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Seneca e il tema della schiavitù in Epistulae morales ad Lucilium, Appunti di Latino

Il ruolo della schiavitù nella società romana e la concezione di Seneca

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 08/08/2023

margherita-bietti
margherita-bietti 🇮🇹

8 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Seneca e il tema della schiavitù in Epistulae morales ad Lucilium e più Appunti in PDF di Latino solo su Docsity! Il tema della schiavitù L’economia del mondo romano, in parte anche quella del mondo greco con delle differenze, era basata sullo sfruttamento degli schiavi. La società più schiavista fu quella romana che impiegava la manodopera schiavile su larga scala, nei lavori più usuranti che erano quelli del latifondo e dell’estrazione dei minerali preziosi (argento ed oro). In tutto il periodo delle conquiste, che inizia nella metà del III secolo a.C. e perdura fino alla metà del II secolo d.C. Dalla seconda metà del II secolo l’esigenza di Roma cambiò, ed emerse la necessità di difenderlo l’impero. Dal reclutamento degli schiavi erano escluse le aristocrazie provinciali, che cominciarono lentamente ad avere la cittadinanza romana ma per il resto gli schiavi costituivano una quota consistente della popolazione. Nei mercati italici erano presenti dei razziatori di popolazioni che vendevano questo tipo di merce insieme ai pirati, che si avvalevano come punto di smercio dei grandi mercati di schiavi che si costituivano nelle isole del mediterraneo (mercato di Delo, Rodi , Cipro, Malta). Gli schiavi erano selezionati in base alle loro doti fisiche e alla loro preparazione intellettuale. I più fortunati venivano assunti come dei servi. Coloro che, proveniendo da zone del mondo ellenistico, vantavano una certa cultura, erano o precettori dei figli dei ricchi, specialmente chi conosceva il greco, o praticava l’attività di medico, professione utilissima considerata inferiore ad altre e per questo delegata ad uno schiavo (implicava sporcarsi le mani). la figura dello schiavo che intellettualmente aveva avuto la sua fortuna, che divenne consigliere di Scipione l’Emiliano, è Polibio. Quest’ultimo venne a Roma come schiavo in seguito alla guerra di Macedonia ma la sua levatura intellettuale gli fece fare carriera. Come accadeva in grecia anche a Roma esisteva l’istituzione dell’affrancamento, attraverso cui si poteva diventare liberti, una condizione a metà tra la libertà e la schiavitù. Quando gli schiavi ricevevano il pecunium, un piccolo salario, mettendo da parte potevano riscattare la propria libertà, affrancandosi. I figli nati dopo la liberazione erano liberi, lo dimostra Orazio. Alle volte il padrone poteva prevedere l’affrancamento di alcuni schiavi come volontà testamentaria. L'affrancamento non giovò agli schiavi perchè chi poteva permettersela ormai era vecchio e continuava a gravitare introno alla casa dell’ex padrone con la consolazione di poter svolgere una carica meno gravosa; in più coi soldi il padrone poteva comprare uno schiavo giovane. Gli schiavi dei latifondi erano sfiniti dal lavoro da giovani, in quanto durante la vecchiaia erano inutili. Il famoso Catone il Censore, nel De agricoltura, esprime questo concetto di sfruttamento degli schiavi giovani. Nella storia romana ci furono due grandi rivolte di schiavi. In Sicilia, con la categoria di schiavi addetti alla cura del bestiame; - una avviene nel 130 a.C. - un’altra nel 104 a.C. - Un’altra rivolta fu quella spartana di Capua, dove c’era la famosa scuola gladiatoria, chiamata guerra servile, guidata dal grande gladiatore originario della Tracia, di nome Spartaco, che ha impegnato Roma per ben 3 anni fino a che roma non ha mosso le legioni, guidate da Licinio Crasso, con la truculenta pena di crocifiggere chi veniva catturato. La filosofia accetta il fenomeno della schiavitù a partire da Platone, per continuare con Aristotele. Platone esprime nel De republica come secondo lui ci sono persone che si possono dedicare a queste attività, Aristotele dice che c’è una caratteristica antropologica in questi schiavi, che sono provvisti di solo una parte di ragione sufficiente per capire e obbedire agli ordini dei padroni. Le grandi filosofie che mettono l’aspetto di convivenza con l’altro al primo posto sono quelle ellenistiche, con gli stoici che parlano di uguaglianza tra gli uomini dal momento che in tutti vive una parte di logos e perchè se c’è una ragione che regge il mondo tutto ciò che accade è razionale e deve accadere, quindi non c’è una grande differenza tra chi è schiavo e chi è, libero. Posidonio di Apamea condannò le condizioni disumane di lavoro degli schiavi impegnati nelle miniere d'argento spagnole. Anche gli epicurei parlano di uno stretto legame che deve esiste e tra tutti gli uomini ma la grande premessa tra queste riflessioni è che l’istituzione giuridica della schiavitù non è messa in dubbio, si poteva discutere su come trattare gli schiavi ma non sul fatto che gli schiavi non potevano esistere, dal momento che l’economia si basava su quest’ultimi. Epistulae morales ad Lucilium 47, 1-6; 10-13; 16-21 [1] Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. 'Servi sunt.' Immo homines. 'Servi sunt.’ Immo contubernales. 'Servi sunt.' Immo humiles amici. 'Servi sunt.' Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. Ho appreso con piacere da coloro che vengono da te/provengono da casa tua che tu vivi con familiarità con i tuoi schiavi: questo si addice alla tua saggezza. “Sono schiavi". Anzi uomini- “Sono schiavi”. Anzi compagni di alloggio. “Sono schiavi” anzi umili amici. “Sono schiavi”. Anzi conservi (compagni di schiavitù), se avrai considerato che uguale cosa è consentita alla sorte su entrambi. - Contubernales significa “coloro che vivono sotto la stessa caverna/tenda”, e dicendo ciò infatti Seneca si riferisce a compagni di accampamento militare. - Climax ascendente che sottolinea sempre di più un rapporto stretto con gli schiavi. [2] Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore operā omnia egerat quam ingessit. Perciò io rido di coloro che ritengono vergognoso cenare con il proprio servo e perchè se non perchè una consuetudine oltremodo superba ha messo attorno al padrone che cena una massa di schiavi che rimangono in piedi? Quello mangia più di quanto riesce a contenere e con grande avidità appesantisce la sua pancia disfatta e non più abituata alle funzioni digestive, tanto che vomita tutte le cose con maggior fatica di quanto ha ingerito/di quanto ne ha fatta per ingerirla. [3] At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem ut loquantur, licet; virgā murmur omne compescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ullā voce interpellatum silentium luitur; nocte totā ieiuni mutique perstant. Ma ai servi infelici neppure è consentito muovere le labbra per questo, per parlare; ogni mormorio è punito con la verga, e neppure i rumori involontari sfuggono/lett. sono portati fuori alle frustate la tosse, gli starnuti, il singhiozzo; il silenzio interrotto da un minimo sussurro viene scontato a caro prezzo; tutta la notte restano in piedi digiuni e muti. [4] Sic fit ut isti de domino loquantur quibus coram domino loqui non licet. At illi quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum imminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant. Così accade che parlino/che sparlino male del padrone quelli ai quali non è consentito parlare dinanzi al padrone. Ma quelli ai quali era consentito parlare/ che avevano un discorso non tanto dinanzi al padrone ma con gli stessi padroni dei quali la bocca non veniva cucita, erano pronti a porgere la testa/ dare la vita per il padrone, a stornare sulla loro testa il pericolo imminente; nei banchetti parlavano ma nelle torture tacevano. Dicendo ciò Seneca vuole indicare che gli schiavi trattati meglio sono anche quelli più fedeli al padrone. [5] Deinde eiusdem arrogantiae proverbium iactatur, totidem hostes esse quot servos: non habemus illos hostes sed facimus. Alia interim crudelia, inhumana praetereo, quod ne tamquam hominibus quidem sed tamquam iumentis abutimur. [quod] Cum ad cenandum discubuimus, alius sputa deterget, alius reliquias temulentorum <toro> subditus colligit. nobilissimi giovani schiavi degli attori pantomimi: nessuna schiavitù è più turpe di quella volontaria. Perciò non c’è motivo che codesti schizzinosi ti distolgano dal presentarti cordiale con i tuoi schiavi e non superbamente superiore: ti rispettino piuttosto che ti temano. Seneca intende dire che la vera schiavitù è quella dell’animo; conosce molte persone libere che sono più schiave rispetto a coloro che sono nati in quella condizione sociale. Ad esempio ci sono uomini schiavi di signore anziane, per farsi dare l’eredità, ricchi signori che sottostanno a delle serve per l’attrazione nei loro confronti, e giovani schiavi degli attori di pantomimi. Gli attori di pantomima facevano spettacoli di danza e di mimo, si circondano di persone che gli ammiravano in quanto, essendo attori, erano delle sorte di celebrità, estremamente viziati e capricciosi, con persone intorno a loro sempre disposte a compiacerli. Con le vedute differenze si possono comparare agli spettacoli in voga nell’età della guerra e del dopoguerra spettacoli musicali con ballerine che ballavano e recitavano sketch buffi. Ciò veniva chiamato “La rivista” o “Lo spettacolo”, molti attori italiani, come Alberto Sordi, si erano cimentati in questi spettacoli, con sketch comici intervallati da spettacoli di ballerine. Tornando ai pantomimi, molto spesso gli spettacoli venivano intervallati da ballerine in vestiti succinti che ballavano, attirando il pubblico. Questa è una sentenza utilizzata da Seneca, che ha ribaltato la sentenza “Oderim pur temuant” (mi odino pure purché mi temano, che era un detto di Caligola, riportato da Seneca stesso come esempio negativo nel de Clementia. [18] Dicet aliquis nunc me vocare ad pilleum servos et dominos de fastigio suo deicere, quod dixi, 'colant potius dominum quam timeant'. 'Ita' inquit 'prorsus? colant tamquam clientes, tamquam salutatores?' Hoc qui dixerit obliviscetur id dominis parum non esse quod deo sat est. Qui colitur, et amatur: non potest amor cum timore misceri. Qualcuno ora dirà che io chiamo al berretto gli schiavi e getto giù dal loro posto i padroni, perché ho detto “Rispettino il padrone piuttosto che lo temano”. E così si dirà “Proprio così? Rispettino come i clienti, come i salutatori?”. Colui che dicesse ciò dimenticherà che ai padroni non basta ciò che è sufficiente per un dio. Chi è rispettato è anche amato: l’amore non si mescola con la paura. “Chiamare al berretto” è un modo ad indicare “chiamare alla rivolta”, perché il pilleum era il berretto frigio utilizzato dagli schiavi affrancati, simbolo dell’essere diventati liberti. L’istituto della clientela è un fenomeno che si intensifica tra gli artisti, gli scrittori, che non potendosi più mantenere in cambio di voto e di sostegno erano sotto un patronus. I salutatori erano un caso particolare di clientes che la mattina solitamente salutavano il padrone nella speranza di ricevere un compenso, mettendosi a disposizione dei padroni, che gli davano spesso delle incombenze quotidiane. Nel portare a termine queste incombenze ottenevano la sportula, che talvolta consisteva in del cibo vero e proprio o in una piccola mancia. Se dio vuole solo il rispetto come una persona che ha al di sotto di sé degli schiavi può volere di più? [19] Rectissime ergo facere te iudico quod timeri a servis tuis non vis, quod verborum castigatione uteris: verberibus muta admonentur. Non quidquid nos offendit et laedit; sed ad rabiem cogunt pervenire deliciae, ut quidquid non ex voluntate respondit iram evocet. Ritengo che tu agisca in maniera assai corretta, perché non vuoi essere temuto dai tuoi servi, perchè utilizzi/ti avvali del castigo delle parole: le bestie si correggono a frustrate. Non tutto ciò che ci colpisce ci danneggia; ma la vita troppo semplice ci costringe a giungere al risentimento, così che tutto ciò che non risponde alla nostra volontà provoca l’ira. Seneca intende dire che Lucilio non frusta gli schiavi ma gli parla, cercando di farli ragionare. Secondo il filosofo l’abitudine del piacere ha abituato a non sopportare la benchè minima contrarietà. [20] Regum nobis induimus animos; nam illi quoque obliti et suarum virium et imbecillitatis alienae sic excandescunt, sic saeviunt, quasi iniuriam acceperint, a cuius rei periculo illos fortunae suae magnitudo tutissimos praestat. Nec hoc ignorant, sed occasionem nocendi captant querendo; acceperunt iniuriam ut facerent. Ci vestiamo gli animi di re; infatti quelli dimentichi delle loro potenzialità e della debolezza altrui così vanno su tutte le furie , così infieriscono, come se avessero quasi ricevuto un offesa, ma dal pericolo di una cosa del genere la grandezza della loro sorte li rende sicurissimi/li mette completamente al riparo. E non ignorano questo ma lamentandosi prendono l'occasione di nuocere; dicono di aver ricevuto un’ingiuria per farla. Secondo Seneca si comportano tutti come sovrani, che infieriscono appena gli viene detto qualcosa come se avessero ricevuto un’offesa; ma essendo re la loro condizione gli evita per il loro stato sociale che qualcuno li possa offendere. Spesso si inveisce contro gli schiavi solo per sfogarsi, non perché questi hanno recato realmente un’offesa. [21] Diutius te morari nolo; non est enim tibi exhortatione opus. Hoc habent inter cetera boni mores: placent sibi, permanent. Levis est malitia, saepe mutatur, non in melius sed in aliud. Vale. Non voglio trattenerti più a lungo; non c’è bisogno per te di esortazione/non hai bisogno di troppi consigli. I buoni costumi tra le altre cose hanno anche questo: piacciono a loro stessi e rimangono/ rimangono inalterati. Il vizio è incostante, spesso muta non in meglio ma in altro. Stammi bene.