Scarica SENZA CASA E SENZA PAESE - SILVIA SALVATICI e più Dispense in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! SENZA CASA E SENZA PAESE. PROFUGHI EUROPEI NEL SECONDO DOPOGUERRA Silvia Salvatici Indice • Introduzione p. 9 • I.Chi sono i «displaced»? 1. Georg Ratkowsky. - 2. L'eredità della guerra e le «displaced persons». - 3. Età, sesso e nazionalità: la composizione dei DPs. - 4. Vittime o malfattori? Percezioni e rappresentazioni dei «displaced». • II. Il popolo dei campi 1.Juozas Skorubskas. - 2. La costellazione dei centri collettivi. - 3. Attraverso i confini dei campi. - 4. Una molteplicità di soggetti e di relazioni. • III. Tornare in patria, ristabilire l'ordine 1.Romualda e Vitautas Sidlauskas. - 2. Il «primato del ritorno». - 3. Ritorni obbligati. - 4. Il rimpatrio dei bambini. • IV. Il lavoro, una carta d'imbarco 199 1. D.M. e K.S. - 2. Il lavoro tra diritto e dovere. - 3. Verso una nuova patria. • Epilogo L'autrice espone in primo luogo le politiche adottate dagli Alleati per risolvere la questione delle "displaced persons", dai primi piani di rimpatrio ai successivi programmi di emigrazione nei paesi occidentali. Ricostruisce poi la quotidianità dei campi di raccolta, attraverso le storie di uomini, donne e bambini che hanno alle spalle l'esperienza della deportazione o della fuga, vivono la precarietà del presente e devono confrontarsi con le incertezze del futuro. Nel concreto di quell'esperienza umanitaria trova origine l'approccio delle società contemporanee alla questione dei profughi e vengono poste le basi del regime internazionale per i rifugiati ancora oggi vigente. INTRODUZIONE 1. Il secolo dei rifugiati Nel XX secolo i percorsi delle migrazioni si moltiplicano, così come il numero di persone in movimento. Questo ingrossamento delle file dei profughi comincia con le guerre balcaniche (1912-13) ed esplode definitivamente con il primo conflitto mondiale. I trattati di pace non sanciscono la fine degli esodi e delle espulsioni. Verso la metà degli anni '20 sul continente europeo le persone vittime di trasferimenti forzati o in fuga ammontano a 9 milioni e mezzo. A essi si aggiungeranno le centinaia di migliaia di uomini e donne che scappano dai regimi dittatoriali all'interno dei quali sono perseguitati per motivi razziali e politici. Gli esodi e le espulsioni, insieme alle deportazioni, segnano il volto della seconda guerra mondiale. Nemmeno nel 1945 con la conclusione della guerra coincide con la fine delle migrazioni forzate > 12 milioni di tedeschi espulsi dalle regioni orientali. Il sistema degli stati-nazione che nel corso del XX secolo ridisegna la carta geopolitica europea è all'origine dei flussi di profughi causati dalle politiche di omogeneizzazione e dai conflitti armati che essa implica. L'affermarsi e il consolidarsi di quel sistema danno luogo a una forma diversa di sradicamento, coincidente con la perdita di appartenenza alla comunità nazionale entro la quale si definiscono l'identità e i diritti dei singoli membri. Senza casa e senza paese > chi cerca asilo lontano dai luoghi di residenza abituale recide i legami morali e legali che stanno alla base del rapporto fra gli individui e lo stato, grazie ai quali uomini e donne divengono cittadini e cittadine. 2. Dalla Società delle Nazioni all'Acnur La maggior parte di coloro che entrano a far parte della categoria dei DPs sono gli ex deportati ai lavori forzati nella Germania di Hitler. Assai più esiguo è il gruppo degli ex perseguitati per ragioni politiche o razziali. Nell'immediato dopoguerra l'accrescimento del numero di DPs sotto la tutela angloamericana è conseguenza del trasferimento massiccio di popolazione che, a partire dal 1943, aveva seguito la ritirata della Wehrmacht sul fronte orientale > la maggioranza dei profughi provenienti dai fronti di combattimento che alla fine del conflitto possono conseguire lo status di DPs è quindi costituita da cittadini dell'Europa orientale. La questione dei profughi appare centrale per la ricostruzione europea che rappresenta un ''problema mondiale'' > la moltitudine dei displaced è considerata la più pericolosa bomba a orologeria lasciata da Hitler. Piano per la soluzione definitiva del problema: inizialmente l'unico obiettivo perseguito dagli Alleati è il rimpatrio, poi le centinaia di migliaia di persone che non intendono tornare nei loro luoghi di origine impongono il ricorso all'emigrazione massiccia dei profughi verso altri paesi dell'Europa occidentale e soprattutto oltreoceano. Il nucleo consistente di uomini e donne per i quali è necessario trovare una nuova patria conferisce connotati specifici al displacement postbellico e ne allunga la durata. La questione finisce per essere ufficialmente considerata chiusa solo nel 1951, quando gli ultimi centri rimasti operativi e le migliaia di persone che ancora vi risiedono vengono trasferiti sotto la responsabilità della Repubblica federale tedesca. 4. I profughi, gli Alleati, le Nazioni Unite Tra il '45 e il '51 le decisioni che riguardano le displaced persons restano di competenza delle autorità militari angloamericane, le quali mantengono nelle due zone una linea di condotta generale pressoché identica su ogni singolo aspetto del problema. Le differenti scelte di metodo nell'applicazione delle soluzioni condivise portano però alla garanzia di migliori condizioni di vita nell'area governata dagli USA. A occuparsi della popolazione profuga non sono soltanto i militari, ma una molteplicità di soggetti diversi. Prime fra tutti le agenzie dell'Onu, che su mandato dell'amministrazione alleata assumono la conduzione dei centri collettivi, forniscono assistenza sanitaria, provvedono ai ricongiungimenti familiari e infine gestiscono i programmi di emigrazione dei profughi per i quali non si è potuto provvedere al rimpatrio. Sono presenti anche associazioni che contribuiscono alla generazione di generi di prima necessità, alla realizzazione di attività ricreative, all'organizzazione di scuole e corsi di formazione professionale. La linea di condotta generale tracciata dagli Alleati passa dunque attraverso la mediazione di questa varietà di organismi, che interpretano, negoziano, si ritagliano i propri spazi di autonomia e talvolta osteggiano apertamente i provvedimenti militari, pur non potendo sottrarsi ad essi. Il rapporto di subordinazione alle autorità militari è molto più netto per quello che riguarda l'Unrra, mentre l'Iro è dotato di una maggiore autonomia, soprattutto in virtù dell'incarico specifico ricevuto dall'Assemblea Generale dell'Onu, vale a dire la sistemazione (resettlement) di tutti i profughi che rifiutano il rimpatrio nei paesi occidentali disposti a riceverli. Pure disponendo di una capacità contrattuale diseguale, prima l'Unrra e poi l'Iro oppongono al pragmatismo degli Alleati un programma di ispirazione umanitaria. I due approcci, quello delle Nazioni Unite e quello delle forze di occupazione, convergono su alcuni criteri di fondo, funzionali a mantenere un costante controllo sulla moltitudine dei displaced, incoraggiandone prima il rimpatrio e poi la preparazione per il resettlement. 1 classificazione della popolazione profuga in base alla nazionalità 2 gestione dei campi come spazi separati 3 adozione del lavoro come strumento centrale nei programmi di riabilitazione Tuttavia le tensioni fra gli organismi dell'Onu e i governi militari contribuiscono a gravare l'amministrazione del displacement di ambiguità, di disuguaglianze tra una località e l'altra, di ripetuti aggiustamenti di rotta. Gli Alleati irrigidiscono progressivamente le pressioni esercitate sulle displaced persons per ottenere la piena occupazione, fino a ipotizzare misure di costrizione nei confronti di coloro che rifiutano un qualunque tipo di reclutamento. I rappresentanti delle Nazioni Unite, invece, vedono favorevolmente l'utilizzo degli incentivi per spingere i profughi a lavorare e provvedimenti punitivi ad hoc per chi non intende adempiere al proprio lavoro. Agli abitanti dei centri giungono messaggi contrastanti che possono tradursi in risoluzioni diverse da un centro all'altro. Ciascuno tenta di ricavarsi uno spazio di manovra e di esercitare una possibilità di scelta, interpretando, aggirando o violando le norme a seconda delle proprie necessità ed aspirazioni. 1. CHI SONO I DISPLACED? 2 . L'eredità della guerra e le displaced persons Gli Alleati avevano previsto di dover affrontare l'emergenza rappresentata dai profughi nei territori liberati > politiche di spostamento di popolazione adottate dal regime naziste: l'occupazione di manodopera straniera nel Reich era iniziato subito dopo lo scoppio della guerra, prima su base volontaria e poi attraverso vere e proprie razzie. Ai lavori forzati erano poi stati destinati i deportati per ragioni politiche o razziali, e lo sfruttamento estremo delle loro forze si era tradotto nella morte di massa. L'elaborazione di questa normativa da parte degli Alleati, se da un lato risponde alla necessità immediata di fornire dei criteri per affrontare l'emergenza rappresentata dal displacement di massa, dall'altro opera nell'assenza di ogni strumento legislativo internazionale per il riconoscimento della condizione di profugo, seguita al dissolversi della Sdn > essa aveva affermato il principio secondo il quale la condizione di fuga costituiva uno status specifico, attribuito a una insieme di persone distinto in base alla nazionalità, e per il quale si identificavano di volta in volta i requisiti necessari. Questo approccio settoriale torna con la definizione dei DPs degli Alleati. 2.2 I requisiti richiesti dall'Unrra Nel novembre del 1945 l'Unrra stipula con i rappresentanti dell'esercito britannico e di quello statunitense due accordi separati, in cui si stabilisce quali specifiche funzioni sono affidate agli operatori dell'organizzazione internazionale nelle due zone della Germania occupata. In entrambi i casi le autorità militari mantengono la responsabilità e il controllo su tutte le operazioni che riguardano i profughi, oltre a svolgere direttamente le attività di approvvigionamento, trasporto e tutela dell'ordine pubblico, mentre assegnano all'Unrra la gestione dei campi e l'organizzazione di tutti i servizi che devono essere prestati al loro interno. Il diritto all'assistenza dell'Unrra è riconosciuto a tutti coloro che sono stati perseguitati per ragioni politiche e agli United Nations nationals, ma vengono aggiunte ulteriori esclusioni, che riguardano, oltre ai DPs provenienti da paesi schierati con l'Asse, criminali di guerra e collaboratori del nazifascismo > approccio individuale che riconosce una responsabilità dei singoli nelle azioni compiute durante la guerra e in base ad essa incrina il principio di nazionalità. Alla formale divisione dei compiti corrisponde tuttavia una sostanziale difficoltà nel gestire tutta l'operazione di identificazione e selezione, che resta avviluppata nel caos fino al 1946: le persone a cui dedicare i colloqui sono milioni, la necessaria intermediazione dei traduttori rende il lavoro più lento. Il mancato coordinamento tra l'esercito e l'Unrra contribuisce ad accrescere il disordine e genera tensioni. Un'ulteriore complicazione sembra essere poi costituita dalla mancanza di conoscenze adeguate per applicare i criteri stabiliti dal Comando alleato : prima fra tutte emerge la scarsa capacità di orientarsi lungo il complicato spettro delle nazionalità > diffuso disorientamento dovuto al fatto che il modello occidentale prevalente secondo il quale alla comunità nazionale corrisponde uno stato chiamato a governarla, si infrange di fronte alla complessa articolazione delle identità nazionali dell'Est, che il displacement ha condotto nel cuore dell'Europa >>> caso di Georg Ratkowsky 2.3 Il mandato dell'Iro Le complesse procedure di identificazione e rilascio dei documenti si concludono nel 1946, al termine del mandato dell'Unrra. La questione dei DPs appare ancora irrisolta, pertanto le Nazioni Unite progettano l'istituzione di un nuovo organismo che rimanga operativo per un arco di tempo circoscritto e risolva il problema in maniera definitiva > Iro (1945 -1951) La costituzione della nuova organizzazione è firmata da 15 paesi, che si impegnano anche finanziarla; tra di essi non compare l'URSS, che si oppone al mandato dell'Iro per quanto riguarda il resettlement dei profughi in paesi terzi e ritiene che l'unica soluzione da perseguire debba essere quella del ritorno ai paesi d'origine. L'Iro si configura come un organismo che resta largamente sotto l'influenza degli USA; non a caso nella zona statunitense la delega che riceve è più ampia di quanto non sia stata quella dell'Unrra. Il passaggio tra i due organismi sancisce l'adozione di nuovi criteri di idoneità, che però non cambiano il profilo dei displaced. Per l'Iro la definizione viene inclusa in quella più complessiva di refugees, termine che assume un diverso significato > sono considerati rifugiati tutti coloro che si trovano al di fuori del proprio paese d'origine sia perché sono state vittime del nazifascismo, sia perché sono impossibilitati o non disposti ad avvalersi della protezione del governo del proprio paese di appartenenza. Con questa definizione si determina che la questione dei profughi non può essere disgiunta da quella dei mutamenti territoriali e politici seguiti alla guerra. Tali mutamenti sono considerati all'origine del rifiuto opposto da parte di molti DPs alla politica del rimpatrio; un rifiuto di cui si afferma la legittimità in tutti quei casi in cui siano rilevate '' valide obiezioni '' di natura politica o comunque riconducibili a una '' persecuzione [in atto] o a un fondato timore di persecuzione per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinione politica. Vi è comunque una nuova operazione di screening, con la quale si intende verificare il diritto all'assistenza sia fra coloro che l'hanno già acquisito, sia tra i richiedenti più recenti. Si ripropone il problema degli incerti strumenti decisionali di cui sono dotati gli operatori. Quest'ultimi percepiscono la gravità del divario tra l'approccio legalistico, a cui sono improntate le operazioni di screening promosse dall'organizzazione, e il frequente ricorso dei singoli al proprio istinto o alle proprie emozioni. 2.4 I DPs: un nuovo soggetto collettivo La determinazione della figura del DPs da un punto di vista normativo corrisponde all'identificazione di un soggetto collettivo che da un lato viene posto al centro di studi e ricerche volte a indagarne i caratteri, dall'altro diventa il referente privilegiato non solo delle organizzazioni dal medesimo paese. Le autorità militari britanniche si esprimono con fermezza su questo punto, dichiarando che '' è inammissibile accettare la teoria nazista secondo la quale gli ebrei costituiscono una razza a sé. Gli ebrei, come tutte le altre sette religiose, dovrebbero essere trattati in base alla loro nazionalità [..]''. Rispetto a questa presa di posizione è determinante la paura di una massiccia emigrazione verso la Palestina, ancora sotto il mandato della Gran Bretagna. Da parte degli americani, invece, si registra una diversa presa di posizione già nel'45 con il rapporto Harrison sulla situazione dei sopravvissuti ai lager nazisti > oltre a denunciare le misere condizioni di vita dei superstiti della shoah, chiede esplicitamente di abbandonare il criterio di nazionalità nei provvedimenti relativi ai profughi : '' gli ebrei in quanto ebrei sono stati più duramente perseguitati rispetto ai non ebrei della medesima o di un'altra nazionalità […] il rifiuto di riconoscere gli ebrei in quanto tali significa, in questa situazione, chiudere un occhio di fronte alla precedente e più barbara persecuzione che hanno subito ''. La componente ebraica assume progressivamente un maggior rilievo tra la popolazione profuga: la soluzione del ritorno incontra sempre meno favore tra coloro che provengono dai paesi dell'Europa orientale, ma da questi stessi paesi giungono in Germania drappelli sempre più cospicui di ebrei in fuga dall'antisemitismo che segna gli anni del dopoguerra > es. pogrom di Kielce del '46 Un'interpretazione in senso stretto della definizione delle displaced persons non consentirebbe ai nuovi arrivati di rientrare in questa categoria perché non si trovavano in Germania prima della fine della guerra né sono giunti sul territorio tedesco a causa di essa. Ciò nonostante le autorità americane li equiparano ai DPs, non si tratta però di un'eccezione ufficialmente motivata. In un secondo momento si introduce un limite ad quam e il riconoscimento dello status di displaced viene negato a tutti coloro che non hanno fatto il loro ingresso nella zona USA dopo il 21 aprile 1947. E' una data per la quale al flusso dall'Europa orientale si sono aggiunti i numerosi trasferimenti dalla zona britannica, nella quale i provvedimenti per i Jews sono ancora una volta più restrittivi. I paesi di origine sono raramente rilevati dalle statistiche; l'unica distinzione a cui ricorrono sia gli americani sia gli inglesi riguarda l'utilizzo del termine infiltrees per indicare tutti coloro che sono arrivati in Germania dopo la fine del conflitto. Ucraini > la loro situazione è complessa poiché sono una comunità nazionale alla quale non è mai corrisposto un unico stato e che è stata storicamente compresa all'interno di paesi diversi. Sono considerati un sottogruppo nazionale piuttosto che una nazionalità. Coloro che prima del 2 settembre 1939 erano residenti in URSS, Polonia, Cecoslovacchia ecc. dovranno essere considerati come cittadini di quei paesi. Nonostante l'apparente linearità, le indicazioni delle autorità militari risultano di assai difficile applicazione, in primo luogo perché sono incerti gli stessi criteri di riconoscibilità dei DPs n questione: si può solo dire che sono quelle persone che parlano ucraino e che desiderano essere considerati ucraini. In realtà il disorientamento generato dall'incapacità di far concordare un medesimo ''sottogruppo'' con stati nazionali diversi, finisce per tramutarsi in un'opportunità per coloro che cercano di sfuggire al rimpatrio (ad esempio dichiarandosi polacchi anche se i loro luoghi d'origine erano inclusi entro le frontiere dell'URSS prima della guerra). Le stesse autorità ne sono consapevoli, ma da un lato hanno ben pochi strumenti per arginare il fenomeno, dall'altro finiscono per ritenere vantaggiosa la possibile manipolazione del criterio di nazionalità. Quella sollevata non è una mera questione di nomenclatura e proprio per questo alla fine si propone di modificare il sistema in vigore limitandosi a specificare dopo l'indicazione della cittadinanza quando si tratta di un DPs ucraino, utilizzando semplicemente il termine generico Ukranians per indicare l'insieme di questi profughi. Tra la popolazione profuga lo spettro delle appartenenze e delle nazionalità risulta dunque ampio. Anche la mutevolezza con cui questo spettro viene proiettato dai dati ufficiali è indicativa: rivela i paradossi del principio di nazionalità applicato ai DPs, mettendo a nudo il mancato riconoscimento dei bisogni e dei diritti dei profughi, schiacciato dal prevalere della logica delle nazioni. Per certi versi tale logica è fatta propria dagli stessi DPs, che rivendicano la distinzione dei singoli gruppi da parte delle autorità e rafforzando le loro appartenenze collettive proprio attraverso l'esperienza del displacement. [vedi caso di Piotr]. 3.2 Uomini, donne, bambini Nei primi anni la distinzione fra uomini e donne nelle cifre che tentano di dar conto del numero dei DPs è decisamente sporadica. Nel 1945 emerge la percentuale più alta di popolazione maschile rispetto a quella femminile. Le persone condotte dai nazisti ai lavori forzati sono in larga misura uomini, e anche tra i sopravvissuti alla shoah la percentuale maschile è maggiore. Nel 1949 gli uomini costituiscono il 54% circa dei profughi quindi l'asimmetria quantitativa tra la componente maschile e quella femminile sembra essersi significativamente ridotta nel tempo. Giocano un ruolo di primo piano i programmi di insediamento in altri paesi, che si sono intensificati dopo il 1947, che in molti casi prevedono l'immigrazione di soli maschi adulti, perché più facilmente inseribili nel mercato del lavoro. Il processo di femminilizzazione ha luogo contemporaneamente al trasformarsi dei DPs nell'insieme di quelle persone che non sono state ancora selezionate per il resettlement. La popolazione profuga non è soltanto più maschile rispetto alle società europee prebelliche e postbelliche ma è anche marcatamente più giovane. Anche le sproporzioni tra dovrebbero assegnare ai cittadini tedeschi: questa differenza vuole esplicitamente marcare il diverso ruolo rispetto al conflitto appena concluso. Secondo gli accordi di Yalta gli alleati si sono impegnati a garantire ai DPs sovietici migliori condizioni di alloggio, di alimentazione e di assistenza sanitaria; in realtà questi accordi suscitano immediate reazioni negative tra le autorità militari che dovrebbero applicarle. Il provvedimento resta così lettera morta. E' invece il passare del tempo a segnare l'introduzione di sensibili variazioni nelle razioni alimentari dei DPs: gli elementi che vengono presi in considerazione nel valutare l'opportunità o meno di ridurre ancora le razioni previste per i DPs sono di varia natura. In parte riguardano le difficoltà di approvvigionamento, inoltre si ritiene che il ribasso delle calorie sia necessario per indurre i profughi a prendere parte ai programmi di occupazione promossi dalla Ccg e avere così diritto alla più corposa razione alimentare assegnata ai lavoratori. Tuttavia un ulteriore diminuzione porterebbe le calorie destinate ai DPs al pari di quelle previste per la popolazione locale, annullando così la differenza di status tra gli uni e gli altri. Ciò viene ritenuto un elemento deterrente per le sue ricadute politiche. La Ccg sembra tuttavia maturare in autonomia la sua decisione finale. I funzionari dell'Unrra protestano sostenendo che i nuovi parametri non sono affatto idonei ad assicurare buone condizione di salute ai profughi, anche perché la quantità di calorie realmente assunte è sempre inferiore a quella ufficialmente prevista, sia per la scarsità di alcuni prodotti sia per la cattiva qualità del cibo distribuito. In definitiva solo condizioni di eccezionalità assicurano un'alimentazione migliore, poiché essa non costituisce più un diritto conseguente allo status di DPs ma si può acquisire solamente assolvendo al dovere del lavoro. 3.4 Una categoria dai confini mobili Le autorità militari, generalmente ostili ai ''matrimoni internazionali'' per le complicazioni legali che essi comportano, rilevano con preoccupazione l'entità del fenomeno, cercando di fronteggiarne le conseguenze. Il provvedimento a cui si arriva qualche mese più tardi prevede che se uno dei coniugi ha ottenuto lo status di DPs, anche gli altri membri della famiglia abbiamo diritto a richiederlo. L'espansione dei confini del displacement attraverso il matrimonio senza dubbio impedisce un'ulteriore crescita del numero di donne sole con bambini ma non è scevra di complicazioni. In primo luogo il matrimonio consente di acquisire lo status di DP ma non la nazionalità del coniuge, perché i paesi d'origine dei profughi ne valutano il conferimento caso per caso e sono generalmente contrari ad accogliere le richieste delle donne tedesche, né consentono loro si seguire i propri mariti sulla vita del ritorno. Così questi matrimoni che uniscono tedesche e displaced si traducono in un impedimento per il procedere delle operazioni di rimpatrio. Nella zona britannica si stabilisce che le mogli tedesche possono ricevere un trattamento uguale a quello dei loro mariti displaced solo se si sono sposate prima del 17 maggio 1947. tuttavia sono frequenti i casi in cui le autorità tedesche continuano a chiedere alle donne che convolano a nozze con un DP di consegnare carta di identità e tessera alimentare > così le mogli tedesche dei residenti nei campi non solo non cadono sotto la tutela delle forze internazionali ma perdono anche i loro diritti di cittadine della Germania. L'Iro modifica la normativa dichiarando che si può accedere allo status di DPs tramite il matrimonio solo se il coniuge è un hardship case, cioè una persona che vive in uno stato di estrema privazione. Permeabilità delle linee di confine tra DPs e popolazione locale > non è a una sola direzione, dato che è possibile perdere lo status di DP. Nel 1947 gli screening hanno una frequenza eccessiva tanto da instillare un continuo senso di insicurezza tra gli abitanti dei campi. Oltre a utilizzare le testimonianze raccolte tra i profughi stessi, le autorità militari si muovono sulla base di indicazioni provenienti dagli uffici investigativi. Il movente di questi provvedimenti ad personam è dato dall'imputazione di collaborazionismo con i nazisti che viene spesso definitivamente comprovata solo con la tardiva acquisizione dei documenti del Terzo Reich. Si può perdere lo status di DP anche per la condotta tenuta nei campi. 4 Percezioni e rappresentazioni dei displaced Percezioni ambigue e discordanti > i profughi sono le vittime della guerra ma anche i possibili collaboratori dei tedeschi, sono persone malate e bisognose di assistenza, ma anche inclini a vivere nell'illegalità. Le immagini dei displaced che circolano hanno le loro radici in questo momento storico, ma al tempo stesso diventano la matrice di stereotipi destinati a durare nel tempo. Percezioni e rappresentazioni dei DPs assumono forme differenti lungo il confine tra ''interno'' e ''esterno'': da un lato traspaiono documenti che restano nel circuito delle comunicazioni tra i diversi organi militari e i funzionari dell'Unrra e dell'Iro; dall'altro sono al centro della presentazione dei DPs rivolta all'opinione pubblica, a sua volta parte integrante nella rappresentazione della liberazione e dell'occupazione della Germania promossa da coloro che ne sono i protagonisti. 4.1 Ex lavoratori forzati e collaborazionisti Kathryn Hulme > operatrice prima dell'Unrra e poi dell'Iro Psicologia del rifugiato > apatia : '' hanno perduto il ruolo che avevano in passato all'interno di una società organizzata e dunque vegetano''. Tale immagine risulta ambigua rispetto all'identificazione delle cause del fenomeno poiché da un lato descrive il displacement come condizione che ineluttabilmente conduce all'inattività e all'assenza di volontà, dall'altro presenta i profughi come persone comunque incapaci di reagire, inclini all'indolenza e alla dipendenza > il disagio psicologico finisce per essere associato alla rilassatezza o addirittura alla corruzione morale. Le donne, ad esempio, non sono più ritenute capaci di essere madri: ciò deriva dall'alto tasso di figli illegittimi, dai casi di abbandono o di vendetta sui bambini. Ma non mancano le osservazioni che espressamente giudicano tutti questi fenomeni come il segnale dell'inevitabile inquinamento della natura femminile all'interno dei campi. Vengono avviati corsi di rieducazioni specifici, rivolti soprattutto alle più giovani e pensati per l'acquisizione di tutte le capacità proprie di una moglie e madre esemplare. Natura selvaggia dei piccoli displaced > infanzia alterata nella sua essenza, come dimostrerebbe l'elevato grado di maturità e l'eccessivo disincanto dei più giovani abitanti dei campi, ma anche la loro tendenza a mentire, a truffare il prossimo e ad avere atteggiamenti aggressivi. La psicologia del rifugiato costituisce un ostacolo inquietante al progetto di ricostruzione sociale, morale e politica che muove con decisione verso la riaffermazione della famiglia e dei suoi valori. D.P. Apathy (1956) di Eduard Bakis > proposta interpretativa che fa propria l'idea di un comportamento tipico irrispettoso delle regole, tuttavia tenta di giustificare tale comportamento, sottraendolo alla sfera dell'illegalità: la vita che i profughi sono costretti a condurre è tale da imporre un ripensamento del confine tra il lecito e l'illecito. Per le autorità militari la violazione delle regole corrisponde all'emergenza della criminalità, che nel corso degli anni resta un problema di primo piano per gli alleati, poiché non riguarda soltanto la salvaguardia dell'ordine e della disciplina all'interno dei campi ma anche il rapporto con gli abitanti e con le istituzioni locali Ebrei , 2. IL POPOLO DEI CAMPI 2. La costellazione dei centri collettivi L'idea di istituire un insieme di centri collettivi destinati alla residenza dei profughi è condivisa dalle autorità militari fin dal principio > consuetudine all'internamento della popolazione civile nata in ambito coloniale a fine Ottocento e proseguita con la prima guerra mondiale. Nello stesso tempo le politiche di internamento erano precipitate in un abisso di orrore con il sistema concentrazionario nazista. Tale parallelismo è molto temuto dai militari perché offusca il loro ruolo di liberatori e introduce il sospetto di una continuità col passato > idea fatta propria dagli studiosi La cifra di una simile politica di intervento che coniuga passato e futuro arrivando a forgiare il moderno approccio all'emergenza umanitaria rappresentata dai profughi, sembra essere costituita dalla combinazione fra soccorso e sorveglianza > principio ordinatore dei centri collettivi 2.1 Assembly Centers Si sceglie il nome Assembly center, generico, preferibile a ''campi'' che rimanda alla realtà concentrazionaria nazista. In molti casi questo nome designa una ex caserma delle forze armate tedesche, danneggiata dai bombardamenti e incapace di rimuovere la sua vecchia identità. Questo tipo di insediamento viene privilegiato negli anni di attività dell'Iro. La grande capienza degli ambienti non esclude il sovraffollamento, che costituisce uno dei problemi più frequentemente denunciati dai responsabili degli AC. La drammaticità dell'emergenza viene meno con l'andar del tempo ma il problema resta, soprattutto nei termini della mancanza di ogni spazio di intimità personale o famigliare. Tuttavia la loro conformazione facilita lo svilupparsi di una vita collettiva che trova espressione negli spazi comuni > i culti religiosi rivestono un ruolo centrale nel definire le geografie interne ai centri collettivi. A questa definizione concorrono anche altri locali adibiti all'uso pubblico che nelle ex caserme vengono solitamente riallestiti nei fabbricati prima destinati alla stessa funzione. Anche gli spazi esterni sono connotati dalle diverse attività collettive che si sviluppano nel corso degli anni. Reinhardt Kaserne > i cortili sono la sede e il simbolo della vita collettiva della popolazione degli AC Gli Alleati riadattano per i DPs gli alloggi destinati ai lavoratori dell'industria durante il Terzo Reich, che vanno dai villaggi operai ai campi costruiti per i deportati dall'Europa orientale > gli spazi abitativi sono angusti Il percorso di trasformazione dei campi di concentramento in centri permanenti per i DPs riguardano un numero ridotto di casi, ma è senza dubbio assai più complesso e sofferto > es. Bergen-Belsen : i sopravvissuti vengono spostati negli ex alloggiamenti delle SS, mentre le baracche in cui risiedevano i deportati vengono bruciate. futuro del paese > nel luglio del '45 si ipotizza l'allontanamento e la residenza in luoghi separati dei polacchi che hanno scelto l'opzione del ritorno, per impedire che cambino idea. Anche nella zona americana si adottano misure simili, ma qui il trasferimento in campi separati è prescritto per coloro che svolgono attività volte a scoraggiare il rimpatrio dei propri connazionali. Resettlement > potenziamento delle attività di formazione professionale, considerate indispensabili per rendere i profughi idonei alla sistemazione in un altro paese. Alcuni campi vengono così dedicati esclusivamente ai corsi professionali e si tramutano in Vocational Training Schools. Inoltre il pieno sviluppo die programmi di emigrazione richiede la creazione di spazi separati, interamente dedicati alle procedure di selezione > Resettement Centers dove i potenziali migranti sono sottoposti ad accurati esami medici, oltre a sostenere i colloqui condotti dagli operatori dell'Iro e dai rappresentanti sia delle autorità militari sia dei governi che si apprestano a riceverli. Le uniche strutture a cui si attribuiscono una funzione specifica e una nuova denominazione sono i Residual Camps, pensati per alloggiare esclusivamente coloro a cui non viene riconosciuta nessuna possibilità concreta di essere selezionati per un impiego in un altro paese. Il processo di specializzazione delle singole strutture coincide, sia con una trasformazione dei loro elementi costitutivi, sia con l'adozione di nuove forme di classificazione dei DPs, che possono essere divisi in potenziali migranti, lavoratori già ingaggiati in attesa di partire e futuri assistiti del governo tedesco. 2.3 Un sistema in estinzione Il contenimento e la riduzione, laddove è possibile, del numero complessivo degli AC diventano molto presto un obiettivo prioritario degli Alleati. Già nel '46 gli Headquarters della Ccg emettono un'ordinanza nella quale si chiede sia di utilizzare i campi al massimo delle loro capacità, sia di chiudere quelli più piccoli. Le due indicazioni sono strettamente connesse. In realtà ci vuole ancora un po' di tempo perché la concentrazione della popolazione profuga e la chiusura dei campi diventino operative su larga scala, oltre che condivise con i militari americani. Programma di fusione > in primo luogo esso è dettato da ragioni prettamente finanziarie per economizzare sul personale e sulle spese di gestione delle strutture. Inoltre si intende anche arginare la pressione che la popolazione tedesca esercita sulle forze di occupazione per riavere indietro le strutture abitative che a essa sono state requisite. I nuovi progetti di ricostruzione della Germania postbellica spingono gli Alleati verso una posizione differente, conseguente alla maturazione di un atteggiamento più positivo verso la popolazione tedesca e dal giudizio sempre più critico nei confronti dei profughi. Si pensa inoltre che il programma di fusione possa recidere i traffici del mercato nero e rendere più controllabili i campi > logica per cui risulta funzionale accentuare la condizione di precarietà dei DPs, impedirne l'adattamento all'ambiente, mantenerne l'inquietudine e lo spaesamento. Le decisioni intorno alle condizioni abitative dei profughi sono dettate dall'intento di non lasciar loro mai dimenticare il proprio status > generare un disagio tale da indurre i displaced a tornare in patria e migliorare le capacità di controllo di coloro che decidono di restare. Le rimostranze dei profughi prendono solitamente la forma di documenti collettivi indirizzati all'Iro o agli uffici militari: ci si oppone ai provvedimenti di evacuazione difendendo esattamente quello che gli Alleati puntano a demolire, ovvero i legami comunitari consolidatisi nel tempo e la temporanea stabilità raggiunta attraverso l'organizzazione della vita quotidiana. Ciò permette di intuire l'intenso significato che la vita collettiva all'interno dei campi è venuta ad acquisire per i profughi, e nello stesso tempo offre un esempio della pressione che essi esercitano per essere assunti come interlocutori da parte degli Alleati. Nel corso di qualche anno il programma di fusione finisce per assumere modalità di attuazione e obiettivi diversi, perché non è più funzionale all'amministrazione ordinaria del problema dei profughi ma alla sua definitiva risoluzione. In questa prospettiva la chiusura dei campi corre parallelamente da un lato all'incentivazione dei progetti di resettlement, dall'altro agli accordi stretti col governo tedesco perché si assuma la responsabilità dei DPs che non potranno lasciare il paese e dei centri in cui essi risiedono. Nel 1949 le autorità della Germania occidentale elaborano un piano che prevede questo triplice percorso e avviano operazioni con le quali si intende metterlo in pratica: gli americani accordano ampie deleghe all'Iro mentre i britannici preferiscono agire in prima persona ma la strada lungo la quale ci si muove resta la medesima. La maggior parte dei campi che rimangono aperti sono quelli ''residuali'', ognuno dei quali viene ad assumere un carattere specifico in relazione al tipo di impedimento che esclude i suoi residenti dal resettlement ( tubercolotici, anziani, bambini, disabili). Al momento in cui l'Iro viene sciolta, tutti gli AC per i quali non si è proceduti all'evacuazione sono entrati a far parte del regime assistenziale della Repubblica federale tedesca. Nel 1951 il sistema dei campi non si esaurisce ma si trasforma: i vecchi AC si tramutano ora in istituti per stranieri senza patria. 3 Attraverso il confine dei campi L'obiettivo della concentrazione viene perseguito in primo luogo attraverso una rigida divisione nella fruizione dei Di fronte ai tribunali militari vengono condotti tutti i DPs registrati presso gli AC anche se gli atti incriminati sono stati commessi fuori dai centri; la polizia tedesca può solo condurre indagini e consegnare i presunti responsabili all'esercito > canale di accesso ai campi >> marzo '46 : l'irruzione delle forze dell'ordine tedesche in un AC ebraico di Stoccarda sfocia in uno scontro violento e porta alla morte di uno dei residenti. Ciò suscita un tale scalpore da indurre l'Eucom a varare un nuovo regolamento, che ribadisce la subordinazione delle forze dell'ordine locali all'esercito occupante e riduce le loro possibilità d'accesso ai luoghi di residenza dei DPs, soprattutto ebrei e sovietici. Per la polizia tedesca rimane solo l'opzione di presidiare i campi dall'esterno. I limiti territoriali dei campi giocano un ruolo di primo piano anche nel conferire legittimità o meno alle azioni collettive dei profughi, come nel caso delle manifestazioni di protesta, che possono avere regolarmente corso all'interno degli AC ma non al di fuori di essi. Si cerca anche di limitare e sorvegliare i trasferimenti da un centro collettivo all'altro. Una volta effettuata la registrazione come residenti in uno specifico campo, i profughi possono ottenere il trasferimento ufficiale altrove soltanto per motivi di lavoro o familiari. L'intento di mantenere un equilibrio complessivo nella distribuzione dei displaced sul territorio costituisce un ulteriore deterrente per l'autorizzazione dei trasferimenti. Il principio di radicamento viene imposto proprio a coloro che sono considerati gli sradicati per eccellenza. L'applicazione di tale principio contraddice la convinzione che la sedentarizzazione dei displaced debba essere evitata. 3.2 Interno / Esterno spazi comunicanti Le linee guida dello Shaef prevedono che esercito e Unrra debbano assumere soltanto personale proveniente dalla popolazione profuga, ma mettere in pratica queste indicazioni si rivela tutt'altro che semplice, soprattutto nei primi tempi. La ricerca di competenze necessarie all'interno dei singoli campi non sempre dà buoni risultati e al personale internazionale le barriere linguistiche e culturali sembrano più facilmente superabili con i tedeschi piuttosto che con i polacchi, i baltici e gli ucraini. Il ricorso al personale locale non è soltanto dettato dall'emergenze del primo periodo ma continua nel tempo nonostante le pressioni esercitate per spingere al lavoro gli abitanti dei campi e i programmi di formazione che vengono loro destinati. Il dispiegamento del resettlement contribuisce ad assottigliare le file dei DPs in possesso di determinate competenze e nello stesso tempo richiede un numero maggiore di infermiere, dattilografe, contabili e autisti impegnati per le commissioni che esaminano i potenziali migranti. L'Iro richiede che almeno lo staff medico possa alloggiare nei centri di selezione per gli emigranti, in modo che le operazioni non subiscano rallentamenti dovuti alla carenza di personale. L'impiego e la sistemazione nei campi dei dipendenti tedeschi risulta piuttosto imbarazzante per gli organismi che amministrano il displacement : la presenza di non-camp employees viola le indicazioni dello Shaef e contraddice il criterio della separazione fra il campo e il contesto circostante, mettendo a contatto diretto persecutori e vittime, nega la priorità formale riconosciuta ai DPs nell'accesso a fonti di reddito. Peraltro si è consapevoli del fatto che sul lungo periodo l'assunzione di donne e uomini tedeschi dipende dall'inclinazione a ritenerli lavoratori più affidabili rispetto ai displaced. I confini dei campi risultano dunque valicabili dall'esterno verso l'interno sotto la pressione di fattori diversi. A entrare in gioco e poi la pressione esercitata dalla popolazione locale, per la quale la vita che si svolge all'interno degli AC costituisce una possibile risorsa di cui si cerca di beneficiare in maniera legale o illegale. 3. Accedono al campo irregolarmente le donne tedesche che si prostituiscono: si tratta di un fenomeno estremamente diffuso, assai difficile da combattere e foriero di temibili conseguenze, in particolare dal punto di vista sanitario. Nel corso del tempo la paura per il possibile propagarsi delle malattie veneree si riduce notevolmente ma gli sconfinamenti illeciti delle donne locali non sembrano venire meno. 4. Mercato nero: scatena accuse e meccanismi di difesa che rimandano alle inquietudini suscitate dal potenziale coinvolgimento dei profughi nelle attività illecite, all'insofferenza di questi ultimi verso i liberatori che si sono tramutati in diffidenti tutori dell'ordine, ai difficili rapporti tra i diversi soggetti chiamati alla gestione del displacement. Emerge sporadicamente la consapevolezza che la responsabilità dei DPs nei commerci illegali costituisce un falso problema e che tutta la questione andrebbe riconsiderata nel più complessivo contesto dell'economia tedesca del dopoguerra. La componente centrale è rappresentata dalle merci importare in Germania dai paesi stranieri. Rispetto a questo afflusso di prodotti i centri collettivi sono punti di approdo importanti perché convogliano i pacchi della Croce Rossa, gli aiuti delle associazioni di volontariato e le derrate alimentari dell'esercito > è sostanzialmente la legge della domande e dell'offerta a forzare i confini dei campi, in misura maggiore o minore : i profughi cercano di trafugare una certa quantità dei prodotti che compongono le loro razioni per acquisire ciò che scarseggia, come il vestiario, la verdura o la carne fresca. I tedeschi possono offrire le rimanenze di quello che possedevano in tempi migliori per Il percorso di riconoscimento delle associazioni è spesso lungo e complicato, né tale riconoscimento viene necessariamente ottenuto da tutti coloro che lo richiedono. Il sistema di controllo adottato dagli Alleati comporta notevoli ritardi nell'avvio dei lavori da parte delle voluntary agencies; questa situazione è attribuita all'inefficiente coordinamento dell'Unrra, ma anche all'atteggiamento delle autorità militari. Gradualmente un certo numero di organizzazioni acquisiscono una posizione stabile nella rete dei centri collettivi, estendendo la loro presenza sul territorio e sviluppando le proprie attività. Gli incarichi assegnati a questi collaboratori esterni sono di diverso tipo, nei primi tempi consistono principalmente nella distribuzione di alimenti, capi di abbigliamento, sigarette, prodotti che almeno formalmente vanno a integrare le razioni a cui provvede l'esercito. Con il tempo i compiti si moltiplicano e si diversificano, fino a includere attività di intrattenimento, servizi di consulenza legale e psicosociale, la collaborazione alle operazioni di tracing e di rimpatrio, lo svolgimento di corsi di formazione professionale e la partecipazione ai programmi di resettlement. Le numerose presenze esterne nei luoghi di residenza dei DPs costituiscono da tempo una realtà irreversibile ma sulla quale le autorità militari continuano a voler mantenere un rigido controllo, dettato probabilmente dalla consapevolezza che non si tratta affatto di presenze neutre. Le voluntary agencies consentono di stabilire tra i centri collettivi e lo scenario internazionale un legame che non è mediato esclusivamente dall'esercito alleato o dalle agenzie delle Nazioni Unite, e acquisisce un significato specifico proprio perché le associazioni coinvolte: 10. esperienza dei profughi ebrei / American Jewish Joint Distribution Committee 11. Nei primi anni nessuna associazione ucraina riesce ad essere annoverata tra le voluntary agencies autorizzate. A lo United Ukrainian American Relief Committee e allo United Canadian Committee viene vietato l'ingresso nei centri collettivi, ma si prevede che possano far arrivare ai loro connazionali contributi in denaro, cibo, abiti, medicinali, libri delegando la loro distribuzione. La situazione cambia nel '47 quando gli ucraini cominciano ad essere riconosciuti come nazionalità distinta e la conclusione delle attività dell'Unrra implica una revisione di tutti i contratti stipulati con le voluntary agencies. 12. Croce rossa polacca > le complicazioni sorgono intorno al riconoscimento dei suoi legittimi rappresentanti: inizialmente le autorità militari britanniche mantengono i rapporti con entrambi ma a un anno di distanza dal riconoscimento del governo provvisorio, si stabilisce che questa ambiguità non debba protrarsi oltre. 4.2 I rappresentanti dei paesi d'origine Lo Shaef prevede fin dall'inizio che i governi appartenenti allo schieramento antinazista possano incaricare un ufficiale di collegamento di seguire le questioni relative ai propri connazionali dispersi dalla guerra, e di occuparsi in particolare del loro rimpatrio > Liason Officers (LOs): per quanto essi possano riferire ai loro mandanti gli esiti della propria attività, debbono sottostare alla direzione delle autorità militari locali alle quali sono assegnati. Nell'elenco delle mansioni attribuite ai Los compaiono il riconoscimento ufficiale della nazionalità dei profughi per i quali si prevede il rimpatrio, il rilascio di visti richiesti per affrontare il viaggio, l'individuazione dei criteri necessari a stabilire l'ordine di partenza di milioni di uomini e donne che rientrano a casa. Altri incarichi, considerati secondari che riguardano l'assistenza agli angloamericani nel mantenere la disciplina, individuare le persone idonee ad essere assunte nello staff amministrativo. Ufficiali di collegamento > figura di mediazione. Ci si preoccupa di averne a disposizione un numero adeguato, sebbene questo significhi ricorrere a un reclutamento che segue iter più rapidi ma irregolari. Chi sono i legittimi delegati dei paesi di origine dei displaced? La risposta a un simile quesito chiama in causa da un lato il riconoscimento dei governi postbellici da parte degli Alleati, e dunque le controverse dinamiche del nuovo assetto politico internazionale; dall'altro la riluttanza, o addirittura l'avversione dei profughi, nel riconoscere autorità ai rappresentanti di uno stato che non li ha mai avuti come cittadini [es. Polonia / Jugoslavia]. La questione dei Los risulta ancor più spinosa quando entrano in gioco il controverso riconoscimento della nazionalità dei profughi e, di conseguenza, le decisioni da prendere per l'eventuale rimpatrio. In alcuni casi il presunto ruolo di mediazione sfocia nell'esplosione di gravi tensioni. Le difficoltà più gravi insorgono con i rappresentanti del governo sovietico, i quali godono di una maggiore libertà d'azione. I rappresentanti del governo di Mosca che tentano di raccogliere adesioni per i programmi di rimpatrio vengono messi a tacere e costretti alla ritirata da grida, lanci di sassi, tentativi di aggressione. L'ufficiale di collegamento si rivela piuttosto il detonatore delle contraddizioni implicite nel principio di nazionalità, porta bruscamente in superficie la massiccia opposizione dei profughi al programma di rimpatrio, mette a nudo la totale immersione della questione del displacement nelle tensioni che agitano il panorama internazionale e si riflettono sulla situazione tedesca. A fronte di tutto questo la reazione angloamericana si concentra sull'allontanamento dei Los dai campi, nel paradossale tentativo di sottrarre questi ultimi ai conflitti che si accendono tra i nuovi attori dello scenario postbellico. comitati che si costituiscono a livello di zona, chiamati ad intervenire sulle questioni relative ai diversi AC, a mantenere rapporti con le associazioni dei connazionali residenti all'estero, a discutere con le autorità militari e con le agenzie delle Nazioni Unite la gestione del displacement nel suo complesso. 4.4 Cultura e istruzione: le identità nazionali del displacement Fin da subito si sviluppano anche attività di formazione, culturali e ricreative. Già nei primi anni si moltiplicano i giornali prodotti dai displaced, che superano per diffusione quelli provenienti dall'estero, introdotti dalle organizzazioni non governative o spediti per posta da conoscenti e parenti. Questo proliferare di giornali è ritenuto un fenomeno preoccupante perché rende estremamente problematico '' l'appropriato scrutinio dei contenuti editoriali delle diverse pubblicazioni''. Per questo l'Omgus emette una normativa specifica secondo la quale tutte le pubblicazioni non autorizzate devono essere interrotte. Pur ribandendo la propria volontà di incoraggiare la libertà di stampa e di parola all'interno dei campi, gli americani temono che da benefica espressione di sentimenti di appartenenza nazionale i giornali possano trasformarsi in una fucina di pericolosa opposizione alle politiche alleate, o in uno strumento per lanciare invettive imbarazzanti contro i paesi del fronte antinazista. La circolazione dei periodici non autorizzata continua nel corso del tempo, in misura assai più limitata, tutta via il rigoroso disciplinamento alleato dà origine a un insieme abbastanza stabile di testate, che sono espressione soprattutto dei gruppi nazionali quantitativamente più estesi, per quanto anche le ''minoranze'' abbiano i loro organi di stampa. Anche le attività di intrattenimento crescono significativamente nel corso del tempo: questo tipo di iniziative hanno una forte vocazione nazionalista. La vita culturale dei campi rinsalda la coesione interna dei diversi gruppi, diventando nello stesso tempo carta di presentazione a cui ciascuno di essi fa ricorso negli incontri ufficiali con l'esercito o con i funzionari delle agenzie internazionali. I profughi, dunque, mettono al centro le loro appartenenze nazionali tanto nel costruire la vita collettiva all'interno dei campi, quanto nel proporsi come referenti per gli organismi internazionali, nell'intendo di mostrare loro che non esistono genericamente i DPs, ma i DPs di nazionalità diverse, ogni gruppo con il proprio passato e le proprie ragioni per essere considerato vittima della storia. Inoltre, l'insistenza dei DPs sui propri sentimenti nazionali, nella convinzione che essi costituiscano un valoro condiviso con gli Alleati, intende rigettare l'immagine di una popolazione profuga degradata e priva di dignità, opponendole quella di società fondate su antiche tradizioni e animate da un autentico amor di patria. In effetti gli organismi deputati alla gestione del displacement guardano con favore alle iniziative culturali che rafforzano l'identità dei diversi gruppi. Tuttavia l'incoraggiamento dell'orgoglio nazionale dei DPs non è privo di effetti collaterali, laddove l'autorganizzazione dei residenti finisce per tradursi in una perdita di controllo sui centri collettivi, come dimostrano le vicende relative all'istruzione dei displaced. L'educazione dei bambini e dei ragazzi viene considerata dalle forze armate una componente imprescindibile del proprio mandato già nella prima fase di allestimento dei campi, poiché fin da subito emerge la consapevolezza che la permanenza dei profughi entro i loro confini non sarà un fenomeno solo temporaneo. La predisposizione di adeguate opportunità educative per i DPs prevista dalle autorità militari costituisce un programma di difficile attuazione, per il quale occorrono non soltanto penne e quaderni ma anche libri di testo stampati nelle molteplici lingue parlate nei campi, insegnanti qualificati per i diversi livelli di formazione e soprattutto un progetto educativo capace di dare senso e coerenza alle attività dei bambini displaced. Rispondere almeno in parte a queste esigenze risulta più facile dando spazio sia all'iniziativa delle voluntary agencies operative sul territorio sia all'autorganizzazione dei DPs, entrambe accolte o incoraggiate dai responsabili dei campi. La diffusa tendenza dei DPs a impossessarsi dei locali/ materiali necessari a mettere su una scuola per conto proprio desta perplessità e malumori tra i militari, soprattutto quando trova il sostegno dei responsabili dell'Unrra che sistemano i DPs nelle classi senza aver prima chiesto l'autorizzazione del distaccamento locale dell'esercito. Nei campi dove convivono gruppi di nazionalità diverse queste procedure finiscono per produrre una moltiplicazione delle strutture. Tuttavia i governi militari non si impegnano nel dare indicazioni organiche rispetto all'istruzione dei DPs. Gli sporadici tentativi di dare una linea comune ai programmi svolti nelle classi sembrano obbedire all'immediatezza di esigenze specifiche piuttosto che alla definizione di un percorso educativo e finiscono per avere scarsa efficacia. La priorità conferita dai DPs all'istruzione come terreno sul quale coltivare e rafforzare la propria identità nazionale, ma anche il favore accordato dagli Alleati a questa operazione che colma il vuoto di un progetto educativo di fatto mancante, finiscono per tradursi in una formazione debole e lacunosa. L'unico grado di istruzione che i governi militari non demandano alle forze disponibili all'interno dei centri collettivi è quello universitario > una delle poche deroghe ufficiali alla politica di isolamento dei campi : gli studenti profughi possono frequentare le facoltà tedesche, alle quali viene imposto di riservare loro una percentuale dei posti disponibili. Il rilascio dell'autorizzazione alleata per l'iscrizione agli studi universitari non dipende solo dalla necessità di garantire il rispetto delle quote, soprattutto nei L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha stabilito che l'Iro non si occupi soltanto della cura e del rimpatrio della popolazione dei campi, ma anche del loro resettlement. Su questo punto si è consumata una rottura con l'URSS che respinge l'idea del trasferimento dei profughi in un paese diverso da quello di provenienza e ha deciso di non sostenere la nuova organizzazione. Nei primi tre anni di attività l'Iro rimpatria poco più di 40.000 DPs ma le partenze sono quasi tutti concentrate tra il luglio del '47 e il giungo del '48, poi si estinguono rapidamente. Negli ultimi sei mesi del '51, mentre l'agenzia sta per chiudere, a lasciare la Germania occidentale sono meno di due persone al giorno. Tuttavia in questo lungo arco di tempo l'opzione del ritorno a casa continua a essere diffusamente propagandata nei campi e le autorità militari colgono ogni occasione possibile per ricorrere a questa soluzione ma il ritorno volontario ha cessato di essere una scelta di massa e riguarda specifici casi individuali. Il ritorno è stato irrilevante tra estoni, lettoni e lituani, nullificato dalla tragedia dello sterminio per gli ebrei. Sono invece stati rimpatriati la quasi totalità dei russi (98%), un'ampia maggioranza degli jugolsavi (85%), i due terzi dei cecoslovacchi (73%) e più della metà dei polacchi (65%). I flussi di rientro hanno dunque un andamento che varia significativamente in rapporto alle singole nazionalità, ma non esprimono la semplice accoglienza, da parte della autorità, della diversa scelta di ciascuna di esse. 2.2 Tra i responsabili del displacement è piuttosto diffusa l'opinione che il trattamento riservato ai profughi incida significativamente sulla loro decisione di rimpatriare oppure no. Nel momento in cui il rifiuto comincia ad apparire come un fenomeno di massa, e la sistemazione dei profughi nei campi si preannuncia di lungo periodo, questa convinzione finisce per consolidarsi e diventa il presupposto da cui muovono specifiche strategie. Il primo e più radicale piano per spingere i DPs al ritorno modificando le loro condizioni di vita in Germania viene discusso già all'inizio del '46 per iniziativa generale di Joseph T. McNarney, che propone addirittura la chiusura degli AC. In discussione c'è il fulcro stesso della politica alleata verso i displaced e tale disegno viene ritenuto troppo rischioso: potrebbe avere effetti destabilizzanti sulla società tedesca e screditare l'operato dei governi militari presso l'opinione pubblica internazionale. Lo status dei DPs resta dunque invariato e i campi non vengono smantellati, ma si è rafforzata la persuasione che esista un nesso fra i servizi garantiti ai profughi e la loro scarsa propensione al rimpatrio. Sembra dunque necessario muoversi in una duplice direzione: ridurre gli ''agi'' di cui dispongono i DPs e sottrarli all'ozio > condizioni che potrebbero indurli a cambiare idea rispetto al loro futuro In base a tale logica l'urgenza del rimpatrio diventa una delle giustificazioni portate a sostegno sia della progressiva riduzione delle razioni alimentari sia dei programmi di lavoro e della necessità di imporre ai DPs l'obbligo di parteciparvi. A ciò si aggiunge l'imposizione di continui spostamenti da un campo all'altro. L'idea di esercitare sui DPs una pressione indiretta, facendo diventare la loro permanenza in Germania così penosa da spingerli a desiderare il ritorno in patria, diventa anche un motivo di conflitto fra l'Unrra e i militari, che la accusano di aver reso la quotidianità dei campi '' troppo confortevole'' e chiedono una significativa revisione del trattamento riservato ai DPs L'insieme di questi provvedimenti e le considerazioni che li motivano erodono l'effettiva libertà di scelta degli abitanti dei centri collettivi, incalzati tanto dalle continue difficoltà, quanto dalla progressiva trasformazione in un privilegio dell'assistenza inizialmente riconosciuta loro come un diritto. Operazione Carota > questo piano, che resta operativo per tre mesi, prevede l'assegnazione di un pacco alimentare corrispondente a sessanta giorni di razioni a tutti coloro che decidono di fare ritorno a casa. Questa iniziativa suscita molte perplessità, soprattutto tra le autorità militari britanniche, che denunciano un'eccessiva sproporzione tra i costi e i benefici di una simile iniziativa. A un mese esatto dall'inizio del programma l'aumento delle partenze sembra essere estremamente esiguo in entrambe le zone. Si insinua l'idea che le razioni speciali vadano ad alimentare il mercato nero, proprio per questo i funzionari si premurano di rendere noto che il cibo non viene consegnato negli AC ma presso le stazioni ferroviarie, lungo il viaggio. Dopo la sua sospensione questa iniziativa stenta a essere ripresa e sebbene l'Iro preveda nel suo statuto l'incentivazione del ritorno attraverso la distribuzione aggiuntiva di alimenti e vestiario, solo nel giungo del '48 tale provvedimento viene effettivamente adottato. Il piano si rivolge ai polacchi, ai sovietici e agli jugoslavi, offrendo però soltanto venti giorni di approvvigionamenti supplementari, ampiamente pubblicizzati e anche questa volta affiancati da attività collaterali con le quali si intende fare leva sui sentimenti di appartenenza. L'eredità più significativa dell'Operazione Carota sembra risiedere proprio nel sistematico ricorso a iniziative di tipo propagandistico che si ritiene possano efficacemente affiancare il ''bastone'' m ahanno un costo decisamente inferiore all'assegnazione di razioni integrative. La pubblicità a favore del ritorno viene combattuta dai suoi antagonisti con armi uguali, anche se utilizzate clandestinamente, perché le autorità militari vietano ai DPs sia ogni tipo di iniziativa volta a scoraggiare il rientro, sia qualunque diffamazione dei paesi delle Nazioni Unite. Ciò nonostante organizzazioni clandestine di ispirazione questo dovesse avvenire contro la loro volontà, né specificava a quali confini territoriali dovesse fare riferimento l'attribuzione della cittadinanza sovietica. Nel memorandum lo Shaef interpreta l'accordo disponendo che i DPs identificati come sovietici siano rimpatriati indipendentemente dalla loro personale volontà. I problemi dei militari incaricati di effettuare i rimpatri vanno ben al di là delle scorribande dei sovietici lungo il viaggio, e la consegna dei displaced alle autorità russe in molti casi finisce per essere tutt'altro che una festa. Il loro trasferimento nella zona orientale implica necessariamente l'uso della forza. Le urgenze di fronte a questo inquietante panorama, sono due: introdurre dei distinguo nell'attribuzione della cittadinanza sovietica e verificare l'opportunità dell'utilizzo della forza nelle operazioni di rimpatrio. Lo Shaef emette una nota nella quale si afferma che i governi britannico e statunitense non hanno riconosciuto alcuna variazione territoriale portata dalla guerra ai confini dell'URSS e tutte le persone provenienti dalle aeree annesse dopo il 1939 non verranno ricondotte ai loro luoghi di provenienza a meno che non richiedano essi stessi la cittadinanza sovietica. Le nuove indicazioni fanno però fatica a tradursi rapidamente in una condotta chiara e uniforme. Solo nel mese di agosto si giunge a una revisione più puntuale della prima interpretazione degli accordi di Yalta, per iniziativa specifica dei militari statunitensi e britannici, i quale limitano l'autorità dei Los russi nel riconoscimento dei cittadini sovietici e stabiliscono che per tutti i casi controversi sia chiamata a decidere una commissione composta dai rappresentanti dell'esercito. Ai primi di settembre l'Usfet comunica l'avvenuta sospensione dell'uso delle truppe US nel rimpatriare cittadini sovietici che non intendano ritornare in URSS > il grave pericolo che i militari americani siano feriti o perdano la vita, oltre al timore per l'ondata di critiche da parte dell'opinione pubblica. Il ricorso alla forza nella consegna dei profughi russi prosegue invece nella zona britannica, nonostante l'imbarazzo generato da una divergenza che incide così significativamente tanto sulle relazioni con l'URSS quanto sulle sorti dei DPs che tentano di opporsi al ritorno a casa > solo nel luglio del '46a anche il governo militare britannico dismette ufficialmente il rimpatrio forzato dei sovietici. La parabola attraverso la quale gli Alleati giungono alla revisione definitiva dell'iniziale interpretazione degli accordi di Yalta si conclude sostanzialmente quando la quasi totalità dei DPs registrati come sovietici sono stati rimpatriati > tempi lunghi + procedere incerto = generale disorientamento >> lo scollamento tra gli ordini emanati e la loro concreta attuazione è tradotto nella diffusa impermeabilità alle pressioni dei rappresentanti sovietici e nella conseguente tendenza ad accogliere le proteste di chi rifiutava la nazionalità sovietica e a eludere il rimpatrio forzato anche prima che il ricorso ad esso fosse ufficialmente abbandonato. Inoltre, muovendosi negli interstizi di un'applicazione discontinua della normativa, riescono a sfuggire al rimpatrio coloro che rimangono illegalmente nei campi, si trasferiscono clandestinamente da una struttura all'altra e dichiarano una falsa identità. 3.2 Quale patria per i Mennoniti? gruppo di profughi che dichiarano di essere mennoniti (comunità anabattista) e sono rivendicati come cittadini sovietici dal governo di Mosca > quando il rimpatrio forzato non è più previsto la loro condizione diventa oggetto di un contenzioso con i militari russi. Nel 1947 vengono costruiti tre AC - due nella zona americana e una in quella britannica - interamente dedicati ai mennoniti prima disseminati in campi diversi o presso abitazioni private > ciò per loro era più facile data la somiglianza della loro lingua col tedesco. Controversia intorno alla nazionalità > ricostruzione storica = tre secoli prima i mennoniti lasciano l'Olanda per la Prussia orientale e infine si stanziano in Ucraina, contando sulla politica di Caterina II. La nicchia culturale ed economica che questa piccola minoranza si è storicamente ricavata all'interno del multietnico impero russo rappresenta agli occhi degli americani un primo presupposto per giungere alla conclusione che il luogo dove i mennoniti hanno abitato per secoli non può essere considerata la loro patria. Quando l'Ucraina è diventata teatro di una guerra civile i mennoniti hanno alimentato un massiccio flusso migratorio. Negli anni '30 il regime stalinista ha portato alla deportazione, all'arresto e all'uccisione di decine di migliaia di capifamiglia. L'arrivo dei tedeschi nel '41 ha restituito ai mennoniti molti dei diritti perduti, come quello di culto. Una parte degli uomini sopravvissuti alle persecuzioni si sono arruolati nell'esercito del Terzo Reich, ma questo aspetto non viene quasi mai menzionato. * ciò è dovuto all'alta componente femminile > convinzione socialmente condivisa che le donne sono estranee alle vicende politiche e belliche* Per i mennoniti si ipotizza l'attribuzione di una duplice nazionalità, individuata attraverso la combinazione dello ius soli e dello ius sanguinis : in base al primo sono sovietici, in base al secondo sono olandesi > si chiede che i mennoniti possano raggiungere l'Olanda e da lì il Canada, dove ci sono famiglia di parenti e conoscenti pronti ad accoglierli >> paradosso dell'appartenenza cercata nelle lontane radici: la terra delle origini ormai può fungere solo da paese di transito per andare altrove. displacement si sommerebbero a quelli della perdita della famiglia e dunque i segnali di malessere sarebbero ancora più marcati. Il personale delle Nazioni Unite che si occupa dell'infanzia tende a delineare il carattere distintivo dei minori non accompagnati e rileva l'incidenza dei disturbi psicologici che si manifestano attraverso disfunzioni di natura diversa: tra i piccoli profughi senza genitori sembrano essere molto diffusi il ritardo mentale, l'insufficienza motoria, la dislessia e la balbuzie. Altrettanto frequenti vengono considerati i comportamenti che denotano una vera e propria corruzione morale, come la tendenza al furto, la pratica di traffici illeciti e l'abitudine a mentire. Il primo passo verso la guarigione dei disturbi psicologici e la correzione dei comportamenti scorretti viene individuato nel ricovero dei minori non accompagnati nelle speciali case di accoglienza aperte appositamente dall'Unrra. In queste strutture i bambini dovrebbero trovare cure adeguate e compiere un percorso di rieducazione che li prepari alla soluzione definitiva della loro condizione di malessere, ovvero il rimpatrio. Le difficoltà esplodono in una miriade di singoli casi, sui quali si confrontano e soprattutto si scontrano le diverse parti chiamate in causa, portatrici di logiche e priorità differenti. Da un lato c'è personale prima dell'Unrra e poi dell'Iro, per il quale la riabilitazione dell'infanzia coincide sostanzialmente con la riunificazione delle famiglie biologiche, con il rimpatrio e la ''rinazionalizzazione'' dei bambini sradicati dal proprio paese e ''denazionalizzati'' dai tedeschi. Dall'altro ci sono le autorità militari che fanno appello alla necessità di tutelare i minori ma chiamano in causa l'esigenza di garantire loro la continuità della sistemazione familiare. Certo la scelta di lasciare i bambini con i genitori ai quali sono stai affidati durante la guerra appare agli Alleati anche più semplice dal punto di vista pratico, perché riduce i motivi di contrasto con la popolazione locale, oltre ad alleggerire l'impegno logistico e finanziario richiesto alle forze d'occupazione. Il confronto tra le priorità riconosciute dai militari e quelle assegnate dalle agenzie dell'Onu procede di caso in caso e di regione in regione, spesso in maniera contraddittoria. La tensione tra le differenti logiche in cui si muovono le agenzie delle Nazioni Unite, a cui spetta ogni decisione definitiva, si misura di volta in volta con fattori diversi. Le soluzioni adottate dipendono dalla combinazione di tali fattori, mentre faticano a emergere una procedura e una politica condivise. Lungo questo procedere incerto si definisce l'esperienza dell'infanzia e dell'adolescenza displaced nel secondo dopoguerra a cui le vicende passate e presenti hanno imposto ritmi di crescita forzati, che sembrano privare di significato il dibattito intorno al limite d'età oltre al quale si cessa di essere bambini e costringono le istituzioni a confrontarsi anche con la volontà di scelta dei minori. Il primato del ritorno Uomini e donne in movimento Persuadere al ritorno: il bastone e la carota La consegna dei sovietici 4. IL LAVORO 2 Il lavoro tra diritto e dovere L'impiego in qualunque occupazione retribuita nell'attesa di essere rimpatriati viene in primo luogo identificato come un diritto, che le autorità militari si impegnano a garantire procurando ogni opportunità di assunzione ai DPs. Il riconoscimento di tale diritto contribuisce a sancire il loro diverso status rispetto alla popolazione locale: il Comando alleato raccomanda che ai displaced sia accordata ogni priorità sui tedeschi per il reclutamento da parte delle forze militari. Una volta stabilito che i compiti assegnati ai profughi sono necessari per mantenere in funzione servizi essenziali, agli abitanti dei campi può essere imposto di non lasciare il proprio incarico fino a quando non riceveranno ulteriori ordini dal governo militare. Sebbene l'obbligo di restare al proprio posto sia considerato come un provvedimento d'eccezione, questa direttiva imprime all'occupazione dei displaced un duplice profilo: da un lato è un diritto che spetta alle vittime del nazismo, dall'altro un dovere che esse devono adempiere per collaborare allo sforzo compiuto dagli Alleati per fronteggiare l'emergenza postbellica. 2.1 Convenienza economica e rigenerazione morale In questa prima fase l'assunzione di autisti, guardie, interpreti scelti tra le file dei profughi viene considerata il primo passo per coinvolgere nella gestione dei campi i loro stessi abitanti, ma anche il giusto adempimento del diritto formale dei DPs a ottenere un'occupazione retribuita. Per questo il ricorso al personale tedesco viene percepito come una deroga, più o meno giustificabile, rispetto alla linea indicata dal comando militare alleato. Un significativo mutamento di rotta si registra a partire dall'autunno del '45 quando vengono avviati una serie di programmi volti a intensificare e sistematizzare l'occupazione dei profughi, in considerazione del fatto che le attività di rimpatrio sono state sospese e la popolazione dei campi è destinata a rimanere stanziale per un lungo periodo. I vantaggi del massiccio impiego dei DPs come forza lavoro vengono valutati in primo luogo sotto il profilo economico, su diversi fronti. L'utilizzo dei displaced per adempiere a compiti meramente esecutivi al servizio dell'esercito può consentire alle forze d'occupazione di 3. assegnare ai lavoratori una quantità maggiorata dei cosiddetti '' prodotti accessori'' distribuiti separatamente rispetto ai bene di prima necessità. In realtà la distinzione tra gli uomini e gli altri risulta piuttosto artificiosa [es. la cioccolata è considerata accessoria ma spesso è indispensabile a garantire il numero minimo di calorie previste]. Perché questa strategia funzioni bisogna però essere in grado di tradurre in realtà una simile promessa. I potenziali volontari per i programmi di lavoro sanno bene che spesso non riescono neppure a ricevere quanto è stabilito per le distribuzioni ordinarie. E' anche questa una delle ragioni che spinge gli Alleati a ridurre la normale assegnazione degli articoli extra per destinarli sempre più alla retribuzione di chi lavora > si riduce la richiesta complessiva di prodotti che scarseggiano e nello stesso tempo si accelera la spinta all'occupazione. 4. l'utilizzo dell'approvvigionamento come strumento per spingere la popolazione dei campi verso la piena occupazione riguarda anche le necessità di base: vengono promessi più indumenti, più carbone per le stufe, una maggiorazione dello spazio pro capite nei dormitori e razioni alimentari accresciute. Secondo i funzionari dell'Iro si tratta di una strategia che nei fatti si rivela poco efficace, perché i DPs sono in grado di aggirarla > negli AC più grandi è difficile condurre controlli rigorosi e basta conoscere le persone giuste per finire nella lista delle razioni per i lavoratori. La questione della retribuzione in denaro risulta fin da subito problematica. L'ammontare di marchi che corrisponde alla paga giornaliera è assai poco spendibile, tanto nell'immediato quanto nell'ipotesi del rimpatrio o dell'emigrazione in un altro paese. Il marco non ha praticamente potere d'acquisto, i DPs non possono comprare merce al di fuori dei confini dei campi, i prezzi del mercato nero sono esorbitanti. Tale questione non è problematica soltanto sul fronte di chi riceve i pagamenti ma anche di chi li corrisponde. Viene stabilito, infatti, un tetto massimo dei salari che è possibile liquidare per i servizi espletati dai DPs all'interno dei singoli centri collettivi > 7,5% del numero degli abitanti di ogni AC. Tutti coloro che non rientrano nel numero di buste paga previsto devono accontentarsi delle ragioni maggiorate e delle distribuzioni extra; si apre così il varco a una discrezionalità che finisce per ingenerare forme di ricompensa non regolari. Resettlement > rilancio dell'occupazione dei DPs. Le autorità militari non sono però favorevoli a un innalzamento del tetto massimo; l'Eucom concede infine l'aumento una tantum del numero degli stipendi. Il problema della copertura finanziaria di questa variazione si pone fin da subito e diventa assillante con la riforma monetaria del giugno '48, a cui corrisponde una riduzione della liquidità funzionale alla nuova politica deflazionistica. Per questo il governo militare americano decide di dedurre dalla paga di ciascun DPs impiegato all'interno o all'esterno dei campi il costo del vitto, dell'alloggio e dell'assistenza > 70 Deutsche Mark - 1/3 del guadagno medio dei profughi- lavoratori >> profondo e diffuso malcontento esplicitato dalle numerose lettere di protesta. Esse sono indotte dalla sottrazione delle spese per alloggio e assistenza ma finiscono per assumere le sembianze di critiche più complessive alle condizioni di lavoro riservate ai DPs o addirittura all'intera gestione dei campi. I displaced non sono forse vittime della guerra e on hanno già pagato con le sofferenze del passato la cura che ricevono nel presente? In primo luogo si fa presente che l'unica alternativa alla detrazione delle spese di alloggio e assistenza sarebbe il licenziamento di una larga parte del personale, soluzione che andrebbe a detrimento dell'amministrazione degli AC e avrebbe effetti negatavi per i loro residenti. Ma soprattutto aiuto e assistenza ai DPs non sono considerati come un risarcimento per gli errori commessi nel passato dalla popolazione tedesca, ma come un modo per sostenerli fino a quando non avranno trovato una nuova patria attraverso il resettlement. Dal giungo del '49 la detrazione viene aumentata, perché si stabilisce che essa debba corrispondere alle spese necessarie per provvedere non soltanto al singolo dipendente ma anche alla moglie e ai figli, o agli anziani genitori. Protesta dei DPs > gli incentivi sono di fatto divenuti misure per rendere il lavoro necessario alla conduzione della vita quotidiana all'interno dei campi. Il salario non è mai divenuto un diritto di tutti né ha acquisito l'entità di una retribuzione equa per i servizi richiesti La percezione del lavoro come un obbligo ha progressivamente indebolito la percezione dei profughi come vittime della guerra, trasformandoli da soggetti ai quali spetta un risarcimento in assistiti cui corre l'obbligo di tributarlo ai propri liberatori. Nella zona britannica le basi volontarie dei programmi di reclutamento tra la popolazione profuga cominciano a essere messe in discussione nell'autunno del '46, quando le operazioni di rimpatrio si interrompono per la seconda volta a causa della cattiva stagione. Le ragioni dell'insoddisfazione che serpeggia sia tra i britannici sia tra gli americani non sembrano dunque risiedere nell'andamento complessivo del reclutamento dei DPs, quanto nel permanere di uno zoccolo duro costituito da coloro che si rifiutano di lavorare. In base alla nuova normativa del '47 i DPs non possono più rifiutarsi di accettare un'offerta di lavoro ragionevole, vale Dall'Unrra e dall'Iro dipendono anche tutti coloro che prendono parte ai corsi di formazione professionale, e in virtù di questo si vedono riconosciuto lo status di lavoratori a cui spettano razioni maggiorate ma non una retribuzione in denaro. Si tratta di uno status solo temporaneo, perché i corsi possono durare da pochi giorni a un paio di mesi > vocational training : alcuni centri nascono già nel '46 ma un vero e proprio salto di qualità al sistema di formazione viene imposto dall'Iro che chiude tutte le iniziative promosse dai centri collettivi giudicate di un livello qualitativo non accettabile, investe sulla realizzazione di Training Centers a cui partecipano anche insegnanti internazionali e razionalizza le attività svolte dalle associazioni volontarie presenti sul territorio. Non è un caso che i corsi offerti in parte rispondano alle richieste specifiche di manodopera che provengono dai possibili paesi di destinazione ma complessivamente rimandino alla generica identificazione con una serie di occupazioni che non richiedono un elevato grado di qualifica, possono essere svolte ovunque e sono adatte a uomini o donne. Nell'insieme i DPs che lavorano sotto la supervisione delle agenzie delle Nazioni Unite costituiscono il gruppo di maggioranza fra tutti coloro che hanno un impiego. Tutte le occupazioni che richiedono grande fatica, sono svolte in condizioni di estremo disagio per la scarsità di indumenti attrezzature adeguate e impongono ai DPs di allontanarsi dalla propria struttura di residenza, separandosi dai familiari. La resistenza di padri, mariti, fratelli a lasciare affetti appena conquistati o ritrovati è tenace per cui il governo militare britannico arriva a ipotizzare la costruzione di centri di accoglienza per mogli e figli vicino ai luoghi di lavoro dei capifamiglia. Questa soluzione richiede un investimento eccessivo e si opta piuttosto per l'assunzione privilegiata di celibi, introducendo così un criterio di selezione che giocherà un ruolo di primo piano nei programmi di resettlement. L'assunzione nell'ambito dell'economia tedesca è assai impopolare tra i DPs; nei primi anni l'intermediazione e la tutela delle autorità militari e dell'Unrra presso i luoghi di lavoro non vengono percepite come una garanzia sufficiente. D'altra parte neppure la popolazione locale accoglie di buon grado l'ipotesi di assumere i displaced, considerati ingiustamente privilegiati dalle forze d'occupazione e accusati di usurpare le risorse troppo scarse del paese. Nell'area governata dagli USA il reclutamento dei profughi nell'economia tedesca viene avviato solo alla fine del '46 e resta sostanzialmente limitato allo svolgimento di lavori agricole o alla produzione di capi d'abbigliamento per fabbriche che hanno come committente l'esercito. E' più frequente nella zona inglese > non si riesce ad ovviare al problema della ridistribuzione della manodopera reperibile tra i displaced, ovvero della sua concentrazione nelle aree con una più elevata presenza di industrie. Nel corso degli anni trascorsi nei campi si può passare da un tipo di attività all'altra e in certi casi addirittura compiere un percorso in ascesa, guadagnandosi di volta in volta posizioni migliori. Se nelle società occidentali del dopoguerra torna ad imporsi il modello della domesticità femminile, nei campi mogli e madri sono spinte con decisione verso il lavoro extradomestico. Tuttavia ai profughi e alle profughe non sono assegnati compiti uguali e la distinzione tra gli uni e le altre segue in primo luogo il confine dei campi. Per le occupazioni esterne viene privilegiata la popolazione maschile, mentre quella femminile è destinata principalmente alle mansioni da svolgersi all'interno dei centri collettivi > intento di preservare il ruolo svolto dalle mogli e dalle madri nell'ambito dei loro nuclei domestici: ciò da un lato è indispensabile per colmare le lacune dei servizi offerti dai militari e dalle agenzie internazionali; dall'altro tale protezione costituisce la necessaria risposta alla diffusa preoccupazione che il displacement indebolisca la '' vocazione materna'' e produca fenomeni preoccupanti come l'abbandono dei figli. Questa limitazione non appare sufficiente agli abitanti dei campi, i quali considerano l'imposizione del lavoro alle donne come l'iniqua sanzione di uno status che colloca i profughi su un piano diverso rispetto ai loro liberatori. Il contenimento della manodopera femminile all'interno degli AC nasce sia dalla convinzione che i compiti svolti in famiglia siano conciliabili con quelli richiesti dalla comunità, sia dalla percezione dei secondi come una mera estensione dei primi. Proprio questa continuità tra le fatiche ''naturalmente'' dedicate alla famiglia e quelle destinate invece alla collettività sembra giocare un ruolo negativo sul riconoscimento dei servizi prestati alle dipendenze delle agenzie internazionali: le donne risultano solitamente più numerose nelle file di coloro che alla fine della settimana non ricevono un salario. Eppure agli esiti del loro lavoro viene assegnato un peso tutt'altro che irrilevante; la pulizia costituisce uno dei parametri dei giudizi dell'autorità militari nelle periodiche ispezioni degli AC. Il mancato riconoscimento retributivo dei servizi affidati alle donne sembra però corrispondere all'incapacità di considerarli tali anche quando se ne deve dare una valutazione negativa > la sporcizia degli spazi comuni non è giudicata come la conseguenza di un lavoro ma fatto ma dell'inclinazione dei DPs a vivere con un standard di pulizia basso. L'assunzione di donne nei compiti di amministrazione è vista di buon occhio dalle autorità militari non solo in relazione alle qualità individuali che ognuna può mettere a frutto, ma anche per liberare forza lavoro maschile. Per l'agenzia delle Nazioni Unite il dirottamento di una quota crescente di manodopera maschile verso l'esterno corrisponde a un impoverimento del bacino di risorse umane, a cui attingere per la gestione dei campi, né può 12. Westward Ho! > prevede il reclutamento con contratti quinquennali di lavoratori per le miniere, le fabbriche, le aziende agricole inglesi. Dall'inizio del '47 anche l'occupazione dei displaced in Belgio assume le sembianze di una vera e propria migrazione definitiva; gli accordi garantiscono ai minatori l'opportunità di farsi raggiungere dalle proprie famiglie dopo un periodo di prova e di ottenere la cittadinanza nelle modalità previste dalla legislazione belga. I programmi già avviati da alcuni paesi europei restano per molto tempo le uniche iniziative orientate verso il ricollocamento definitivo auspicato dall'Onu e l'attribuzione della ''giusta quota'' diventa oggetto di lunghe negoziazioni. La pianificazione del resettlement è influenzata anche dalle pressioni esterne delle organizzazioni non governative impegnate nell'assistenza ai DPs e dal dibattito pubblico, particolarmente intenso negli USA. Gli Alleati e l'Iro cercano di rafforzare un'immagine dei profughi come persone vigorose e industriose, desiderose di lavorare duramente. Gli stessi DPs tentano di organizzarsi per fugare i timori dei desiderati concittadini e offrire una buona presentazione di sé. I risultati più importanti delle contrattazioni condotte dalle diverse parti in causa si ottengono tra la fine del 1947 e il giungo del 1948 quando si arriva all'approvazione degli imponenti piani di resettlement in Canada, in Australia e negli USA > fissano una serie di limiti e criteri di selezione, che riguardano la disponibilità e la capacità fisica dei possibili migranti di svolgere determinati lavori, il loro stato civile e la composizione delle loro famiglie, la comunità nazionale a cui appartengono. Nel corso del tempo la richiesta di alcuni requisiti viene abrogata e altre condizioni sono modificate per consentire a un maggior numero di persone di rientrare nei parametri predefiniti. Questi cambiamenti costituiscono il risultato delle negoziazioni condotte dagli Alleati e dall'Iro, che da un lato sono incalzati dalla scadenza del mandato dell'agenzia ONU e dall'esigenza di liberare la Germania dal peso dei DPs, dall'altro possono far leva sul fatto che le persone corrispondenti ai profili richiesti tendono progressivamente a scarseggiare. Per assicurarsi una delle carte d'imbarco messe a disposizione dei DPs è però necessario possedere una serie di requisiti, anch'essi decisi a priori e oggetti di complesse procedure di selezione. In primo luogo i parametri previsti dai diversi programmi riguardano il tipo di occupazione che uomini e donne dovranno andare a svolgere nei paesi di arrivo > generalmente uomini e donne vengono vincolati al lavoro per il quale sono stati selezionati attraverso la stipula di un contratto, firmato prima della partenza o subito dopo l'arrivo, in base al quale il contraente resta legato al proprio posto per un periodo di due anni. Il DP Act di Truman introduce invece un sistema diverso, poiché i futuri immigrati devono essere in possesso di una dichiarazione scritta con la quale i loro datori di lavoro si impegnano ad assumerli. Sono soprattutto le voluntary agencies a procurare questo documento ai loro beneficiari, prima assicurandosi la disponibilità di piccole e grandi aziende e poi individuando i DPs corrispondenti alle loro richieste. L'Iro tenta di catalogare le competenze di ciascun DP, acquisite in passato oppure attraverso i corsi di formazione. Tuttavia ai profughi vengono solo raramente proposti lavori qualificati e dunque tra i criteri di selezione dei candidati il riscontro di alcune qualità generiche finisce per avere la meglio sulla richiesta di competenze specifiche. Il possedere una sana e robusta costituzione fisica certificata secondo i parametri stabiliti dai paesi di immigrazione, diventa la qualità principale per andare a svolgere qui lavori manuali scarsamente qualificati che possono assicurare ai DPs un posto nelle società occidentali. La centralità assegnata a questo attributo generico spinge in secondo piano sia le competenze che ciascuno possedeva prima di essere costretto ad abbandonare il proprio paese, sia le esperienze lavorative e di formazione professionale maturate durante il displacement. Le attività compiute nel corso degli anni trascorsi nei campi sembrano non avere un ruolo decisivo nel conferire qualifiche capaci di imprimere una direzione ai percorsi di resettlement, ma trovano piuttosto riscontro nei certificati di buona condotta che devono essere inclusi nella documentazione necessaria a partire per qualunque meta > tale richiesta si traduce, oltre negli obbligatori accertamenti medici, nell'identificazione di una fascia d'età a cui i candidati per il resettlement devono corrispondere per essere considerati nel pieno possesso delle loro forze. L'abbassamento, da parte dei potenziali paesi d'arrivo, della soglia oltre la quale si è considerati troppo anziani è dovuto probabilmente alla necessità di assicurarsi che la sana e robusta costituzione fisica dei profughi resti ancora tale a lungo, in modo che essi possano continuare a contribuire alla vita economica della loro nuova patria. Certo dopo cinquant'anni è molto difficile riuscire a guadagnarsi un posto nei piani di resettlement . Si può tuttavia provare a partire contando sui legami familiari; quelli che aspirano a trasferirsi negli USA e hanno li qualche parente disposto a dichiarare ufficialmente di farsi carico di loro, possono richiedere il visto in base al DP Act che prevede il ricongiungimento tra consanguinei. Un'altra strada percorribile è quella del trasferimento con le figlie e i figli che sono stati reclutati come operai, agricoltori e domestici, ma la possibilità di portare con sé le proprie famiglie è prevista solo in alcuni programmi ed è comunque soggetta a restrizioni, che non di rado escludono i genitori. Le probabilità di riuscire a utilizzare questa soluzione aumentano con l'andare del tempo, perché i parametri vengono modificati o diventano più flessibili. contrastare attraverso la moltiplicazione dei tentativi l'esilità delle speranze di essere accettati. La maggior parte dei displaced ha una meta prediletta, le preferenze vanno di solito verso le terre transoceaniche e soprattutto verso gli USA. Tuttavia non esiste un'effettiva possibilità di scelta, perché ci si può candidare per l'emigrazione in un determinato luogo ma non si è affatto sicuri di essere accettati. Se si viene scelti per l'emigrazione verso un paese ma non si è sicuri di ottenere risposte certe da altri programmi e non si vuole desistere dal proposito di scegliere la meta considerata migliore né pronunciare un rifiuto che può implicare una sanzione, bisogna ricorre a qualche stratagemma > dichiararsi malati: chi salta il turno non viene cancellato dal programma in questione. Per fare fronte a ciò si stabilisce che la sospensione della partenza, o dell'iter ad essa precedente, per motivi di salute può essere giustificato soltanto con attestazioni provenienti dagli ospedali di zona e non dai medici dei campi, evidentemente troppo facilmente inclini a chiudere un occhio. Una regola comunque destinata ad essere disattesa. Il fenomeno del ritorno dei displaced già emigrati interessa sostanzialmente i paesi europei e in particolare il Belgio, l'Olanda e la Gran Bretagna > si lamenta la difficoltà di adattarsi alle occupazioni assegnate, si esprime il desiderio di riunirsi ai familiari, reclamando il diritto di beneficiare dei nuovi programmi per il resettlement oltreoceano. L'Iro cerca di scoraggiare la scelta del ritorno ma valuta caso per caso le ragioni alle quali gli ex DPs fanno appello per tornare a essere tali. Belgio > i ritorni da questo paese sono significativi; la situazione precipita all'inizio del '49 quando il DP Act di Truman è operativo e scadono molti dei contratti biennali. Gli ex DPs sostengono che era stato loro promesso di poter scegliere tra la prosecuzione delle attività nelle miniere, la possibilità di ottenere un'occupazione in superficie e il ritorno in Germania per emigrare altrove. Nel corso degli anni il flusso dei ritorni ha finito per occupare un posto specifico nello spettro dei movimenti > returnees Heimatlose Auslander > stranieri senza patria che dal 1951 non riescono a lasciare la Germania Verso una nuova patria