Scarica Satira VI Giovenale vv. 627-661 e più Appunti in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! La polemica con il genere tragico, e la presa di distanza rispetto ad esso e ai miti, non è qualcosa di nuovo, ma fa parte della satira romana fin dall’inizio della sua tradizione: questo topos è già in Lucilio. All’epoca di Lucilio – fine del II sec. a.C. – la tragedia era ancora in voga a Roma. Gli autori di maggiore successo dell’epoca erano Accio e Pacuvio, ma anche Ennio aveva scritto tragedie di grande successo. Lucilio attacca Accio anche dal punto di vista personale, per la sua statura in contrasto con i temi così alti dei suoi testi. “Scrivete solo di essere prodigiosi -portenta- e di serpenti volanti e dotati di piume”: critica così la distanza della tragedia dalle situazioni concrete della realtà civica e sociale romana. Lucilio accentua il carattere esasperato di alcuni personaggi tragici: a proposito di Telefo, eroe di Accio che dopo una serie di vicende viene ridotto alla condizione di mendicante, cosa che veniva portata sulla scena con toni estremi – Lucilio scrive “è tormentato dalla fame, dal freddo, dalla sporcizia, dal non fare il bagno e dalla trascuratezza”. Descrivendo l’eroe tragico, Lucilio lo rende ridicolo. La polemica e la presa di distanza con i generi alti assume un tono ben diverso con la satira di Orazio. Lui non si può permettere di polemizzare il genere tragico, perché Augusto desiderava un ritorno di successo a Roma per questo genere di teatro. Perciò Orazio prende le distanze dalla tragedia in base a due argomenti che non sono di critica rispetto al genere stesso, ma che fotografano una situazione oggettiva: lui non ha il talento e l’impostazione giusta per scrivere buone tragedie o buoni poemi epici. È il motivo del culpa ingenii, colpa del talento, mancanza di talento. L’altra ragione è che in quel momento la tragedia veniva frequentata da altri autori: non ci sono giunte tragedie di età augustea, ma vi fu una serie di autori che tra età triumvirale e prima età augustea tentarono di rispondere alle richieste di Augusto componendo tragedie. In particolar modo Pollione viene citato in una satira di Orazio, che ci dice che “canta i fatti dei re nel ritmo che batte tre volte”. Questa è una definizione di temi e metro tipici della tragedia. Argomento sono i fatti dei re, di personaggi eccezionali e non comuni; ritmo che batte tre volte: trimetro giambico. In Persio, ultimo dei nostri tre satirici prima di Giovenale, non abbiamo un discorso che direttamente prenda come oggetto la tragedia, ma abbiamo vari passi in cui vi è una presa di distanza dai vates e dalla poesia mitologica. A questa tradizione si allaccia Marziale. Giovenale vi si allaccia, ma quasi rovesciandola: rifiuta la tragedia non perché è lontana dalla vita, ma perché quest’ultima è più tragica della tragedia stessa. Il definirsi nei confronti dei generi alti non è soltanto a Roma e nel genere satirico, ma anche in altri generi medi e medio-bassi, ognuno declinato secondo le sue esigenze: i due esempi più significativi sono l’elegia d’amore e la poesia didascalica. Properzio definisce la sua poesia erotica elegiaca per contrasto con il poema epico: “Nel corteggiamento ha più valore Mimnermo (primo poeta d’amore greco, arcaico, di cui conosciamo il nome della donna amata, Nannò) di Omero”. Rifiuto dell’epica perché non mi serve. Poi, accenno parodico: “Quando sono a letto con lei, per me nascono grandi iliadi”. Rapporto rovesciato e parodico tra le battaglie epiche e quelle “combattute” a letto con la ragazza. Nelle Georgiche, poema didascalico augusteo per eccellenza, Virgilio fa un elenco di temi mitologici triti e ritriti: “Ma chi non ha cantato Ila – fanciullo amato da Ercole che muore annegando in una fonte?” Il poeta didascalico vuole la novitas dei temi, e l’utilità. Vuole che i suoi lettori imparino, senza annoiarsi. Giovenale 6, 627-661 oderunt natos de paelice; nemo repugnet, nemo uetet, iam iam priuignum occidere fas est. uos ego, pupilli, moneo, quibus amplior est res, custodite animas et nulli credite mensae: 630 liuida materno feruent adipata ueneno. mordeat ante aliquis quidquid porrexerit illa quae peperit, timidus praegustet pocula papas. fingimus haec altum satura sumente coturnum scilicet, et finem egressi legemque priorum 635 grande Sophocleo carmen bacchamur hiatu, montibus ignotum Rutulis caeloque Latino? nos utinam uani. sed clamat Pontia 'feci, confiteor, puerisque meis aconita paraui, quae deprensa patent; facinus tamen ipsa peregi.' 640 tune duos una, saeuissima uipera, cena? tune duos? 'septem, si septem forte fuissent.' credamus tragicis quidquid de Colchide torua dicitur et Procne; nil contra conor. et illae grandia monstra suis audebant temporibus, sed 645 non propter nummos. minor admiratio summis debetur monstris, quotiens facit ira nocentes hunc sexum et rabie iecur incendente feruntur praecipites, ut saxa iugis abrupta, quibus mons subtrahitur cliuoque latus pendente recedit. 650 illam ego non tulerim quae conputat et scelus ingens sana facit. spectant subeuntem fata mariti Alcestim et, similis si permutatio detur, morte uiri cupiant animam seruare catellae. occurrent multae tibi Belides atque Eriphylae 655 mane, Clytemestram nullus non uicus habebit.