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Riassunto W. Curtis , Sintesi del corso di Storia Dell'architettura Contemporanea

Sintesi di Storia Dell'architettura Contemporanea. Politecnico di Milano, Crippa

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Caricato il 07/09/2017

CiccioLario
CiccioLario 🇮🇹

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Scarica Riassunto W. Curtis e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'architettura Contemporanea solo su Docsity! Maria A. Crippa – “Avvicinamento alla storia dell’architettura” Strategie di avvicinamento: L’Architettura è un fenomeno pervasivo, testimone muto dei modi di vita e della cultura dei suoi abitanti. La storia dell’Architettura implica una certa continuità tra presente e passato seppur necessiti di distanza per risultare obiettiva. Nel 1881 Morris sosteneva che l’architettura è “nell’unione e nella collaborazione tra le arti in modo che ogni cosa sia subordinata alle altre e con esse in armonia…Non possiamo sottrarci all’architettura finchè facciamo parte della civiltà, eccetto il deserto. Dobbiamo essere noi custodi dei valori della superficie terrestre”. Patrimonio così vasto che non è esperibile nella sua totalità. Dal palinsesto architettonico, non sempre unitario, ma sovente omogeneo, spiccano alcune “figure storiche” più dense di significato, in quanto sintesi perfetta di cultura e tecnologia dei popoli, spazio e tempo e relazioni sociali. Oggi la storiografia è più improntata ad analisi puntuali, per aree geografiche, archi temporali, tipi e temi, ovvero specialistici scavi di contesti e fenomenologie. La frammentazione dei punti di vista conseguente a questo approccio eterogeneo può essere evitata solo appellandosi ad una coscienza storica non superficiale, e ad una comprensione empatica della propria e dell’altrui identità. L’autocoscienza permette di comprendere il senso e le verità della condizione umana. Il palinsesto architettonico dichiarato da Morris è da comprendere in chiave di produttività storica, ovvero di apertura del passato al futuro, non consequenziale ma procedurale nella sua continua alternanza tra produzione e conservazione. La tradizione si instaura dove il passato acquista autorità. Un’ingenua e superficiale concezione di modernità, induce molti a trascurare il patrimonio storico che ci è dato e la ricchezza umana, che pur potrebbero essere utili nella rinnovata attenzione alla costruzione di un’ecologia umana. L’insegnamento universitario fornisce agli studenti un senso del tempo lacerato, privo di componente antropologica e storica, rimbalzato da un tecnicismo all’altro. Ma è nella relazione tra le arti, nella convergenza delle discipline, che si cela il vero senso storico. Per il progetto d’architettura è forse venuto il tempo di non temere l’imitazione che interpreta, diffidare della ricerca dell’unicum e della copia, con la consapevolezza che gli atteggiamenti radicali non partecipano alla produttività della storia. Come sostiene Sini il nostro errore è “guardare la verità dal lato della sua figura e dei suoi significati, non dal lato del suo evento…ma figure assolute non sono mai esistite, la verità in esse transita. La verità coincide invece con la vita”. Così l’architettura e la sua storia si alimentano intorno alla connessione vita-verità. “Tuttavia l’arte più ricca da sempre di risonanze e scambi con arti (poiesis) e scienze (techne), non sembra negli ultimi decenni farsi promotrice di speranze e creatività per il futuro dell’umanità, proprio per la sempre minore convergenza delle due forze che la animano.” (Steiner) La presenza del passato: L’architettura, sottoposta all’analisi storica pone un duplice problema che altri reperti non pongono, ovvero il confronto tra passato e presente, in quanto essa è vegliardo testimone di un’altra epoca. Questo solleva problemi non da poco anche nel rapporto tra Conservazione e Storia. Certamente è sbagliato applicare una specie di evoluzionismo deterministico al processo di storicizzazione, atteggiamento che sconfessa quello dei “nani sulle spalle di giganti” (Bernardo di Chartres). La storia oggi è lasciata sullo sfondo, dimenticata di fronte al bisogno di produrre risposte istantanee ai problemi. Così la memoria si fa più corta e l’esperienza creativa meno profonda, finendo con impoverire il senso storico. L’illusorietà di questi valori dell’istantaneo e del contingente è facilmente smascherata dalla Storia e dalla Conservazione. Conservare significa riconoscere la testimonianza di alcune figure all’interno della “forma urbis”, in un mondo dove l’architettura è ormai mero strumento di vita sostituibile con altri più efficienti, mentre prima era risposta duratura e riparo, cristallizzato rispetto alla mutevolezza e caducità della vita umana. L’oggettività del mondo costruito ha da sempre confortato l’uomo, separandolo dalla natura altrimenti indistinta. “Exegi monumentum aere perennius.”: giustamente attribuiamo valore di capolavoro ed emblema di civiltà alle opere d’arte più espressive, conservandole nel tempo. Kubler: “Conoscere il passato è un’impresa altrettanto stupefacente che conoscere le stelle; tali stelle estinte hanno emesso luce molto tempo fa e ci raggiunge solo ora…” l’attualità è “uno spazio vuoto tra le maglie del tempo…il vuoto che separa agli eventi”. Kubler invita ad esplorare la Costellazione della Storia, per dare senso a quel “foro infinitesimale” che è il presente (“occhio di bufera”). Walter Benjamin utilizza la metafora dell’Angelo della Storia, personificabile nell’Angelus novus di Klee: in un clima terribile come quello della guerra è simbolo di un cumulo di detriti informi e terrificanti. Immagine potente e tragica, segno di perdita di memoria e di storia. “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.” (W. Benjamin) cartesiano”). Infine Choisy ha influenzato molti “pionieri” con la sua attenzione per la Costruzione rappresentata in assonometria (L.Khan). La storia dell’architettura del XIX sec. è frammentata e disorientante, certamente per la molteplicità di linee che segue, ma anche per una trattazione non adeguata al problema. Prima ratio dell’architettura: La triade vitruviana è la prima “ratio” dell’architettura, come si evince dalla dipendenza dei tre termini dal secondo nell’enunciazione di Vitruvio. Storia e progetto generano dimore e abitazioni che non possono appellarsi ad un qualche riscatto futuro, bensì, come dice K.Frampton, “devono realizzare oggettivamente l’hic et nunc.” Divisare e proportionare sono le azioni che si svolgono a partire dai tre fattori vitruviani. La loro riduzione a meri elementi descrittivi è una distorsione maturata successivamente. A i tre capisaldi se ne aggiunge un 4, solo nel XX sec: lo Spazio, che ha persino sopravanzato gli altri. Secondo Bruno Zevi “…riveste un significato fenomenico: comprende e interpreta valori sociali e tecnici esprimendoli in arte”, “lo spazio non può essere rappresentato in nessuna forma…. È il protagonista del fatto architettonico”. Prima del 1890 la parola “spazio” non era presente in campo architettonico, dove è comparsa, solo con il Modernismo, ma si parlava frequentemente di “volumi” e “vuoti”. Koenig più avanti sottolineò che lo spazio è “il vivere dell’uomo”, l’abitare. Fu la nozione di spazio a sciogliere l’inconciliabilità tra progetto moderno e tradizione (Gropius aveva bandito lo studio della storia della Bauhaus per evitare imitazione accademica), ridando importanza alla storia dell’architettura nello svolgimento della professione: “la moderna definizione di architettura come arte dello spazio non nega, anzi valorizza i valori tradizionali vitruviani che trovano convergenza intorno ad esso e fanno sistema”. La triade rappresenta comunque uno schema intuitivo e convenzionale della complessità reale dell’architettura, tale che nessuno dei tre può soppiantare od offuscare gli altri due, e che questi sono requisiti e non componenti. La ratio è comunque una sintesi resa in un’immagine che diventa documento della storia umana. L’arbitraria e pur necessaria scomposizione per parti, componenti o temi, per esplorare le connessioni tra architettura e altre discipline, rimanda ad una singola unità dell’organismo architettonico, fenomeno fisico non del tutto dominabile e soggetto alle interpretazioni emotive di chi lo esperisce. L’architetto di qualità si misura con la tradizione nella quale si riconosce e a questo “serve la conoscenza della storia” (Gregotti). I punti di partenza per approdare alla storia dell’architettura sono infiniti, certamente è importante il suo valore didattico, particolarmente accentuato in Italia. Rykwert sosteneva nel 1993 che “è il momento di riprendere fiato, fare il bilancio e riflettere…”. Memoria, Immagini, Storia: Il rapporto tra storia e cultura occidentale sta nel significato di Memoria definito da Sant’Agostino. Sono le immagini delle cose che entrano nel bagaglio della memoria, il nome non basterebbe. Realtà, immagini, memoria e linguaggio si intrecciano nella storia, presente, passata e futura, individuale e collettiva. L’autorità della storia nasce dalla meraviglia che suscita in noi, essa è narrazione di fatti, ma anche i fatti stessi e la loro conoscenza. Le immagini della storia dell’architettura presentano la difficoltà di essere dinamiche, sempre soggette al vissuto, all’esperienza e al cambiamento. L’immagine qui è un fenomeno, che non si può avere la presunzione di catalogare, è unione di soggetto e oggetto, è realtà materica e conformazione autonoma. Il rapporto tra visione e memoria è emblematico della capacità umana di leggere nei luoghi, nelle abitazioni le caratteristiche della propria condizione, del modo di agire della società. Questo permette anche di rendere oggettivo il fenomeno architettonico. Ciò è cruciale al giorno d’oggi che l’architettura ha concentrato i suoi sforzi sulla produzione di un’immagine visiva il più spettacolare possibile. L’architettura in questo è labirintica come un linguaggio (Wittgenstein) vario e plurisignificativo, e per questo necessita di ritrovare solide basi. Essa è un unico organismo con chi la abita, “come Notre Dame e Quasimodo” di Victor Hugo (Gaston Bachelard). Forse il problema moderno è l’aver ridotto troppo velocemente e facilmente l’abitazione a un oggetto di cultura materiale, laicizzandola rispetto alla profondità di valori che la animano. La perdita d’identità dei luoghi, il legame ormai reciso tra coscienza dello spazio naturale e di quello costruito; la parentela architettura-natura (cosmo) è ormai tenue. Altre analogie si possono fare con l’atto poetico, ingenuo e spontaneo, che precede il suo atto creativo. “L’architettura mette insieme volere, sapere e potere dell’uomo…l’arte di edificare ci ricorda che niente si regge da sé e che una cosa è amare il bello, un’altra farlo capire” (Valery). Sicuramente l’architettura non è un impulso, è una ricerca, è un mestiere, un iter che ha bisogno di una fervida sorgente immaginativa corollata da immagini e arti. La duplice ricerca del Movimento Moderno sul piano ideale (Ur-form) e sociale (CIAM) si è persa nel post-moderno. Il vero nemico era allora il disordine dell’abitare, il vero paradosso era l’ideologismo del progetto, la vera e nobile presunzione era l’utilità assoluta dell’architettura. L’essenziale, dice Marc Bloch, sta nel saper fare la storia di cui oggi c’è bisogno. Georges Duby: ”la gente, continua ad amare le narrazioni, i racconti e le leggende” forse per empatia. Di fronte alla storia degli storici di professione c’è quella del senso comune, altrettanto relativista. Forse la storia è in realtà “il sogno dello storico”, non ingenuo, ma intessuto di sapere, eppure comunque lontano dal suo obiettivo di analisi del vero. Lo studioso è certamente almeno in parte schierato, perché comunque opera all’interno della Storia, ma che ne sarebbe della forza persuasiva delle immagini dell’arte se non fossero riconoscibili come figure della cultura che le ha prodotte? Certamente ci attraggono anche solo perché resistono alla decadenza temporale, ma più fortemente desideriamo rintracciarne il senso, in definitiva il senso della storia. “Ad ogni passo lo storico misura l’immensità del sapere che gli sarebbe necessario e che la sua condizione umana gli impedisce di raggiungere…solo Dio potrebbe…”; oppure solo “essendo al di fuori della storia” come ricorda Marrou, lo storico “è colui che ricorda ai suoi fratelli che ci è dato di pensare solo in modo mortale”. Per tutti fare storia in architettura è sempre trattenere fenomeni materiali e immagini entro l’orizzonte di senso vissuto al quale appartengono. W. Curtis – “L’architettura moderna del 1900” Prefazione alla prima edizione L’architettura “moderna” è quella che segna la più netta rottura con il proprio passato, basandosi su una completamente nuova visione della società, stravolta dalla Rivoluzione Industriale. Solo ora (anni ‘80) si può cercare di comprendere con sufficiente distacco tale fenomeno. Egli si concentra su esempi di elevata qualità architettonica, intellettuale e formale, perfetta espressione dei valori e dei significati più profondi del proprio tempo. Non c’è una visione o una “scuola” di pensiero, ma è la semplice analisi del cosa, come e perché (Storiografia). Al centro c’è la questione come si può dare forma alle idee, questione sempre viva e animata dalla dialettica individuale-universale, non ci sono “movimenti” o stili, bensì molteplici diverse espressioni, fulminee o progressive o reiterate, perché fluida è la vera realtà dell’architettura moderna, intreccio di cosmopolitismo e regionalismo. Così per intenderla appieno bisogna servirsi di approcci e strumenti diversi. Prefazione alla terza edizione Un’opera di questo tipo è, sin da programma, sempre in evoluzione, aperta alle nuove conoscenze ed esperienze. Le mode intellettuali vanno e vengono, ma gli edifici rimangono lì, e poiché questo libro si concentra sugli edifici e non sui “movimenti” culturali- architettonici, esso sopravvive agli stereotipi contingenti del tipo “l’architettura moderna è morta” o a definizioni sintetiche ma generalizzanti tipo “International Style”, che non tiene conto del contributo locale eterogeneo dato all’Architettura in esame. Permane la difficoltà nel descrivere dettagliatamente e puntualmente un fenomeno così particolareggiato e cruciale, in cui affluiscono valutazioni di tipo politico, tecnico, sociale ecc., l’ultima inedita parte tratta di alcuni edifici successivi agli anni 80, selezionati in quanto accrescono la cultura architettonica e proseguono quella tradizione di valori, seppur in un contesto diverso di crisi ecologica e degrado urbano. Questa revisione è stata possibile solo dopo un lasso di tempo adeguato. La terza edizione del libro ha visto l’aggiunta di architetture postmoderne svincolate da “movimenti” dal valore duraturo e internazionale. Le frontiere in architettura ormai sono crollate e le idee fluiscono liberamente da una parte all’altra intrecciandosi. Gli edifici in questione ci ricordano come il Moderno nelle sue complesse sfaccettature sia un contributo locale che ambisce ad una dignità e ad una ricchezza globale. È invitabile con il crescere del libro che esso acquisisca una certa soggettività rispetto ad alcuni eventi contemporanei. Il presente architettonico è un misto di romanticismo, distorsione e smarrimento, cui questo libro cerca di rispondere costruendo un ponte con il passato, nella speranza che ognuno possa con la conoscenza trovare anche il suo posto all’interno della tradizione che non sia soggetto alle mode intellettuali transitorie Cap I – l’idea di un’architettura moderna nel XIX secolo La nozione di architettura moderna era già presente in nuce nell’enfasi posta sul concetto di Progresso nel XVIII secolo, concetto che riconosceva l’evolversi della storia attraverso “epoche diverse” e dell’architettura come “espressione di un’epoca” (così si definiscono il tempio greco, la cattedrale gotica ecc…). Allo stesso tempo l’empirismo e lo scientismo dilaganti misero in crisi tutto il bagaglio idealistico rinascimentale e nel vuoto creato da questo filtrarono tutti i revival. La Rivoluzione Industriale infine fece tabula rasa di molti punti di riferimento dell’architettura: tipologia, nuovi modi di vivere, nuove tecnologie, nuova economia, nuova politica, nuova sensibilità, nuovo scopo sociale ecc… Ad esempio si creò una discussione sulla dignità ed il valore degli oggetti prodotti a macchina, nella quale J.Ruskin e W.Morris invocavano un ritorno all’artigianato di tipo “gotico”. La manipolazione degli stili storici serviva per rievocare connessioni con la presunta “età dell’oro”: Schinkel a Berlino (1820), Pugin a Londra (consulente per l’Abbazia di Westminster), la Tour Eiffel (1889) simbolo del nuovo linguaggio del ferro. Nel clima di fervore della Rivoluzione industriale l’architettura finì col subire l’influenza dello status quo che doveva soddisfare, sommersa da critiche morali e politiche. Pugin e Ruskin svilupparono un pensiero di tipo radicale-cristiano che rifiutava la frammentazione e la brutalità del mondo moderno, e proponeva invece immagini della società “corporativa” del tardo Medioevo (“Neogotico”). I socialisti utopisti come C.Fourier e H.Saint-Simon propugnavano un’idea progressista (di stampo illuminista) alla base di grandi strutture sociali e urbane alternative a quelle industriali. Non c’è da stupirsi se in questo pot-pourri di stili e pensieri si affermò il bisogno di una “diretta” e “onesta” raffigurazione del mondo contemporaneo. Come rispondere alla necessità di uno stile autentico? E dove trovarne gli elementi costitutivi? Chi seguire? Il concetto di architettura moderna ha attraversato decenni prima di farsi necessità e numerosi sono i fattori che l’hanno nutrito: l’idea hegeliana della cultura come espressione dello spirito storico in evoluzione (Zeitgeist), l’idea che lo stile moderno potesse essere unione di funzione e struttura (Hubsch), il rifiuto degli stilemi, sbandierato anche se non messo in pratica da Schinkel; la riflessione di Semper. E. Viollet-le –Duc tra il 1860 e il 1870, si dimostrò sempre di più consapevole dell’importanza dei nuovi materiali nella storia dell’architettura e della conseguente necessità di un nuovo stile. Dove le forme dovessero essere attinte non fu però chiarificato. Su questo dubbio si inserì “l’eclettismo”, secondo l’idea di fondere le qualità di più stili diversi per creare nuove combinazioni e nuove genealogie. Poiché però ogni stile tradizionale poteva essere ugualmente accettato o criticato, in modo soggettivo, questo creava un effetto di smarrimento. In questo pluralismo si era dimenticato che le qualità di un’architettura trascendono lo stile. Non tutte le opere del XIX sec poi sono catalogabili secondo un revival, come ad esempio la Biblioteca di Sainte-Geneviève di Henri Labrouste a Parigi, questo insieme a Schinkel e Richardson, fu tra i primi ad acquisire un proprio vocabolario architettonico autonomo, frutto di una visione intuitiva del suo tempo. La dialettica tradizione-invenzione andava posta sul piano “spirituale” e non materiale. Il “Primitivismo” fu invece una corrente che intendeva fondare sui miti delle “origini” le radici della nuova architettura: l’abate Laugier considerava “la capanna primitiva” l’archetipo degli ordini classici vitruviani, e gli attribuiva quindi una dignità maggiore, cadendo nuovamente nell’aulico e classico concetto di “mimesi” della natura. La corrente “razionalista” (portata avanti da Durand) che intendeva reagire ai revivalismi affermando la correlazione diretta tra forma e struttura-funzione, mancava di precisione e completezza. Tale convinzione fu fatta propria anche da Violllet-le-Duc, che erroneamente però la riferì anche alle architetture passate. Egli immaginò persino di resuscitare un architetto gotico per porlo di fronte a un problema costruttivo moderno da risolvere con mezzi moderni, così ipotizzò che si sarebbe potuti arrivare ad un’architettura veramente moderna. Dal passato dunque andavano tratti procedure e principi, non stili, più facile a dirsi che a farsi in un’epoca comunque influenzata da un linguaggio architettonico prevalente. Viollet-le-Duc non arrivò a definire le forme dell’architettura moderna, né delle architetture, ma le sue teorie influenzarono i “pionieri” dell’architettura, soprattutto l’idea che il nuovo stile non sarebbe nato da tentativi formali individuali bensì dalle nuove tecniche di costruzione. Ovviamente l’idea di un’architettura completamente nuova da zero era impossibile, così come è impossibile in ogni tempo, ma epocale era l’idea che fossero l’astrazione, le proporzioni e lo schema delle architetture del passato a renderle degne e dunque imitabili, non lo stile. (es. Boullè, Ledoux) Storici come H.Wollflin e A.Hildebrand si concentrarono su una lettura schematica formale e spaziale dell’architettura del passato, aprendo così la strada ad un nuovo linguaggio di architettura e forma e quindi all’architettura moderna. Già dagli inizi del XIX sec bisogna tener conto della riflessione tipologica, avviata da Quatremere de Quincy: l’Altes Museum di Schinkel e il Parlamento di Chandigarh di Le Corbusier contengono la stessa idea tipologica (la stessa anche del Pantheon). Influenzato dagli evoluzionisti Lamarck e Darwin, Semper diede alla nozione di tipo una valenza quasi biologica ed arrivò così a definire 4 concetti strutturali fondamentali: piattaforma, focolare, tetto, recinto. Così, pur senza arrivare ad esiti architettonici veri e propri, egli riuscì a incrociare, e così legittimare, il bisogno di progresso con la necessità di nuove forme. Parallelamente persisteva la teoria romantica di Ruskin che vedeva la natura come evidenza fisica di Dio, fonte primaria di ispirazione e riflessione morale. Anche questa, mediata dai motivi ornamentali Art Nouveau, influenzò le “grammatiche generative” dei “maestri”, molto cari alla metafora Architettura-Natura (Aalto, Wright). Analogia è il termine che ben descrive l’approccio astratto ai modelli tipico dei nuovi architetti, un modo ancora più sperimentale di quello applicato dalle avanguardie artistiche. Gaudì, Sullivan, Mackintosh, Perret, Behrens, Wright, sono considerabili in un certo modo dei tradizionalisti, in quanto cercarono un nuovo vocabolario, ma che fosse anche universale e profondo e ad ampio raggio come gli stili del passato. Il nemico fu individuato da subito nell’Ecòle des Beux-Arts, simbolo di una cultura ormai stanca e obsoleta. Gli architetti di fine secolo non ebbero certo un terreno florido dove poggiare, cercarono quindi le basi su un passato più astratto e si gettarono avanti verso nuove direzioni, cercando la sintesi tra le fonti a loro disposizione e la nuova modernità. Cap II – industrializzazione e città: il grattacielo come tipo e simbolo L’idea di modernità diversa da luogo a luogo, da città a città, si basava però su valori condivisi, inediti fino ad allora: meccanizzazione della città, nuovi materiali metallici e uso del vetro. Tutte le nuove tendenze europee di modernità nacquero in contrapposizione, reazione e critica verso le norme precedenti; in Nord America fu diverso, perché le tradizioni erano meno radicate, l’impianto economico era diverso e anche lo spirito americano, improntato verso il più spietato pragmatismo, lo stesso che aveva portato alla spartizione della terra (XVIII sec.) secondo griglie geometriche che ignoravano la topografia del territorio e finivano con il cancellare ogni traccia della memoria indigena. Nel 1850 Parigi si razionalizzò con i piani urbani di Haussman il quale aprì ampi boulevard monumentali attraverso il vecchio e consolidato tessuto urbano, dei tagli netti che intendevano far coincidere i punti focali con i punti prospettici, creando così nuovi nuclei di riferimento monumentali, militari e politico-sociali. Henry Hobson Richardson, Marshall Field Wholesale Store (1887): alla base c’è un’idea scultorea dominante; il gigantesco magazzino, piegato al rigore di una pianta simmetrica e gerarchica, è come un unico monolite posto su grezzo basamento di granito, segnato da grandi aperture ad arco sulla muratura autoportante esterna in arenaria, “mensole” orizzontali spezzano le finestre in corrispondenza del telaio metallico sottostante. Molto ammirato da Sullivan, l’edificio è l’emblema del linguaggio maturo del suo architetto e della ricchezza di espressione, a metà strada tra l’industrializzazione e l’artigianato, tra la macchina e la materia grezza. Come antecedenti si può considerare la Biblioteca di Sainte Geneviève, il Pont du Gard, i palazzi signorili fiorentini rinascimentali. Louis Sullivan e Dankmar Adler, Auditorium a Chicago (1889): prosegue il dibattito aperto dall’edificio di Richardson sulla necessità di mediare tra l’architettura commerciale e i tipi tradizionali, approdando ad una “sensibilità più elevata”. Geniale risposta strutturale dell’ingegnere al terreno paludoso soggetto a cedimenti non uniformi. C’è già l’enfasi verticale e la dialettica trave-pilastro del Sullivan successivo ma si colloca in orbita richardsoniana. John Welborn Root e Daniel Burnham, Monadnock Building (1891): presentava le stesse questioni, ma semplificate dalla geometria del lotto che permetteva una soluzione scultorea più perentoria e concisa. Il critico Montgomery Schuyler sosteneva che i dettagli e le piccole soluzioni di questo edificio “poco più che una nuda fabbrica” lo rendessero un riuscito e raffinato edificio. Negazione/enfatizzazione del peso visivo, pelle di vetro, ritmo dei bow-window. L’architetto colto e aggiornato agli ultimi sviluppi teorici, era certamente in perfetto controllo di molti elementi distillati dalla storia e consapevole della “modernità” dell’architettura americana, che fu possibile solo lì e in quel preciso momento storico: il liberalismo, l’assenza di tradizioni artistiche, il pragmatismo, la sperimentazione generarono architetture fresche, perentorie e spontanee. Il Reliance Building (1894) di Root e Burnham è il culmine di questa tendenza: il telaio si separa dalla muratura generando un nuovo linguaggio seriale di trasparenze e leggerezze (“finestra di Chicago”), la facciata si affranca dalla struttura. Giedion lo vede in modo un po’ impreciso come “antenato” del Movimento Moderno europeo. Sullivan, sicuramente il più dotato dal punto di vista teorico, descrisse il grattacielo come il prodotto inevitabile di forze sociali e tecnologiche, una tipologia nuova alla ricerca di una propria adeguata morfologia. Influenzato da Viollet-le-Duc e Semper egli affidò l’espressione architettonica alla funzione e alla sua spontanea e naturale gerarchia: l’enfasi verticale doveva essere dunque tripartita in basamento, parte centrale e sommità. La dialettica funzione-struttura/espressione formale, non veniva sempre risolta in modo funzionale, spesso era piegata alla volontà scultorea di Sullivan (ad esempio nel Wainwright Building un pilastro su due nella zona uffici è ridondante rispetto alla maglia) e alla sua cultura neoclassica basata sulla colona e la lesena e sulle tripartizioni desunte dalla natura (radici-tronco-rami, piedi-corpo-testa). Tutto è mirato a sottolineare l’idea di telaio e di enfasi verticale: pilastri d’angolo corrono in continuità dalla strada al cornicione, le fasce delle finestre sono arretrate rispetto alla teoria dei pilastri secondari. Simile per trattamento alla Bauakademie di Schinkel. Una linea di ricerca parallela è quella del Guaranty Building di Sullivan (1895) con l’uso di archi, dove il piano terra comincia a “scoprirsi”, accentuando la trasparenza e mostrando la sua libertà e leggerezza. L’ornamento floreale sottolinea il funzionamento di questo edificio come organismo vivente. Lo sviluppo architettonico del grattacielo non fu accompagnato tuttavia da uno sviluppo urbanistico. La Fiera Mondiale di Chicago (1893) palesò come ancora l’America fosse legata e influenzata dallo stile parigino dei boulevard, dell’illuminismo, del secondo impero. Queste influenze entrarono tutte nella grammatica universale di Sullivan che tuttavia aveva ormai lasciato campo ai nuovi architetti, l’ultima sua importante realizzazione è il Carson Pirie Scott Store, dove deliberatamente nega l’enfasi verticale da sempre anelata. Chicago aveva tuttavia messo in luce le forze della moderna città capitalista ma anche le problematiche e le contraddizioni. Il grattacielo era solo la punta dell’iceberg di un sistema che partiva dalle periferie e attraverso le ferrovie giungeva nella città. Chicago fu il terreno fertile di una nuova sintesi di tecnologia e forma, nata dal confronto con la realtà industriale e dalla riflessione sull’arte, e culminata con l’ideale universale di architettura moderna. Cap. III – La ricerca di forme nuove e il problema dell’ornamento Le due correnti più diffuse a riguardo sono, quella che considera l’ornamento come conseguenza dell’evoluzione tecnica e materiale, e quella che lo vede come conseguenza dei cambiamenti avvenuti nella visione del mondo e nell’estetica. La verità è situata in entrambe le posizioni, anche se bisogna diffidare del determinismo. In Europa non si potè attuare quanto successo in America, come disse Nietzsche nel 1873 l’Europa doveva “liberarsi del proprio bagaglio storico per liberare il proprio potenziale interiore represso” (“Uso e abuso della storia”). L’Art Nouveau offrì il primo programma internazionale per un fondamentale rinnovamento e segnò dunque un primo stadio di architettura moderna, a iniziare dal rifiuto dello storicismo. L’Art Nouveau non fu una totale rottura con la tradizione ma una reazione contro il classicismo Beaux Arts. Ma il discorso per evidenziare la sua evoluzione dall’organicismo vegetale in metallo alle linee bianche e ortogonali del moderno deve abbracciare una definizione piuttosto ampia. La fase più creativa dell’Art Nouveau in architettura fu tra il 1893 e il 1905, secondo Pevsner essa la tendenza ebbe origine in Inghilterra e assegna al disegno di Mackmurdo lo scettro di prototipo, tuttavia esso è in realtà solo la manifestazione di un mutamento di sensibilità più ampio, che si ebbe anche in altre arti a partire dal 1880 ed estese la sua paternità fino ai “pionieri” Gaudì, Sullivan e Horta. Quest’ultimo, dopo aver frequentato l’Ecolè des Beaux-Arts a Bruxelles e aver lavorato sotto traccia per un architetto neoclassico (Balat), nel 1893, esordì con l’Hotel Tassel, assoluto capolavoro di unione tra Architettura e arti decorative, e affermazione di novità formali: la scala con struttura “a viticcio”, la carta da parati “a mosaico”, l’ornamento metallico che riprende Viollet-le-Duc. Fu la prima affermazione matura del nuovo stile: una sintesi tra forme desunte dall’Arts and Crafts, enfasi strutturale francese e ispirazione alle forme naturali. Questo estetismo divenne affine allo spirito di “Fin de siecle” delle classi più benestanti. Nonostante la tensione vagamente decadente Horta non scadeva mai nella pura teatralità, mantenendo sempre una tensione, un ordine formale e una gerarchi spaziale ben concepita (Hotel Solvay, 1900). Egli fu densamente e profondamente simbolista (esempio è l’altare della Cattedrale di Majorca che rielabora l’immaginario di forme di una tenda, un veliero e una corona di spine). Lo stile tardo di Guadì, dal 1900 al 1914, inizia con il Parc Guell, e dimostra un’architettura “corallina”, intimamente ed espressamente intrecciata con la natura e il paesaggio che mutua. Casa Batllò (1907) analogia con l’ambiente marino e il tetto simile ad un drago (allegoria religiosa del bene e del male); Casà Milà (1910) conosciuta anche come “Pedrera”, riporta simili elementi marittimi. Lo stile di Gaudì fu inimitabile non solo a livello internazionale, ma anche locale. Ciò fu oggetto di critica da chi voleva una standardizzazione e diffusione in massa anche degli elementi formali, oltre che delle tecniche costruttive, tuttavia lo stile di Guadì era facilmente riproducibile strutturalmente, ma inconcepibile per altri architetti. Charles Rennie Mackintosh, è un po’ un atollo nell’architettura del periodo e nella questione delle influenze fra Arts and Crafts. Egli andava oltre l’Art Nouveau, seppur adottando uno schema simile che implicava motivi locali (gaelici e celtici) e concezioni tecniche e spaziali moderne. Il primo esempio è certo la Sala da tè di Miss Cranston a Glasgow (“Spook School”), ma raggiunse il massimo risultato con la School of art, la cui sezione generatrice ben evidenzia la giustapposizione dei volumi e la sequenza ben gerarchizzata di spazi e stanze diverse, per necessità illuminotecniche e funzionali. Essa intendeva essere una “gabbia luminosa” dalle forti tensioni volumetriche, pieni e vuoti e massa e piano, ma anche materiali diversi in un intento scultoreo. Le murature dell’edificio tendono a “dissolversi” nella parte più bassa del sito in ampie superfici che rievocano le fattorie locali e l’architettura vernacolare scozzese. Il ferro e il vetro vengono qui usati in senso meno Art Nouveau, bensì più “industriale”. L’ala della biblioteca con le sue inedite spazialità è forse il punto di convergenza delle influenze e delle sensibilità che dall’Art Nouveau e dall’Ottocento aprono una nuova strada in direzione del Movimento Moderno. Questa ortogonalità fu criticata dagli inglesi, ma trovò eco a Vienna, dove Olbrich costruì il Palazzo della Secessione e dove operavano fra gli altri Klimt e Otto Wagner. Auguste Endell a proposito parlò di stile “non storico”, simile alla musica (Astrattismo); nel 1895 infine Wagner dichiarò che l’architettura prima di tutto dovesse essere orientata alla “vita moderna”, quella della metropoli e dell’industrializzazione, con realismo e attenzione sociale. L’Ufficio della Banca postale di Otto Wagner si colloca già fuori dall’orbita Art Nouveau, nella sua semplificazione e monumentalità. Egli, come Sullivan, non solo voleva esprimere funzione e struttura, ma anche simboleggiarle. Tutto l’edificio era la rielaborazione del tipo del capannone ferroviario vetrato qui metafora sociale di onestà, trasparenza e leggerezza. La modernità dell’opera sta tanto nella sua metafora “macchinista” quanto nella sua reinterpretazione di norme preesistenti nell’architettura pubblica. A Vienna e Berlino, dove prevaleva lo spirito Arts and Crafts, lentamente si iniziò ad opporsi all’Art Nouveau verso una maggiore semplicità e corrispondenza di funzione e struttura affine ad un certo gusto classicista. Nel 1905 Joseph Hoffmann costruì Palazzo Stoclet, (influenze di Mackintosh), sintesi di diverse funzioni, di accorgimenti formali e informali, di toni prestigiosi e umili. Il risultato è una composizione equilibrata anche se asimmetrica, dove enfasi viene posta sulla torre a gradoni, sui bow-window e sul porte-cochere. Gli interni erano rifiniti con materiali lisci, severi, rettilinei, marmi lucidi e legno, decorazioni di Klimt. (“Casa per un amante dell’arte” di Mackintosh). Fu l’unione di uno stile architettonico talmente ricco di influenze da essere catalogabile solo come personale e di uno stile di vita aristocratico bohème tipico degli anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale. Adolf Loos risentì maggiormente dell’influenza americana che di quella Art Nouveau, la sua semplificazione volumetrico-architettonico fu senza dubbio più drastica di quella di Hoffmann e inoltre fu illuminato teorico di alcune riflessioni sull’estetica di molti oggetti d’uso quotidiano e sul loro stile inconscio. Egli affermò ancora maggiormente l’onestà in architettura criticando apertamente le “finte facciate” ancorate e l’operato di alcuni secessionisti come Olbrich, sostenendo invece la ricerca della “bellezza solamente nella forma e non nell’ornamento” prendendo come modelli i motori e le biciclette, in quanto estranei alla “personalità” e al gusto estetico. Fino al 1910 egli si concentrò su progetti di piccola scala tralasciando la questione ornamentale per aumentare il suo controllo del “Raumplan”; forse la sua opera più significativa è Casa Steiner, simbolo della conquista di una semplicità e di un’assenza di ornamento, in un periodo perfettamente a metà tra l’Art Nouveau e le prime ville di Le Corbusier. Un’influenza diretta e architettonica di Loos sul Movimento Moderno non è certificabile, ma lo è il suo contributo polemico all’abolizione dell’ornamento (“Ornamento e delitto”, 1908): solo dopo questo atto si sarebbe potuto affermare uno stile vero per l’epoca, che metteva in mostra le vere qualità dell’architettura, la forma, la proporzione, la misura ecc… Cap IV - Razionalismo tradizione ingegneristica e cemento armato L’Art Nouveau rompeva i legami con il passato ma finì col sembrare troppo soggettiva, e venne criticata come eccessivamente decorativa, anche se non bisogna dimenticare il contributo che ha dato verso un linguaggio astratto e nel rapporto fra architettura e natura. Dal 1905 cominciò a sfiorire e contemporaneamente sorsero le reazioni contro questo stile: a Vienna Hoffmann e Loos, a Berlino Behrens, a Parigi Perret, spinto dall’ancora influente teoria di Viollet-le-Duc di “aderenza alle verità costruttive”. Da qui l’importanza della tradizione ingegneristica. Choisy nel 1899 nella Historie de l’architecture parlava dell’architettura gotica come “il trionfo della logica nell’arte”, la cui forma era governata solo dalla sua funzione, evidenziata da diagrammi assonometrici strutturali. Il problema di fronte a tali trionfi strutturali era il rischio di perdere il carattere poetico della forma, critica già sviluppata nel primo Ottocento da Durand e Hubsch cercando di promuovere un metodo di progettazione razionale e logico. Pont du Garabit (Eiffel, 1884), Ponte di Brooklyn (Roebling, 1883). Anche Sullivan si era mosso in tal senso riuscendo a capire che non è possibile generare una forma solo a partire da funzione e struttura. Quali elementi astratti della tradizione si adattano alle nuove tecniche costruttive? Il calcestruzzo permise la più ampia gamma di espressioni. In Francia una prima prova fu St. Jean de Montmartre di Anatole de Baudot, all’interno si percepisce la distinzione tra elementi portanti e pannelli di riempimento, tuttavia questo rimane l’unico elemento di novità in un “conglomerato” di espressioni medievali (Viollet-le-Duc), esotiche e Art Nouveau per molti versi indefinibile. Cap VI – Risposte alla meccanizzazione: Deutscher Werkbund e Futurismo In Inghilterra, patria della meccanizzazione, prevaleva atteggiamento conservatore, dal punto di vista architettonico, in Italia e Germania (peraltro in modo opposto) si cercò invece in modo diverso di rispondere alla “spinta progressista della storia” con un’appropriata architettura moderna. In Germania tra echi Art Nouveau e Arts and Crafts si affermò alla fine il Deustcher Werkbund (1917) fondato da Muthesius, che affermava la necessità di mettere un artista a capo del disegno industriale o urbano, come mediatore tra lo Zeitgeist (spirito del tempo) e una standardizzazione e diffusione di massa. Era una questione non meramente economica, ma nazionale e spirituale tedesca, addirittura universale. Gli artisti tedeschi affermavano la “Typisierung” (Tipizzazione), cercando una connessione tra arte (design) e industria per raggiungere un significato universale e suscitare la nascita di un “buon gusto condiviso” (“Where do we stand?”). Dopo il 1907 vi fu una certa convergenza tra gli ideali di Muthesius e quelli di Behrens, che durante il suo soggiorno nella Colonia degli artisti fondata dal duca Ernst Ludwig von Essen aveva esaltato “il piacere fisico insito nell’utile”. Quando approda all’AEG egli dà prova di un maturo gusto neoclassico (influenzato un po’ da Schinkel). Le opere industriali dovevano essere espressione della cultura dell’epoca e quindi degne di un linguaggio colto ed elevato. La Fabbrica delle turbine AEG del 1909 non è altro che un tempio dedicato al culto industriale. La struttura e il linguaggio si fondono, ma questa non è enfatizzata, anzi l’abituale rapporto di carico viene invertito: i montanti di acciaio si rastremano alla base ancorandosi al basamento attraverso dei giunti a ginocchiera imbullonati, mentre le vetrate viceversa si rastremano al contrario stando a filo con il frontone. Con questo senso di proporzione egli si approcciò a molte altre strutture industriali (es. Gasometro di Francoforte). Nello Jarbuch del 1913 comparve un articolo del giovane Walter Gropius che lodava e sottolineava gli aspetti moderni di queste architetture industriali (quelle di Behrens e quelle americane), dotati di “magnificenza veramente classica”, i cui elementi dovessero essere presi come spunto. Nel 1910 Le Corbusier, aveva lavorato nello studio di Behrens. Confrontando il Gasometro di Behrens con il Serbatoio idrico di Poelzig a Breslau ci si può rendere conto di cosa s’intenda per “ala espressionista” del Werkbund (non in senso stilistico), bensì in senso più psicologico di forme irrequiete, dinamiche, emotive. Anche Gropius e Mies van Der Rohe lavorarono nello studio di Behrens. Gropius nel 1911 ricevette l’incarico per la Fabbrica Fagus, su un progetto precedente. Pur lavorando sugli stessi elementi del vocabolario di Behrens, Gropius cercò di dare senso di leggerezza e trasparenza, invece che di massa, facendo “fluttuare” le superfici vetrate con l’arretramento dei pilastri. Interessante confronto con le fabbriche americane di Khan (meramente economiche e funzionali). Con il suo lavoro Gropius cercava di trovare sistemazione alle funzioni del mondo moderno ma anche di simboleggiare quel mondo, come nel Padiglione del Werkbund per l’Esposizione di Colonia del 1914, atto a contenere i prodotti del disegno industriale tedesco. Altro esempio di espressionista del Werkbund era Bruno Taut (Padiglione dell’acciaio e Padiglione del vetro), che cercò di dare un’interpretazione poetica dell’industrializzazione per creare una nuova cultura (Scheerbart). Non basta l’influenza di Gropius a spiegare l’architettura degli anni 20, certamente influì anche il Futurismo (1909) e l’idea della “Città Nuova” che si trasferirono nella filosofia e nella forma De Stijl del secondo decennio del Novecento. Un tipo di espressione fortemente psicologica ed emotiva che si traduce, mediata anche da influenze cubiste, in nuovi simboli frammentari, nuove composizioni di trasparenze e intersezioni di solidi e superfici. Il “Messaggio” di Sant’Elia fu un po’ il Manifesto dell’Architettura futurista (non ce ne fu una in senso stretto), che non può avere continuità storica, ma deve nascere ingenuamente e direttamente dalle nuove attitudini e tendenze spirituali della città moderna, oltre che dalle possibilità aperte dai nuovi materiali, che dovevano concretizzarsi in forme del tutto nuove. La “vera architettura trascende il funzionalismo – dice Sant’Elia – è la sintesi più totale, l’espressione più vera, l’integrazione artistica più efficace”. Il Futurismo fu di grande influenza per le sue componenti astratte, anti-tradizionali, progressiste, meccaniche e moderne. È possibile che la città nuova fosse stata suggerita da New York o da altre influenze, tuttavia rimane la sua idea che l’autentica architettura moderna dovesse essere presa in considerazione, nelle sue funzioni, nei suoi metodi costruttivi, nella sua estetica e nelle sue forme simboliche. Cap VII – Il sistema architettonico di Frank Lloyd Wright Figura eccezionale nel panorama finora descritto, per visione, coerenza, profondità espressiva, padronanza della materia e degli strumenti ecc… In lui convergono ideali tradizionali americani legati all’Arts and Crafts, ma anche una rottura con l’eclettismo, verso nuove concezioni spaziali e una pacifica convivenza di meccanizzazione e artigianato con la natura. In Wright l’intreccio di individuale-regionale e universale raggiunge livelli assoluti e non replicabili. Non ebbe una formazione ortodossa, ma già da piccolo in lui si mescolarono diversi elementi tradizionali (il padre pastore e avvocato, la madre insegnante, il lavoro rurale dallo zio, il contatto con la natura e l’acume geometrico stimolato dai giochi fröbeliani); lavorand da Sullivan attinse molti elementi ideali e formali, quelli di un idealista che credeva nella possibilità dell’architetto del Midwest di generare forme genuine e architetture nuove, veri simboli di una cultura: secondo Sullivan l’artista avrebbe dovuto scavare nel profondo della propria società, cogliere il significato profondo delle istituzioni umane e dargli forma in Architettura. Nella sua Casa a Oak Park si intravedono i primi germogli della sua rivoluzione spaziale, anche se permangono elementi Shingle e vernacolari di Chicago. La Winslow House (1893) è sintomo di una maggiore maturità: il focolare è il fulcro vero della casa, sottolineato nella sua importanza, sia dall’esterno che dall’interno, crea una distribuzione circolare in cui la sala da pranzo acquista una conformazione absidale nella composizione, la facciata posteriore è invece asimmetrica e meno coerente. Tipico di Wright è la posizione della camera da letto padronale sopra la stanza più formale del piano terra. In quest’architettura si afferma lo stile di Wright: assialità classica, Shingle, astrazione della natura, tripartizione (ripresa dalle colonne classiche o dagli alberi). La metafora dell’albero è un tema centrale in Wright e in questa casa raggiunge una perfetta realizzazione pratica. Insieme Winslow e Wright produssero anche una serie di volumi “House Beautiful” (1897), sintomatico dell’aura sacrale che Wright attribuiva alla casa. La caratterizzazione dei committenti di Wright è una questione interessante, anche se le sue architetture si adattavano bene ad ogni tipo di committenza, egli era inoltre dotato di una grande cultura pratica e di cantiere e di una fervente attenzione per tutte le scale e i dettagli del progetto. Per certi versi le case di Wright aiutarono la classe emergente a trovare la propria identità. In “The Art and Craft of the Machine” egli afferma che la macchina non è un modello da utilizzare come simbolo o analogia, ma è lo strumento con cui si può realizzare condizioni di vita domestiche migliori. Alcuni critici hanno visto in Wright l’influenza del tokonoma giapponese (dopo il 1905), l’elemento fisso in una serie di spazi fluidi, ma anche un “nucleo spirituale” (altare votivo). Tutti questi aspetti fioriscono nella “Prairie House”, vero teorema dell’architettura Wrightiana, genoma o prototipo di tutte le sue architetture fino al 1910: orizzontalità, tetti aggettanti, verande, asimmetrie dinamiche, porte-cochere, arredi incorporati, piani sovrapposti o “scorrevoli” ecc… La Ward Willits House del 1902 è uno dei primi esempi del Wright maturo, una composizione a “mulino”. Più tardi guardando indietro a questo progetto egli cerca di delinearne il metodo, definendo il suo “sistema architettonico”, base per i successivi sviluppi della sua arte. Cap VIII – Miti nazionali e trasformazioni del classico Un modo per comprendere l’identità dei “maestri moderni” come Le Corbusier, Aalto, Terragni, Mies, Kahn è quello di indagare sugli anni della loro formazione e sulla loro prima fase tradizionalista. Ciò permette inoltre di focalizzare sulle due tendenze principali dei primi anni del XX sec. ovvero quella regionalista (Ruskin, Viollet-le- Duc, Arts and Crafts) e quella classicizzante. La prima intendeva trasformare le fonti della tradizione locale e della natura per rispondere alla nuova atmosfera sociale e culturale. Si parla di “romanticismo nazionale” per indicare quella serie eterogenea di edifici nati, tra il 1890 e il 1910 su questi principi, gli architetti furono Gaudì, Wright, Lutyens, Gill, certamente non raggruppabili sotto un “ismo”. Comuni erano gli interessi per alcune conformazioni nazionali che venivano astratte e reindirizzate in una retorica a volte persino pedissequa, soprattutto perché dotata di una componente ornamentale fortemente selettiva. Gaudì, pur nel suo linguaggio assolutamente unico e originale, condivideva molti principi culturali con altri architetti catalani, come Francesco Berenguer (La Celler de Garaf), Lluìs Domenèch i Montaner e Josep Maria Jujol (Chiesa a Vistabella). Altri esempi significativi di “Romanticismo Nazionale” vennero prodotti nel nordeuropa: Municipio di Copenaghen di Martin Nyrop, il Municipio di Stoccolma di Ragnar Ostberg, eclettismi medievaleggianti particolarmente riusciti. In Finlandia Eliel Saarinen, che si trasferì negli USA negli anni 20 e fu influenzato da Richardson anche nelle sue prime opere finlandesi, come la Stazione Ferroviaria di Helsinki del 1914 e il Museo Nazionale di Helsinki del 1902, fu criticato per il suo rusticismo stucchevole e andò via via semplificando le forme del suo linguaggio “mineralogico”. Chiesa di Grundtvig di Peder Vilhelm Jensen-Klimt (1940), metafora geologica ricca di riferimenti ecclesiastici vernacolari e costruttivi locali. Negli USA la vera Architettura “americana” era quella della Prairie School (seguaci di Sullivan e Wright). La Farmer’s Bank a Owatonna (1908) di Louis Sullivan è l’edificio che meglio esprime il sogno americano di un capitalismo democratico radicato nel territorio. In uno slancio di eclettismo denso di riferimenti romani, bizantini e perfino islamici, egli ricerca la monumentalità austera e sicura, ricca di elementi primordiali classici come pilastro, arco, cornicione e basamento. Questa era la risposta alla ricerca dell’ultimo Sullivan di un’architettura basata sull’astrazione di forze e principi naturali. L’eredità dei valori Arts and Crafts si legge nelle parole dello stesso Sullivan oltre che nelle “squame” variegate e lucide della superficie dell’edificio. Interno ricco di riferimenti agricoli e naturali immersi nella luce e nei colori. L’idealismo di Sullivan rimase però inascoltato in un’America che era sempre più spinta da altri valori. Negli anni dal 1910 al 1920 si ebbe un generale “ritorno all’ordine” cioè ad un classicismo diffuso che sostituì il romanticismo nazionale. Per alcuni architetti che avevano sperimentato il “nuovo spirito”, come Hoffmann, fu un passo indietro, ma anche Loos nel Magazzino Goldman & Salatsch a Vienna (1911) si era piegato a decorazioni marmoree di stampo neoclassico, lo stesso Behrens nello stesso periodo delle officine AEG progettava la Residenza Cuno di spirito neoclassico e ispirato a Schinkel. Anche il primo Mies si muoveva su questa atmosfera nelle sue prime opere, una sorta di classicismo semplificato, influenzato dalla tradizione idealista tedesca e da alcuni storici come Wollfflin; così egli tendeva a vedere il classicismo come manifestazione geometrica del mondo spirituale. Il passaggio cruciale per Mies fu quando tentò di trovare una via tra il pilastro di acciaio e il carico dell’architettura classica. Anche la prima opera di Le Corbusier a Chaux-le-Fonds si basa su principi regionali e vernacolari, solo in seguito soppiantati da valori e astrazioni più alte, maturate nei viaggi a Roma e in Grecia e negli studi di Behrens e Perret. Egli stesso più tardi dichiarava di avere come solo maestro il passato, sebbene venisse universalmente riconosciuto come un rivoluzionario. Lo svedese Gunnar Asplund (nato nel 1885) si colloca proprio nella transizione tra il classicismo anni 20 e il Moderno ricco di richiami alla tradizione, simbolo della nuova generazione di architetti svedesi, eredi dello spirito del Municipio di Stoccolma di Ostberg ma inclini a nuovi orientamenti. Nel concorso per il Cimitero Woodland a Enskede (1915) Lewerentz e Asplund si servirono di un’ampia gamma di riferimenti: dal foro romano, a villa Adriana, dai temi mitologici collegati al passaggio vita-morte, al percorso del sole, alla poetica di elementi naturali come acqua, luce e alberi. E infine a riferimenti religiosi. Tutto orchestrato in un senso tragico. La Cappella Woodland di Asplund spicca qui in modo convincente, come rielaborazione e incrocio dei due archetipi del tempio greco e della capanna nordica (recintata da un temenos vero e proprio), mescolando primitivismo e classicismo in modo poetico. In contrasto con l’esterno rustico, l’interno era luminoso e chiaro. Edificio molto piccolo ma intriso di simboli e temi progettuali (Pantheon in miniatura) la cui ritualità trova corrispondenza in pianta. Asplund colmò la distanza tra classicismo e vernacolare e tra mediterraneo e nordico. Il giovane finlandese Aalto comprese queste implicazioni prima di giungere al suo linguaggio veramente moderno. Cap IX – Cubismo, De Stijl e nuove concezioni spaziali Altro elemento influente nell’architettura degli anni 20 fu certamente il Cubismo, per le sue tendenze geometriche, tridimensionali ma soprattutto per il suo astrattismo “purificatore”. Anche se si può rintracciare alcune affinità dirette come quelle tra Cubismo, Purismo e Le Corbusier, fu l’Astrattismo in generale a diffondersi, come semplificazione dei mezzi espressivi. Nel contesto generale sembra che per essere “moderni” bisognasse risalire alle radici della propria espressione artistica e ripensarle. Kandinsky sosteneva il ruolo di “artista vate”, sacerdote di una nuova cultura, dal carattere universale. Non si può comprendere il Movimento Moderno a prescindere dalle sue ambizioni trans-storiche e pan-culturali di espressione dello “spirito dell’epoca moderna”. Il Cubismo è stato una vera rivoluzione del rapporto tra spazio e forma, una rivoluzione anche visiva che ebbe ripercussione su tutte le arti. Impregnato di cultura della macchina avrebbe dato i più diversi esiti (Russia). Il movimento De Stijl contribuì all’elaborazione dei “nuovi spazi”: fondato nel 1917, le figure dominanti erano certamente Mondrian e Van Doesburg. Il linguaggio di Mondrian, diventò da cubista gradualmente puro e fatto solo di colore, luce, geometria e di ritmo, come la musica, permeato da una visione teosofica della realtà. Analogo ragionamento si può applicare alla tridimensionalità. Inutile dire quanto questa concezione spaziale rompesse con quella Beaux Arts, ma Van Doesburg andò anche oltre, perché quest’architettura si arricchiva dell’apporto di Wright e P.Berlage, quest’ultimo molto attento allo sviluppo di una vera architettura moderna (che egli riconobbe nel Larkin Building) e al dibattito a riguardo. Anche la generazione di Rietveld, Van Doesburg e Oud riconobbe in Wright e nella sua tendenza astratta, una linea guida, come si evidenzia nella critica di Oud alla Robie House. Un primo risultato sperimentale di tale incrocio è la Villa di Rob Vant’Hoff, per certi versi simile alla Maison Domino, in ogni caso molto affine ai progetti di Wright; un secondo il Progetto per una Fabbrica di Oud, troppo artificiosa ancora nella sua composizione spaziale. Ci sarebbero voluti anni perché si sviluppasse una concezione spaziale veramente aperta e dinamica, come si ebbe con la Casa Schroder di Rietveld (1924) e negli Uffici del Bauhaus di Gropius. La nascita di questo nuovo linguaggio fu sempre accompagnata da un’aura di sacralità e autenticità, di epicità e rettitudine morale, che non c’era negli “espressionisti” Kramer e De Klerk (Ufficio postale a Zaanstrat). Il Purismo a Parigi si muoveva su principi simili, ma rimanendo attaccato al “materialismo” proprio dell’età della macchina, che il De Stijl rifiutava (“la macchina è un fenomeno di disciplina spirituale per eccellenza…essa deve permettere la liberazione sociale”). Oud lo definì “un classicismo non storico”, cioè uno stile che tendeva alla semplificazione molto di più che nel periodo pre-guerra, un nuovo linguaggio sospeso e immateriale, che derivava dalla “rivoluzione” De Stijl e trovava piena realizzazione nelle nuove tecniche materiali del calcestruzzo, dell’acciaio e del vetro. Maison La Roche, 1923 - Nel corpo a L si dovevano collocare due diversi committenti, quindi v’erano due diversi temi progettuali. Tutto è un po’ permeato di retorica industriale e meccanica. Gli spazi sono concatenati a formare una “promenade architecturale”; egli criticò l’assialità delle piante a stella Beaux Arts prive di “impulso”. La sensazione generale è quella di volumi sospesi e leggeri. Ci sono alcune analogie con la Casa Schroder, soprattutto a livello del salone d’ingresso, ma lo stesso architetto dichiarò di aver riportato in vita “eventi architettonici che provengono dalla storia”. Egli era urbanista oltre che architetto: il suo piano di “Città contemporanea” si nutriva delle influenze dei socialisti utopisti e della città giardino di Ebenezer Howard; in seguito riproposto come “Ville Voisin”. Egli era sicuramente un utopista che voleva affermare la sua “visione del Millennio”, il suo poema alla vita moderna. Il Razionalismo in Le Corbusier era comunque sempre secondario ai suoi obiettivi formali e lirici, sviluppati grazie anche alla sua contemporanea attività di pittura. Maison Cook, 1927 - Gli serve per affinare il proprio stile e consolidare la teoria dei “Cinque punti della Nuova Architettura”: pilotis, pianta libera, facciata libera, finestra a nastro, tetto a giardino (riferimento ai 5 ordini classici?). Forse era la creazione di un vocabolario universale per la costruzione in cemento armato. Nella Maison Cook i 5 Punti sono enfatizzati retoricamente: il pilotis è arretrato rispetto al piano di facciata e il passaggio sotto è indicato dal percorso pedonale e da quello per le automobili, il tetto giardino si intravede, e si riesce persino ad intuire la distribuzione interna, attraverso le finestre a nastro, rigorosamente curvilinea e in tensione con la “scatola” contenitrice. Il suo progetto per il palazzo della Lega delle Nazioni del 1927 dimostrava come lo stesso vocabolario, ormai maturo, potesse essere applicato anche su edifici a scala maggiore. Nel 1928 egli completò Villa Stein a Garches, prima occasione di edificazione a “tutto tondo”, a partire dall’esterno. È la tipica villa suburbana, qui svolta in senso procedurale. In “Vers un architecture” egli parla di “un’architettura, pura, limpida, chiara, pulita e sana”, lo stesso si può riferire a Villa Stein. È una “macchina per abitare”, molto complessa nella sua creazione; come Colin Rowe ha fatto notare, essa ha delle analogie nelle proporzioni della pianta e della facciata con la Villa Malcontenta di Palladio, non sappiamo quanto fosse consapevole, sicuramente il risultato raggiunto è armonicamente allo stesso livello. A 40 anni, nel 1927, Le Corbusier aveva già prodotto opere di alto livello in uno stile nuovo, capolavori assoluti dell’architettura, utilizzando il proprio sistema architettonico, con lui il mondo dell’architettura era ad un punto di svolta. Cap XI – Walter Gropius: l’espressionismo tedesco: Nel periodo post-bellico in Germania si diffonde la credenza che le forme architettoniche racchiudessero in sé un potenziale di redenzione sociale (simile al moralismo di Pugin), morale comprensibile alla luce dello stato di alienazione e spaesamento dell’uomo e dell’artista di quel periodo. Anche Gropius nel 1919, poco dopo la fondazione del Bauhaus, si colloca in questo spirito. Ad animare il Bauhaus c’erano diverse idee: quella tecnocratica ma allo stesso tempo socialista del Deutscher Werkbund, quella dell’espressione dello spirito del popolo (Volk) e della sua redenzione, ma più che la tipizzazione egli sembrava essere tornato agli ideali Arts and Crafts, il che suggerisce facilmente un’analogia Bauhaus-corporazione, per cercare di riportare lo studente ad uno stato di ingenuità e primitivismo espressivo (“Lo spirituale dell’arte”, V. Kandinskij, 1912). Nel 1920 Gropius costruì Casa Sommerfeld, facendosi aiutare negli interni dagli studenti (Marcel Breuer), cercando una ricercata ingenuità e un’immagine vernacolare con palesi influenze di Wright. Siamo lontani anni luce dal Gropius dell’”età della macchina” sebbene la distanza effettiva sia di pochi anni. Espressionismo è il termine con cui si indica quelle escursioni di alcuni artisti fuori dal solco della tendenza più diffusa, in un tentativo personale e intimistico, che comunque non si può catalogare come stile. Erich Mendelsohn è un esempio, influenzato da Van de Velde e Kandinskij egli era convinto che le idee formali nascessero da un’intuizione cosmica, inoltre fece propria la teoria empatica e vedeva l’arte come disvelamento del divino e delle leggi della natura. Criticò Behrens, opponendo alla progettazione “addizionale”, quella intuitiva ed istantanea di un’unica immagine ricca di dinamismo e drammaticità. Questa tendenza “biomorfa” dell’architettura si intravede nella Torre Einstein (1924), influenzata nelle sue forme dalle stesse teorie dello scienziato riguardo materia ed energia. Con il suo formalismo- funzionalismo egli intendeva rivelare la grandezza e la verità sacra della scienza e dell’industria. Egli andò gradualmente stereometrizzandosi fino ad anticipare, con la Centrale Termica Mosse, addirittura di 10 anni, lo schema in acciaio, vetro e mattone che utilizzò Mies per l’IIT di Chicago. Anche Mies van der Rohe attraversò una fase “espressionista” prima di stabilizzarsi sul proprio vocabolario di struttura e tecnologia. Nel 1912 aveva disegnato Casa Kroller-Muller, emblema dell’influenza di Behrens e Schinkel, ma negli anni 20 sviluppò le basi della sua opera successiva: ricerca di valori spirituali, forme semplici, elementi essenziali della storia, ordine della tecnica industriale. Il primo progetto per il concorso per il Grattacielo della Friedrichstrasse del 1921 è emblematico della nuova “essenzialità”, forse le conseguenze più estreme dell’acciaio e del vetro (qui è in linea con le visioni di Scheerbart, Behrens, Taut e Gropius). Il successivo progetto di un Edificio per uffici (1923) indica un cambiamento di stato d’animo e forma ma anche di indirizzo di ricerca (“Nuova Oggettività” del “Gruppo G” contro il formalismo), ancora un po’ classicheggiante, ma ricco di nuovi elementi, come i piani orizzontali “sospesi”. Con il progetto per una Villa in mattoni del 1923 il linguaggio di Mies si dimostra ormai maturo, qui cristallizza le sue idee spaziali chiave: la pianta è una trama di linee, interrotte per aprire finestre a tutt’altezza. Non c’è un’asse dominante ma un “campo energetico” che cambia, come un’opera d’arte moderna, con il movimento interno. Il classicismo “non storico” delle proporzioni si combinava con le piante a mulino del Wright prebellico e con uno schema di linee De Stijl. Altro esempio di un Mies lontano dall’International Style è quello del Monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, ricco di artigianalità e texture e tattilità più tipici di Berlage. Le Case Hermann Lange e Esters furono il primo tentativo di affrancare la parete dalla scatola. Lo sviluppo verso il Mies maturo fu tutt’altro che diretto. L’arrivo di Van Doesburg al Bauhaus nel 1922 inaugurò una nuova stagione e un nuovo passo verso l’International Style, con l’importazione di forme e concezioni De Stijl. Un primo esempio può essere lo Studio di Gropius o il suo progetto per il Chicago Tribune. “Lo stile del tempo” cominciava a mutare, e insieme con lui anche l’orientamento della scuola: “la macchina è il nostro mezzo moderno di progettazione”. Al Bauhaus s’insegnava ogni arte perché l’obiettivo finale era la sintesi di tutte queste nell’opera d’arte totale: l’edificio. Nel 1925 egli ebbe l’opportunità, realizzando la nuova sede dell’Università, di realizzare la sintesi di tutte le arti e le teorie della sua Scuola, già minacciata e criticata dall’estrema destra. L’edificio doveva essere percepibile tridimensionalmente, venne articolato per parallelepipedi connessi da corridoi, ponti e altri ambienti più piccoli, le superfici vetrate accentuano l’orizzontalità o la verticalità in funzione della luce che devono portare all’interno e dell’enfasi che dovevano suggerire. Ogni elemento si coniuga in modo conciso e chiaro, figlio delle precedenti esperienze di Gropius, e finisce col diventare segno della definitiva maturazione dell’International Style. Furono questi gli anni d’oro della Bauhaus, una vera e propria colonia di artisti, ricercatori e professori. In seguito egli si dedicò alla diffusione della nuova “estetica della fabbrica” anche in ambito residenziale (suscitando molte critiche e fraintendimenti) a maggior ragione con la diffusione delle teorie intransigenti del Gruppo G che condannavano il formalismo e i problemi estetici per porre attenzione ai problemi di costruzione. Cap XIII – Grattacielo e periferia gli Stati Uniti tra le due guerre Gli anni 20 negli USA furono caratterizzati da un grande boom economico e nell’edilizia, la ricerca di strutture sociali e urbanistiche alternative (europea) fu estranea ad un paese conservatore, liberale nel modo più estremo, privo delle avanguardie artistiche di cui aveva potuto godere l’Europa, e oltretutto consapevole di essere di queste solo assimilatore. L’ideologia Beaux Arts ben si accordava con l’Imperialismo degli Stati Uniti e il classicismo “pronto per l’uso” ben si adattava alle istantanee necessità di eleganza e rigore. Il movimento “City beautiful” si rifaceva a modelli preindustriali come la Roma imperiale o la Parigi di Haussmann, un esempio è il piano per Chicago di Burnham (1909). La situazione del rapporto Europa-America era paradossale: la prima vedeva nella seconda la terra promessa per il futuro del Moderno, la seconda anelava invece ad avere l’approvazione della cultura europea, come ben sintetizzato da Le Corbusier “lasciateci ascoltare gli ingegneri americani. Lasciateci diffidare degli architetti americani”. Nel nuovo sistema capitalistico l’importanza si spostava sul simbolismo e l’iconografia dell’architettura. Nei primi due decenni del XX sec. si abbandonò la strada di Sullivan e Root per una sperimentazione eclettica a partire dall’ideale di stile moderno. Il Flatiron Building del 1909 spicca per la sua qualità anche se mantiene toni classicheggianti; il Woolworth Building di Gilbert (1917) richiama invece elementi gotici inglesi. Il piano regolatore di New York del 1916, che richiedeva arretramenti con l’aumentare dell’altezza per motivi di aria e luce spinse l’architettura del Grattacielo verso forme piramidali o a ziggurat (tipiche del mesoamerica), come si può notare nel concorso per il Chicago Tribune (1922). Nel bando era forte l’invito a porre attenzione sugli aspetti formali per creare un prototipo per la “rivalutazione estetica” delle città americane. Forse in modo provocatorio Adolf Loos propose di edificare l’intero grattacielo come una colonna dorica gigantesca. Il progetto di Taut rastremato verso l’alto era ancora debitore al suo periodo espressionista dei padiglioni in acciaio e vetro, ma soprattutto affine alle torri di vetro di Mies. Interessante era il progetto di Gropius, asimmetrico per rispondere alla vista privilegiata di ¾ dell’edificio, basato su un telaio rettangolare con variazioni di aggetti e profondità dei balconi e delle distanze delle campate, forse sarebbe stato la realizzazione di un compromesso tra la Chicago School e il Bauhaus. Il concorso fu vinto da Hood e Howells con un edificio dallo schema tripartito alla Sullivan ma con un linguaggio neogotico di pietra, sovrapposto ad un telaio, ma comunque slanciato verticalmente grazie ai pilastri gotici e agli ordini classici. Forse fu la conseguenza di un sentimento romantico, o di alcune implicazioni morali, per gli europei fu certamente sintomo di una volontà reazionaria. Il progetto secondo classificato di Eliel Saarinen fu quello che ebbe più influenza sugli sviluppi successivi dei grattacieli (molto apprezzato anche da Sullivan). Le forze che spingevano per la nascita degli edifici tendevano a distruggere la strada e il suolo intesi come spazio sociali e storico preesistente. Anche Hood lentamente astrasse il proprio linguaggio, un esempio è il Radiator Building a New York, o il Mc-Graw-Hill Building (citazione del Movimento Moderno), dove egli dimostrava di non procedere per forme tipo ma per applicazione di motivi architettonici. Successivamente il Daily News Building, forse influenzato dal Saarinen del Chicago Tribune, fu l’occasione per mettere alla prova l’esasperazione della verticalità e della globalità del Grattacielo (atrio). Questa fase progettuale americana “Art Decò” o “Jazz Modern” era caratterizzata da una teatrale esplicitazione del Consumismo. Il simbolo degli “anni ruggenti” è sicuramente il Chrysler Building di William Van Alen (1930), 259 mt culminanti con una raggiera in acciaio inossidabile con finestre smerlate e sormontata da una guglia. Importante per la sua “pelle”, più che per la pianta di impostazione Beaux-Arts: essa riportava decorazioni ispirate all’automobile, alla ditta e all’America (l’aquila). Facile definirla “cattedrale del capitalismo” realizzazione del sogno americano. Negli ultimi anni Sullivan perde ogni speranza nella possibilità di un’autentica architettura americana, Le Corbusier la vede invece come l’era “delle nuove cattedrali” e pur deplorandone il risultato estetico ne celebra lo spirito. Hugh Ferris in “The Metropolis of tomorrow” del 1929 tentò di trovare un soddisfacente risultato estetico al grattacielo, una soluzione alla limitante legge sullo zoning del 1916), con il suo carboncino egli disegnò la sua Manhattan-Babilonia, città ideale in cerca di spiritualità. Dopo il 1929 i grattacieli più rilevanti furono l’Empire State, il Rockfeller e il Radio City, quest’ultimo con un tentativo di inglobare e non “bruciare” gli spazi più prossimi alla base del grattacielo. Anche Wright entrò nel dibattito con il suo progetto per il National Life Insurance Building: egli immaginò una serie di piani orizzontali compenetrati, alcuni a sbalzo retti dai pilastri, corpi stretti per migliore illuminazione, facciate rivestite in griglie di rame per dare l’idea di una “pelle vibrante” dall’esterno e di schermature dall’interno. Nel grattacielo St.Mark’s in the Bouwerie la metafora dell’albero si nutriva di nuova linfa, l’impostazione era una rotazione a raggiera dei piani intorno ad un nucleo centrale. Il Wright degli anni 20 è segnato da eventi familiari ed economici disastrosi. A Taliesin egli potè sperimentare liberamente le sue teorie architettoniche e paesaggistiche. L’attenzione si spostava maggiormente sulla natura e sullo sconfinato paesaggio del continente americano, nutrendosi dei miti precolombiani: è il periodo dei progetti califroniani per Los Angeles. La Hollyhock house è sintomatica del nuovo orientamento di Wright, che sempre a partire dalle sue sicurezze compositive in pianta, si esprimeva con elementi diversi come le forme massicce in calcestruzzo (anche se qui era solo di rivestimento) e i tetti a terrazza. La casa alto-borghese californiana doveva essere del tutto autonoma dalla città, a differenza della Prairie House. Le tematiche qui erano molteplici: dal paesaggio alla villa-teatro, alla Hollywood di quegli anni e inoltre riportava alla mente di Wright il suo fascino giovanile per l’architettura delle civiltà precolombiane. Da Wright passarono due architetti di origine austriaca, che avevano subito l’influenza di Otto Wagner, della Secessione e di Loos. acciaio e vetro, la massima razionalizzazione dei trasporti e infine l’eliminazione della strada con il sollevamento degli edifici sui pilotis. Il successivo Plan Voisin del ’25 cercava di mediare tra utopia di stampo saintsimoniano e realtà. Ma come gli altri tentativi, parve un assemblaggio di molte teorie urbanistiche che avevano convinto Le Corbusier, oppure il tentativo di conciliare diverse visioni nell’ottica di un’Utopia universale. Egli davvero intendeva essere artefice del futuro della società e della città. In seguito egli tornò sul tema con la Ville Radieuse, studiando diverse tipologie di residenze standardizzate, a redènt o a corte (immeuble) influenzato dalla tipologia del Monastero (come quello dei Certosini di Ema), che lo influenzò sempre nelle sue riflessioni sull’abitare collettivo. Le Corbusier non si separò mai dallo spirito di queste visioni, neanche nelle sue singole produzioni. I progetti tedeschi di Wagner, May, Taut e gli altri furono forse ispirati dagli interventi di Oud a Rotterdam del 1918 (all’età di 28 anni) a loro volta sulla scia di Berlage. Solo dopo egli si separò dal maestro con le abitazioni a Hoek Van Holland, e con le residenze Kiefhoek, nonostante non fosse facile trapiantare lo spazio De Stijl su scala più grande, egli riuscì a trattare la residenza a schiera in modo efficace e pertinente, ma forse non “standardizzabile” e non ascrivibile ad altre condizioni territoriali. Nel 1930 Lissitzki scrive che la “Città Nuova” e l’evoluzione sociale portano “all’eliminazione della vecchia dicotomia campagna-città”, quest’ultima anzi cerca di attirare la natura nel suo centro e “attraverso l’industrializzazione introdurre un livello più alto di cultura nella campagna”. Da una parte il progetto di Zelenko e Sabsovich, simile al Falansterio di Fourier, prevedeva abitazioni comuni collocate a 4 km di distanza, dall’altra Ginzburg e Barsch pensavano ad una “Mosca Verde” con un cuore destinato ad attività culturali e ricreative e delle città lineari disposte radialmente e formate da abitazioni di legno mobili collegate al centro da una linea ferroviaria. Una linea ancora più anarchica e sostenitrice della frammentazione era quella di Miljutin che intendeva una citta lineare in parallelo con l’industria e i trasporti e separata da esse da una striscia verde. Oltre i palliativi degli anni 30 di Le Corbusier (Ville Radieuse) e Wright (Broadacre City), è interessante l’analisi della Vienna degli anni 20: sotto il governo del socialdemocratico Otto Bauer si tentò una soluzione alle condizioni abitative insalubri e sovraffollate. Seguendo la linea di Peter Behrens si costruì dei super blocchi mastodontici con servizi igienici comuni noti come “Hof”, a densità altissima, questi finirono col diventare “fortezze operaie”, focolai di lotte sociali. Il primo CIAM (cui parteciparono anche Gropius e Le Corbusier) del 1928 cercava di riportare l’architettura “nel suo reale contesto, economico, sociologico, al servizio dell’umanità” e la pianificazione urbana al suo scopo di progettare luoghi differenti per lo sviluppo della vita materiale, emotiva e spirituale, sia in campagna che in città. Nel 1929 al secondo incontro si discusse sull’abitazione “minima”; nel 1930 Gropius presentò i suoi studi sull’inclinazione della luce e il rapporto edificabile e altri discussero della difficile attuazione politica; nel 1933 a bordo della SS. Patris si svolse il CIAM che fu in seguito denominato “Carta di Atene”, dove si riportavano alla luce i problemi della città moderna e dei principi di pianificazione. La città ideale era tuttavia destinata a rimanere sulla carta per via della prevalenza dell’interesso privato su quello pubblico e per l’assenza di autorità statali e politiche favorevoli alla causa. Cap XV – L’International Style, il talento individuale e il mito del funzionalismo In un modo un po’ impreciso, anche se comprensibile, Hitchcock e Johnson cercarono di presentare l’International Style come un comune linguaggio formale, assegnandogli oltretutto un’assoluta importanza storica al livello dei grandi stili del passato. Il pratico, il particolare e il personale furono tralasciati. Le principali innovazioni poggiavano su una riorganizzazione delle strutture spaziali e concettuali dell’architettura. Il 1927 fu un anno cruciale per l’architettura mondiale, fu l’anno del concorso per il Palazzo della Lega delle Nazioni e per la Weissenhofsiedlung di Stoccarda oltre che di alcuni capolavori dell’Architettura come Villa Stein e il Bauhaus. A Stoccarda le differenze tra Scharoun, Le Corbusier e Mies erano intenzionali ma anche funzionali e dimensionali. La questione andava ben oltre lo stile. Sebbene queste forme si basassero evidentemente sulle necessità funzionali, sebbene si potessero collegare alle nude realtà della costruzione in acciaio e cemento armato, il pragmatico veniva trasceso, idealizzato, gli veniva conferita una presenza espressiva poetica. Il legame tra volumi sospesi, assenza di peso e solaio in cemento armato è fondamentale nell’International Style perché permette infinite applicazioni. Nel concorso per la Lega delle Nazioni è interessante, come propone Frampton, paragonare Le Corbusier e Hannes Meyer, come un confronto tra “umanisti e funzionalisti”. Le Corbusier, criticato per il suo utopismo e per il suo interesse per il passato, non mancò di replicare sostenendo che le aspirazioni più profonde dell’uomo trascendono le categorie di destra e sinistra. Egli celebrava qui un’umanità razionale e illuminata, non in modo monumentale né funzionale. Eppure entrambi erano posti sotto la stessa etichetta di “International Style”. Gli architetti della “Nuova Oggetività” si distanziavano esplicitamente dai “tradizionalisti” e dai moderni dediti al lirismo personale, e condannavano ugualmente il Municipio di Stoccolma, la Stazione di Stoccarda e la Casa De Stijl, cancellandoli dalla Rivista “ABC” del 1926. Così l’etichetta “International Style” rischia di ignorare differenze programmatiche e di intenzione. È interessante notare la differenza di visioni della sfera privata veicolata dagli interni: Le Corbusier sfruttava i contrasti tra muri piani monocolore e oggetti industriali, o geometrici tappeti berberi molto colorati. Anche alcuni suoi progetti di mobili in acciaio tubolare (bicicletta) e la chaise-longue si armonizzavano con la pianta libera. Eileen Gray sviluppò una raffinata estetica fatta di mescolanze e sovrapposizioni di rifiniture esotiche, popolari e industriali. Il rischio che qui si correva con la definizione di Stile era quello di fornire ad alcuni meno ispirati architetti la possibilità di applicare il Moderno come una ricetta tout-court (es. Willem Dudok). Altri funzionalisti intransigenti ne criticavano o proprio ignoravano l’aspetto estetico (es. Richard Fuller, “Dymaxion House”) in modo poco pertinente, poiché bisogna ricordare che la novità del Moderno sta proprio nel potere estetico dei nuovi elementi edilizi. Di nuovo bisogna ricordare che le funzioni da sole non generano forme (es. Toro di Picasso). Schindler criticò l’atteggiamento di Johnson e Hitchcock, troppo attenti allo Stile e alla forma, affermando che la sua opera “si confronta con un problema architettonico ogni volta diverso”. Così anche altre opere altrettanto vitali e moderne non rientravano nella mostra: la Maison de Verre di Chareu e Bijovet unisce ai temi meccanicisti una profondità di esperienze tattili e visive del vetro, della pietra, dell’acciaio e della luce, che innalzano l’attività dell’abitare. Il paradosso dei capolavori d’arte è quello di annunciare nuove visioni, richiamando i valori dei momenti più gloriosi e classici del passato, per questo non sono catalogabili sotto uno stile, perché “il tempo che sostiene un’opera d’arte non definisce né il suo principio né la sua forma specifica” (W.Benjamin), osservazione particolarmente pertinente a Ville Savoye (1931) e al Padiglione tedesco di Mies van Der Rohe del 1929. Cap XVIII – Natura e macchina: Mies, Wright, Le Corbusier negli Anni 30 Negli anni 30 il Moderno divenne una “moda”, un accademismo, si tentava di costruire una “tradizione del nuovo”, ma non tutti erano in grado di operare le sintesi architettoniche con le stesse capacità poetiche e intellettuali dei maestri, il che facilmente portava risultati scadenti. Contemporaneamente si assistette alla diaspora dei Moderni, repressi dai regimi totalitari e quindi emigrati in altri paesi che accolsero le nuove istanze in modo molto diverso gli uni dagli altri. L’adattabilità dell’architettura moderna era grande, essa portava con sé degli elementi base necessari, ma apriva alle più disparate aggiunte e variazioni formali, che rendono l’architettura degli anni 30 incatalogabile. Il clima di tensione forse suggerì un ripiegamento sulla “natura”, come palliativo e come fonte di integrità morale. L’opera dei maestri si trovava ad un punto di svolta: Mies dopo il Padiglione di Barcellona continuò adottando simmetria e assialità per gli edifici civici e asimmetria e fluidità per quelli residenziali, nel 1930 Monumento ai caduti e Casa Tugendhat (debito verso Schinkel). Quest’ultima era la combinazione di una lussuosa idea di macchinismo e di un senso di nobiltà classica, in piena comunanza con la committenza che voleva “lucentezza, ariosità e trasparenza”. Era in qualche modo anch’essa la celebrazione dell’industrialismo. Ad un’idea moderna di spazio era conferito un senso di gerarchia e di evento, le abituali pareti piane qui erano integrate da elementi curvilinei propri di una “pianta libera” (che dimostrano la sua conoscenza di Le Corbusier). Nel giardino d’inverno visto dall’interno egli ricercava dichiaratamente di suscitare un’impressione bizzarra del reale, attraverso i vetri oscurati e i riflessi marmorei delle superfici, e in seguito continuò a sperimentare schemi simili, nell’intenzione, di primaria importanza, di coniugare “Natura, uomo e architettura in un’Unità più elevata”. Compromessa ormai la sua posizione politica e sociale con l’avvento del nazismo Mies si trasferisce a Chicago, accolto da Wright. Gli anni 30 sono un periodo di rinascita per Wright, la ritrovata stabilità economica e sentimentale (terza moglie), fanno rifiorire la sua architettura, rispetto al periodo “hollywoodiano”. Il primo dei capolavori che mostrò al mondo la sua inesaurita verve architettonica fu la “Casa sulla cascata” per il milionario Edgar Kaufmann. Qui ripropose l’elemento delle mensole di cemento a sbalzo su uno strapiombo. La protezione era garantita dagli aggetti più che da vere e proprie partizioni. La casa per il weekend era di pietra locale grezza e liscio calcestruzzo in contrasto, nel complesso era come un manifesto della concezione wrightiana del rapporto architettura-natura. Come sostiene il figlio del committente essa è “come una grotta profonda, sicura….nessun atrio stabilisce il tono della casa, ma questa è assolta dalle luminose trame dei boschi…”. In questo progetto erroneamente qualcuno ha visto un’influenza del Movimento Moderno, basandosi esclusivamente su giudizi formali e stilistici, in realtà qui si riscontra l’influenza del Wright di Taliesin e del mito americano della vita nella natura, anzi Wright stesso prese le distanze dal Movimento Moderno, criticandolo aspramente e di contro affermando il proprio organicismo-panteismo, riscontrando le qualità di ogni venatura della pietra e di ogni foglia degli alberi. In tale contesto “primitivo” e naturale, le lisce mensole a sbalzo moderne sembrano esse stesse emergere come falde rocciose. L’altro capolavoro di Wright del periodo furono gli Uffici Johnson Wax, forse anticipati dai modelli di uffici della Broadarce City. Egli disprezzava il tipo diffuso di uffici anche dal punto di vista morale, a quello oppose un “mondo subacqueo” caldo, elegante e luminoso che suggeriva autorità senza essere austero. La luce zenitale soffusa e i pilastri “a fungo” conferiscono un’aura sacra all’interno che stride invece con l’austerità percepibile dall’esterno. Tutto il complesso è un agglomerato di diverse architetture per funzione ed espressione. Torre laboratori, ziggurat arrotondate per gli uffici dirigenziali, parallelepipedo per gli uffici. Forse nell’immaginario di Wright veleggiavano i prototipi delle sale ipostile egizie, dei papiri e dei fiori di loto, oppure la “Grammatica dell’Ornamento di Owen Jones” che indagava sui paralleli formali tra le piante e le strutture architettoniche. L’edificio confermò anche che le conoscenze ingegneristiche di Wright erano all’altezza delle sue ambizioni architettoniche. Il laboratorio a torre fu l’occasione per Wright di realizzare in pieno la sua metafora dell’albero, con il tronco centrale e i solai a sbalzo con balconi intermedi come “rami”. La Broadacre City (’35) opponeva alla società meccanizzata una democrazia rurale, fondata sull’abitazione unifamiliare annessa ad un piccolo appezzamento di terreno. La decentralizzazione avrebbe liberato gli uomini dalla tirannia del capitalismo rendendo ognuno un piccolo proprietario agricolo (sul modello di Jefferson), potendo godere dei benefici della scienza. Egli considerava “l’artista creativo come interprete naturale della forma di qualsiasi ordine sociale” quasi un vate. Egli delineò una vera e propria società nuova in tutto e per tutto (anche una nuova religione) con unità di un acro come base modulare, ma con mercati cooperativi, teatri e centri “comunitari” come i “design centers”. Sosteneva che questa soluzione non guardasse all’indietro, né fuggisse, ma fosse una risposta giusta all’urbanizzazione, la combinazione perfetta di una cultura scientifica con “nuove forme libere…per la sistemazione della vita”. La casa “Usonian” incarnava perfettamente questo spirito, anche di rivalsa nei confronti della Depressione: funzionale, prefabbricata, non più formale come la villa borghese del primo novecento. Un esperimento di Usonian House fu tentato nella Jacob First Residence del 1937 nel Wisconsin, e riuscì al punto che negli anni successivi gliene commissionarono a decine. Egli aveva colto lo spirito della nuova classe media emergente, pubblicato per questo su riviste e cataloghi per case economiche e molto imitato, anche se non con gli stessi risultati. Nel 1938 egli costruì Taliesin West nel deserto dell’Arizona, una residenza “utopica” dove la comunità avrebbe trascorso l’inverno. Architettonicamente l’edificio si può delineare come l’incrocio di due archetipi di residenza del deserto: la pit-house seminterrata e la tenda nomade. Il risultato è un edificio molto attaccato al suolo e mimetico. Ci sono richiami ai cactus e alle vette delle montagne distanti, nonché alle gole scavate dall’acqua nei canyons. La geometria della pianta ricorda un disegno navaho. Wright era molto affascinato dalla visione mitopoietica dei fenomeni naturali e incuriosito dall’idea che le più antiche costruzioni potessero rifarsi ai vasi, elevando l’idea di “spazio interno”. Egli forse si vedeva come il capo-sciamano della tribù. Il panteismo e la visione cosmica, oltre che tutte le esperienze architettoniche rientrano nella celebrazione del paesaggio americano che il maestro compie in quest’opera, che divenne in seguito a sua volta progenitrice di altre degli anni 30-40. Negli anni ’30 Le Corbusier si trovava sulla cresta dell’onda, famoso in tutto il mondo e auto- insignitosi di una missione “cosmica” o quasi “biblica” di forgiare la nuova civiltà della macchina, il cui emblema è la Ville Radieuse. La Ville Savoye era ormai classificata come un classico del “periodo eroico” dell’architettura moderna, ma apriva per lui il problema di come “non imitare se stesso”. Il tema della “scatola su pali” doveva essere arricchito di nuova linfa per rispondere a temi più complessi (es. Palazzo dei Soviet, Citè dei Refuge). Durante gli anni 30 egli andò “cercando gli uomini primitivi” per la loro saggezza di rispondere a determinati climi. Si entra qui in un nuovo rapporto tra l’organico e il meccanico. Egli era attratto da Picasso, Mirò, dal Surrealismo, dalle forme di “objet trouvè” naturali. Alcune sue realizzazioni del periodo dimostrano un ritorno al “rustico”: La Maison de Mandrot (’32) dove cerca un compromesso tra telaio in acciaio e muratura, La Maison Errazuris in Cile, La casa a Mathes (’35), tutte sintomatiche del suo rinnovato interesse vernacolare. La Petit Maison de Weekend (’35) a La Celle St Cloud si basava sull’altro prototipo di abitazione modulare che aveva elaborato, la Maison Monol In Italia la situazione era molto complessa. Certamente Mussolini si servì di Marcello Piacentina per realizzare i miti di una “Nuova Roma” e di “sogno mediterraneo”, poiché il Movimento Moderno si era affermato con ritardo rispetto al contesto europeo, esso non poteva essere identificato con l’ideologia socialista, oltretutto il moderno in Italia attenuò molto la sua componente “industriale e meccanica” dando invece rilievo ai richiami classici. Il linguaggio moderno italiano andava dal retorico dell’EUR e dell’Università di Roma all’orizzontalità-dinamica e all’astrattismo del Gruppo 7, dotato di particolare coscienza storica e cultura. Solo dopo il ’28 si può parlare di Moderno in Italia, soprattutto nelle città industriali di Milano e Torino. La più salente figura del panorama italiano fu Giuseppe Terragni (nato a Como nel 1904). Egli ammirava molto Le Corbusier e in modo simile si approcciava al progetto, cercando di astrarre elementi classici da esprimere con un linguaggio e una struttura moderni. La Casa del Fascio del 1936 è emblematica: la facciata a telaio, dal disegno severo e lineare, ha un effetto senza dubbio monumentale classico su presupposti spaziali moderni. I richiami sono più rinascimentali che meccanici, ma comunque realizzano un configurazione “trasparente e celebrativa” senza porre separazioni tra “la gerarchia politica e il popolo”. La casa sviluppa un concetto simile a quello lecorbuseriano di “una maison, un palais” e cristallizza e idealizza una condizione sociale e storica al punto che il “monumento trasparente” venne apprezzata anche da chi ripugnava il Fascismo. Si apre con Terragni e Aalto nello stesso periodo, la nuova via del Movimento Moderno. Nel biennio 36-37 lavorò sul progetto per Casa Rustici a Milano e per l’Asilo Sant’Elia a Como. In generale Terragni utilizzò tipi tradizionali ma li rinvigorì invertendo gli usuali rapporti di carico, di massa e trasparenza, di pieno e vuoto e introducendo sapienti asimmetrie, rotazioni e spostamenti. Forse intendeva giocare con le ambiguità percettive come faceva nei suoi dipinti, il suo grande amico Mario Radice. Terragni andò ancora oltre nel progetto per Palazzo Littorio a Roma del 1934, adiacente alla Basilica di Massenzio e dirimpettaio del Colosseo. Egli pensò ad una facciata curva larga più di 80 metri, sollevata sopra il suolo e rivestita di porfido nero, squarciata da una tribuna dalla quale Mussolini si sarebbe potuto affacciare stagliandosi contro il cielo. La superficie della facciata doveva smaterializzarsi per mezzo della luce e recare incise linee di tensione isostatiche (diagrammi): l’iconografia univa così la scienza strutturale ad una metafora vagamente geologica di Impero in espansione (porfido egiziano). Nei suoi grafici di elaborazione che accompagnavano il progetto egli faceva esplicito riferimento al Foro Romano e al Partenone, forse egli aveva sposato la visione fascista della “civiltà mediterranea”, certamente per lui poetica e politica non erano separabili. Altri suoi progetti furono quello del 1937 per il Palazzo dei Congressi con Cesare Cattaneo, sempre giocato sulle trasparenze e sul ritmo sincopato dei pilastri monumentali, basandosi però su un’intelaiatura classica tripartita. Le ricerche sintattiche di Terragni, per quanto cariche di spirito locale, palesano qui una più universale volontà di sintesi tra moderno e classico. Negli anni Trenta anche Terragni cercò di tornare alle origini archetipiche dell’architettura: nel 1938 progetta il Danteum, prima di rimanere ucciso in guerra, una trasposizione in Architettura della Divina Commedia, intrisa di teatralità, di simbolismo numerologico e biblico ma anche di spirito classico, fondato su elementi archetipici come cilindri e parallelepipedi, tipi istituzionali fondamentali di palazzi e templi. L’edificio fondeva sapientemente fonti egizie, pittura moderna e schema costruttivo romano, e venne subito considerato un microcosmo dell’Impero del Duce. Nonostante non fu mai realizzato esso va annoverato di diritto fra le idee più acute e complesse che si inscrivono nella tradizione del Movimento Moderno. La domanda se l’architetto fosse riuscito a trovare una via altrettanto valida se fosse nato sotto il mecenatismo nazista invece che fascista è valida. Certamente Terragni rompe il filone della critica che vedeva il moderno come l’espressione di ideologie liberali. Cap XXII – Architettura moderna negli USA: immigrazione e consolidamento La Seconda Guerra mondiale ha avuto effetti disastrosi fisici, sociali, economici e culturali, ma in Architettura, sebbene si fosse esaurito lo spirito del “Brave New World” del primo dopoguerra, si poteva continuare la tradizione perché come sostiene Sigfried Giedion “non c’è più bisogno di distruggere ciò che è stato realizzato dalla generazione precedente ma di espanderlo”. L’Architettura Moderna emergeva ormai da ogni parte del mondo, a volte imbastardita o stereotipata, ma comunque essa venne assorbita. Lo studioso William Jordy descrive questa fase come “l’addomesticamento del Moderno”, intendendo quella perdita di spirito polemico e sociale che il Movimento Moderno aveva da sempre posto come sua linea guida. Gropius venne invitato nel 1937 a dirigere il Dipartimento di Architettura di Harvard, la casa che costruì per se’ e sua moglie è sintomatica del suo tentativo di dare un tocco regionale al suo stile. Anche Breuer, che lo seguì, diede prova di un “rilassamento” con la sua residenza dal tocco un po’ rustico, con il muro in pietra grezza locale. Essi riuscirono ad estirpare l’insegnamento e la sensibilità beaux-arts e inserire il Moderno ma ciò fu possibile, perché in parte il gusto era già cambiato con Neutra, Schindler e Hitchcock-Johnson. La “contaminazione” divenne ufficiale nel 48’ con la realizzazione del nuovo complesso per il Graduate Center di Harvard, dello studio TAC (Gropius), mentre la Baker House di Aalto dello stesso anno, per il MIT apriva già la strada al futuro. Il Gropius “americano” era un maestro in fase di declino, forse anche dovuta alla “commercializzazione” delle forme del moderno. Nel corso degli anni 40 ci furono delle vere tendenze vitali nell’architettura, emergeva Louis Khan, continuavano Neutra, che perseguiva la sua architettura “della salute” attraverso vetro, acciaio e illuminazione, e Schindler. Nella Desert House del 1946 Neutra esprime al meglio l’azione della natura sulla mente e sul corpo umano, con una costruzione minimalista che si apre sul paesaggio desertico. Eero Saarinen, si affermò nel 1947 con il Jefferson National Expansion Memorial, un monumento fuori scala che unendo le idee di arco trionfale e tecnologia aereonautica, si poneva come metafora gigantesca del ponte tra est e ovest degli States. Il secondo progetto fu il General Motors’ Technical Center del 1950, una suggestione un po’ miesiana ma dall’impostazione molto americana. Egli poi andò perseguendo un proprio personale organicismo come nel J.F.Kennedy del ’62. L’adattamento di Mies a Chicago fu facile e veloce, forse dovuto alla sua già sviluppata abilità con il telaio d’acciaio. Dal 1939 al 1956 riprogettò il Campus dell’IIT, un misto di astrazione industrializzata e assialità neoclassica tipica dei suoi anni 20. L’ulteriore rivestimento in acciaio che fu necessario inserire per motivi di protezione antincendio diede spunto a Mies per definire un dettaglio angolare squisito (elogiato come un quadro di Mondrian): l’arretrato nucleo in acciaio infatti traspariva in una rientranza che comprendeva un rivestimento in acciaio su uno strato di cemento ignifugo. L’edificio di testa era la Crown Hall (1956), uno spazio ampio e ininterrotto che intendeva realizzare la totalità delle funzioni umane. Il tetto piano era sospeso mediante delle grosse travature “a ponte” e l’orditura secondaria era fatta di pilastri e travi con sezione a “I”. Questo dettaglio insieme agli elementi orizzontali sospesi, contribuì a dare una sensazione di leggerezza all’insieme, qui la semplicità era il risultato di una perfetta astrazione che solo lui era in grado di compiere. trovò modo di realizzarsi in singole dimostrazioni come l’Unitè di Marsiglia. Egli, che aveva compreso profondamento lo spirito degli anni 20 e 30, forse era ora troppo estraneo al “nuovo mondo postbellico”, così abbandonò gradualmente la spinta progressista- moderna e meccanica in favore di una riconciliazione con la natura e con i suoi simboli. Paradigmatica è Notre Dame du Haut a Ronchamp (’54), una vera e propria scultura per forma e plasticità. Le Corbusier riuscì perfettamente a percepire lo spirito del luogo, meta di pellegrinaggio dall’epoca paleo-cristiana. Essa fu uno choc, per chi lo vedeva come un “razionalista”, e per chi lo vedeva come un manierista, certamente fu chiaro a tutti che il maestro aveva cambiato direzione. Egli non era religioso, ma profondamente idealista e spiritualista. Non si servì di alcuna retorica biblica o ecclesiastica, solo di forma, luce e spazio per evocare religiosità. Il committente, l’abate Couturier, favorì la sua libera espressione, perché egli aveva “conosciuto il miracolo dello spazio inesprimibile, l’apoteosi dell’emozione plastica”. Molti influssi sono sicuramente panteisti e primitivisti (dolmen, edifici magrebini, villa adriana ecc…). La Tourrette, convento domenicano vicino a Lione, fu costruito nel ’57 su commessa dello stesso Couturier. Qui fu certamente ispirato dal monastero Le Thoronet (indicatogli dallo stesso abate come esempio) e da quello dei certosini di Ema. Egli era già molto informato e allenato da anni di ricerche sulla tipologia della residenza collettiva che intendeva realizzare. Le aree private vennero messe sul coronamento a sbalzo, con il miglior affaccio possibile, quelle comuni ai livelli inferiori, quelli pubblici vicino all’ingresso. La chiesa principale si trovava su di un livello ancora inferiore ma ripiegata verso l’interno e dotata di uno spazio a tripla altezza. Il cemento ben rispondeva alla necessità di “povertà totale” e tutta la composizione era animata da una ben congeniata ritualità, intensificata dall’architettura e dal suo rapporto con la natura. Le Corbusier si espresse anche in modo molto poetico: “cannoni di luce” strombature cilindriche, illuminavano la cappella laterale, il muro esterno settentrionale della chiesa, completamente cieco, era “una diga che trattiene un serbatoio di energia spirituale”. La composizione suggeriva un percorso a spirale di tipo iniziatico, che gradualmente conduce dal mondo laico a quello della comunità interna, fino alla chiesa e alla cappella. Il tema della “scatola su sostegni” viene smembrato e riorganizzato in una specie di collage. Gli elementi architettonici si erano arricchiti, di “ondulatoire” (montanti in cemento ritmicamente disposti secondo il Modulor), di “aerateur” cioè pannelli verticali di ventilazione inseriti nella membrana della finestratura. La Tourette cerca una via d’uscita dalle limitazioni dell’International Style. La Maison Jaoul del 54’, che divenne prototipo del brutalismo, con il suo cemento grezzo, le sue volte catalane, i suoi muri in mattoni, sorgeva non lontana dalle Maison Cook e Stein, venne definita da Stirling come esempio della nuova forza polemica dell’architettura, quella di “un progresso sociale più confortevole e meno stimolante”. La Casa Sarabhai e la Villa Shodhan ad Ahmedabad, diventarono nuovi tentativi di Le Corbusier di realizzare la promessa di armonia naturale tradita dalla “prima età della macchina”. La prima era costruita su una variante del tipo Monol con volte ribassate e orientata a catturare i venti prevalenti, con dei pilastri in facciata che fungevano da brise- soleil e da portico. Il tetto verde, dotato di canali per l’acqua e inclinato, faceva defluire l’acqua monsonica in una vasca. Villa Shodhan era invece erede della Maison Citrohan, ma rifletteva sul tema del brise-soleil per creare una composizione ordinata e dinamica, un percorso ascensionale e un’abitazione attraversata dalle brezze. Ragionamenti simili vennero sviluppati nell’edificio della Millowners’Association. L’ultimo grande progetto di Le Corbusier, che lo tenne occupato fino alla morte nel 1965 fu la nuova città di Chandigarh (capitale del Punjub dopo la fondazione del Pakistan che aveva annesso la parte occidentale della regione con la ex-capitale Lahore). La griglia si impostava sulla “gerarchia di circolazione”, che suddividevano l’impianto in una sorta di città-giardino, diverse tipologie abitative per climi caldi vennero studiate anche dal cugino di Le Corbusier. Il cuore “civico” pulsante si trovava nel centro della griglia. Il piano era animato da tutti i principi lecorbuseriani: distinzione delle funzioni, distribuzione di luce, spazio e aree verdi, razionalizzazione e polis di tecnocrati. La forma era una variante della Ville Radieuse priva dei grattacieli ma con monumenti scultorei liberi nello spazio e un’impostazione a Boulevard, che riprendeva le monumentali Parigi, Pechino e New Delhi (di Lutyens). Di quest’ultima ammirava il modo in cui questa fondesse cultura europea e indiana in un’iconografia di magnificenza civile. Egli dedicò molta attenzione al Campidoglio. Qui elementi della tradizione classica come il loggiato, il portico, l’ordine gigante si fondevano con il cemento di Le Corbusier e con elementi indiani come il “chattri”, le terrazze trabeate, i balconi e altri dispositivi studiati dal maestro. Tutto era inoltre permeato da temi cosmologici e da simbolismi cari all’architetto: l’acqua, il percorso del sole al solstizio e all’equinozio, la “Valle della Contemplazione”. Lo stesso complesso del Campidoglio era messo in tensione con i picchi dell’Himalaya. I tetti erano concepiti per essere luoghi d’incontro, e il coronamento del Palazzo del Governatore ospitava una mezzaluna simbolo politico e cosmico dalle molteplici interpretazioni. Il monumento della Mano Aperta (simile alla colomba di Picasso) affermava “che la seconda era della civiltà macchinista è iniziata; l’era dell’armonia…”. L’Alta Corte era in linea con le altre forme primordiali del sito, essa sembrava sintetizzare i primi schizzi di rovine romane di Le Corbusier con il tipo indiano del Diwan-I-Am-Mogul, cioè la sala per le assemblee pubbliche, con i fianchi aperti e i tetti aggettanti. Il tema del parasole era qui svolto su scala gigante, come un porticato monumentale al di sotto del quale stanno le aule, come una serie di blocchi del tipo Monol ombreggiati da brise- soleil. La teoria di blocchi è spezzata da tre pilastri di ordine gigante che segnalano l’entrata (pilotis su grande scala). Il Parlamento è anch’esso caricato di antichi significati e di simbolismo. Una grande scatola intersecata dagli immensi volumi dell’Assemblea, una “ciminiera di nave”, e del Senato una “piramide inclinata”. Il risultato di rovina, del cemento grezzo sotto il sole, era certamente voluto, infatti la sensazione finale è che gli edifici si trovino li da secoli. Le facciate laterali erano segnate dalle profonde ombre delle finestre e dei brise-soleil, quella principale è un gesto di notevole formalismo e monumentalismo, con dei setti giganti a sostegno di tetto dal profilo concavo, il portone smaltato ha incisi dei diagrammi solari disegnati da LeCorbusier. L’interno è pervaso dalla penombra delle sale ipostile, dove pilastri a fungo s’innalzano fino al soffitto scuro, che lascia filtrare luce solo sui suoi margini. debitori a Le Corbusier, alla ricerca di “una diretta espressione dei modi di vita”. Denys Lasdun con “i blocchi a grappolo” (cluster) andò verso una nuova strada, un’immagine di comunità, in un linguaggio debitore a Lubetkin egli intendeva comunque ricreare in quota alcune delle caratteristiche locali, non più tetri tunnel-corridoio, ma luoghi comunitari come lavanderie e cortili. Le piante dalla conformazione “biologica” prendono notevolmente le distanze dalla Ville Radieuse. I quattro volumi autonomi erano connessi al volume della distribuzione verticale tramite ponti. Aldo Van Eyck affermò le necessità di ritornare alla condizione psicologica di rifugio, attuata in forma moderna, anche nel CIAM del 59’ dove dichiarò questo bisogno di riscoprire le “qualità arcaiche della natura umana”. Egli ebbe un approccio quasi mistico per le forme vernacolari (villaggi di fango Dogon dell’Africa tropicale) come espressioni viventi e coerenti di mitologie spirituali, che mancavano ora nella società industriale. Tuttavia forse si mosse troppo lontano dai valori della società industriale per poterla influenzare come pensava. Ci fu un generale ritorno all’urbanità, a Sitte, alla “strada-corridoio” che Le Corbusier intendeva distruggere: si passò al concetto di “architettura a maglia” totalmente opposto a quello dell’Unitè, si cercava cioè di ricreare quella complessità e interazione tra città e singolo edificio sul tipo della casbah. Un esempio fu l’Università di Urbino di Giancarlo De Carlo, un microcosmo che ben si prestava a tale sperimentazione, qui gli edifici furono disposti a ventaglio sulla collina per ottimizzare la vista e armonizzarsi con la morfologia collinare. La forma riprendeva le tendenze di Aalto ma anche le conformazioni comunali medievali. L’ambiente semichiuso eppure libero ben realizzava la nuova idea di vita riparata ma collettiva. Josep Lluìs Sert nelle sue Residenze per studenti sposati ad Harvard ancora si nutriva dell’immaginario dell’Unitè con le tre torri messe a sistema tramite un cortile. L’idea “domestica” viene qui conferita dalla smaterializzazione del telaio esterno, con lamelle regolabili e porte che rendevano l’edificio vivo e adatto alla dimensione umana. Lo schema si può leggere come un’estensione dei principi dell’Unitè: pochi tipi di appartamenti standardizzati, collegati, da strade pedonali elevate coperte e ponti, agli spazi esterni che gradualmente diventavano sempre più pubblici. L’edificio nel complesso è molto ricercato nei dettagli e nelle texture. Non si può condannare di certo l’Unitè per aver generato “ghetti verticali” in diverse parti del mondo, certamente il suo carisma iniziava a venire meno. Neave Brown nei Fleet Road Terrace a Londra del ’67 ben riuscì a mescolare nuovi e vecchi schemi urbani, unendo alta densità a edifici bassi, dalla tipica espressione londinese, combinati in una sezione concatenata di cemento armato, che prevedeva le automobili sotto le piattaforme e poi gli elementi tipici dell’abitazione londinese seriale: terrazze private, verde ai livelli superiori e facciate con gradini sopra un “pozzo di luce”. Senza retorica o manierismo il complesso risolveva molte delle questioni urbanistiche del dopo Unitè. L’intervento di Darbourne e Darke, più pittoresco, furono gli appartamenti a Lillington Garden del ’73, in cui le viste e il rapporto sulla chiesa gotica contigua definiscono diverse necessità. La strada ponte viene qui riproposta, anche se alberata, i piani superiori mantengono un senso di connessione con i cortili alberati, il traffico automobilistico è escluso. La standardizzazione di nuovo viene usata ma non per dare monotonia e unitarietà, bensì varietà. Forse si può leggere l’edificio come una versione inglesizzata dell’Unitè, un progetto socialmente responsabile in pieno spirito Welfare State. Il progetto Unitè fu trascinato dalla sua posizione eroico-utopica del mito mediterraneo e costretto a fondersi col disordine della società postbellica, dando esiti “sviliti” e di poca qualità. La formula universale di Le Corbusier è svanita nel tempo, nata in un’epoca di speranze e sogni, morta in una di cinismo e cautela. Cap XXV – Alvar Aalto e gli sviluppi scandinavi Aalto s’inquadra nella tendenza postbellica di amalgamare l’architettura moderna con le tradizioni nazionali e regionali. Il vernacolare rievocava un mondo intatto, preindustriale, in cui uomini e natura convivevano in armonia, significavano anche adattamento al clima, argomento di vitale interesse nell’International Style. Giedion battezzò come “nuovo regionalismo” l’idea di incrociare principi costruttivi indigeni con linguaggi moderni, che significava ingenuità ricercata e maggiore attenzione per il “luogo”. In Finlandia Alvar Aalto era il capostipite del “genio nordico”, facilitato dal minor impatto industriale. In Danimarca Arne Jacobsen riadattò il linguaggio di Mies in modo più congeniale alla natura umana. Non ci fu mai una “scuola aaltiana”, ma senza alcun dubbio egli era la stella polare dell’architettura scandinava. Per Aalto bisogna adottare una trattazione simile a quella dei “maestri” per la sua inimitabile opera. La prima commessa che ricevette dopo la guerra (a 47 anni) fu la Baker House del MIT, fra il campus e il fiume Charles. Il corpo sinuoso che ospitava gli alloggi aveva implicazioni pratiche, estetiche e simboliche. Creava varietà nelle stanze, apriva molteplici viste e riprendeva l’andamento del fiume, definendo un enclave su uno dei lati del campus. Le parti collettive erano racchiuse in forme rettangolari e disposte al piano terra su un asse diagonale. Il contrasto di geometria era poi evidenziato da un contrasto materico tra le coperture: cemento rivestito di pietra nella zona soggiorno-pranzo e mattoni nella serpentina. Certamente Aalto si era ispirato alle case bostoniane in mattoni, ma portava avanti allo stesso tempo la propria ricerca sulle forme antropomorfe e biomorfe: tra le varianti c’è un disegno dell’edificio ricoperto di vegetazione come una formazione geologica. Il mattone si opponeva anche ideologicamente al cemento evocando un immaginario più umano e duraturo. Egli portò sempre avanti la logica della frammentazione e della stratificazione irregolare, che generava cavedi e livelli diversi, una concezione più liberale e plurale, più democratica, ed era molto sensibile alla morfologia, alle inquadrature del paesaggio e alla natura circostante. Non era convinto dell’esistenza di tradizioni “alte” o “basse”, semplicemente credeva nei principi basilari e vernacolari, veicoli di ideali archetipici. Uno di questi archetipi era certamente il “cortile”, per lui diventa “insenatura” sperimentata a più riprese con la Villa Mairea o la “casa sperimentale” a Muuratsalo. I principi vernacolari di Aalto si palesano nell’elogio che egli fa della “casa careliana”, un tipo di aggregazione rurale di abitazioni, granai, recinti sparpagliati e indefiniti di una provincia della Finlandia orientale. Il Municipio di Saynatsalo del ’52 si basa su questi ideali biologici. Lo spazio centrale sorprendentemente era vuoto, punto focale dell’intera società locale. Intorno il complesso si disponeva con una certa varietà di finestrature sul prospetto esterno e di trattamento delle superfici. L’idea conferita alla fine dall’edificio è proprio quella di un conglomerato storico di edifici, sorto per caso, in rapporto col bosco, ma non pittoresco, perché tutto governato dal genio formale di Aalto. La Camera del Consiglio è un luogo severo tutto in mattoni a vista ma veramente democratico, illuminato di luce naturale dall’alto, forse riferito al tipo della sauna o della sala consiliare ellenica. A Milano Ignazio Gardella progettò, dopo il Dispensario antitubercolare di Alessandria del ’36, l’Edificio residenziale per gli impiegati della Borsalino nel 1952, ma anche il PAC. Luigi Figini e Gino Pollini, membri del Gruppo 7, svilupparono il precetto razionalista della poesia- strutturale nella Chiesa della Madonna dei poveri del 1956, estetica di povertà analoga a quella di Le Corbusier dello stesso periodo. La doppia anima italiana del periodo è ben rappresentata dalla Torre Velasca del 1958 e dal Grattacielo Pirelli solo di 3 anni successivo. La Velasca suscitò aspre critiche, anche da Banham che invece apprezzava notevolmente altri esempi italiani come l’Istituto Marchiondi di Vittoriano Viganò del 1957, che secondo lui realizzava lo spirito “New Brutalism”. In Italia è un periodo di ricerca ossessiva della “vera via” per l’architettura moderna. Chi riuscì a intrecciare un linguaggio moderno e un tono rispettoso del passato furono: Albini con la Rinascente a Roma del 62’; Pier Luigi Nervi dopo il Palazzo dell’Esposizioni Fiat del 48’ e quello del Lavoro del ’62, entrambi a Torino; Carlo Scarpa, un’artista incatalogabile come egli stesso si definiva “un uomo di Bisanzio, arrivato a Venezia passando per la Grecia, ricco di influenze De Stijl, wrightiane, giapponesi, persino vegetali e geologiche zeviane, elementi evidenti nel Museo di Castelvecchio a Verona (’64) o in quello di Canova (’67). La sua abilità nell’allestimento “museale” è paradigmatica: egli mostrò come fosse possibile creare una “cornice” per il passato che lo armonizzasse ma lo separasse, una “controforma”. Questo era anche il modo in cui egli vedeva Venezia, un palinsesto non solo urbano di canali e reti, ma anche culturale, di civiltà del passato. Egli aveva delle solide basi, ma un linguaggio del tutto proprio, evidenziato dalla sua tecnica di disegno, ermetica e stratificata. Per molti architetti del periodo la tensione tra rurale e urbano era stimolante: il portoghese Fernando Tavora tentò di eliminare l’eclettismo e il provincialismo dell’architettura portoghese e di ritornare alle radici locali caricandole però dei problemi sociali e architettonici della sua epoca. Anche Alvaro Siza sposò questa visione, non volendo imitare l’architettura contadina, ma replicarne gli effetti di paesaggio e luce. Allo stesso tempo per Siza il Moderno forniva una via d’uscita verso l’universalità. I suoi primi progetti per le piscine “Quinta da Conceicao” e “Leca” sono delle semplici “incisioni” nel paesaggio, muri, tetti e piattaforme, che creano ombre integrandosi con le rocce e con il mare. La Spagna negli anni cinquanta era rimasta “isolata”, come il Portogallo, il suo “Moderno mediterraneo” era stato bloccato sul nascere dall’avvento del regime franchista. Barcellona, più di altre città cerco di riconnettersi al filone dell’architettura moderna. Josè Antonio Coderch fu l’architetto simbolo di questo periodo, capace, pur con strumenti inadeguati, di applicare un vero linguaggio moderno, ricco di significati e complessità: Casa Ugalde (1951) arroccata sulla Costa Brava, risponde all’irregolarità del terreno con una pianta organica frammentata disposta su più livelli. Con questa egli riallaccia il filo con Mirò, Gaudì, con l’architettura vernacolare mediterranea. A “La barceloneta” egli mostrò invece il suo “modo urbano” (1951), arricchito qui di ideali nautici e marittimi (affaccio sul porto) ma anche moderni. Il giovane architetto catalano Oriol Bohigas nello stesso anno pubblicò un saggio “Proposte per Barcellona” in cui rifletteva sui temi della rapida urbanizzazione e sulla necessità di “tornare indietro” prima di andare avanti, cioè tornare allo spirito del GATEPAC degli anni 30, convinto di poter riadattare quei programmi alla situazione attuale e al linguaggio moderno (che doveva essere il più vicino possibile al neo-plasticismo prospettato da Zevi). Nel 1952 egli fondò il Gruppo R, equivalente del neorealismo italiano, che intendeva trovare soluzioni al bisogno di edifici secondo una sintesi moderno/regionalista sia architettonica che urbanistica. A Madrid Alejandro de la Sota di origine galiziana, cercava di riprodurre il vernacolo rurale ma in termini “riduttivisti”: il vetro veniva usato come lastra a filo con la pietra, una superficie materica caricata di astratto, elemento tipico delle opere successive di De la Sota. Sicuramente fu ispirato da Mies ma la sua ricerca dell’essenziale procedeva su binari personali, ricca di un nuovo ethos progressista che aspirava all’universalità, in una Spagna solo ora dedita all’industrializzazione. Il suo capolavoro è senza dubbio il Palazzo del Governo Civile di Tarragona, in bilico tra un preciso e poetico razionalismo e un eco classicista mediterraneo, realizzata tramite un sottile gioco di masse e vuoti, di trasparenze e opacità, di inversioni di peso. Forse esso si ispirava alla Casa del Fascio di Terragni, ma diversamente non esprimeva il telaio in facciata intendendo mostrare sia i pilastri di acciaio sia la massa di pietra fratturata da un solco d’ombra nel mezzo. L’intrinseca qualità architettonica dell’edificio è il suo essere stato facilmente innalzato come simbolo dell’istituzione democratica alla fine del periodo franchista, grazie all’abilità di De la Sota di renderlo “trasparente” politicamente. De la Sota è la dimostrazione che una tradizione non si realizza solo con le forme, ma soprattutto con le idee, la generazione di architetti degli anni 50 riuscì, affondando le radici nel Movimento Moderno, a trascenderlo, rinvigorendo la tradizione al quale appartenevano.
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