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Trasformazione dei Personaggi e Narrativa in I Promessi Sposi di Manzoni e Leopardi, Dispense di Italiano

Manzoni e LeopardiNarrativa italianaLiteratura Italiana Moderna e Contemporanea

La complessa rete di relazioni tra i personaggi principali di I Promessi Sposi di Manzoni e la loro evoluzione nel corso della storia. come i personaggi storici e quelli d'invenzione, ecclesiastici e laici, buoni e cattivi, sono interconnessi. Inoltre, vengono esplorate le tematiche sociali, religiose e letterarie del romanzo, incluso il contesto sociale di Manzoni e Leopardi, il loro approccio al romanticismo e al classicismo, e la loro posizione riguardo alla religione. una ricca interpretazione del testo e dei suoi autori.

Cosa imparerai

  • Come i personaggi storici e quelli d'invenzione di I Promessi Sposi sono interconnessi?
  • Come la religione è rappresentata in I Promessi Sposi?
  • Come i personaggi cambiano carattere e nome nel corso della storia?
  • Come la natura è descritta nei Promessi Sposi e come influenza la condizione umana?
  • Come Manzoni e Leopardi si posizionano rispetto al romanticismo e al classicismo?

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 22/11/2021

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chiara-merlin-3 🇮🇹

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Scarica Trasformazione dei Personaggi e Narrativa in I Promessi Sposi di Manzoni e Leopardi e più Dispense in PDF di Italiano solo su Docsity! Background storico, sociale, culturale e introduzione al romanticismo In Italia il movimento romantico si affaccia nel 1816, ma le tendenze romantiche erano in atto in Europa già da tempo. Con il termine romanticismo può essere inteso come categoria storica, ad indicare un intero periodo nelle sue varie manifestazioni; oppure può essere usato in un'accezione più ristretta a designare un determinato movimento, che si concreta in scuole o gruppi intellettuali legati da principi comuni ed ispirati da una precisa politica. Il termine -> La parola Romantic compare per la prima volta in Inghilterra verso la metà del Seicento. Nel Settecento, quando si tende a riconoscere l'importanza della fantasia nell'arte, il termine comincia a perdere l'accezione peggiorativa e passa significare semplicemente ciò che è atto a dilettare l'immaginazione. Il termine fu poi usato dagli scrittori e filosofi tedeschi che a fine Settecento si raccoglievano intorno alla rivista athenaeum per definire la letteratura moderna, nata dalla sensibilità formatasi nel Medioevo, in contrapposizione alla letteratura classica: per questi romantici la visione classica era contrassegnata dall’Armonia dalla pienezza, l'anima moderna da una lacerazione da un senso doloroso di mancanza. Nella nuova Eloisa di Rousseau con il termine Romantic definisce qualche cosa di vago e indefinito. Il romanticismo investe tutti gli aspetti della civiltà occidentale dalla fine Settecento alla metà circa del 800, condizionando inglobando in sé anche quelle tendenze che vi si oppongono, come i vari classicismi: coinvolge Inoltre non solo la letteratura, ma le arti figurative, la musica, il pensiero, e la mentalità generale. I temi->Uno degli aspetti fondamentali della corrente romantica e il trionfo delle tematiche negative: il dolore, la malinconia, il tedio, l'inquietudine, L'angoscia, la paura, implicita, la delusione... Questa condizione del Romanticismo può essere giustificata col periodo che è segnato dalle grandiose e rapide trasformazioni. Viene la rivoluzione politica, che dalla Francia si irradia ai a coinvolgere l'Europa intera. Crolla la monarchia assoluta e si afferma il principio che la fonte della sovranità è il popolo: alle idee di autorità e gerarchia si contrappongono idee di libertà e uguaglianza. oltre a quella politica un'altra rivoluzione è economica determinata dall'industrializzazione. Già metà Settecento in Inghilterra rispetto agli altri paesi. in un ricetti prima di spezzati e tenuti in condizioni subalterna e si affacciano alla scena sociale e lottano per affermare la loro egemonia. Si trasforma profondamente la vita quotidiana: una quantità di merci prima impensabile invade il mercato, grazie all'uso delle che moltiplicano la produzione. Cambia il rapporto città campagna e sorgono nuove città industriali. Entra in crisi il lavoro artigiano e muta la forma stessa del lavoro che diviene sempre più personalizzato, antichi valori parte patriarcali propri delle società agricole, vengono distrutti. Anche i trasporti si fanno più rapidi. Questi mutamenti creano forti contraddizioni che non possono generare tensione e paura nella coscienza collettiva. è l'altra faccia della medaglia la nuova realtà che si contrappone alla faccia positiva, all'euforia e all'ottimismo ispirati dal Progresso. Il mercato però è soggetto a dei periodi di crisi: ciò determina delle crisi cicliche a livello economico dagli effetti rovinosi sull'economia e sulla vita quotidiana delle popolazioni. Il nuovo sistema produttivo industriale crea anche una forza antagonista che appare non assimilabile non controllabile. è la massa degli operai sfruttati che si contrappone ostile al sistema sociale in molti modi: con la rivolta, talora violenta, o il movimento diffuso tra gli operai inglesi si accanisce contro le macchine, responsabili di togliere il lavoro all'uomo, con lo sciopero paralizzante ma anche con Solo modi di vita opposti a quelli Borghesi.Oltre a sconvolgere i valori gli assetti politici e sociali tradizionali, alla nuova realtà 1 aggredisci anche la natura: l'industria con le sue esigenze monta il voto al paesaggio naturale e lo contamina con i suoi veleni. Espressione di trasformazione moderna-> Questo periodo di crisi sociale affetta anche la letteratura. Se ne può dedurre che la letteratura attraverso quelle tematiche interpreta le paure le ossessioni e le angosce della sua età. E’ opinione diffusa e costantemente ripetuta che romanticismo abbia le sue radici storiche nella delusione del razionalismo illuministico e le speranze della Rivoluzione francese. ma in realtà alcune tendenze romantiche, sotto le specie di tematiche negative quali quelle indicate, erano già è nato prima della rivoluzione (il romanzo gotico ect.) L'intellettuale non vive in una dimensione separata in cui non arrivano gli echi del mondo, anche se si apparta è sempre immerso nella realtà e ne patisce le contraddizioni, risponde la sua esperienza nella sua opera Talora in forma diretta da loro in forma immediate allusive e simboliche. L'intellettuale sempre più raramente proviene dall'aristocrazia o dal clero e può godere di una rendita. Normalmente Deve trovare un'occupazione per vivere, e sono spesso occupazioni poco remunerate, di scarso prestigio sociale o che comunque non gli consentono più quell’ “otium” quel tempo libero da dedicare allo spirito che era la prerogativa dell'intellettuale precedente. L'intellettuale è ora un declassato posto ai margini del corpo sociale.. Di norma prova frustrazione, rabbia e risentimento verso la società. Il suo punto di vista non è più quello della classe dominante ma un punto di vista estraniato. questo gli consente un atteggiamento più critico e lo porta a cogliere più acutamente le contraddizioni del suo tempo. L’artista-> Una figura particolare di intellettuale è costituita dall'artista che è più attento osservatore delle contraddizioni del tempo. Ora dominano nella società valori opposti come l'utile e il calcolo razionale e la produttività. L'artista è visto come un individuo improduttivo ,inutile o peggio ancora come colui che ha solo il compito di intrattenere e divertire punto Egli si sente così incompreso, umiliato. accumula perciò risentimento, altri moti Questa diffidenza dalla classe borghese è aggravata dal fatto che in genere gli proviene proprio dalla classe sociale Borghese per cui si sente respinto dalla matrice stessa dalla quale è uscito. Questo conflitto con la classe a cui appartiene a cresci lui il senso di colpa dell'essere diverso, in una sorta di circolo perverso, accentua i suoi atteggiamenti di rivolta. Anche questo offende l'artista: il prodotto della sua genialità creativa ha per lui un valore incommensurabile e il fatto che sul mercato sia segnata da un pezzo è sentito come una contaminazione quasi un sacrilegio. Non i di conflitto con la società. solo, ma se vuole vendere, l'artista deve assecondare i propri gusti di quel pubblico Borghese di cui di spesa insensibilità al bello punto l'artista può adattarsi al suo nuovo ruolo, ma ciò che non esclude che l'artista come un segreto rancore verso la società si manifesta in forme simboliche attenuate come l'evasione nel sogno o nelle esotico. 1 temi del romanticismo europeo Questa nuova realtà chiamata moderna è caratterizzata dalla razionalità organizzatrice produttiva, il rifiuto del romantico si indirizza In primo luogo contro la ragione. il romanticismo si presenta pertanto come l'esplorazione del irrazionale, di quella parte della realtà sono messo in una zona 2 collegi, prima di rientrare nella casa paterna; nel frattempo la madre, separatasi dal marito, si era trasferita a Parigi con il conte Carlo Imbonati. Il giovane Alessandro fu un adolescente difficile; fra primi amori e prime esperienze poetiche conduceva una vita dissipata, frequentando anche amicizie moralmente pericolose, dalle quali il padre cercò di allontanarlo mandandolo a Venezia. Il trasferimento a Parigi Su invito della madre nel 1795 si trasferì a Parigi, dove non potè incontrare Imbonati, morto prematuramente: a lui dedicò il poemetto Versi in morte di Carlo Imbonati, il suo debutto pubblico come poeta. Venne introdotto dalla madre nella cerchia degli idéologues, un ambiente culturalmente vivace e all'avanguardia che stimolò il ventenne Alessandro aprendogli la mente. Da Parigi tornò diverse volte in Italia con la madre. Nel 1807 conobbe Enrichetta Blondel, di fede calvinista, che sposò andando a vivere con lei e la madre a Parigi, dove nacque la primogenita Giulia. Andava intanto maturando in Manzoni la conversione alla fede cattolica, che abbracciò nel 1810 assieme alla moglie e alla madre. Il ritorno a Milano. Nel 1813 la famiglia Manzoni rientrò definitivamente a Milano, dove Alessandro intraprese l'ambizioso progetto degli Inni sacri (rimasto incompiuto), nel tentativo di ricondurre alla loro autentica matrice cristiana i grandi valori civili dell’epoca (come libertà, uguaglianza e fraternità). Con l’avvio della Restaurazione e il rientro degli austriaci a Milano Manzoni visse, in particolare nel 1817, una profonda crisi assieme politica, religiosa, esistenziale e psicofisica, da cui lentamente uscì per gettarsi in un periodo di straordinario fervore creativo; nel giro di 10 anni compose o avviò La Pentecoste, Marzo 1821, Il cinque maggio; le Osservazioni sulla morale cattolica, la lettera Sul Romanticismo, la Lettre à M. Chauvet; Il conte di Carmagnola e l’Adelchi; infine il Fermo e Lucia, corretto poi nei Promessi sposi del 1827. Con queste opere, lodate da Goethe e tradotte in tutta Europa, Manzoni divenne una celebrità a livello internazionale e un punto di riferimento del movimento romantico italiano. Non mancarono però momenti difficili, come la morte della figlia Clara, la cagionevole salute sua e della moglie, le delusioni politiche (in particolare in seguito alla violenta repressione dei moti del 1821). Dopo il 1827 Manzoni si dedicò in modo particolare agli studi linguistici, filosofici, storici e letterari. Insoddisfatto del linguaggio dei Promessi sposi e alla ricerca dell’unità linguistica italiana, prefigurazione dell’unità politica, provvide al rifacimento del romanzo, uscito in edizione definitiva nel 1840-42. Intanto portava a compimento le Osservazioni sulla morale cattolica, la Storia della colonna infame, il dialogo Dell’invenzione, il trattato Del romanzo storico e il saggio comparativo. La rivoluzione francese del 1798 e la rivoluzione italiana del 1859, destinato a rimanere incompiuto. Gli ultimi anni furono funestati da lutti (la morte della moglie Enrichetta, della primogenita Giulia e di Antonio Rosmini, con cui aveva stretto una profonda amicizia) e assieme confortati da significativi riconoscimenti: considerato uno dei padri dell'Unità d’Italia, nel 1861 fu nominato senatore dal re Vittorio Emanuele Il e negli anni ricevette la visita di personalità come lo stesso sovrano, Garibaldi, Cavour, Verdi (tutti, tra l’altro, noti anticlericali); quest'ultimo, in occasione del primo anniversario della sua morte, avvenuta nel 1783 a seguito di una caduta, fece eseguire a Milano la Messa da requiem composta in suo onore. Costanti Letterarie-> Le prime due costanti ravvisabili nell'opera di Manzoni sono l’amore per la libertà e l’amore per la verità: il primo declinato in forme diverse (libertà politica, libertà religiosa, libertà di giudizio, libertà stilistica), ma riconducibili tutte alla fondamentale libertà dal peccato insegnata da Cristo; il secondo vissuto innanzitutto come fedeltà al vero della storia, ancora una volta nella convinzione che tutti i veri rimandino a una verità ultima, quella di Cristo. Terza costante è la ricerca di originalità, nella scrittura (sperimentando forme e argomenti nuovi) e nel giudizio (combattendo una strenua battaglia contro i luoghi comuni e mettendo in discussione convinzioni storiografiche considerate inappellabili). Opere Tre sono gli elementi comuni nella produzione del giovane Manzoni: 1. la padronanza degli strumenti linguistici e retorici e la conoscenza approfondita della tradizione latina e italiana; 2. lo sperimentalismo, conseguenza di una continua ricerca di originalità; 3. il tentativo di conciliare la bellezza delle forme e la verità dei contenuti. Del trionfo della libertà [1801] Poemetto in quattro canti in terzine dantesche, largamente debitore nei confronti di Dante, Petrarca e Monti, è un testo imbevuto di ideologia giacobina e ferocemente polemico contro il repressivo potere politico-religioso, cui è contrapposto lo spirito della Roma repubblicana e della Rivoluzione francese. In morte di Carlo Imbonati [1806] Poemetto in endecasillabi sciolti, in cui il dedicatario, conciliando gli insegnamenti di Alfieri, Foscolo e Parini, è celebrato come esempio di virtù solitaria, opposta al vizio imperante nella società e tenacemente impegnata a migliorarla. Di fondamentale importanza il “decalogo” morale che dall’Imbonati si fa dettare il giovane Manzoni: «non ti far mai servo [...]; ilsanto vero / mai non tradir: né proferir mai verbo / che plauda al vizio, o la virtù derida». Gli inni sacri Gli Inni sacri sono la prima opera progettata da Manzoni dopo la conversione; l'intento era quello di coniugare il bello della poesia con la verità della preghiera, celebrando in versi le dodici principali festività del calendario liturgico: Il Natale, L’Epifania, La Passione, La Resurrezione, L’Ascensione, La Pentecoste, Il Corpo del Signore, La Cattedra di San Pietro, L’Assunzione, Il nome di Maria, Ognissanti, I morti. Il progetto non venne mai portato a termine; Manzoni compose solo La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale e La Passione, pubblicati nel 1815, e La Pentecoste, di cui esistono ben tre redazioni (1817, 1819 e 1822). Entrambi incompiuti sono poi Il Natale del 1833 (composto nel 1835 a seguito della morte della moglie Enrichetta) e Ognissanti (1847). Novità tematiche e formali Radicalmente nuovi rispetto alla tradizione poetica italiana precedente, gli Inni mettono al centro non la soggettività dell'autore ma i grandi misteri della religione cattolica, nella dimensione corale della preghiera. In particolare l'io” del poeta e il “noi” della comunità dei fedeli trovano un perfetto equili- brio nella Pentecoste. Abbandonati i tradizionali moduli stilistici (Petrarca, Parini, Monti, Foscolo), Manzoni, alla ricerca di un nuovo linguaggio poetico, si rivolge alla Bibbia, contaminandola con Dante, Virgilio e l’oratoria sacra francese del Seicento. Stilemi di derivazione biblica sono in particolare il ricorso al parallelismo e all'iterazione. Altri stilemi ricorrenti sono le ampie similitudini, le interrogative retoriche, le opposizioni e le frasi imperative, tutti elementi finalizzati a esprimere la saldezza della rivelazione cristiana. Le scelte lessicali, criticate dai contemporanei 6 come troppo basse, attingono alla prosa nel tentativo, non sempre riuscito, di creare una poesia popolare, comprensibile e cantabile da parte di tutti. Sempre alla ricerca di cantabilità e popolarità risponde il ricorso alla forma metrica chiusa dell’ode o canzonetta, che rimanda al tempo stesso agli inni latini dei primi secoli della Chiesa. Tragedie Almeno due ragioni indussero Manzoni a dedicarsi al teatro: 1. la riconosciuta supremazia del genere tragico, da sempre considerato la forma più alta dell’arte letteraria; 2. il rinnovato interesse romantico per il teatro, genere che instaura un rapporto diretto con il pubblico e costituisce pertanto un formidabile laboratorio linguistico. La necessità di chiarire alcuni dubbi teorici e la contemporanea stesura delle Osservazioni rallentò la composizione del Conte di Carmagnola, durata quasi quattro anni (dal 1816 al 1820); molto più veloce fu la composizione dell’Adelchi, durata meno di un anno, fra il 1820 e il 1821. Il conte di Carmagnola [1816-1820] Ispirato a un fatto storico e preceduto da una Prefazione, Il conte di Carmagnola mette in scena la vicenda di Francesco Carmagnola, capitano di ventura al servizio del duca di Milano Filippo Maria Visconti; la gelosia di quest’ultimo per i successi del condottiero lo costringono a riparare a Venezia, dove sfugge a un attentato; in conseguenza di ciò caldeggia la guerra contro Filippo e ne ottiene il comando (Atto I). Nella battaglia di Maclodio il Carmagnola sbaraglia i milanesi. Il coro riflette sulla follia delle guerre fratricide (Atto II). La clemenza usata dal Carmagnola nei confronti dei milanesi sconfitti suscita i primi sospetti a Venezia (Atto III). Convinto del tradimento del Carmagnola, il senato veneziano induce Marco, suo amico, a richiamarlo a Venezia, dove il conte fa ritorno senza sospettare nulla, forte della propria buona fede (Atto IV). Convocato di fronte al senato, il Carmagnola è processato per tradimento e condannato a morte; prima dell'esecuzione ha luogo il suo ultimo colloquio con la moglie e la figlia, che il conte invita a perdonare i suoi uccisori (Atto V). Adelchi [1820-1821] Anch'esso ispirato a vicende storiche, Adelchi (preceduta dal Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia) mette in scena la fine del dominio longobardo in Lombardia; Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio, è stata ripudiata da Carlo, re dei franchi; ai propositi di vendetta del padre e del fratello Adelchi replica chiedendo di potersi ritirare in convento. Respinto un ultimatum di Carlo, tra franchi e longobardi scoppia la guerra (Atto I). Carlo è bloccato in val di Susa e medita di rinunciare all'invasione dell’Italia, ma il diacono Martino gli mostra un sentiero segreto per aggirare il nemico (Atto II). Adelchi confida il proprio disagio: l'obbedienza al padre e i suoi obblighi di principe lo costringono alla guerra contro il papa, impresa che ritiene sbagliata e senza onore. All'improvviso compare l’esercito dei franchi e i longobardi, colti di sorpresa, fuggono, mentre Desiderio e Adelchi proseguono la lotta, il primo a Pavia, il secondo a Verona. Il coro osserva quanto sia ingenuo, per un popolo, sperare di recuperare la libertà grazie agli stranieri (Atto III). Ermengarda giace malata in un monastero di Brescia; ancora innamorata di Carlo, quando apprende che il re si è risposato cade in delirio e muore. Il coro riassume la sua vicenda come un esempio di «provvida sventura». Intanto Pavia cade per opera di traditori e Adelchi, che ha male e agonizzante). Solo dopo aver perdonato, non senza difficoltà e resistenze, il suo “nemico”, Renzo ritrova Lucia; sciolto da padre Cristoforo il voto di castità della ragazza, i due possono finalmente sposarsi. Trasferitisi in un altro paese, avranno dei figli e vivranno serenamente, ripensando alle vicende passate per trarre «il sugo di tutta la storia», cioè la morale: quando vengono i guai, «per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore» (capitoli XXVII-XXXVIII). Dal Fermo e Lucia ai Promessi sposi Fra l'edizione del 1827 e quella del 1840 il lavoro di revisione fu quasi esclusivamente linguistico; invece fra il Fermo e Lucia e i Promessi sposi del 1827 intervenne una rielaborazione più profonda. 1. Nei quattro tomi del Fermo e Lucia la narrazione risulta suddivisa in modo schematico in quattro blocchi: le vicende nel paesello (I tomo); le vicende di Lucia (II-IIl tomo); le vicende di Renzo (III tomo); il ricongiungimento dei fidanzati e la conclusione (IV tomo). Nei Promessi sposi invece le vicende dei due giovani dopo la fuga dal paese risultano strettamente intrecciate fra loro. Inoltre sono molto ridotte le digressioni (la storia di Gertrude passa da 6 capitoli a 2) e viene sensibilmente modificato iltono troppo storico-saggistico di molte pagine. 2. Molti personaggi cambiano nome (Fermo diventa Renzo; il Conte del Sagrato diventa l’Innominato, ecc.) e soprattutto carattere: nella prima versione, Fermo è decisamente più violento di Renzo, Lucia è una ragazza ciarliera e loquace, don Abbondio è quasi una caricatura e l’Innominato viene descritto come un vero e proprio boss mafioso. Il problema della lingua Manzoni era alla ricerca di una lingua comprensibile da parte di tutti gli alfabetizzati; il carattere profondamente cristiano e democratico del romanzo (in cui per la prima volta assurgono al ruolo di protagonisti due umili operai-contadini semianalfabeti, che sventano tutte le trame dei potenti e in funzione dei quali persino le vicende della macrostoria trovano giustificazione e validità) non poteva trovare espressione nell'italiano letterario della tradizione, assolutamente aristocratico e antidemocratico. La ricerca linguistica manzoniana attraverò tre fasi: 1. la lingua europeizzante del Fermo e Lucia, composita e modellata su milanese, francese, toscano e latino; 2. la lingua toscano-milanese dell'edizione 1827, modellata però su un toscano eccessivamente libresco; 3. la lingua parlata dai fiorentini colti dell'edizione del 1840. La scelta finale fece dei Promessi sposi (la cui lettura venne resa obbligatoria nei licei da Francesco De Sanctis, divenuto ministro della Pubblica Istruzione nel 1879) il primo veicolo dell’unità linguistica nazionale. Il sistema dei personaggi e la macchina narrativa | personaggi principali sono otto: Renzo, Lucia, don Abbondio, padre Cristoforo, don Rodrigo, il cardinale Federigo Borromeo, l’Innominato e Gertrude, tutti legati da una fitta rete di relazioni fondate sulla bipartizione: quattro sono storici (padre Cristoforo, Federigo, l’Innominato, Gertrude) e quattro d’inven zione (Renzo, don Rodrigo, don Abbondio, Lucia); quattro sono ecclesiastici (Federico, don Abbondio, padre Cristoforo, Gertrude) e quattro laici (Renzo, Rodrigo, l’Innominato, Lucia); quattro sono “buoni” 10 (Renzo, Federigo, padre Cristoforo, Lucia) e quattro “cattivi” (don Rodrigo, don Abbondio, l’Innominato, Gertrude); ciascun gruppo è costituito da 3 uomini + 1 donna. In termini narratologici osserviamo invece una dissimmetria: Renzo nella sua ricerca di Lucia è assi- stito da due aiutanti (padre Cristoforo e Federigo) e ostacolato da un antagonista (Rodrigo) assistito invece da tre aiutanti (don Abbondio, Innominato, Gertrude). La conversione dell’Innominato ribalta però lo schema, rovesciando la dissimmetria a vantaggio di Renzo: ciò conferisce movimento alla macchina narrativa, che proprio nella conversione ha il suo centro propulsore. Altro elemento dinamico all’interno della vicenda è il perdono: l'opposizione fra Renzo e don Rodrigo ha come esito iniziale quello di far diventare l’eroe simile all’antagonista; solo quando Renzo, nel lazzaretto, perdona don Rodrigo e prega per lui la macchina narrativa può finalmente avviarsi verso la conclusione. I punti ista Nei Promessi sposi si incrociano diversi punti di vista (il che crea la dialogicità del romanzo e l’effetto di polifonia): 1. quello del narratore onnisciente, alternato con quello di un narratore che chiama invece in causa il lettore, trasformandolo in “coautore”; 2.quello dell’anonimo seicentesco; 3. quello dei diversi personaggi. L'ironia L'ironia è figura retorica che consiste nell’affermare una cosa lasciando intendere l'opposto: richiede perciò un lettore complice e attento, disposto a partecipare alla costruzione di un’“opera aperta”. L'ironia agisce a più livelli: coinvolge i personaggi, specialmente i potenti, senza risparmiare il narratore stesso (autoironia); si manifesta a livello narrativo e strutturale: tutti i piani dei “buoni” per aiutare Renzo e Lucia sono destinati al fallimento; a salvarli sarà invece il “principe dal male”, l’Innominato; come a dire che il bene non è prerogativa esclusiva dei buoni (né il male dei malvagi). Scopo dell’ironia non è quello di negare l’agire dell’uomo, ma quello di relativizzare: l’agire umano è indispensabile perché Dio, con la sua provvidenza, possa orientarlo al bene. Movimento romanzesco e inquietudine morale | personaggi appaiono caratterizzati da una frenesia di movimento: Renzo è uno che, per carattere, non sa star fermo; persino la placida Lucia è trascinata in un vortice di viaggi e spostamenti; e neppure alla fine i due sembrano trovar pace: lasciano il paesello, cambiano addirittura stato, e la loro meta ultima e definitiva rimane di fatto al di fuori del romanzo. Tutto questo al fine di mostrare che per l’uomo è impossibile vivere in stato di “riposo morale”; il suo bisogno di felicità, che non può essere soddisfatto appieno da questa vita, lo mantiene in uno stato di sana inquietudine, come dice sant’Agonstino nelle Confessioni: «Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te, Dio» La conclusione stessa della vicenda non è affatto un consolatorio “vissero felici e contenti”: Renzo e Lucia sanno che altri guai verranno a turbare la loro felici- tà, che si potrà realizzare compiutamente solo nella dimensione ultraterrena. La Storia della colonna infame (1823-1842) Il lato oscuro dei Promessi sposi 11 Nato come ampia digressione all’interno del Fermo e Lucia, il racconto del processo agli «untori» e della loro orribile fine nella Milano sconvolta dalla peste fu trasformato in un'appendice e infine pubblicata, nell'edizione definitiva del 1840, come seguito dei Promessi sposi: come alcuni cri hanno infatti di recente sottolineato, la parola “fine” venne posta da Manzoni proprio al termine della Storia, non già al termine del romanzo; dal che si evince che l’autore riteneva fondamentale che i lettori leggessero le due opere una di seguito all'altra. In effetti, la vicenda del povero Guglielmo Piazza, processato e giustiziato come «untore» in spregio alla giustizia, al buonsenso e alla ragione, oltre che alla pietà cristiana, sembra rappresentare un inquietante destino alternativo cui avrebbe potuto andare incontro lo stesso Renzo Tramaglino allorché, nel romanzo, è a sua volta preso per un untore e solo saltando sul provvidenziale carro dei monatti riesce a sfuggire alla folla inferocita. Come a ribadire che un romanzo non è la storia, perché nella storia il male e la follia degli uomini spesso prevalgono: compito di tutti è allora quello di vigilare affinché simili atrocità non debbano più accadere. Romanticismo Di Manzoni Romanticismo di Leopardi Contesto sociale Nasce a Milano, padre Cesare Beccaria, quindi figlio di un ‘ambiente come “Il caffè” e legato al filo degli illuministi del tempo Nasce a Recanati in un isolamento forzato, lontano dai centri culturali impostazione alla letteratura settecentesca Confronto con il Classicismo e il Romanticismo Manzoni con la pubblicazione della lettera “Su/ Romanticismo d’Azeglio” si pone a favore del romanticismo, e va contro gli ideali del classicismo troppo “attaccato” all'ambito mitologico, affermava la superiorità del vero rispetto al fantastico Leopardi al contrario di Manzoni manifesta un attaccamento particolare al Classicismo e nel mondo pagano-mitologico poichè rappresenta quella “età delle illusioni” che sapeva regalare felicità. Tale posizione possiamo trovarla nello Zibaldone ma anche in altri saggi Leopardiani* Manzoni scrive un inno alla riconquista della religione italiana Leopardi ateo e materialista Romanticismo Manzoni si riallinea al Romanticismo poichè riscopre le tradizioni popolari Leopardi invece con il suo materialismo possiamo identificarlo nella corrente illuministica *Come ad esempio: Discorso di un Italiano attorno alla poesia romantica (1818) e vanno anche interpretati alla luce dell’amicizia di Leopardi con Pietro Giordani, il direttore della “Biblioteca Italiana”, fiero classicista e oppositore convinto delle posizioni romantiche 12 della sofferenza. Nel ‘19 comincia prima a sognare e poi a progettare la fuga da Recanati verso Roma. La fuga fu sventata e solo nel 1822, se pure a malincuore, il padre gli permetterà di raggiungere alcuni parenti nella capitale. Nell’evasione dal “natio borgo selvaggio” Leopardi proiettava un futuro di salvezza, persuaso che la grande città avrebbe rappresentato una dimensione più idonea alla sua sensibilità. Tra il ‘21 e il ‘22 si collocano le ultime canzoni, tra cui vale la pena di ricordare Ad Angelo Mai e L'ultimo canto di Saffo, una delle riflessioni più acute e più amare sul senso dell’amore e della sensibilità umana. Solo nel 1822, il 17 novembre, Giacomo riesce a rendere concreto il suo desiderio di evasione; con il permesso dei genitori si unisce alla famiglia Antici (parenti della madre, Adelaide) che fa ritorno a Roma per l’inverno. Il viaggio dura sei giorni, probabilmente gli ultimi giorni di speranza, giacché l’arrivo a Roma è immediatamente deludente. Il biennio 1822-1823 è per Leopardi un periodo di svolta, quello in cui finalmente lascia Recanati: esce da una realtà che sente soffocante e si reca a Roma, dove si tratterrà per circa un anno e mezzo. È l’inizio di una serie di peregrinazioni, lontano dal “natìo borgo selvaggio”. Il soggiorno a Roma dura dal novembre del 1822 all'aprile del 1823. Il ritorno a Recanati avviene in uno stato d’animo di delusione rassegnata, derivante dalla sensazione di aver scoperto, a Roma, la propria infinita solitudine. Come si evince dalle lettere, il poeta nella capitale non ha trovato alcuno dei piaceri che aveva vagheggiato. Con un’unica eccezione, che ci descrive lui stesso: “Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma” (Lettera a Carlo, del 20 febbraio 1823). Il ritorno a Recanati, dunque, non è vissuto come una tragica fatalità, ma con l'indifferenza di chi, dovunque si trovi, non ha che la compagnia, addolorata, di se stesso: “lo sono naturalmente inclinato alla vita solitaria. (...) nella solitudine io rodo e divoro me stesso. (...) qualunque soggiorno m'è indifferentissimo” (Lettera a Monaldo del 16 aprile 1823). Il 1824 è un anno completamente dedicato alla prosa. Leopardi è giunto alla convinzione che il suo dolore non è da imputare alla sua personale situazione storica, ma è proprio dell'umanità alla quale, tutta, la natura (ora diventata, da madre benevola, matrigna crudele) ha dato un'intelligenza e una consapevolezza che non fanno che spingere gli uomini a disperare: della felicità, di una qualunque fede che li salvi, di ogni trascendenza che possa infondere fiducia se non nella vita terrena, almeno in quella ultraterrena. Leopardi in questa fase, il passaggio dal cosiddetto pessimismo storico al cosiddetto pessimismo cosmico, ha assunto una posizione di totale e rassegnata disperazione, ma “calma, senza sgomento”. Un’unica certezza è quella che rimane e che verrà esplicitata nel Canto notturno: Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell'esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors'altri; a me la vita è male 15 (...) è funesto a chi nasce il dì natale. La ragione, ormai, è diventata il solo strumento per vincere la disperazione; è superata anche la fase in cui questa era vista come ostacolo alla felicità, in quanto uccideva le illusioni che nutrivano il mondo classico, l'infanzia dell’uomo e la felicità umana. Struttura e stile delle Operette Le Operette morali, un unicum nella letteratura italiana, sono figlie di questa fase della riflessione leopardiana, dell inaridirsi della vena poetica, nonché della “teoria del piacere” che, già nel 1820 aveva avuto largo spazio nello Zibaldone. È un’opera connotata da una forte vena ora ironica e ora sarcastica, che trae ispirazione dalla struttura del dialogo classico, introducendo tematiche di forte connotazione filosofica, che, anche quando partono da un semplice dato aneddotico o di cronaca, portano alla deriva ontologica di chi riflette sul senso più profondo della vita dell’uomo e del mondo. | dialoghi sono in totale ventiquattro, venti dei quali composti nel 1824, attraverso un lavoro dai ritmi incalzanti. Vedono la luce in tre diverse edizioni: 1827, 1832, 1835 (ed. definitiva, stampata a Napoli). Il linguaggio è essenziale, privo di qualunque indulgenza alla letterarietà, improntato alla più immediata comunicazione. Tutte le opere dialogiche prevedono scambi o rapidi e incalzanti o complessi e d'impostazione logico-filosofica: il punto di arrivo di qualunque ragionamento è inequivocabile, rappresenta l’unico nucleo di certezza cui l’uomo, con i suoi strumenti, può pervenire. Il ritorno alla poesia Nel 1825, chiamato dall’editore Stella che gli propone la cura di opere classiche latine, si reca a Milano; anche qui la vita cittadina non gli piace. Si trasferisce a Bologna, poi a Firenze (dove conosce Manzoni, intento a “risciacquare i panni in Arno”), poi a Pisa, dove passa un inverno del 1828 particolarmente benevolo per la sua salute sempre minata. Proprio nella successiva primavera torna alla poesia, come dice lui stesso, nella lettera del 2 maggio 1828 alla sorella Paolina: “e dopo due anni, ho fatto dei versi quest'Aprile, ma versi veramente all'antica, e con quel mio cuore d'una volta". Si tratta dei cosiddetti Grandi Idilli, i Canti pisano-recanatesi. Scritti tra Pisa e Recanati, appunto, dove il poeta fu costretto a tornare (“l’orrenda notte di Recanati mi aspetta”, scrive il 19 giugno del 1828 all’amica Antonietta Tommasini) a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni di salute e dove trascorse, fino al 1830, “sedici mesi di notte orribile”. In questi mesi compone A Silvia, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero solitario, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. In questi testi, accanto alla consapevolezza della totale disillusione dell’uomo, è ancora possibile scorgere una sorta di nostalgico affetto per la “ricordanza”, che riporta alla giovanile idea dell'illusione. Dopo gli ultimi idilli, sarà ancora la disillusione a governare la poesia di Leopardi del cosiddetto Ciclo di Aspasia (1831-35). E solo nelle estreme (1836-37) La ginestra e Il tramonto della luna sarà possibile intravedere quella nuova idea, che la morte non consentirà a Leopardi di sviluppare ulteriormente, della “umana confederazione”, come forma estrema di resistenza umana, in contrapposizione alla natura. 16 Ul pensiero leopardiano Leopardi ha trovato gli accenti più intensi e al tempo stesso più diretti per esprimere il male di vivere dell’uomo. Il suo pessimismo non deriva da un'attrazione morbosa per la morte e per la sconfitta. Esso nasce solo come reazione alla delusione di un’aspirazione di vita all'insegna della gioia e della pienezza. Il malessere non si manifesta mai come rassegnazione lamentosa. Essa è rivendicazione del diritto alla felicità, protesta e ribellione eroica contro tutte quelle forze che soffocano quel bisogno dell'umanità. Leopardi arriva a cogliere le tendenze profonde della sua epoca e le conseguenze pericolose che da esse potevano scaturire. L'invito all'amore fraterno e alla solidarietà fra gli uomini come base della vita sociale è il messaggio più alto che egli abbia mai potuto lasciare ai posteri. Natura benigna e pessimismo storico AI centro della riflessione di Leopardi (presente nello Zibaldone, opera nella quale Leopardi raccoglie oltre 5000 pensieri che ci permettono di ricostruirne passo dopo passo la sua poetica) si pone subito un motivo pessimistico, l’infelicità dell’uomo. Questa infelicità risiede nella teoria del piacere. La quale sostiene che l’uomo non desidera un piacere bensì il piacere, ossia un piacere che sia infinito per durata e per estensione. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri goduti dall'uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione perpetua, un vuoto incolmabile dell'anima. Da questa tensione inappagata verso un piacere infinito che sempre sfugge nasce l’infelicità dell’uomo. Questo è inteso in senso puramente materiale. La natura viene concepita come madre benigna, attenta al bene delle sue creature, che ha voluto fornire un rimedio all'uomo e alle sue sofferenze: l'immaginazione e le illusioni; grazie alle quali nasconde agli occhi della creatura le sue effettive condizioni. Per questo gli antichi greci e romani, che erano più vicini alla natura, erano felici. In base a ciò si sviluppa la prima fase del pensiero leopardiano, il pessimismo storico. La colpa dell’infelicità presente è attribuita all'uomo che, a causa del progresso si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna. Leopardi dà un giudizio negativo in particolare sull'Italia contemporanea corrotta e dominata dall’inerzia. Ne deriva dunque un atteggiamento titanico. Il poeta è l’unico depositario della virtù antica, si erge a sfidare il fato maligno. La condizione del presente viene vista come effetto di un progresso e di un allontanamento da una condizione originaria di felicità. Ma non bisogna mai dimenticare che questa è sempre una felicità relativa: essa è pur sempre frutto dell’illusione. La natura malvagia e il pessimismo cosmico Questa visione di natura benigna, però, ad un certo punto entra in crisi. Leopardi si rende conto che la natura mira alla conservazione della specie e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo e generare sofferenza. Il poeta finisce per considerare la natura, non più come madre amorosa, ma indifferente alla sorte delle sue creature. Legge essenziale che regola tale sorte è la conservazione del mondo, una concezione non più finalistica ma meccanicistica e materialistica. Ora la colpa non è dell’uomo: egli è soltanto una vittima. Da ciò ne deriva la seconda fase leopardiana, il pessimismo cosmico: l’infelicità è vista come condizione assoluta. Ne deriva labbandono della poesia civile e del titanismo; e non resta che la contemplazione lucida e disperata della verità. Il poeta assume atteggiamenti stoici, evidente è il distacco imperturbabile della vita, l’atarassia. Tale non è però la scelta decisiva del poeta: di indole ribelle, Leopardi farà ritorno al titanismo, al termine della sua vita. 17 v. 7 = “io nel pensier mi fingo” il poeta immagina, si costruisce una situazione con gli strumenti della sua fantasia, proprio stante il limite che, pur sbarrando la vista, consente di figurarsi cose che non sarebbero immaginabili se la vista si estendesse da per tutto perché il reale escluderebbe l'immaginario. Il poeta si riferisce, quindi, a quella dimensione virtuale, di cui si diceva sopra, a quello spazio immaginario, parallelo a quello reale. Di conseguenza “ove” è usato in una duplice accezione, spaziale e temporale. v. 8 = “il cor non si spaura” si tratta di un motivo, molto celebre, presente anche nei Pensieri di Blaise Pascal che afferma “Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie” (“il silenzio eterno di questi infiniti spazi mi spaventa”). In questo stesso verso, nella proposizione successiva, la congiunzione “come” ha valore anche temporale e sta per “quando/non appena”; vv. 9-10 = “queste/quello/questa”: deittico dimostrativo che sostiene il gioco di rimandi tra le due diverse dimensioni chiamate in causa: realtà/immaginazione/realtà. v. 11 = “vo comparando”: “vado paragonando”, “confronto”. “mi sovvien l'eterno”: l’espressione indica l'infinito temporale, velocemente intuito da Leopardi che, percependo il rumore familiare del vento tra le fronde degli alberi, ha l'impressione di trovarsi di fronte all'infinito e al nulla in cui l’uomo può perdersi e annientarsi e coglie, così, il senso dell'eternità, la permanenza dello spazio-tempo pur nelle sue modificazioni, in contrapposizione alla finitezza umana. vv. 12-13 = “e la presente... di lei”: il tempo presente che ancora vive, attraverso il rumore del vento. v. 14 = “immensità”: si tratta di un’immensità duplice, una spaziale che aveva immaginato nel pensiero e una temporale che ora torna in mente al poeta, dopo aver sentito la voce del vento. v. 15 = “m'è dolce”: mi risulta piacevole e si riferisce alla sensazione di immergersi in un mare immaginato, dell’abbandonarsi a un flusso di sensazioni e di idee indeterminato. Figure retoriche Come già detto, la poesia presenta numerosi enjambements, che le conferiscono un ritmo lento e continuo, sostenuto anche dall’uso di una sintassi tutto sommato piana (fatta eccezione per qualche anastrofe, ad esempio quella presente al v.1, e qualche iperbato) e dominata dalla coordinazione per polisindeto (la congiunzione “e” è è particolarmente ricorrente). Allitterazioni, assonanze e richiami sonori sono numerosi: in particolare, sottolineiamo l'insistenza sulle lettere s, v, i, e e o. Le figure retoriche impiegate nel testo sono tutte volte a supportarne il contenuto. Tra i vv. 4 e 6, la disposizione in climax di “interminati”, “sovrumani” e “profondissima” veicola ilsenso di vastità dell'infinito che si allarga al di là dell'ostacolo posto dalla siepe, ulteriormente enfatizzata dal fatto che si tratti di tre iperbati. “Cor” (v. 8) è una metonimia. Come “quello / infinito silenzio a questa voce” ( vv. 9-10), così “le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei” (vv. 12-13) costituisce un’antitesi. Non solo: “voce” èanche una personificazione e una metafora: indica il suono che il vento fa tra le foglie, ma anche il suono del tempo che scorre, del presente, contrapposto al passato silenzioso e sterminato. Un'altra metafora, questa volta continuata, è quella costituita dai versi finali del componimento: il naufragio del pensiero nell’immaginazione Il dialogo della natura e di un islandese 20 Il protagonista del “Dialogo della natura e di un islandese” è un Islandese, grande viaggiatore, che decide di compiere un viaggio in Africa, nella sua parte più sconosciuta, deserta e inospitale. Come già capitato a Vasco De Gama, che nel passare il Capo di buona speranza si era imbattuto nelle colossali statue dell’isola di Pasqua (allusione ad un episodio del Poema Lusiadi del poeta portoghese Luis Vaz de Camoes, che narra in forma epica e fantastica la storia del popolo portoghese), così l’Islandese, approdato all’interno del continente africano, si imbatte in quella che da lontano gli appare come un'enorme figura che sembra di pietra e poi da vicino rivela essere un’enorme figura di donna in carne ed ossa, la personificazione della Natura. L’Islandese è spinto ad allontanarsi dalla propria patria ed ha iniziato il suo viaggio proprio per sfuggire alla natura, ed è finito proprio dove questa dimostra maggiormente la sua potenza: “Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. lo sono quella che tu fuggi”, dice la Natura. Analisi del testo: “Dialogo della Natura e di un Islandese” è stato scritto da Giacomo Leopardi nel maggio del 1824 e fa parte delle Operette Morali. Questo dialogo rappresenta per Leopardi una svolta importante con la radicale affermazione del pessimismo cosmico, che trova le sue premesse già nello Zibaldone, dal 18 agosto 1821, e arriva alla sua massima espressione con il Cantico del gallo silvestre. L’infelicità umana che fino a quel momento per Leopardi dipendeva da ragioni storiche (pessimismo storico), per cui sarebbero stati la ragione e il progresso ad allontanare l’uomo dalla condizione originaria di felicità (concezione che deriva da Rousseau), cioè da uno stato di natura in cui la natura è considerata ancora provvidenziale e benigna, ora lo stato di infelicità viene attribuito da Leopardi esclusivamente alle condizioni esistenziali dell’uomo.Si parla perciò in questa fase di pessimismo cosmico, Leopardi giunge alla conclusione che la natura, nella sua organizzazione universale, è orientata solamente alla perpetuazione dell’esistenza (meccanicismo), senza finalità, senza che la felicità degli individui venga tenuta in alcuna considerazione. L’infelicità non deriva più dall’impossibilità di soddisfare un piacere infinito, quindi non ha cause psicologiche, ma dipende da cause oggettive e materiali, determinate dalle leggi stesse del mondo fisico, da una natura espressione di un meccanismo spietato il cui fine ultimo non è la felicità degli esseri viventi, tormentati da morte, dolore, distruzione e malattie, ma la propria conservazione. La scelta di Leopardi di un islandese quale protagonista del dialogo si basa su due ragioni: Perchè un islandese? Leopardi sceglie un irlandese come protagonista perché la terra da cui proviene, l'Islanda, rappresenta l'incarnazione di una delle idee del pessimismo storico, essendo il territorio più lontano dalla zona geologica originale dell’uomo, territorio dalle difficili condizioni naturali in cui gli abitanti sono costantemente minacciati sia dal gelo che dai vulcani. Leopardi non sceglie un personaggio importante (un filosofo, un artista, uno scienziato), come accade in altre operette, ma preferisce un protagonista comune, un uomo definito solo attraverso la propria nazionalità (l'Islanda) perché rappresenta un punto di vista obiettivo, basato sulla verità dell'esperienza diretta. Questo approccio serve inoltre a dare più rilevanza alle conclusioni filosofiche del finale che appaiono come la conseguenza necessaria delle esperienze narrate nel corso del dialogo. È la tecnica simile a quella cui ricorre in seguito Leopardi nel “Cantico notturno di un pastore errante dell’Asia”, dove affiderà al punto di vista spontaneo e diretto del pastore le domande relative al significato dell’esistenza. L’Islandese è un personaggio curioso e stravagante, uomo di vasta cultura (come si deduce dai molti riferimenti a filosofi, letterati e scienziati) ma anche ingenuo. In lui si ravvisa una proiezione 21 del poeta Leopardi che, come l’Islandese che proviene dai margini estremi della civiltà, si sente lontano dalle idee e dalle professioni di fede del suo secolo. Che tipo di viaggiatore è l’Islandese: L’Islandese è agli antipodi del viaggiatore-tipo che nel Settecento, età dei viaggi e delle scoperte, andava alla ricerca di posti sconosciuti, perché per l’Islandese il viaggio è una fuga dalle sue terre, alla ricerca di una vita eremitica. Leopardi evidenzia come anche questo tipo di vita incontri non poche difficoltà determinate dall’imperversare delle forze della natura, diverse e terribili calamità affliggono la specie umana. LA NATURA La natura è una figura antropomorfica, un'entità reale, viva, rappresentata nell’atteggiamento di un idolo. E’ a metà tra mitologia e immaginazione. Emerge la visione materialista e meccanicistica della natura. AMBIENTAZIONE L'incontro tra l’Islandese e la Natura avviene in un deserto equatoriale, in un luogo che sembra collocato al di fuori delle carte geografiche, “in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno”. Anche la descrizione utilizzata da Leopardi, aulica (immaginò dover essere) e riferita ad un tempo lontano (molti anni prima) ha la funzione di richiamare immagini di tempi e luoghi lontani eduna visione astratta sia del tempo che dello spazio. CRITICA ALL’ANTROPOCENTRISMO In base al pessimismo cosmico le sofferenze degli esseri viventi sono semplicemente e drammaticamente intrinseche alla vita dell’universo e indispensabili alla sua stessa conservazione. Con questa teoria Leopardi annulla ogni ipotesi di antropocentrismo, ogni presunzione di considerare l’uomo come fine ultimo del creato. Leopardi, materialista e ateo, critica l’idea che l'universo sia nato ed esista in funzione dell’uomo. LA CONCLUSIONE DEL DIALOGO Il dialogo si chiude con la domanda accorata con cui l’Islandese pone il problema del senso della vita umana: “a chi piace o a chi giova — si chiede il viaggiatore — cotesta vita infelicissima dell'universo?” Il doppio finale, amaramente ironico, lascia in sospeso questo profondo interrogativo, confermando il cieco meccanicismo che domina l'universo. STILE La caratteristica dello stile di questa operetta è dato dall'utilizzo della tecnica dell'accumulo, infatti tutta la sua struttura è basata sulla descrizione e l'accumulo di sofferenze e disgrazie (es.: “sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove”) per passare poi nella seconda parte nell'elencazione e accumulo di accuse, con una vera e propria requisitoria, contro la natura (es.: “tu sei nemica scoperta degli uomini...ci assalti...ci pungi...ci laceri...ci offendi...ci perseguiti”). Lo scritto del dialogo di Leopardi trabocca di figure della negazione, sia per caratterizzare il comportamento dell’Islandese (delibera, non dando molestia a chicchessia, non procurando..., non contendendo...), sia a livello retorico, per esempio nella figura retorica della litote: non ignori...di non poco momento, e nella figura retorica dell'antitesi: non finta ma viva..., sia nel lessico dove appaiono frequenti termini di privazione od assenza: tenermi lontano...astenermi...ecc. 22 spegnersi in fretta: Forse s'‘avess'io l'ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale. Nella seconda parte di quest’ultima strofa gli elementi e le figure vengono livellati e l’ipotesi che le bestie siano più felici viene superata a favore di una constatazione di infelicità assoluta e universale (“Forse in qual forma, in quale | Stato che sia, dentro covile o cuna”). Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia risulta così capace di registrare fedelmente le posizioni del pensiero in divenire di Leopardi, il quale, specie nelle pagine del diario del 1823 e in quelle degli anni seguenti, perde progressivamente fiducia nell’idea che altre forme di vita siano estranee al dolore dell’esistere, seppure continua a concedere a queste delle attenuanti che agli uomini, proprio per i danni che essi si sono autoinferti con il nocivo uso della raison, sono eternamente precluse La ginestra La ginestra fu probabilmente composta da Leopardi prima del “Tramonto della luna”. Questo lunghissimo poemetto è il più esteso dei Canti, con sette strofe di dimensioni eccezionali e lunghi periodi che si snodano a volte a cavallo di decine di versi. Si può definire un poemetto lirico-filosofico, che per dimensioni e genere può ricordare i “Sepolcri” di Ugo Foscolo. Si distingue, però, per il suo alto grado di audacia formale, innovazione e radicalità a livello intellettuale. Per quanto riguarda tono e varietà di stile, la Ginestra e un componimento vario che si lascia andare a toni diversi: da quelli infuocati e aspri della polemica a quelli sublimi e complessi della contemplazione, passando per i toni più dolci del dialogo lirico. Ognuna delle sette strofe rappresenta un’unità tematica a sé, ricca di gradazioni di toni, da invettiva a sarcasmo, da elogio commosso a compassione. Parlando di temi e struttura, si possono ben distinguere le varie strofe: Prima strofa: la ginestra viene scelta da Leopardi come sua interlocutrice alle pendici del Vesuvio, dove un tempo si ergevano città fiorenti e ora sono deserte e ricoperte di rovine e cenere. Questo è lo spazio che simboleggia il tragico destino dell’uomo. In questa strofa prevale il sarcasmo. Seconda strofa: qui il poeta definisce l’Ottocento come il «secol superbo e sciocco», accusandolo di aver rifiutato le verità coraggiose del pensiero razionalista. Ancora dominano il tono e le parole sprezzanti dell’invettiva. Terza strofa: in questa strofa Leopardi contrappone la stupidità di quelli che si rifiutano di constatare la miseria umana alla grandezza di chi, invece, ammette la realtà e guarda in faccia la miseria attribuendone la responsabilità alla natura, contro la quale gli uomini devono far fronte comune stringendo legami sociali di solidarietà. Quarta strofa: qui la prospettiva dell’umana infelicità si allarga. Dall’esperienza personale del poeta nasce una meditazione sull’universo e gli spazi celesti. Il poeta, sarcastico, non sa se ridere o avere compassione dell’uomo, che si crede il centro dell'universo. Quinta strofa: in questa strofa c'è una lunga similitudine. Come un frutto cade da un albero e distrugge un formicaio intero, così l’eruzione del Vesuvio risalente al 79 d.C. fece con Pompei, Ercolano e Stabia, annientandole. La natura è indifferente, dunque, e per lei il destino umano non ha più valore del destino delle formiche. 25 Sesta strofa: qui Leopardi osserva come il vulcano sia distruttivo in modo incessante, presentando un paragone tra il tempo umano e i grandi cicli naturali, che si susseguono in un tempo talmente dilatato da far apparire tutto immobile. Settima strofa: l’ultima delle sette strofe, in questa il poeta parla nuovamente con la ginestra, elogiandone l’umiltà e il coraggio. Fragile, nata nel deserto, anche lei è destinata a soccombere sotto le colate laviche, lasciando spazio a un tono commosso dal lessico vago, che suggerisce il cedimento del poeta a un destino di annientamento di tutto quanto, compresa l’eroica ginestra. Tema chiave del componimento è la contemplazione del paesaggio attorno al Vesuvio, perfetta metafora della condizione umana e del rapporto con la natura. Il paesaggio: desertico, imponente, minaccioso, estraneo. Incarna l'indifferenza e la ferocia che Leopardi attribuisce alla natura, vista come nemica e responsabile del dolore dell’uomo e di tutti gli esseri viventi (come le formiche). Con questa posizione Leopardi si distacca completamente da quella che era il suo credo durante il “pessimismo storico”, cioè quando la negatività che si vive nel presente era considerata come perdita di una condizione primitiva che era relativamente felice. La natura, a partire dalle Operette morali (1824), comincia ad apparire come matrigna. Essa infligge sofferenze alle proprie creature, come malattie e cataclismi, fino a farle arrivare alla morte. Qui si vede il pessimismo cosmico tipico di Leopardi, quella visione totalmente negativa della natura per la quale ogni essere vivente è condannato alla perpetua infelicità. Il Vesuvio in questo componimento simboleggia questa natura devastatrice e onnipotente, e la storia umana sembra priva di senso. Dalla distruzione di Pompei nulla è cambiato, constata Leopardi. Gli uomini sono sempre fragili e costantemente esposti a una mortale minaccia. Di fronte a queste evidenze, Leopardi deride l'ottimismo dei suoi contemporanei, accusandoli di codardia perché rifiutano di vedere ciò che è vero. Eppure, una salvezza c'è: la solidarietà tra gli esseri umani. Solo così gli uomini possono reagire all’ingiustizia della natura. 26 27