Scarica Riassunto Storia contemporanea del Mondo Arabo L. Guazzone Storia dei Paesi Islamici e più Appunti in PDF di Storia dei paesi islamici solo su Docsity! STORIA CONTEMPORANEA DEL MONDO ARABO I PAESI ARABI DALL’IMPERO OTTOMANO AD OGGI di Laura Guazzone CAPITOLO 1 Il Mondo arabo contemporaneo: uno sguardo d’insieme 0. Le quattro grandi fasi della storia araba contemporanea Per permetterne un’analisi d’insieme, la storia politica contemporanea del Mondo arabo può essere schematicamente divisa in quattro grandi fasi. La prima (1800-1920) e lunga fase di gestazione del Mondo arabo è stata quella della modernizzazione, caratterizzata, da un lato, dal progressivo inserimento dei Paesi arabi nel sistema economico e politico internazionale dominato dagli Europei e, dall’altro, dal “riformismo difensivo”, il grande sforzo di riforma intrapreso dall’impero ottomano e dalle dinastie arabe autonome per appropriarsi della modernità e contrastare il predominio europeo. Questa prima fase è stata anche la fase della nascita dell’arabismo, dell’inizio dell’era coloniale e della Prima Guerra Mondiale, da cui è conseguita l’implosione del vecchio ordine imperiale ottomano. La seconda fase (1920-1945) è stata quella dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale, caratterizzata dalla nascita degli Stati nazionali arabi (e del loro sistema regionale), i quali si sono realizzati sotto l’egida del colonialismo europeo, ambiguamente sostenuto dai notabili locali, ma progressivamente contrastato dalle lotto d’indipendenza, condotte in nome del nazionalismo arabo dalle nuove élite emergenti. La terza fase (1945-1979) è stata quella delle rivoluzioni e del panarabismo, in cui gli Stati arabi, via via resisi indipendenti, hanno formalmente sostenuto le cause comuni del Mondo arabo: l’unità araba, lo sviluppo economico, l’indipendenza, la difesa della causa palestinese. Nella stessa fase, gli Stati arabi si sono però contrapposti, nel quadro della Guerra Fredda, tra regimi “progressisti” e regimi “conservatori”, come pure si sono sempre più differenziati Paesi “ricchi” e “poveri”, in virtù della ricchezza petrolifera cresciuta dalla metà degli anni ‘70. Infine, la quarta fase (19792015) è stata quella del declino del nazionalismo arabo, del moltiplicarsi dei conflitti regionali, dell’aumento delle disparità sociali e dell’emergere dei movimenti politici islamisti come principale forza d’opposizione ai regimi autoritari. In questa quarta fase si è realizzata una riconfigurazione del Mondo arabo: la maggioranza dei regimi arabi ha ricercato la stabilità all’ombra dell’egemonia occidentale, rinnovando i meccanismi dell’autoritarismo col passaggio dallo statalismo alla globalizzazione neo-liberale. La quarta fase include anche il periodo più recente (2010-2015), caratterizzato dall’esplosione (alla fine del 2010) delle mobilitazioni popolari della cosiddetta “Primavera araba”, le quali hanno impresso una scossa tellurica ai regimi dei singoli paesi, generando cambiamenti e conflitti che stanno mutando gli equilibri del sistema regionale arabo. 1. L’età della modernizzazione (1800-1920) 1.1 L’inserimento dei Paesi arabi nel sistema internazionale ed il declino ottomano Il Mondo arabo è entrato nell’età contemporanea via via che le sue province sono state coinvolte nei due fenomeni storici globali che hanno creato la modernità: da un lato, l’espansione mondiale del sistema economico capitalistico europeo e, dall’altro, l’espansione mondiale del sistema politico europeo degli Stati nazionali. Non c’è dubbio che lo stimolo esterno, innescato dal commercio internazionale, sia stato quello determinante per la progressiva integrazione del Mondo arabo nel modo di produzione capitalistico. I Paesi europei avevano da sempre commerciato con i Paesi arabi, in particolare dalla seconda metà del XVIII secolo. Già da quest’epoca, dunque, l’integrazione dell’economia agricola dei Paesi arabi nel sistema capitalistico europeo era ben sviluppata e va sottolineato come si trattasse già allora di un’integrazione subalterna: a differenza di quanto accadeva nei secoli precedenti, i Paesi arabi ora esportavano le loro materie prime soprattutto in Europa ed importavano sempre di più i manufatti europei. Alla fine del XVIII secolo, il vasto impero ottomano comprendeva tutti gli attuali Paesi arabi ed era di gran lunga il più esteso e potente degli Stati internazionalmente riconosciuti allora esistenti nell’area dell’attuale Mondo arabo. Alla fine del secolo, le province dell’impero ottomano si estendevano dall’Europa orientale e balcanica al Vicino Oriente ed alla Penisola araba, sino all’Africa del Maghreb. Tuttavia, sin dalla seconda metà del XVIII secolo, l’impero fondato dai Turchi ottomano aveva subito un graduale ridimensionamento del proprio controllo sui territori che gli erano nominalmente soggetti. Sul piano interno, questa crisi iniziò a manifestarsi come un lento sgretolamento del potere centrale, che vide il controllo dell’esercito passare ai vassalli del sultano, e l’emergere da questi di vere e proprie dinastie locali nei Balcani ed in Anatolia. Dal XVIII secolo questo processo riguardò anche le province arabe: quando Istanbul non fu più in grado di sovvenzionare i contingenti militari di stanza nel Maghreb, i capi dei vari contingenti locali si resero autonomi, creando vere e proprie dinastie. Anche in Siria e nella Penisola si affermarono principati locali, fondati da potenti famiglie dell’aristocrazia urbana o tribale. Anche se in modi e tempi diversi, questi nuovi poteri provinciali iniziarono talora processi di arabizzazione che prepararono il terreno al successivo sviluppo dell’identità nazionale araba. Contemporaneamente a questo sgretolamento interno del potere ottomano, sul fronte esterno avvenne una progressiva erosione territoriale dell’impero: nelle guerre combattute ad intermittenza tra Ottomani e potenze europee, l’impero perse tutti i suoi possedimenti in Europa orientale fino al Danubio. Dalla fine del XVIII secolo, l’impero ottomano non fu dunque più in grado di difendersi efficacemente dalla crescente superiorità militare degli europei, ai quali dovette fare sempre maggiori concessioni. Da questo momento in poi, mentre i Paesi arabi divennero sempre più un terreno di competizione tra gli Europei, la perpetuazione dell’impero ottomano fu dovuta anche all’interesse europeo (e particolarmente quello britannico) ad evitare che si scatenasse una guerra paneuropea per la spartizione dell’impero. 1.2 L’espansione europea e le politiche di riforma (Tanzimat) Dall’inizio del XIX secolo in poi, i Paesi arabi entrarono dunque nel sistema internazionale degli Stati e le mire espansionistiche del Concerto europeo si concretizzarono presto nella prima fase dell’espansione coloniale europea nel Mondo arabo. L’azione di contrasto dello smembramento dell’impero, esercitata soprattutto dalla Gran Bretagna, ebbe infatti solo un effetto di contenimento sulle grandi tendenze storiche ormai all’opera, quali il nazionalismo e l’imperialismo. La spinta generata in Europa alla nascita degli Stati nazionali come migliore forma d’organizzazione politica delle società modernizzate dal capitalismo si estese anche all’impero ottomano, e portò nel 1830 la Grecia ad ottenere l’indipendenza dagli Ottomani; successivamente, l’indipendenza fu raggiunta anche da Bulgaria, Serbia, Romania e Montenegro. Era ormai all’opera anche il fenomeno dell’imperialismo frutto del bisogno delle economie capitaliste europee di espandersi fuori del continente per controllare direttamente rotte commerciali, materie prime e nuovi mercati. La Francia iniziò in Algeria la prima conquista coloniale europea nel Mondo arabo, presto seguita dall’occupazione britannica del porto di Aden nello Yemen, scalo strategico sulla rotta dell’istituendo dominio coloniale inglese in india. Intanto, in cambio dell’assistenza ottenuta contro le mire espansionistiche di Muhammad Ali, gli Ottomani firmarono con la Gran Bretagna la convenzione commerciale detta di Balta Liman che, bandendo ogni forma di protezionismo, toglieva all’Impero ottomano la possibilità di difendere la propria economia dalla penetrazione europea. Il conseguente squilibrio della bilancia commerciale ottomana comportò, sul fronte finanziario, un’erosione delle riserve monetarie ed un maggior ricorso ai crediti delle banche europee, che via via aprivano filiali nei Paesi arabi. Un’importante conseguenza fu il mutamento dei rapporti di potere che si realizzò, da un lato, tra le élite commerciali musulmane e quelle cristiane, divenute partner privilegiati delle imprese europee e, dall’altro, tra le province arabe, laddove in quelle più prossime alle coste mediterranee si svilupparono più intensamente e rapidamente i cambiamenti collegati al commercio internazionale, mentre le provincie dell’interno restavano relativamente più isolate. Nonostante gli sviluppi appena ricordati, sarebbe fuorviante immaginare il Mondo arabo in questa prima fase della sua storia contemporanea come una preda inerte dell’espansione europea. La realtà fu molto più articolata, soprattutto perché gli effetti locali dei fenomeni legati all’espansione mondiale del sistema capitalistico e degli Stati nazionali furono mediati e trasformati da processi autoctoni, definiti di “sviluppo difensivo”. Nell’Impero ottomano ed in alcuni dei suoi stati vassalli, questi processi si concretizzarono nell’avvio di riforme dall’alto mirate alla modernizzazione, le quali presero il nome di Tanzimat: esse avevano lo scopo di creare le risorse economiche e politiche necessarie per godere dei benefici della modernità e contrastare così l’ascesa del predominio europeo. Le riforme modernizzatrici (Tanzimat) non furono però realizzate solo dal sultano ottomano, e neppure iniziarono ad Istanbul: la politica dello sviluppo difensivo iniziò in un Paese arabo, l’Egitto, dove, sotto il regno di Muhammad Ali, le riforme furono perseguite in modo più rapido ed incisivo di quanto poi avvenne nel resto dell’Impero ottomano, con l’obiettivo di fare dell’Egitto il primo Stato arabo moderno ed indipendente. Un progetto ambizioso ma realistico, che fu fermato solo dall’intervento inglese nel 1840, su richiesta degli Ottomani. In effetti, i processi dello sviluppo difensivo ebbero tempi e modi leggermente diversi nei vari Paesi della regione, ma tutti condivisero le stesse tappe fondamentali ed i disastrosi esiti finali. In tutti i Paesi che le umma, contribuendo così in modo fondamentale agli aspetti culturali del cosiddetto sviluppo difensivo del Mondo arabo. Un esempio chiaro in questo senso è la partecipazione degli ulema del riformismo musulmano all’elaborazione dell’arabismo e del nazionalismo arabo, ovvero dell’idea dell’esistenza di un’identità araba e della necessità di dare a questa identità “ritrovata” una traduzione politica nel nazionalismo arabo e nel patriottismo locale. L’arabismo ed il nazionalismo arabo, i fenomeni politico-culturali che hanno segnato la nascita del Mondo arabo alla fine del XIX secolo, sono dunque emersi dall’incontro tra molteplici stimoli interni ed esterni e non come “semplice” frutto dell’importazione dei modelli nel nazionalismo europeo. Storicamente, l’arabismo ha preso piede durante la Nahda (in arabo “risorgimento, rinascita”), periodo di rinnovamento culturale sviluppatosi a cavallo tra XIX e XX secolo, durante il quale nelle province arabe dell’Impero ottomano, e particolarmente in quelle della Grande Siria e dell’Egitto, la lingua araba fu rinnovata, anche attraverso la diffusione della stampa periodica in arabo, e si moltiplicarono i circoli letterari e le associazioni in cui gli intellettuali arabi (musulmani e cristiani) discutevano di cultura, di progresso e di politica. Della Nahda furono dunque protagoniste tutte le componenti delle élite arabe del Mashreq, coinvolte nella modernizzazione e nel riformismo. Da identità riscoperta, l’arabismo culturale si trasformò poi in nazionalismo politico quando, dopo il colpo di Stato che nel 1908 portò al governo dell’Impero i nazionalisti turchi, le élite arabe del Mashreq iniziarono a rivendicare prima l’autonomia contro il centralismo ed il dispotismo turco, e poi l’indipendenza delle province arabe. La formazione dell’identità araba seguì però tempi e modi diversi nelle diverse regioni e Paesi del mondo arabo, differenza dovuta a molteplici fattori. Semplificando, possiamo dire che nei Paesi del Maghreb il nazionalismo arabo si diffuse più tardi e diversamente, poiché questi Paesi sperimentarono un più breve periodo di riformismo e “sviluppo difensivo” e furono sottoposti al dominio coloniale già dalla metà del XIX secolo; inoltre, le élite del Maghreb non furono direttamente protagoniste della rinascita culturale araba della Nahda. Nel Maghreb si svilupparono tuttavia importanti movimenti islamici che si opposero militarmente al colonialismo: i leader di questi movimenti magrebini facevano riferimento al pensiero del modernismo musulmano, diffuso dall’Oriente all’Occidente arabo grazie all’opera di singole personalità innovatrici ma anche grazie alla tradizionale circolazione degli intellettuali musulmani nei principali centri del sapere del Mondo arabo-islamico. Anche nei Paesi della Penisola araba il nazionalismo arabo si sviluppò più tardi ed in forme peculiari, soprattutto perché la regione fu meno toccata dai due grandi fattori di cambiamento dell’epoca: la penetrazione economico-politica europea e le riforme statali modernizzatrici. In effetti, la penetrazione europea toccò la Penisola solo dalla metà del XIX secolo, quando la Gran Bretagna iniziò a cercare di controllarne le coste ed i porti principali della regione. Quando alle riforme modernizzatrici, dato il controllo comunque limitato degli Ottomani nella Penisola, le Tanzimat toccarono marginalmente solo la regione dell’Hijaz (nell’attuale Arabia Saudita) e l’odierno Kuwait. 1.5 Lo spartiacque della Prima Guerra Mondiale Fu proprio nella Penisola araba che si consumò tuttavia il primo atto politico-militare del nazionalismo arabo: la cosiddetta “Grande Rivolta” (1916-1918) araba, lanciata dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale come jihad antiottomana dallo sharif Hussein ibn Ali degli Hashemiti, governatore ottomano dell’Hijaz dal 1908. Per ironia della storia, la rivolta nazionalista che la guerra e la repressione ottomana impedirono in Siria, culla del nazionalismo arabo, riuscì invece nel più arretrato Hijaz, dove le truppe tribali degli Hashemiti, guidate dai figli di Hussein, con l’aiuto militare britannico riuscirono a scacciare gli Ottomani. La Rivolta arava guidata dal figlio di Hussein Feisal, coadiuvato, tra gli altri, dal maggiore inglese T. Lawrence (poi noto come “Lawrence d’Arabia”), riuscì a portare verso nord una guerriglia nelle retrovie ottomane, rafforzata anche dagli ufficiali arabi disertori dell’esercito imperiale, che giunse a conquistare Damasco nell’ottobre del 1918. L’avvio della Grande Rivolta araba era stato preceduto da un carteggio tra lo sharif Hussein e l’alto commissario britannico al Cairo McMahon, in base al quale Hussein ed i nazionalisti arabi ritennero di avere l’appoggio britannico per la costituzione di un regno arabo indipendente nel Mashreq e nell’Hijaz in caso di sconfitta degli Ottomani. Hussein proclamò il suo regno nell’Hijaz già nel 1916, ma l’unione col Mashreq non fu mai realizzata, dal momento che essa era contraria agli interessi di Francia e Gran Bretagna nella regione. In effetti, quando nel novembre 1914 l’Impero ottomano entrò in guerra a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria, i Britannici si impegnarono in uno scontro su più fronti contro gli Ottomani. Nel frattempo, gli inglesi cercarono di promuovere alleanze diplomatiche con i leader arabi in funzione antiottomana; contemporaneamente, tuttavia, essi iniziarono a sostenere il programma sionista di insediamento in Palestina e si accordarono con gli alleati europei per la spartizione dei territori dell’Impero ottomano, in caso di vittoria. Nel quadro di questi accordi, dal novembre 1915 i Britannici negoziarono con gli alleati francesi un’intesa diplomatica segreta per la divisione delle province arabe ottomane del Mashreq in zone di influenza anglo-francesi: l’accordo detto di Sykes-Picot. Nel 1918, la Prima Guerra Mondiale finì sul fronte orientale con la sconfitta dell’Impero ottomano. Finito il conflitto mondiale, nella Conferenza di pace di Parigi (1919-1920) le potenze vincitrici, e principalmente Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia poterono ridisegnare a proprio vantaggio tutti gli assetti territoriali e politici coinvolti dalla guerra. In Medio Oriente, questo significava soprattutto la conciliazione dei diversi (e spesso contrastanti) interessi delle potenze vincitrici con le rivendicazioni conflittuali dei nazionalismi locali variamente incoraggiati, soprattutto dai Britannici, durante la guerra. Le potenze vincitrici dovettero anche conciliare interessi contrastanti a livello globale come quelli che opponevano Francia e Gran Bretagna, le maggiori potenze coloniali europee, agli Stati uniti, favorevoli dal 1914 all’autodeterminazione dei popoli, soprattutto perché vedevano negli imperi coloniali un ostacolo al libero commercio mondiale, su cui si fondava la loro supremazia. Vi erano poi le varie divergenze d’interesse che contrapponevano Francia e Gran Bretagna a livello locale, specie sull’assetto da dare alla Grande Siria ed all’Iraq. Queste divergenze furono regolate con un accordo segreto in cui, in un complicato gioco di revisione del precedente accordo segreto Sykes-Picot, la Gran Bretagna acquisì la provincia petrolifera di Mosul in Iraq ed ottenne il controllo esclusivo della Palestina, in cambio della rinuncia a sostenere la costituzione di un regno arabo indipendente nell’attuale Siria, la quale veniva invece lasciata sotto l’esclusivo controllo francese. Appianate in segreto le proprie divergenze nel Mondo arabo, le due potenze europee cercarono poi un accordo con gli Stati Uniti; poiché le ex province ottomane del Mashreq non potevano diventare colonie anglo-francesi, ma nemmeno Stati indipendenti, il compromesso fu trovato nell’inedita formula del “mandato”: un nuovo statuto di diritto internazionale che, sotto l’egida della neo-costituita Società delle Nazioni, affermava che: “Alcune comunità che appartenevano un tempo all’Impero ottomano hanno raggiunto un grado di sviluppo tale che la loro esistenza come nazioni indipendenti può essere riconosciuta provvisoriamente, a condizione che i consigli e l’aiuto di uno Stato mandatario guidino la loro amministrazione”. L’istituzione dei mandati cancellava evidentemente il principio di autodeterminazione dei popoli, il quale prevedeva l’obbligo di tenere conto della volontà dei popoli dei Paesi in questione. Inoltre, alla Conferenza di pace di Parigi, la maggioranza dei Paesi arabi non fu realmente rappresentata, se non da delegazioni fantoccio. Il Protocollo di Sanremo sancì dunque l’istituzione del sistema dei mandati nel Mashreq, confermando l’affidamento alla Francia del mandato su Siria e Libano ed all’Inghilterra del mandato su Iraq e Palestina (comprensiva dell’attuale Giordania). Il Protocollo fu adottato in spregio alle promesse d’indipendenza fatte agli Arabi durante il conflitto e nonostante le diverse richieste dei nazionalisti arabi. Dopo le rivendicazioni degli intellettuali della Nahda e la Grande Rivolta indipendentista arava del 1916, l’occupazione coloniale mascherata, rappresentata dai mandati, equivalse per i nazionalisti arabi ad un vero e proprio tradimento dei principi del liberalismo occidentale sin lì sottoscritti. Nella memoria storica del nazionalismo arabo, la ferita del “tradimento” occidentale del 1920 (definito ‘am al-nakba: anno della catastrofe) è uno dei miti fondatori dell’antioccidentalismo arabo, mito che resta molto forte tutt’oggi. 2. L’età del colonialismo e dei notabili (1920-1945) 2.1 La fondazione coloniale del nuovo sistema regionale La spartizione coloniale dei Paesi aravi del Mashreq tra Francia e Gran Bretagna provocò un’ondata di rivolte in Egitto, Siria, Iraq e Palestina che, iniziata nel 1920, continuò ad intermittenza nel decennio successivo. Tuttavia, le rivolte arabe contro i mandati non riuscirono ad ottenere quello che ottenne la Turchia, dove la guerra di resistenza di quel che rimaneva dell’esercito ottomano, guidata da Mustafa Kemal “Atatürk” (“Padre dei Turchi”), ottenne il riconoscimento dell’indipendenza della Repubblica turca col trattato di Losanna del 1923. Invece, le rivolte arabe in Egitto, Siria, Iraq e Palestina furono prive di una vera e propria forza militare, poiché erano essenzialmente rivolte di origine rurale, e non riuscirono quindi a conquistare l’indipendenza per i rispettivi Paesi, ma solo a costringere Francia e Gran Bretagna a rivedere i parzialmente i loro piani, in particolare riconsiderando i confini e le forme di governo da applicare nelle loro nuove colonie arabe. Dopo l’imposizione dei mandati, la repressione delle rivolte nazionaliste arabe segnò dunque uno spartiacque per la storia del Mondo arabo contemporaneo, confermando l’esistenza di un nuovo sistema di Stati arabi controllato dalle potenze europee, che restò non pacificato sotto il dominio coloniale, ma fu comunque progressivamente consolidato nella sua configurazione territoriale, rimasta sostanzialmente invariata sino ad oggi. La definizione politica degli Stati arabi contemporanei fu dunque in gran parte il risultato diretto delle due successive ondate di colonizzazione europea del Mondo arabo: quella del Maghreb e della valle del Nilo (Egitto e Sudan), realizzata tra il 1830 ed il 1912 da Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna; e quella del Mashreq, progettata da Francia e Gran Bretagna prima con l’accordo segreto di Sykes-Picot del 1916 e poi realizzata col Protocollo di Sanremo del 1920, che istituiva i mandati. Solo due Paesi arabi della Penisola, Arabia Saudita e Yemen del Nord, sfuggirono al dominio coloniale diretto, ma anche questi Paesi subirono l’influenza coloniale sulla regione. La profonda distorsione dello sviluppo politico del Mondo arabo prodotta dal colonialismo può essere simboleggiata dal fatto paradossale che, dopo la Prima Guerra Mondiale, a piena indipendenza fu riconosciuta solo a due tra i Paesi più arretrati (appunto, lo Yemen del Nord e l’Arabia Saudita), mentre i Paesi arabi più avanzati dal punto di vista dello sviluppo socio-economico e socio-culturale (Egitto, Siria, Tunisia) venivano tenuti sotto un soffocante controllo coloniale. Inoltre, mentre nel Maghreb, nella valle del Nilo e nella Penisola i confini geografici e demografici degli Stati creati dal colonialismo ricalcavano grosso modo quelli delle entità politiche già esistenti nel periodo precoloniale, nel Mashreq la spartizione coloniale frantumò o accorpò arbitrariamente le preesistenti entità socio-politiche. Questa più marcata artificialità della configurazione territoriale degli Stati creati dal colonialismo nel Mashreq ha avuto importanti ripercussioni storiche, creando i presupposti per una più acuta fragilità identitaria, ed una più intensa conflittualità territoriale in questa regione del Mondo arabo. Il colonialismo nel Mondo arabo si è differenziato sotto molti altri profili. Dal punto di vista della legittimazione internazionale e della forma giuridica, il dominio europeo sul Mondo arabo è stato istituzionalizzato in quattro tipologie principali: la colonia, il protettorato, il trattato di cooperazione ed il mandato. Le colonie vere e proprie sono state realizzate nei territori considerati privi di Stato, occupati militarmente e governati direttamente da uno Stato sovrano europeo. Il protettorato, forma di dominio “inventata” dalla Francia in Tunisia, riconosceva invece l’esistenza nel Paese colonizzato di un’organizzazione statuale autonoma, alla quale veniva imposta la sottoscrizione di accordi che garantivano alla potenza coloniale il diritto di “proteggerla”, controllando direttamente o indirettamente tutti gli aspetti del governo del Paese. Invece, i trattati di cooperazione, realizzati soprattutto dalla Gran Bretagna con gli emirati della Penisola orientale, sono state forme mascherate e più blande di protettorato, instaurate attraverso trattati internazionali, con i quali il governo locale accettava una serie di obbligazioni nei confronti della potenza straniera, generalmente a garanzia di concessioni di natura economica e militare (diritti di sfruttamento delle risorse, diritti di transito, etc…). I mandati, istituiti nel Mashreq dopo la Prima Guerra Mondiale, sono stati anch’essi una forma di colonizzazione mascherata, le cui specificità erano la temporaneità ed il ruolo di garanzia teoricamente svolto dalla comunità internazionale nei confronti del Paese “affidato” alla potenza mandataria per essere avviato alla piena indipendenza. Altre differenze sostanziali tra i diversi regimi coloniali sono dipese dalla durata e dalle caratteristiche del dominio, in particolare dalla numerosità e dal ruolo dei coloni europei immigrati. Più in generale, le molteplici diversità di politica, interessi e tradizioni tra Francia. Gran Bretagna, Italia e Spagna determinarono differenze nei caratteri e negli effetti dei vari regimi coloniali. Nonostante le differenze locali è però possibile individuare un “modello di controllo” coloniale applicato dalle diverse potenze europee nei Paesi arabi, la cui analisi permette di inquadrare gli effetti del colonialismo sulle società del Mondo arabo. 2.2 I regimi coloniali dei notabili e la strutturazione degli Stati nazionali arabi (1920-1948) Il primo effetto del colonialismo fu indubbiamente la nascita di Stati nazionali separati, all’interno di quello che era stato sin lì lo spazio comune del Mondo arabo sotto il dominio ottomano. Una volta creati con la forza, gli Stati coloniali arabi costituirono il nuovo campo d’azione per le rispettive società. In altri termini, benché le popolazioni arabe si fossero ribellate sin dall’inizio al dominio coloniale, i nuovi Stati nazionali creati nel Maghreb e nel Mashreq divennero progressivamente lo spazio di riferimento imprescindibile per ogni attività politica, economica e culturale delle rispettive popolazioni. Proseguendo in modi diversi il processo di modernizzazione iniziato nel periodo delle Tanzimat, le autorità coloniali costituirono le strutture per l’amministrazione centrale e periferica che delimitavano la nuova arena nazionale non solo con nuovi confini, ma anche con nuove leggi e prassi specifiche. Inizialmente, questi sforzi di delimitazione sembrarono poco efficaci: i nomadi continuarono a muoversi come se i confini non esistessero ed i cittadini continuarono a guardare alla propria città, all’islam o al Mondo arabo come alla propria entità d’appartenenza. Progressivamente però, le relazioni sociali si strutturarono in reazione ai limiti ed agli incentivi provenienti dai nuovi centri politici. Le nuove burocrazie e le nuove leggi nazionali degli Stati coloniali arabi furono formalmente elaborate all’insegna dei principi liberali europei: uguaglianza formale dei cittadini, unità del territorio ed autogoverno 2.5 La Seconda Guerra Mondiale e l’indipendenza dei Paesi arabi La Seconda Guerra Mondiale, combattuta sul fronte nordafricano e, molto marginalmente, anche nel Mashreq, non comportò per il Mondo arabo stravolgimenti epocali come la Prima. Tuttavia, i cambiamenti impressi dal conflitto agli equilibri locali e, soprattutto, al sistema internazionale, ebbero l’effetto complessivo di spianare la strada alla finire del dominio coloniale europeo nel Mondo arabo e dare inizio all’era dell’indipendenza. Senza dubbio, uno dei più importanti esiti globali della Seconda Guerra Mondiale fu il declino delle potenze europee, la fine dei loro imperi coloniali e l’ascesa di Usa ed Unione Sovietica, le due nuove superpotenze vincitrici del secondo conflitto mondiale. L’indipendenza formale dei Paesi arabi, sancita dal riconoscimento internazionale della loro sovranità e dal conseguente accesso ai massimi organismi internazionali dell’epoca, si realizzò in tre ondate. La prima ondata di indipendenze fu quella tra le due guerre mondiali; la seconda ondata fu quella del periodo 1943-1956; infine, la terza ondata fu quella delle indipendenze “tardive”, vuoi per il protrarsi del conflitto coloniale, vuoi la debolezza delle spinte indipendentistiche. 3. L’età delle rivoluzioni nel Mondo arabo (1945-1979) Gli anni compresi in questa terza grande fase storica sono quelli durante i quali il Mondo arabo è emerso alla ribalta mondiale, ha goduto d’un relativo margine d’autonomia nel sistema internazionale ed ha sperimentato il socialismo arabo ed il panarabismo, che furono ideologie e politiche specificamente “arabe”. I principali motori degli eventi e delle trasformazioni di questa fase furono: l’indipendenza e la costituzione di nuovi regimi politici, caratterizzati dall’espansione del ruolo dello Stato; il rinnovamento delle élite arabe, con il passaggio del potere, spesso per via rivoluzionaria, dai notabili tradizionali ad una nuova borghesia di burocrati e militari; la prosecuzione della modernizzazione socio-culturale; e, infine, lo sviluppo dello sfruttamento delle risorse energetiche. 3.1 La crisi post-indipendenza nel Mashreq e la Nakba in Palestina La fine del dominio coloniale europeo nel Mondo arabo si realizzò con modalità diverse da Paese a Paese: in alcuni casi vi furono anni di negoziati sul trasferimento dei poteri; in altri, il colonialismo fu spezzato via da rivolte e guerriglie, più o meno prolungate; in altri casi ancora, l’indipendenza fu concessa dall’altro, quando la potenza coloniale decise di ritirarsi. Comunque avessero ottenuto il potere, i nuovi governanti degli Stati arabi si trovarono tutti ad affrontare gli stessi problemi: l’arretratezza socio-economica, la debolezza delle istituzioni statali e la fragilità dell’identità nazionale. Nel Mashreq, i nuovi governi indipendenti si rivelarono presto incapaci di affrontare le sfide dello sviluppo, della legittimità e dell’efficienza, la cui risoluzione avrebbe richiesto di affrontare la questione sociale ed assicurare che l’indipendenza agli ex colonizzatori fosse anche economica e strategica, non solo politico-istituzionale. Il decennio successivo all’indipendenza fu dunque un periodo di instabilità per tutti i Paesi arabi del Mashreq. Ad incidere sull’instabilità dei nuovi Stati non fu solo lo scontro di potere o di classe, bensì anche la debolezza dell’identità nazionale, esacerbata dall’origine (se non l’invenzione) coloniale di molti Stati arabi e dall’eredità delle politiche coloniali basate sul divide et impera, che avevano incoraggiato la contrapposizione tra le diverse componenti sociali, regionali ed etnico-confessionali. Lo scoppio del conflitto arabo-israeliano per la Palestina nel 1948 amplificò a dismisura questa prima fase di instabilità dei regimi indipendenti e ne radicalizzò gli sviluppi. Quando il 17 novembre 1947 le Nazioni Unite adottarono una risoluzione che sanciva la divisione della Palestina in due Stati, uno ebraico ed uno arabo, nessuno si illuse che non vi sarebbero stati problemi per la spartizione del territorio, poiché esso era stato conteso sin dall’inizio del mandato britannico tra la comunità palestinese autoctona e quella ebraica sionista immigrata dal 1882. Quello che però in ben pochi avevano previsto erano le dimensioni tragiche e la durata storica del conflitto, il quale sarebbe conseguito dalla decisione Onu per la spartizione, voluta dai sionisti col sostegno degli Usa ed avversata dagli Stati arabi. Dal 30 novembre 1947 e per i sei mesi seguenti, Ebrei e Palestinesi combatterono una violenta guerra civile, in cui i disorganizzati Palestinesi persero progressivamente terreno, mentre gli Ebrei passarono all’offensiva, espellendo i Palestinesi dai territori assegnati allo Stato ebraico ed occupando parte dei territori assegnati a quello palestinese. Già nell’aprile del 1948 i Palestinesi avevano cessato di combattere in modo organizzato. Per quanto riguarda i paesi arabi, prima e dopo il novembre 1947 la Lega araba aveva indetto continue riunioni sulla crisi in Palestina, ma, a causa dell’instabilità politica dei suoi membri, delle rivalità interne e della debolezza dei vari eserciti, oltre a respingere la risoluzione dell’Onu ed a sostenere modestamente la milizia palestinese, la Lega non era stata in grado di attuare nessuna strategia politico-militare congiunta. Dunque, nonostante la retorica bellicosa, i governi dei Paesi arabi confinanti con la Palestina erano divisi ed incerti, mentre in Palestina infuriava la guerra civile ed i Palestinesi venivano sconfitti ed espulsi. Solo la pressione delle opinioni pubbliche arabe, scioccate dalla tragedia in corso in Palestina, costrinse i governi di Egitto, Giordania, Siria, Iraq, Libano ed Arabia Saudita a dichiarare guerra allo Stato di Israele e ad inviare dei contingenti militari ufficialmente per difendere i Palestinesi ed il territorio assegnato dall’Onu allo Stato arabo-palestinese. Gli Stati arabi, entrati in guerra divisi, impreparati, sospettosi gli uni degli altri e con soldati male armati subirono una pesantissima sconfitta militare nella guerra di Palestina, che durò dal maggio 1948 all’inizio del 1949. Di conseguenza, dopo gli armistizi firmati separatamente dai paesi arabi nei primi mesi del ‘49, Israele occupava il 78% del territorio della Palestina mandataria (la risoluzione Onu gliene aveva assegnato il 56%) e persino una parte di territorio egiziano nel Sinai. Alla fine della guerra, dei territori assegnati dall’Onu allo Stato palestinese, mai formalmente costituito per non dare legittimità alla spartizione avversata, restavano in mano araba solo la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, occupata e poi annessa alla Giordania. La sconfitta in Palestina dimostrò drammaticamente agli Arabi del Mashreq l’incapacità dei loro governi di realizzare le promesse di sviluppo e sicurezza fatte al momento dell’indipendenza. La colpa della sconfitta araba fu attribuita tanto alla debolezza ed alla corruzione delle élite al potere nei singoli Paesi, quanto alla mancata realizzazione dell’unità araba, senza la quale sarebbe stato impossibile per gli Arabi realizzare le loro aspirazioni. I cambiamenti non si fecero attendere: negli anni immediatamente successivi alla sconfitta del 1948, tutti i Paesi arabi confinanti con Israele subirono profondi stravolgimenti politici. Dunque, la sconfitta degli Arabi in Palestina contribuì ad influenzare gli sviluppi storici del Mondo arabo in molti modi, a cominciare da questa prima ondata di colpi di Stato militari e di cambiamenti di regime nel Mashreq post-coloniale. 3.2 I nuovi regimi post-indipendenza Pur nella diversità dei casi nazionali, possiamo dire che dopo l’indipendenza tutti i Paesi arabi, non solo quelli del Mashreq sconvolti dalla Nakba, bensì anche quelli del Maghreb e della Penisola, sperimentarono una “crisi di crescita”. Durante questo turbolento periodo di transizione, negli Stati arabi neo-indipendenti emersero i leader nazionali, il profilo istituzionale dei nuovi regimi politici, le coalizioni di potere dominanti e le loro basi sociali. Per tutti i Paesi arabi, la via d’uscita dall’instabilità post-indipendenza fu fornita dallo statalismo, ossia dalla progressiva espansione e dal relativo consolidamento del potere dello Stato e, in particolare, dei suoi apparati burocratici e di sicurezza, il che comportò anche un mutamento della composizione delle élite al potere. I Paesi della Penisola non subirono un controllo coloniale diretto e perciò non sperimentarono le lotte d’indipendenza anticoloniali, che altrove fecero emergere le nuove élite, forme moderne di organizzazione politica e diffusero il nazionalismo arabo a livello popolare. Tuttavia, i Paesi della penisola non restarono isolati dagli sviluppi che interessavano il Mondo arabo: infatti, la progressiva integrazione dei Paesi della penisola nell’economia capitalistica tramite il commercio internazionale e la conseguente modernizzazione socio-economica, ebbero anche in questi paesi profondi effetti trasformativi, benché meno rapidi e meno evidenti che nel resto del Mondo arabo. In particolare, dalla fine degli anni ‘40, fu l’inizio dello sfruttamento industriale del petrolio ad avere per i diversi paesi della Penisola conseguenze simili a quelle dell’accesso all’indipendenza nel resto dei paesi arabi l’inizio dell’era petrolifera, infatti, stimolò anche negli Stati della penisola la necessità di sviluppare tutti gli apparati dei moderni Stati nazionali, processo che contribuì a portare al potere le componenti delle élite nazionali più capaci di guidare questo nuovo sviluppo. In generale lo statalismo, cioè il ruolo dominante dello Stato e del regime, nacque dal bisogno di accentrare le decisioni e le risorse al fine di garantire la sicurezza interna ed esterna dei paesi neo-indipendenti, dopo il ritiro delle forze coloniali, ma anche per promuovere vasti programmi di sviluppo nazionale. Nel Mondo arabo, lo statalismo ebbe anche motivazioni più specifiche, quali la debolezza del settore privato nazionale nel promuovere lo sviluppo economico; la necessità di affrontare la questione sociale, diminuendo il potere politico dei latifondisti tramite ampie riforme agrarie; e, inoltre, la necessità di sopperire rapidamente al deficit di personale e competenze tecniche creato dall’esodo dei coloni dopo l’indipendenza. L’effetto più evidente dello statalismo fu, in ogni caso, l’enorme crescita dell’apparato burocratico statale, necessario per svolgere le funzioni di garante dello sviluppo e della sicurezza attribuite allo Stato dai nuovi regimi. Le riforme agrarie, le nazionalizzazioni ed i monopoli commerciali furono i principali strumenti attraverso i quali i nuovi regimi statalisti arabi sottrassero potere politico-economico alle élite tradizionali, per trasferirlo allo Stato e, talvolta, ridistribuirlo alla popolazione. Quando si realizzò, questa ridistribuzione della ricchezza avvenne direttamente, come nel caso delle vendite sovvenzionate ai contadini o alle cooperative delle terre tolte ai latifondisti, o indirettamente, attraverso la creazione di nuove infrastrutture e nuovi servizi pubblici. I risultati in termini di sviluppo socio-economico delle politiche stataliste furono importanti: le economie arabe crebbero in maniera consistente e crebbe anche il benessere medio della popolazione. L’agricoltura fu migliorata dall’estensione delle terre coltivabili, dalle irrigazioni e dalla meccanizzazione. Questo miglioramento fu reso possibile soprattutto dalla riduzione dei latifondi, realizzato con le riforme agrarie e le nazionalizzazioni, nonché dallo sviluppo delle grandi infrastrutture. Il ventennio 1950-1970 vide anche lo sviluppo dell’istruzione di massa, così che alla fine del periodo la quasi totalità dei bambini maschi e tre quarti delle bambine avevano accesso all’istruzione primaria, mentre l’istruzione secondaria coinvolgeva tre quarti dei maschi ed un quarto delle femmine: un progresso davvero notevole, se si considera che nel 1923 solo il 2% della popolazione araba in età scolastica andava a scuola. Dopo l’indipendenza, lo statalismo accomunava tutti i nuovi regimi arabi; tuttavia, questi regimi si differenziavano sotto molti aspetti, che li rendevano riconducibili a due tipologie principali: le repubbliche, dette “rivoluzionarie” o “progressiste”; e le monarchie, dette “moderate” o “conservatrici”. Questi due tipi di regime si diversificavano in base ai diversi modelli politico-istituzionali adottati, ai differenti orientamenti ideologico-culturali sostenuti ed alle diverse alleanze internazionali sottoscritte. Le repubbliche “progressiste” istituite in Egitto, Iraq, Siria, Algeria e Yemen del sud, dal punto di vista istituzionale adottarono un regime repubblicano di tipo presidenziale, in cui il presidente, quasi sempre un militare dalla personalità carismatica, era dotato di amplissimi poteri, che gli consentivano di controllare governo, parlamento, forze armate e gli alti gradi della burocrazia statale. L'altro pilastro della struttura politica era un sistema corporativo di rappresentanza politica, che in quadrava i cittadini attraverso un esteso partito unico (o dominante) ed istituzioni i rappresentative delle diverse componenti sociali in cui era segmentata la popolazione. Erano queste istituzioni corporative a rappresentare il popolo nel parlamento, istituito per sostenere il regime, e non i partiti d’opinione, la cui formazione era vietata per legge. L’orientamento ideologico-culturale dei regimi delle repubbliche progressiste era articolato attorno ad alcuni principi fondamentali: l’unità nazionale, lo sviluppo socio-economico, l’indipendenza sostanziale da quanto restava del colonialismo e del “feudalesimo” (ovvero il potere dei notabili e, infine, la lotta per l’unità araba e la liberazione della Palestina. Il discorso di regime sosteneva il “diritto-.dovere” del popolo di raggiungere questi obiettivi e prometteva di garantirne la realizzazione. In cambio di queste promesse, il “patto sociale” istituito richiedeva alla popolazione ubbidienza e sostegno al regime, mentre negava la legittimità ad ogni dissenso politico ed al riconoscimento delle diverse componenti etnico-confessionali della nazione; in altri termini, l’interesse della nazione (definito dal regime) veniva sempre prima di qualunque diritto individuale o di gruppo. Le repubbliche progressiste erano dunque dei sistemi autoritari populisti, fondati su un patto sociale che prevedeva uno “scambio” tra regime e società: sviluppo ed indipendenza in cambio di obbedienza e consenso. Le monarchie arabe moderate adottarono, invece, due diversi modelli politico istituzionali: quello della monarchia costituzionale parlamentare (Giordania e Marocco) e quello delle monarchie assolute ( in Arabia Saudita e nella maggioranza dei Paesi della Penisola). In entrambi i modelli, il fulcro del sistema politico era il monarca, ma nelle monarchie parlamentari il suo potere era, almeno formalmente, limitato dalla Costituzione, la quale garantiva anche la divisione tra potere legislativo, giudiziario ed esecutivo; nelle monarchie assolute, invece, tutti i poteri erano concentrati nelle mani del monarca e della sua famiglia. Il discorso ideologico dei regimi monarchici individuava gli stessi obiettivi fondamentali delle repubbliche progressiste (sviluppo, indipendenza, unità), ma sosteneva che la loro realizzazione dovesse avvenire con modi ed alleanze diversi, presentate come più rispettosi della tradizione culturale e dell’armonia sociale. Sul piano istituzionale, le monarchie costituzionali prevedevano il pluripartitismo ed il parlamentarismo. In tutti i tipi di monarchia, i rapporti fra Stato e società avevano al centro il monarca, dotato di estesissimi poteri de iure e de facto, e sostenuto da una corte reale presso la quale trovavano rappresentanza e mediazione, più che in parlamento, le diverse componenti sociali, regionali ed etnico-confessionali del Paese. Nelle monarchie della Penisola il ruolo svolto dalla corte era ricoperto dalle estese famiglie reali. A differenza delle repubbliche progressiste, nelle monarchie arabe la credibilità del regime agli occhi dei sudditi non dipendeva esclusivamente dalla capacità di soddisfare il patto sociale per lo sviluppo e l'indipendenza, ma anche dalla legittimità politico-religiosa attribuita alle dinastie e dal loro ruolo di garanti del rispetto della tradizione socio-culturale (specie religiosa) del Paese. Nonostante le monarchie costituzionali fossero formalmente dotate di deboli istituzioni politiche pluralistiche, assenti nelle monarchie assolute della Penisola, tutte le monarchie arabe erano di fatto, come le repubbliche, dei regimi autoritari e patrimoniali, cioè regimi dove il dissenso politico ed i diritti individuali e sociali erano repressi e controllati dai vasti apparati polizieschi, oppure limitatamente e temporaneamente concessi dal monarca o dal presidente. Autoritarismo, statalismo e patrimonialismo accomunavano dunque tutti i regimi arabi nati dall’indipendenza dal colonialismo, nonostante le diversità istituzionali ed ideologiche tra le repubbliche rivoluzionarie e le monarchie moderate. Sul terreno della politica regionale ed internazionale, la Seconda Guerra Mondiale aveva provocato il progressivo declino delle grandi potenze europee e l’emergere di due blocchi guidati da Usa e Urss. Nel agricola, parte dei contadini tornò (o rimase) in povertà, avendo come unica alternativa l’emigrazione: le conseguenze negative del sovrappopolamento delle città furono drammatiche. Dagli anni ‘60, il costante flusso di migrazione delle campagne arabe cominciò a dirigersi anche verso l’estero, principalmente verso i Paesi europei per i maghrebini, e verso i Paesi arabi produttori di petrolio per gli Arabi del Mashreq. Nonostante questi nuovi sbocchi migratori, i problemi legati alla sovrappopolazione urbana continuarono a crescere. Nelle città, l’avvento dei nuovi regimi, statalisti ed autoritari, ridussero gli spazi di partecipazione politica per tutti i gruppi sociali. Assorbita nelle istituzioni corporative di regime o ridotta alla clandestinità, la pluralità delle opinioni politiche nel Mondo arabo sembrò atomizzarsi intorno a pochi intellettuali “disobbedienti”. Anche il panorama fisico e culturale delle città mutò in conseguenza ai cambiamenti politici; dopo la partenza dei coloni europei, le città arabe persero progressivamente la loro dimensione cosmopolita e l’arabismo, simbolo dell’indipendenza, iniziò a monopolizzare il panorama culturale in tutte le sue espressioni: dall’architettura all’istruzione, dalla stampa alla letteratura ed alle altre arti. Nei Paesi del Maghreb, il colonialismo aveva condotto un’attiva politica di negazione dell’identità arabo- islamica locale. Non sorprende, quindi, che uno dei primi obiettivi dichiarati dai nuovi regimi magrebini indipendenti fosse il ripristino dell’identità nazionale, in primis attraverso l’arabizzazione. In tutti i Paesi arabi, anche nel Mashreq, la politica di arabizzazione mirò tanto a rafforzare l’unità e l’identità nazionale, attraverso l’unificazione linguistica, quanto a reprimere l’espressione culturale delle minoranze etnico- linguistiche, a cui fu vietato l’uso istituzionale delle proprie lingue ed imposto l’uso dell’arabo. Tuttavia, i risultati pratici dell’arabizzazione furono molto inferiori alle intenzioni. Lo sviluppo del cosiddetto “islam politico” è un altro dei fenomeni politico-culturali tipici di questo periodo. Quando alla fine degli anni ‘60 iniziò ad evidenziarsi il fallimento del modello dei regimi statalisti arabi, la crescente crisi economica alimentò il malessere sociale, che divenne opposizione politica organizzata: si erano formati, specie in ambiente studentesco, gruppi culturali d’opposizione di ispirazione islamica. Quanto avvenne in questo periodo si può definire come la seconda fase espansiva del cosiddetto “islam politico”, dopo la prima fase iniziata negli anni ‘30 con la fondazione dell’Organizzazione dei Fratelli musulmani. Fu in questa fase che nella maggior parte dei Paesi arabi del Maghreb e del Mashreq (ri)nacque l’islam politico, che dalla fine degli annoi ‘70, dopo la rivoluzione islamica in Iran, divenne la principale forza di opposizione ai regimi autoritari arabi, attiva sia con formazioni riformiste, sia con formazioni radicali jihadiste. 3.4 La rivoluzione petrolifera La ricchezza di risorse energetiche è probabilmente la principale caratteristica associata al Mondo arabo e questa ricchezza ha fortemente influenzato la storia contemporanea dei Paesi arabi in molti modi, sia positivi che negativi. La storia di questa ricchezza è recente ed inizia pienamente ad influenzare la vita politica del Mondo arabo solo nell’età delle rivoluzioni, la quale può essere definita tale anche per la “rivoluzione petrolifera” realizzatasi negli anni ‘50-’70. Il prologo della rivoluzione petrolifera in Medio oriente risale tuttavia all’inizio del XX secolo. All’epoca, il petrolio veniva cercato in Medio oriente perché già dalla metà del XIX secolo l’invenzione del motore a scoppio, alimentato a petrolio, aveva dato il via in Occidente alla cosiddetta “seconda rivoluzione industriale”, basata appunto sullo sfruttamento dell’energia petrolifera. Di fronte all’espandersi della domanda mondiale di petrolio, “imprenditori-avventurieri” iniziarono a cercare e trovare il petrolio anche in altre aree del mondo. Tuttavia, fu l’allora giovane funzionario inglese Winston Churchill che aprì la corsa alle risorse petrolifere del Medio Oriente e del Mondo arabo: egli decise di rendere operativa la Anglo- Persian Oil, la prima compagnia petrolifera ad operare in Medio Oriente. Così, nel 1912 i Britannici parteciparono, assieme ai Tedeschi, alla fondazione della Turkish Petroleum Company (Tcp), che all’inizio del 1914 ottenne dall’Impero ottomano la promessa della concessione per la ricerca del petrolio nei suoi domini. Poco dopo, la Prima Guerra Mondiale sconvolse le sorti della regione ed al suo termine la Tcp divenne la Iraq Petroleum Company. In molti Paesi arabi, la presenza di giacimenti petroliferi, e la loro collocazione, determinò la definizione dei confini coloniali e post-coloniali e, in alcuni casi, l’esistenza stessa dello Stato. Per quanto riguarda l’Iraq, ad esempio, la distribuzione territoriale delle riserve petrolifere, concentrata soprattutto nel Nord e nel Sud del Paese, influenzò la scelta britannica di favorire uno Stato unitario ad amministrazione coloniale indiretta; il fattore petrolifero resta tutt’oggi uno dei maggiori elementi a favore della sopravvivenza di uno Stato unitario nel Paese. Storicamente, dunque, il petrolio ha favorito l’aggregazione ed il consolidamento dei Paesi arabi. Tuttavia, le risorse energetiche sono state indubbiamente anche una delle principali cause dei conflitti interstatali scoppiati sui diritti di estrazione nelle zone di confine, o sui diritti di transito degli oleodotti e delle petroliere. Ancor più gravido di conseguenze storiche è stato il fatto che il mantenimento del controllo, diretto o indiretto, delle risorse energetiche locali è stato uno dei principali motivi della continua ingerenza delle potenze internazionali nel Mondo aravo, dai primi del Novecento in poi. Vanno però sottolineati altri due aspetti fondamentali della storia petrolifera del Mondo arabo: le differenze della sua cronologia e le differenze delle sue ricadute economiche. In effetti, l’inizio dell’era petrolifera, cioè la data d’inizio della commercializzazione del petrolio e della relativa rendita petrolifera, varia molto da Paese a Paese ed è molto più recente di quanto si pensi. Per la maggioranza dei produttori arabi, il petrolio iniziò a significare ricchezza solo dopo la Seconda Guerra Mondiale. I bisogni della ricostruzione postbellica moltiplicarono la richiesta globale di petrolio, incentivando gli investimenti internazionali per la ricerca, l’estrazione ed il trasporto del petrolio prodotto nei Paesi mediorientali. Per molti stati della Penisola orientali la ricchezza rappresentata dalla rendita petrolifera iniziò negli anni ‘50. L’inizio dell’era petrolifera arrivò ancor più tardi per i Paesi produttori del Maghreb. La produzione di gas, altra grande fonte di ricchezza energetica, è iniziata ancor più tardi ed in alcuni Paesi arabi ha sostituito quella petrolifera, laddove questa si è presto esaurita. Prima ancora che al suo valore geopolitico, l’influenza del fattore energetico sulla storia del Mondo arabo è dovuta al suo valore economico, che ha cominciato a far sentire i suoi effetti sin dall’epoca delle prime concessioni esplorative. Tuttavia, per quanto già rilevante ai fini interni, sino alla metà degli anni ‘50 la ricchezza petrolifera incassata dai produttori fu solo una frazione infinitesimale di quella ricavata delle grandi compagnie petrolifere, le “Sette sorelle” che dominavano il mercato petrolifero mondiale. Infatti, le concessioni via via accordate dai produttori arabi prevedevano che le compagnie concessionarie potessero svolgere senza limiti tutte le operazioni, dalla ricerca all’esportazione e vendita del petrolio, dando in cambio al governo del paese produttore solo un pagamento fisso annuale per ogni barile esportato, pagamento noto come “royalty” proprio perché In origine era un appannaggio pagato al sovrano. In altri termini, all’inizio dell’era petrolifera non vi era nessun rapporto tra i profitti, enormi, realizzati dalle compagnie con la vendita del petrolio ed il pagamento da queste corrisposto ai governi dei Paesi produttori. La “rivoluzione petrolifera”, che fu parte dell’era delle rivoluzioni, iniziando negli anni ‘50 e culminando alla metà degli anni ‘70, consistette proprio nel progressivo cambiamento dei rapporti di potere tra le compagni petrolifere ed i Paesi produttori, e consentì progressivamente a questi ultimi di diventare i principali beneficiari della ricchezza petrolifera. La progressiva erosione del dominio delle Sette sorelle, dovuta all’avvento di compagnie indipendenti, diede ai paesi produttori un margine di autonomia che questi sfruttarono per ottenere condizioni contrattuali migliori. Alla fine degli anni ‘50 il sistema delle concessioni era definitivamente tramontato ed i Paesi produttori di tutto il mondo cercarono di aumentare ulteriormente il proprio potere contrattuale sul mercato petrolifero fondando a Caracas, nel 1960, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec nell’acronimo inglese), un vero e proprio cartello dei Paesi esportatori, che acquistò sempre maggior potere via via che i singoli Paesi riuscivano a nazionalizzare il petrolio entro i loro confini. Grazie alle mutate condizioni del mercato petrolifero mutò anche il ruolo internazionale del Terzo mondo. La rivoluzione petrolifera araba raggiunge il suo apice all’inizio degli anni ‘70, quando i principali produttori arabi nazionalizzarono le proprie risorse, acquisendo gli strumenti per il controllo politico della produzione. Infatti, allo scoppio della quarta guerra arabo-israeliana nel 1973, i Paesi arabi produttori di petrolio si riunirono nell’Oapec, l’Organizzazione dei produttori arabi di petrolio e decisero di utilizzare il petrolio come arma di pressione del conflitto: venne adottato un embargo commerciale contro Usa ed Olanda (i principali alleati di Israele) i cui effetti economico-commerciali furono marginali, ma che ebbero enormi effetti politici. I Paesi produttori arabi divennero di colpo i temuti protagonisti dello scenario internazionale ed il prezzo del petrolio venne quadruplicato. Quello che è importante sottolineare sono però gli effetti sul Mondo arabo, dove la rivoluzione petrolifera culminò con la moltiplicazione esponenziale della ricchezza dei paesi produttori. Non meraviglia, perciò, che la disponibilità di tanta ricchezza moltiplicasse il peso dei Paesi produttori a livello regionale ed internazionale. Nel Mondo arabo, questa nuova ricchezza significò sostanzialmente due cose: una nuova, enorme capacità di investimento dei Paesi produttori arabi in progetti di sviluppo, da realizzare a livello nazionale o regionale; una ricaduta indiretta della rendita petrolifera anche sui Paesi arabi non produttori, che poterono beneficiare sia dei flussi finanziari (di aiuto o di investimento), provenienti dai Paesi produttori, che delle rimesse dei propri cittadini che emigravano per lavorare presso i nuovi ricchi Paesi produttori. Così, alla fine degli anni ‘70, conclusa l’era delle rivoluzioni ed iniziata l’era della normalizzazione del Mondo arabo, l’unità araba che era fallita sul piano politico sembrò per un momento in procinto di realizzarsi attraverso l’integrazione economica. Tuttavia, non fu questo il risultato della rivoluzione petrolifera nella regione araba. La ricchezza proveniente dal petrolio, infatti, fu sostanzialmente sperperata, poiché non produsse vero sviluppo socio-economico e, anzi, aumentò la dipendenza politico-economica dei Paesi arabi dal resto del mondo. Questo avvenne soprattutto perché la stragrande maggioranza della rendita petrolifera totale guadagnata dai produttori arabi fu investita nei circuiti finanziari occidentali e non nella produzione. Inoltre, di questo enorme flusso di ricchezza (i cosiddetti “petrodollari”), investito dai Paesi produttori arabi in Occidente, circa un terzo venne speso per acquistare sofisticati armamenti occidentali che, lungi dall’aumentare la sicurezza dei Paesi produttori, ne aumentò la dipendenza dai Paesi occidentali, i quali continuavano a monopolizzare il know-how per usarli e mantenerli. I due terzi rimanenti della rendita petrolifera, un capitale comunque ingente, furono in parte impiegati nei Paesi produttori per mega progetti, specie infrastrutturali, che furono spesso opere di puro prestigio, non generatrici di sviluppo. Gli investimenti nella sanità e nell’istruzione, apparentemente più utili ai fini dello sviluppo socio-economico locale, finirono per sostenere programmi di welfare mirati a comprare il consenso politico delle popolazioni e non a stimolarne lo sviluppo e l’imprenditorialità. L’uso improduttivo delle rendite petrolifere per la difesa e l’acquisizione di consenso non riguardò solo gli Stati arabi petroliferi, ma anche quelli non produttori, che ricevevano i doni e gli aiuti dei produttori e li utilizzavano a fini economicamente improduttivi. Inoltre, l’investimento dei petrodollari nelle economie occidentali rafforzò l’interesse strategico delle élite dei regimi arabi per la conservazione degli equilibri di potere esistenti non solo a casa loro, ma anche nel sistema internazionale, ormai dominato dal blocco occidentale. In particolare, i produttori arabi della Penisola, e soprattutto l’Arabia Saudita, adottarono sui prezzi petroliferi politiche favorevoli agli interessi americani, che rappresentarono un caso esemplare della “teoria della dipendenza”. Così, mentre nei primi due decenni dell’età delle rivoluzioni (‘50-’70) il Mondo aravo aveva registrato una significativa crescita macroeconomica ed un effettivo sviluppo sociale, il saldo complessivo dei successivi due decenni (‘70-’90) fu l’aumento della dipendenza politico-economica del Mondo arabo e l’aumento delle sperequazioni sociali al suo interno, esiti che resero necessaria quella “ristrutturazione” del sistema regionale che caratterizza la successiva quarta fase storica. 3.5 Dalle rivoluzioni alla normalizzazione del Mondo arabo La spinta rivoluzionaria che caratterizzò il Mondo arabo negli anni ‘50 e ‘60 del XX secolo iniziò ad esaurirsi dall’inizio degli anni ‘70, per molteplici motivi, tra i quali va certamente annoverato il conflitto arabo-israeliano. Dopo la clamorosa sconfitta subita nella guerra del 1967 ad opera di Israele, i Paesi arabi non furono più in grado di legittimarsi di fronte alle nuove generazioni in virtù della loro guida nella lotta anticoloniale o antisraeliana. Così, dai primi anni ‘70, i regimi arabi si affidarono sempre più alla coercizione per fronteggiare l’emergente contestazione popolare guidata dalle organizzazioni di sinistra (partiti, sindacati, movimenti studenteschi) e figlia del crescente disagio socio-economico seguito al progressivo fallimento del modello di sviluppo statalista; un disagio che, dalla seconda metà degli anni ‘70, provocò rivolte in molti Paesi. La crisi socio-economica fu accompagnata dal crescere del disorientamento identitario, poiché la crisi del nazionalismo arabo - sin lì la principale ideologica politica, identità culturale e fattore aggregante delle relazioni regionali – riacutizzò gli irrisolti traumi socio-culturali creati dalla modernizzazione d’inizio secolo, a cui il nazionalismo arabo aveva offerto una temporanea risposta. Il declino del nazionalismo arabo, specie nella sua versione radicala panaraba, si accompagnò all'ascesa dell’influenza dei Paesi produttori di petrolio nel Mondo arabo. Questa accresciuta influenza riguardò soprattutto i produttori della Penisola, in particolare l’Arabia saudita, e si tradusse in un nuovo conservatorismo politico-culturale che si realizzò, tra l’altro, nel sostegno (finanziario e culturale) da parte delle cosiddette “petro-monarchie” al fondamentalismo islamico. La diffusione del fondamentalismo, coniugandosi alla crisi ideologico-identitaria, alla crisi socio-economica ed alla conseguente perdita di legittimità dei regimi repubblicani, contribuì all’ascesa dei movimenti islamici di opposizione che caratterizza questa terza fase della storia contemporanea del Mondo arabo. Nel 1970, dopo la morte del presidente Nasser, il leader arabo simbolo dell’età delle rivoluzioni, le politiche dei regimi repubblicani arabi furono de-radicalizzate dai nuovi leader giunti al potere. Questi nuovi leader cercarono di rinsaldare il potere dei rispettivi regimi abbandonando progressivamente lo statalismo, integrando nuove élite ella coalizione al potere, disimpegnandosi in vario modo dal conflitto arabo-israeliano e ricercando un nuovo inserimento nel sistema internazionale, ormai dominato dal blocco occidentale. Questo cambiamento significò una vera e propria “normalizzazione” del Mondo arabo: frutto sì delle dinamiche interne della crisi successiva al ‘67, ma anche di cause esterne, generate dai mutamenti nel intellettuali, i quali traevano le loro idee sia dalle fonti islamiche che da quelle europee: fu in questi anni di fine ‘800 che tra questi intellettuali si svilupparono le grandi correnti del pensiero politico del Mondo arabo contemporaneo ed emersero i primi fermenti del movimento nazionalista egiziano. 1.5 Bancarotta ed intervento militare britannico: nascita del movimento nazionalista (1875-1879) Incapace di pagare gli interessi sul debito, lo Stato egiziano dichiarò bancarotta e chiese aiuto alla Gran Bretagna, la quale si accordò con la Francia per trovare assieme meccanismi per assicurare il ripianamento del debito verso le banche europee. Le commissioni di controllo europee sulle finanze egiziane create da Francia e Gran Bretagna pretendevano la riduzione della spesa pubblica e l’aumento delle tasse; tuttavia, i controllori finanziari non riuscirono ad imporre ad Ismail le proprie ricette sino a quando, nel 1879, il khedivé fu deposto dal sultano ottomano (anch’egli a capo di un Paese in bancarotta), su istigazione europea. Dopo l’ascesa al trono del khedivé Tawfiq, i controllori anglo-francesi imposero di destinare al ripianamento del debito metà del bilancio egiziano e di dissolvere l’Assemblea dei delegati, che da tempo protestava contro le imposizione europee. Amplificata dalla stampa, emerse progressivamente una coalizione di forze della nuova borghesia egiziana che si opponeva al controllo europeo ed al khedivé. Questa coalizione comprendeva una minoranza di alti dignitari turco-circassi ed una maggioranza di egiziani: ufficiali dell’esercito, proprietari terrieri provinciali e molti ulema, sindaci e capi villaggio. Da essa si sviluppò un movimento nazionale sfociato nella rivoluzione indipendentista di Urabi pascià, il quale cercò di abbattere con manifestazioni e sommosse il regime dominato dagli interessi politico-finanziari anglo-francesi, dal khedivé Tawfiq e dalla sua élite turco-circassa. Gli oppositori egiziani fondarono il primo partito nazionalista, ma il movimento fu guidato dalla rivolta dei militari. I militari egiziani si ammutinarono e, dopo aver posto sotto assedio il palazzo del governo, riuscirono ad imporre a Tawfiq la sostituzione di alcuni ministri e la ricostituzione dell’Assemblea dei delegati. Quando il portavoce dei militari in rivolta Ahmad Urabi ottenne il posto di ministro della Difesa nel nuovo governo imposto dai rivoltosi, gli Europei allarmati inviarono in Egitto una squadra navale anglo-francese. Il nuovo governo, pur non avendo un programma radicale, cercò di limitare il potere autocratico del khedivé e di difendere gli interessi delle élite nazionali. Quando la flotta europea arrivò, il governo nazionalista diede le dimissioni e scoppiò una sommossa antieuropea. Urabi decise di resistere ad oltranza e dichiarò decaduto il khedivé: le élite autoctone e la popolazione si schierarono con lui in una rivolta generalizzata. A questo punto, la Gran Bretagna decise, senza la Francia, di inviare una spedizione militare per riportare all’obbedienza l’esercito egiziano guidato da Urabi. Quest’ultimo fu sconfitto ed i Britannici poterono così occupare il Cairo e dare inizio al loro dominio coloniale sull’Egitto. 2. Dal protettorato inglese al colpo di Stato di Nasser (1882-1952) 2.1 Il protettorato ‘mascherato’: Lord Cromer ed il radicamento del nazionalismo egiziano (1882-1914) L’occupazione britannica dell’Egitto fu il punto di arrivo degli eventi messi in moto dall’invasione napoleonica e dalla progressiva incorporazione dell’Egitto nel sistema capitalistico europeo in posizione dipendente. I Britannici si convinsero che la salvaguardia dei propri interessi strategici in Egitto, e soprattutto nel Canale di Suez, vitale per la sicurezza dei collegamenti con l’Impero coloniale britannico in India e nell’Estremo oriente, richiedeva in Egitto un governo stabile e, dunque, una presenza militare britannica. L’occupazione inglese prese la forma di un protettorato ‘mascherato’ (veiled protectorate) che durò sino al 1914. La necessità della ‘mascheratura’ del dominio britannico dipendeva dal fatto che, formalmente, il khedivé d’Egitto continuava ad esercitare il suo potere per concessione del sultano ottomano, e non poteva perciò sottoscrivere alcun trattato di protettorato con la Gran Bretagna. Di fatto però, dal 1882 il Console generale britannico al Cairo svolse il ruolo di protettore del khedivé, ‘consigliandogli’ le misure da intraprendere in tutti i campi; consiglieri britannici svolgevano lo stesso ruolo in tutti i settori dell’amministrazione, mentre ufficiali britannici comandavano l’esercito egiziano. I Britannici dotarono l’Egitto di un regime politico moderatamente liberale, il quale prevedeva che il governo designato dal khedivé fosse affiancato da un’Assemblea consultiva e da un sistema di governi locali. Il potere effettivo di questo sistema di autogoverno era, comunque, strettamente limitato. Tawfiq, il khedivé reinsediato dai britannici, ubbidì fedelmente ai loro dettami, ma il suo successore Abbas II tentò di recuperare l’autonomia del trono. Amico del khedivé Abbas II fu Mustafa Kamil, un avvocato di formazione francese che si mise alla guida di un nuovo movimento politico-culturale nazionalista; attraverso una stampa egiziana sempre più attiva ed influente, questo movimento cominciò a reclamare maggiore indipendenza in nome del khedivé, del sultano e dell’Islam. La dura campagna di riconquista del Sudan voluta dai Britannici fornì un forte motivo di protesta ai nazionalisti, perché era combattuta con il denaro e le truppe egiziane ad esclusivo vantaggio degli interessi britannici in Africa. Anche le condizioni miserevoli dei contadini egiziani furono attribuite dai nazionalisti alle politiche volute dagli inglesi. Il movimento nazionalista si istituzionalizzò in due partiti distinti: il Partito Nazionale, di ispirazione islamica, fondato da Mustafa Kamil, ed il partito Umma (nazione), fondato dall’intellettuale laico Ahmed Lutfi el-Sayed, primo rettore dell’Università del Cairo. Negli anni seguenti, questi due partiti furono i protagonisti della vita politica egiziana. Il nazionalismo egiziano era ormai un’ideologia ben radicata tra le élite, anche se una parte di esse era contraria alle forme più radicali di lotta contro l’occupazione britannica. Tra le élite più timorose vi era quella cristiano-copta (i Copti erano una minoranza del Paese), dalle radici culturali antiche, che si era schierata coi nazionalisti dall’epoca di Urabi, ma ora temeva sia la radicalizzazione che l’islamizzazione del movimento nazionalista. 2.2 Effervescenza politico-culturale ed impoverimento economico e sociale sotto il protettorato Nel novembre 1914, quando la Gran Bretagna entrò in guerra con l’Impero ottomano, i Britannici dichiararono l’Egitto indipendente da Istanbul ed installarono sul trono, col titolo di sultano, un nuovo monarca, Husayn Kamil, ponendolo sotto il proprio protettorato: ebbe così fine la finzione del ‘protettorato velato’, ma la vita politica in Egitto fu di fatto sospesa sino alla fine della guerra. Nell’insieme, il periodo del veiled protectorate britannico era stato caratterizzato da tendenze contrastanti: mentre le politiche coloniali britanniche tarparono lo sviluppo politico-economico dell’Egitto, la reazione all’occupazione e la prosecuzione dei processi socio-culturali, avviati dall’epoca di Muhammad Ali, diedero vita ad un periodo di grande effervescenza politico-culturale, durante il quale si sviluppò una politicizzazione delle élite all’insegna del nazionalismo egiziano, la quale pose le basi per la successiva ‘epoca liberale’ egiziana. In campo economico, le politiche ‘consigliate’ dai Britannici ai governi egiziani ebbero due obiettivi principali: la stabilità finanziaria necessaria al ripianamento del debito e lo sfruttamento della produzione più redditizia, quella del cotone. Non sorprende perciò sapere che, nel periodo 1882-1914, vi furono pochissimi investimenti nello sviluppo del Paese: il latifondo aumentò, assieme al numero dei contadini senza terra; lo sviluppo industriale restò stagnante ed il debito egiziano peggiorò, poiché l’export si ridusse. Anche in campo sociale né le masse né la borghesia autoctona beneficiarono del dominio britannico: anche se la popolazione raddoppiò, il potere restò nelle mani di ristretti gruppi di latifondisti e notabili urbani (spesso appartenenti alle minoranze copte, siriane ed armene), dominati dagli Europei immigrati, i quali controllavano il commercio, l’imprenditoria e le professioni liberali anche grazie ai privilegi ancora accordati loro dalle capitolazioni. Tra le comunità europee, capeggiate dai britannici e concentrate nelle grandi città, la più numerosa era quella greca, la seconda per numero era invece quella italiana. 2.3 Prima Guerra Mondiale, nascita del Partito Wafd, l’Egitto formalmente indipendente (1918-1922) L’Egitto fu coinvolto nella Prima Guerra Mondiale solo come retrovia delle battaglie tra Britannici ed Ottomani; per grande sollievo degli inglesi, non vi fu mai la sollevazione egiziana pro-ottomana tanto temuta. l’Egitto e la popolazione egiziana non furono direttamente coinvolti nei combattimenti, ma furono impiegati nei lavori forzati necessari a sostenere lo sforzo bellico britannico; solo pochi imprenditori locali beneficiarono dell’economia di guerra. Nonostante la sospensione dell’attività politica istituzionale, durante gli anni della guerra si diffuse un maggior grado di consapevolezza politica tra gli strati più larghi della popolazione. Il 13 novembre 1918, pochi giorni dopo la fine della guerra, in Egitto la vita politica riprese slancio grazie ad un’importante iniziativa di un gruppo di politici nazionalisti: questi consegnarono al nuovo alto commissario britannico Wingate una formale richiesta di piena indipendenza per l’Egitto. L’alto commissario si rifiutò di prendere in considerazione la richiesta, il che diede origine, in tutto il Paese, ad un ampio e violento movimento di protesta anti-britannico ed anti-governativo, che colse gli inglesi di sorpresa, specie quando la protesta si estese alle aree rurali, facendo emergere per la prima volta l’ampiezza del risentimento popolare anti-britannico, dovuto anche alle cattive condizioni socio-economiche del Paese. Nonostante la breve durata, questa protesta fu considerata una vera e propria rivoluzione, poiché coagulò attorno alla richiesta d’indipendenza le diverse rivendicazioni delle élite e delle masse operaie e rurali, secondo un percorso tipico di tutte le lotte nazionaliste. La rivolta, inoltre, costrinse i Britannici a rivedere profondamente la loro politica in Egitto, passando bruscamente dall’ipotesi di non poter più salvaguardare i propri interessi senza un compromesso con le aspirazioni politiche della popolazione locale. Alla luce della crisi del 1919, i Britannici cercarono nuovamente di creare in Egitto un sistema di autogoverno compatibile con i propri interessi coloniali e, a questo fine, nel periodo 1920-1922, intavolarono negoziati con i nazionalisti egiziani, che tuttavia rifiutarono ogni proposta compromissoria rispetto alla piena indipendenza. Il 28 febbraio 1922, i Britannici decisero perciò di dichiarare unilateralmente l’indipendenza in Egitto, riservandosi tuttavia estesi diritti di controllo sino alla conclusione di un trattato bilaterale. Le questioni che restavano di competenza britannica erano il controllo della politica estera e di difesa, il controllo del Canale di Suez, il governo del Sudan ed il mantenimento delle capitolazioni. Il diritto di preminenza britannico su queste questioni fondamentali limitava in modo sostanziale la presunta indipendenza egiziana. Nel 1922, l’Egitto fu formalmente riconosciuto dai Britannici come Stato indipendente, retto da una monarchia costituzionale e governato secondo un sistema rappresentativo. Tuttavia, la mancanza di sovranità, soprattutto in politica estera, fece sì che l’Egitto non fu internazionalmente riconosciuto abbastanza indipendente da essere accolto tra i membri della Società delle Nazioni. La Costituzione adottata nell’aprile del 1923 riconosceva ampi poteri al Re, mettendolo in condizione di licenziare il governo a suo piacimento, ma impedendogli di sostenerne uno che non avesse ottenuto una maggioranza elettorale. Questa caratteristica del nuovo sistema istituzionale fu una delle cause “tecniche” dell’instabilità politica che caratterizzò il periodo monarchico (1922-1952) e fece sì che il costituzionalismo in Egitto si rivelasse un’illusione formale quanto l’indipendenza. 2.4 L’età liberale: instabilità politica, contrasti sociali e fermenti culturali (1922-1939) La vita politica egiziana nel periodo monarchico, noto anche come ‘periodo liberale’ (1922-1952), fu quindi instabile ed incapace di favorire lo sviluppo del Paese, poiché minata dalla continua contrapposizione tra i tre poli politici concorrenti: la monarchia, i partiti politici nazionalisti ed i Britannici. Il Re mirava a preservare il proprio potere dalle limitazioni impostegli dalla Costituzione e dai Britannici; i partiti politici, spesso divisi al loro interno, cercavano di aumentare le proprie prerogative, limitando quelle del Re ed eliminando quelle dei Britannici; i Britannici, infine, cercavano di mantenere il proprio dominio ottenendo dal Re e dai partiti un trattato bilaterale che permettesse il mantenimento del loro controllo sulle questioni strategiche. Lo sviluppo delle vicende politiche egiziane nel periodo monarchico può essere diviso in due grandi fasi: durante la prima fase, il Partito Wafd (il partito indipendentista) monopolizzò la vita partitica e la principale questione politica sul tappeto fu il negoziato per un trattato bilaterale con la Gran Bretagna. Nella fase successiva, il monopolio del Wafd fu incrinato da divisioni interne e dall’emergere di altre e più radicali forze politiche, mentre nuove priorità ( come la questione sociale e quella palestinese) affiancavano la questione dell’indipendenza dai Britannici nel dibattito politico. La vita politica del periodo monarchico fu marchiata dall’instabilità, derivante dai continui cambi di governo, dovuti al tentativo di risolvere le controversie in corsa a favore di uno o dell’altro polo. L’instabilità politica rese impossibile un’efficace azione di governo che risolvesse le principali questioni nazionali (assetto del sistema giudiziario, gestione dei beni religiosi, sviluppo economico, etc…). Il periodo monarchico fu però un periodo di grande vivacità e cambiamento proprio nel settore culturale, che vide gli anni ‘20 dominati dalle correnti più liberali, rappresentate da tendenze quali la nascita del femminismo o la rivisitazione critica dei fondamenti della cultura arabo-islamica. Gli anni ‘30 e ‘40 furono invece contraddistinti dall’emergere di correnti di pensiero più radicali, in campo sia religioso che politico. Di particolare importanza fu l’evoluzione del riformismo islamico verso una visione teologicamente più fondamentalista, culturalmente più anti-occidentale e socialmente più conservatrice, soprattutto sotto la spinta dell’azione dei Fratelli musulmani. L’Organizzazione dei Fratelli musulmani nacque proprio con l’intento di concretizzare con l’azione sociale e politica la riforma islamica e di contrastare la corruzione insita nell’occidentalizzazione. 2.5 La Seconda Guerra Mondiale, nascita del panarabismo, stallo del sistema politico (1939-1945) Durante la Seconda Guerra Mondiale, scoppiata nel 1939, si aprì un fronte di guerra in Nord Africa con lo sbarco dell’Afrika Korps tedesco in Libia. Sconfitte le forze dell’asse nella battaglia di El Alamein in Egitto nel novembre nel ‘42, la vita politica egiziana tornò alla normalità. Alla fine della guerra, i negoziati per una più effettiva indipendenza egiziana fallirono, mettendo in mostra l’incapacità dei partiti tradizionali di assicurare un cambiamento reale: l’opinione pubblica dei Paesi arabi aveva cominciato ad essere cosciente che le singole lotte nazionali per l’indipendenza nei Paesi arabi erano parte di un più generale problema di dominazione coloniale, comune a tutto il Mondo arabo. La necessità di una maggiore unione degli Stati arabi, anche per risolvere la questione palestinese, aveva cominciato ad essere sostenuta dalla seconda metà degli anni ‘30 da alcuni dei nuovi partiti e movimenti più radicali. Questi nuovi partiti e movimenti, impossibilitati dal sistema elettorale vigente a pesare in parlamento, conducevano la loro lotta politica con scioperi, manifestazioni e scontri con gli oppositori condotti dalle rispettive milizie paramilitari. Anche i partiti tradizionali avevano progressivamente capito che un maggior coinvolgimento nelle relazioni regionali avrebbe rinforzato la posizione internazionale dell’Egitto, specie nei confronti della Gran Bretagna. Questo nuovo orientamento panarabo del nazionalismo egiziano si tradusse nella proposta per la costituzione di una Lega degli Stati arabi, la quale venne fondata al Cairo nel 1945 da sette Stati arabi (Arabia saudita, Egitto, Libano, Iraq, Siria, Yemen, Transgiordania): essi abbandonarono l’Egitto in massa; e la politica di ‘industrializzazione veloce’, mirante all’indipendenza economica tramite la produzione di beni sostitutivi delle importazioni, la quale generò un significativo sviluppo industriale dell’Egitto nel periodo 1952-1965, soprattutto nel settore manifatturiero. Tutte queste politiche economiche ebbero come risultato complessivo lo statalismo, ovvero un ruolo esteso e centrale delle istituzioni statali nella gestione dell’economia. Lo stesso effetto ebbero le riforme politiche ed amministrative, soprattutto quelle adottate nel cosiddetto periodo socialista del regime nasseriano (1961-1966), le quali perfezionarono l’incorporazione nello Stato delle varie forze sociali attraverso la loro rappresentanza, organizzata attraverso associazioni nazionali di categoria. Le riforme socialiste includevano, tra l’altro, la rappresentanza obbligatoria di operai ed impiegati nei consigli delle imprese. L’approfondimento dello statalismo egiziano provocò progressivamente dei contraccolpi politico-economici, quali la nascita di movimenti di opposizione e la crisi del modello di sviluppo economico, che iniziarono ad evidenziarsi già nell’ultimo periodo del nasserismo. 3.4 La leadership panaraba; l’Unione con la Siria e l’escalation con Israele(1956-1967) Anche in politica estera il regime di Nasser sperimentò una parabola simile: una crescita vertiginosa dell’influenza regionale dopo il ‘56, seguita da una sovraesposizione e da una crisi devastante dopo la sconfitta riportata nella terza guerra arabo-israeliana del 1967. L’enorme popolarità acquisita dopo la vittoria di Suez del ‘56 fece di Nasser il punto di riferimento della politica interaraba: in tutti i Paesi arabi, le forze sociali e politiche che sfidavano il potere del tradizionale sistema dei notabili guardarono alla rivoluzione egiziana come al modello da seguire. Tutti i movimenti nazionalisti arabi videro in Nasser il leader che poteva finalmente far avanzare la causa dell’unità araba e della lotta contro Israele. L’Egitto di Nasser incoraggiò queste aspettative, sostenendo politicamente e militarmente molte forze ‘progressiste’ arabe e sviluppando, tramite i suoi mezzi di comunicazione, un’intensa campagna propagandistica contro l’imperialismo occidentale ed i ‘reazionari arabi’. Nasser mise così in pratica suo vantaggio quell’interpretazione del nazionalismo arabo elaborata dagli ideologi del partito Ba’th, la quale va sotto il nome di ‘panarabismo’: l’unità araba, secondo Nasser, andava realizzata innanzitutto attraverso una stretta cooperazione tra gli Stati arabi, la cui forma più completa non poteva che essere l’unione politica tra gli Stati stessi. Per Nasser, l’unità araba era uno strumento indispensabile per la realizzazione della rivoluzione egiziana e perciò il panarabismo nasseriano va interpretato soprattutto come uno strumento per l’egemonia regionale del nazionalismo egiziano. Tuttavia, la realtà storica mostra che Nasser coinvolse l’Egitto in politiche unioniste che si rivelarono spesso sfavorevoli agli interessi nazionali egiziani: nel 1953, ad esempio, Nasser si impegnò inutilmente per convincere il Sudan ad accedere all’indipendenza unendosi all’Egitto; nel 1962, l’intervento a favore dei golpisti repubblicani in Yemen si trasformò in una guerra per procura con l’Arabia Saudita che consumò le risorse economiche e militari egiziane. Inoltre, la creazione nel 1964 dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), su iniziativa dell’Egitto, si trasformò in un boomerang quando, dal 1968, l’organizzazione palestinese si rese autonoma sotto la presidenza di Arafat. La più nota delle iniziative politiche panarabe si ebbe nel 1958, quando la Siria e l’Egitto unirono le rispettive istituzioni nazionali per formare la Repubblica araba unita (Rau), che assieme allo Yemen del Nord formò poi li ‘Stati uniti arabi’. L’unione fu tuttavia realizzata secondo i termini imposti da Nasser, trasformandosi in una vera e propria annessione politica della Siria da parte dell’Egitto; come tale, fu presto rifiutata dalla maggioranza delle forze politiche siriane, le quali guidarono la secessione nel 1961, accusando Nasser di egemonismo contrario ai fini dell’unità araba. 3.5 la terza guerra arabo-israeliana del 1967; disfatta e morte di Nasser (1967-1970) L’inizio dell’escalation che portò alla terza guerra arabo-israeliana del 1967 furono gli attacchi israeliani in Siria, nel 1965-1966. Dopo i continui scontri tra Israele e Siria e la firma di un patto di mutua difesa con la Giordania, Nasser prese alcune iniziative bellicose, nelle sue intenzioni mirate soprattutto a contrastare la propagando ostile degli altri Stati arabi, che lo accusavano di non avere il coraggio di tener testa ad Israele. Questi atti furono interpretati ed utilizzati da Israele come casus belli per scatenare una guerra preventiva contro gli Arabi. L’attacco a sorpresa che Israele scatenò il 5 giugno 1967 ebbe come bersaglio principale l’Egitto, il più forte militarmente dei suoi vicini arabi. Il 7 giugno la Giordania accettò il cessate il fuoco; l’8 giugno anche l’Egitto accettò la resa; la Siria fece altrettanto il giorno seguente. Quando il 10 giugno i combattimenti si conclusero, la vittoria di Israele era schiacciante: gli eserciti di Egitto, Giordania e Siria erano distrutte ed Israele aveva occupato il territorio egiziano del Sinai, quello Siriano del Golan e, soprattutto, Gaza e la Cisgiordania, ovvero quanto rimaneva dei territori assegnati ai Palestinesi dall’Onu. La popolazione egiziana 8e di tutti i Paesi arabi) fu annichilita dall’ampiezza della sconfitta subita nella guerra “dei Sei giorni”, anche perché durante i combattimenti i mezzi di comunicazione di regime avevano dipinto un quadro roseo della situazione. La sconfitta subita era inevitabilmente anche la sconfitta delle scelte di Nasser: la spesa militare era stata per anni la prima voce del bilancio statale socialista, ma le forze armate si erano rivelate inefficienti; il progresso verso l’unità araba e la sconfitta di Israele erano stati il fiore all’occhiello degli obiettivi della rivoluzione, ma la difesa dei ‘fratelli arabi’ aveva spinto l’Egitto al disastro, mentre Israele, più forte che mai, occupava Gerusalemme, il cuore del Mondo arabo ed islamico. Nasser rassegnò le dimissioni già il 9 giugno 1967, ma fu convinto a riprendere il suo posto da enormi manifestazioni popolari; i più alti gradi delle forze armate furono epurati. Nell’ultimo periodo del suo regime (1967-1970), Nasser comprese che la sconfitta subita richiedeva una profonda revisione delle sue politiche. L’esercito fu ricostruito con l’aiuto dell’Urss, aumentando ulteriormente la spesa militare. La politica araba fu ridimensionata e moderata grazie ad un accordo raggiunto con l’Arabia Saudita per il ritiro dallo Yemen, ed il sostegno finanziario ai paesi in prima linea contro Israele. Sul fronte dei rapporti con Israele, Nasser mantenne vivo il fronte militare, ma contemporaneamente si preparò ad una soluzione diplomatica. Anche sul fronte di politica interna Nasser introdusse degli aggiustamenti, i quali prevedevano un ammorbidimento delle politiche socialiste, (particolarmente in ambito economico) e l’affermazione generica di alcuni principi democratici (come la limitazione dei poteri del presidente). Un ultimo importante aspetto della revisione politica iniziata da Nasser fu l’intensificazione del richiamo ai valori dell’islam a sostegno del regime. Sin dal primo discorso dopo il colpo di Stato, Nasser si era sempre dichiarato guidato dai principi islamici ed il discorso ufficiale del suo regime si era sempre dichiarato rispettoso dell’islam; tuttavia, nella pratica il regime aveva cercato di mettere l’islam al suo servizio, statalizzandone le istituzioni e reprimendone i movimenti politici che, come i Fratelli musulmani, ne monopolizzavano il messaggio. Con la revisione politica post ‘67, Nasser iniziò ad ammorbidire anche questi aspetti dello statalismo, compresa la repressione nei confronti dell’Organizzazione dei Fratelli musulmani. Nasser non ebbe però il tempo di consolidare il riorientamento intrapreso dopo la sconfitta del 1967: morì il 28 settembre 1970 per un attacco cardiaco. Alla notizia della morte di Nasser si ebbero manifestazioni spontanee di dolore in tutto il Mondo arabo ed ai suoi funerali al Cairo partecipò una folla commossa di milioni di persone: si era spento l’unico leader che fu mai davvero amato dal popolo in tutto il Mondo arabo, e finiva con lui il periodo storico in cui l’idea stessa di Mondo arabo fu più sentita e popolare. Gli successe alla presidenza Sadat, vice presidente dal 1969. 3.6 I nuovi orientamenti del presidente Sadat; la quarta guerra arabo-israeliana (1970-1973) Anwar Sadat aveva fatto parte del nucleo originario degli Ufficiali Liberi ed era sempre rimasto accanto a Nasser. Egli si rivelò un politico capace ed innovatore: le sue primissime mosse furono volte a consolidare il suo potere, sbarazzandosi dei potenziali rivali ed adeguando il sistema istituzionale ai suoi obiettivi; inoltre, Sadat si affrancò dai legami troppo stretti con l’Unione Sovietica, specie in materia di cooperazione militare. Il conflitto con Israele restava il problema principale da affrontare per poter davvero innovare la politica egiziana: a causa della spesa militare, il conflitto pesava infatti enormemente sull’economia egiziana e ne condizionava la politica estera; sin dal suo arrivo al potere, Sadat cominciò pertanto a cercare una soluzione negoziale al conflitto. A causa dei continui rifiuti alle proposte di negoziato da parte di Israele, Sadat iniziò a pianificare una nuova guerra con lo Stato ebraico che permettesse di recuperare il territorio e l’onore perduto, mettendo così l’Egitto in condizione di risolvere il conflitto per via negoziale, grazie al maggior potere di leva in caso di vittoria. Egli preparò la nuova guerra in assoluta segretezza, in cooperazione con la Siria (ora guidata da Hafiz Assad). Questa volta furono gli Arabi ad attaccare per primi, lanciando un’offensiva contemporanea sul Sinai e sul Golan. Quando, il 25 ottobre 1973, Egitto ed Israele accettarono il cessate il fuoco imposto dall’Onu, gli Egiziani avevano riconquistato una parte del Sinai, ma gli Israeliani controllavano parte del territorio ad ovest del Canale. Quella dell’Egitto era dunque stata una mezza vittoria (o una mezza sconfitta) sul piano militare, mentre la Siria aveva subito una chiara sconfitta, non riuscendo a recuperare il Golan e vedendo gli Israeliani giungere alle porte di Damasco. Sul piano politico, però, l?Egitto aveva raggiunto un importante risultato, grazie anche all’intervento diplomatico dell’Urss in suo favore 8che aveva costretto gli Usa ad interrompere i rifornimenti militari ad Israele e ad alzare al massimo grado il livello di allerta nucleare), ma anche grazie all’intervento economico-diplomatico dei Paesi del Golfo, che avevano dichiarato un embargo sulle forniture petrolifere agli Usa ed agli altri paesi sostenitori di Israele. Sadat si trovava dunque in condizioni abbastanza rafforzate da poter attuare la sua strategia per una soluzione diplomatica del conflitto con Israele. 3.7 La controrivoluzione dell’infitah e l’avvicinamento alla pace con Israele (1974-1976) Subito dopo la guerra, dal 1974 Sadat iniziò anche un’opera di profonda trasformazione del sistema politico ed economico egiziano che molti giudicarono una vera e propria controrivoluzione rispetto ai principi del ‘52. Il primo e più evidente di questi nuovi orientamenti fu impresso in campo economico, con la liberalizzazione del commercio e degli investimenti esteri, prevedendo esenzioni fiscali ed un deciso alleggerimento degli obblighi amministrativi. Questa politica, denominata “dell’apertura” (in arabo infitah) economica, ebbe effetti notevoli sugli investimenti esteri in Egitto, che quasi raddoppiarono, influenzando l’intera economia che sperimentò una crescita del 7% nel periodo 1973-1980. I benefici dell’apertura, tuttavia, andarono solo ad un gruppo ristretto di imprenditori, mentre l’inflazione ed il debito crebbero e gli investimenti si concentrarono sui settori più remunerativi (edilizia, petrolio, turismo), ma meno capaci di creare sviluppo e posti di lavoro. Gli imprenditori beneficiari dell’infitah furono anche i principali beneficiari della modesta liberalizzazione politica avviata da Sadat: i partiti furono riammessi, in base ad un’apposita legge dai criteri molto selettivi. L’analisi del cambiamento della composizione delle élite mostra, in effetti, che sotto Sadat decrebbe significativamente la presenza dei militari nelle istituzioni politiche, mentre si accrebbe quella degli imprenditori. Nel 1975, con la mediazione americana, Sadat raggiunse un accordo di disimpegno con Israele, grazie al quale lo Stato ebraico accettava un ulteriore ritiro dal Sinai, ed in particolare la restituzione dei campi petroliferi della penisola; questo accordo fu denunciato dalla Siria e da altri Paesi arabi come la prova che l’Egitto stesse cercando un accordo bilaterale con Israele; accusa che, in effetti, era più che fondata. Intanto la prosecuzione della liberalizzazione economica faceva scoppiare le sue contraddizioni all’interno del Paese: scoppiarono ampie proteste popolari contro l’austerità economica che spesso sfociarono in manifestazioni violente. La popolarità di Sadat, salita dopo la vittoria del ‘73, era ora nettamente in calo ed il presidente cercò di rinsaldare il suo regime con varie misure, dalla creazione delle Forze centrali di sicurezza (un nuovo apparato del Ministero degli Interni) alle ulteriori aperture verso i Fratelli musulmani. 3.8 Il Trattato di pace con Israele e l’assassinio di Sadat (1977-1981) Nel corso dello stesso fatidico 1977, Sadat prese una decisione che segnò il resto della sua vita politica (e ne decretò la morte). Egli era infatti impaziente di togliere all’Egitto il fardello della continuazione del conflitto con Israele e di ricevere le ricompense politico-economiche promesse dagli Usa in caso di una soluzione diplomatica. Nel settembre 1978 cominciarono a Camp David, sotto l’egida americana, dei tortuosi negoziati bilaterali con Israele. Il 17 settembre 1978, Israele ed Egitto firmarono due accordi quadro distinti: il primo, intitolato ‘Quadro per la Pace in Medio oriente’, forniva i riferimenti per l’istituzione di un’entità di autogoverno provvisorio in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Il secondo accordo era intitolato ‘Quadro per la Conclusione di un Trattato di Pace tra Egitto ed Israele’ e delineava i principi generali e le garanzie per un accordo di pace bilaterale tra Egitto ed Israele. Il trattato di pace israelo-egiziano prevedeva il completo ritiro israeliano dal Sinai in tre anni, speciali accordi per la gestione della sicurezza nella penisola, tra cui la demilitarizzazione e la creazione di una zona cuscinetti alla frontiera vigilata da forze Onu e la completa normalizzazione delle relazioni politiche, economiche e culturali tra i due Paesi. Negoziando il ‘Quadro per la Pace in Medio oriente’ in parallelo al trattato di pace bilaterale, Sadat aveva sperato che l’accordo di pace dell’Egitto con Israele potesse essere visto come il primo passo di una soluzione complessiva, giusta e pacifica, del conflitto arabo-israeliano ed israelo-palestinese. Tuttavia, tutti i Paesi arabi, seppur con sfumature diverse, reagirono negativamente alle intese di Camp David; nonostante l’ondata di proteste sollevatasi nel Mondo arabo, Sadat decise comunque di sottoscrivere l’accordo di pace bilaterale nel marzo del 1979. Nel vertice arabo del marzo ‘79, l’Egitto fu sospeso dalla Lega araba e sottoposto all’ostracismo politico-diplomatico dei Paesi arabi, specie quelli del fronte radicale, ora guidato da Siria ed Iraq. Dopo la pace con Israele, Sadat dovette far fronte ad una violenta opposizione anche sul fronte interno. Gli accordi di Camp David del 1978 provocarono in Egitto ampie proteste da parte dell’opposizione e vi furono critiche e dimissioni anche nell’area di governo. Nel periodo 1980-1981, Sadat rispose alle critiche delle opposizioni con un’ondata di repressione e la cancellazione di alcune delle precedenti misure di liberalizzazione. Soprattutto, Sadat cercò di cooptare a suo sostegno gli effetti del processo culturale e politico di re-islamizzazione in corso nel Paese, come nel resto del Mondo arabo, dopo il 1967. Le concessioni di Sadat non furono tuttavia sufficienti ad imbrigliare l’ondata di trasformazione politico- culturale che, dopo la sconfitta del ‘67, aveva investito tutto il mondo arabo, sostituendo l’islam al nazionalismo come ideologia e visione del Mondo arabo. Nel quadro di questa cosiddetta ‘rinascita islamica’, in Egitto avevano cominciato a svilupparsi due fenomeni distinti ma collegati: il riemergere dei Fratelli musulmani come principale forza di opposizione islamica e lo dai Britannici alla Palestina giocarono un ruolo decisivo le simpatie pro-sioniste di numerose personalità dell’establishment britannico dell’epoca. L’internazionalizzazione della Palestina prevista dall’accordo Sykes-Picot metteva perciò d’accordo l’obiettivo inglese di contrastare l’influenza francese nell’area e quello sionista di evitare l’annessione della Palestina da parte di una delle potenze europee. L’apparente convergenza degli interessi sionisti e di quelli britannici sul futuro della Palestina convinse il governo inglese ad adottare, nel 1917, la Dichiarazione Balfour: questa dichiarazione, che impegnava pubblicamente i Britannici a sostenere il progetto sionista in Terra Santa, fu successivamente incorporata nel testo del mandato britannico ed ebbe quindi conseguenze storiche di ampia portata. L’adozione della Dichiarazione Balfour fu motivata anche dalla speranza britannica di ottenere l’appoggio delle comunità ebraiche russe ed americane alla partecipazione dei rispettivi paesi nella Guerra Mondiale, a fianco della Gran Bretagna. Durante il periodo bellico, la Palestina soffrì pesantemente: il commercio internazionale cessò, mentre gli uomini e le risorse del Paese furono sfruttate sino all’esaurimento dagli ottomani per lo sforzo bellico. Il suo territorio fu inoltre teatro di aspri combattimenti, che videro le truppe inglesi giungere ad occupare il paese nel 1918, guidate dal generale Allenby. Dopo la fine della guerra, nel medesimo anno, il futuro assetto politico delle province arabe dello sconfitto impero ottomano fu per due anni oggetti di intense trattative. In queste trattative, la Gran Bretagna riuscì a salvaguardare i propri interessi nonostante i contraddittori impegni sottoscritti durante la guerra; in particolare, con la Francia i Britannici raggiunsero un’intesa per un’applicazione rivista dell’accordo Sykes-Picot, la quale prevedeva l’esclusivo dominio britannico in Palestina ed in Iraq in cambio dell’esclusivo dominio francese su Siria e Libano. Per quanto riguarda specificamente la Palestina, i leader politici palestinesi proclamarono le aspirazioni di indipendenza della Palestina nel quadro del Regno arabo di Siria ed espresso il loro rifiuto totale al progetto sionista. L’adesione al nazionalismo arabo ed il riconoscimento di un’identità propriamente palestinese al suo interno erano in effetti fortemente progrediti tra le élite palestinesi negli anni della Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, nel momento della ridefinizione degli equilibri regionali ed internazionali post-guerra, di fronte alle richieste contrastanti del nazionalismo arabo e del nazionalismo ebraico, i Britannici scelsero senza troppe esitazioni di favorire il sionismo. 2. Dal mandato britannico alla prima guerra arabo-israeliana (1920-1948) 2.1 L’opposizione palestinese al mandato britannico (1920-1923) L’esito finale delle complesse trattative post-guerra confermò infine il futuro della Palestina già deciso dai Britannici: la Conferenza di pace di Parigi sancì la costituzione in Palestina, il cui territorio comprendeva l’attuale Giordania, di un mandato affidato alla Gran Bretagna. Scoppiarono violenti tumulti anti-britannici ed anti-sionisti, ma l’amministrazione procedette senza indugi ad organizzare il governo britannico della Palestina in modo da soddisfare al massimo le aspirazioni sioniste sostenute dalla Dichiarazione Balfour (tanto che anche le frontiere con Siria e Libano, sotto il mandato francese, furono definite seguendo le preferenze sioniste). Sulla frontiera orientale, il ministro delle colonie britannico Winston Churchill decise di creare un nuovo Stato, nonostante le proteste sioniste: l’emirato di Transgiordania. Per riassumere, la Gran Bretagna cercò di realizzare i suoi obiettivi che erano, in ordine di priorità: proteggere gli interessi imperiali britannici; sostenere la realizzazione del progetto sionista; svolgere i suoi obblighi di potenza mandataria, sviluppando il Paese amministrato per avviarlo all’indipendenza. La storia successiva dimostrò quanto irriconciliabili fossero questi obiettivi. 2.2 Cambiamento socio-economico e divisioni politiche (1923-1925) Negli anni ‘20, la Palestina viveva un nuovo periodo di grande trasformazione. L’economia tornò a crescere, stimolata dalla ripresa del commercio internazionale, da nuovi investimenti industriali e dalla creazione di nuove infrastrutture. Lo sviluppo dei settori più moderni dell0economia mise in secondo piano la tradizionale economia rurale, determinando un lento spostamento di potere tra nuove e vecchie élite palestinesi e l’emergere di una nuova classe lavoratrice salariata. In effetti, nella Palestina rurale molti piccoli proprietari si indebitarono, a causa dei prezzi più alti dei beni, e furono quindi costretti a vendere i propri terreni; i contadini impoveriti, o costretti a vendere la terra, migrarono verso le zone costiere, andando ad ingrossare le file del nuovo proletariato. Sul piano socio-politico, il periodo vide un’ulteriore frammentazione delle élite palestinesi: mentre quelle tradizionali competevano fra loro per mantenere o acquisire potere sotto il nuovo dominio britannico, le élite economiche emergenti ed il nuovo proletariato sviluppavano nuove e più radicali forme di organizzazione politica. Anche il nuovo attivismo nazionalista alimentò tensioni tra le diverse componenti della società palestinese, laddove i vari clan, gruppi religiosi, cittadini e contadini differivano su come rispondere ai problemi posti dalla dominazione britannica e dall’espansione sionista. In effetti, lo sviluppo di una leadership nazionale palestinese coesa fu impedito da diversi fattori: le rivalità tra le grandi famiglie dei notabili tradizionali; le differenze di interessi talora emergenti tra musulmani e cristiani; ma soprattutto le condiziono imposte dai Britannici per il riconoscimento di istituzioni rappresentative di tutta la società palestinese, prima fra tutte l’accettazione della Dichiarazione Balfour. Nello stesso periodo il Yishuv, la comunità ebraica immigrata privilegiata dai Britannici, si dotò invece di istituzioni politico-amministrative efficienti e coese. La chiave per il consolidamento dello Yishuv fu lo sviluppo, a partire dal 1920, di istituzioni protostatali, con la creazione di scuole in ebraico, del sindacato Histadrut e delle forze di sicurezza ebraiche dell’Haganà. All’inizio degli anni ‘20, lo Yishuv comprendeva tre componenti principali: gli ebrei ortodossi, di cui facevano parte gli ebrei palestinesi autoctoni, i quali rifiutavano il sionismo; il settore capitalistico ebraico, derivato dalla prima aliyah, che impiegava manodopera palestinese e non era strettamente sionista; infine, i sionisti laburisti, arrivati con la seconda aliyah, i quali erano socialisti ed escludevano la manodopera palestinese dai loro insediamenti agricoli ed industriali. Dalla fine degli anni ‘20, nello Yishuv prevalse politicamente la componente sionista laburista, che poté così imporre la sua linea all’Organizzazione sionista mondiale, dominare l’Histadrut e fondare il partito laburista. 2.3 Dai primi scontri tra Palestinesi e sionisti alla grande rivolta palestinese (1929-1939) Dopo le prime fiammate di violenza tra le due comunità, i Britannici decisero di contribuire a risolvere i problemi legati alla vendita delle terre palestinesi agli ebrei, creando nel 1930 una Commissione ‘sugli arabi senza terra’, i cui lavori misero in evidenza che a vendere le terre per interesse economico non erano solo i grandi proprietari terrieri residenti altrove, o i piccoli contadini indebitati, bensì anche le famiglie stesse dei notabili palestinesi nazionalisti che si opponevano al sionismo. I tentativi dell’amministrazione britannica locale di riequilibrare le politiche mandatarie si consolidarono nel Libro Bianco del 1930, che teneva maggior conto degli interessi palestinesi e limitava l’immigrazione e la vendita delle terre. Questi utili tentativi vennero tuttavia vanificati quando il governo di Londra ritrattò le limitazioni previste dal Libro Bianco; questo intervento pro-sionista consentì un’ulteriore espansione del Yishuv negli anni ‘30. Intanto, nella prima metà degli anni ‘30, in linea con i paralleli sviluppi nel resto del Mondo arabo, nel campo palestinese maturò una modernizzazione politica e furono fondati veri e propri partiti: partiti dei notabili, a sostegno degli interessi delle varie grandi famiglie, ma anche partiti di massa, come ad esempio l’Istiqlal, il quale sosteneva l’unità araba come strumento per risolvere il problema palestinese, ed il Partito comunista palestinese, il quale vedeva invece la soluzione nella lotta di classe; tra i Palestinesi nacquero anche gruppi clandestini che sostenevano la lotta armata contro i Britannici ed i sionisti. In effetti, era ormai chiaro che la politica moderata dei notabili palestinesi era incapace di realizzare gli obiettivi nella lotta nazionalista contro il mandato britannico ed il sionismo, mentre le trasformazioni sociopolitiche intervenute dall’inizio del mandato rendevano i tempi maturi per un cambiamento radicale dei metodi di lotta. Intanto l’immigrazione ebraica si intensificava significativamente, alimentata dalle persecuzioni antisemite iniziate dopo l’avvento del regime nazista in Germania, nel 1933. Nel 1935, tutti i partiti palestinesi chiesero nuovamente, ma invano, ai Britannici di porre fine all’immigrazione sionista ed alle vendite di terre. Lo scontro su larga scala tra aspirazioni palestinesi, interessi britannici e progetto sionista era ormai inevitabile e si concretizzò nella rivolta che dal 1936 al 1939 mobilitò l’intera società palestinese. La rivolta iniziò il 15 aprile 1936: gli scontri si estesero rapidamente e, per la prima volta, furono accompagnati da un’azione politica coordinata da parte palestinese. Tutti i partiti politici formarono un Alto Comitato Arabo col compito di porre ai Britannici una serie di richieste politiche sostenute da uno sciopero generale e dalla disobbedienza civile. Nei mesi seguenti, i nazionalisti dei vari Paesi arabi attivarono campagne di sostegno alla rivolta palestinese, che divenne così un momento decisivo nella costruzione dell’identità panaraba. La rivolta divenne una vera e propria insurrezione che i britannici avevano difficoltà ad arginare; anche l’Alto Comitato Arabo aveva sostanzialmente perso la guida politica della rivolta che, specie nelle campagne, divenne anche una sommossa popolare contro i notabili. Alla fine del 1936 la rivolta si placò temporaneamente, in parte per sfinimento, in parte per gli sforzi di mediazione da parte dei governi arabi. Sollecitati dagli stessi britannici, questi governi convinsero l’Alto Comitato a revocare lo sciopero, in attesa dei risultati della Commissione d’inchiesta Peel, appositamente creata per indagare sulle cause della rivolta ed i possibili rimedi. Il rapporto della Commissione Peel dichiarò insostenibile la formula del mandato ed auspicò la divisione della Palestina in due Stati: uno Stato ebraico, che avrebbe avuto il 20% del territorio, ed uno Stato palestinese, che avrebbe compreso il resto del territorio e sarebbe stato unito al Regno di Transgiordania. I Palestinesi rifiutarono in blocco la proposta, mentre l’Organizzazione sionista mondiale la accettò. Le tensioni politiche suscitate dal rapporto Peel provocarono una ripresa su ancor più am,pia scala della rivolta palestinese, che si concentrò ora nelle zone rurali. Divenuta molto più violenta in questa seconda fase, la rivolta palestinese ebbe per la prima volta come obiettivo diretto sia i Britannici che i grandi proprietari terrieri palestinesi, oltre agli insediamenti ebraici. In questa fase, la rivolta palestinese fu però priva di una direzione politica unificata; inoltre, il gruppo armato sionista iniziò a compiere azioni terroristiche contro i Palestinesi, mentre le truppe britanniche e l’Haganà cooperavano per reprimere la rivolta. La resistenza palestinese cominciò ad indebolirsi fino a spegnersi, nel 1939. Mancando di una direzione politica univoca, la lunga e sanguinosa ribellione dei palestinesi non riuscì a cambiare la realtà del mandato britannico e dell’espansione dell’insediamento sionista. La grande rivolta palestinese del ‘36-’39 provocò ingenti danni alla società palestinese: danni umani, poiché morirono gran parte dei migliori attivisti e centinaia di combattenti palestinesi, oltre ad ingenti danni materiali. Anche il Yishuv aveva subito danni, ma si era consolidato politicamente, aveva acquisito un’esperienza militare e poteva presentarsi al mondo come l’unica parte disposta al compromesso rappresentato dalla spartizione. 2.4 Il Libro Bianco del 1939 e la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) Con la fine della rivolta palestinese, i Britannici recuperarono il controllo del territorio, ma a caro prezzo ed in un momento politico in cui, con l’approssimarsi della Seconda Guerra Mondiale, era necessario ricercare nuovamente un compromesso con gli interessi palestinesi per ottenere il sostegno (o almeno la non ostilità) dei Paesi arabi nell’imminente conflitto. I Britannici decisero perciò un radicale cambiamento delle loro politiche per la Palestina e tentarono di giungere ad una soluzione condivisa da Arabi e sionisti; le proposte dei governi arabi furono recepite nel Libro Bianco britannico del 1939, il quale prevedeva la creazione entro dieci anni di uno Stato indipendente di Palestina, il quale avrebbe incluso il ‘focolare nazionale ebraico’, dunque uno Stato unitario ma binazionale. La nuova proposta britannica fu comunque respinta sia dai Palestinesi che dai sionisti; tuttavia, i primi la considerarono come un avvicinamento alle loro posizioni, mentre i secondi la videro come la prova che gli interessi britannici e quelli sionisti erano ormai divergenti. La Seconda Guerra Mondiale cambiò ancora una volta gli equilibri internazionali e con essi le prospettive di una soluzione per il conflitto ormai aperto in Palestina. Durante la guerra, l’impegno bellico anche sul fronte nordafricano spinse i Britannici ad accantonare l’applicazione delle riforme per la Palestina binazionale previste dal Libro Bianco. 2.5 Contrasti Usa-Gran Bretagna; debolezza dei Palestinesi; le Nazioni Unite decidono il futuro della Palestina (1942-1947) Durante gli anni della guerra, si compì anche l’ascesa delle organizzazioni ebraiche americane nell’Organizzazione sionista mondiale. Queste organizzazioni approvarono il sostegno al programma di spartizione della Palestina ed iniziarono a fare pressione sul governo Usa per costringere la Gran Bretagna a rivedere il blocco dell’immigrazione, specie per permettere l’ingresso dei numerosissimi profughi ebrei dall’Europa. Fu perciò formata, su iniziativa Usa, una Commissione anglo-americana per risolvere la questione dei profughi e, più in generale, discutere la questione della Palestina. Va ricordato che l’intervento e la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale avevano fatto degli Usa (assieme all’Urss) la potenza emergente nei nuovi equilibri internazionali; l’accresciuta potenza americana iniziò quindi a pesare anche sulle questioni della Palestina, costringendo la Gran Bretagna a fare concessione sgradite. Privata dell’appoggio Usa ad una soluzione del conflitto palestinese che le permettesse di salvaguardare i suoi interessi, la Gran Bretagna decise di rimettere la decisione sul futuro della Palestina alle neocostituite Nazioni Unite. Per quanto riguarda la capacità dei Palestinesi di contrapporre le proprie iniziative ai piani sionisti e britannici, essa era stata fortemente menomata dalla mancanze di una leadership politica nazionale. Già prima della rivolta del ‘36-’39, la leadership politica palestinese era debole e divisa, ma dopo la repressone della rivolta era divenuta ancora più inconsistente; contrasti politici e di interesse emersero ben presto tra l’Istiqlal ed i notabili, impedendone la convergenza su una strategia comune. In assenza di una leadership nazionale, la causa palestinese veniva difesa, soprattutto a livello retorico, dalla diplomazia dei governi dei Paesi arabi, i quali tuttavia avevano anch’essi interessi distinti (e spesso contrastanti) a quelli palestinesi. 2.4 Il piano Onu per la spartizione della Palestina e la risoluzione n.181 del 1947 Il 29 novembre 1947, l’Assemblea generale dell’Onu adottava, con la risoluzione n.181, un piano di spartizione della Palestina. Esso prevedeva una divisione del territorio palestinese in otto zone: tre per lo Stato ebraico, quattro per lo Stato palestinese ed una per Gerusalemme. Il piano assegnava allo Stato ebraico il 56,47% del territorio, mentre allo Stato arabo palestinese rimaneva il 42,88%; la zona internazionale di Gerusalemme avrebbe occupato solo lo 0,65% del territorio. Suddetta spartizione non era né equa né praticabile per nessuna delle parti in causa: in primo luogo, essa assegnava la maggioranza del territorio ad una minoranza, quella ebraica, che rappresentava solo il 33% combattere per la liberazione della Palestina era stato, infatti, l’obiettivo strategico delle azioni di Fatah in questa prima fase. Durante la brevissima guerra dei Sei giorni (terza guerra arabo-israeliana) del 1967, combattuta su iniziativa di Israele contro gli Stati arabi ‘di prima linea’ (Egitto, Giordania e Siria), tutti i territori palestinesi residui (Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme Est) furono occupati militarmente da Israele. La terza guerra arabo- israeliana si concluse perciò con una totale disfatta politica e militare dei Paesi arabi, la quale comportò una nuova fondamentale svolta negativa nella storia dei Palestinesi. L’occupazione di Gaza fu contrastata dalle truppe egiziane e palestinesi, ma la Striscia fu comunque conquistata in poche ore. La città vecchia di Gerusalemme fu catturata dagli israeliani assieme al resto della Cisgiordania, mentre 100mila nuovi profughi palestinesi lasciarono le loro case fuggendo ad ovest del Giordano. 4. La rinascita del nazionalismo palestinese e la ricerca di una soluzione diplomatica al conflitto (1968-1992) 4.1 Dopo la sconfitta del 1967: il declino dell’opzione militare ed il sostegno Usa ad Israele La sconfitta araba e l’occupazione israeliana di Gaza e Cisgiordania nella guerra del 1967 trasformarono radicalmente i termini del conflitto arabo-israeliano ed israelo-palestinese. Sul fronte arabo-israeliano, i Paesi arabi sconfitti si erano ormai convinti che la sola via militare non avrebbe permesso loro il recupero dei Territori arabi occupati nel ‘67; diventava così decisiva la costruzione di una più ampia solidarietà interaraba, che includesse anche i Paesi della Penisola, insieme all’intervento della diplomazia internazionale e all’appoggio delle due superpotenze. Più in generale, la sconfitta del ‘67 determinò un cambiamento epocale nel Mondo arabo: il declino del nazionalismo panarabo, l’emergere di un nuovo ordine regionale ed il riorientamento ideologico e culturale verso l’islam. Negli anni successivi alla terza guerra arabo-israeliana, ciascun Paese arabo riconsiderò la propria politica verso la questione palestinese alla luce di questi mutamenti. Questo cambiamento coincise con un periodo di transizione del sistema internazionale che vide la diffusione di nuove ideologie rivoluzionarie, ma anche l’inizio del declino della parità tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Per quanto riguarda gli Usa, fu dopo la guerra del 1967 che essi decisero di fare di Israele il loro principale alleato in Medio Oriente, perché lo Stato ebraico aveva dimostrato di essere la principale potenza militare regionale. Gli Usa volevano perciò impedire che Israele fosse di nuovo in pericolo o che l’Urss potesse approfittare della debolezza degli Arabi: iniziarono perciò una politica che prevedeva un sostegno sempre più ampio ad Israele, ma al contempo avviarono un ‘processo di pace’ internazionale per risolvere in via pacifica (e favorevole ad Israele) il conflitto arabo-israeliano. 4.2 L’emergere delle organizzazioni di guerriglia dell’Olp; tensioni con l’Olp in Giordania e Libano (1968- 1970) La sconfitta del ‘67 determinò un cambiamento drastico anche e soprattutto nella condizione dei Palestinesi: tutto il territorio della Palestina mandataria era ora riunito sotto il controllo di Israele ed i Paesi arabi erano ormai manifestamente incapaci di liberare la Palestina per via militare. Israele divenne perciò l’interlocutore principale dei Palestinesi, i quali iniziarono a riprendere direttamente nelle loro mani la responsabilità delle loro rivendicazioni nazionali. Incapaci di riprendere lo scontro diretto con Israele, i Paesi arabi credettero di poter continuare il conflitto arabo-israeliano attraverso la guerriglia palestinese: essi fornirono quindi aiuti economici e militari ai fedayin; questa nuova realtà permise l’ascesa nell’Olp delle organizzazioni palestinesi più capaci di condurre la guerriglia. Queste organizzazioni palestinesi, tuttavia, erano divise da differenze ideologiche e tali divisioni resero l’Olp un’organizzazione frammentata, nella quale era difficile decidere a maggioranza. Le differenze politico-ideologiche tra le diverse organizzazioni dell’Olp e le conseguenti lotte di potere furono sfruttate ed amplificate dai Paesi arabi, che nel ventennio successivo al ‘67 si allearono di volta in volta con l’uno o l’altro gruppo per i propri fini politici. Per le organizzazioni palestinesi dell’Olp, il periodo 1967- 1972 fu quello degli ‘anni della rivoluzione’, in cui il sistema politico e sociale palestinese venne rifondato nei campi della diaspora, nella prospettiva di estendere sempre più la lotta popolare per la liberazione della Palestina. L’immagine dei Palestinesi, sin lì inesistente nell’opinione pubblica mondiale, cominciò così ad essere rappresentata dai fedayin, i combattenti rivoluzionari con la kefiya in testa ed il mitra in mano. I Palestinesi della diaspora aderirono in massa alle organizzazioni riunite nell’Olp, che progressivamente crearono una serie di strutture proto-statali non solo in ambito politico-militare, ma anche sociale e culturale. L’ascesa dell’Olp quale rappresentante e struttura organizzativa dei Palestinesi in esilio creò inevitabilmente delle tensioni tra l’Olp stessa e gli Stati ospitanti, specialmente in Libano e Giordania. Ulteriori tensioni derivarono dalla decisione di alcuni gruppi dell’Olp di condurre, dal dicembre del 1968, le cosiddette ‘operazioni esterne’, ovvero attacchi terroristici contro bersagli internazionali, quali il dirottamento di aerei civili di compagnie occidentali. Queste operazioni erano mirate ad obiettivi specifici, quali il rilascio dei prigionieri palestinesi da parte di Israele e la sensibilizzazione alla causa palestinese dell’opinione pubblica occidentale; tuttavia, provocando vittime innocenti, queste operazioni ebbero il più ampio effetto di accomunare la resistenza palestinese al terrorismo internazionale. Fu proprio il dirottamento in Giordania da parte dell’Fplp di tre aerei (uno svizzero, uno americano ed uno britannico) a fornire il pretesto a re Hussein per l’attacco militare mirato a distruggere il potere delle organizzazioni dell’Olp nel Regno. Lo scontro, iniziato nel cosiddetto ‘settembre nero’, si risolse con l’espulsione verso il Libano delle organizzazioni della guerriglia palestinese. Anche in Libano, nel frattempo, erano sorte tensioni molto simili tra il governo e l’Olp: nel dicembre 1968, una rappresaglia israeliana a Beirut a seguito di un dirottamento dell’Fplp provocò la caduta del governo e l’inizio dello scontro tra gruppi libanesi pro ed anti-palestinesi. Da questo momento in poi, la questione palestinese in Libano divenne una componente inestricabile dei conflitti interni libanesi. 4.3 Israele nei Territori occupati e la ‘resilienza’ palestinese (1967-1977) Nel primo decennio dopo la guerra del ‘67, la storia politica dei Palestinesi fu dunque strettamente collegata all’ascesa dell’Olp come fautore e rappresentante del rinato nazionalismo palestinese. Anche i Palestinesi che vivevano nei Tpo contribuirono a questo sviluppo, ma la loro vita quotidiana fu marcata soprattutto dalle politiche adottate dagli occupanti israeliani. Immediatamente dopo la conquista, si era aperto tra i governanti israeliani il dibattito su cosa fare dei Territori arabi occupati. In particolare, si formarono due scuole di pensiero: da un lato, i fautori ‘dell’opzione giordana’ volevano governare la Cisgiordania in condominio con il Regno di Giordania; dall’altro lato, i sostenitori ‘dell’opzione palestinese’ volevano invece concedere ai Palestinesi un’autonomia limitata, sotto uno stretto controllo israeliano. La politica israeliana in Cisgiordania si rivelò, di fatto, un misto tra queste due opzioni: i Tpo furono mantenuto sotto l’amministrazione militare israeliana e, per mantenere il controllo sulla popolazione, fu vietata l’attività politica e fu ostacolato l’esercizio dei più elementari diritti civili. Allo stesso tempo, vennero mantenuti forti i legami con la Giordania: i Palestinesi di Cisgiordania continuarono a godere della cittadinanza giordana, ed il Regno continuò a gestire ed a finanziare molte delle istituzioni civili in Cisgiordania (ad esempio scuole e luoghi di culto). I Palestinesi di Cisgiordania mantennero così un vago spazio di autonomia, non istituzionalizzato e non garantito. Inoltre, per la prima volta dal 1947, tutti i Palestinesi nei Tpo si ritrovarono uniti nello stesso quadro politico, quello dell’occupazione, e poterono entrare in contatto anche con i Palestinesi d’Israele, dove si recavano a lavorare. In effetti, dal punto di vista economico, i Tpo ed i loro abitanti beneficiarono della progressiva integrazione nella più sviluppata economia israeliana, a cui fornivano manodopera a basso costo. Il maggior benessere economico, lo spazio informale di autonomia e la dura repressione spiegano la ‘resilienza’, cioè la resistenza ‘a bassa intensità’ opposta dai Palestinesi dei Territori nei primi vent’anni dell’occupazione, durante i quali maturarono comunque una generale modernizzazione socio-economica della società palestinese ed un ricambio generazionale nella leadership, la quale progressivamente spazzò via il potere dei notabili tradizionali, legati alla monarchia giordana. 4.5 La quarta guerra arabo-israeliana, gli accordi di Camp David e l’aumento degli insediamenti israeliani (1973-1978) Si giunse così alla quarta guerra arabo israeliana del 1973, combattuta tra Egitto, Siria ed Israele tutta al di fuori della Palestina. La guerra, iniziata dall’Egitto e sostenuta dall’embargo petrolifero dei produttori arabi, comportò per gli Arabi una sorta di pareggio politico-militare, riflesso nella nuova risoluzione Onu 338. Questa risoluzione consentiva negoziati anche al di fuori dell’ambito Onu e diede l’avvio ad una nuova iniziativa diplomatica Usa: la Conferenza internazionale di Ginevra (1973-1977). La Conferenza di Ginevra, tuttavia, aveva un’impostazione ormai politicamente superata: il Mondo arabo aveva infatti dovuto prendere atto dell’ascesa politica dell’Olp, visto come unico rappresentante politico dei Palestinesi. Inoltre, nel 1977, l’Egitto di Sadat, per motivi di interesse nazionale, aveva deciso di procedere ad una trattativa separata con Israele, la quale portò agli accordi di Camp David del 1978: qui l’Egitto sottoscrisse con Israele un Trattato di pace bilaterale. Dopo Camp David, l’Egitto fu sospeso dalla Lega araba ed il ‘processo di pace’, di fatto, si arrestò sino al 1982. 4.6 L’Olp in Libano, l’invasione israeliana e la diaspora dell’Olp (1978-1982) Mentre l’iniziativa diplomatica languiva ed i Territori palestinesi subivano l’erosione della colonizzazione, negli anni ‘70 ed ‘80 lo scontro tra Israele, l’Olp ed i Paesi arabi (la Siria soprattutto) si era trasferito in territorio libanese. L’Olp aveva infatti sviluppato in Libano una vasta infrastruttura politico-militare, centrata sui campi profughi palestinesi; intanto, dal sud del paese la guerriglia palestinese lanciava operazioni contro Israele che provocavano rappresaglie sul territorio libanese. Nel 1975, le organizzazioni dell’Olp si allearono con i gruppi musulmani e di sinistra nella complessa e sanguinosa guerra civile che iniziò in Libano quello stesso anno. Preoccupati che l’Olp, già in ascesa nei Tpo e nel riconoscimento internazionale, potesse arrivare a controllare in modo decisivo anche il Libano, gli strateghi israeliani pianificarono un intervento nel Paese per scongiurare questa eventualità e mettere fine agli attacchi palestinesi dal Libano del sud. Israele diede perciò inizio ad un’invasione del Libano su larga scala, mirata a distruggere la presenza militare palestinese; dopo essere riuscito parzialmente nel suo scopo, a prezzo di numerose vittime civile, Israele si ritirò dal Libano. L’Olp conservò però una capacità militare nel Libano meridionale e continuò a godere di una crescente influenza politica, anche internazionale. I piani israeliani di invasione del Libano vennero perciò riprese ed attuati su più larga scala nel 1982. Questa volta l’obiettivo, dettato dal ministro della difesa Sharon, era più ambizioso: cancellare la presenza dell’Olp in Libano, instaurare nel paese un governo amico ed infine approfittare della conseguente debolezza dei palestinesi per espellerli verso la Cisgiordania ed annettere i Tpo. Con l’invasione del Libano, iniziata nel 1982, gli israeliani riuscirono a realizzare solo il primo dei loro obiettivi: sbaragliare le forze dell’Olp e le forze siriane. La leadership palestinese si asserragliò a Beirut, e la città fu pesantemente assediata e bombardata dagli israeliani per quattro mesi. A questo punto, il presidente americano Reagan intervenne per mettere un freno all’invasione del Libano realizzata da Sharon, la quale aveva avuto modalità durissime, provocando appunto l’ira dell’alleato americano. Tuttavia, nell’immediato l’obiettivo di cacciare l’Olp dal Libano fu raggiunto: nel 1982-83 i quadri politico-militari dell’organizzazione furono dispersi tra Tunisi (dove l’Olp ebbe la sua nuova sede) e lo Yemen. CAPITOLO 8 Libano Il Monte Libano ha dato rifugio, nel corso dei secoli, a comunità in fuga da poteri politici avversi, determinando così la presenza nel Paese di una molteplicità di comunità etnico-religiose, peculiarità che costituisce la caratteristica più importante della storia libanese. Il pluralismo comunitario è comune alla maggioranza dei Paesi arabi ma, all’interno del quadro comune, il caso libanese è tuttavia peculiare, soprattutto per come si sono evolute in epoca contemporanea le relazioni tra le numerose comunità confessionali. Nella storia contemporanea del Libano, i periodi di pace interna sono dipesi dall’esistenza di un consenso sull’equilibrio di potere tra le varie comunità, mentre i periodi di crisi sono stati dovuti alle dispute su questo equilibrio; infine, i periodi di grave conflitto sono sempre stati causati anche dalla rottura dell’equilibrio intercomunitario. 1. Le comunità libanesi dalla conquista musulmana al mandato francese (640-1920) 1.1 Genesi del mosaico religioso libanese (secoli VII-XVIII) La storia del Libano come mosaico di comunità religiose inizia nel VII secolo, con la conquista arabo- musulmana del Vicino Oriente. La conquista portò, infatti, all’insediamento nel Paese degli Arabi musulmani: i sunniti si insediarono soprattutto nella piana costiera, mentre le comunità dei dissidenti sciiti si insediarono nella zona centrale (lo Shuf) e meridionale del Paese. Nello stesso periodo, alla popolazione cristiana del Monte Libano si unirono i maroniti, membri di una setta cristiana nata in Siria. Nel XI secolo, una nuova comunità eterodossa perseguitata, quella drusa, si insediò anch’essa nel Monte Libano: la dottrina esoterica dei drusi univa elementi di varie religioni, ma prescriveva l’osservanza esteriore del sunnismo musulmano. Più importante ancora per l’evoluzione del Libano contemporaneo fu la conquista ottomana del Vicino Oriente arabo. Tutte le regioni del Libano attuale entrarono allora a far parte dell’Impero Ottomano all’interno della provincia di Siria (la Siria ottomana o Grande Siria), nel cui quadro la regione del Monte Libano e le sue comunità ebbero sviluppi peculiari. Sotto il dominio ottomano, tra il XVI ed il XVIII secolo, il Libano sviluppò infatti un sistema politico e sociale caratterizzato anche dalla specifica dialettica tra le città della costa e le comunità del Monte Libano. Durante il dominio ottomano, le comunità libanesi si insediarono nelle zone di residenza divenuti poi tradizionali: gli sciiti si concentrarono nel sud del Paese; parte dei drusi si insediò, oltre che nello Shuf, nella zone montuosa dell’attuale Siria meridionale (il Jabal Druso); i maroniti continuarono ad aumentare di numero e molti contadini maroniti si spostarono quindi a sud, mentre i loro monasteri acquisirono più ricchezza e terre. Fu sempre in questo periodo che un certo numero di grandi famiglie druse e maronite acquisirono prominenza, ottenendo dagli Ottomani l’assegnazione di terre. e sanitari di tutto il Vicino Oriente, trascurando lo sviluppo industriale ed agricolo. Questa economia fondata sui servizi, specie finanziari, anziché sull’industria e sull’agricoltura, poteva in buona parte prescindere dal consenso popolare dei lavoratori; perciò, assieme al sistema politico confessionale, questo tipo di economia finì per concentrare il potere nelle mani dei notabili comunitari, rendendo in seguito difficile il superamento del confessionalismo come principio identitario ed organizzativo della società libanese. 2.3 Fazionalismo intra-comunitario e tensioni politiche: la Costituzione sospesa (1927-1932) Tuttavia, le comunità non erano sempre politicamente coese, sia per motivi ideologici che per la semplice competizione di potere tra i diversi notabili. La politica libanese fu in effetti caratterizzata dall’intensa competizione tra diverse fazioni della comunità maronita, la quale aveva posizioni diverse sul futuro del Libano. Nel frattempo, su insistenza dei sunniti, nel 1932 fu condotto un secondo censimento comunitario, sa cui risultò un ulteriore declino demografico dei maroniti (e dei drusi) a vantaggio dei musulmani sunniti e sciiti. Benché i cristiani restassero complessivamente maggioritari, la crescita delle comunità musulmane appariva inarrestabile e, per non doverne tenere conto nella ripartizione confessionale delle cariche, dopo il 1932 le autorità mandatarie non condussero altri censimenti. Inoltre, in seguito alla fine del mandato del del primo Presidente della Repubblica libanese, nel medesimo anno si scatenò una competizione politica per l’elezione alla presidenza così accesa tra i maroniti ed i musulmani che i Francesi decisero di sospendere la Costituzione. Era chiaro che, poiché né i musulmani né i cristiani erano coesi sul piano confessionale, ideologico e sociale, il Libano non era destinato ad essere guidato da una componente confessionale maggioritaria, bensì ad essere retto dagli equilibri tra le comunità principali emerse dal censimento del 1932, nell’ordine: i maroniti, i sunniti e gli sciiti. 2.4 Dal ripristino della Costituzione all’indipendenza (1932-1946) La sospensione della Costituzione da parte dei Francesi ebbe l’effetto di riunire i politici delle diverse comunità nella richiesta di una maggiore autonomia dalle autorità mandatarie. La Costituzione fu ripristinata solo nel 1937, anno in cui si tennero le elezioni per il rinnovo del parlamento. Dai primi anni ‘30, anche la politica libanese aveva assunto le forme comuni ad altri Paesi arabi nello stesso periodo: da un lato, i notabili tradizionali avevano iniziato ad organizzare politicamente la loro rete clientelare formando veri e propri partiti; dall’altro lato, stavano via via emergendo forme più moderne di partecipazione politica, con la nascita di partiti ideologici e di organizzazioni studentesche e sindacali. Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale congelò temporaneamente la vita politica libanese: la Costituzione fu sospesa nuovamente nel 1939 e dal ‘40, dopo l’occupazione nazista della Francia, il Libano fu diretto dai Francesi fedeli al governo collaborazionista di Vichy. Nel giugno ‘4, il Libano fu poi occupato dalle truppe britanniche, partite dalla Palestina e coadiuvate dai militari della ‘Francia libera’ di De Gaulle. Proprio come avveniva contemporaneamente in Nord Africa, anche in Siria ed in Libano il generale De Gaulle voleva mantenere i domini coloniali francesi. Tuttavia i Britannici, desiderosi di assicurarsi il sostegno degli Arabi, volevano invece vedere un rapido progresso verso l’indipendenza dei due Paesi del Levante; nel 1943, gli Inglesi sostennero perciò la tenuta di elezioni in Siria ed in Libane che, in entrambi i Paesi, condussero ad una schiacciante vittoria degli indipendentisti. L’indipendenza del Libano fu proclamata il 22 novembre 1943, ma le truppe francesi e britanniche non lasciarono il territorio libanese sin dopo la fine della Guerra Mondiale. Dunque, fu solo alla fine del 1946 che l’indipendenza del Libano divenne effettiva, con la partenza degli ultimi soldati europei. 2.5 Il Patto Nazionale interconfessionale e la vita politica dopo l’indipendenza Dopo la proclamazione dell’indipendenza nel novembre 1943, le élite politiche libanesi, temporaneamente unite dalla lotta anticoloniale, avevano raggiunto un patto non scritto, il cosiddetto Patto Nazionale, regolante il sistema politico confessionale alla luce degli sviluppi intervenuti. Il Patto Nazionale del ‘43 regolava anche la distribuzione delle cariche istituzionali tra le comunità principali e, in base ad esso, anche nel governo, nel parlamento e nell’amministrazione pubblica la ripartizione dei posti doveva rispecchiare il peso demografico delle varie comunità, misurato in base al censimento del ‘32, che aveva identificato una divisione quasi paritaria della popolazione tra cristiani e musulmani. Il compromesso contenuto nel Patto Nazionale non riguardava solo il sistema confessionale, ma anche la visione dell’identità e della collocazione internazionale del Libano: in cambio del riconoscimento sunnita (i sunniti erano da sempre avversi allo smembramento del Libano dalla Siria) di una distinta identità nazionale libanese staccata dalla Siria e del suo pluralismo confessionale, i maroniti rinunciavano ai tradizionali rapporti preferenziali con l’Occidente e riconoscevano l’appartenenza del Libano alla ‘famiglia araba’, purché questa rispettasse la sua indipendenza ed il suo sistema politico. Pur rappresentando il vero atto fondativo del Libano indipendente, il Patto nazionale del ‘43 presentava numerosi problemi: innanzitutto, esso formalizzava la situazione politico-demografica prevalente all’epoca, ma non conteneva principi condivisi per regolare la sua futura evoluzione, mancanza che contribuì all’esplodere delle successive crisi. In secondo luogo, nonostante il Patto facesse parlare del Libano come di una democrazia, esso aveva in realtà molto poco di ‘nazionale’ e molto poco di democratico: il Patto era, infatti, un accordo stipulato solo tra alcune delle élite delle due maggiori comunità ed attribuiva ai Libanesi i diritti politici in quanto appartenenti ad una comunità confessionale, non in quanto cittadini, in teoria liberi anche di non appartenere ad alcuna confessione. Per quanto riguarda poi l’identità culturale e la collocazione internazionale del Libano, il Patto accoglieva sia la visione maronita che quella sunnita, ma non indicava la priorità da dare ai diversi orientamenti filo-occidentali e filo-arabi, presupponendo implicitamente una sorta di neutralismo, difficile da mantenere negli equilibri regionali ed internazionali in trasformazione dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nonostante tutti questi limiti non marginali, il Patto fornì un regolamento per il sistema politico libanese che si rivelò funzionale, pur tra crisi ricorrenti, sino alla metà degli anni ‘70, quando la guerra civile mise in discussione l’esistenza stessa del Libano. 2.6 Dalla presidenza di al-Khouri all’insurrezione; presidenza di Chamoun ed intervento Usa (1943-1958) La prima fase della storia politica del Libano indipendente (1943-1952) fu caratterizzata dal consolidamento degli orientamenti politici ed economici del Paese, sotto la guida dei notabili maroniti e sunniti che l’avevano portato all’indipendenza. Durante questo primo periodo, il protagonista assoluto della vita politica libanese fu il presidente maronita Bishara al-Khouri. La forza politica di al-Khouri derivò dalla sua capacità di manipolare le rivalità e le alleanze politiche tra i membri delle due comunità principali; egli riuscì a mantenersi al potere, ottenendo cariche e benefici economici per la sua clientela, ma escludendone, anche con durezza, i suoi rivali. Nella guerra arabo-israeliana del ‘48, il Libano partecipò poco più che formalmente: l’esercito libanese praticamente non entrò in Palestina, ma si limitò ad appoggiare dal proprio territorio l’Esercito di liberazione arabo (Ala). Il Paese fu molto concretamente coinvolto nelle conseguenze del conflitto, ed in particolare dall’afflusso sul suo territorio dei rifugiati palestinesi. Nella seconda fase (1952-1958) della sua storia indipendente, il Libano vide, come il resto del mondo arabo, il passaggio dall’era dei notabili all’era delle rivoluzioni, che si tradusse anche qui in una crescita della tensione tra maroniti e sunniti. Nel settembre 1952, il maronita Camille Chamoun fu eletto presidente. Egli sfruttò i propri poteri presidenziali governando per decreto e modificano la legge elettorale in modo tale da indebolire i suoi oppositori ed ex alleati. Dalla metà degli anni ‘50, alle lotte di potere tra Chamoun ed i suoi rivali si aggiunsero le crescenti agitazioni della classe lavoratrice, tagliata fuori dalla vertiginosa crescita economica del Paese, nonché le contrapposizioni ideologiche dovute alla radicalizzazione della popolazione musulmana dopo la rivoluzione in Egitto e l’ascesa del partito Ba’th in Siria. Quando nel 1956 scoppiò la guerra di Suez e Chamoun si rifiutò di rompere le relazioni diplomatiche con Francia e Gran Bretagna, partecipi dell’aggressione all’Egitto, lo scontro tra il presidente ed i settori più radicali dell’opinione pubblica libanese crebbe perciò di intensità. La situazione iniziò a precipitare dopo le elezioni politiche del 1957, i cui brogli furono attribuiti alla volontà di Chamoun di assicurarsi un parlamento pronto a rieleggerlo. Nel febbraio 1958, le manifestazioni in favore di un’adesione del Libano alla Repubblica araba unita (Rau), appena formata tra Siria ed Egitto, si trasformarono in un’insurrezione panarabista contro Chamoun e, più in generale, in una rivolta dei musulmani contro il sistema politico dominato dai maroniti. Chamoun decise di rivolgersi all’Onu, accusando la Rau di interferenza nella politica interna del suo Paese. La crisi si calmò parzialmente ma, quando nel luglio 1958 la monarchia in Iraq fu abbattuta da un colpo di Stato filo- nasseriano, Chamoun chiese la protezione degli Usa per impedire la stessa evoluzione in Libano. Gli Usa inviarono a Beirut un contingente di marines che non intervennero militarmente, ma la cui presenza permise agli Americani di mostrare la loro capacità di difendere i loro alleati in Medio Oriente, ed ai politici libanesi di negoziare un compromesso che assicurava il ritiro di Chamoun alla fine del suo mandato ed il passaggio della presidenza al capo delle forze armate Fuad Shihab. 2.7 La presidenza di Shihab: rafforzamento dello Stato, economia liberista e confessionalismo (1958-1967) Con l’elezione alla presidenza di Shihab iniziò una terza fase (1958-1967) della storia del Libano indipendente, caratterizzata dal tentativo di riformare il sistema politico in senso più nazionale, rafforzando il ruolo e le istituzioni dello Stato, senza tuttavia rinnegare il confessionalismo come principio politico. Gli anni della presidenza di Fuad Shihab (1958-1964) furono caratterizzati dal tentativo di ricostituire l’equilibrio entrato in crisi nel periodo di Chamoun: in politica estera, Shihab ripristinò buone relazioni con Egitto e Siria e mantenne positive quelle con i Paesi occidentali, senza tuttavia esporre il Libano come alleato di prima linea di nessuno. In politica interna, Shihab favorì un maggiore intervento dello Stato nell’economia, mirato ad attenuare le sperequazioni sociali. L’investimento pubblico aumento nei settori delle infrastrutture, dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale, soprattutto nelle zone economicamente più svantaggiate del Paese; queste politiche resero Shihab estremamente popolare tra le componenti più marginalizzate della popolazione. Tuttavia, gli interventi voluti da Shihab non cambiarono l’orientamento liberista dell’economia libanese. Il divario tra ricchi e poveri non mutò sostanzialmente ed anche le politiche mirate alla costruzione di uno Stato più nazionale e più forte, ovvero capace di offrire servizi e partecipazione a tutte le componenti della società libanese, si scontrarono con il parallelo mantenimento dei principi e dei meccanismi del confessionalismo. I fondamenti del sistema confessionale rimasero intatti, impedendo il reale sviluppo di istituzioni statali sufficientemente forti e condivise. E’ opportuno considerare brevemente alcuni caratteri della storia economica del paese. L’orientamento economico liberista mantenuto dal Libano durante tutta la sua storia contemporanea era già stato incoraggiato dalle politiche coloniali ed era iscritto nella visione del Grande Libano come ‘Repubblica commerciante’. Dopo l’indipendenza, l’orientamento liberista fu confermato, con l’abolizione dei controlli statali sul commercio, la finanza e la produzione introdotti durante gli anni di guerra, mentre non furono diffuse le misure, di natura fiscale e giuridica, che avrebbero potuto temperare gli effetti sociali avversi del liberismo; inoltre, l’abrogazione dell’unione doganale con la Siria diede un ulteriore stimolo all’orientamento esterofilo dell’economia libanese. I profitti di questo sistema economico liberista - l’unico nel panorama delle economie arabe – andavano però esclusivamente alle élite, specie a quelle maronite e sunnite, mentre i lavoratori dell’industria e dell’agricoltura restavano esclusi da quel benessere che caratterizzava anche l’immagine internazionale del Libano. Tra le varie comunità libanesi, quella sciita restò la più svantaggiata dal punto di vista socio-economico e, nel primo ventennio dell’indipendenza, sperimentò contemporaneamente un significativo impoverimento ed una marcata crescita demografica, che provocò l’inurbamento, specie a Beirut, degli sciiti che abbandonavano le campagne. E’ importante sottolineare che, dal 1948 in poi, la crescita dell’economia di servizi libanese andò di pari passo con la crescita dei conflitti regionali. Dopo la prima guerra arabo-israeliana del ‘48, il boicottaggio economico che i Paesi arabi adottarono contro Israele eliminò la precedente concorrenza del porto di Haifa a quello dei Beirut; inoltre, la borghesia palestinese rifugiata in Libano contribuì significativamente allo sviluppo del Paese. Gli oleodotti iracheni e sauditi spostarono i loro terminali in Libano, e l’emigrazione degli ebrei dall’Iraq permise ai Libanesi di subentrare nei loro commerci. Infine, man mano che negli anni ‘50 arrivavano al potere nuovi regimi rivoluzionari in Egitto, Siria ed Iraq, i capitali delle borghesie arabe si riversavano in Libano, assieme a quelli generati dalla crescita della rendita petrolifera dei Paesi conservatori della penisola. 2.8 Nuove forze di sinistra ed Olp: il Libano verso la guerra civile (1967-1969) La quarta fase della storia del Libano indipendente (1967-1975) fu determinata da molteplici fattori, due dei quali svolsero un ruolo prioritario: da un lato la definitiva irruzione sulla scena politica delle forze popolari, soprattutto musulmane, precedentemente emarginate dal sistema politico-economico libanese ed ora mobilitate da nuove forze politiche di sinistra contro lo status quo del sistema libanese. L’altro elemento di cambiamento fu l’emergere della questione palestinese come fattore interno della politica libanese, dopo che nel 1964 fu fondata l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Lo scoppio e la continuazione della guerra civile libanese per ben 15 anni fu il risultato della combinazione di questi due fattori principali con una miriade di altri macro e micro fattori di conflitto, soprattutto politico-ideologici: dalla tradizionale competizione tra i leader comunitari, al conflitto storico tra la visione musulmana di un Libano arabo e quella maronita di un Libano a supremazia cristiano-maronita, sino agli sconvolgimenti del sistema regionale negli anni ‘70 ed al rilancio della Guerra Fredda negli anni ‘80. La questione palestinese aveva toccato il Libano sin da quando, a seguito della guerra civile ebraico- palestinese (1947-1948) e della prima guerra arabo-israeliana (1948-1949), decine di migliaia di profughi palestinesi si erano riversati nel Paese. La presenza dei rifugiati palestinesi, seppur cospicua in un piccolo Paese come il Libano, non aveva creato problemi particolari, non solo perché i rifugiati avevano contribuito al ‘miracolo economico’ del Paese, ma anche perché la non concessione ai rifugiati della cittadinanza libanese aveva impedito loro di partecipare alla vita politica. Tutto questo cambiò dopo la nascita dell’Olp nel 1964 e la rinascita del nazionalismo palestinese dopo la guerra del ‘67 e l’inizio delle operazioni di guerriglia condotte dalle organizzazioni dell’Olp contro Israele a partire dai Paesi arabi confinanti, particolarmente Giordania e Libano. Le milizie dell’Olp cominciarono gli attacchi dal Libano, da dove i commando dell’Olp, riforniti di armi attraverso Siria e Giordania, iniziarono a creare basi militari nei villaggi prossimi alla frontiera. Dopo la sconfitta dell’Olp nel ‘settembre nero’ in civile. L’eliminazione dell’Olp era naturalmente un obiettivo storico anche per Israele, il quale aveva guardato con preoccupazione al progressivo rafforzamento dell’influenza dell’Olp a livello interarabo ed internazionale. Il compromesso interarabo raggiunto al vertice di Riad del ‘76 non soddisfaceva Israele, il quale riteneva che le attività dell’Olp fossero state ridimensionate solo sulla carta. Israele attese perciò l’occasione più opportuna per intervenire direttamente in Libano, occasione che venne nel marzo ‘78, dopo un sanguinoso attacco dell’Olp vicino ad Haifa. Lo Stato israeliano reagì lanciando l’Operazione Litani, un’invasione del Libano su larga scala, mirata a distruggere la presenza militare palestinese a sud del fiume omonimo. Durante l’offensiva, durata circa sette giorni, l’esercito israeliano occupò il territorio a sud del fiume Litani, causando tra i Libanesi tra le mille e le duemila vittime civili e circa 285mila profughi, mentre ‘solo’ venti israeliani persero la vita. Dopo essere riuscito temporaneamente nel suo scopo, Israele si ritirò dal Libano. Tuttavia, il ritiro fu solo parziale, poiché Israele mantenne il controllo indiretto di una striscia di territorio meridionale, a nord della quale fu schierata una forza d’interposizione Onu (l’Unifil). Mirata prioritariamente ad indebolire l’Olp, la spedizione israeliana aveva anche lo scopo di facilitare il progetto dei maroniti, svuotando il sud della popolazione sciita, assicurando inoltre ad Israele il controllo del bacino acquifero del fiume Litani. Nel 1979, la firma dell’accordo di pace israelo-egiziano indebolì la posizione diplomatica dell’Olp e di tutti i Paesi arabi radicali, creando un contesto più favorevole alla realizzazione del progetto storico israeliano di un Libano cristiano pro-israeliano, una sorta di cuscinetto tra Israele e la Siria. La seconda invasione Israeliana: l’assedio di Beirut, la cacciata dell’Olp e la nascita di Hizbollah (1982- 1985) Il piano israeliano per il Libano, noto a grandi linee anche agli Usa, fu messo in atto nel giugno 1982. Lo scopo noto agli Usa era la distruzione della capacità dell’Olp nel sud del Libano ed il suo indebolimento generale, ma il piano ideato dal ministro della Difesa israeliano Sharon era in realtà molto più ambizioso: esso prevedeva, in Libano, la cancellazione della presenza dell’Olp, la cacciata dei palestinesi per opera dei maroniti e l’instaurazione di un governo amico guidato dai maroniti, disposto a sottoscrivere un trattato di pace con Israele; infine, nella visione di Sharon, l’indebolimento dell’Olp avrebbe permesso di annettere i Territori palestinesi occupati, espellendone la popolazione verso la Giordania. La seconda invasione israeliana del Libano ebbe inizio il 4 giugno 1982 con un bombardamento su Beirut ovest, a cui l’Olp rispose con attacchi di artiglieria nel nord di Israele. La reazione palestinese fornì il casus belli per l’invasione di terra iniziata due giorni dopo. Così, dopo aver rapidamente sbaragliato le forze palestinesi e musulmane nel sud, l’esercito israeliano giunse alle porte di Beirut. Dopo aver circondato la città, l’invasione si arrestò, trasformandosi così in un devastante assedio, durato dieci settimane, durante il quale la città, privata di acqua e luce, fu bombardata da terra, mare e cielo. In generale fu colpita la popolazione civile per spingerla ad appoggiare la cacciata dell’Olp. Il 12 agosto il mediatore diplomatico americano Habib si accordò con gli Israeliani per un cessate il fuoco in cambio di un’evacuazione dei quadri dell’Olp da Beirut, sotto la supervisione di una forza multinazionale composta da soldati americani, affiancati da truppe francesi ed italiane. Tutte le forze dell’Olp lasciarono Beirut, dirette in gran parte verso la Tunisia e lo Yemen, i quali avevano accettato di ospitarle. Quanto ai libanesi, essi erano stati una volta di più spettatori e vittime del conflitto arabo-israeliano combattuto sul loro territorio. Il 12 settembre, il campo maronita raggiunse un compromesso con gli Israeliani, i quali volevano una conclusione immediata del previsto Trattato di pace israelo-libanese. Tuttavia, l’apparente vittoria israelo-maronita fu ribaltata quando il leader dei maroniti Gemayel fu ucciso in un attentato attributo ai servizi segreti siriani; la sua morte sconvolse la realizzazione dei piani israeliani. Gli Israeliani circondarono i campi palestinesi di Sabra e Chatila, in cui penetrarono i falangisti israeliani per perpetrare un barbaro massacro di civili palestinesi e sciiti; il fratello maggiore di Gemayel, Amin Gemayel, fu eletto presidente al suo posto. Dopo il massacro di Sabra e Chatila, la forza multinazionale fu precipitosamente richiamata a Beirut. Intanto, erano emerse novità politiche nel campo sciita: gli obiettivi, talvolta divergenti, della maggiore integrazione nel sistema politico, della difesa della comunità sciita e della resistenza contro l’occupazione israeliana al sud, avevano provocato nel giugno 1982 la scissione da Amal (la milizia degli sciiti) di un movimento denominato Amal islamica. Lo stesso anno, Amal islamica ed altri gruppi sciiti minori avevano formato un raggruppamento, dotato di una milizia clandestina; da questo raggruppamento, che iniziò subito le attività di guerriglia anti-israeliane ed anti-occidentali, si sviluppò progressivamente un movimento politico-militare che prese il nome di Hizbollah. In attesa di ottenere la conclusione del Trattato israelo-libanese, gli Israeliani ripiegarono, anche su pressione del movimento pacifista israeliano ‘Pace adesso’, il quale si opponeva alla permanenza israeliana in Libano. Dopo il ripiegamento, gli Israeliani si trovarono sotto attacco da parte delle milizie musulmane. Intanto gli usa ed Amin Gemayel avrebbero voluto garantire un ritiro sicuro per Israele e ricostruire il sistema libanese sotto la guida maronita per raggiungere questo obiettivi sarebbe però stato necessario un compromesso politico interno con i drusi e soprattutto con Amal, i quali chiedevano la fine del sistema confessionale. Tuttavia, Amin Gemayel non fu capace di ottenere l’accordo su un qualche tipo di compromesso; la progressiva divergenza degli obiettivi immediati di maroniti, Israele ed usa facilitò il rientro della Siria nel gioco politico libanese. Le milizie musulmane, aiutate dai Siriani, i quali erano a loro volta stati riarmati dai Sovietici, avevano riconquistato le zone precedentemente perdute; poi, con rinnovati combattimenti, Siriani e musulmani attaccarono anche Beirut est. In questo rinnovato scontro tra le fazioni confessionali ed i loro sponsor internazionali, le forze musulmane appoggiate dalla Siria ebbero progressivamente la meglio, anche perché le forze sciite, ed in particolare il raggruppamento da cui poi nacque Hizbollah, iniziarono a colpire le forze statunitensi, francesi ed israeliane, oltre che con la guerriglia, anche con una serie di devastanti attentati e sequestri di persona. La forza multinazionale fu ritirata tra le critiche tra il febbraio ed il marzo 1984. La Siria e gli sciiti cominciavano ad emergere come i veri vincitori dello scontro riacceso dall’invasione israeliana del 19823. In questa situazione di indebolimento delle forze israeliane ed americane, il presidente maronita Amin Gemayel si trovò costretto, per mantenere il potere, a chiedere l’appoggio della Siria, che glielo concesse ottenendo in cambio l’abrogazione del Trattato israelo-libanese. Di fronte al mutato scenario, Israele dovette optare per un ritiro unilaterale dal Libano nel 1985, dove mantenne comunque sotto occupazione diretta una fascia cuscinetto alla frontiera meridionale. 3.5 La ‘Repubblica delle milizie’: crisi economica e frammentazione politica sotto l’egida siriana (1983- 1989) Il periodo successivo (1983-1989) all’invasione israeliana del 1982 fu dunque marcato da alcune dinamiche generali: il rafforzamento del ruolo politico della comunità sciita, il declino politico dei notabili tradizionali, l’imposizione dell’egemonia siriana e, soprattutto, l’impotenza dello Stato e la costituzione di una sorta di ‘Repubblica delle milizie’. Le milizie confessionali mantennero il controllo militare, politico ed economico, sui rispettivi cantoni attraverso il taglieggiamento della popolazione, i traffici illegali di armi e droga ed un continuo conflitto non solo con le milizie del campo opposto, ma anche all’interno del proprio schieramento. In questo periodo crebbe notevolmente la forza di Hizbollah, che aveva dichiarato posizioni radicali auspicanti, oltre alla distruzione di Israele, la creazione in Libano di uno Stato islamico sul modello iraniano. Hizbollah aveva anche preso la guida della resistenza all’occupazione israeliana nel sud del Paese e, nel febbraio 1984, le milizie sciite assunsero il controllo di Beirut ovest, in gran parte sunnita. La disintegrazione del Libano nella ‘Repubblica delle milizie’ provocò, infine, una crisi economica evidenziata nel 1987 dal crollo della lira libanese, la quale era rimasta stabile durante tutto il precedente decennio di guerra civile; la devastazione delle infrastrutture ed i continui scontri paralizzarono il commercio e l’industria; il declino della produzione e le esazioni imposte dalle milizie privarono lo Stato delle entrate fiscali, impedendo l’erogazione anche dei servizi minimi. L’indebitamento dello Stato fu contrastato con manovre speculative che portarono ad una drastica svalutazione della lira e ad un’inflazione in crescita del 100% annuo: la ‘Repubblica delle milizie’ stava rapidamente portando al fallimento lo Stato libanese. Settori importanti della società iniziarono perciò a cercare una formula per riportare il Paese fuori dal baratro in cui era sprofondato. CAPITOLO 9 Siria Il nome Siria è d’uso recente, pur derivando dall’antica Assiria e dalla Siria romana: sino alla Prima Guerra Mondiale, infatti, il territorio dell’attuale Siria era parte di una provincia dell’Impero Ottomano, un’entità più ampia – comprendente i territori degli attuali Siria, Libano, Israele, Territori palestinesi e Giordania – chiamata dagli arabi Bilad al-Sham (‘Il Paese del Nord’), e nota in Occidente con vari termini quali Siria ottomana, Levante, Grande Siria o Siria storica. 1. Dall’Impero Ottomano al regno di Feisal (1800-1929) 1.1 L’occupazione egiziana (1831-1840) All’inizio del XIX secolo, il Bilad al-Sham era parte dell’indebolito Impero Ottomano, che governava appoggiandosi ai notabili locali, alcuni dei quali, divenuti progressivamente più autonomi, avevano costituito brevi dinastie locali ed avviato processi di modernizzazione. Alcune di queste dinastie locali si allearono con gli Egiziani quando questi, durante il regno di Muhammad Ali, occuparono la Siria, sottraendola temporaneamente (1831-1849) al controllo ottomano. Durante questa occupazione, gli Egiziani introdussero riforme importanti, tra le quali: il governo centralizzato, coadiuvato da consigli locali di notabili; la coscrizione obbligatoria; il monopolio delle produzioni destinate all’esportazione; l’uguaglianza di fronte alla legge delle minoranze non-musulmane. La dominazione egiziana si concluse nel 1840, ma il processo di modernizzazione del Bilad al-Sham continuò con caratteristiche simili anche sotto il rinnovato dominio ottomano, entrato nel suo periodo di riforma detto delle Tanzimat. 1.2 Riforme ottomane e penetrazione europea (1840-1860) Le riforme ottomane migliorarono le condizioni socio-economiche del Paese e contribuirono a coinvolgere nella gestione dell’Impero modernizzato le élite tradizionali siriane, costituite dai commercianti, dai proprietari terrieri e dagli ulema delle grandi famiglie urbane sunnite. Queste élite vennero integrate nel governo locale dalle riforme amministrative. Tra il 1840 ed il 1860, le riforme ottomane si intrecciarono con l’accelerazione della penetrazione economica, culturale e politica europea nel generare un processo di rapida trasformazione del Paese. Inoltre, dopo la sconfitta di Napoleone, i Britannici erano divenuti la potenza europea dominante del Mediterraneo e la Francia aveva deciso di rafforzare la sua influenza politica in Siria, proprio per contrastare la presenza britannica. Uno specifico strumento della penetrazione europea fu l’inserimento nelle Capitolazioni (accordi tra l’Impero Ottomano ed i singoli Stati europei) del diritto per gli Europei di proteggere le minoranze cristiane dell’Impero. Questo favorì particolarmente i cristiani maroniti del Monte Libano. Diversamente dal resto del Paese, nell’area del Monte Libano le riforme ottomane non riuscirono ad integrare le élite locali, sia perché i maroniti avevano ormai esteso il loro potere, sia perché il sostegno dei consoli europei falsava a favore dei maroniti i loro rapporti con gli Ottomani e le altre élite locali. La conseguenza furono gli scontri del 1858- 1860) che videro il massacro, da parte dei musulmani, di migliaia di cristiani a Damasco, seguito dall’intervento politico-militare della Francia a favore di questi ultimi e, infine, nel 1861 la concessione ai maroniti da parte degli Ottomani di un governo locale autonomo nel Monte Libano. 1.3 Modernizzazione e primi fermenti nazionalistici (1860-1914) Negli ultimi decenni del XIX secolo, il Bilad al-Sham prosperò economicamente e sperimentò un rapido processo di modernizzazione, anche grazie alla diffusione di un nuovo tipo di istruzione, offerta sia dalle nuove scuole tecniche ottomane, istituite per formare i quadri della riformata amministrazione statale, sia dalle scuole aperte dalle missioni religiose sostenute dai vari Paesi europei. La diffusione di un’istruzione moderna influenzò significativamente lo sviluppo politico-culturale delle élite siro-libanesi. L’insegnamento offerto in lingue europee ebbe un effetto più indiretto, ma ugualmente importante, sullo sviluppo del pensiero nazionalista arabo. A queste scuole straniere si iscrissero molti intellettuali siro-libanesi, protagonisti, assieme agli Egiziani, del risorgimento culturale arabo detto Nahda che, attraverso la rivitalizzazione della lingua araba e la creazione della stampa in arabo, diffuse l’arabismo, cioè l’affermazione di un’identità culturale araba, alla base delle future rivendicazioni politiche del nazionalismo arabo. Dopo la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908, le politiche di accentramento e turchizzazione introdotte nell’impero diffusero anche tra le élite musulmane del Bilad al-Sham sentimenti anti-turchi e, soprattutto, fecero nascere nuove richieste di autonomia politica. Queste richieste includevano il rafforzamento delle istituzioni locali, l’uso dell’arabo come lingua ufficiale del paese ed un ruolo accresciuto nell’amministrazione per i locali. La prima scintilla del nazionalismo arabo era stata così accesa in Siria, ma sino all’inizio della Prima Guerra Mondiale il nazionalismo arabo restò diffuso solo tra parte delle élite e non coinvolse il grosso della popolazione. Quando nel novembre del 1914 l’Impero Ottomano entrò in guerra a fianco della Germania, il Bilad al-Sham diventò un’importante retrovia militare per la guerra in corso; perciò fu governato col pugno di ferro direttamente da Jamal Pascià; l’invio al fronte di migliaia di coscritti locali e l’inasprimento delle tasse provocarono nel Paese carestie, proteste ed un diffuso risentimento anti-turco, ed il movimento nazionalista fu duramente represso. Fu in questo contesto di guerra e di scontro tra le diverse componenti sin lì integrate nell’Impero che gli ultranazionalisti turchi perpetrarono il terribile genocidio degli Armeni, di cui la Siria fu l’involontario crocevia. 1.4 Gli sconvolgimenti della Prima Guerra Mondiale, la nascita della Siria e l’effimero regno di Feisal (1914-1920) Il Bilad al-Sham fu pesantemente interessato dagli eventi bellici della Prima Guerra Mondiale: nel 1915 e nel 1916, gli Ottomani lanciarono da qui due attacchi verso Suez, a cui i Britannici risposero con un contrattacco dall’Egitto, guidato dal generale Allenby, il quale giunse ad occupare Gerusalemme, Damasco ed Aleppo. A divenuti più influenti grazie all’espansione dello Stato nazionale, all’immigrazione dalle campagne ed alla diffusione dell’istruzione. Inoltre, il partito Ba’th ed il Partito comunista avevano particolarmente seguito tra le minoranze, che trovavano nella comunanza ideologica un veicolo di integrazione e di parità con la maggioranza musulmana sunnita. 3.3 La Repubblica araba unita con l’Egitto (1958-1961) Alla fine del 1957, i vecchi notabili nazionalisti erano in declino e, per recuperare legittimità e contrastare l’ascesa della sinistra e lo strapotere dell’esercito, decisero di salire sul carro del panarabismo di Nasser, la cui popolarità era alle stelle dopo la ‘vittoria’ nella guerra di Suez del 1956. I leader siriani insistettero per firmare un trattato di unione tra Siria ed Egitto che il primo febbraio 1958 istituì la Repubblica araba unita (Rau); l’unione fu salutata come il primo, storico passo verso la riunificazione politica del mondo arabo. I partiti siriani furono dissolti, la guida dell’esercito unitario fu assunta da un generale egiziano, fu dato il via ad una riforma agraria contro i grandi proprietari e ad una campagna di nazionalizzazioni di banche ed industrie, ogni opposizione fu duramente repressa. Dopo la fondazione della Rau, i movimenti panarabi nei vari Paesi iniziarono a manifestare per chiedere ai rispettivi governi di partecipare all’unione. Al contempo, l’alleanza tra i due Stati all’epoca più radicali del mondo arabo preoccupò seriamente tanto gli Stati arabi conservatori, che temevano di essere scalzati, quanto i loro alleati occidentali, i quali temevano di perdere i regimi amici nella regione. In realtà, come detto, l’unione era stata ricercata dai tradizionali leader nazionalisti siriani soprattutto come espediente politico per rimanere al potere assieme alle forze politiche emergenti; perciò, quando l’unione si trasformò in una vera e propria annessione politica da parte dell’Egitto, fu presto rifiutata dalla maggioranza delle forze politiche siriane. Alla fine, il Ba’th prese le distanze dall’Egitto, l’esercito marciò sulla capitale nel 1961 per imporre la secessione della Siria dalla Rau e porre fine al disastroso esperimento unitario. 4. I regimi del Ba’th (1963-2000) 4.1 Il Ba’th al potere: lo scontro interno ai militari (1963-1966) Un nuovo golpe militare ebbe infine luogo l’8 marzo 1963 e segnò l’inizio della lunga dominazione del Ba’th sulla Siria, ancora in essere alla fine del 1015. Il golpe dei militari del Ba’th fu ispirato dal colpo di Stato che nel febbraio dello stesso anno aveva portato al potere in Iraq i militari alleati al partito Ba’th iracheno. In Siria, il potere fu preso dal generale Amin al-Hafiz: sotto il regime da lui guidato, furono introdotte nuove politiche di riforma agraria e di nazionalizzazione, le quali consolidarono il dirigismo statale nell’economia e l’orientamento socialisteggiante del Ba’th. Il nuovo regime bathista siriano si consolidò al potere durante un lungo periodo di assestamento politico. Durante questo periodo, due processi paralleli cambiarono il volto della politica siriana: il primo e più importante fu il passaggio del potere dalle élite sunnite alla minoranza alauita (sciita); il secondo, fu una prolungata lotta per il controllo del nuovo regime tra l’ala civile e l’ala militare del Ba’th (rappresentate rispettivamente dal Partito e dal Comitato militare), in cui si scontrarono gruppi contrapposti le cui differenze, sostanzialmente personalistiche, erano espresse in termini ideologici. La perdita di potere delle élite urbane sunnite fu causata soprattutto dal fazionalismo che le aveva caratterizzate dall’indipendenza in poi, e fu rinforzata dalle misure di statalizzazione dell’economia, le quali indebolirono i canali d’influenza dei notabili tradizionali. Di fronte all’inefficienza della politica dei notabili in Siria, come in Egitto e negli altri Paesi del Mashreq, l’esercito, via via controllato dai giovani ufficiali della piccola borghesia rurale ed animato dalla nuova versione radicale del nazionalismo arabo, prima divenne l’ago della bilancia politica e poi si appropriò del potere in prima persona. In questo quadro, la particolarità siriana fu la preminenza nell’esercito delle minoranze musulmane (drusi, ismailiti, alauiti) e, tra queste, degli alauiti, i cui alti ufficiali riuscirono ad imporsi nelle lotte di potere interne al Comitato militare del Ba’th. La Siria adottò posizioni radicali in politica interna ed estera: sostenuto dall’Urss, il regime bathista adottò piani economici di sviluppo centralizzati quasi di tipo sovietico, mentre sul fronte del conflitto arabo- israeliano la Siria assunse toni oltremodo oltranzisti, che contribuirono fortemente all’escalation verso la terza guerra arabo-israeliana del ‘67. Gli orientamenti di politica assicurarono al regime il sostegno dei militari, dei nazionalisti radicali, dei contadini, degli operai e della popolazione provinciale. Questi settori sociali appoggiavano anche la priorità in politica estera della ricerca dell’unità panaraba, considerata la base indispensabile anche per la soluzione della questione palestinese. 4.2 La guerra del 1967 e l’arrivo al potere di Hafiz al-Asad (1967-1971) Nella guerra scatenata da Israele nel giugno del 1967, Egitto, Giordania e Siria furono sconfitti clamorosamente e la Siria subì l’occupazione delle alture del Golan a seguito di un grave errore militare. Il recupero del Golan divenne quindi una questione simbolica centrale nella politica siriana: gli oppositori politici del regime incolparono infatti i bathisti della sconfitta, e questi risposero con la repressione, mentre erano però profondamente divisi al loro interno tra l’ala radicale e l’ala più moderata guidata da Hafiz al- Asad. Con l’ascesa di quest’ultimo alla presidenza della Repubblica siriana nel ‘71, ebbe inizio un periodo di quasi trent’anni (1971-2000) di dominio dell’ufficiale. La Siria fu ‘pacificata’ sotto il suo regime, che riuscì a sopravvivere grazie ad un misto di pesante repressione poliziesca e di sagace gestione politica degli equilibri interni ed internazionali. Giunto al potere, Asad lo consolidò perfezionando il modello di controllo neo-patrimoniale, che affidava tutte le leve del potere militare e civile alla rete familiare e clanica del leader; allo stesso tempo, il presidente Asad rimodellò ilo regime bathista in senso moderato. La prima mossa fu la concessione di maggiore spazio al settore privato nell’economia, politica che riconciliò la borghesia urbana sunnita col regime. Nella stessa direzione andò la riforma agraria, adottata per favorire i medi proprietari e consentire la sopravvivenza dei grandi proprietari. Un ulteriore passo correttivo fu l’apertura alle rivendicazioni dei Fratelli musulmani: la Costituzione permanente adottata nel 1973 sancì, infatti, che il presidente della Repubblica fosse un musulmano e che la legge islamica fosse “la fonte principale” della legislazione. Nell’insieme, le misure correttive adottate permisero ad Asad di allargare la base del suo regime, incentrandolo sul complesso ‘militare-commerciale’, cioè sul controllo da parte degli alauiti degli apparati militari e di sicurezza e sull’allargamento alla borghesia imprenditoriale sunnita delle reti clientelistiche che sostenevano il regime. 4.3 L’opposizione islamica, la guerra del 1973, l’intervento in Libano e le liberalizzazioni (1973-2000) Nei trent’anni di presidenza, Hafiz al-Asad strutturò in Siria un regime autoritario, populista e patrimoniale, accentrato sul potere del presidente-dittatore secondo il modello tipico dei regimi arabi di questo periodo, i quali, a scapito delle libertà individuali e dello sviluppo, riuscì a realizzare una relativa stabilità politica, una modica crescita economica ed un’attiva politica estera. La stabilizzazione della politica siriana consentì al paese, negli anni ‘70, di perseguire politiche di sviluppo socioeconomico e di approfittare del boom petrolifero. In particolare, la Siria riuscì ad attrarre gli aiuti finanziari dei Paesi petroliferi della Penisola, che cercavano di influenzare in senso conservatore le politiche del regime. Quando negli anni ‘80 e ‘90 l’economia siriana dovette fronteggiare la crisi generata in tutto il Mondo arabo dal declino dello statalismo, delle rendite petrolifere e dalle conseguenti crisi finanziarie, Asad propose un programma di ‘liberalizzazioni selettive’ che cercava di rispondere alle necessità di riforme strutturali e privatizzazioni dell’economia, senza però indebolire il sistema di redistribuzione della ricchezza ai sostenitori del regime e senza accettare l’ingerenza delle istituzioni finanziarie internazionali. Dal 1976, anche in coincidenza con l’inizio della crisi economica, l’opposizione islamica al regime guidata dai Fratelli musulmani organizzò una serie di attacchi terroristici che culminò con forti manifestazioni anti- regime. Questo vacillò, ma riuscì comunque a mantenere il potere grazie alla fedeltà della borghesia sunnita, che non si unì alle proteste; così, i disordini furono repressi nel sangue con l’intervento dell’esercito. Dopo questa sconfitta, il Fronte islamico formato dai Fratelli musulmani ripiegò nella clandestinità, da dove formò un’alleanza nazionale per la liberazione della Siria assieme ad altre forze di opposizione, anche laiche. Grazie alla capacità del suo regime di reprimere gli oppositori e cooptare i sostenitori sul fronte interno, Hafiz al-Asad poté impegnarsi in una politica estera attiva che fece della Siria non una preda ambita per le potenze regionali ed internazionali, bensì un attore di primo piano, spesso determinante negli equilibri regionali. La vera bussola della politica estera siriana negli anni ‘70-’90 furono le iniziative sul fronte della questione palestinese ed il conflitto arabo-israeliano. In quest’ambito, la strategia di Asad ebbe un filo conduttore fondamentale: evitare lo scontro diretto con Israele pur mantenendo la Siria un attore imprescindibile per la soluzione o il proseguimento del conflitto arabo-israeliano. Questo obiettivo fondamentale per la sicurezza nazionale fu perseguito da Hafiz al-Asad con spietata realpolitik, ivi compresi cambiamenti di fronte talora sconcertanti (ad esempio pro e contro l’Olp di Arafat). Fu perciò alla Siria che il presidente egiziano Sadat si rivolse come partner imprescindibile per pianificare in gran segreto la guerra da scatenare contro Israele, con l’obiettivo di riequilibrare la sconfitta del 1967. La guerra contro gli Israeliani, detta del Kippur-Ramadan (perché coincise con entrambe le festività religiose), lanciata congiuntamente da Egitto e Siria nel 1973, raggiunse, almeno parzialmente, gli obiettivi politici perseguiti da Sadat, mentre per la Siria rappresentò una nuova pesante sconfitta sul piano militare. Infatti, l’esercito siriano non riuscì né a recuperare il Golan né ad impedire un contrattacco israeliano che giunse alle porte di Damasco. Nel quadro dei successivi negoziati, condotti con la mediazione del segretario di Stato americano Kissinger, nel 1974 la Siria ottenne il ritorno sul Golan ai confini post-’67 e la restituzione della città di Quneitra. Nel 1975 si consumò però il divorzio strategico tra Siria ed Egitto: mentre la prima cercava di mantenere un fronte arabo unito a favore di una conferenza di pace internazionale sotto l’egida dell’Onu, l’Egitto firmava un secondo accordo di disimpegno con Israele e sembrava voler procedere da solo verso una pace separata con il nemico di sempre. Sentendosi isolata, la Siria intervenne militarmente in Libano per evitare che il conflitto tra Palestinesi, nazionalisti e maroniti, riesploso nel 1975 parallelamente al collasso del governo libanese, creasse condizioni di instabilità che avrebbero potuto favorire l’intervento di Israele ed un rinnovato conflitto tra questi e la Siria. La Lega araba ed il governo libanese autorizzarono la presenza di una forza ‘di pace’ araba in Libano, il cui fulcro erano le truppe siriane. Fu così legittimata la presenza militare siriana in Libano che, attraverso la guerra civile libanese e le conseguenze delle invasioni israeliane del 1978 e del 1982 (in cui la Siria combatté contro Israele in Libano), finì per sostenere una sorta di ‘protettorato’ siriano in Libano, di fatto durato fino al 2005. Nel 1980, quando ebbe inizio la guerra tra Iran ed Iraq, Asad, unico tra i leader arabi, scelse di sostenere l’Iran, sia per mantenere la sua alleanza in Libano col partito sciita filo-iraniano Hizbollah, sia a causa della storica rivalità col regime bathista iracheno. Nel 1989, quando Saddam, emerso vittorioso dalla guerra con l’Iran, cercò di imporre la propria egemonia sul mondo arabo, la posizione regionale della Siria sembrò indebolirsi ulteriormente, anche a causa del declino dell’Urss, il suo storico protettore internazionale. Nel 1990 però, Saddam perse la propria occasione storica invadendo il Kuwait, mentre la Siria, partecipando alla conseguente guerra anti-irachena, riannodò l’alleanza con l’Egitto e si guadagnò la riconoscenza degli Usa. Un altro beneficio ottenuto da Asad per la partecipazione alla liberazione del Kuwait fu l’appoggio dei Paesi della Penisola, e particolarmente dell’Arabia saudita, che rinnovarono il loro sostegno finanziario alla Siria durante tutti gli anni ‘90, proprio mentre la crisi economica cominciava ad erodere il sostegno sociale al regime. Nel giugno del 200, Hafiz al-Asad morì e con lui scomparve anche la storica occasione per una pace tra Siria ed Israele. CAPITOLO 10 Giordania Come testimoniano le frontiere rettilinee e la strana forma ‘a manico’ del corridoio desertico che collega il suo territorio a quello iracheno, la Giordania è stata effettivamente disegnata a tavolino dai Britannici dopo la Prima Guerra Mondiale, al fine di svolgere il ruolo di Stato cuscinetto tra la Siria ‘francese’ e l’area d’influenza britannica nella Penisola araba ed in Iraq. La Giordania, sino al 1946 denominata Transgiordania, è perciò spesso considerata uno degli Stati più artificiali creati dal colonialismo europeo nel Mondo arabo. Va tuttavia sottolineato che in Giordania, come in tutti i Paesi arabi, l’inizio del lungo processo di formazione dello Stato e della nazione è precedente al pur decisivo intervento coloniale; anche qui, come negli altri paesi arabi del Mashreq, questo inizio coincide con il periodo di riforma dell’Impero Ottomano nella seconda metà del XIX secolo. 1. La creazione dello Stato (1867-1945) 1.1 La Transgiordania ottomana (1867-1918) Nel 1867, il territorio noto agli occidentali con il nome di Transgiordania divenne oggetto delle politiche ottomane di riorganizzazione e modernizzazione dette delle Tanzimat. Da questa data, e sino al crollo dell’Impero nel 1918, gli Ottomani introdussero nella zona alcuni degli elementi fondamentali di uno Stato moderno, quali amministrazione, tassazione e sistema giudiziario centralizzati, come pure nuove infrastrutture, tra cui la ferrovia dell’Hijaz che dal 1908 collegò la capitale dell’Impero Istanbul alla città santa di Medina, passando appunto per la Transgiordania. Le riforme ottomane migliorarono le condizioni socioeconomiche della Transgiordania grazie all’espansione delle aree coltivate e l’insediamento di nuova popolazione, così come le condizioni di sicurezza e le relazioni tra sedentari e beduini. Questo periodo di modernizzazione sotto gli Ottomani costituì il presupposto storico indispensabile per la fondazione dello Stato giordano, iniziata nel 1920. Durante la Prima Guerra Mondiale, la Transgiordania fu sottratta al controllo degli Ottomani nel 1917-1918 dalla guerriglia della Rivolta araba guidata da Feisal. La guerriglia della Rivolta araba prese poi parte alla conquista della Siria con le truppe britanniche di Allenby, il quale giunse alla presa di Damasco. Qui, Feisal divenne governatore di quella porzione di territorio di occupazione militare inglese e nel marzo 1920 fu proclamato Re di un territorio che, nelle intenzioni dei nazionalisti arabi, avrebbe dovuto comprendere tutti i territori della Grande Siria. Tuttavia, nella Conferenza di pace di Parigi, Francia e Gran Bretagna rinegoziarono i propri accordo, formalizzandoli nel Protocollo di Sanremo, che spartiva tra di loro l’amministrazione delle ex province ottomane del Mashreq sotto forma di mandati (Siria e Libano alla Francia, Iraq e Palestina alla Gran Bretagna). Forti del loro mandato sulla Siria, i Francesi decretarono la fine del regno arabo di Feisal, sconfiggendone le truppe nel luglio 1920. Il sistema mandatario approvato alla Le capacità di statista di Hussein si affinarono durante un primo periodo di formazione, in cui il Regno affrontò notevoli rischi dovuti sia all’ascesa, negli anni ‘50, del panarabismo, sia agli effetti locali delle contrapposizioni della Guerra Fredda. Hussein portò al governo, fino al 1956, i vecchi notabili, che però si dimostrarono ormai incapaci di gestire le nuove sfide, finendo per radicalizzare pericolosamente una nuova generazione piccolo-borghese di nazionalisti arabi. La crescita dei nazionalisti portò al contrasto tra questi e la monarchia, negli anni 1955-1958. La spaccatura attraversava anche l’esercito: vi fu un tentativo di golpe nella base militare di Zarqa’ in cui il Re decise di intervenire personalmente, combattendo al fianco dei lealisti, che infine prevalsero. In Giordania si realizzò, con l’appoggio della parte più conservatrice delle élite (Fratelli musulmani compresi) una controrivoluzione ‘preventiva’: fu imposta la legge marziale, dissolto il parlamento, aboliti i partiti ed istituito un governo militare. Questa reazione conservatrice guadagnò al Re il sostegno politico ed economico degli Usa e dell’Arabia saudita, i cui aiuti andarono a sostituire i sussidi inglesi appena cessati. Inoltre, l’imposizione della legge marziale permise alla Giordania di evitare la mobilitazione popolare che in Iraq portò, nel 1958, all’abolizione dell’altra monarchia hashemita, ‘cugina’ di quella giordana. Circondata ora da regimi rivoluzionari su tre lati (Egitto, Siria ed Iraq), la monarchia giordana fu sottoposta a vari tentativi di destabilizzazione, che fecero accorrere la Gran Bretagna in suo soccorso, con l’invio di fondi e, soprattutto, rinforzi militari. 3. La sconfitta del 1967 e le sue ripercussioni (1958-1978) 3.1 Riconsolidamento dopo la crisi (1958-1967) Il periodo di crisi 1955-1958 cambiò gli equilibri della Giordania: in politica estera, il Regno si situò ancor più saldamente nel campo occidentale; nel Mondo arabo, la Giordania rinsaldò l’appartenenza al campo delle monarchie conservatrici (o ‘moderate’), consolidando l’alleanza con l’Arabia saudita. In politica interna, il Re divenne il protagonista assoluto del gioco politico, anche se tra i suoi ministri si annoveravano figure di spicco, rappresentanti di una nuova generazione di politici pienamente giordani e meno provinciali. La vita parlamentare fu ripristinata, ma i partiti restarono fuorilegge e le tensioni tra transgiordani e cisgiordani riemersero periodicamente, traducendosi anche in contrapposizioni nell’esercito che portarono a tentati golpe filo-nazionalisti. Nell’insieme, re Hussein riuscì comunque a mantenere il controllo delle diverse componenti politico-sociali, grazie anche ad un’accorta politica di bilanciamento degli incarichi e dei favori. In campo economico, gli anni ‘60 videro per la prima volta l’adozione di un progetto complessivo per lo sviluppo del Paese, parzialmente realizzato attraverso piani di sviluppo pluriennali. 3.2 La guerra del ‘67: perdita di Cisgiordania e Gerusalemme La terza guerra arabo-israeliana del giugno 1967 segnò un nuovo punto di svolta nella storia della Giordania. Questa guerra, che cambiò gli equilibri regionali ancora più drasticamente di quella del 1948, fu la conseguenza di un’escalation di tensioni riacutizzatesi dal 1963, a causa dei tentativi israeliani di diversione delle acque del Giordano, ma anche delle lotte tra regimi arabi ‘rivoluzionari’ e ‘conservatori’. Nel vertice arabo del Cairo del 1964, la Giordania entrò in un’alleanza con Siria ed Egitto e sostenne inoltre la decisione egiziana di fondare l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (l’Olp); per aiutare (tenendole sotto controllo) le attività dei nazionalisti palestinesi con sentì all’Olp di fare base in Giordania, addestrando le sue milizie nel Regno ed a Gaza. Hussein non poté però impedire che partissero dal territorio giordano le incursioni in territorio israeliano dei guerriglieri reclutati dall’Olp. Le conseguenti, pesanti rappresaglie israeliane colpirono i centri della Cisgiordania, screditando la capacità di Hussein di difendere il suo territorio e la causa palestinese, e rinfocolando l’ostilità del Re contro Israele. Così, Re Hussein firmò suo malgrado un trattato di mutua difesa con l’Egitto, che lo obbligò ad entrare in guerra quando Israele iniziò le ostilità con il devastante attacco a sorpresa contro l’Egitto e la Siria. La Giordania pose le sue truppe sotto il comando egiziano e bombardò la parte Ovest di Gerusalemme; gli Israeliani conquistarono Gerusalemme Est ed occuparono tutta la Cisgiordania, provocando l’esodo di oltre 100mila profughi palestinesi in Transgiordania. Quando la terza guerra arabo-israeliana terminò, il 10 giugno 1967, Egitto, Siria e Giordania avevano subito da Israele una sconfitta clamorosa, che provocò la distruzione delle loro migliori capacità militari, l’occupazione dei territori palestinesi di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, oltre a quelli del Golan siriano e del Sinai egiziano. Ciò provocò importanti perdite economiche, perché la Cisgiordania rappresentava oltre il 40% del Pil giordano, la metà della sua capacità industriale ed un quarto di quella agricola; la conseguente crisi economica fu aggravata anche dai costi del sostegno al nuovo flusso di rifugiati palestinesi, a cui si aggiunse la perdita della stabilità politica interna, dovuta alla rinascita della lotta armata palestinese. La sconfitta araba del ‘67 convinse definitivamente i nazionalisti palestinesi che la liberazione della Palestina, ormai interamente occupata da Israele, sarebbe potuta avvenire solo grazie alla lotta degli stessi Palestinesi e che questa lotta doveva necessariamente partire dalla Giordania, il Paese arabo con la più lunga frontiera con Israele ed il più alto numero di rifugiati palestinesi. 3.3 Hussein e l’Olp: dalla collaborazione al “settembre nero” ed all’espulsione (1967-1971) Tra il ‘67 ed il ‘68, la Giordania sostenne la rinascita della resistenza palestinese, ad esempio permettendo che i propri cittadini d’origine palestinese prestassero servizio nelle milizie dell’Olp, e cooperando militarmente per respingere le rappresaglie israeliane in territorio giordano; di conseguenza, la presenza armata dell’Olp in Giordania si moltiplicò e divenne influente. Dal novembre del ‘68, gli scontri tra le forze di sicurezza giordane e le formazioni dell’Olp, le quali rifiutavano ogni controllo e richiedevano obbedienza e tasse anche fuori dai campi profughi, cominciarono a moltiplicarsi, nonostante i tentativi di accordo tra le parti. Le condizioni erano ormai mature per uno scontro tra l’Olp ed il governo giordano: nel 1970, infatti, vi fu un attentato contro re Hussein, colpevole di aver accettato (assieme all’Egitto) il primo piano di pace americano per una soluzione diplomatica del conflitto arabo-israeliano; pochi giorni dopo, l’Fplp dirottò tre aerei di linee occidentali in Giordania, mettendo in luce l’incapacità giordana di controllare il proprio territorio. Nel settembre dello stesso anno, passato alla storia come il ‘settembre nero’ giordano, Re Hussein reagì imponendo la legge marziale ed ordinando alle unità beduine dell’esercito di attaccare i campi profughi, dove l’Olp aveva le sue basi principali. Lo scontro si protrasse fino al 1971, quando le milizie dell’Olp furono definitivamente sconfitte e scacciate dal Paese, alla volta della Siria e del Libano. Va notato che la cacciata dell’Olp fu possibile anche perché la maggioranza della popolazione giordana d’origine palestinese non si mobilitò in difesa delle milizie dell’Olp, che con il loro estremismo si erano alienate le simpatie della loro stessa comunità. 3.4 Emarginazione dal “campo panarabo”, sostegno da Usa ed Arabia saudita (1971-1978) Dopo la guerra con l’Olp, e durante tutto il resto degli anni ‘70, la Giordania fu impegnata nella ricostruzione della stabilità politica ed economica perduta con la sconfitta del 1967. Dal 1972 al 1988, Re Hussein cercò di recuperare la sovranità sulla Cisgiordania attraverso un processo negoziale con gli Israeliani, sostenuto dagli Usa; gli stessi Israeliani ritenevano la cosiddetta ‘opzione giordana’ il modo migliore per risolvere la questione palestinese. La soluzione perseguita ora da re Hussein non era più l’unione totale, resa impraticabile dalla rinascita della resistenza palestinese, bensì la creazione di uno Stato federale costituito da due entità autonome (Cisgiordania e Transgiordania), che sarebbero state federate sotto la corona hashemita. Il piano di Hussein si scontrava, tuttavia, con due realtà ineludibili: la volontà israeliana di mantenere il controllo della Cisgiordania e la volontà dei Palestinesi di costituire uno Stato indipendente in Palestina, sotto la guida dell’Olp. Durante tutti gli anni ‘70, le impopolari posizioni di Re Hussein sulla questione palestinese fecero della Giordania quasi uno Stato paria nelle relazioni interarabe, tenuto fuori dalle intese con l’Egitto, che portarono poi alla quarta guerra arabo-israeliana del 1973. Dopo la nuova guerra, Hussein fu poi costretto, nel 1974, ad accettare che la Lega araba riconoscesse all’Olp lo status di “unico legittimo rappresentante del popolo palestinese”. Questa emarginazione fu tuttavia parzialmente compensata dai buoni rapporti con l’Arabia saudita che, grazie al boom petrolifero, divenne fin dai primi anni ‘70 il principale sostenitore finanziario del Regno giordano. Gli aiuti ricevuti dagli Stati Uniti e dall’Arabia saudita confermarono la natura ‘rentier’ (cioè di rendita) dell’economia giordana, che negli anni ‘70 ed ‘80 fu sostenuta dagli investimenti degli Stati petroliferi e dalle rimesse dei numerosi emigrati giordano-palestinesi nel Golfo. Il relativo benessere economico di questo periodo rinsaldò il controllo dello Stato sull’economia e sulla società, facendo passare in secondo piano le perduranti tensioni tra cittadini di origine transgiordana e palestinese. Per gli tessi motivi, venne di fatto tollerato l’autoritarismo, evidenziato dalla sospensione della vita politica istituzionale. 4. Dall’alleanza con l’Iraq alla morte di Re Hussein (1979-1999) 4.1 Riavvicinamento al “campo panarabo”; l’intifada e la perdita della Cisgiordania (1979-1988) L’ostracismo imposto all’Egitto dopo il suo accordo di pace con Israele nel 1979 rimescolò le alleanze interarabe, consolidando prima il riavvicinamento tra Siria e Giordania e poi avviando l’alleanza tra Re Hussein e Saddam Hussein, il nuovo presidente dell’Iraq. Nonostante il successivo declino ed isolamento dell’Iraq, questa alleanza sopravvisse sino alla fine degli anni ‘90, poiché nel frattempo aveva generato in Giordania una potente lobby pro-irachena, i cui interessi erano legati all’interdipendenza economica sviluppatasi tra i due Paesi, ai benefici privati che ne traevano i suoi sostenitori grazie ai doni di Saddam, nonché agli stretti legami personali sviluppatisi tra Hussein e lo stesso Saddam. Altri cambiamenti arrivarono dal fronte palestinese, quando nel 1982 l’invasione israeliana del Libano privò l’Olp di una base territoriale ai confini con Israele, mentre il suo leader Yesser Arafat fu costretto a riconsiderare la via negoziale. Questa nuova disponibilità negoziale dell’Olp riavviò il processo di pace arabo-israeliano e la cosiddetta ‘opzione giordana’, proponendo un autogoverno palestinese in Cisgiordania, in associazione col Regno hashemita. Hussein manovrò dunque incessantemente per convincere Arafat ad accettare questa possibilità ed i due riuscirono anche a trovare un accordo di massima; tuttavia, l’opposizione israeliana e statunitense fece naufragare l’accordo Arafat-Hussein. Tutte queste manovre furono infine superate, nel 1987, da un evento imprevisto: la sollevazione (intifada) spontanea dei Palestinesi di Gaza e Cisgiordania contro l’occupazione israeliana, fatto che cambiò nuovamente i parametri del conflitto israelo- palestinese. Nel gennaio del 1988, la leadership della rivolta palestinese nei Territori occupati rifiutò formalmente ogni dipendenza dalla Giordania e Re Hussein fu costretto a riconoscere la nuova realtà, dichiarando ufficialmente rescissi tutti i legami ‘legali ed amministrativi’ ancora esistenti tra Transgiordania e Cisgiordania, così rinunciando a qualunque rivendicazione su quest’ultima. CAPITOLO 11 Iraq 1. Dalla fine dell’era ottomana all’inizio dell’era coloniale (1834-1914) 1.1 Il nome dell’Iraq la storia dell’Iraq contemporaneo inizia nella seconda metà del XIX secolo. In quest’ultima fase del dominio ottomani, l’antico termine al-’Iraq (in arabo ‘riva del fiume’) non era ancora usato per designare l’attuale territorio iracheno, il quale era diviso in tre governatorati ottomani distinti (Bassora a sud, Baghdad al centro e Mosul a nord). La distribuzione della popolazione seguiva, allora come oggi, la struttura geografica del Paese: nelle montagne a nord e ad est si concentravano le popolazioni non arabe, principalmente i Curdi (musulmani sunniti); nelle piane del centro e del sud, come nelle zone desertiche dell’ovest, prevalevano gli Arabi, la maggioranza dei quali era musulmana sciita. All’epoca la popolazione era in gran parte nomade e l’organizzazione sociale prevalente era quella tribale. 1.2 Le riforme ottomane (1834-1914) Dopo un periodo, alla metà del XVIII secolo, in cui la regione era stata governata dalle dinastie locali mamelucche, dal 1834 l’Impero Ottomano riconquistò il controllo diretto del governo locale. Con l’inizio della fase di modernizzazione dell’Impero durante il periodo delle Tanzimat, gli Ottomani introdussero riforme che cambiarono la società tradizionale, in particolare indebolendo il potere tribale ed i suoi rapporti con lo Stato centrale. Tra le varie riforme, ebbe particolare impatto l’applicazione del nuovo Codice fondiario, che permise ai ricchi mercanti ed ai capi tribali di acquistare i titoli di proprietà delle terre sin li demaniali, trasformando così la popolazione da usufruttuaria di un bene comune in affittuaria dei nuovi proprietari, i quali, a loro volta, divennero tributari dello Stato per le tasse ed il riconoscimento legale del loro status. La riforma amministrativa e la creazione del VI Corpo d’armata ottomano, basato nelle province irachene, favorirono invece l’ascesa sociale degli strati sociali intermedi, che fornirono invece la maggioranza degli ufficiali della nuova armata e buona parte dei funzionari delle nuove istituzioni di governo locale. Questa trasformazione sociale rinsaldò il già tradizionale predominio della borghesia sunnita sulla maggioranza sciita, dovuto in gran parte ai privilegi a loro concessi dal potere ottomano sunnita, anche per rinforzarne la lealtà contro il nemico iraniano. Tuttavia, l’apertura di scuole tecniche statali favorì l’ingresso nell’amministrazione pubblica anche delle minoranze non musulmane, specie quella ebraica. Questi fenomeni di modernizzazione investirono ciascuna provincia irachena in modi diversi, ma contribuirono comunque a creare un background comune fra le tre province del futuro Iraq. Dopo il colpo di Stato dei Giovani Turchi nel 1908, il governo ottomano, dominato dai nazionalisti turchi del Comitato unione e progresso, fautori di una politica autoritaria di accentramento e modernizzazione che non tardò a provocare reazioni in tutte le province arabe dell’Impero. In Iraq, tuttavia, non si ebbero contraccolpi forti e la vita politica continuò apparentemente immutata sino alla conquista militare britannica iniziata nel 1914. In generale, in Iraq si ebbe un diverso e più lento sviluppo politico, poiché le élite tradizionali, quelle tribali e quelle religiose erano relativamente soddisfatte del proprio potere e poco toccate dal discorso politico moderno, anche a causa della minor penetrazione europea nel Paese, meno accessibile rispetto agli altri Paesi arabi mediterranei, e non sostenuta qui dall’appoggio delle minoranze non musulmane. nazionalismo panarabo e fautore di una rapida adesione dell’Iraq alla Rau insieme ad Egitto e Siria, fu estromesso dal potere già nell’ottobre del ‘58. Per cementare il suo potere, Qasim si alleò soprattutto ai Curdi ed al Partito comunista, ma già nel ‘59 dovette fronteggiare due tentativi di golpe; dopo essere sopravvissuto, il presidente Qasim accentuò l’autoritarismo del suo regime. Progressivamente, l’autoritarismo e le politiche economiche e sociali radicali erosero il consenso al regime di Qasim, riattivando i conflitti settari, a partire dalla rinnovata rivolta curda del 1960 contro la mancata attuazione delle promesse autonomiste fatte da Qasim. L0indebolimento del consenso interno del regime fu inoltre aggravato dal suo isolamento internazionale, causato dall’ostilità britannica per la fine della monarchia, ed anche dalla rivalità tra Nasser e Qasim, i quali volevano entrambi proporsi come leader del panarabismo. Così, nel 1963, Qasim si ritrovò così isolato all’interno ed all’esterno da poter essere facilmente soppiantato ed ucciso a seguito della ribellione della fazione dell’esercito guidata da Arif, ora alleata con i nazionalisti panarabi del partito Ba’th. Il regime di Qasim ebbe così fine, ma le caratteristiche da lui impresse al sistema politico iracheno lasciarono una traccia significativa nella successiva storia del Paese. Qasim, infatti, introdusse fattori di cambiamento che ebbero effetti duraturi sul successivo sviluppo socio-politico del Paese, ed in particolare: la repressione poliziesca del pluralismo politico; la laicizzazione forzata; la nazionalizzazione dell’industria del petrolio. Durante la sua breve presidenza (1963-1966), Arif inaugurò un modello di gestione del potere che sarebbe stato imitato da tutti i successivi leader forti dell’Iraq: privo di una sua specifica base politica e sociale, Arif fondò il suo potere sulla mediazione tra i diversi attori politici contrapposti, sul consolidamento di una rete clientelare trasversale tra le diverse componenti etnico-tribali della società irachena e, soprattutto, sulla fedeltà personale di un nuovo corpo militare da lui fondato, la Guardia Repubblicana. Arif restò al potere sino al 1966, data della sua morte in un incidente aereo. I convulsi sconvolgimenti politici di vertice e, in particolare, la sequela di colpi di Stato militari vissuti dall’Iraq nel decennio 1958-1968, non devono oscurare il fatto storico più importante di questo periodo: malgrado il persistere dell’instabilità politica al vertice e l’avvicendarsi di governi legati a personalità più che a partiti o programmi, nel decennio 1958-1968 si realizzò in Iraq una vera rivoluzione sociale, politica ed economica. Durante questo decennio di cambiamento radicale, furono avviati cambiamenti importanti in quasi tutti i settori della vita politica, sociale ed economica, destinati a durare ed a trasformare molti aspetti della vita del Paese. Tra i cambiamenti più importanti ricordiamo: la riforma agraria; l’acquisizione del controllo statale sulla produzione petrolifera; più in generale, la progressiva statalizzazione dell’economia. In politica estera i cambiamenti più significativi furono la fine dell’allineamento filo-occidentale, l’inizio dell’avvicinamento all’Unione Sovietica ed il rilancio della rivendicazione sul territorio del Kuwait, a partire dal momento in cui la Gran Bretagna concesse l’indipendenza all’Emirato. Mentre la crescita demografica ed il processo di inurbamento continuavano a trasformare il tessuto socio-economico del Paese, nel periodo 1958-1968 furono adottate anche politiche di modernizzazione sociale, le quali portarono a notevoli progressi in materia di istruzione, sanità pubblica e ad un relativo progresso nei diritti civili delle donne. In questo periodo, dunque, si realizzò in Iraq un cambiamento rivoluzionario, che portò al radicamento di un modello di statalismo autoritario, secondo processi simili a quelli che caratterizzarono gran parte del Mondo arabo nell’era ‘delle rivoluzioni’ che, ponendo fine all’era ‘dei notabili’, portò al potere una nuova generazione, diffondendo un’idea ‘socialisteggiante’ dello Stato e dei diritti sociali. Quello che in Iraq non cambiò, nonostante la rivoluzione, fu il predominio sunnita sulla maggioranza sciita, il conflitto continuo con l’autonomismo curdo al nord, il carattere centralista ed autoritario dello Stato, ora rinforzato dal nuovo statalismo economico, e lo scontro tra le diverse visioni dal nazionalismo (iracheno o panarabo). 4. La repubblica bathista (1968-1978) 4.1 Populismo, patrimonialismo e repressione nella Repubblica Popolare Democratica Con il colpo di Stato del Ba’th del luglio 1968 si chiuse per l’Iraq l’era della rivoluzione ed iniziò l’era del partito Ba’th che, tra alterne vicende, era destinata a durare sino al 2003. Il sistema politico instaurato dal Ba’th ricalcava formalmente il modello istituzionali dei contemporanei regimi socialisti; tuttavia, la stessa Costituzione dichiarava che l’islam ed il nazionalismo arabo erano principi fondamentali del Paese. In effetti, l’ideologia del Ba’th iracheno era ora fondata su un’edulcorata versione del panarabismo e del socialismo arabo, con cui i nuovi padron i dell’Iraq riconfermavano l’interpretazione esclusivista e filo-sunnita dell’identità nazionale irachena. Il partito restava d’élite e controllava direttamente o indirettamente tutte le istituzioni principali della Repubblica presidenziale. Nel 1968, la presidenza della repubblica fu affidata ad Hasan al-Bakr, capo dell’ala irachena del Ba’th ed architetto del golpe; il suo principale alleato era Saddam Hussein, il quale aiutò al-Bakr a sbarazzarsi via via di tutti gli oppositori politici e dei dissidenti, nel partito e nell’esercito. Al-Bakr e Saddam facevano populisticamente riferimento alla retorica socialista e panaraba del Ba’th, ma in realtà aderivano ad una concezione cospirativa e clanica della politica, mirata, al di là di ogni ideologia, al puro controllo del potere. Nel giro di pochi anni, i due riuscirono a controllare il sistema di potere neo-patrimoniale formando una loro rete clientelare: questa rete riusciva ad allargarsi a tutte le componenti sociali, grazie alle alleanze intessute con altri clan e tribù, anche sciiti o Curdi. Nel corso del periodo 1968-1978 al-Bakr e Saddam incanalarono dunque le risorse dello Stato verso i loro protetti, usando l’ideologia del Ba’th e la rendita petrolifera per dare a questa gestione personalistica l’apparenza di un progetto nazionale di interesse collettivo. Seguendo il modello delle altre repubbliche ‘progressiste’ arabe, dal 1968 in poi il regime bathista iracheno si consolidò dunque attraverso l’uso combinato di tre strumenti: il populismo, il patrimonialismo e la repressione. Le principali politiche populiste adottate dopo il ‘68 furono i sussidi per i beni di prima necessità, alcuni servizi di assistenza sociale ed una nuova riforma agraria; il nuovo regime usò queste risorse nazionali in chiave patrimonialistica (ovvero come un bene proprio del leader) per favorire i propri sostenitori. La repressione giudiziaria e poliziesca fu usata contro gli oppositori o i concorrenti del regime di al-Bakr e Saddam (quali i religiosi sciiti o i comunisti), mentre i Curdi furono repressi militarmente soprattutto nella vera e propria guerra combattuta contro di loro nel 1974-1975. 4.2 Il riaccendersi della questione curda, l’accordo con l’Iran e l’ascesa di Saddam Hussein Sul fronte economico, già dal 1969 un accordo con l’Urss per lo sfruttamento di nuovi campi petroliferi e la costruzione di un nuovo oleodotto avevano aumentato la rendita petrolifera statale; poco dopo, nel 1972, la completa nazionalizzazione dell’Iraq Petroleum Company permise al Paese di beneficiare appieno della successiva quadruplicazione del prezzo del greggio, decisa dall’Opec nel gennaio 1974. Il massiccio aumento della rendita petrolifera consentì perciò al regime bathista di espandere le proprie politiche populiste e militari. Nel 1976, era ormai chiaro che la figura dominante del regime era diventata quella di Saddam Hussein, il quale aveva rifondato la rete clientelare a proprio favore e riallacciato i legami con i Paese occidentali. Tuttavia, il leader emergente preferì attendere di aver eliminato tutti i possibili rivali interni prima di prendere esplicitamente il potere; solo dopo che Saddam si fu liberato, con una serie di stratagemmi politici, dei comunisti e di molti dei residui oppositori nel partito e nell’esercito, nel 1979 al- Bakr diede le dimissioni da presidente e Saddam fu subito eletto al suo posto. 5. L’Iraq di Saddam Hussein (1979-2003) Saddam Hussein divenne presidente nel 1979, in un momento di grandi cambiamenti regionali, ricco di rischi e potenzialità per l’Iraq: la pace separata firmata dall’Egitto con Israele permetteva all’Iraq di proporsi come nuovo leader del mondo arabo; nello stesso anno, la rivoluzione islamica portava al potere in Iran un regime sciita deciso ad esportare la rivoluzione oltre i suoi confini, spaventando le monarchie sunnite della Penisola, ma anche galvanizzando l’opposizione dei movimenti islamisti sciiti iracheni. 5.1 Dalle rivolte degli sciiti iracheni alla guerra Iran-Iraq Tra i movimenti islamisti sciiti iracheni, il principale era al-Da’wa (‘La chiamata all’islam’), fondato dal religioso Muhammad Baqir al-Sadr per difendere tutti i musulmani sciiti tanto dal laicismo dilagante nella società, quanto dal quietismo dei grandi capi religiosi tradizionali dello sciismo iracheno. Dopo il successo della rivoluzione in Iran, oltre alle manifestazioni pro-Khomeini, al-Da’wa ed altri movimenti sciiti iniziarono la resistenza armata contro il regime con attacchi simbolici. Saddam reagì duramente, facendo uccidere al-Sadr, sua sorella (un’influente teologa), mettendo agli arresti il più importante ayatollah iracheno ed intensificando la politica di deportazione dei cosiddetti sciiti ‘iraniani’ dell’Iraq. Il sostegno iraniano agli sciiti iracheni faceva comunque temere per la stabilità interna irachena, intensificando le già notevoli tensioni con il nuovo regime iraniano, che non cessava di denunciare tutti i regimi arabi come empi e pronti per essere spazzati via dalla rivoluzione islamica. Tuttavia, Saddam si decise ad attaccare l’Iran solo perché era convinto che l’isolamento internazionale del regime degli ayatollah e le lotte intestine post-rivoluzionarie rendessero il rivale iraniano, più popoloso e meglio armato, una facile preda. Saddam sperava di poter sconfiggere il nemico storico iraniano, migliorare i confini meridionali ed assicurare all’Iraq il ruolo di potenza egemone del Golfo. Dal 1979, si susseguirono sacaramucce alla frontiera tra Iran ed Iraq e, infine, l’invasione irachena partì nel 1980. Malgrado il cessate il fuoco subito richiesto dall’Onu, le truppe irachene continuarono a penetrare nel territorio iraniano. Quando l’avanzata irachena cessò, la guerra si trasformò in un conflitto di trincea, piena di inutili massacri; la controffensiva iraniana iniziò nel 1981 e continuò fino al 1987, con l’occupazione di alcune parti della provincia di Bassora. Nel 1986, gli Stati Uniti, che già sostenevano lo sforzo bellico iracheno assieme alle monarchie del Golfo, temettero che l’Iran potesse davvero vincere la guerra e decisero di intervenire direttamente contro Teheran: forti dell’esplicito sostegno americano, gli Iracheni respinsero l’offensiva congiunta degli Iraniani e dei Curdi. L’esercito di Saddam compì massacri utilizzando armi chimiche proibite internazionalmente. Nel 1988, gli Iracheni tornarono quindi ad invadere il territorio iraniano e la posizione militare dell’Iran si fece così insostenibile da costringere Khomeini ad accettare il cessate il fuoco che pose fine alla guerra il 20 agosto 1988. 5.2 Gli effetti della guerra Iran-Iraq e l’occupazione del Kuwait (1988-1990) La guerra Iran-Iraq del 1980-1988 fu uno dei conflitti più protratti e cruenti dopo la Seconda Guerra Mondiale: il costo economico e sociale della guerra fu spaventoso. L’economia irachena post-guerra era in condizioni anche peggiori di quelle di altri Paese arabi non petroliferi; il debito estero accumulato durante la guerra e l’impoverimento di gran parte della popolazione rendevano impossibile per il regime continuare la cosiddetta politica di ‘burro e cannoni’, con la quale Saddam aveva cercato di coniugare ambizioni regionali e consenso interno. Così, nel dopoguerra, il regime decise di introdurre, in linea con quanto accadeva nel resto dei Paesi arabi, politiche di liberalizzazione economica e politica mirate a stimolare la ripresa economica e ricostituire il consenso. La liberalizzazione economica consistette soprattutto nella privatizzazione accelerata delle imprese industriali ed agricole dello Stato, di cui beneficiarono soprattutto gli accoliti del regime. Per la maggioranza della popolazione, le privatizzazioni si tradussero in un aumento della disoccupazione e delle disparità sociali. Il peggioramento della situazione socio-economica provocò ribellioni spontanee ed una radicalizzazione dell’opposizione di matrice islamista. Nel frattempo, tuttavia, l’Iraq si era imbarcato in una nuova avventura bellica, occupando il Kuwait il 2 agosto 1990. 5.3 i calcoli errati di Saddam Hussein e l’intervento Usa nel conflitto per il Kuwait (1990-1991) I motivi che spinsero Saddam a questa nuova, disastrosa avventura militare furono molteplici. In primo luogo, il regime riteneva di aver combattuto anche per difendere le monarchie petrolifere della Penisola dalla minaccia iraniana e si attendeva che questi paesi avrebbero assistito finanziariamente la ricostruzione dell’Iraq. Tuttavia, all’inizio del 1990, il Kuwait non solo si dimostrò riluttante a condonare il debito iracheno, ma si unì agli Emirati in un’espansione della produzione petrolifera che faceva calare il già basso prezzo del petrolio danneggiando l’Iraq. Saddam vide in queste politiche la prova di un complotto arabo (forse sostenuto dagli occidentali) per indebolire l’Iraq. Decise perciò di occupare il Kuwait, contando di trarne una serie di vantaggi economici e politici. In primo luogo, l’annessione del Kuwait avrebbe permesso all’Iraq di aumentare notevolmente la sua rendita petrolifera e di costringere le monarchie della Penisola ad assecondare senza ulteriori tentennamenti le politiche irachene. In secondo luogo, l’occupazione militare del Kuwait, portata a termine in due giorni, poteva essere giustificata con le pretese storiche dell’Iraq sul Kuwait. In terzo luogo, Saddam era convinto che gli Stati Uniti non avrebbero reagito militarmente all’occupazione del Kuwait, sia perché la fine del blocco sovietico (la caduta del Muro di Berlino è del 1989) eliminava ogni rischio di una nuova penetrazione dell’Urss in Medio Oriente, sia perché l’Iraq era pronto a garantire agli Stati Uniti la stabilità dei prezzi petroliferi; infine, Saddam contava sulla sostanziale acquiescenza delle monarchie della Penisola alla propria egemonia in funzione anti-iraniana. Gli Usa, invece, decisero di intervenire direttamente e duramente contro l’occupazione del Kuwait, sia per affermare a livello internazionale il proprio nuovo ruolo di unica superpotenza, garante del ‘nuoco ordine mondiale’ dopo la fine della Guerra Fredda, sia per assicurarsi un maggior controllo diretto del Medio Oriente e, particolarmente, delle risorse petrolifere del Golfo, anche grazie all’acquisizione di nuove basi militari permanenti nella Penisola. L’Onu adottò una risoluzione che intimava il ritiro dell’Iraq e, mentre il Kuwait veniva dichiarato la XIX provincia dell’Iraq, gli Stati Uniti del presidente George Bush iniziarono ad inviare truppe in Arabia saudita ed a costituire una coalizione politico-militare per far rispettare le risoluzioni Onu; coalizione che, tra gli altri Stati arabi, includeva anche Arabia saudita, Marocco, Egitto e Siria. Di fronte al mancato ritiro iracheno, la coalizione cominciò l’attacco aereo all’Iraq ed iniziò dall’Arabia saudita l’offensiva di terra per liberare il Kuwait. Mentre le infrastrutture civili e militari irachene venivano bombardate nella prima guerra che faceva uso delle cosiddette ‘armi intelligenti’, l’esercito iracheno si ritirava dal Kuwait dando fuoco ai pozzi petroliferi, ma opponendo scarsa resistenza militare. La schiacciante superiorità militare americana permise al presidente Bush di dichiarare concluse le operazioni militari e firmare un armistizio già nel 1991, quando le forze della coalizione occupavano gran parte del sud-est dell’Iraq ed erano in posizione per giungere a Baghdad in pochi giorni. Gli Usa decisero però di non abbattere il regime di Saddam perché temevano, anche su indicazione dell’Arabia saudita, che il caos conseguente alla sua caduta avrebbe potuto mettere nuovamente a rischio le monarchie petrolifere della Penisola, favorendo la penetrazione in Iraq e nel Golfo del nemico iraniano. (strade, ferrovie, ospedali, scuole pubbliche); tutte le infrastrutture furono costruite direttamente dall’Aramco per i Sauditi. 2.2 Contrasti tra riformisti e conservatori e consolidamento degli Al Saud (19562-1972) I primi effetti dell’inizio dell’era petrolifera si manifestarono nel 1953 quando, dopo la morte del fondatore e l’ascesa al trono del figlio maggiore Saud, si sviluppò un contrasto tra questi e suo fratello minore Feisal. Il primo auspicava una continuazione delle politiche e dei costumi dell’epoca precedente, sostenuta dalla nuova ricchezza petrolifera, mentre il secondo riteneva invece che la nuova era e la nuova ricchezza richiedessero una maggiore modernizzazione, in particolare un apparato statale più articolato ed una politica di investimenti sociali ed economici. La rivalità personale e politica tra i due fratelli coinvolse in opposti schieramenti le élite del Regno; lo scontro intestino ebbe alterne vicende e, dal 1958, portò alla guida del governo l’uno o l’altro dei due fratelli finché, nel 1964, Saud fu deposto dagli stessi Al Saud, i quali nominarono Feisal al suo posto. La deposizione di Saud non risolse la tensione tra modernizzatori e conservatori, poiché la duplice origine (wahhabita e dinastica) della legittimità dello Stato rendeva (e rende tuttora) questa tensione insita nella natura stessa del Regno. In effetti Feisal, ‘il modernizzatore’, fu preferito dalla famiglia reale solo perché considerato il più adatto ad affrontare le due maggiori sfide dell’epoca: in primo luogo, mettere ordine nella spesa sfrenata delle risorse statali incoraggiata sino all’indebitamento da re Saud; in secondo luogo, affrontare la sfida del nazionalismo arabo radicale, che ovunque nei Paesi arabi metteva in crisi le monarchie conservatrici e filo-occidentali, talvolta determinandone la cauta come in Egitto (1952) o in Iraq (1958). Nel Mondo arabo, gli anni ‘50 e ‘60 furono gli anni delle rivoluzioni che, marginalizzando o spazzando via la classe dei notabili, portarono al potere una nuova classe media, la cui ideologia era quella del nazionalismo panarabo e del socialismo arabo. Queste trasformazioni, tuttavia, non ebbero luogo in Arabia saudita, dove il potere dei notabili fu meno indebolito dalla modernizzazione, grazie alla sua diversa origine (tribale e religiosa, non fondiaria) ed al suo diverso sviluppo, basato sul petrolio e non sull’industrializzazione o le riforme agrarie. In realtà, il cambiamento in corso nel resto del Mondo arabo toccò anche l’Arabia saudita, ma ebbe effetti diversi: la rendita petrolifera rafforzò il potere degli Al Saud, ed il nazionalismo influenzò significativamente solo alcuni ristretti settori sociali, imponendo comunque un adattamento della politica estera saudita. 2.3 L’alleanza con gli usa; la crisi con l’Egitto; panislamismo contro panarabismo La politica estera sotto Ibn Saud si era sin lì svolta all’insegna di due criteri principali: l’opposizione alle ambizioni regionali delle monarchie hashemite in Iraq e Giordania, e l’alleanza, senza subordinazione, con una potenza esterna (prima la Gran Bretagna, poi gli Usa) che potesse soddisfare i bisogni economici e di sicurezza del Regno. Per il resto, il monarca saudita si era sostanzialmente tenuto ai margini delle grandi questioni che appassionavano il resto del Mondo arabo, quali le lotte anticoloniali o la questione palestinese. Durante la Seconda Guerra Mondiale, lo sviluppo petrolifero aveva progressivamente portato l’Arabia saudita fuori dall’orbita britannica e verso un’alleanza con gli Stati Uniti, consolidata dagli aiuti economici da questi inviati in tempo di guerra. Per quanto riguarda la politica araba, Ibn Saud aveva coltivato le relazioni con l’Egitto in funzione anti-hashemita, assecondandone le iniziative e con la rottura delle relazioni con l’Inghilterra e la Francia nel 1956, durante la crisi di Suez. Poco dopo però, le relazioni con l’Egitto di Nasser divennero tese a causa della profonda divergenza tra i due Paesi su questioni quali la repressione in Egitto dell’Organizzazione dei Fratelli musulmani, sostenuti invece dai Sauditi, e gli orientamenti socialisteggianti della Repubblica araba unita (Rau), istituita tra Siria ed Egitto nel 1958. Quando nel 1962 un ufficiale yemenita, sostenuto dall’Egitto, depose un imam in Yemen, ebbe inizio una guerra civile nel Paese che si trasformò presto in una guerra per procura tra Arabia saudita ed Egitto, i quali intervennero militarmente a sostegno rispettivamente dei realisti e dei repubblicani. Il conflitto egitto-saudita in Yemen durò sino al 1967, quando l’Egitto fu costretto a ritirare le proprie truppe dopo la sconfitta subita nella terza guerra arabo-israeliana. Lo scontro fu fortemente influenzato dall’opposto schieramento dei due Paesi nella Guerra Fredda, nel cui quadro l’alleanza saudita con gli Usa fu ulteriormente consolidata. In questo periodo furono numerose le iniziative della politica estera saudita volte a contrastare la diffusione del nazionalismo arabo nelle sue forme più radicali, il nasserismo prima ed il bathismo siriano ed iracheno poi. Tra queste iniziative va annoverata la creazione di alcune istituzioni panislamiche e l’enfasi posta sugli aspetti islamici della questione palestinese, come ad esempio la difesa dei luoghi santi di Gerusalemme, anziché sulle rivendicazioni nazionaliste. 3. Dall’era dell’abbondanza all’era della vulnerabilità (1973-1980) 3.1 L’uso del petrolio come arma politica, l’assassinio di re Feisal e gli anni dell’opulenza (1973-1979) Nel 1973, lo scoppio della quarta guerra arabo-israeliana costrinse i Sauditi a realizzare quanto deciso nel vertice arabo di Khartum del 1967: usare il petrolio come arma politica nel conflitto arabo-israeliano. Di fronte alle difficoltà seguite all’iniziale successo dell’attacco egiziano nel Sinai ed agli immediati rifornimenti militari Usa ad Israele, i Sauditi, che dall’avvento di Sadat alla presidenza erano tornati ad allearsi con l’Egitto, si unirono agli altri membri dell’Organizzazione dei produttori arabi di petrolio (Oapec) per adottare una riduzione mensile della produzione petrolifera, finché Israele non si fosse ritirato dai territori arabi occupati nel ‘67; i Sauditi decisero poi un embargo commerciale, unilaterale ed immediato, contro gli alleati di Israele (Usa in primis). Per i Paesi consumatori di petrolio, la riduzione della produzione e l’embargo ebbero ripercussioni politiche ed economiche ampie, che i Sauditi cercarono di contenere. In ogni caso, gli effetti dell’embargo consentirono comunque all’Opec (l’organizzazione di cartelli dei produttori petroliferi mondiali) di quadruplicare il prezzo del petrolio nel 1973: il conseguente aumento della rendita petrolifera saudita fu così enorme da aprire una nuova era nella storia del Regno. Così, il governo saudita acquistò il controllo dell’Aramco e la compagnia cambiò perciò il nome in Saudi Arabian Oil Company (o Saudi Aramco). Nel 1975 si concluse, col suo drammatico omicidio, anche il regno di Re Feisal (1964-1975), regno che fu caratterizzato dal consolidamento del consenso nella famiglia regnante e da una forte modernizzazione ‘tecnica’, cioè svolta all’insegna della conservazione dei principi wahhabiti. Per realizzare questo tipo di modernizzazione, Feisal portò progressivamente gli ulema sotto il controllo statale, con stipendi e cariche elargite ai religiosi più moderati ed inclini a legittimare le scelte governative con apposite fatwa (parere giuridico-religioso). Sotto Feisal, la famiglia reale si era ricompattata, grazie al comune interesse nel gestire la ricchezza statale spartendosi gli incarichi di governo, e la modernizzazione ‘tecnica’ aveva portato alla nascita di una borghesia di tecnocrati (i primi Sauditi istruiti all’estero) e di appaltatori dei contratti statali, tutti dipendenti dalla famiglia reale per la propria posizione. Sotto Feisal, anche gli altri strati della popolazione erano divenuti sempre più dipendenti dalla spesa pubblica, grazie ai servizi (quali l’istruzione e l’assistenza sanitaria gratuita), gli stipendi e le elargizioni statali. La modernizzazione ‘tecnica’ voluta da Feisal (e continuata dai suoi successori) lasciò tuttavia intatti i tradizionali costumi sociali tribali e religiosi. Seppur cauta, la modernizzazione non procedette senza problemi: ad esempio, nel 1965 la prima emittente televisiva poté entrare in funzione solo dopo la repressione di manifestazioni contrarie, durante le quali fu ucciso un nipote dello stesso Re. Nel 1975, il fratello dell’ucciso vendicò la sua morte, uccidendo re Feisal con un colpo di pistola durante la tradizionale udienza reale. Così ascese al trono re Khaled, il quale nominò come suo erede il fratellastro Fahd. Khaled non amava governare e, pur restando in carica, svolse soprattutto un ruolo cerimoniale, mentre le responsabilità politiche andarono, di fatto, a Fahd ed ai suoi sei fratelli, i quali ricoprivano le principali cariche di governo. Gli anni del breve regno di Khaled (1975-1982) furono il momento di massima ricchezza dell’Arabia saudita, che moltiplicò la sua influenza internazionale attraverso il sostegno alle grandi istituzioni internazionali (come l’Fmi), ai governi amici, ad una serie di cause politiche e, soprattutto, alla diffusione della predicazione dell’islam salafita wahhabita. Sotto Khaled continuarono i faraonici programmi di sviluppo delle infrastrutture e dei servizi ed iniziarono i tentativi di diversificazione dell’economia, tramite lo sviluppo sovvenzionato di industria ed agricoltura. Verso la fine di questo periodo di apogeo cominciarono però ad emergere vecchi e nuovi aspetti della grande vulnerabilità del Regno, dovuta alla combinazione delle sue caratteristiche strutturali (l’aridità del territorio, la scarsità della popolazione, la dipendenza dalle risorse petrolifere), con la peculiarità religioso-dinastica della legittimità politica del Regno. 3.2 Pericoli interni ed esterni; gli Usa ed il petrolio in cambio di sicurezza L’enorme aumento della ricchezza e dell’influenza dell’Arabia saudita moltiplicarono l’ostilità dei nemici interni ed esterni al Regno, ed i potenziali pericoli che ne derivavano spinsero la famiglia regnante ad accentuare l’uso dei suoi due tradizionali strumenti di difesa: il ricorso alla protezione militare di un potente patrono esterno (gli Usa); ed il rafforzamento delle credenziali religiose del Regno (il wahhabismo). Tuttavia, paradossalmente, il ricorso ad entrambi questi strumenti contemporaneamente conteneva e rafforzava i motivi di vulnerabilità del Regno: in effetti, il rapporto privilegiato con gli Usa, materialisti e filo-israeliani, costava agli Al Saud l’ostilità sia dei progressisti che dei conservatori arabi, mentre la dipendenza dal parere degli ulema di Stato aveva gli stessi effetti sul fronte interno saudita. Il 1979 fu l’anno “terribile”, in cui tutti questi fattori di vulnerabilità sembrarono combinarsi, mettendo a rischio la sopravvivenza della dinastia e del Regno: vi furono diverse manifestazioni di scontento, in particolare tra i militari e la popolazione dell’Hijaz, accompagnate dalla diffusione di libelli islamisti radicali che accusavano di empietà i Saud; intanto, appena fuori dai confini, la vittoria della rivoluzione islamica in Iran portava al potere un regime sciita rivoluzionario, i cui interessi ideologici e politici erano agli antipodi di quelli sauditi. A metà novembre 1979, un sin lì sconosciuto Movimento dei musulmani rivoluzionari della Penisola araba, formato sia da forze tribali del Najd che da studenti e lavoratori, si ribellò a Medina ed alla Mecca, riuscendo ad occupare la Grande Moschea della Mecca. La componente religiosa del movimento voleva ripristinare la purezza wahhabita del Paese abbattendo la dinastia degli Al Saud. Le forze di sicurezza saudite (coadiuvate segretamente da quelle americane, francesi e tedesche) impiegarono circa due settimane a scacciare i ribelli dalla Grande Moschea, ma il regime impiegò poi anni per ripristinare la legittimità religiosa della dinastia, grazie ad una campagna di restaurazione conservatrice guidata dagli ulema. Poco dopo, a fine 1979, scoppiò un’insurrezione tra gli sciiti di al-Hasa, i quali volevano celebrare la festività sciita dell’Ashura, proibita in Arabia saudita, ma anche la vittoria della rivoluzione in Iran (che fu accusato di essere l’ispiratore della rivolta). Il governo riuscì a reprimere anche queste manifestazioni con l’invio di circa 20mila soldati della Guardia Nazionale, ma il sospetto verso la minoranza sciita quale ‘quinta colonna’ dell’Iran degli ayatollah rimase sempre vivo. Nello stesso anno, le truppe sovietiche invadevano l’Afghanistan al fine di mantenere al potere il locale regime comunista amico, contro le forze dell’opposizione islamica sostenuta da Usa, Pakistan ed Arabia saudita. Infine, il 22 settembre 1980, l’Iraq invadeva l’Iran, dando inizio alla guerra contro gli ayatollah che si sarebbe svolta ai confini sauditi sino al 1988. In questo quadro di vulnerabilità strutturale, amplificata dalla seconda metà degli anni ‘70 dal mutare del contesto regionale e, paradossalmente, anche dall’accresciuta ricchezza, non stupisce che l’Arabia saudita decidesse di rinsaldare il suo patto con gli Usa, fondato sin dagli anni ‘40 sul tacito accordo definito “petrolio in cambio di sicurezza”, con ingenti acquisti di armi occidentali. L’aspetto più importante di questo accordo è stata la disponibilità dell’Arabia saudita ad agire come ‘produttore flessibile’ (swing producer) di petrolio, diminuendo ed aumentando la produzione nei momenti di domanda ridotta ed aumentandola nei momenti di maggior richiesta. Globalmente, questa politica petrolifera saudita ha contribuito in modo sostanziale a mantenere i prezzi del petrolio ai livelli preferiti dagli Stati Uniti, mentre non ha portato all’utilizzo della ricchezza petrolifera come un fattore di sviluppo socio-economico o di indipendenza politica nel Mondo arabo. Acquistando sofisticati armamenti occidentali senza possedere il personale e le infrastrutture necessarie ad utilizzarli, l’Arabia saudita non divenne più capace di garantire da sola la propria sicurezza militare, ma grazie a questi e ad altri investimenti finanziari divenne ancor più integrata nel sistema capitalistico occidentale, permettendo agli Usa di riciclare a proprio vantaggio i cosiddetti ‘petrodollari’, ossia la grande ricchezza rappresentata dalla rendita petrolifera saudita. 4. Crisi economica, conflitti e terrorismo (1980-2000) 4.1 Assieme a Saddam contro l’Iran; con il Kuwait contro Saddam (1980-1990) Quando re Khaled morì, nel giugno 1982, gli successe il fratello Fahd, il quale divenne Re in un periodo difficile, in cui finì l’era del boom petrolifero e si perpetuarono i pericoli interni ed esterni già evidenziatisi. Il prezzo del petrolio scese, riducendo la rendita petrolifera saudita; gli investimenti nelle grandi infrastrutture furono ridotti (ma non le spese della famiglia reale), mentre i servizi ed i benefici elargiti alla popolazione furono mantenuti attingendo alle riserve. Nello stesso periodo, la crescita demografica si mantenne altissima e cominciò a manifestarsi un paradossale problema di disoccupazione per i giovani sauditi istruiti localmente. I cittadini9 sauditi rifiutavano i lavori più umili, mentre quelli più ambiti erano assegnati in base alle connessioni con la famiglia reale, non in base al merito. Negli anni ‘80, quindi, crebbero le diseguaglianze e lo scontento sociale, fattori che spinsero molti giovani sauditi a dar ascolto ai predicatori critici del regime appartenenti alla cosiddetta sahwa (rinascita) salafita. Mentre all’interno cresceva lo scontento, all’esterno il Regno si trovava politicamente e finanziariamente coinvolto in due conflitti. Nel conflitto Iran-Iraq, l’Arabia saudita capitanò il sostegno all’Iraq, guidando il fronte degli Stati petroliferi della penisola (Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati ed Oman) per sostenere finanziariamente lo sforzo bellico di Saddam Hussein contro l’Iran. L’altro conflitto che impegnò il Regno in questo periodo fu quello in Afghanistan tra mujahidin (combattenti della guerra santa) islamici contro il regime ‘progressista’ sostenuto dagli occupanti sovietici. Tra i mujahidin ‘afgani’ confluirono circa centomila giovani musulmani provenienti da tutti i Paesi islamici, soprattutto da quelli arabi; essi venivano addestrati dai servizi segreti pachistani nei campi in Pakistan ed Afghanistan. E’ qui che, nel 1988, il milionario saudita Osama Bin Laden fondò al-Qaida (in aravo al-Qa’ida: “La Base”), un’organizzazione che sosteneva vari gruppi militanti jihadisti. Oltre al governo saudita ed a Bin Laden, molti Sauditi facoltosi finanziarono le fondazioni religiose a cui facevano capo le scuole coraniche in cui venivano reclutati i volontari per il jihad