spettatori e di attori non vuol dire necessariamente che si possa esercitare anche un maggior controllo o che perciò aumenti la nostra effettiva possibilità di partecipazione alle decisioni collettive. Non dovremmo parlare di cultura, ma di culture al plurale: il web non solo contiene tutte le ideologie, le religioni, i punti di vista che si esprimono coi media tradizionali (giornali, libri, tv), ma che a ciò si aggiunge un elemento ulteriore costituito dalla specificità dei new media e dalla loro capacità di far esprimere coloro che li usano. Aveva ragione McLuhan a constatare che ciascun medium contiene i precedenti e che ogni medium è fatto di altri media, ma aveva ragione anche nell’insistere col sostenere che ad ogni innovazione tecnologica il quadro di riferimento cambia. In questa prospettiva le culture digitali assumono un’identità maggiormente precisa. I mezzi linguistici messi a disposizione della rete attraverso le differenti piattaforme sono uguali per tutti e consentono margini di libertà relativi. Su Facebook posso costruire la mia pagina e presentarmi nel modo che ritengo più opportuno, ma seguendo le regole e utilizzando le risorse messe a disposizione nell’ordine e con le priorità decise da chi gestisce il sito. La mia faccia su Facebook sarà allora diversa da quella di chiunque altro per quanto riguarda i contenuti; abbastanza simile per quanto riguarda la forma; ma sarà riconoscibile immediatamente come la “mia faccia Facebook”. Manovich (2002) sostiene che l’interazione uomo-computer non è tra un essere umano e una macchina, ma tra un essere umano e una cultura codificata in forma digitale: ci si mette in relazione con i costrutti culturali elaborati per essere veicolati attraverso il computer, con essi parlo e mi confronto. La mia faccia su Facebook è ciò che creo per presentarmi nel mondo del web seguendo il linguaggio e lo stile Facebook che si adatta, a sua volta, alle possibilità concesse dalla piattaforma e dalla programmazione. Alla fino sono solo io l’esito finale, il prodotto di questo lungo processo e di esso decido poco. Tuttavia, il processo è abbastanza ampio ed elaborato da favorire importanti cambiamenti. Su di me innanzi tutto: cambia il modo di rapportarmi ad altri dentro e fuori dal web, il vocabolario che uso diviene più stringato, mentre posso avvertire come parte sempre meno rinunciabile della comunicazione il ricorso a immagini. Su Facebook poi nascono mode linguistiche o stili di presentazione che si diffondono velocemente. Se alla fine, ad adottare queste mode, saranno molti utenti è probabile che a cambiare sia anche la piattaforma. 7 Sulla medesima linea occorre ricordare che la cultura digitale di un hacker, intesa come abilità tecnica e volontà politica di andare oltre le protezioni e i controlli del web che vengono esclusi o craccati, non è quella di un impiegato che deve stare 8 ore al giorno davanti al computer per sbrigare il proprio lavoro; allo stesso modo la cultura digitale di un ragazzo o una ragazza di 18 anni (i nativi digitali) non è quella delle persone più anziane, sia per la capacità di uso del mezzo, sia per ciò che da quell’uso se ne può ricavare in termini di informazioni, significati, relazioni ecc. Non è detto che chi usa internet debba avere consapevolezza dello spessore culturale generale dello strumento che utilizza, ma è compito di ognuno farsi un’idea del modo in cui tale uso può risultare meno basso e semmai il più alto possibile. Acculturarsi ai new media vuol dire due cose: 1. Comprendere in che modo la loro presenza condiziona i meccanismi sociali, economici e politici. 2. Quali posizioni, risorse ed esperienze pratiche consente di ottenere e utilizzare individualmente. I nuovi media allora? A questo punto diviene importante cominciare a comprendere le potenzialità dei nuovi media entro due direttrici: quella personale e quella collettiva. La domanda: “cosa posso fare con il computer, con il tablet o lo smartphone connessi al web?”, deve sempre accompagnarsi alla consapevolezza che ciò dipende dagli usi sociali consentiti da ciascuno strumento e da una cultura codificata in forma digitale. Una buona definizione dei nuovi media è quella proposta da Sonia Livingstone che, superando alcuni degli steccati teorici che si sono costruiti nel tentativo di interpretare le nuove tecnologie a partire dalle vecchie, sostiene che i new media possono essere compresi solo scomponendoli nelle loro tre dimensioni costitutive: 1. Gli artefatti o dispositivi, utilizzati per comunicare o trasmettere il significato. 2. Le attività e le pratiche in cui gli individui comunicano o condividono le informazioni. 3. L’organizzazione sociale o le forme organizzative che si sviluppano intorno ai dispositivi e alle pratiche. I new media sono frutto dell’interazione tra queste tre componenti: bisogna avere un computer portatore di innovazione tecnologica, serve saperlo usare secondo le sue funzioni e le proprie necessità, occorre far parte di un contesto sociale che renda accessibile il primo, promuova le seconde e condivida poi la gestione e la diffusione dei contenuti che in tal modo vengono prodotti. È questa l’idea di cultura codificata: il medium porta con sé anche i propri usi e i contesti in cui può operare. CAP. 2 Modelli e teorie della comunicazione mediata. La comunicazione mediata dal computer. Gli anni ’80 vedono il periodo in cui le tecnologie informatiche avevano già qualche anno di applicazione all’interno del mondo professionale e accademico. In questo periodo, le scienze sociali hanno iniziato a interessarsi dell’uso del computer con l’introduzione dei programmi per la comunicazione mediata dal computer (CMC) come la posta elettronica e il lavoro collaborativo supportato dal computer. I ricercatori hanno spostato l’ambito delle ricerche da un modello comunicativo basato sul rapporto uomo-macchina, che riguarda solo l’individuo che opera attraverso la tecnologia, a uno basato sul concetto di interazione, che coinvolge più individui in relazione tra loro grazie alla mediazione del computer. 10 I teorici della SIP concludono quindi che la CMC non sarebbe affatto meno efficace della comunicazione faccia a faccia dal punto di vista dell’interazione sociale, ma sarebbe solamente meno efficiente. La SIP supera definitivamente l’idea di povertà comunicativa proposta dalle prime ricerche, tant’è che si arriva alla formulazione del modello hyperpersonal. Le caratteristiche della CMC fanno sì che le interazioni tra gli individui avvengano in modo più stereotipicamente sociale. Per esempio, nella CMC si possono controllare le impressioni molto meglio di quando non si faccia in presenza. Ne risulta una presentazione ottimizzata del proprio sé. Ne deriva un’impressione spesso idealizzata dell’interlocutore, iperpersonale appunto, in cui i meccanismi sociali classici dell’interazione sono esasperati. La CMC è considerata in tal modo, definitivamente lontana da qualsiasi ipotesi di spersonalizzazione e anzi, diventa una forma di comunicazione vera e propria. La nascita del web e l’etnografia della rete. Gli anni ’90 sanciscono un salto definitivo negli studi dedicati alla CMC, poiché nel 1991 viene inventato il world wide web. I personal computer si diffondono sempre più nelle case e internet di fatto comincia a coincidere progressivamente con il web. È in questo periodo che l’online comincia ad essere percepito come un luogo in cui gli individui si incontrano e interagiscono quotidianamente. Uno dei primi lavori su questo nuovo luogo è stato nel 1993 un racconto delle esperienze di uno studioso americano, Rheingold. Il titolo del libro era The virtual community. Homesteading on the electronic frontier e vi si leggevano parole come comunità virtuale, frontiera elettronica, ciberspazio. La CMC cominciava a diventare un’esperienza quotidiana pervasiva per molti utenti. Internet divenne un ambito di ricerca molto frequentato dai giovani ricercatori che ne approfondirono i principali aspetti quali l’uso del nickname, la costruzione delle identità, le dinamiche di gruppo virtuali. Si era abbandonato definitivamente il paradigma degli effetti della CMC e ci si concentrava sulle caratteristiche di un ambiente di interazione sempre più pervasivo, dinamico e anche promettente dal punto di vista degli sviluppi futuri. In Italia tra le prime ricerche su internet vanno nominate quelle di Giuliano e Roversi. • Luca Giuliano: nel 1997 pubblica un lavoro sui MUD italiani (MUD = ambiente virtuale in cui ci si riunisce per chattare o giocare), in cui rifletteva sulla relazione tra identità, gioco e mondo online. Giuliano già anticipava quello che sarebbe diventato un leitmotiv degli Internet Studies, cioè la continuità online-offline; sottolineava la consapevolezza dei giocatori di ruolo online nella gestione delle loro identità. • Antonio Roversi: nel 2001 pubblica la sua ricerca sulle chatline italiane. Il sociologo aveva frequentato alcune chatline per un certo periodo, utilizzando l’etnografia online. La domanda di ricerca era: «Perché vi sono delle persone che, invece di uscire a cena, andare a ballare, fare una passeggiata o 11 guardare la televisione, passano mesi e talvolta anni a parlare ogni giorno con persone fisicamente assenti e talvolta sconosciute, utilizzando solo la tastiera e lo schermo del computer?». Quell’«invece di» assegnava implicitamente un valore più alto alle attività offline elencate di seguito e, in effetti, in quegli anni le chatline, i giochi di ruolo online, i sistemi di messaggistica erano percepiti come un rifugio per “disadattati” sociali. Sherry Turkle: dal ciberentusiasmo allo scetticismo. Sherry Turkle nel 1995 pubblica un testo intitolato La vita sullo schermo: nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di internet, dove affronta in modo sistematico e approfondito la grande tematica della costruzione dell’identità online. Turkle è una sociologa e psicoterapeuta statunitense che ha iniziato molto presto a riflettere sulla relazione tra psicologia e tecnologia e sulla relazione quotidiana tra individui e computer. La vita sullo schermo parte da molte esperienze sul campo della ricercatrice. Ci sono almeno due macrotemi affrontati dalla Turkle in questo lavoro: 1. L’intelligenza artificiale e la relazione con i computer. La cultura informatica si impara fin da piccoli: il confine tra persone e computer è intatti, ma i bambini trovano naturale pensare che un oggetto inanimato possa pensare e avere una personalità. Questo aspetto della cultura informatica conduce a una profonda riflessione: le macchine sono agenti postmoderni, in grado di proporre modalità di interazione molteplici e decentrate. Tra i vari esempi, viene citato quello di Depression 2.0, un programma che simula il colloquio con uno psicoterapeuta che ha l’obiettivo di curare la depressione. Un paziente si relaziona con il programma e ne ottiene sia gratificazioni che delusioni, ma ciò che è rilevante è il fatto che lo considera come un interlocutore valido. Turkle conclude che la cultura informatica accetta il fatto che le macchine possano essere intelligenti, addirittura in modo simile a quello umano, ma che comunque rimangono diverse poiché biologicamente inanimate. 2. Le dinamiche di costruzione dell’identità. Le domande che si pone l’autrice sono le seguenti: «I nostri sé reali imparano veramente dai personaggi virtuali? Queste persone virtuali sono frammenti di una personalità coerente con la vita reale? sono espressione di un’identità in crisi che tradizionalmente si associa all’adolescenza? Oppure stiamo osservando il lento emergere di un nuovo modo di intendere la mente?». I MUD rappresentano un’enorme fucina identitaria: l’anonimato consente di esprimere disagi, dubbi, problemi che difficilmente si sviscererebbero faccia a faccia, si piò provare a essere altro, si possono sfogare tensioni, emozioni represse, si possono esprimere parti inesplorate del proprio self. L’online ha una grandissima potenzialità: può diventare una moratoria psicosociale, cioè un momento in cui l’individuo si mette alla prova e testa nuove modalità identitarie senza troppe conseguenze per la sua vita offline. In seguito alla pubblicazione di Vita sullo schermo, Turkle è stata annoverata tra gli internet enthusiasts, cioè tra coloro che guardavano alla rete con ottimismo. Il virtuale non deve necessariamente rappresentare una prigione. Non dobbiamo rifiutare la nostra vita sullo schermo, ma neppure è il caso di considerarla come una vita alternativa. Possiamo usarla come uno spazio per la crescita. 12 Tuttavia, queste affermazioni devono essere collocate nello spirito del tempo dell’epoca in cui venivano scritte. Nella metà degli anni ’90 c’erano molte preoccupazioni sugli effetti più o meno gravi della CMC e chi si occupava di studiarla, inconsapevolmente, si trovava a evidenziarne gli elementi positivi. Turkle sottolinea sicuramente gli aspetti favorevoli che gli individui trovano nelle loro interazioni online, senza però dimenticarne gli aspetti più problematici: «le comunità virtuali raramente facilitano lo sviluppo psicologico». Il merito del lavoro di Turkle è stato quello di porre la questione dell’identità in rete come un’esperienza quotidiana di molte persone, su cui bisognava interrogarsi in modo sistematico. All’uscita di Vita sullo schermo, Turkle fu considerata una entusiasta della rete. Questo atteggiamento è completamente abbandonato negli ultimi suoi lavori, i cui temi affrontano la riflessione sull’intelligenza artificiale, la relazione tra persone e computer e la costruzione dell’identità. Ma soprattutto, in Insieme ma soli, ciò che la preoccupa è come la tecnologia stia cambiando gli individui. Rispetto ai MUD, oggi il web 2.0 è onnipresente, mobile e pervasivo. Grazie alla diffusione delle tecnologie portatili, l’interazione digitale è costante e questo limita, fino a impedire, le nostre capacità di riflessione su noi stessi. Il tipo di comunicazione che sperimentiamo è la connessione: mandiamo messaggi digitali di cui attendiamo una risposta facendo qualcos’altro. Allora, dice Turkle, ciò che perdiamo è l’attenzione del nostro interlocutore nei nostri confronti e viceversa. Ne deriva l’incapacità progressiva di stare dentro una conversazione, che richiede impegno, attenzione spontaneità e coinvolgimento. E, siccome è attraverso la conversazione, l’interazione diretta con l’altro, che impariamo a riflettere sui noi stessi e a comprenderci, le nuove tecnologie mobili ci connettono, ma non ci permettono di prestare attenzione all’altro e di conoscerci. Bisogna recuperare le abilità legate alla solitudine, disconnettersi quindi, per reimparare a riflettere su noi stessi. Manuel Castells: la società delle reti. Manuel Castells, sociologo catalano naturalizzato statunitense con il primo libro della sua trilogia, intitolato La nascita della società in rete, ha descritto lo sviluppo e le conseguenze di tre processi nati tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70: 1. La rivoluzione tecnologica delle ICT. 2. La crisi sia del capitalismo tradizionale che dello statalismo comunista. 3. La nascita di nuovi movimenti popolari come il femminismo e l’ambientalismo. La combinazione dei tre processi ha generato: • Una nuova struttura sociale → la società dell’informazione. • Una nuova economia → l’economia informazionale globale. • Una nuova cultura → cultura della virtualità reale. Ciò che unisce i tre processi è la logica della rete. La network society è una società che, dall’impostazione verticale delle burocrazie dello Stato, dell’esercito, delle grandi aziende, si trasforma in un’organizzazione a rete, flessibile, che sa adattarsi con maggiore facilità alle nuove circostanze grazie all’infrastruttura tecnologica su cui è basata. Le tecnologie informatiche ed elettroniche rendono le reti più efficienti nel coordinare le attività simultanee e nel decentrare quelle che non sono in grado di svolgere. Per Castells, le reti costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre società: la contemporaneità è costruita intorno a flussi (di capitali, di informazioni, di immagini, di suoni ecc.) e a un tempo senza spazio, grazie alle tecnologie digitali che rendono possibile una comunicazione in tempo reale o in forma asincrona. 15 5. The law of the limits to attention on the web: questa legge rinforza il fenomeno secondo il quale la dialettica di concentrazione e frammentazione prodotta dalle reti fa emergere sia una nuova coesione sociale che una diffusione di innumerevoli subculture. Nel settore dei media internet è dominata da poche grandi compagnie, ma allo stesso tempo è possibile trovare infinite piccole fonti mediali. 6. The power law (Googlearchy): quelle fonti che risultano già in testa alla lista dei risultati sul motore di ricerca diventeranno ancora più popolari. Questo causa concentrazione e disuguaglianza tra le fonti, per cui i ricchi diventeranno sempre più ricchi. 7. Trend amplifiers: i nuovi media intensificano le tendenze già presenti e rinforzano le relazioni sociali esistenti nella società coeva. Per quanto vaste possano essere le conseguenze sociali dei nuovi media, essi non cambieranno mai le basi delle società sviluppate. Emerge dunque l’idea della portata evolutiva e non rivoluzionaria delle reti. Van Dijk si pone in una posizione di osservazione dalla quale evidenzia le dinamiche, oppositive e contrastanti, che attraversano la network society in tutti i suoi aspetti e che conduce all’unica visione offerta, quella per cui non si può essere né ottimisti né pessimisti. Van Dijk usa spesso un esempio per rendere questa idea più chiaramente: la network individualization. È quasi un ossimoro, perché gli ambienti di vita e di lavoro diventano progressivamente più piccoli mentre allo stesso tempo la varietà della divisione del lavoro, delle comunicazioni interpersonali e dei mass media si amplifica. In questa costante dialettica sta la chiave dell’interpretazione di van Dijk sulla network society. Henry Jenkins e la cultura convergente. A partire dalla riflessione sulle culture partecipative, da come cioè si creano dal basso certe forme culturali artistiche, Jenkins ha conquistato un ruolo di primo piano nella riflessione sulla cultura digitale contemporanea. È dai fan che bisogna iniziare: essi sono sempre stati i pionieri delle nuove tecnologie. Siccome non si accontentano dei prodotti offerti dall’industria cinematografica, o discografica, o editoriale, i fan si appropriano dei contenuti e li fanno vivere in altre forme di produzione culturale, che possono andare dalle fanzine, ossia i magazine autoprodotti dai fan, ai film amatoriali, ai meeting e molto altro. Non solo, la fandom, non è che il risultato dell’equilibrio tra fascinazione e frustrazione: se il contenuto mediatico non ci avesse affascinato, non ci saremmo lasciati coinvolgere; nel contempo, se non ci avesse frustrati a qualche livello, non avremmo avuto lo stimolo per riscriverlo o rifarlo. Tra i vari casi che Jenkins studia c’è anche quello di Star Wars, una saga cinematografica che ha avuto numerosissime espressioni di fan culture. Il primo episodio di Star Wars risale al 1977 e da allora i fan hanno creato di tutto, tra cui fan fiction e parodie cinematografiche. Alcuni registi-fan sono poi stati assorbiti dall’industria di Hollywood e ciò è stato possibile perché film che un tempo rimanevano confinati nell’ambito domestico e visti solo nelle cerchie dei familiari e degli amici, oggi grazie alla digitalizzazione diventano pubblici. Si crea in tal modo una dinamica in cui le opere dei fan non possono più essere considerate solo come derivate dai materiali dei media mainstream, ma devono essere percepite come a loro volta aperte all’appropriazione e alla rielaborazione da parte dei media. Le grandi aziende hanno bisogno dei fan per diffondere e ramificare 16 il successo dei loro prodotti e il cambiamento mediatico attuale sta riaffermando il diritto della gente comune di contribuire attivamente alle forme della propria cultura. Sulla base di questo e molti altri esempi. Jenkins riflette quindi sulla relazione tra convergenza mediatica e cultura partecipativa. Con convergenza mediatica si intende: • Il flusso dei contenuti su più piattaforme. • La cooperazione tra più settori dell’industria. • Il migrare del pubblico alla ricerca continua di nuove esperienze di intrattenimento. L’espressione cultura partecipativa si riferisce all’emergere di nuovi ruoli per produttori e consumatori, i quali, come si vede nel caso di Star Wars, interagiscono tra loro e creano nuovi prodotti culturali. Questo tipo di cultura non è per nulla pacifico, ma spesso è pervaso da contrasti tra i produttori minstream, refrattari ai cambiamenti, e consumatori, che devono attivarsi per operare le loro riappropriazioni cultuali, andando a confliggere con le industrie. Dal connubio, reso possibile dalla digitalizzazione, tra convergenza mediatica e cultura partecipativa emerge il concetto di cultura convergente. Ciò che si osserva è che le idee e la cultura si diffondono dall’alto verso il basso, cioè vengono prodotte su larga scala dai media e poi vengono riappropriate dai diversi pubblici; al contempo, alcune idee nascono dal basso e poi entrano nei canali commerciali quando suscitano l’interesse dei media. La cultura convergente è quindi una dinamica sia discendente, guidata dalle corporation, sia ascendente, guidata dai consumatori. A questo punto è chiaro che la cultura convergente non è un fatto banalmente tecnologico, ma è un vero e proprio cambiamento antropologico: esso riguarda i nostri rapporti con i media e con la cultura popolare, ma soprattutto può avere conseguenze su come impariamo, lavoriamo, partecipiamo al processo politico. Barry Wellman: internet, vita quotidiana e individualismo reticolare. Wellman è uno dei primi sociologi statunitensi che si è interessato a internet soprattutto per ciò che concerne il rapporto tra questo e la vita quotidiana. L’autore si è concentrato sull’utilizzo del web da parte degli utenti per ciò che riguarda: • Le relazioni interpersonali. • I mutamenti delle dinamiche di interazione umana. • Le connessioni tra internet e il capitale sociale. I suoi lavori hanno tentato nel tempo di rispondere alla domanda: la rete può essere considerata come qualcosa di separato dagli altri aspetti delle vite degli individui? Una questione che diviene sempre più importante se contestualizzata in un ambiente quotidiano influenzato da internet e in cui, sottolinea Wellman: • Lo scambio immediato di grosse quantità di dati è facilitato da una larghezza di banda sempre più ampia. • La connessione con le reti amicali, familiari, lavorative ecc. è potenzialmente continua. • L’interazione è più ricca rispetto a quella meramente testuale poiché vi è una maggiore personalizzazione dei contenuti dei messaggi da parte degli utenti. • La comunicazione è sganciata in misura maggiore dal luogo grazie ai sistemi wireless. • La connettività diventa sempre più globalizzata a fronte di un digital divide che sta progressivamente diminuendo (con ritmi differenti in base alle zone del mondo che prendiamo in considerazione). 17 Wellman descrive la rete sociale come un insieme di nodi socialmente rilevanti e che sono connessi tra di loro da uno o più rapporti. Analizzare un network significa, innanzi tutto, definire quali sono i nodi da includere nello studio che si intende fare, ma internet diventa un oggetto difficilmente inquadrabile poiché estremamente ricco di contenuti e attori (i nodi) tra loro molto eterogenei: ci sono singoli soggetti, associazioni, gruppi, ma anche articoli di giornale, pagine web ecc. Wellman definisce alcuni principi guida per ciò che concerne la Social Network Analysis: • Gli analisti delle reti sociali devono stare attenti alle relazioni tra i singoli nodi piuttosto che agli attributi di questi. • Quando gli studiosi usano l’approccio analitico della Network Analysis non devono trattare le reti come gruppi mutualmente esclusivi, ma ricordarsi che queste tendono a intersecarsi tra loro. • Non bisogna dimenticare che i differenti nodi, all’interno della rete, hanno diverso peso per le relazioni che intessono con gli altri componenti del network. • La natura della relazione tra due nodi dipende anche dalla relazione che ognuno dei due nodi ha con le altre reti. Per superare il divario tra la dicotomia reale-virtuale, Wellman propone di porre molta attenzione alle relazioni che si costituiscono a partire dagli ambienti digitali, non contrapponendole con quelle che si formano negli incontri faccia a faccia. Tra le due non vi è alcuna contrapposizione, ma, piuttosto, un rapporto che vede le relazioni nate all’interno della rete come incrementali rispetto a quelle nate fuori da internet. Ogni individuo diventa parte integrante della rete essendone un nodo e contribuendo alla sua stessa sopravvivenza. Prendiamo come esempio il caso dei Social Network Sites: ciascuno degli utenti iscritti fa parte della rete in quanto individuo che popola e mantiene in vita il network condividendo contenuti, commentando i post degli altri utenti ecc. Wellman sviluppa il concetto di networked individualism: in internet gli individui possono fare parte di differenti network scegliendo autonomamente a quali di queste reti appartenere in base ai loro interessi. In breve, i cambiamenti sociali e tecnologici consentono ai soggetti un ulteriore mezzo per creare rapporti che vanno a integrarsi con la vita quotidiana piuttosto che porti come alternativa ad essa. La rete non è quindi la fautrice del Networked individualism, ma, più semplicemente, una piattaforma grazie alla quale questo modello raggiunge la sua massima espressione. L’apporto di Wellman all’analisi dei media digitali offre pertanto una chiave interpretativa per ciò che concerne la socialità in rete e per quel che riguarda il ruolo dell’individuo stesso all’interno dei processi che internet permette e favorisce, svincolando i soggetti dai limiti della comunicazione faccia a faccia. Sonia Livingstone, Internet studies e giovani. La Livingstone parte da una riflessione su cosa siano i nuovi media e su cosa significhi studiarli: 1. Tenta di comprendere quali siano le caratteristiche dei nuovi media, cioè quegli elementi che li distinguono e che non divengono presto sorpassati. Tra questi, individua il fatto che i nuovi media sono formati e danno forma alla società in modo ricombinatorio, per cui i sistemi dei new media sono il prodotto di una continua ibridazione tra le tecnologie esistenti e le innovazioni in reti tecniche e istituzionali interconnesse. 2. Vi è poi un’idea di network, che si avvicina molto a quella di Castells del “network dei network”, che è costituita da connessioni ampie e multiple fatte di nodi (persone, gruppi, macchine, insiemi di informazioni, organizzazioni). 20 Infine, un’altra caratteristica della digitalizzazione è l’aumento delle prestazioni, che viene solitamente espresso dalla Legge di Moore del 1965. Essa recitava così: «Le prestazioni dei processori e il numero di transistor collocabili su essi raddoppiano ogni 18 mesi». Con questa affermazione, si intendeva che i computer avrebbero aumentato la loro capacità di calcolo costantemente grazie allo sviluppo di processori sempre più potenti e sempre più piccoli. Questo è stato vero fino a ora, ma secondo alcuni limiti fisici, stanno inevitabilmente frenando il continuo aumento delle prestazioni. Ibridazione e convergenza. Digitalizzazione, compressione, miniaturizzazione e aumento delle prestazioni hanno innescato il fenomeno della convergenza multimediale, con cui si intende la fusione di: • Contenuti (video, audio, dati) • Supporti (computer, tv, dispositivi portatili, videogiochi ecc.) • Distribuzione (come i contenuti arrivano al supporto). Facciamo esperienza della convergenza ogni giorno: quando consultiamo una mappa sul nostro smartphone, non lo stiamo solo trattando come un telefono; quando sincronizziamo il calendario online delle lezioni con quello del nostro tablet, non stiamo solo annotando un appunto in agenda. La convergenza è un fenomeno evidente, quotidiano e molto sfaccettato. L’idea della convergenza tra i media non è recentissima ed è stata largamente studiata da De Sola Pool, il quale, agli inizi degli anni ’80, ha analizzato il sistema dei media di allora sotto diversi aspetti, soprattutto giuridici e sociali. Pool sostiene che fino al 19° secolo i media erano compartimentati tra loro, erano cioè divisibili e inscrivibili all’interno di tre categorie: 1. I vettori, ossia le reti per il trasporto delle comunicazioni. 2. L’editoria, che riguardava la produzione dei contenuti (dalla stampa al cinema, alla musica ecc.). 3. Il broadcasting, cioè le reti radiotelevisive. (Broadcasting = modalità di irradiazione del segnale che avviene da un emittente verso un pubblico indistinto). Ogni qual volta appariva un nuovo medium, questo veniva inserito per analogia all’interno di una delle tre aree, di cui di conseguenza assumeva le caratteristiche giuridiche e sociali. per esempio, quando è nato il telegrafo, esso è stato considerato un vettore per analogia con il sistema postale, in quanto si trattava del trasporto di un messaggio attraverso un canale dietro pagamento di una tariffa. Il sistema tripartito però è stato messo in crisi nel 20° secolo dall’avvento di molti nuovi media che si sono posizionati a cavallo tra le aree. Per esempio, quando negli USA durante gli anni ’70 si diffuse la tv via cavo, il legislatore si trovò in difficoltà a decidere se si trattasse di un vettore, per analogia con le altre reti, o di un broadcasting, per analogia con il sistema radiotelevisivo. Si trattava cioè di definire se gli introiti sarebbero arrivati dal pagamento di una tariffa per il trasporto del messaggio oppure dalla pubblicità e dagli abbonamenti. Si decise per la seconda ipotesi, perché si ritenne che in tal modo lo sviluppo della nuova tecnologia sarebbe stato più rapido. Con la digitalizzazione queste decisioni sono diventate sempre più difficili e lasciate alla deregulation, che sostituisce la decisione legislativa con l’azione del mercato: oggi i media condividono lo stesso linguaggio (quello informatico), si mescolano tra loro ed erodono la tradizionale corrispondenza biunivoca con le diverse forme di comunicazione. Un singolo strumento può essere ora vettore di servizi che nel passato erano forniti 21 per vie differenti, e viceversa un servizio che in passato era fornito da un singolo mezzo può essere ora fornito da mezzi diversi. Secondo Bettini, la convergenza multimediale si articola su tre livelli: 1. La produzione dei media: si tratta della convergenza di attività e metodi gestionali differenti nelle imprese multimediali. Si pensi alle grandi conglomerate, come la News Corporation o la Walt Disney Company: queste enormi aziende nascono solitamente come industrie dei media tradizionali che progressivamente aggregano i settori emergenti delle telecomunicazioni. Sebbene questi grandi gruppi si basino sulla diversificazione degli investimenti più che su una vera e propria ibridazione, la tendenza è comunque verso una sovrapposizione delle funzioni di ogni settore, non solo dal punto di vista economico. I nuovi media in questo senso si collocano in un punto cruciale, perché sono sempre più pervasivi e disseminati rispetto ai classici broadcaster, che possono così sia conservare posizioni e mercati esistenti, sia sfruttare di nuovi. 2. Le tecnologie: i canali non sono più, come diceva Pool, l’elemento distintivo tra i diversi media. La radio, per esempio, non utilizza solo l’etere per la trasmissione ma anche il web, e possiamo ascoltarla ovunque attraverso computer, tablet o smartphone. Quest’ultimo è emblematico della convergenza: in un unico supporto confluiscono telefonia, computer, internet, televisione, registrazione, produzione, riproduzione e ritocco di foto e video. 3. I contenuti simbolici: questo livello ha a che fare con il concetto di multimedialità. La convergenza, in tal senso, riguarda la crasi dei linguaggi simbolici utilizzati dai vari media che si ibridano tra loro, che significa non solo il modo in cui vengono confezionati i contenuti, i codici utilizzati, ma anche la forma che viene loro data. La commistione di linguaggi muta la stessa natura dei contenuti che vengono strutturati e adattati per differenti piattaforme. Fin qui dunque è chiaro che la convergenza multimediale investe tutto il sistema dei media, andando anche a ridefinire la relazione tra vecchi media – nuovi media. È grazie però a Jenkins che la riflessione si è ampliata fino a comprendere la dimensione culturale. Secondo Jenkins la convergenza rappresenta un cambiamento culturale che riguarda in primis i consumatori, gli utenti delle tecnologie, che le usano per connettere le loro intelligenze. Il consumo si trasforma in un processo collettivo in cui i consumatori diventano una forma alternativa di potere mediatico. La multimedialità all’epoca del digitale. Prima, era definita multimediale una comunicazione che utilizzava diversi supporti, codici e canali per veicolare il suo messaggio. Oggi, non ha più senso considerare multimediale qualcosa che si limita a raggruppare diversi codici e usare contemporaneamente differenti canali sensoriali nella sua comunicazione. È il connubio con il digitale che ne ha specificato il significato. Negli anni ’80 il temine comincia a essere usato in ambito informatico, tant’è che leggenda vuole che sia stata la Apple a utilizzarlo nel 1984 per descrivere il suo nuovissimo Macintosh, il primo personal computer dotato di interfaccia grafica a finestre e mouse. Multimediale quindi inizia a essere un aggettivo attribuito ai computer che non si limitano più alla sola gestione di testi, ma integrano anche immagini e suoni. I nuovi media sono nuovi perché sono multimediali, ma perché sono multimediali? 22 In primo luogo, la caratteristica della multimedialità contemporanea è la possibilità di una perfetta integrazione, di una interconnessione così stretta di dati, testi, suoni, immagini di ogni genere all’interno di un unico ambiente informativo digitale, da far perdere le caratteristiche individuali dei singoli media. La perfetta integrazione è possibile grazie alla digitalizzazione dei contenuti che permette di trattare i dati mediante lo stesso linguaggio. Si pensi alla conversazione Skype che si fa con un amico, durante la quale ci si parla, ci si guarda, ci si scambia file o link: l’esperienza è multimediale, nel senso che tutte le operazioni che si compiono sono perfettamente integrate tra loro. In secondo luogo, è multimediale ciò che consente al fruitore di avere un’esperienza di fusione multimediale in cui il messaggio complessivo che riceve è dato dall’insieme dei linguaggi utilizzati, in cui il tutto è più delle singole parti. L’esempio è ancora la chiamata via Skype: ce ne si rende conto quando la connessione è lenta, il video salta, l’audio si blocca; è allora che si perde la sensazione di fusione multisensoriale. A questo punto, siamo a una sorta di resa dei conti a cui è necessario ricorrere a due strategie: 1. Definire le diverse forme di multimedialità sulla base dei supporti e dei canali. Distinguiamo tra multimedialità offline e online: • Offline: è propria dei prodotti editoriali fissati su supporti come cd-rom e dvd, che sono fruibili autonomamente. • Online: riguarda i siti web che sono fruibili grazie a una connessione internet. 2. Intrecciare la multimedialità con altri concetti propri dei new media. Si può parlare di multimedialità interattiva e ipermediata: • Interattiva: si pone in evidenza la possibilità di partecipazione dell’utente alla costruzione della comunicazione. • Ipermediata: l’accento è posto sull’organizzazione associativa delle informazioni di diversa origine mediale. L’ipertestualità. Quando carichiamo una pagina web, siamo abituati a vedere alcune parole sottolineate o scritte in azzurro e sappiamo che li c’è un link che apre un’altra pagina. Una sola pagina quindi ci offre numerose possibilità di approfondimento, che sta a noi decidere di cliccare oppure no. È questa la tipica modalità ipertestuale a cui il web ci ha abituato fin dalla sua comparsa ed è per questo una delle prime caratteristiche di innovazione che gli è stata attribuita. Con ipertesto digitale si intende, oggi, un insieme di materiali multimediali che sono connessi tra loro attraverso collegamenti (gli hyperlink) e che consentono all’utente una consultazione non sequenziale e non preordinata. Saper navigare significa anche sapere interagire correttamente con un modello ipertestuale, grazie al quale l’utente può costruire il suo percorso di lettura e di consultazione. L’idea dell’ipertesto non è nata però con il web: fu il tecnologo Bush a teorizzare già negli anni ’30 un macchinario che potesse montare (in senso cinematografico) vari documenti a disposizione dell’utente. Il Memex (così si chiamava) di Bush non fu mai realizzato, ma l’idea che proponeva era profetica. Negli anni ’60, quando le tecnologie erano mature, Ted Nelson insieme a Engelbart, l’inventore del mouse, prende le mosse dal lavoro di Bush e fonda il progetto Xanadu. Secondo Nelson, Xanadu doveva diventare un archivio mondiale di documenti, immagini, video collegato da una rete di computer e gestito grazie a un’interfaccia dell’utente, il quale poteva muoversi attraverso una mole enorme di dati senza mai temere di perdersi. 25 Gli elementi principali che definiscono il processo di personalizzazione sono: 1. La crescente adattabilità dei prodotti alle scelte dell’utente (personalizzazione dei contenuti): l’utente seleziona materiali preesistenti e si costruisce un prodotto su misura. È il caso ad esempio di molte applicazioni per smartphone, come Flipboard che permette di costruirsi il proprio giornale attraverso la scelta di testate diverse e di temi diversi che confluiscono sul terminale personale. Alle scelte dell’utente, che seguono una logica pull (qualcosa è prodotto in seguito a una richiesta dell’utente), si aggiungono anche i suggerimenti del sistema elaborati sulla base del profilo dell’utente grazie a cookie o log fil, che invece seguono una logica push (domanda anticipata dal sistema). Ormai sappiamo che quello che ci suggeriscono Facebook, Twitter o Flipboard deriva dall’elaborazione delle informazioni che abbiamo dato noi al momento dell’iscrizione o dell’installazione del software, dalla raccolta dei nostri dati su navigazioni, azioni, contatti e dai cosiddetti environment data, ovvero i software che utilizziamo, l’hardware, l’indirizzo IP ecc. Così non ci stupiamo quando ci vengono proposti amici che effettivamente potremmo conoscere, pubblicità o notizie a cui potremmo essere interessati. Il risultato è un’offerta altamente ritagliata sull’utente. 2. La flessibilità dei tempi e degli spazi del consumo mediale (personalizzazione di tempo e spazio): i consumi mediali non sono più vincolati ai tempi di produzione e distribuzione, né agli spazi in cui sono collocati i supporti o le tecnologie tradizionalmente previste per la fruizione mediale. Se ieri sera ho perso l’ultima puntata del Trono di spade, posso rivederla in streaming sul mio tablet mentre sono in treno. Fino a non molto tempo fa, il palinsesto televisivo era personalizzabile attraverso la registrazione dei contenuti. Oggi la registrazione non è più necessaria, poiché le tecnologie streaming e on demand permettono al fruitore di vere quello che vuole quando vuole, scegliendo da una library messa a disposizione via satellite o online (MySky per esempio). Gli elementi principali di questo secondo livello di personalizzazione, quindi, sono costituiti dall’offerta a disposizione dell’utente e dai sistemi tecnologici che gli permettono di fruire i contenuti in modo svincolato da tempo e spazio. Quest’ultimo fenomeno è reso possibile dai cosiddetti media nomadi, cioè quei dispositivi portatili e wireless che ci permettono di essere collegati ovunque ci troviamo. 3. Lo sviluppo di azioni di bricolage sui media (personalizzazione della produzione): si tratta della diffusione di pratiche di consumo e produzione mediale parallele a quelle delle industrie culturali. Ci sono almeno due aspetti differenti da considerare: • La manipolazione dei prodotti mediali che si traduce non solo nella combinazione di elementi offerti, ma che, in senso tattico, si spinge all’appropriazione vera e propria. È il caso del file sharing e delle pratiche di download, più o meno legali. Le tecnologie peer to peer hanno permesso la condivisione di file tra utenti, senza passare per alcun server. Ad esempio, eMule. In campo musicale Apple è riuscita a creare un’alternativa tra il dominio delle case discografiche e la pirateria: nel 2004 al lettore iPod ha abbinato il sito iTunes Store, dal quale è possibile scaricare musica legalmente a 99 centesimi. L’operazione ha avuto enorme successo tant’è che dal 2006 le vendite musicali online hanno superato le vendite discografiche su supporto fisico. • Le interfacce grafiche interattive, la portabilità delle tecnologie, l’abbassamento dei prezzi e la diffusione di software progettati in base allo user centered design hanno reso le tecnologie facili da usare e alla portata di chiunque. Anche qui ci sono due aspetti: da un lato si assiste sempre di più alla produzione mediale e culturale da parte di soggetti esterni o marginali 26 rispetto alle industrie culturali che poi ne vengono assorbiti. Si pensi ai cantati scoperti grazie ai social network o ai blogger che acquistano visibilità dal basso. Dall’altro lato, la diffusione degli smartphone dotati di foto e video camera ha evidenziato la funzione di prosumer degli utenti. Con prosumer, crasi di producer e consumer, si intende il fenomeno per il quale chiunque sia dotato di un dispositivo digitale dotato di foto o videoregistrazione, diventa un potenziale produttore di contenuti mediali. Si pensi a siti come YouReporter in cui vengono pubblicati video di cronaca girati da normali utenti. Dalla crossmedialità al web collaborativo. L’avanzata del web 2.0, del web sociale che sollecita la partecipazione dell’utente e la personalizzazione dei contenuti, amplia l’idea di convergenza multimediale che viene sempre più definita come crossmedialità. Potremmo definire la crossmedialità come la convergenza 2.0. La crossmedialità veicola ancora più l’idea della globalità dei contenuti disseminati attraverso il web e non solo. I tweet prodotti durante la Primavera Araba hanno fatto il giro del mondo, e non solo sui social network: sono stati ripresi anche dai media tradizionali, come stampa, televisione, radio ecc. Il sistema dei media oggi è crossmediale nel senso che fonde tutti i media e tutti i contenuti attraverso il web, sempre più in tempo reale. al centro del sistema c’è l’utente. YouTube, il cui motto era Broadcast Yourself, è centrale nella riflessione sui prosumer, perché permette a chiunque di caricare video di qualsiasi tipo, ma è soprattutto uno dei protagonisti della crossmedialità perché fornisce una piattaforma facilmente utilizzabile e rappresenta un immenso repertorio a cui attingono anche i media tradizionali. I protagonisti della crossmedialità sono sempre più gli utenti, come del resto sostiene Jenkins, i quali diventano il fulcro di qualsiasi nuova proposta online, nel senso che sono chiamati sempre più a contribuire. Lo user generated content è la chiave di molte piattaforme. Ci sono svariate forme di partecipazione. Da un lato c’è il web social, con Facebook, Google plus, Linkedin ecc.; dall’altro, il web collaborativo. Quest’ultimo, oltre alla personalizzazione dei contenuti, offre agli utenti continue possibilità di interazione, di partecipazione e di collaborazione. Un esempio è rappresentato dai sistemi di rating, grazie ai quali gli utenti possono esprimere valutazioni su varie tipologie di prodotti, come libri, ristoranti, film ecc. È il caso di Tripadvisor, che recensisce ristoranti, alberghi, strutture turistiche attraverso i commenti dei visitatori. Oppure alcuni di Amazon che consentono di valutare libri o film. Questi sistemi funzionano quando molti utenti esprimono il loro giudizio, in modo che quelli troppo positivi o troppo negativi si annullano. Le piattaforme di mushup invece permettono di aggregare informazioni che provengono da fonti diverse come blog, siti, social network. Un esempio è Google Maps, che consente agli utenti di inserire elementi e di aggiungere informazioni in modo da rendere le mappe interattive e personalizzate. Ci sono poi moltissime app che fanno della collaborazione degli utenti il loro punto di fora: Waze per esempio. Si tratta di un navigatore social che non solo fornisce gli itinerari e le informazioni sul traffico, ma punta a costruire una comunità di wazer in cui ciascuno segnala ciò che trova per strada (incidenti, cantieri, polizia ecc.) e può, volendo, interagire con altri wazer con cui magari si trova imbottigliato nel traffico. Il bello del web collaborativo è che l’utente è centrale nella produzione e circolazione dei contenuti. Ne deriva una libertà rispetto alle logiche delle industrie culturali, come quella discografica che si è dovuta adattare alle forme di appropriazione della musica introdotte dalle nuove tecnologie. Non solo, secondo alcuni questa 27 libertà si allarga anche ai processi di partecipazione politica e più in generale si ritroverebbe nelle forme di cittadinanza attiva. Ma è anche questo il suo probelma secondo i critici. Keen, per esempio, denuncia l’impoverimento generale derivato dalla produzione di contenuti da parte di non esperti. I dilettanti che improvvisano user generated content non farebbero altro che sottrarre valore ai contenuti culturali, professionali e imprenditoriali. La qualità dei media tradizionali, fatta da professionisti, viene impoverita dalla folla di utenti improvvisati che popolano la rete e dalla gratuità dei contenuti. Un caso di studio: i wiki e Wikipedia. I software wiki (in hawaiano significa veloce), hanno come caratteristica principale quella di permettere agli utenti registrati di apportare modifiche velocemente a materiali pubblicati online direttamente dal browser utilizzato, senza quindi usare linguaggi di programmazione specifici. I documenti possono essere modificati da chiunque faccia parte del gruppo, gli utenti cioè possono anche cancellare, cambiare, spostare documenti inseriti da altri utenti; il sistema mantiene memoria dei cambiamenti in modo che sia possibile tornare alle versioni precedenti. L’’idea alla base del wiki è quella della creazione di contenuti da parte degli utenti in modo collaborativo. Il wiki più famoso è wikipedia, nato del 2001 e pubblicato in 285 lingue differenti. È il sesto sito più consultato con milioni di visitatori ogni giorno in tutto il mondo. È un’enciclopedia multilingue, collaborativa, online e gratuita: • Gratuita: è gratuita perché i suoi contenti sono consultabili pubblicamente senza limitazioni e costi. • Collaborativa: si basa sui contributi dei volontari che ne scrivono le varie voci. Chiunque può partecipare, inserendo nuove voci o modificando quelle presenti. Queste due caratteristiche, che sono alla base del progetto, si trovano nella cultura hacker, che vede nella conoscenza libera, aperta e collettiva i pilastri su cui costruire nella società futura. La dimensione collettiva della produzione della conoscenza ne fa una vera e propria comunità, in cui i partecipanti condividono alcuni valori fondanti nel progetto. Questi valori sono detti i 5 pilastri: 1. Wikipedia è un’enciclopedia: si escludono quindi le definizioni da dizionario, le discussioni, la propaganda, autobiografie, saggi promozionali e così via. 2. Wikipedia ha un punto di vista neutrale: ogni voce deve riportare le diverse posizioni e le diverse teorie, cercando di utilizzare un linguaggio imparziale. La neutralità dovrebbe essere garantita dal controllo comunitario che contraddistingue il progetto, e quindi laddove non sia raggiunta, la questione viene evidenziata a beneficio dell’utente. La neutralità è anche uno dei limiti di Wikipedia, poiché, per raggiungerla, alcune voci risultano poco omogenee in quanto frutto di più autori. 3. Wikipedia è libera: la licenza adottata assicura la libera diffusione e chiunque può modificare o creare nuove voci, a patto di essere iscritto alla comunità. 4. Wikipedia ha un codice di condotta: la wikiquette regola le interazioni tra i membri della comunità, che dovrebbero evitare attacchi personali, presumere la buona fede di chi partecipa e non abusare della possibilità di ripristinare le versioni precedenti delle voci. 5. Wikipedia non ha regole fisse: visto che il software permette di ripristinare le voci precedenti, i danni che si possono fare vengono contenuti; l’importante è partecipare. 30 1. Awareness: l’individuo è esposto all’innovazione senza detenere informazioni specifiche in proposito. 2. Interest: le prime informazioni arrivano al soggetto che mostra una certa attitudine a ricercarne di nuove. 3. Evaluation: momento in cui si prefigura la situazione futura immaginandosi mentalmente l’innovazione grazie alle informazioni raccolte nei suoi step precedenti. 4. Trial: il momento di sperimentazione dell’innovazione. 5. Adoption: l’adozione vera e propria in cui l’individuo decide di applicare completamente l’innovazione. Nell’ultimo punto della divisione appena esposta (adoption) troviamo i seguenti gruppi: 1. Innovators: composto da soggetti con un alto livello di istruzione, che hanno specifiche abilità nella comprensione e nella applicazione delle conoscenze tecniche e sono esposti a più fonti di informazione. 2. Early adopters: caratterizzato da individui che hanno alti livelli di istruzione e una elevata reputazione all’interno della comunità, cosa che li porta a ricoprire una funzione di leader all’interno della società. 3. Early majority: caratterizzato da soggetti che hanno una forte interazione con i pari, hanno una posizione di leadership e tendono a seguire un processo deliberativo per ciò che concerne l’adozione di una nuova idea. 4. Late majority: comprendono soggetti che hanno un capitale economico basso, che subiscono fortemente la pressione dei pari e che sono molto prudenti. Questi sono normalmente scettici e tradizionalisti. 5. Laggards: sono individui isolati e sospettosi che hanno relazioni solo con i vicini e i parenti. Hanno risorse limitate e affrontano il processo di decision making lentamente. La svolta descritta coinvolge la vita sociale e va a reinterpretare la relazione tra la comunicazione interpersonale e quella di massa. Gli individui entrano a far parte di una comunicazione personale di massa e, in modo più o meno consapevole, si rendono conto di essere protagonisti attivi della comunicazione grazie all’accumulazione e alla diffusione delle pratiche che consentono di autorappresentarsi. Alla base di tutto c’è la propensione dell’attore sociale a farsi media, a diventare cioè soggetto della comunicazione anche grazie all’interiorizzazione delle logiche e dei linguaggi mediali, così come delle forme espressive ed estetiche dei media. Da un lato c’è, dunque, l’appropriazione del dispositivo mediale e dall’altro un lavoro che è allo stesso tempo riflessivo e d’interiorizzazione del punto di vista del lettore/spettatore. Ora, per rispondere alla domanda “In che modo le nuove tecnologie della comunicazione intervengono nei processi identitari e nelle relazioni umane?”, possiamo partire dall’identità e dal ruolo dei nuovi media nella gestione di quest’ultima. Da sempre i media hanno avuto un ruolo rilevante nelle dinamiche identitarie, fornendo spesso la possibilità di entrare in contatto, ad esempio, attraverso i romanzi o i serial televisivi, con sfere esperienziali e modelli di riferimento non direttamente accessibili nella vita quotidiana. Continuamente, durante il corso della vita, ciascuno di noi s’interroga sulla propria identità attraversando differenti livelli di consapevolezza. In questo percorso, le domande che ogni individuo si pone assumono essenzialmente due forme: • L’identità personale: riguarda il desiderio costitutivo del soggetto di considerarsi un’individualità diversa da tutte le altre e pone le sue fondamenta sulla propria storia e sulla corporeità. 31 • L’identità sociale: concerne le dimensioni intersoggettive e condivise dell’identità, contemplando l’esperienza in quanto azione situata all’interno dei ruoli e delle relazioni in cui ogni individuo è immerso. Le risorse alle quali ciascuno accede per costruire la propria identità sono in larga misura presenti anche nella realtà culturale e mediale, attraverso le quali l’individuo riesce ad attingere risorse simboliche utili a costruire le identità nelle interazioni con gli altri. I social media sono strumenti importanti in cui e con cui i differenti attori costruiscono e mettono alla prova la propria identità. Le piattaforme sociali e i nuovi media offrono a ciascuno nuovi modi di rappresentarsi e riarticolano le dimensioni pubbliche e private ridefinendone i confini. Costruire la propria “faccia” significa oggi curare anche la presentazione se sé che viene fatta mediante i nuovi media. Aprire un profilo su una determinata piattaforma, scegliere una foto degna di presentarci, postare notizie o commenti politici, sono tutte azioni che fanno parte della selezione delle nostre caratteristiche per congegnare una facciata pubblica della nostra identità. Tutto ciò, ovviamente, viene calibrato anche in base alla piattaforma, perché, come Goffman insegna, ogni situazione prevede specifici comportamenti anche in relazione ai pubblici di riferimento. Nel profilo professionale di Linkedin, ad esempio non metterò le ultime foto della mia festa di laurea quando apparivo provato dai numerosi alcolici ingurgitati. Il web sociale indica tutte quelle piattaforme presenti su internet che permettono agli individui di interagire o socializzare utilizzando tecnologie come il cellulare, il computer ecc. Con il suo avvento, si crea un importante spartiacque all’interno dell’analisi del rapporto tra identità e media digitali, così come nel modo di utilizzare questi ultimi da parte degli utenti. Nel primo periodo di analisi dei media digitali spesso è stata tracciata una netta linea di demarcazione tra il mondo online e quello offline: una divisione che vedeva una vita parallela, quella online, in cui potevano venire sospese le regole di comportamento valide offline e all’interno della quale era presente persino un rischio di scissione psicologica della personalità. Secondo alcuni autori lo spazio virtuale è concepito come un miglioramento di quello reale: un luogo privo di materialità in cui vi è un’iper-realizzazione del reale. Per altri il virtuale non è autentico, ma è una brutta copia del reale. Anche per questi studiosi definiti debunkers (smascheratori), il mondo offline e quello online sarebbero separati e differenti. In questo caso il rischio maggiore sarebbe rappresentato dal pericolo d’inquinamento della vita reale da parte del mondo virtuale, dalla perdita del sé e dalla possibilità che nascano forme di dipendenza. Roversi afferma che in rete è possibile fornire una presentazione di sé libera dai vincoli che ci sono imposti dai ruoli che quotidianamente occupiamo nella vita reale e addirittura superare la fisicità inerente alla nostra persona e a far sì che sia il nostro corpo a fornire una definizione della nostra identità come entità integrale, stabile e unitaria. I nuovi approcci che si sono occupati di identità e nuovi media. Grazie alle analisi sui nuovi media e sulla cultura digitale, come ad esempio, quelle di Jenkins, è stato mostrato come la vita virtuale in internet non sia mai decontestualizzata o disincarnata. Lo spazio digitale è materialmente reale, socialmente regolato e discorsivamente costruito. L’utilizzo delle risorse messe a disposizione della rete diventa quindi uno spazio di espressività per il self, così come un elemento capace di dare senso alla vita quotidiana e alle forme dell’azione sociale. 32 Gli spazi fisici e quelli digitali vanno pertanto a fondersi in un continuum che perde l’accezione reale/virtuale, online/offline per definirsi in toto semplicemente come esperienza e interazione, che sia essa mediata o meno. Le più recenti analisi del web sociale fanno emergere che se in passato il gioco dell’identità consisteva nel fingersi qualcuno diverso da noi, oggi il continuo confronto con gli altri utenti, la valutazione dei feedback che riceviamo, il riconoscimento che otteniamo attraverso quello che mostriamo in rete, fanno parte di un processo che si allontana dalla finzione per avvicinarsi invece al continuo dialogo tra identità personale e sociale che avviene nella vita quotidiana. Elizabet Reid nel 1996 afferma che gli ambienti digitali sono una sorta di Identity playground, cioè luoghi che permettono infinite possibilità di manipolazione. Gli Identity playground si trasformano spesso da territori in cui giocare l’identità in spazi dove metterla alla prova, performarla, modificarla anche rispetto agli altri. Nel flusso comunicativo il pubblico di riferimento non è più formato da network segregati, ma da una rete che li contiene tutti al suo interno. I media sociali possono aumentare l’accesso alla propria intimità ma la performance identitaria che ciascun soggetto compie all’interno degli spazi digitali è messa in atto con forti intenti di desiderabilità sociale che portano a strategie di costruzione della facciata e di riflessività ben specifiche. Attraverso i continui feedback che con i media sociali l’utente può ricevere, dal gruppo dei pari ad esempio, l’identità è messa alla prova al fine di operare continui aggiustamenti che puntano nella direzione dell’accettazione sociale. I rapporti sono perennemente sottoposti allo sguardo di tutti coloro che sono presenti nel network. Pensate se scriveste un post eccessivamente personale, come la delusione rispetto al comportamento del vostro partner su Facebook, e poi ve ne pentiste dopo un’ora. Durante il tempo intercorso tra la pubblicazione e la cancellazione probabilmente qualche amico avrà letto ciò che avete scritto e magari potreste essere “accusati” di infantilismo poiché sbandierate ai quattro venti, in modo eccessivo, la vostra vita privata. La facciata che i soggetti mostrano attraverso i media digitali è il risultato di una negoziazione tra immagini e immaginari dentro e fuori dalla rete, tra lo spazio pubblico e quello privato. Per dirla altrimenti, pensiamo quando creiamo la nostra pagina in uno specifico social network. Ciò che vogliamo mostrare è il frutto di un continuo gioco di riflessioni su come ci potrebbero vedere gli altri, come vediamo noi stessi, come vorremmo che gli altri ci vedessero e su cosa vorremmo che gli altri vedessero (o non vedessero) di noi. Le foto che pubblichiamo, così come i post che scriviamo, fanno tutti parte di una performance quotidiana che mettiamo in atto dinnanzi a tutti gli utenti che possono accedere alle nostre informazioni. L’identità diventa un canovaccio a cui il soggetto lavora costantemente attraverso l’integrazione delle auto- narrazioni e delle narrazioni altrui, dei sistemi di relazioni, delle appartenenze. In questo complesso lavoro di bricolage i nuovi media mettono a disposizione risorse variegate alle quali accedere per gestire le narrazioni del sé così come i sistemi di interazione. Gli utenti ripropongono all’interno dei social media stati d’animo, sensazioni, emozioni ecc. che prendono forma nel digitale e riacquisiscono forza nella quotidianità una volta che gli altri li visualizzano. I media digitali divengono in tal modo strumenti attraverso i quali misurare la propria identità sociale e personale così come veri e propri banchi di prova per entrambe. Il continuo processo messo in atto crea una traccia visibile del suo compimento, cosa di cui i soggetti che utilizzano i social media sono più o meno consci. Basta pensare ai video che troviamo su YouTube, che mantengono testimonianza di gesti più o meno plateali come corse spericolate in automobile, scherzi fatti al professore durante le ore di scuola. I video possono anche essere tolti dall’utente che li ha caricati, che, però, non sarà mai certo che qualcuno non li abbia copiati e che li rimetta di nuovo in circolazione. Tecnologie dello stare insieme 35 Wellman vuole cioè spiegare che oggi possiamo creare connessioni che non derivano semplicemente dal frequentare lo stesso corso di studi, la medesima palestra o il circolo del partito che ideologicamente ci sembra più vicino. Possiamo, invece, fare parte di gruppo che trascendono dal fatto che ci si veda frequentemente e che piuttosto basano la solidarietà interna su valori condivisi o il perseguimento di scopi ben precisi. Con virtual togetherness Bakardjieva vuole superare le accezioni normative che sorreggono l’idea di comunità; la socialità online infatti può assumere altre forme oltre a quella comunitaria. Secondo l’autrice bisogna trascendere il dualismo che contrappone la socialità in rete con quella reale, poiché la seconda non sarebbe il contrario della prima. La vera distinzione sta piuttosto tra un uso del web che prevede l’interazione con gli altri e il consumo in modo isolato di beni e di servizi che la rete mette a disposizione. Nella virtual togetherness, la sociologia in questione distingue diverse tipologie di relazione sociale digitale, che si muovono all’interno del continuum formato tra il modo del consumo e il modo della comunità: 1. Infosumer: comprendono coloro che usano i media digitali semplicemente per cercare informazioni. In tal caso l’utilizzo della rete non differisce molto dal poter leggere una rivista. L’utente di questo tipo non partecipa alla vita sociale svolta dagli altri membri, ma si comporta quasi sempre da lucker, ossia l’utente iscritto a una mailing list o che frequenta blog e forum, ne legge i messaggi, ma non ne scrive mai di propri, in modo da rimanere sconosciuto al resto degli utilizzatori della piattaforma. 2. Intrumental relations: internet rimane pur sempre una fonte di informazione, ma c’è un maggiore interesse a interagire con gli altri membri della comunità di riferimento. Lo scopo è quello di raccogliere informazioni ritenute utili e importanti. Questi soggetti, una volta risolto il loro problema informativo, non interagiscono più con la comunità di riferimento. La differenza con il modello precedente è che sono gli altri a fungere da fonte d’informazione. 3. People and ideas in virtual public sphere: sono coloro che rappresentano quel modello di socialità digitale che vede nella rete un luogo di raccolta di informazioni, ma che connette a questa funzione pure quella di scambio e confronto con le idee degli altri. Tali soggetti non utilizzano la rete solo per informarsi o chiedere informazioni agli altri, ma stabiliscono con questi ultimi una forma di relazione. 4. Chatter: è colui che ha uno stile interazionale in cui la socievolezza non ha confini; il modello informativo razionalistico non è presente, non si utilizza internet per motivi connessi meramente a trovare informazioni rispetto a un tema specifico, ma per condividere qualcosa con gli altri utenti. In questo caso il web è utile per incontrare persone e instaurare interazioni che si basano su esperienze personali e emozionali. 5. Communitarian: vede l’uso della rete come una fonte di sostegno sociale. Quest’ultimo è offerto da una comunità che permette ai singoli di identificarsi con essa ed elaborare un sentimento di appartenenza. È l’aspetto sociale e interpersonale quello dominate e le relazioni in rete sono trattate alla stregua di quelle faccia a faccia. Un’ultima prospettiva interessante rispetto alla socialità digitale è quella descritta da Danah Boyd (2008) che definisce gli utenti dei media digitali e, in particolar modo, dei social media come pubblici connessi (networked pubblics). Boyd si domanda se è corretto parlare di comunità quando si prendono in considerazione i media digitali, poiché non sempre i membri che appartengono a reti costruite mediante i media digitali si conoscono 36 direttamente e, spesso, gli interessi o i comportamenti condivisi sono limitati. I legami di questi gruppi sono talvolta effimeri e più deboli rispetto a quelli tradizionali e la comunicazione avviene con il pubblico che circonda chi comunica e con il quale si creano opinioni e informazioni comuni. Boyd afferma che nella rete oggi c’è una crescente disponibilità di Use Generated Content (UGC) che assumono quattro specifiche caratteristiche: 1. Persistenza: ciò che si esprime online è automaticamente registrato e archiviato. 2. Replicabilità: i contenuti possono essere facilmente duplicati. 3. Scalabilità: la visibilità potenziale dei contenuti nei pubblici connessi è molto grande. 4. Ricercabilità: nei pubblici connessi si può avere accesso ai contenti mediante un sistema di ricerca. Mentre le comunità tendono a durare nel tempo e a conservare gli stessi membri e, creando dei legami profondi, uscirne può risultarne difficoltoso, per i pubblici connessi è differente. Essi infatti possono risultare molto più fluidi e transitori, pensiamo ad esempio al pubblico che si forma su Twitter attorno ad un hashtag: in quel momento si crea un gruppo che pone la sua attenzione rispetto a quel particolare hashtag e che, eventualmente, interagirà per parlare di quello specifico argomento, dopodiché sparirà. Le 4 proprietà danno vita, secondo Boyd, a tre dinamiche proprie della socialità in rete: 1. Le audience sono invisibili, cioè non tutti i pubblici sono visibili quando un utente crea i suoi contributi online e, allo stesso modo, i pubblici non sono sempre compresenti. Ad esempio, se scrivo un post sul mio blog non so precisamente chi saranno i lettori di quel contributo. 2. La mancanza di confini spaziali, sociali e temporali che rendono complicato mantenere distinti i contesti sociali. È il caso delle foto che postiamo su Facebook senza ricordarci che il nostro datore di lavoro è anche nostro amico su Facebook. 3. L’opacità dei confini tra pubblico e privato, che perdono la loro specificità in favore di una nuova maniera di intendere questi due spazi non più così distinti, cosa più volte ribadito parlando di identità. I social media. Tra le novità più interessanti apparse nel panorama mediale troviamo quel sottoinsieme dei media digitali che abbiamo più volte citato con il termine media sociali o social media, espressione di quello che viene solitamente definito web 2.0 o web partecipativo. Con il termine social media si sottolinea per lo più la componente comunicativa delle nuove piattaforme, enfatizzando il loro ruolo nella mediazione piuttosto che quello di tecnologie informatiche dedite alla mera gestione delle informazioni. A questa caratteristica si somma l’orientamento dei media digitali alla partecipazione degli utenti, cosa che, a livello semantico, rende intercambiabile il termine social media con altri quali web 2.0, web sociale, web partecipativo ecc. Non è possibile elencare in modo preciso tutti i media sociali poiché moltissimi sono i servizi web 2.0 che popolano la rete e che creano nuovi spazi di socialità; inoltre ognuno di questi ha proprie caratteristiche e specificità, cosa che rende il panorama ancora più complesso e frastagliato. Però, come suggerisce Bennato, è utile ricorrere a una tassonomia di riferimento per dare una mappa che ci orienti all’interno delle diverse tecnologie web esistenti. Oltre ai wiki e agli spazi di collaborazione, il web offre altri servizi tra i quali i Blog e i Social Network Sites. 37 All’interno dei diversi social media i Blog sono tra le più antiche piattaforme pensate per comunicare e per essere utilizzate da un pubblico ampio e diffuso e tra le prime ad aver implementato alcune tecnologie che poi sarebbero state riprese in tutti gli altri servizi web 2.0, come ad esempio i feed RSS, ossia flussi di informazioni formattati in modo da essere interoperabili e interscambiabili fra diverse piattaforme o applicazioni. I blog sono siti internet in cui i contenti sono gestiti dall’utente e sono formati da post, cioè contenuti che vengono organizzati all’interno della pagina web in ordine cronologico. I lettori di questo sito possono commentare i differenti post aprendo piccoli dibattiti simili a quelli che si possono avere in un forum o in un newsgroup e che vengono definiti thread. Blood distingue diversi tipi di blog: • Log-style: una sorta di breve diario che trova spazio nella rete e in cui viene raccontata la propria vita quotidiana. In questo caso possiamo usare come esempio il blog del ragazzo che descriveva giornalmente il suo viaggio in bicicletta, così come tutti quei blog dove i blogger raccontano gli avvenimenti che caratterizzano le loro giornate ponendo al centro dell’attenzione gli avvenimenti personali e le emozioni. • Filter-style: un blog che si concentra principalmente sul mondo esterno e fornisce ai differenti lettori svariati link che fanno a chi naviga la possibilità di approfondire vari temi. Spesso contiene numerosi articoli provenienti da giornali online o altre piattaforme informative e va a porre la propria attenzione soprattutto su problematiche sociali. alcuni esempi li troviamo nei blog informativi. • Notebook-style: quest’ultima tipologia è una sorta di mix tra le due precedenti. Esso s’identifica maggiormente con gli interessi del blogger che lo gestisce, ha uno stile più narrativo e tratta solitamente di un tema specifico. Fanno parte di questo gruppo, per esempio, i blog che propongono ricette culinarie o metodi alternativi di recupero di materiale di scart. Ci sono anche altri modi di catalogare un blog seguendo differenti caratteristiche che possono toccare: • I contenuti: fanno riferimento al tema centrale del blog come ad esempio argomenti più intimi e personali, temi economici, tecnologici ecc. • I formati: fa riferimento alle tipologie descritte da Blood. • Gli autori: i post di un blog possono essere scritti da un singolo autore o da più autori. • Gli scopi e potenziali pubblici: ci sono blog che si rivolgono ad amici o familiari e altri che invece sono dedicati a specifici utenti o differenti segmenti della popolazione di Internet. Ciò che è interessante osservare dei blog è la coesistenza di componenti tecnologiche, sociali e relazionali che le rende una delle massime espressioni del web sociale. Almeno fino al 2007, anno in cui l’attenzione si è spostata ai Social Network, le ricerche sui blog hanno interessato molto gli studiosi di scienze sociali, che hanno analizzato i diari online e i blog informativi per sviscerare le dinamiche proprie della società contemporanea. Le varie ricerche hanno come comune denominatore l’elemento comunicativo basato sulla scrittura personale, con cui palesare le proprie opinioni così come le esperienze vissute e, in generale, elementi narrativi che danno espressione a letture intimistiche e diaristiche così come quelle informative e pubbliche. In sostanza, i blog ridefiniscono il ruolo dei soggetti all’interno di un panorama comunicativo più complesso e fluido, in cui ciascuno può divenire emittente e non è relegato semplicemente al ruolo di destinatario dei messaggi. 40 In definitiva i social media divengono strumenti grazie ai quali rielaboriamo il sé, e che hanno un alto valore identitario. La mediazione digitale permette una maggiore protezione che, se da un lato può sfruttare l così detta visual anonymity per superare le barriere connesse alla timidezza e all’imbarazzo, dall’altro permette una continua negoziazione dell’avvicinamento e della presa di distanza dall’altro. Il processo esplicito di costruzione della facciata e delle relazioni nei social, crea una flessibilità della negoziazione della distanza relazionale. Queste piattaforme proprie del web 2.0 danno modo a ogni utente di decidere cosa mostrare o non mostrare e a chi mostrarlo. Sono piattaforme che, se usate consapevolmente, aiutano a gestire le relazioni distinguendole secondo l’importanza che ciascuno dà a ognuna di esse. Se i media digitali, come abbiamo visto, sono strumenti di costruzione e mantenimento delle relazioni sociale, anche la reputazione personale così come la privacy passano attraverso i social media. All’interno dei media sociali i differenti membri acquisiscono reputazione in base a ciò che pubblicano sulle proprie bacheche, in relazione a quello che pensano i pubblici di riferimento o che viene dettato dai valori condivisi. La reputazione viene calcolata in base a: • L’affidabilità dei post. • I like. • Su siti come eBay, i membri con una reputazione alta sono quelli che vendono di più. Il mutato rapport tra pubblico e privato solleva due ordini di problemi: da una parte quelli connessi all’uso dei nostri dati da parte delle grandi aziende, il cosiddetto “dosieraggio digitale”; dall’altra l’accesso da parte dei singoli alle informazioni private. Le tecnologie informatiche possono incrementare le minacce alla privacy a causa della mancata percezione spaziale dei confini dei differenti pubblici, per la persistenza delle informazioni e la facilità con la quale si può accedervi, A tutto questo, però, bisogna affiancare l’utilizzo relazionale e identitario che i soggetti fanno dei media sociali. Esso può portare a quello che Barners chiama il paradosso della privacy, secondo cui gli adolescenti all’interno dei media sociali tendono a dare maggiori informazioni su di sé per aumentare l’intimità dei rapporti sociali, ma al contempo vorrebbero avere un controllo maggiore sui dati che inseriscono in queste piattaforme. Descriversi bene e dare molte informazioni su se stessi in un social media può voler dire sì esporsi maggiormente, ma al contempo mostrarsi in modo più efficace e quindi farsi conoscere di più e gestire l meglio il selfbranding personale. La gestione della privacy quindi fa emergere un più ampio livello di discussione, che è basato sulla rappresentazione del sé, con il doppio legame che da una parte tende a celare le informazioni personali e, dall’altra, deve fare i conti con la voglia di condividere con gli altri aspetti soggettivi e intimi. Come ricorda Livingstone la privacy diventa, soprattutto per i più giovani, un processo continuo in cui scegliere cosa nascondere e cosa rivelare. Tutto questo discorso ci porta, una volta ancora, a rivedere i confini tra pubblico e privato. Il mutamento di fondo si connette con una certa sovrapposizione dei contesti sociali e dei pubblici all’interno degli ambienti digitali. Con i media sociali tutto è ridefinito: le variabili spazio-temporali, così come le modalità comunicative (uno a uno – molti a molti) vanno a rimodularsi all’interno di un panorama in cui le rigidità di questo tipo di divisione svaniscono. Di conseguenza anche il senso di controllo della divisione tra pubblico e privato si 41 modifica mettendo in discussione, da una parte, gli spazi di ribalta e retroscena e, dall’altra, i pubblici di riferimento. Artieri definisce l’intimità digitale come «Uno stato in cui si possono vivere forti condivisioni emotive senza che siano un preludio per la capacità di dare vita a relazioni profonde. È uno stato nuovo di sperimentazione della relazione, in cui si produce un vicinato digitale senza necessità di profondità relazionale. È uno stato di difficile gestione emotiva e affettiva che rende complesso pensare oggi se stessi in chiave relazionale nell’equilibrio fra ambienti quotidiani reali e ambienti quotidiani digitali». C’è quindi una tensione continua tra pratiche di esibizione e forme di intimità, tensione che si traduce in un intreccio perenne tra spazi online e offline, all’interno di un frame complessivo che trova nella realtà (mediata o non mediata) le sue pratiche, le sue rappresentazioni e le sue conseguenze. CAP 5: I NUOVI MEDIA TRA DISUGUAGLIANZE E COMPETENZE I media digitali: chi è dentro e chi è fuori. Le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione riducono il divario di saperi di cui gli individui dispongono in ragione delle loro provenienze sociali e culturali. Le narrazioni più diffuse descrivono con larga enfasi le tecnologie e le applicazioni più innovative prospettando miglioramenti di ampia portata per le società contemporanee, sempre più interconnesse e networked: il voto elettronico; la teleassistenza e la telemedicina; i trasporti intelligenti ecc. Sono visioni alle quali si affiancano descrizioni dai toni più cupi, che esprimono cautela e timori rispetto ad alcuni fenomeni emergenti, quali la violazione della privacy e del diritto d’autore, la pedopornografia e l’adescamento. Nelle prime teorizzazioni sul ruolo dei media digitali e soprattutto di Internet, si prospettavano grandi potenzialità di sviluppo, sia individuale sia sociale, derivanti da questi mezzi di comunicazione innovativi e democratici: alcuni autori, come De Sola Pool nel 1983, le ribattezzarono infatti technologies of freedom, per la possibilità di accedere a una società dell’informazione globale e priva di barriere spaziali, capace di annullare i tradizionali vincoli al perseguimento di interessi e obiettivi dell’individuo, che poteva così essere finalmente libero. Si è inizialmente collocato la riflessione sui nuovi media entro una cornice di significato che li collocava entro un frame costituito da termini quali partecipazione, democrazia, libertà o rivoluzione. Un dibattito tra molti ciber-utopisti (che vedevano nel web 2.0 e nei social network potenzialità democratizzanti e anti-totalitarie) e cyber-scettici in cui a prevalere erano quasi sistematicamente i primi, con un sostanziale unico ostacolo riconosciuto: la mancanza di accesso alla rete. L’essere dentro o fuori la nuova rivoluzione digitale riguardava la possibilità o meno di connettersi alle opportunità del cyberspazio, condizione sine qua non per fruire delle sue immense risorse. È in questo momento che nasce e si sviluppa la discussione sul cosiddetto digital devide, ovvero sul divario esistente tra coloro che hanno accesso alle nuove tecnologie informative e della comunicazione e coloro che, invece, non hanno tali opportunità. Internet è potenzialmente disponibile per ogni individuo in ogni angolo del globo ma, praticamente, continua a essere evidente l’esistenza di un divario tra continenti, tra nazioni, tra aree geografiche e contesti urbani. Un divario che, poi, su un livello ulteriormente differente, riguarda le disponibilità di spesa di ciascun nucleo familiare, che può essere disporre delle risorse economiche per acquistare dispositivi e servizi con cui fruire dei contenuti della rete. 42 Come ricorda Castells «l’accesso da solo non risolve il problema, ma è un prerequisito per superare la disuguaglianza in una società le cui funzioni e i gruppi sociali dominanti sono sempre più organizzati intorno a Internet». I dati sul global digital devide offrono l’occasione di ragionare sulle dimensioni dell’esclusione dalle reti digitali di intere aree geografiche. I parametri tradizionalmente utilizzati per ricostruire la geografia di internet sono due: 1. La dimensione di Internet, ovvero il numero totale assoluto degli utenti di un determinato paese. 2. La penetrazione (o distribuzione) di Internet: cioè il tasso di accesso di Internet all’interno di un dato paese o area geografica, calcolato come percentuale degli utenti della rete sul totale della popolazione. In termini di grandezze numeriche il continente asiatico è il bacino più grande di utenza di Internet, seguito dal continente americano, l’Europa e l’Oceania per ultima. Per comprendere meglio come si distribuiscono gli utenti di Internet dobbiamo rapportare il loro numero assoluto con la popolazione totale delle differenti regioni, ovvero soffermarci sulla penetrazione della rete, il dato che più riesce a rappresentare lo squilibrio reale nella distribuzione degli utenti in Internet. Alla cosiddetta network society appartiene circa un terzo del pianeta. Più di 4 miliardi e mezzo di persone ne sono escluse. Fuori dal luogo comune, vediamo più precisamente anche questo dato: se è vero che in asia si contano più utenti che in qualsiasi altro continente, è altrettanto vero che da sola la popolazione asiatica rappresenta più di metà della popolazione mondiale totale. Pertanto, la penetrazione di Internet in questo continente è bassa. Nella graduatoria sugli utenti di Internet e della telefonia mobile, agli ultimi posti permangono paesi che affrontano gravi problemi di sottosviluppo e conflittualità interne. Se molti Stati africani stanno accelerando nel percorso di sviluppo tecnologico grazie agli aiuti che si sono concentrati proprio sulle infrastrutture della comunicazione, altrove, come in Cina, le azioni di censura governativa frenano l’uso delle reti digitali. I dati sulla diffusione della telefonia cellulare e sui dispositivi mobili di connessione alla rete sono significativi anche per un’altra ragione: in alcune di quelle regioni del mondo che, rispetto all’uso di Internet, soffrono per gli svantaggi infrastrutturali, tecnologici e organizzativi, sono sempre più gli utenti ad andare online usano i telefonini. Il settore della telefonia mobile ha avuto, attorno alla metà del primo decennio degli anni 2000, un’espansione tre volte superiore alla media mondiale. Le connessioni cellulari, allora, possono parzialmente risolvere il gap esistente tra paesi ricchi e paesi poveri, là dove la disuguaglianza riguarda una disparità di risorse tecnologiche. In Italia, più di uno su due ha accesso alla rete, ben al di sopra della media mondiale, quindi, ma con un ritardo di 30-40 punti percentuali rispetto ad altre Nazioni dell’Unione Europea, mentre presenta un numero di contratti di telefonia mobile doppi rispetto alla media mondiale. I maggiori utilizzatori di dispositivi mobili intelligenti sono soprattutto maschi, giovani e con un livello di istruzione medio-alto. In sintesi, per i profeti della nuova era internettiana, quell’ipotetica Età dell’Oro in cui alla penuria, all’opacità e alle costrizioni dei vecchi sistemi si sarebbe sostituita la ricchezza, la trasparenza e la libertà della rete, si pone un ostacolo, intrinsecamente legato ai non superati problemi di disuguaglianza economica, politica e sociale che impediscono l’accesso universale alle nuove opportunità. 45 IL REDDITO. Le differenze nelle risorse disponibili in termini di reddito sono indubbiamente determinanti nel definire i meccanismi di inclusione/esclusione legati all’uso delle ICT: del resto, se attualmente in quasi tutti i paesi del mondo l’accesso alla rete non è gratuito, o anche so lo è quasi, a esso di vanno ad aggiungere i costi per la dotazione di hardware e software, i costi di aggiornamento e di servizio legati all’utilizzo delle tecnologie, come la spesa per l’energia elettrica. Negli Stati Uniti hanno mostrato come il reddito fosse uno degli indici più importanti nel prevedere l’accesso alle ICT e come siano state soprattutto le classi più ricche a determinare questi trend di crescita. Per quanto riguarda l’Europa, alcune ricerche svolte tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000 confermano l’influenza esercitata dal reddito sulla distribuzione delle ICT: nel 2000, in Europa circa il 37% dei soggetti più ricchi erano online, contro il 14 dei più poveri. L’ETÀ. L’età si correla negativamente all’adozione delle tecnologie: il gap generazionale, favorevole ai giovani e giovanissimi (13-24 anni) e sfavorevole ai senior e agli anziani, permane. Raramente gli individui più anziani possiedono competenze e abilità cognitive e tecniche necessarie per utilizzare i nuovi media. Nati molto prima dell’avvento della società dell’informazione, hanno subito la rivoluzione tecnologica spesso in modo passivo ed estraneo, senza essere coinvolti dai processi e dalle informazioni in atto. Sono i bambini e i ragazzi gli attori su cui si concentrano le riflessioni sulla partecipazione nelle società dell’informazione. Le etichette utilizzate per descrivere la relazione tra ragazzi e media digitali si sprecano, ma tra le più efficaci vi sono certamente: • Nativi digitali: utilizzata per indicare coloro che sono cresciuti con le nuove tecnologie della comunicazione. • Digital immigrants: solo in un secondo momento si sono avvicinati ai nuovi media. • Tardivi digitali: ancora guardano i nuovi media con diffidenza o tecnofobia. Come ci ricorda Livingstone, il gap generazionale è dato dalle specifiche competenze richieste dai nuovi media: per quanto riguarda i media tradizionali (fumetti, libri, cinema, radio, televisione), molti adulti possono non condividere i contenuti fruiti dai pubblici giovanili ma sanno accedere al medium; nel caso del computer e di Internet, invece, le competenze sia operazionali sia critiche rendono molti genitori immigrati di quella società dell’informazione che i loro figli abitano in qualità di nativi. I nativi digitali e la Net generation sono il risultato di quell’effettivo rimodellamento cognitivo indotto dalla diffusione delle nuove tecnologie, che genererebbero nuovi stili di pensiero, di apprendimento e di comunicazione. È un’etichetta efficace ma che pecca di eccessiva semplificazione, per due ordini di ragioni: 1. I modi di utilizzo e le interpretazioni dei contenuti digitali dipendono da quei fattori di stratificazione come il genere, lo status socio-economico, la cultura, l’esperienza d’uso e l’incorporazione dei media digitali nella propria vita quotidiana. I nativi digitali, più correttamente allora, sarebbero tutti coloro che usano la rete da tempo, per molto tempo e con competenza. Non solo giovani, quindi, e non tutti i giovani automaticamente. 2. L’idea, ottimista, che i giovani siano naturalmente esperti di Internet, poiché giovani, conduce alla delegittimazione degli interventi delle politiche sociali, operate dagli adulti, volti a educare i giovani ad un uso consapevole della rete: se i giovani sono più esperti degli adulti, perché dovrebbero aver bisogno di protezione? L’espressione bricoleur high tech propone un modo diverso di osservare i processi di appropriazione delle nuove tecnologie della comunicazione. I giovani, infatti, sono in grado di sfruttare tutte le potenzialità dei media elettronici e di combinarle non solo tra loro, ma anche con quelle dei vecchi media, in base a quello 46 che devono esprimere in quel momento. I giovani bricoleur sono tali perché dimostrano di conoscere i significati simbolici delle tecnologie che utilizzano, sapendo scegliere nel loro equipaggiamento il mezzo più adatto per veicolare un determinato messaggio in quel preciso momento. Intuitivamente, si può ipotizzare che la variabile età col passare del tempo ridurrà i suoi effetti sugli accessi ai media digitali perché, grazie al ricambio generazionale, in futuro diminuirà quella parte di popolazione che non possiede le capacità tecniche e cognitive necessarie per utilizzare i nuovi media. IL GENERE. Anche il genere può rappresentare una fonte di disuguaglianza nell’accesso a Internet. Nell’aprile 2010 le donne rappresentavano il 45,7% della popolazione mondiale di Internet, ma con differenze notevoli tra le diverse aree geografiche: se nel Nord America, in Nuova Zelanda, in Russia e in Canada si registra una sostanziale parità di genere per ciò che concerne l’accesso alla rete, in America Latina, Asia ed Europa le donne sono sottorappresentate rispetto ai maschi. Una situazione di ritardo delle donne rispetto agli uomini che tende a persistere nel tempo e che conduce a parlare di un vero e proprio digital gender devide. Tuttavia, nel caso delle generazioni più giovani, il divario di genere sparisce, per ricomparire in maniera marcata nelle fasce d’età successive. La permanenza dell’asimmetria di genere viene generalmente associata, pertanto, alla quota di popolazione più anziana e meno istruita. L’ISTRUZIONE. Come nel caso della variabile di genere, non vi sono in realtà differenze significative per ciò che concerne i diversi livelli culturali posseduti tra le nuove generazioni. Ragazzi e giovani si dimostrano disponibili all’accesso e competenti negli usi al di là dei titoli di studio posseduti, con differenziali negativi tra i livelli: secondo le più recenti indagini, tra gli utenti del web di età inferiore a 24 anni, in Paesi come il Belgio e il Portogallo è maggiore il numero di coloro che possiedono solo il diploma rispetto ai laureati; in Polonia, Slovenia, Finlandia e Repubblica Ceca i giovani con basso livello di scolarizzazione (elementare o media) superano, in accessi, quanti hanno un’istruzione media. Nei paesi occidentali in particolare, il dibattito da tempo si è spostato sulle differenze di banda e la velocità di downloading, sull’autonomia d’uso degli strumenti e le sue possibili differenziazioni e sulla frequenza della connessione, se saltuaria o continua. Ancora più specificatamente a essere oggetto di riflessione sono le forme d’utilizzo dei media digitali, a prescindere dalle condizioni materiali della connessione. È ciò che Hargittai chiama second level digital devide: più l’accesso a Internet si diffonde, maggiore rilevanza assume il tipo di capacità che si ha di sfruttare le potenzialità informative, relazionali o partecipative a disposizione. Una capacità che dipende dalle risorse economiche, culturali, sociali possedute. In questo senso, i nuovi problemi da affrontare sono le effettive competenze e abilità tecniche, ma anche la capacità di ricerca e selezione delle informazioni, di comprensione critica e non passiva dei contenuti, di gestione delle nuove opportunità di relazione online, amicale o professionale che sia. Il digital devide, non può essere definito nei termini del divario bipolare tra chi ha l’accesso alle ICT e chi non ce l’ha. Semmai, è da intendersi come un continuum di diversi livelli di disuguaglianze nell’accesso, nell’utilizzo e nei benefici tratti dai nuovi media, che varia tra i due ipotetici poli della totale mancanza di accesso e di un utilizzo appropriato ed efficace delle tecnologie. (Questo è importante). L’evoluzione del divario: le ipotesi interpretative. 47 Lo studio del digital devide, anche nella sua più banale classificazione tra have e have-nots, è utile in quanto rilevatore dei limiti propri della società dell’informazione, dalla quale sono escluse quote rilevanti della popolazione e per la quale da tempo sono state avviate specifiche politiche pubbliche e di e-inclusion. Se, originariamente, la chiave di lettura più frequentemente utilizzata per analizzare il rapporto tra le nuove tecnologie della comunicazione e i sistemi sociali ha avuto a che fare con il cosiddetto determinismo tecnologico, ovvero con l’idea che sia la tecnologia a stimolare, orientare o accelerare il mutamento sociale, le più recenti riflessioni mitigano quest’approccio insistendo sulla necessità di contestualizzare il discorso stesso sulle innovazioni tecnologiche e la loro diffusione e di considerare la relazione stessa tecnologia- società non come unidirezionale ma come un legame di interdipendenza. Le premesse sono chiare: 1. Le forme assunte dalle tecnologie e i loro usi sociali sono il prodotto dell’attività umana e riflettono le idee e gli interessi di chi le ha progettate e su di loro ha investito: nel caso di Internet, ideato in ambito militare, sono stati gli interessi dei primi appassionati di computer a permettere lo sviluppo di quelle caratteristiche che ne hanno ampliato poi la diffusione. 2. Progettisti e utenti ripensano, riadattano e modificano continuamente la tecnologia in ragione delle necessità contingenti. 3. Le tecnologie si inseriscono nelle pratiche sociali esistenti, adattandosi e modellandosi alle esigenze individuali, secondo una prospettiva che è quasi di interdipendenza tra dispositivo e utente. I processi di adozione di una nuova tecnologia paiono seguire un preciso percorso di diffusione che, come avevano già individuato agli inizi del ‘900 sociologi come Simmel, viene influenzata da opinion leader ed entra in un network di relazioni cruciale per la velocità di diffusione: sono i processi emulativi interni ai gruppi, correlati al grado di omogeneità della rete sociale, a stimolare l’adozione dell’innovazione. La forma tipica a S della curva di diffusione segnala come, all’inizio del processo, poche persone, le più innovatrici, adottano la nuova tecnologia; vi è poi un’accelerazione improvvisa fino a quando, in un certo contesto sociale, la metà circa degli individui adotta l’innovazione, per crescere poi con sempre minor ritmo fino a raggiungere il punto di saturazione. Per spiegare l’evoluzione del divario digitale e della diseguale diffusione in particolare di Internet, vengono tradizionalmente presentate due ipotesi che si distinguono principalmente nella previsione della diffusione tra la popolazione delle tecnologie per la comunicazione: 1. Normalizzazione: ritiene naturale l’esistenza, nel primo periodo di un divario nel possesso delle tecnologie che andrà via via normalizzandosi sino ad esaurirsi. Questa ipotesi, condivida dai cyber- ottimisti, considera i nuovi media come strumenti in grado di contribuire alla risoluzione delle disuguaglianze sociali esistenti: con una combinazione di libero mercato e contributi provenienti dalle istituzioni governative, il digital devide potrà essere superato grazie, ad esempio alla riduzione dei costi e all’introduzione di interfacce e dispositivi tecnologicamente più semplici, che ne garantiscono la diffusione. In questo modo, se in un primo momento è previsto un inasprimento delle differenze esistenti, successivamente e progressivamente questa distanza sarà colmata in quanto anche i gruppi più lenti nell’adozione della nuova tecnologia, per ragioni socio-economiche o culturali, avranno l’opportunità di superare il gap iniziale. (è un approccio cyber-ottimista e liberale). 2. Stratificazione: considera invece che le disuguaglianze create dai nuovi media si sommino a quelle già esistenti, rinforzandosi vicendevolmente. Questa ipotesi, al contrario, ritiene che il divario d’accesso si inserisca in una struttura sociale già caratterizzata da disuguaglianze in termini di capitali economici, sociali e culturali posseduti dagli individui e dai gruppi, e che le tecnologie accentuino tali preesistenti disuguaglianze. È l’ipotesi più vicina alle posizioni cyber-pessimistiche sugli effetti della rete: come nel precedente modello, si riscontra un momento iniziale di forte espansione e 50 1. Computer literacy: riguardano le conoscenze minime di hardware e software, del sistema operativo e di navigazione in Internet. È evidente che si tratta di un insieme vasto di competenze possibili, che vanno dal semplice accendere e spegnere un pc, al sapervi operare e intervenire per personalizzarlo e adattarlo ai propri bisogni. 2. Information literacy: sono le competenze funzionali alla gestione delle informazioni ricavate dalla rete. Hanno a che fare, quindi, con la capacità di individuare, cercare, selezionare, salvare e archiviare l’informazione cui necessitiamo, ossia con l’abilità di analizzare l’usabilità, l’attendibilità e l’affidabilità. 3. Multimedia literacy: le questioni poste dalla convergenza multimediale richiedono la capacità di saper gestire, comprendere e produrre un ambiente multimediale in cui i vari codici e linguaggi interagiscono continuamente. 4. Computer-mediated communication (CMC) literacy: rappresentano l’insieme di competenze e abilità indispensabili per comunicare efficacemente online, quindi per mandare email, chattare, messaggiare. Per postare e twittare negli ambienti informali dei social network; per comunicare elettronicamente in situazioni formali quali gli ambiti politi e istituzionali, nelle relazioni accademiche o scientifiche, nelle situazioni di lavoro o commercio. Hargittai propone una più articolata suddivisione in grado di spiegare le diverse sfumature delle competenze/incompetenze, per come possono essere diffuse tra gli individui: 1. Elaborazione di modalità sicure ed efficaci di comunicazione con gli altri: riguarda la capacità di produrre comunicazione adeguate, limitando i rischi, ad esempio, di non ottenere una risposta a una e-mail, perché l’argomento non è espresso chiaramente, o di divulgare inavvertitamente delle informazioni personali di altri partecipanti, senza il loro consenso. 2. Capacità di contribuire alle discussioni di gruppo, condividendone i contenuti: interessa non solo la possibilità di commentare un blog ma anche di costruire mailing list, frequentare siti in cui immettere contenuti, contribuire alla composizione collettiva di contenti condivisi. 3. Conoscenza e uso di specifici strumenti: comprendere l’utilizzo non solo di strumenti e software propri di alcuni sistemi con licenza d’uso, ma altri scaricabili che consentono di utilizzare funzionalità spesso più sofisticate. 4. Conoscenza di ciò che è disponibile online: è un tipo di competenza che va dalla consultazione e ricerca in rete di questioni elementari, all’individuazione di contenuti complessi e programmi scaricabili legalmente e gratuitamente. 5. Abilità nel trovare contenuti: data l’ampia disponibilità di contenuti e informazioni, l’uso di un motore di ricerca può produrre risultati non immediatamente efficaci e si tratta, quindi, di conoscere le modalità migliori per formulare le richieste. 6. Efficienza nella navigazione: come nel punto precedente, per individuare in tempi rapidi le informazioni cercate, è necessario saper formulare le richieste in maniera efficace, evitando le ambiguità o adoperandosi per risolverle. 7. Abilità nell’accesso alle fonti e credibilità dei messaggi: considerata la quantità di informazioni ottenibili in rete, una competenza (o incompetenza) può riguardare la capacità di rilevare l’autorevolezza e l’attendibilità delle fonti. 8. Competenze rispetto alla privacy online: abbraccia le capacità di non lasciare tracce nel web che possano mettere a rischio l’utente. 9. Competenze rispetto a questioni di sicurezza: sottolinea la necessità di possedere le abilità minime per evitare rischi a seguito della diffusione di dati personali sensibili. 10. Capacità di richiesta di assistenza: ha a che fare con la possibilità, in caso di bisogno, di ricercare assistenza in rete, sia da siti specializzati sia da altri utenti. 51 11. Adattare e personalizzare le informazioni: riguarda, per alcuni siti, la possibilità di personalizzare la home page dell’utente, così da ricevere aggiornamenti e informazioni attraverso una sola interfaccia. Entrambi i due modelli proposti mostrano quanto i nuovi media impongano concetti e, soprattutto, strumenti in grado di cogliere la specificità dei nuovi strumenti del comunicare. Quello di Hargittai, però, è un elenco che solleva molti interrogativi, forse più delle risposte che offre. Quali parametri si possono utilizzare per definire il grado di sicurezza ed efficacia della comunicazione? Cosa significa, in maniera concreta e misurabile, contribuire a un gruppo di discussione? In questo senso, diventa opportuno allargare ulteriormente il già ampio insieme di definizioni proposte, introducendo un piano ulteriore di discussione relativo alle competenze. Il ragionamento relativo alle competenze digitali si basa generalmente su modelli centrati sulle abilità individuali, da implementare. Secondo l’approccio delle social literacies, invece, la discussione sui livelli di alfabetizzazione e competenza posseduta agli individui non può prescindere dalla considerazione su quale sia il ruolo delle pratiche sociali condivise nella risoluzione di quei problemi che l’individuo deve affrontare. La digital literacy si realizza attraverso pratiche sociali che coinvolgono le istituzioni formative e, più in generale, le politiche e gli investimenti che ciascuno Stato promuove a seguito delle valutazioni sul fenomeno e che, a quel punto, modellano le competenze individuali. La literacy non riguarda, allora e ingenuamente, competenze tecniche neutrali, ma è un set di abilità regolamentate culturalmente e socialmente e che produce legittimazione o delegittimazione dei contenuti stessi del sapere. Per comprendere la logica sociale dei processi di acquisizione delle competenze digitali, seguendo Livingstone, proponiamo di riflettere sui cambiamenti intercorsi nella pratica didattica scolastica e la progressiva valorizzazione delle competenze visive e sinottiche nella progettazione di un libro di testo: se fino a qualche decennio fa un manuale era un lungo testo scritto, interrotto saltuariamente da qualche immagine, che doveva essere affrontato secondo la logica della lettura sequenziale, dall’inizio alla fine della pagina, ora si privilegia un testo amplificato dal linguaggio delle immagini, degli schermi, dei grafici, delle tabelle, dei box o quadrati interni. La competenza richiesta riguarda la capacità di leggere in maniera non lineare, tracciando il proprio percorso e producendo il proprio filo logico del discorso. Tale evoluzione riguarda nuove convenzioni culturali, nuove aspettative sociali e nuovi processi istituzionali, che hanno a che fare con le politiche per l’istruzione e l’educazione, i mercati editoriali ecc. CAP 6: PARTECIPAZIONE E POLITICA NEI NEW MEDIA. Le nuove tecnologie sono democratiche? Spesso, nel discorso comune, a un nuovo strumento di comunicazione si associa l’idea della possibilità di mutamento, della rottura con il passato e dell’inaugurazione di un’era nuova. Come ricorda Derrick de Kerckhove, l’eccezionalità della rete, sia dal punto di vista delle potenzialità ora offerte, sia delle capacità di evoluzione che promette, risiede nel conferire alle persone, tutte, il controllo sulla parola e sul linguaggio, in qualità sia di produttori sia di diffusori di idee e proposte, grazie alla velocità, istantaneità e simultaneità dei messaggi prodotti. È nella capacità di rendere disponibile una migliore qualità e una maggiore quantità di dati per tutti, nel decentralizzare la produzione e il consumo dei suoi contenuti, nel fondare sull’interattività i nuovi processi di apprendimento, nel trasformare ogni utente in un produttore di informazioni, che si dispiega il potenziale democratico dei nuovi media. È internet il luogo in cui individui, gruppi, comunità, istituzioni e società intere possono dar vita a network che si integrano, modificano, 52 sfaldano e ricompongono incessantemente, secondo i principi della condivisione delle idee e delle risorse, della libertà di pensiero e parola che possono incarnarsi in gruppi di pressione culturale, sociale e politica. In questo senso, le nuove tecnologie della comunicazione ben si prestano all’interazione con alcune delle tendenze che caratterizzano le democrazie avanzate: i nuovi media pongono rilevanti questioni in merito alla virtualizzazione della politica, al rapporto tra elettori ed eletti, all’idea e ai caratteri della cittadinanza, alle idee stesse di partecipazione e rappresentanza democratica. La cittadinanza digitale diventa quell’insieme di opportunità, offerte dalle nuove tecnologie, per rivitalizzare la relazione tra istituzioni e cittadini, così che questi ultimi siano sempre più inclusi nella vita politica e vi partecipino con continuità, condividendo la responsabilità delle scelte e della gestione della cosa pubblica. Come ci ricorda Pittéri, i nuovi media possono delineare scenari di radicalità che poco hanno a che fare con i processi democratici: determinare nuove concentrazioni di poteri e conoscenza, anziché la loro diffusione; imporre nuovi sistemi di controllo, piuttosto che favorire le libertà personali e civili. Anche sul piano del dibattito politico, la rete ha i suoi limiti: ad esempio, la pura propaganda e l’uso di linguaggi demagogici e talvolta violenti che puntano a far prevalere l’emotività sulla razionalità; l’uso di slogan e di invettive che si sostituiscono al confronto civile e all’informazione documentata. Il problema, nell’analisi del ruolo che i new media ricoprono nei processi politici, sta nel non farsi abbagliare da quella sorta di mitizzazione della democrazia che tende a far prevalere l’idea che internet costituisca un mondo di uguali, in cui vige la libertà di espressione, svincolato dalle appartenenze, siano esse ideologiche, culturali o geografiche. Le esperienze dei software free e open source hanno dimostrato che è possibile dar vita a esperimenti di egualitarismo informatico, favorendo la nascita di comunità che ne perseguano le filosofie di fondo. Il web è anche pesantemente colonizzato dalle grandi companies multinazionali; è presidiato da stringenti leggi di garanzia dei copyright; è connotato da forme e strumenti di controllo invasivi della privacy dell’utente. Inoltre, è largamente utilizzato sia da organizzazioni governative sia da gruppi eversivi i cui scopi paiono spesso opporsi ai principi democratici e partecipativi che costituiscono, appunto, il mito positivo della rete. A ciò dobbiamo sommare almeno altre due dimensioni, che concorrono all’apertura democratica dei sistemi politici e amministrativi. La propensione all’introduzione e all’adozione dei nuovi media da parte delle élite politiche al fine di incentivare la partecipazione dei cittadini ai processi politici e decisionali è troppo spesso più formale che sostanziale: nonostante l’evoluzione continua dei sistemi comunicativi, l’offerta di opportunità di partecipazione digitale è generalmente scarsa e, spesso, risponde a logiche economiche di revisione della spesa pubblica, e quindi orientata al risparmio e al taglio delle risorse, piuttosto che a un investimento su reti, professionalità e competenze che portino allo sviluppo reale di nuove possibilità di interazione con i cittadini. Inoltre, la questione tocca la capacità – ma anche la volontà – dei cittadini stessi di incrementare i propri livelli di partecipazione ai processi politici e decisionale. Si è diffusa la consapevolezza che i new media possano condurre alla risoluzione di alcuni problemi e la tendenza all’uso di internet è aumentata, di contro solo una minoranza di persone accede effettivamente alle risorse online di partecipazione. La sfera pubblica digitale. Molta della politica contemporanea assomiglia a un prodotto da vendere entro un mercato in cui l’elettore appare più come una sorta di cliente che deve scegliere una marca che non come un cittadino con il diritto di essere informato e messo nelle condizioni di partecipare. 55 Alle attività convenzionali, come votare, interessarsi di politica, discutere con amici, parenti o colleghi, cercare di persuadere amici, partenti o colleghi su una propria opinione, si affiancano quelle non convenzionali, che non si inscrivono all’interno di una cornice istituzionale e possono essere isolate ed estemporanee. Includono il prendere parte a una manifestazione attraverso diverse modalità – sit in, flash mob ecc. –, contattare o apparire nei media per esprimere le proprie opinioni in merito a questioni d’interesse sociale o politico, partecipare a forum o gruppi di discussione in internet, compiere azioni di disobbedienza civile, come bloccare il traffico dei lavori per protesta ecc. Una partecipazione, quindi, che non si esaurisce in un’opzione di exit dal mercato, di disinteresse e disimpegno dalla politica, ma di una voice (cambiare le cose) privatizzata, alimentata da quelle forme di comunicazione personalizzate che vedono gli elettori diventare attivi, critici e alla ricerca di un modo per farsi sentire e protestare: le mail, i siti o i blog personali, le petizioni online e i social media sono strumenti ottimali per convogliare questo tipo di domanda politica. L’individualizzazione del cittadino, la caduta del coinvolgimento civico, la delegittimazione degli attori politici tradizionali sono tra le categorie più usate per interpretare le trasformazioni avvenute nel rapporto tra società e politica e per spiegare le modalità di inclusione e di impegno, non solo tramite il voto ma anche attraverso la partecipazione nelle organizzazioni di rappresentanza politica. La gran parte delle ricerche empiriche svolte a livello internazionale dimostrano come la relazione tra l’uso di internet e la partecipazione alla vita politica sia positiva: a un più intenso uso dei nuovi media corrisponde una maggiore propensione al coinvolgimento civico. Le interpretazioni date al fenomeno, tuttavia, differiscono tra di loro quando l’interrogativo che ci si pone è legato al ruolo proprio di internet nel fenomeno. Ci sono tre tesi che provano a spiegare la relazione tra nuovi media e la politica: 1. L’effetto causale positivo. secondo questo approccio, la rete avrebbe degli effetti favorevoli sul comportamento politico: rimuovendo le barriere comunicative tra individui, internet permette la partecipazione a una sfera pubblica sempre più inclusiva, promuovendo l’empowerment di nuovi soggetti e gruppi e l’innovazione politica e culturale. Rientrano in questo approccio le teorie della mobilitazione, che sostengono il ruolo dei new media nel mobilitare chi non è attivo in politica poiché abbassa i costi della ricezione e dello scambio delle informazioni. 2. L’effetto causale negativo. Secondo questo approccio, opposto al precedente e caratteristico dei primi tentativi di spiegazione del nesso internet-politica, le nuove tecnologie hanno effetti sfavorevoli sulla partecipazione, in quanto il tempo e le attività compiute in rete riducono lo svolgimento di attività sociali e politiche offline, gestite all’interno dei propri gruppi di riferimento. 3. L’autoselezione. In contrapposizione ai due precedenti approcci, ci sono letture della relazione tra partecipazione e nuovi media che sottolineano come i fattori correlati sia all’uso di internet sia alla partecipazione spesso coincidano: i cittadini già politicamente attivi si auto-selezionano nell’usare internet e, allora, l’accesso non accresce in maniera causale il coinvolgimento civico. Se la rete ha un effetto sulla forma della politica, non lo ha sul piano della partecipazione individuale: più che i new media, sono altri – il reddito, la cultura, la professione ecc. – i fattori che si correlano alla partecipazione politica. Il problema di queste analisi è quello di pretendere di spiegare la partecipazione attraverso l’analisi della relazione diretta che essa ha con le tecnologie, mascherando la più ampia complessità che risiede nell’intreccio tra le due dimensioni. Ad esempio, se è vero che internet può essere uno strumento per 56 rafforzare e incrementare le possibilità a disposizione di chi è già interessato alla politica, esso è anche così pervasivo nella vito quotidiana delle persone da espandere la conoscenza dei fatti pubblici anche verso coloro che prima non ne erano interessati, invogliandoli a partecipare. Sia le letture eccessivamente ottimistiche, sia quelle pessimistiche del ruolo della rete paiono inadeguate a comprendere le dinamiche verso cui le modalità di partecipazione tendono. Come ci ricorda Dahlgren, le potenzialità e i limiti democratici e partecipativi della rete sono entrambi compresenti in tracce di sfere pubbliche inedite, plurali, diverse da quelle tradizionali ma non così tanto da esserne estranee: i nuovi media sono una risorsa e uno strumento per la partecipazione e le mobilitazioni e, al contempo, gli usi politici della rete sono plasmati dalle culture civiche e dalle culture di internet, ovvero dal grado di inclusione digitale e dal ruolo della rete entro la cultura – personale, civica, politica – di appartenenza. Nell’utilizzo della rete da parte dei cittadini per scopi politici, dobbiamo forse più efficacemente considerare i media digitali come una variabile dipendente, ossia considerare primariamente i motivi per i quali gli individui partecipano o meno alla vita politica: le risorse di cui dispongono, le loro motivazioni, il loro inserimento in reti sociali e il contatto con i canali della mobilitazione politica. Ovvero: se non si impegnano, è perché non possono, non vogliono e nessuno glielo ha chiesto. In questo senso, è da problematizzare una delle distinzioni che spesso si usa per discutere degli effetti della rete nell’ambito politico, quella tra online e offline. Le nuove tecnologie mobili della comunicazione rendono possibile l’accesso alla rete – e quindi la partecipazione e la protesta – ovunque e in qualsiasi momento; la trasposizione online di forme di partecipazione che esistono già offline, come il firmare petizioni; la ridefinizione complessiva di pratiche collettive di azione politica, quali i nuovi movimenti sociali, dovrebbero bastare a far comprendere come, nel complesso, gli individui che intraprendono le azioni online sono influenzati dalla loro esperienza reale, così come ciò che imparano e fanno in rete ricade sulla loro esperienza quotidiana. Gli strumenti della democrazia online. L’espressione e-democracy è usata per indicare, genericamente, l’insieme delle opportunità di partecipazione dei cittadini nei processi decisionali per effetto di internet. Grazie alla rete, i cittadini possono intervenire direttamente nel dibattito pubblico e formulare opinioni online, accedere a informazioni e servizi pubblici o, perché no, partecipare a elezioni tramite il voto elettronico. Più concretamente, il concetto di e-democracy comprende ambiti e dimensioni differenti: 1. L’inclusione sociale, da intendersi come la riduzione delle disuguaglianze digitali che impediscono la piena appartenenza alla società dell’informazione. In questo senso, per poter parlare di cittadinanza digitale è necessario garantire a tutti la possibilità di avere a disposizione reti, infrastrutture, servizi e strumenti culturalmente adeguati che ne consentano l’utilizzo. 2. L’accesso all’informazione, ovvero la possibilità di attingere in maniera diffusa alla comunicazione prodotta dagli attori pubblici, consentendo quella trasparenza necessaria sia a esprimere un consenso consapevole verso le decisioni adottate, sia a esercitare un controllo democratico sull’operato delle istituzioni. 3. L’accesso alla sfera pubblica, cioè la possibilità per chiunque di produrre, modificare e rendere disponibile l’informazione, partecipando alla formazione delle opinioni attraverso il dialogo e il confronto. 4. La dimensione elettorale, vale a dire i processi elettorali di selezione della classe politica e di formazione delle assemblee rappresentative e dei governi, con particolare attenzione ai meccanismi e alle tecniche di voto (il voto elettronico, a distanza). 57 5. L’iniziativa diretta, cioè la possibilità che chiunque possa presentare petizioni, appelli, proposte inerenti a questioni che interessano e coinvolgono la comunità e di sottoporle al dibattito della comunità stessa. 6. La partecipazione ai processi decisionali, quindi il coinvolgimento dei cittadini e delle loro forme associative in specifici processi decisionali (tavoli locali di concentrazione delle politiche di sviluppo, patti territoriali, urbanistica percepita, bilancio partecipativo ecc.). Secondo questa schematizzazione, è in ogni fase del cosiddetto ciclo di vita delle politiche pubbliche che la partecipazione dei cittadini alla vita politica delle istituzioni pubbliche può essere favorita dai media digitali. Si tratta, tuttavia, di modelli di democrazia elettronica che, pur cominciando a delinearsi nella realtà, restano ancora su un piano strettamente teorico di analisi. A partire da un processo complessivo che, tramite l’uso dei nuovi media, spinge verso una maggiore efficienza amministrativa – l’e-government (processo di informatizzazione dell’amministrazione pubblica) – possiamo stabilire alcuni livelli di evoluzione del coinvolgimento dei cittadini tramite i new media e, così, distinguere anche i tipi diversi di e-democracy: 1. E-democracy amministrativa. È il primo gradino che, muovendo dalle esperienze di e-government, conduce alla piena realizzazione della democrazia elettronica: l’informatizzazione dei processi amministrativi produce una iniziale democratizzazione degli enti, attenuando il tradizionale impianto gerarchico della burocrazia pubblica, rendendo accessibili le informazioni e verificabili le procedure amministrative. La risoluzione organizzativa prodotta dall’uso della rete stimola pratiche collaborative, flessibili e trasparenti, che poi vanno a ricostruire il legame fiduciario tra istituzioni e cittadini. Ad esempio, oggi è possibile l’iscrizione online alle scuole dell’obbligo. 2. E-democracy consultativa. Prevede che sia stimolato e favorito il coinvolgimento dei cittadini in determinati momenti decisionali e temi politici. Le istituzioni scelgono l’agenda degli argomenti da trattare, le alternative – e i tempi – su cui i cittadini possono esprimere la propria opinione. L’ e- democracy consultativa risulta inclusiva perché è fondata sul principio della trasparenza del processo decisionale ma, contemporaneamente, sulle scelte precostituite dall’istituzione e sulla subalternità di coloro che vi partecipano, che possono solo esprimere la preferenza su una delle opzioni proposte. Le consultazioni, infatti, possono aprirsi a soggetti, fasce di popolazione o gruppi solitamente esclusi dai processi decisionali amministrativi, benché interessati e investiti da quei provvedimenti: i residenti, i pendolari, i migranti ecc. 3. E-democracy partecipativa. È un modello che, pur prevedendo la responsabilità delle scelte finali di competenza delle istituzioni, concepisce i new media come uno stimolo effettivo alla partecipazione attiva: i cittadini si trovano in una condizione di quasi parità con lo Stato relativamente alle istanze da porre al centro del dibattito politico. Nella pratica, si è tradotto in forme di trasparenza istituzionale e di ascolto limitato, tramite i siti web istituzionali in cui è possibile far sentire la propria voce, e in forme minime di esercizio del voto elettronico, a scopo consultativo o referendario o a integrazione sperimentale delle forme tradizionali di voto, nel caso di elezioni politiche o amministrative. 4. E-democracy deliberativa. È il modello auspicato dai teorici degli effetti democratizzanti della rete: i cittadini partecipano a pieno titolo alla vita politica, discutendo e condividendo esperienze, interagendo con le istituzioni anche muovendosi parallelamente ad esse, all’interno dei propri gruppi o dalle associazioni di riferimento. Secondo questo modello si può realizzare la piena partecipazione sia dei singoli individui sia degli altri attori – istituzionali e non – radicati nei territori e quindi rappresentativi di porzioni più o meno ampie di popolazione o, in un’altra direzione, si può favorire la costruzione di ambiti di sfera pubblica sovranazionali, che possono muoversi perseguendo scopi e interessi che trovano piena cittadinanza anche nelle azioni politiche locali. 60 particolarmente evidenti di violazioni di diritti umani attraverso la diffusione di informazioni dettagliate su di essi. Il boicottaggio, che al contrario vede ricadere la scelta d’acquisto su certi prodotti al fine di premiare il rispetto di determinati criteri etici e sociali, è una forma di consumerismo politico che ha al centro i new media, con i quali si veicolano le informazioni e gli stili di protesta. Tra esse annoveriamo il consumerismo discorsivo orientante non ai prodotti in quanto tali, ma alla contestazione delle immagini, dei loghi, degli slogan pubblicitari delle imprese multinazionali. Forme digitali della guerriglia semiologica attuata a partire dagli anni ’50, che vedono la decostruzione del messaggio prodotto dai media e la sua collocazione in un contesto semantico diverso da quello consueto. Le azioni più comuni sono il parodiare gli annunci pubblicitari e il deturpare i cartelloni pubblicitari per alterarne il messaggio, delegittimando la fonte e, così, facendo perdere al messaggio la sua capacità persuasiva. La comunicazione politica online. I processi di mediatizzazione, oltre che rappresentare una sfida per le democrazie contemporanee, hanno raggiunto probabilmente un punto di non ritorno: dobbiamo domandarci quale sia l’equilibrio che emerge in ragione dell’insieme delle nuove risorse comunicative disponibili. In un efficace tentativo di classificazione delle campagne elettorali, Norris (2000) distingue tre fasi dello sviluppo storico della comunicazione politica: 1. Le campagne elettorali che si svolgono tra la metà dell’800 e la metà del ‘900 sono definite premoderne. Si sviluppano a livello lovale, attraverso l’opera di militanti e dei volontari, e si basano su forme di comunicazione interpersonale, faccia a faccia e porta a porta o mediante attività politiche in compresenza fisica: i comizi, le manifestazioni, i volantinaggi, le riunioni di partito ecc. L’uso degli strumenti di informazione è limitato e legato esclusivamente alla stampa di partito. 2. Le campagne moderne, tra gli anni ’70 e ’80, si estendono su scala nazionale: i leader politici cominciano ad affidarsi a consulenti per la comunicazione e la televisione di afferma come principale arena della campagna elettorale, favorendo il ridimensionamento della presenza sul territorio dei partiti, il declino della partecipazione politica e della lealtà partitica. La figura del militante e del volontario è progressivamente sostituita da quella dallo spettatore passivo della comunicazione politica. 3. Dagli anni ’90, il processo di modernizzazione produce cambiamenti nel sistema dei media, negli intermediari politici e nell’elettorato: le campagne postmoderne si caratterizzano per la proliferazione degli strumenti, dei canali e dei formati della comunicazione politica, che si accompagna alla frammentazione dei pubblici e che mette in discussione la logica stessa della comunicazione televisiva generalista. Non può più bastare costruire una campagna comunicativa standardizzata, basata sulla ripetizione di messaggi sempre identici e sull’assenza di coinvolgimento dei pubblici che, anzi, vanno sempre più integrati nella dinamica comunicativa, per renderla efficace. Le campagne sono sempre più permanenti, nel senso che è sempre più labile il confine tra attività di campagna e di governo. Nel modello di Norris, le campagne postmoderne non sono l’ultima tappa di un presunto sviluppo lineare delle forme di comunicazione politica che conduce dal premoderno a moderno. Al contrario, ripresentano elementi tipici della prima fase delle campagne elettorali, quali il recupero del contributo del militante e un’organizzazione aperta al contributo diretto dei cittadini e che lascia spazio e libertà di elaborazione lovale alle proposte comunicative. Non potendo far ricorso alle grandi ideologie, per stabilizzare i comportamenti di voto la politica ricorre a strumenti e metodi coi quali costruire relazioni basate sulla reputazione e sulla fiducia, conquistando gli 61 elettori di opinione e gli indecisi ma, contemporaneamente, non tradendo la fedeltà degli elettori di appartenenza. Il voto di appartenenza corrisponde a un’adesione di tipo ideologico e di lungo periodo a grandi scelte di principio e valoriali condivise; il voto di opinione, invece, si struttura su scelte mirate e su orientamenti variabili ed è legato alle proposte concrete a problemi contingenti. Se il primo è un voto stabile, perché a dover essere discusso, più del voto, è l’insieme delle credenze e dei valori dell’elettore, nel caso del voto di opinione si tratta di un consenso instabile, che misura le promesse fatte in campagna elettorale con le azioni politiche effettivamente realizzate. La stessa pubblicità postmoderna si muove infatti su un doppio binario: favorire i comportamenti d’acquisto a breve termine ma anche costruire e mantenere un rapporto di lungo periodo con i consumatori. È il presupposto di quelle campagne elettorali permanenti che hanno il duplice obiettivo di mobilitare i propri sostenitori e persuadere gli indecisi. La comunicazione, continua e integrata, vede l’utilizzo contemporaneo di più media, ma per finalità specifiche e differenti: un sito web per le esigenze di presentazione e informazione; un blog per l’accoglienza e il confronto con i cittadini; un canale social per condividere in tempo reale la propria azione e per incontrarsi con gli elettori ecc. Chi comunica, deve imparare a usare linguaggi e forme espressive specifiche delle nuove tecnologie, presentandosi come personalità con cui poter essere interessati a interagire, ispirando fiducia e generando conversazioni dirette e personali nei nuovi media. CAP 7: STUDIARE INTERNET E CON INTERNET. Allestire nel modo più consono la cassetta degli attrezzi. Avere a che fare con i new media, per chi si occupa di scienze sociali, assume un duplice significato che coinvolge lo studio dei nuovi mezzi di comunicazione, da una parte, in quanto specifico campo di indagine e, dall’altra, in qualità di strumenti di rilevazione e di raccolta del materiale empirico. L’evoluzione degli studi su Internet. Gli studi sulla comunicazione tra il XX e il XXI secolo si sono concentrati sulla ricerca di un nuovo linguaggio per la descrizione del potere dei media che si allontanasse da quello degli effetti. Tale cambiamento ha portato a una ridefinizione degli approcci e dei paradigmi che aiutasse a comprendere non solo la relazione con il mezzo, ma anche l’incorporazione dei media nella vita quotidiana. Il più grande mutamento di prospettiva all’interno degli Internet Studies negli ultimi anni è stato il tentativo di operare una sorta di radicamento dell’oggetto internet e degli sguardi ad esso collegati. Linea del tempo degli Internet Studies: 1. La prima fase è quella che va dagli anni ’70 ai primi anni ’90. In quel periodo il panorama tecnologico era notevolmente differente non solo per l’esistenza dei giganteschi mainframe sostituiti ora da computer sempre più piccoli, ma anche per la struttura della rete stessa che, negli anni ’80, era sicuramente poco user friendly e basata meramente sulla testualità, per via di una larghezza di banda ancora scarsa che non permetteva l’invio di immagini e video. C’è poi da aggiungere che i computer non erano ancora presenti nelle case, ma erano relegati soprattutto nelle grandi aziende, nei centri di ricerca e nelle università. Studi di taglio psicologico e socio-psicologico hanno interpretato internet come un canale capace di avere effetti sull’interazione umana e sui comportamenti degli utenti. Secondo questo tipo di lettura, il fatto che la comunicazione mediata da computer non permetta un’interazione coinvolgente come 62 quella face-to-face, porterebbe a una distorsione comunicativa che ricadrebbe sui comportamenti degli utenti portandoli a isolarsi e a non rispettare le regole della società. In questa fase, l’obiettivo degli studi era di prevedere gli effetti dei nuovi mezzi di comunicazione al fine di arginare eventuali pericoli che avrebbero potuto creare. A livello metodologico le ricerche si sono concentrate quasi esclusivamente sull’approccio empirico-sperimentale (testi fatti in laboratorio) a cui si è affiancato, solo raramente, quello empirico sul campo. 2. La seconda fase interessa tutti gli anni ’90, periodo in cui vi è una progressiva penetrazione delle tecnologie telematiche che non sono più relegate alle sole attività lavorative e di studio. Questa fase ha come caratteristica principale quella di considerare la rete in quanto luogo, identificandola spesso con il termine cyberspazio, uno spazio capace di contenere o ospitare pratiche e culture proprie di Internet. È stata soprattutto la divulgazione giornalistica specializzata (ad esempio Wired e Mondo 2000) a descrivere la rete in quanto luogo. Ciò ha portato con sé anche un cambiamento rispetto all’approccio metodologico che si è spostato verso lavori di matrice etnografica. Sebbene a livello pioneristico, in questi anni i ricercatori iniziano a esplorare il web in prima persona rifiutando la costruzione dei setting artificiali, in favore di ricerche utili a descrivere e interpretare le culture e le pratiche contestualizzate all’interno di Internet. L’approccio etnografico di questa fase è la risultante dell’ibridazione tra i metodi d’indagine derivanti dalle analisi giornalistiche e quelli di matrice sociologica e antropologica. Pensare alla rete come luogo ha portato ad assunti che hanno spesso contrapposto online e offline focalizzando l’interesse della ricerca esclusivamente su ciò che accadeva nel primo dei due spazi (l’online). Le analisi si sono quindi concentrate sulla comunicazione mediata da computer e hanno “dimenticato” di riflettere anche sulle altre forme d’interazione a essa complementari. 3. La terza fase coincide con la diffusione, sempre più estesa, delle tecnologie telematiche negli ambienti domestici, con l’affermazione di quello che abbiamo definito web 2.0 o partecipativo, ricco di UGC e piattaforme estremamente user oriented, con l’espansione dell’Internet mobile, che slega l’utilizzo della rete da uffici e abitazioni, e con l’apparizione di nuovi usi del medium connessi, ad esempio, ai servizi di geolocalizzazione (Google Maps) o di realtà aumentata. L’uso di internet entra a pieno titolo nella vita quotidiana di moltissimi individui e va a perdere, nell’immaginario collettivo, quell’aura quasi magica che l’aveva accompagnato nel periodo precedente. I ricercatori iniziano a interessarsi alle modalità con le quali gli attori sociali includono Internet nella vita quotidiana e non più a ciò che accade solo all’interno della rete. L’interesse si sposta sul come i diversi soggetti usano internet nella vita quotidiana. Il compito dei ricercatori diventa quello di comprendere e spiegare il collegamento tra le pratiche d’uso e le rappresentazioni sociali. In tale direzione, anche metodologicamente si cerca di far fronte a una complessità che supera il semplice dualismo online/offline attraverso l’uso di metodi integrati che combinino le analisi all’interno e all’esterno della rete. I questionari online. Il questionario è uno strumento di rilevazione composto di domande strutturate, prevalentemente chiuse e con risposte precodificate. Nella sua versione classica, il questionario è stampato su carta e compilato dall’intervistatore o dall’intervistato stesso che per rispondere seleziona le modalità di risposta presenti. A questa fase segue 65 della condivisione temporale. Per questo motivo, solitamente, viene utilizzata per dialoghi brevi o approfondimenti che supportano altre tecniche come l’etnografia della rete. inoltre, chi partecipa deve anche essere in grado di riassumere in poche battute quello che avrebbe potuto dire in molte più parole se avesse potuto parlare. 2. Le interviste individuali via e-mail si caratterizzano per l’asincronicità. Quest’ultima, sebbene possa dilatare i tempi dell’intervista, risulta avere valenze per lo più positive. Chi prende parte all’intervista non è costretto a rispondere immediatamente alla domanda che gli viene posta, ma può farlo quando preferisce, attuando un lavoro riflessivo più profondo su ciò che intende esprimere, riconsiderando o modificando quello che ha scritto. Questo vantaggio riguarda anche il ricercatore. Lo svolgimento di un’intera intervista dovrebbe occupare un range temporale compreso tra le due e le tre settimane, termine dopo il quale spesso la disponibilità degli intervistati viene meno e la ricchezza degli interventi si abbassa notevolmente. A livello tecnico non sono necessari particolari software per svolgere l’intervista, ma basta la disponibilità di un account e-mail. 3. La videoconferenza è una tecnica che si avvicina molto all’intervista telefonica a cui si aggiunge la possibilità di vedersi. Oltre all’equipaggiamento hardware è necessario uno specifico software che permetta la videoconferenza. Uno degli svantaggi di questa tecnica sta nel fatto che talvolta alcuni intervistati potrebbero essere reticenti a installare nuovi software nei loro pc perché non in grado di farlo o, più semplicemente, per pigrizia. Come per ciò che capita nell’intervista via chat, intervistato e intervistatore devono condividere la stessa finestra temporale poiché l’interazione è sincrona. I Focus Group online. Il focus group è una tecnica di raccolta del materiale empirico che si basa su un piccolo gruppo di persone, composto solitamente da 6-8 partecipanti. Questi, supportati da uno o più moderatori, parlano tra loro affrontando uno specifico argomento inerente all’oggetto della ricerca. I vantaggi che tale metodo offre sono soprattutto legati alla possibilità di coinvolgere più persone che hanno un’esperienza diretta rispetto al tema di ricerca, sondando così differenti punti di vista. Un altro vantaggio dato dal focus group è che, ogni volta, il ricercatore crea uno spazio di interazione di gruppo e di socialità. Ciò dà la possibilità a chi fa ricerca di indagare meglio costrutti e argomenti complessi e delicati. Far partecipare gli individui a una discussione di gruppo può attivare inoltre un meccanismo di empowerment che, se ben gestito, favorisce un confronto capace di far lavorare i soggetti attorno a un argomento non più come aggregato d’individui, ma, piuttosto, come un collettivo. Uno dei limiti del focus group riguarda il fatto che è difficile riunire i partecipanti. I focus group online offrono essenzialmente due vantaggi: 1. Convenienza: permettono di ottenere la presenza di partecipanti anche molto lontani territorialmente e molto impegnati professionalmente, e in alcuni casi, incrementano la velocità con cui i progetti possono essere completati. 2. Interazione tra i partecipanti: si producono idee in misura assai maggiore rispetto all’intervista singola. Ciò è strettamente correlato alle dinamiche di gruppo, agevolate dall’anonimato che la non- compresenza fisica consente. I focus group digitali possono essere condotti principalmente in due modi: 66 1. In una sessione sincrona i partecipanti prendono parte alla discussione nello stesso momento dalle loro postazioni. In questo caso possono essere utilizzate chatroom o altre modalità di chat messanger. Per preservare l’anonimato può essere utile che i partecipanti creino degli account ad hoc per quel che riguarda i software di messaggistica. 2. La sessione asincrona non prevede necessariamente la contemporaneità della partecipazione; l’interazione si basa su piattaforme come i forum o l’e-mail: i partecipanti possono leggere i messaggi e i commenti degli altri contribuendo al dibattito con le proprie considerazioni. Certamente, il vantaggio di una tale modalità è la maggiore libertà per quanto riguarda i tempi di svolgimento; tuttavia, l’autonomia può tradursi in una partecipazione sporadica e frammentaria che produce un’interazione discontinua. Un’altra grande potenzialità dei focus group asincroni è l’opportunità di mostrare materiale di supporto sul quale i partecipanti possono riflettere e dare quindi un feedback ragionato. Mentre nei focus group tradizionali quello che i partecipanti dicono è seguito da feedback non verbali più o meno consapevoli da parte degli altri soggetti presenti, ciò non può avvenire in quelli online. Questo permette di ridurre il fenomeno della desiderabilità sociale. Cosa comporta l’utilizzo dei focus group online: • Chi partecipa deve installare il software necessario. Questo prevede una minima conoscenza informatica che permetta al rispondente di utilizzare le piattaforme web o i software per prendere parte al focus group. • I contributi saranno sacrificati dal fatto che spesso gli interventi, proprio per la natura del mezzo, saranno brevi. • Per il moderatore la gestione dell’interazione online è più complicata in quanto è più difficile seguire ciò che viene scritto simultaneamente da più soggetti. I focus group online e i focus group tradizionali non risultano sempre equivalenti. La prima tecnica è vantaggiosa soprattutto nel momento in cui la compresenza fisica potrebbe mettere a disagio i partecipanti. È preferibile usare questo metodo di ricerca soprattutto per argomenti in cui l’anonimato potrebbe aiutare l’apertura del dialogo. L’etnografia della rete. Parlando di tecniche online abbiamo più volte ripetuto che esse non rappresentano qualcosa di totalmente nuovo all’interno del panorama metodologico della sociologia, ma, piuttosto, sono un riadattamento di vecchi metodi, ridefinizioni che devono tenere conto delle peculiarità stesse del web in quanto medium tra il ricercatore e i soggetti interpellati. Lo stesso vale per l’etnografia web-based. Infatti, sebbene taluni studiosi sostengono che il mondo virtuale rappresenti uno spazio sociale differente rispetto a quello della vita quotidiana, la maggior parte delle interpretazioni concorda sul fatto che ciò che accade in Internet entra pienamente a far parte delle esperienze di vita dell’individuo. Si possono sistematizzare i differenti approcci in base alla definizione del campo di ricerca, distinguendo tra i lavori che si interessano di fenomeni sociali: • Esclusivamente all’interno della rete. • Nella rete e fuori da essa. • Esclusivamente fuori dal web. 67 Queste distinzioni si rifanno a due modalità di declinare gli interrogativi di ricerca e gli oggetti di analisi che ne discendono. Da una parte, Internet è visto come qualcosa da studiare in quanto cultura in sé: l’attenzione andrà posta pertanto esclusivamente su ciò che la rete è in grado di mostrarci quasi come fosse una realtà isolata. Dall’altra, il web è invece inteso come un artefatto culturale che viene prodotto socialmente: in tal caso l’interesse andrà a focalizzarsi su tutte quelle pratiche e quegli elementi che non possono essere limitati solo all’online. Con i soggetti che interagiscono esclusivamente in rete, l’etnografo ha solo contatti online con il gruppo che intende studiare. Lavori di questo tipo si concentrano su ciò che i soggetti dicono o fanno in un determinato Social Network Site, in una chatroom, in un blog ecc. Queste analisi vengono svolte soprattutto su gruppi che basano le loro interazioni unicamente sulla comunicazione mediata da computer. Ogni soggetto avrà il suo nickname che lo renderà irriconoscibile dagli altri utenti con i quali presumibilmente non avrà contatti al di fuori del forum stesso. Un altro esempio è rappresentato dalle etnografie dei mondi virtuali, ossia quei giochi in cui i soggetti, attraverso un avatar, possono vivere all’interno di un mondo virtuale creato ad hoc. Con i soggetti che interagiscono sia mediante la CMC sia faccia a faccia, è necessario definire il campo degli studi per includere entrambe le interazioni. Si dovrà dunque studiare ciò che, ad esempio, viene detto e fatto all’interno di Facebook e ciò che avviene in classe, magari osservandolo direttamente o intervistando gli studenti. Con i soggetti che interagiscono soltanto offline, a interessare l’etnografo saranno le pratiche d’uso o di consumo delle tecnologie della comunicazione. Sono studi che vanno a concentrarsi principalmente su ciò che accade attorno agli artefatti tecnologici: ad esempio analizzando in che modo mutano i rapporti di potere tra genitori e figli con l’ingresso dei computer connessi alla rete all’interno dell’unità domestica. Come accade nell’etnografia tradizionale, per l’etnografo è fondamentale la definizione del campo di ricerca. Scegliere di fare etnografia all’interno di un forum, affiancarvi l’osservazione delle attività offline dei suoi utenti o le interviste, dipende dalla domanda di ricerca che ci poniamo all’inizio del nostro lavoro. È solo a partire dalla formulazione di tale quesito che possiamo definire il campo e quindi il miglior approccio che ci accompagnerà nel corso della ricerca. L’etnografia classica prevede tre modalità di osservazione: 1. Celata: nessun membro del gruppo osservato sa della presenza dell’etnografo. Con una ricerca fatta attraverso il web, l’etnografo può osservare le interazioni che hanno luogo nella piattaforma che sta analizzando comportandosi da lucker e non palesando la propria presenza. 2. Seminascosta: l’etnografo rivela la sua presenza e il suo ruolo solo a una parte del gruppo che sta osservando. 3. Palese: l’etnografo rivela la sua presenza e il suo ruolo al gruppo che sta osservando. Anche attraverso il web l’etnografo deve negoziare rispetto all’accesso al campo e alla permanenza all’interno dello stesso. Ricavare i dati dalla rete. Quello dei dataset, definiti Big Data, è uno dei cambiamenti più grossi nel panorama della conoscenza e della ricerca sociale.