Scarica Sintesi completa del testo di Giuliani e più Sintesi del corso in PDF di Rilievo solo su Docsity! 11 Fig. 13 - Pianta e ricostruzione di un’abitazione neolitica di Passo di Corvo nel tavoliere pugliese (TINÉ 1983) Nell’Italia centro-settentrionale23 i muri perimetrali in materiali leggeri sono fondati direttamente sul suolo, entro buche di palo o canalette (figg. 14, 15); gli impianti rettangolari sono comunque prevalenti e raggiungono talvolta grandi dimensioni (longhouse). Le varie tipologie abitative che vengono elaborate durante il Neolitico si tramanderanno, nei loro aspetti essenziali, in ogni regione del mondo antico nei millenni successivi. Terra e legname, insieme a pietre di forma irregolare, resteranno per lungo tempo materiali di costruzione esclusivi; essi continueranno a essere utilizzati in epoca storica, soprattutto in contesti rurali ma anche all’interno di abitazioni urbane e di edifici monumentali in associazione con materiali più solidi come i mattoni cotti, i conci parallelepipedi di pietra, l’opera cementizia. In Europa il patrimonio di conoscenze legato a questo tipo di tecniche costruttive si trasmetterà attraverso il medioevo e molti edifici con murature in legno e terra saranno realizzati ancora in età moderna, soprattutto in alcuni paesi nordici. Fuori dall’Europa questi materiali carat- 23 BAGOLINI – FERRARI – PESSINA 1993; CAVULLI 2008 terizzeranno la stragrande maggioranza delle abita- zioni delle popolazioni non-industriali. Ancora nel 1978 Bardou e Arzoumanian, editori e studiosi di architettura e urbanistica, potevano affermare che la terra come materiale da costruzione “est utilisée aujord’hui par la moitié environ de la population du globe”24. Capitolo II La ricerca 1) Le evidenze archeologiche Proprio a causa della loro deperibilità le costruzioni in legno e terra dell’antichità, se si eccettuano alcuni contesti caratterizzati da particolari condizioni climatiche e ambientali, sono andate ovunque quasi completamente perdute. Tale fattore ha fortemente ostacolato la conoscenza di questo genere di manufatti da parte degli studiosi moderni e ha portato inevitabilmente anche a sottovalutare la reale entità della loro diffusione sul territorio. Molti progressi sono stati compiuti negli ultimi decenni grazie all’affinamento delle meto- dologie degli scavi stratigrafici. Gli archeologi, “aguzzando gli occhi”, hanno imparato a riconoscere le impronte di tali strutture anche sulla base di minime differenze di colorazione del terreno e le scoperte sono andate così moltiplicandosi. Nel tracciare un quadro sintetico delle evidenze archeologiche collegate a strutture abitative in materiali deperibili dobbiamo distinguere innan- zitutto tra evidenze primarie e secondarie, cioè relative rispettivamente a elementi in situ e a elementi in posizione di crollo. Le evidenze primarie nella maggior parte dei casi sono unità negative – generalmente rico- noscibili per una diversa colorazione dei sedimenti in esse contenuti rispetto al substrato circostante – alcune delle quali ci restituiscono la forma di elementi dell’alzato che erano alloggiati nel suolo: buche o canalette, scavate per la fondazione di elementi delle pareti (oppure della copertura nei casi in cui questa era impostata direttamente sul 24 BARDOU – ARZOUMANIAN 1978 12 Fig. 14 - Scavo del villaggio eneolitico di Provezza, vicino Cesena. Planimetria generale dell’area B (MIARI et alii 2009) terreno) (fig. 15). Le buche circolari, più raramente quadrate, accoglievano pali lignei che formavano l’ossatura portante della costruzione. Le canalette di fondazione contenevano invece una struttura continua che poteva poggiare su tronchi o assi lignee adagiate orizzontalmente sul fondo, costituita da pali portanti insieme a materiali di riempimento della parete, come frascame e terra, ma anche muretti in pietrame che sono stati in seguito asportati. Talvolta buche di palo e canalette sono relativi a recinti o palizzate. Altre cavità nel terreno erano pertinenti a opere accessorie e corrispondono a dei vuoti dell’insediamento antico: fosse e canalette per il deflusso delle acque piovane; fossati con funzione difensiva; fossette per focolari e fosse di com- bustione più grandi e profonde, riferibili a fornaci, entrambe di forma circolare e riconoscibili per l’interfaccia alterata dal calore e per la presenza di sedimenti carboniosi; pozzetti silos, cilindrici o “a campana” con un’imboccatura spesso rastremata; pozzi funzionali all’approvvigionamento idrico; cave, in forma di fossati, per l’estrazione di materiali utilizzati per la costruzione, in particolare la terra che serviva in grandi quantitativi, spesso riutilizzate in una fase successiva come rifiutaie. Tra le evidenze primarie positive va consi- derato innanzitutto il pietrame, materiale che è stato utilizzato fin dai tempi più antichi. Più frequentemente le pietre venivano impiegate per rivestire e contenere tagli verticali o a scarpa, relativi a terrazzamenti e fossati (fig. 9), per creare dei vespai con funzione drenante sotto i pavimenti in terra battuta, per realizzare bassi muretti di sostegno su cui erano impostate le pareti in legno e terra (fig. 13). A volte venivano adoperate per inzeppare alla base i pali di sostegno verticali. Le pietre non sempre si sono conservate, perchè in molti casi a seguito dell’abbandono dell’edificio esse venivano totalmente o in gran parte asportate. Il reimpiego di materiali riciclabili di strutture distrutte o non più in uso costituisce una delle pratiche più antiche dell’attività edilizia25. 25 Vari materiali di reimpego, tra cui anche mole e mortai fuori uso, sono stati individuati già in alcune strutture del Neolitico preceramico. Si vedano STEKELIS – YIZRAELI 1963 (Nahal Oren); SOLECKY 1964 (Zawi Chemi Shanidar); VAN LOON 1968 (Mureybet) 15 hanno fatto pensare a una pavimentazione in terra battuta stesa su un tavolato. Le impronte leggibili sugli intonaci di Trasano e di Piana di Curinga, tenendo conto anche delle indicazioni ottenute dagli orientamenti sul terreno, sono state invece riferite alla ossatura lignea delle pareti, in entrambi i casi costituita da una serie di elementi verticali relativamente distanziati e da un riempimento di elementi orizzontali fittamente accostati, gli uni e gli altri tenuti insieme molto probabilmente da delle corde di cui a Trasano si è conservata qualche traccia. Sull’intonaco di Lugo di Romagna, relativo anch’esso al crollo di una parete è stata invece individuata una trama a graticcio di canne, fissata a travetti verticali, con un riempimento di terra e vari elementi vegetali. Un caso eccezionale è quello del recente ritrovamento a Nola di alcune capanne dell’età del bronzo antico le quali furono sepolte da una eruzione del Vesuvio, datata dall’analisi radio- carbonica tra il 1880 e il 1680 a.C.30 Il villaggio preistorico, dopo essere stato ricoperto da circa un metro di pomici e da una pioggia di ceneri, fu investito da un’alluvione fangosa. I sedimenti finissimi dei depositi vulcanici mescolati con l’acqua penetrarono lentamente, ad una temperatura poco elevata, all’interno di tutti gli interstizi della carpenteria delle capanne che erano ancora in piedi, effettuandone un calco dettagliatissimo. Gli ele- menti lignei del tetto e delle pareti si sono successivamente dissolti, ma erano rimasti per- fettamente leggibili in negativo; ciò ha consentito di formulare una più che attendibile ricostruzione degli edifici (fig. 18). 2) Fonti letterarie e iconografiche Nei vari tentativi di ricostruzione degli edifici in materiali deperibili dell’antichità di cui gli scavi riescono a individuare pochi avanzi, gli archeologi si avvalgono dei riferimenti contenuti nelle fonti letterarie, delle riproduzioni coeve costituite da modelli, urne cinerarie e raffigurazioni dipinte o incise su vari tipi di manufatti, del confronto con le abitazioni realizzate con le stesse tecniche dalle popolazioni non-industriali del mondo attuale (osservazione etnografica) e di anastilosi in scala reale che sono oggetto di verifiche ed esperimenti (archeologia sperimentale). 30 ALBORE LIVADIE 1999; ALBORE LIVADIE et alii 2005 Gli scrittori antichi nella maggior parte dei casi ci hanno lasciato solo rapidi accenni. Ovidio nel libro VIII delle Metamorfosi ci rappresenta la “povera capanna” di Filemone e Bauci “ricoperta di canne e di erbe palustri”. Dionigi di Alicarnasso (I, 79) ricorda la casa di Romolo sul Palatino, la quale ancora esisteva al suo tempo in quanto veniva più volte restaurata mantenendone la struttura originale “in legno e canne”. Maggiori informazioni ci vengono da Vitruvio (II, I) il quale, trattando delle origini delle fabbriche, scrive che “al principio, alzate delle forche, si tessevano le mura di ramoscelli coperti di fango. Altri fabbricavano le mura con zolle di terra secche, concatenandole con legnami”. I tetti erano ricoperti “di canne e fronde” ed erano fortemente inclinati “per dare scolo alle acque”. Sostiene quindi di poter argomentare queste cose perché edifici di questi materiali erano ancora visibili presso alcuni popoli barbari del suo tempo e porta alcuni esempi: le case della Gallia e della penisola iberica che erano fabbricate con assicelle di legno e paglia; quelle della Colchide con muri in travi di legno alternate e in appiombo, tamponate da schegge e fango, con le quali “si alzano persino delle torri”, mentre i tetti vengono confezionati disponendo a piramide “i travi di grado in grado più corti” che vengono poi coperti di fronde e fango assumendo forma a guscio di tartaruga (“testudinatum”) secondo l’uso barbaro. Offre quindi una descrizione delle abitazioni dei Frigi che ci fa pensare alle strutture infossate del mesolitico: “... non avendo legnami per mancanza di selve, scelgono nella campagna alcune collinette naturali, vuotandole nel mezzo e aprendovi dei passaggi...; sopra però vi fanno delle piramidi con dei travicelli legati insieme, coprendoli di canne, paglia e gran quantità di terra. Con questa specie di copertura sentono caldo l’inverno e fresco l’estate”. Strutture in materiali leggeri erano presenti inoltre anche nelle più importanti città del tempo. A Marsiglia si potevano osservare “i tetti non di tegole, ma di terra mescolata con la paglia”. C’erano infine gli edifici che erano stati conservati in memoria della loro antichità: “ad Atene l’Aeropago coperto ancora di loto” e a Roma, sul Campidoglio, la casa di Romolo coperta di strame. In un altro capitolo (II, 3) Vitruvio tratta dei mattoni crudi – torneremo più avanti sull’argomento – che sono ancora largamente adoperati al suo tempo anche in ambito urbano, per cui egli ne descrive accuratamente il metodo di fabbricazione 16 prodigandosi in utili consigli e citando a titolo di esempio le procedure eseguite in alcune città dell’epoca (Utica, Calento, Marsiglia, Pitane) e in generale fra i Greci. Spiega poi come i mattoni vanno disposti nella costruzione di un muro concludendo che in tal modo le cortine fanno da ambo i lati “solidità e bellezza”. Per quanto riguarda l’utilizzo dei mattoni crudi in età storica disponiamo inoltre di numerose fonti documentarie dell’Oriente antico, soprattutto di tipo amministrativo e contabile, che ci danno numerose informazioni anche sui sistemi di produzione e sull’orga- nizzazione dei cantieri (cfr. pp. 53-54). I documenti figurati possono essere suddivisi in alcune fondamentali categorie: a) Raffigurazioni di strutture architettoniche coeve dipinte o incise su vari tipi di oggetti, soprattutto vasi di terracotta o in pietra, tavolette di avorio o legno, sigilli, placche votive, teste di mazza, tavolozze da toeletta in pietra. I manufatti più significativi vengono dall’Egitto (nel periodo compreso fra la I e la III dinastia) e dalla Mesopotamia (dal periodo Uruk all’epoca accadica); su molti di essi sono rappresentate in forma stilizzata varie tipologie di edifici – identificabili con cappelle, padiglioni, modeste abitazioni, ma anche fabbricati più grandi con le facciate articolate in nicchie e paraste – le cui pareti sono disegnate con una fitta trama di linee incrociate che fa pensare a strutture a graticcio31 (fig. 19). Per quanto riguarda l’architettura greca arcaica alcune pitture vascolari raffigurano edifici con trabeazioni sostenute da esili colonne che sono da identificare sicuramente con delle strutture lignee32. b) Modelli. Sono riproduzioni tridimensionali di edifici coevi, la maggior parte in terracotta, in scala e inevitabilmente schematizzate, che furono eseguite per svariati scopi, soprattutto offerte votive e oggetti del corredo funerario33. Diversi esemplari sono stati ritrovati in varie località del Vicino Oriente (tra cui Mari, Ugaritt, Emar) i quali presentano varie tipologie: a due piani o a camera sopraelevata con terrazza antistante (fig. 20), in forma di edicola con lo spazio interno in vista, su supporti di forma animale. Molti di essi sono stati 31 PORTA 1989, pp. 151-154, tavv. X-XX 32 ORLANDOS 1966, pp. 2-4, figg. 3-6. 33 Sui modelli del mondo greco e orientale si veda soprattutto BRETSCHNEIDER 1991; MULLER - VAILLANCOURT 2001 Fig. 19 - Raffigurazioni e grafemi su sigilli egiziani della I –III dinastia. Sopra: rappresentazioni della capanna arcaica, prototipo del Per ur. Sotto: rappresentazioni del santuario di Neith (PORTA 1989) Fig. 20 - Prospetto laterale di un modello in terracotta, dalla Siria settentrionale, che rappresenta un edificio a due piani con terrazze (II millennio a.C.) (MULLER 1995) interpretati come sorta di tabernacoli destinati a rappresentare uno spazio sacro. In Egitto i modelli più verosimiglianti sono alcune riproduzioni di granai. Due modelli provenienti rispettivamente da Çayönü34, in Anatolia, e da Gerico35 – datati il primo all’VIII-VII millennio, l’altro alla prima metà del V millennio – sono di grande interesse perché ci mostrano due diverse tipologie edilizie che esistevano da tempi antichissimi: l’uno rappresenta una casa a pianta quadrangolare con una larga porta 34 REDMAN 1978, p. 159 35 GARSTANG 1936, p. 71. Le foto di entrambi i modelli sono pubblicate in AURENCHE 1981, p. 184, figg. 144, 145 17 e tetto a terrazza con parapetto, l’altro riproduce un edificio a pianta circolare, coperto a cupola e diviso in due piani da un solaio intermedio sostenuto da un pilastro. Gli scavi di Creta hanno restituito oltre una decina di modelli di costruzioni circolari attribuibili tutti al TMIIIB (1340-1190 a.C.) e varie riproduzioni di naiskoi che vanno dal TMIIIC al protogeometrico (XII-X a.C.). Dalla Grecia provengono oltre cinquanta modelli in pietra o ceramica datati dall’età geometrica all’età arcaica la maggior parte dei quali rinvenuti nei santuari di Era, pertanto ritenuti riproduzioni di abitazioni offerte come ex-voto alla dea nella sua qualità di protettrice della casa36. Essi ci offrono un panorama molto variegato dell’architettura domestica dell’epoca rappresentando edifici sia a spioventi che a terrazza con diversi tipi di planimetrie – circolari, ovali, rettangolari con o senza abside – talvolta dotati di un portichetto sulla facciata (figg. 21, 22). Dall’Ita- lia centrale provengono vari modelli fittili rettangolari, la maggior parte di VII-VI sec., che riproducono templi o abitazioni comuni a due falde coperte di tegole, talvolta ornate di terrecotte architettoniche che sono rappresentate con molto Fig. 21 – Modello votivo da Argo. Primo quarto del VII sec. a.C. (SCHATTNER 1990 a) 36 Sui modelli greci SCHATTNER 1990 a Fig. 22 – Modelli votivi da Samo. VII-VI sec. a.C. (SCHATTNER 1990 a) dettaglio37 (fig. 23). Numerosi modelli votivi di abitazioni provengono anche dall’area danubiana, fin dal III millennio a.C, e rappresentano edifici sia a pianta rettangolare con tetto a due spioventi, sia a pianta circolare con pareti e tetto continui e ricurvi. 37 ANDRÉN 1940; STACCIOLI 1968. Per i due modelli più antichi da Sala Consilina e Satrico cfr. ANDERSEN – TOMS 2001. È da segnalare anche la recente scoperta di modellini di capanna a pianta circolare a Casteltermini in Sicilia (cfr. GULLI 2009) 20 Fig,. 25 - Prospetto di una tomba rupestre di Myra in Licia (DURM 1910) edifici erano costruiti in terra cruda con procedure artigianali sicuramente non dissimili da quelle utilizzate nell’antichità. I cantieri edili di queste regioni nel corso del novecento sono stati una vera e propria scuola per tutti gli studiosi di architettura dell’Oriente antico. La stessa morfologia dei villaggi di epoca moderna dei paesi arabi, con le case rettangolari addossate le une alle altre, i tetti a terrazza, le piccole aperture spesso simili a spiragli, è stata presa a modello dagli archeologi per le ricostruzioni degli insediamenti del passato. Sono frutto di una millenaria tradizione costruttiva anche le case a graticcio medievali e moderne conservate in Francia, in Inghilterra e in altri paesi europei. Alcuni elementi costitutivi fondamentali di queste costruzioni – gli zoccoli in pietra, le robuste travature di legno degli elevati, i tetti spioventi coperti di elementi relativamente pesanti come le lastre di ardesia – costituiscono un importante riferimento, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti strutturali, per lo studio degli edifici a intelaiatura lignea e tetti di tegole che si affermarono in Grecia e in Italia a partire dall’età arcaica. In Italia sono state oggetto di studio anche le capanne (“lestre”) erette da pastori e boscaioli ancora agli inizi del novecento nella campagna romana e nella pianura pontina e persino alcuni esemplari edificati pochi decenni fa dagli ultimi “capannari” della Maremma43 (fig. 26). Si tratta di costruzioni a carattere stagionale, non intonacate e quindi in generale meno accurate di quelle abitate dagli agricoltori antichi a partire dal Neolitico, ma che si sono comunque rivelate utili per comprendere le procedure di assemblaggio degli elementi lignei portanti. Molte vecchie case in terra sono sopravvissute nelle campagne e nei paesi italiani, particolarmente in Abruzzo dove ancora nel 1934 questi manufatti, censiti dall’Istituto Centrale di Statistica, costituivano il 20% del patrimonio edilizio rurale44. Fig. 26 - Capanna moderna a Giovita di Allumiere, nel Lazio settentrionale. Pianta, sezione trasversale e assonometria della struttura portante (BROCATO – GALLUCCIO 2001) Confinano con l’osservazione etnografica i metodi dell’archeologia sperimentale, molto pra- ticata nei paesi nordeuropei. In questo ambito vengono effettuate delle ricostruzioni ipotetiche a 43 BROCATO – GALLUCCIO 2001 44 Sulle abitazioni in terra abruzzesi si veda tra gli altri MORANDI 1986; sull’architettura di terra in Italia BERTAGNIN 1999 21 grandezza naturale di edifici antichi, spesso allestite all’interno di parchi archeologici e quindi rese visitabili al pubblico, le quali diventano oggetto di analisi ed esperimenti che servono a verificare il livello di attendibilità del modello proposto. Lo stesso procedimento di costruzione dell’edificio può risultare un utile strumento di indagine allo scopo ad esempio di valutare le quantità dei materiali che venivano impiegati e i tempi di lavorazione oppure per testare e mettere a confronto le differenti possibili soluzioni in modo da individuare la più probabile. La frequentazione della casa, anche da parte dei visitatori dell’area archeologica, può servire a giudicare il livello di utilità di elementi che sono stati ricostruiti in via ipotetica in determinati settori dell’edificio, come le finestre, il focolare, le aperture per il tiraggio del fumo, le piattaforme destinate al riposo. Gli esperimenti più interessanti sono quelli che hanno per oggetto la distruzione dell’edificio per opera del fuoco, come quello condotto nel 1967 a Lejre in Danimarca, dove venne incendiata la ricostruzione di una capanna dell’età del ferro che negli anni precedenti aveva ricevuto più di un milione di visitatori45. Tutti gli elementi della costruzione furono prima rigorosamente rilevati e classificati, quindi vennero posizionate delle termocoppie e degli apparecchi fotografici che registrarono la scena del collasso. Parte del crollo venne scavato con il metodo stratigrafico, il resto fu lasciato a dissolversi sul terreno per future indagini. Attraverso lo scavo gli archeologi verificano la consistenza e la posizione dei reperti in giacitura secondaria rispetto alla loro posizione originaria, preventivamente rilevata, e possono formulare dei modelli probabilistici sulle dinamiche del collasso degli edifici. In particolare la registrazione e l’analisi dei residui carboniosi e delle impronte lasciate dalle strutture vegetali sugli intonaci solidificati dal fuoco potranno servire da confronto per facilitare l’interpretazione di analoghe tracce individuate e rilevate nel corso di indagini archeologiche reali. 45 COLES 1979, pp. 150-158 Capitolo III I materiali da costruzione 1) Le strutture in pietrame negli edifici in legno e terra Il pietrame aveva un ruolo accessorio negli edifici in legno e terra e non sempre veniva utilizzato. Il suo impiego ha origine antichissime. Come si è visto fu adoperato già per la confezione di muretti perimetrali di strutture del Paleolitico superiore (Dolni Vestonice, circa 22.000 anni fa) e nei terrazzamenti degli insediamenti palestinesi a partire dal mesolitico. E’ un materiale largamente disponibile quasi ovunque, prodotto naturale dell’erosione delle rocce, che poteva essere raccolto da terra così com’era – selezionando i singoli elementi in base alla forma e alle dimensioni – ed essere impiegato senza alcun tipo di lavorazione. Fin dai tempi più remoti si usava accatastare le pietre l’una sull’altra “a secco” per strati orizzontali approssimativi oppure assemblarle con un legante di terra. Dall’VIII-VII millennio a.C. in Palestina (Munhata46, Beisamoun47) sono attestati anche i muri a doppio paramento con il nucleo riempito di terra, ghiaia e schegge lapidee. La pietra è da sempre apprezzata come materiale da costruzione per la sua resistenza alla compressione, che è la capacità di sopportare un carico che determina uno schiacciamento, e per la sua durevolezza, ossia per la scarsa vulnerabilità all’azione erosiva degli agenti atmosferici. Naturalmente queste caratteristiche fisico-meccaniche presentano valori difformi tra i vari tipi di rocce e la loro efficacia è condizionata dalle dimensioni, la forma e la tessitura degli elementi impiegati nella muratura (cfr. pp. 115-117). Negli edifici più antichi le pietre da costruzione svolgevano le seguenti funzioni strutturali: a) Resistenza a una spinta laterale. In origine il materiale lapideo veniva impiegato per rivestire e contenere lateralmente i modesti terrazzamenti artificiali su cui erano impiantate le abitazioni (primissimo esempio di “sostruzioni”), ma anche le pareti delle fosse circolari scavate nel terreno che costituivano la parte inferiore della casa in modo da impedire che la terra franasse all’interno. Nei 46 PERROT 1967 47 LECHEVALLIER 1978 74 Fig. 111 - Dilberjin Tepe (Bactriana). Ricostruzione della copertura della cisterna “Sardoba” (KRUGLIKOVA et alii 1976) in Bactriana156, datata con molte incertezze tra il II sec. a.C e il V sec. d.C (fig. 111). Ma è ovviamente plausibile che anche questo sistema fosse già in uso in tempi molto più antichi. Fig. 112 - Elementi costitutivi della fornace verticale per la ceramica (CUOMO DI CAPRIO 1985) 156 KRUGLIKOVA et alii 1976; KRUGLIKOVA 1977 Capitolo VII I laterizi 1) Il procedimento di cottura Il procedimento di combustione dei manufatti in terra determina una trasformazione chimica e fisica di questo materiale che diventa solido e compatto con caratteristiche simili alla pietra. I mattoni cotti rispetto a quelli crudi hanno il vantaggio di essere impermeabili, non alterabili dagli agenti atmosferici e molto più resistenti alla compressione (anche per un valore cinque volte superiore). Nel VI millennio a.C. ha inizio la cottura della ceramica che dà luogo a una produzione su larga scala di vasellame di uso domestico. La cottura dei mattoni si diffonde più tardi, nella seconda metà del IV millennio e prevalentemente in Mesopotamia. Quella delle tegole interesserà il mondo greco e occidentale; una prima produzione è testimoniata in Grecia in età micenea e dopo una lunga pausa riprenderà stabilmente a partire dal VII sec. a.C. Il termine laterizi indica i materiali di terracotta che sono utilizzati nell’edilizia, quindi soprattutto i mattoni e le tegole. 77 dell’impero, sono state ritrovate in varie località costiere fra Erice e Palermo, testimoniando una diffusione molto ampia di tale produzione159. Il problema da tenere presente però è che spesso i resti di fornace segnalati provengono da piccoli saggi per cui in molti casi non è da escludere che essi facessero parte di impianti produttivi più vasti che sono rimasti sepolti. Inoltre è possibile che il proprietario della fornace, il cui nome è riportato sui laterizi, possedesse varie officine in località distanti tra loro. Sicuramente le fornaci in muratura verticali a due camere non costituivano il mezzo più efficiente per la cottura delle decine di migliaia di mattoni che venivano impiegati nelle grandi opere pubbliche, in Mesopotamia e in seguito anche nel mondo romano. Proprio in Mesopotamia, che è la regione in cui anticamente si è fatto il più grande uso di mattoni, i ritrovamenti di fornaci destinate alla cottura dei laterizi sono quasi inesistenti160. Il problema si pone anche per la grande produzione laterizia romana di epoca imperiale. Le numerose ricognizioni effettuate nei territori attraversati dall’Aniene e dal Tevere a monte di Roma, che sono ritenuti le principali zone di produzione, hanno portato a individuare numerose aree con alte concentrazioni di frammenti fittili riferibili a impianti di fabbricazione, ma quasi mai sono rinvenute strutture murarie di fornaci161. E’ molto probabile pertanto che nelle grandi fabbriche di mattoni si utilizzasse un sistema diverso, quello della cottura in cumulo, tuttora largamente diffuso nei paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa (fig. 115). Sono grandi cataste formate da migliaia di mattoni da cuocere che vengono innalzate su una superficie piana, solitamente sopra un letto di mattoni già cotti. I mattoni vengono disposti gli uni sopra gli altri, lasciando intorno a ciascuno di essi delle fessure larghe un dito per permettere la circolazione 159 DI STEFANO 1982, BIVONA 1990-91 160 Erodoto (I, 179) riporta che i mattoni cotti utilizzati in Oriente erano cotti εν καµίνοισι, ma questo termine non traduce necessariamente una fornace di tipo verticale con camera di combustione ipogea. Purtroppo i pochissimi resti di fornace messi in luce in Mesopotamia sono anche molto mal documentati. Durante gli scavi condotti nel basamento di un tempio di Eanna a Uruk venne in luce una “industrial area” dove “one brick kiln joins the other” e dove le macerie di questi forni erano state costantemente riedificate alzando il livello dell’area di 2,50 m e oltre. Purtroppo la descrizione dei resti si limita a queste poche parole e non è pubblicata neanche un’ immagine (LENZEN 1960 p. 4) 161 Si veda ad esempio GASPERONI 2004 e FILIPPI 2004 dell’aria. Il cumulo può arrivare a comprendere fino a quaranta assise sovrapposte e si assottiglia verso l’alto in modo da conferire una maggiore stabilità alla struttura, la quale durante la combustione è soggetta ai movimenti di espansione e contrazione dei mattoni. Nella parte inferiore vengono disposte a intervalli regolari delle gallerie di combustione che attraversano il cumulo da parte a parte, delimitate in basso da alcuni filari di mattoni in appiombo e in alto da due o tre filari aggettanti che formano delle volte a mensola; sul colmo sono ricavati degli sfiatatoi. Per evitare dispersioni di calore tutta la catasta viene accuratamente sigillata con un involucro di mattoni già cotti fittamente accostati, rivestito all’esterno da uno strato di terra compattata che occlude ogni fessura. Le gallerie vengono riempite di combustile e sono lasciate aperte nella prima fase della cottura per favorire il tiraggio. Alla fine della combustione le bocche delle gallerie vengono sigillate, insieme agli sfiatatoi, per dare inizio al processo di raffreddamento che nella prima fase deve avvenire molto lentamente (fig. 115, in basso a destra). Dopo un giorno vengono riaperte per velocizzarlo e portarlo a termine. Alla fine tutta la struttura viene smantellata. E’ chiaro che una installazione di questo tipo lascia ben poche tracce e non è facilmente identificabile dalle indagini archeo- logiche. Potrebbero forse riferirsi a una fornace a cumulo gli scarti di cottura di mattoni (agglomerati e mattoni deformati) allineati secondo due linee perpendicolari che sono stati individuati a Larsa, nella Mesopotamia meridionale; gli scavatori hanno voluto identificare queste due tracce con le impronte dei limiti nord ed est di una grande fornace misurante almeno 25 x 30 m”162. Interessanti sono anche i dati forniti dall’analisi di una distesa di migliaia di mattoni rimasti inutilizzati rinvenuta a Obeid. Si è capito ad esempio che i mattoni erano stati cotti in diagonale con un angolo di 30 gradi e che risultavano dei canali fra di essi che permettevano la circolazione dell’aria calda. I mattoni esterni, proprio come avviene con la cottura in cumulo, erano stati ricoperti da uno strato di intonaco e formavano le pareti della fornace163. In molti casi forse si utilizzava un sistema misto con fornaci costituite da uno o più camere di combustione ipogee, ma prive della camera di 162 HUOT – ROUGELLE – SUIRE 1989, pp. 34-36. Anche d i questi resti non è stata pubblicata alcuna immagine. 163 WOOLLEY – MALLOWAN 1976, pp. 18-19 78 Fig. 116 - Velia. Pianta e sezione di una fornace ibrida per la cottura del vasellame e dei laterizi (MINGAZZINI 1954) cottura, per cui la massa dei mattoni veniva disposta in cumulo sopra il piano forato. Una fornace ibrida parzialmente utilizzata per la cottura di mattoni in cumulo è stata individuata a Velia (fig. 116); sopra la camera di combustione s’innalzava una piccola camera di cottura circolare, molto probabilmente destinata al vasellame; intorno a questa era un grande piano forato a cielo aperto a pianta irregolare – su cui ancora poggiavano numerosi mattoni – delimitato da un bordo di argilla spalmata a mano che escludeva con sicurezza l’esistenza di un elevato164. La temperatura ottimale per la cottura dei mattoni è intorno ai 900 gradi, la quale porta alla riduzione della porosità col conseguente sviluppo delle resistenze meccaniche. All’interno di qualunque tipo di fornace in ogni modo la temperatura non è mai omogenea. I mattoni più vicini al fuoco risultano troppo cotti, sono fragili e legano male con le malte. Quelli lontani, restano troppo porosi e quindi sono poco resistenti165. Li si 164 MINGAZZINI 1954. Molto probabilmente mancava una struttura d’alzato intorno al piano forato anche nelle sopra citate fornaci di Locri e Corinto. 165 Cfr. WOOLLEY – MALLOWAN 1976, dove si descrivono i diversi stadi di cottura che presentavano le migliaia di mattoni impiegava in genere nel nucleo delle grandi masse murarie dove comunemente erano impiegati in alternativa i mattoni crudi166. 2) La siglatura I laterizi presentano spesso delle iscrizioni che erano impresse prima della cottura per mezzo di sigilli di legno, che in molti casi hanno lasciato tracce delle fibre. Occupandoci dei mattoni crudi abbiamo visto come in Mesopotamia e in Egitto il ruolo di gestione della produzione da parte del potere monarchico si manifesta attraverso Fig. 117 - Ravenna. Mattoni iscritti della cinta difensiva (III sec. a.C.) (MANZELLI 2000) rinvenuti a Obeid (supra) rispetto alla collocazione che essi dovevano avere in fornace. 166 Esempi di grandi strutture murarie dove sono impiegati mattoni mal cotti sono il nucleo della Ziggurat di Larsa (BACHELOT – CASTEL 1989) e le supposte mura di Arezzo (PERNIER 1920; FATUCCHI 1968-69; FATUCCHI 1992). 79 Fig- 118 - Mattoni smaltati della facciata del palazzo Sud di Babilonia. Le tacche dipinte sulle facce superiori indicano la posizione dei singoli pezzi (KOLDEWEY 1914) l’apposizione di iscrizioni su una parte dei mattoni che uscivano dalle officine. Marchi riconducibili alla funzione di organizzazione e di controllo esercitata dalla città-stato sono di frequente visibili sui laterizi greci167, soprattutto gruppi di lettere come ∆Α/∆Η e simili per δηµόσιον (fig. 129) oppure ΠΟ per πόλεως. A volte viene menzionato il nome di un arconte eponimo, in Macedonia e a Pergamo quello di un re in associazione con la sigla B (anche BA o BAΣIΛ) per βασιλικός. Molte officine erano di proprietà dei santuari; sui laterizi che vi erano prodotti compare sovente la sigla IEPA, ma anche il nome della divinità venerata. È molto frequente in Grecia anche il nome del fabbricante, di solito al genitivo. Alcune iscrizioni più lunghe potevano comprendere ulteriori indicazioni, come le caratteristiche del materiale, il luogo o il tipo di edificio. I laterizi romani di epoca imperiale – argomento di cui tratteremo nella terza 167 Sono timbrate circa un quarto delle tegole di Thasos che è il contesto meglio studiato in Grecia (GARLAN 2001). parte del volume (cfr. pp. 273-282) – erano siglati con bolli inizialmente rettangolari, poi di forma lunata, con indicazioni di vario tipo, non tutte riportate sullo stesso marchio (il proprietario del fondo in cui sorgeva la fabbrica, quello dell’officina, nomi di operai impiegati nel processo di produzione, la data consolare, eventuali altre formule). Le iscrizioni sui laterizi sono molto importanti perché in alcuni casi, in particolare quando vi è riportato il nome di un magistrato in carica o di un re, consentono di datare l’edificio da cui provengono. Quando indicano il proprietario della fabbrica, ma anche un artigiano impegnato nel processo di produzione, possono essere datanti se altri bolli analoghi vengono ritrovati su edifici di cui è stato possibile stabilire la cronologia con altri mezzi, ad esempio con lo studio della ceramica proveniente da uno scavo stratigrafico oppure perché la data della costruzione è riportata dalle fonti letterarie. In ogni modo la cronologia difficilmente può essere fissata all’anno; occorre 82 Spesso questa fodera è limitata alla parte inferiore del muro, simile ad un alto zoccolo sporgente (kisu). In molti edifici sopra le fondazioni in mattoni crudi vengono collocate una o più assise di laterizi con funzione di protezione dei mattoni crudi dell’elevato dalla umidità di risalita. Nelle abitazioni private i mattoni cotti sono frequen- temente utilizzati per i pavimenti e le soglie che sono le parti soggette a maggiore logorio e per gli impianti idraulici. Nel secondo millennio cominciano a essere utilizzati negli elevati di lussuose dimore private, in epoca neobabilonese si diffondono anche nelle abitazioni comuni. I mattoni cotti sono generalmente più sottili rispetto a quelli crudi in modo che in fornace il calore riesca a penetrare bene all’interno assi- curando una cottura omogenea. Vengono assemblati in diverse maniere – per lungo, di taglio, ecc. – esattamente con gli stessi criteri che erano adottati nelle murature in mattoni crudi. Le volte in mattoni cotti sono associate ai muri confezionati con lo stesso materiale. Sono comuni sia il tipo a mensola (fig. 89) sia la volta radiale su centina (figg. 102, 121). Il legante ottimale è la malta di calce in quanto presenta caratteristiche meccaniche analoghe. La si trova però quasi esclusivamente nei muri di epoca neobabilonese e il suo impiego sarà limitato dagli alti costi di produzione. Resterà più diffuso il bitume le cui caratteristiche impermeabili lo rendono adatto per le cortine laterizie che hanno una funzione di isolamento dalla umidità. Sono fabbricati inoltre diversi tipi speciali, analoghi a quelli già presenti nella produzione di mattoni crudi: elementi curvilinei per colonne e semicolonne e con profili irregolari appositamente disegnati per le decorazioni in rilievo. Le figure scultoree delle facciate del tempio di Inanna a Uruk174 (fig. 122) e del tempio di Ishushinak a Susa175 sono composte da mattoni diversi l’uno dall’altro, modellati a mano prima della cottura e poi ricomposti, collocati tutti per lungo evitando giunti verticali in mezzo alle sculture. Mattoni fatti in serie a partire da uno stampo sono quelli che compongono fregi o altre decorazioni con motivi modulari. Una produzione di laterizi molto caratteristica e tra le più antiche consiste in piccoli coni di terracotta di diversi colori, con diametro alla base di 174 JORDAN 1930 175 HARPER 1992, p. 126, 141-44 2-3 cm e lunghi circa 10 cm, i quali venivano confitti, mettendo la base circolare in vista, in uno spesso strato di intonaco di terra che rivestiva la muratura in mattoni crudi in modo da comporre dei Fig. 121 - Arco in mattoni cotti radiali a Ur Fig. 122 - Mattoni ornamentali dal tempio di Inanna a Uruk. Berlino, Vorderasiatisches Museum 83 Fig. 123 - Mosaici parietali con tessere coniche in terracotta da Uruk. Ca. 3500 a.C. Berlino, Vorderasiatisches Museum (MOOREY 1994) mosaici con motivi a losanghe, a zig-zag, a triangoli e altri schemi geometrici (fig. 123). Avevano una funzione decorativa ma anche di protezione del muro. Sono caratteristici dei centri sumerici nella seconda metà del quarto millennio, ma si ritrovano in quell’epoca anche in località della Siria (Habuba Kabira) e del Delta egiziano. Nel II e nel I millennio a.C. vengono utilizzati, come materiale di rivestimento dei muri, dei pannelli fittili rettangolari o quadrati, alcuni dei quali smaltati, con decorazioni in rilievo e dipinte; essi vengono fissati al muro tramite un perno dotato di una grossa testa a bulbo ornamentale passante attraverso un foro centrale del pannello176 (fig. 124). La produzione più preziosa e spettacolare in Mesopotamia sarà infine quella dei mattoni smaltati i quali decoravano le facciate dei palazzi neo assiri del IX-VII sec a.C e che nel VII-VI secolo a.C. saranno largamente impiegati nell’architettura monumentale del regno neobabilonese. Il più famoso esempio è quello della porta di Ishtar di Babilonia, ricostruita nel Vorderasiatisches Museum di Berlino, le cui facciate erano interamente rivestite da mattoni smaltati con fregi a colori raffiguranti leoni, tori e altri animali mitologici, la maggior parte in rilievo (figg. 125, 126). Lo stesso tipo di decorazione si stendeva sulle lunghe mura turrite che fiancheggiavano la cosiddetta strada delle 176 AMIET 1967 Processioni, posta in asse con la porta (fig. 127). Nella prima fase del procedimento di fabbricazione dei mattoni smaltati177 si usava lo stesso metodo che per gli altri mattoni in rilievo: si dava forma a un modello in terra cruda che veniva tagliato in pezzi corrispondenti ai singoli mattoni da cui si ricavava uno stampo che consentiva di replicare il motivo. I mattoni erano sottoposti a una prima cottura per evitare che si deformassero durante il procedimento di colorazione. Sulla superficie venivano poi tracciati i contorni delle porzioni corrispondenti ai diversi colori; si riempivano quindi con gli smalti che erano composti da una miscela di calce, sabbia e soda – oppure potassio – colorata con degli ossidi metallici. Si lasciava seccare e si procedeva infine a una seconda cottura, disponendo le facce decorate verso l’alto, a una temperatura compresa tra i 900 e i 1100 gradi. Per evitare che si vedessero giunti in facciata i mattoni avevano un profilo lievemente rastremato verso l’interno e la malta veniva applicata solo in corrispondenza della metà interna. Fig. 124 - Terracotta ornamentale del XIV sec. a.C da Choga Zanbil, nell’Iran sud-occidentale. Nell’iscrizione in caratteri cuneiformi sul pomello si legge: “palazzo di Untash-Napirisha”, che è il nome di un re elamita. Londra, British Museum 177 Per la descrizione del procedimento di fabbricazione cfr. soprattutto WULFF 1966, pp. 102 ss. 84 Fig. 125 - Ricostruzione della porta di Ishtar di Babilonia nel Vorderasiatisches Museum di Berlino Fig. 126 – Toro in mattoni smaltati dalla strada delle Processioni di Babilonia. Istanbul, Museo dell’Antico Oriente Fig. 127 - Plastico ricostruttivo della Porta di Ishtar e della strada delle Processioni. Berlino, Vorderasiatisches Museum In Egitto, in Grecia e nel mondo italico si fa molto meno uso dei mattoni cotti, in quanto in queste regioni le stesse funzioni strutturali e di rivestimento sono delegate preferibilmente alla pietra, in particolare alle apparecchiature in blocchi parallelepipedi. In Grecia essi sono attestati a partire dalla metà del IV secolo all’interno di alcuni case in associazione con i mattoni crudi e con lo stesso formato (a Cassope, Abdera, a Taso178), nel mercato di Cassope179 e nel c.d. Nekyomanteion di Efira180 – entrambi in Epiro –, nel santuario di Licosura nel Peloponneso (questi ultimi morbidi e porosi per una cattiva cottura)181. Dal territorio di Reggio vengono diverse tombe ellenistiche a fossa con pareti interamente in mattoni cotti e copertura a cappuccina oppure a volta in mattoni radiali182 (fig. 128). Nelle murature di edifici urbani di Velia si trovano numerosi mattoni quadrati183 (37,5 x 37,5 x 9-10 cm), che risalgono almeno al III a.C., i quali su una delle due facce di maggior superficie presentano dei solchi rettangolari paralleli – profondi 4-5 cm – che sono stati interpretati come intercapedini isolanti o come cavità che facilitavano il legame con la malta, ma più probabilmente servivano a favorire 178 GRANDJEAN 1988, p. 385 179 HOEPFNER – SCHWANDNER 1994, pp. 128, 155, 161 180 DAKARIS 1970 181 LAUTER 1999, p. 56 182 DE FRANCISCIS 1957 b 183 MINGAZZINI 1954 87 Fig. 132 - Ricostruzione di un tetto miceneo (IAKOVIDIS 1990) attraverso appositi fori, talvolta praticati su delle bugne in rilievo (fig. 137). Gli elementi soprastanti si reggevano con sistemi a incastro di vario tipo. Per impedire all’acqua piovana di infiltrarsi negli interstizi che risultano tra una serie e l’altra si pone un secondo strato di tegole a file parallele, ciascuna delle quali si colloca a cavallo di due file adiacenti dello strato sottostante. Le tegole antiche presentano forme diverse che potevano essere variamente combinate. Quelle piane, dette anche embrici, sono utilizzate nello strato inferiore e presentano quasi sempre dei risvolti laterali (alette) che convogliano l’acqua piovana verso il basso. Altre sono a sezione poligonale o curvilinea (coppi, in Grecia chiamati kalypteres conformemente alla loro funzione di copertura dei giunti). Le più antiche tegole messe in luce dagli scavi sono di età micenea e provengono da diverse località della Beozia, dell’Attica e del Peloponneso dove erano utilizzate nei palazzi ma anche nelle abitazioni comuni192; la maggioranza dei ri- trovamenti sono concentrati nell’Argolide (fig. 131). Hanno dimensioni diverse (le lunghezze degli elementi sono più spesso comprese tra i 40 e i 46 cm) ma presentano ovunque la stessa forma. Tutte 192 IAKOVIDIS 1990 le coperture in laterizio erano composte da uno strato di embrici ad alette con angoli arrotondati, coperti sui giunti da file di coppi: una soluzione molto simile a quella che verrà adottata in seguito nella penisola italica. Sia gli embrici che i coppi sono lievemente rastremati in modo da potersi sovrapporre. In diversi edifici micenei distrutti dal fuoco sono stati trovati, spesso in associazione con resti di tegole, dei frammenti di concotto riferibili al tetto per le condizioni di giacitura i quali recavano le impronte di una incannucciata; se ne deduce che comunemente le coperture erano composte da tre strati: un letto di canne, la dorosis – da cui provengono i frammenti cotti dal fuoco – e il manto di tegole (fig. 132). La fabbricazione di tegole in terracotta s’interrompe con la fine della civiltà micenea per riprendere, molti secoli dopo, in età orientalizzante. Non è da escludere che in questo lungo lasso di tempo in alcuni centri abbia avuto luogo una produzione di elementi lignei simili alle tegole (scandole) di cui le fonti letterarie attestano l’esistenza a Roma ancora nel III sec. a.C. In ogni modo le tegole che compaiono in Grecia nel secondo quarto del VII secolo a.C. sono diverse da quelle micenee. Esse sono state classificate in due gruppi fondamentali che prendono nome dalle 88 Fig. 133 - Ricostruzione del tetto “protocorinzio” del primo tempio di Apollo a Corinto (675-650 a.C.) (WINTER 1993) rispettive aree di provenienza: tegole corinzie e tegole laconiche193. I più antichi tetti “protocorinzi” (primo tempio di Apollo a Corinto194, primo tempio di Poseidone a Itsmia195, entrambi datati al 675-650 a.C.) presentano embrici privi di alette, lievemente incurvati, coperti sui giunti da coppi a sezione triangolare con la faccia inferiore appena incavata (fig. 133). Verso la fine del secolo questo tipo di copertura evolve nel vero e proprio sistema corinzio dove gli embrici sono piatti, con bordi più o meno rilevati, e ricevono sui giunti kalypteres con profilo esterno pentagonale, l’interno profondamente incavato a sezione curvilinea o poligonale (figg. 134, 135). Spesso la tegola è costituita da un unico pezzo che combina l’embrice con il coppo; la parte lavorata in forma di kalyptere si sovrappone alla parte piatta del pezzo analogo collocato nella fila accanto. Le tegole laconiche, che si diffondono inizialmente nel Peloponneso occidentale sono tutte curvilinee; la faccia convessa viene rivolta verso il basso nello strato inferiore, verso l’alto nello strato superiore (fig. 136). Agli inizi hanno lo stesso raggio, in seguito quelle sottostanti si allargano distinguendosi dai kalypteres che sono divenuti più stretti. Solitamente il lato anteriore dell’embrice corinzio presenta una risega trasversale che consente di accavallare la parte superiore sporgente alla tegola del registro inferiore e impedisce all’elemento di scivolare verso il basso. La parte superiore del kalyptere sia corinzio che laconico è dotata talvolta di due ritagli laterali che per- 193 WINTER 1993 194 ROBINSON H.S. 1984 195 HEMANS 1989 Fig. 134 - Elementi costitutivi del tetto corinzio (WINTER 1993 – rielab. dell’autore) mettono di incassarlo nel coppo del registro supe- riore. Più spesso i kalipteres sono semplicemente appoggiati gli uni sugli altri; quelli semicircolari sono rastremati in modo che il lato anteriore più largo avvolga la parte superiore del coppo del registro sottostante. Con il passare del tempo i due tipi di tegole valicano i confini degli originari ambiti di appar- tenenza. In Grecia la più elegante tegola corinzia viene preferita negli edifici monumentali, quella laconica si caratterizzerà come prodotto economico per costruzioni di tipo utilitario come le mura urbane196 e per le abitazioni comuni. In Asia Minore, in parte delle isole dell’Egeo, nelle colonie greche d’Occidente e nei centri etrusco-italici prevale un sistema di copertura definito “misto” o “ibrido” perché sovrappone coppi semicircolari di tipo laconico a embrici piatti con alette, simili a quelli corinzi. Ma probabilmente esso deriva direttamente dai tetti micenei e quindi si configura in realtà come il tipo originario. Nel mondo etrusco- laziale le attestazioni più antiche risalgono almeno 196 Per es. REBER 1998 p. 127 sulle tegole laconiche delle fortificazioni di Eretria. 89 Fig. 135 - Ricostruzione del tetto corinzio del Tesoro di Megara a Olimpia (510-500 a.C.) (WINTER 1993) Fig. 136 - Ricostruzione del tetto laconico del primo tempio di Artemide Orthia a Sparta (650-620 a.C.) (WINTER 1993) Fig. 137 - Sistemi di assemblaggio di due diversi tipi di tegole campane. Le tegole di gronda presentano i fori per i chiodi (RESCIGNO 1998) al terzo quarto del VII sec. a.C.197 (quarta fase della struttura domestica presso il santuario di Vesta a Roma198, prima fase dell’edificio residenziale di Murlo199). In Italia gli embrici presentano in alcuni casi alette a sezione a quarto di cerchio con incassi che consentono di sovrapporle a quelle del registro inferiore. Il tipo più comune, che prevarrà anche negli edifici romani, è dotato di due alette a sezione quadrangolare con riseghe laterali che riducono la larghezza della tegola in modo da poterla inserire tra le alette della tegola del registro sottostante200 (figg. 137, 138). 197 Cfr. ANDERSEN – TOMS 2001. Gli autori fanno notare che le alcove delle tombe della necropoli villanoviana dei Quattro Fontanili a Veio erano chiuse da tegole, comprese quelle di due tombe datate dalla ceramica all’VIII secolo (FGG18 e CC1α) le quali erano apparentemente inviolate. Questo dato va preso però con molta cautela per la mancanza di coevi ritrovamenti di tegole negli strati di crollo degli edifici. 198 AMMERMAN – FILIPPI 2004, p.26 199 NIELSEN – TUCK 2001; TUCK 2006. Si veda anche WIKANDER O. 1993 sulle tegole di Acquarossa 200 Sulle tegole italiche tardo-repubblicane v. in particolare SHEPERD 2007 92 Fig. 142 - Tomba 2 a Pianezze, presso Grotta di Castro (Viterbo), datata al VI sec. a.C. A sinistra: pianta e sezione longitudinale. A destra: sezione trasversale e schema della decorazione del soffitto (NASO 1996) erano i più comuni204. L’armatura primaria è costituita da una serie di grosse travi maestre parallele disposte in senso longitudinale (mutuli, quella di colmo chiamata columen). In tutti gli edifici sono presenti il columen, impostato sui vertici dei muri dei due lati corti, e i due mutuli disposti sui muri di gronda (in italiano chiamati radici). Nei tetti più ampi tra il colmo e ciascuna delle due radici si trova un’altra trave longitudinale di uguale spessore (fig. 143). Il columen e i mutuli sono riprodotti sui soffitti di alcune tombe etrusche; inoltre gli incassi di tali elementi – che si configurano come vere e proprie nicchie per le loro grandi dimensioni – sono visibili sul retro di alcuni frontoni in blocchi di pietra che si sono conservati fino ai nostri giorni (tempio di Poseidone e Athenaion a Poseidonia, tempio di Efesto ad Atene)205 (fig. 144). Nelle grandi sale e nei templi queste travi potevano profittare di sostegni intermedi, colonne o setti murari, che fungevano anche da rompitratta. Nei templi etrusco-italici a tre celle i mutuli insistono sui muri divisori dei vani e sui muri esterni di gronda; nella parte anteriore dell’edificio si prolungano sopra le colonne del pronao (fig. 143). Nei templi peripteri e pseudoperipteri si aggiunge una fila di travature 204 Sull’argomento si vedano in particolare NASO 1996; MACKINTOSH TURFA – STEINMAYER 1996 205 HODGE 1960, pp. 1-16 longitudinali su ciascuno dei due colonnati esterni dei lati lunghi; altre travi collegavano le colonne con i muri della cella formando l’ossatura portante del soffitto del portico. In alcuni edifici con ambienti poco sviluppati in lunghezza o con rompitratta relativamente vicini le travature portanti longi- tudinali potevano essere composte in alternativa da un numero più elevato di mutuli di minore spessore, così come testimoniato ad esempio dai numerosi incassi presenti dietro al timpano del Megaron di Demetra Malophoros sulla collina di Gaggera a Selinunte206 (fig. 145). Sui mutuli si dispongono i puntoni (cantherii) secondo l’inclinazione del tetto; su questi vengono appoggiati gli arcarecci (templa)207, che sono correnti longitudinali più piccoli e più frequenti; sopra si stende uno strato continuo di assicelle (asseres) o cannucce – quest’ultime rappresentate assai di frequente nelle tombe etrusche – eventualmente un letto di intonaco e infine il manto di tegole (fig. 143). Occupandoci dei primitivi edifici lignei con coperture vegetali (cfr. pp. 32-36) abbiamo visto come le travature degli spioventi richiedevano necessariamente una serie di elementi di rinforzo 206 HODGE 1960, pp. 17-24. Questo tipo di tetto viene pertanto definito Gaggera Roof nelle pubblicazioni anglo-sassoni. 207 Sulla terminologia greca delle travature cfr. HELLMANN 2002 pp. 281-283 93 Fig. 143 - Schema della copertura di un tempio tuscanico a tre celle (MARTHA 1889 – rielab. dell’autore) ▲ Fig. 144 - Poseidonia. Sezione trasversale del Tempio di Poseidone. Le frecce indicano gli incassi delle travi portanti del tetto (disegno di Labrouste in HELLMANN 2002 – rielab. dell’autore) ► Fig. 145 - Ricostruzione del tetto del Megaron di Demetra Malophoros sulla collina di Gaggera a Selinunte. Le sezioni mettono a confronto tre possibili sistemi (HODGE 1960) 94 Fig. 146 - Caere, necropoli della Banditaccia: interno della Tomba I del Grande Tumulo III. Cavalletto risparmiato nella roccia a imitazione di quelli lignei (MORETTI 1955) collocati sotto al tetto, in primo luogo catene trasversali che collegavano le coppie di puntoni opposti per attutirne le spinte laterali e vincolarli all’interno di un sistema triangolare chiuso e rigido. Sulle catene spesso si impostavano dei puntelli verticali (ritti) oppure obliqui (saette) (figg. 39 a p. 33, 145). Questi tralicci lignei, che prendono il nome di cavalletti, incavallature o capriate semplici si vanno perfezionando nei tetti di età arcaica, soprattutto all’interno dei templi dove essi debbono sostenere le massicce travature su cui appoggiano le ampie falde. Le catene dovevano collocarsi sempre in corrispondenza di ogni coppia di puntoni. I tralicci più complessi, comprendenti ritti e controcatene, profittavano di sostegni intermedi: colonne, pilastri, muri trasversali interni ed esterni. Essi sono frequentemente raffigurati nelle tombe etrusche a camera, sempre in forme reticolari che escludono elementi obliqui, collocati in corrispondenza delle suddivisioni interne, sulle pareti e su coppie di pilastri di roccia (fig. 146). . Fig. 147 - Pianta e prospetti della tomba della Peschiera a Tuscania (ROMANELLI 1986) 97 dall’esterno, una faccia liscia verticale (fascia iposcopica), un po’ più alta rispetto allo spessore della tegola, che viene decorata con un motivo continuo, più frequentemente una treccia o un meandro (fig. 153). Il lato inferiore termina spesso verso l’esterno con una risega o con un profilo incurvato che servono ad aumentare l’altezza della tegola in facciata ma anche a favorire lo scolo dell’acqua. I coppi di gronda vengono chiusi sulla fronte da un elemento verticale (antefissa) che viene anch’esso decorato. Nei primi tempi l’antefissa è una forma pentagonale (nei tetti corinzi) (fig. 153, A) o semicircolare (nei tetti laconici) (fig. 136) il cui contorno coincide con quello del kalyptere. Poi diventa gradualmente più grande. In Attica si svilupperanno antefisse con alte foglie a palmetta sostenute da volute (fig. 153, C). Nella Grecia occidentale, in Sicilia, Magna Grecia e in Etruria si prediligono antefisse con figure plastiche, soprattutto a testa femminile, di sileno e di gorgone, che in molti esemplari sono nimbate, cioè circondate da un’ampia aureola il più delle volte decorata con delle baccellature radiali (fig. 154). Queste forme sono indifferentemente associate a kalypteres semicircolari o corinzi; in ogni caso antefissa e coppo di gronda costituiscono un unico pezzo. In molti templi le antefisse vengono collocate anche sul colmo, in corrispondenza di ciascuna fila di coppi, dove sono attaccate o al dorso dei kalypteres hegemones oppure al vertice dei coppi a due versanti (figg. 134, 135). Nei templi più antichi – in Grecia in età altoarcaica, ma in Etruria e Lazio ancora nel IV sec. – il triangolo frontonale della facciata era aperto e un manto di tegole era posto sul ripiano situato dentro questa cavità, che era esposto alle intemperie, per impermeabilizzarlo (fig. 155); i coppi di gronda erano chiusi da antefisse uguali a quelle dei lati lunghi che stavano alla stessa quota. In alcuni edifici le antefisse finiranno per essere collocate anche sopra i rampanti del frontone, quindi dissociate dai coppi, a dispetto delle regole strutturali (fig. 119)209. Le tegole poste sopra il frontone (tegole frontonali) vengono dotate di un bordo rialzato – che all’esterno è modanato e decorato – il quale impedisce all’acqua piovana di scolare sulla facciata convogliandola verso il basso (sima rampante) 209 MORENO 1963 Fig. 153 - Tegole corinzie di gronda (ORLANDOS 1966) Fig. 154 - Antefissa a testa di menade (510-500 a.C.). Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia Fig. 155 - Plastico ricostruttivo del tempio di Portonaccio a Veio. Museo delle Antichità Etrusche e Italiche 98 (figg. 134, 135). Anche le tegole di gronda, in molti casi, vengono modellate con un risvolto (sima laterale) il quale serve a trattenere l’acqua e a guidarla verso dei fori di scarico che si aprono lungo il bordo; a questi fori corrispondono sull’esterno degli elementi sporgenti (doccioni) che allontanano il getto dalla parete. Alcuni esemplari di VII-VI sec. a.C. (tempio di Hera a Corfù210, tempio di Apollo a Thermo211, tempio delle Stimmate a Velletri212) sono costituiti da un’alternanza di antefisse e doccioni, in forma di piatti elementi verticali di analoghe dimensioni decorati con teste in rilievo di vario tipo, che sono posti l’uno accanto all’altro a formare un bordo continuo (figg. 162, 164). Di concezione molto simile è la sima di età orientalizzante del palazzo di Murlo dove le teste di antefisse e doccioni, più piccole e distanziate, sono collegate da piatti listelli213 (fig. 156). Ma il tipo che s’impone definitivamente è quello sagomato con modanature continue sulle quali si distendono decorazioni modulari suddivise in due o più registri paralleli, con la fascia inferiore ritmata dai doccioni (fig. 158); le antefisse, che sono diventate più alte, svettano al di sopra della sima e non interferiscono con le fasce decorate. Nei primi tempi prevalgono le decorazioni a foglie d’acqua dipinte su un profilo a becco di civetta e fascia inferiore a treccia o meandro; i doccioni hanno più spesso forma tubolare. Poi avranno grande fortuna i motivi a palmette e fiori di loto (anthemion) e in età classica i girali di acanto alternati a doccioni a protome leonina. Le sime rampanti sono presenti in tutti i templi, le sime laterali solo in alcuni; esse sono largamente diffuse in Sicilia e Magna Grecia, ma ne fanno a meno i tetti campani il cui linguaggio decorativo è affidato alla forza espressiva delle grandi antefisse a gorgoneion o a testa femminile nimbata che si ergono sopra le tegole di gronda214; in Grecia nel V sec. a.C. la sima laterale è adottata nel tempio di Zeus a Olimpia, ma è assente sul Partenone. In effetti non è un elemento essenziale sul piano funzionale; il pronunciato aggetto della gronda è sufficiente ad allontanare l’acqua piovana dalle pareti. Talvolta i doccioni sulle sime sono occlusi e hanno un ruolo meramente ornamentale, oppure sono forati solamente quelli d’angolo dove 210 DONTAS 1976 211 SOTIRIADIS KAWERAU 1908; STUCKY 1988 212 FORTUNATI 1988 213 NIELSEN – TUCK 2001; TUCK 2006 214 RESCIGNO 1998 Fig. 156 - Prospetto della sima di età orientalizzante del palazzo di Murlo (TUCK 2006) Fig. 157 – A sinistra: Fregio con scena di partenza, dal santuario di San Biagio della Venella nella chora di Metaponto (650-625 a.C.) (GRECO 2000). A destra: Applicazione dei primi fregi nei templi, schizzo ipotetico (MERTENS 2006) Fig. 158 - Imera. Santuario della città superiore, Tempio B. Sezione e prospetto della sima laterale e della lastra di rivestimento del geison (MERTENS 2006) 99 Fig. 159 - Ricostruzione della fronte del Tempio C di Selinunte (MERTENS 2006) l’acqua viene convogliata da canalette in lieve pendenza ricavate dietro la sima. Soprattutto in Sicilia, in Magna Grecia e in Italia centrale le travature lignee poste sotto le tegole di gronda o le sime vengono protette dalla pioggia con delle lastre di rivestimento in terracotta (antepagmenta) decorate con rilievi e pitture. Consistono in una serie di placche rettangolari, con modanature lungo i bordi, che vengono collocate l’una di seguito all’altra formando dei lunghi fregi portatori di fastose decorazioni geometriche oppure di narrazioni figurate (fig. 162). Esse vengono disposte innanzitutto in corrispondenza delle teste dei puntoni che costituiscono la cornice di coronamento dell’edificio (geison) in aggetto rispetto alle pareti. Generalmente le lastre presentano sul retro un dente orizzontale che consente di appenderle ai puntoni, alloggiato in un apposito intaglio praticato sulle teste (fig. 157); talvolta sono dotate anche di un dente inferiore che serve a incassarle in modo più stabile (lastre a cassetta) (fig. 158). L’ancoraggio avveniva anche tramite chiodi. Nei tetti della Sicilia e della Magna Grecia il rivestimento del geison raggiunge presto un considerevole formato divenendo un elemento ornamentale irrinunciabile; molte volte viene composto in un unico pezzo insieme alla sima, decorato da motivi geometrici o vegetali policromi che si stendono su fasce suddivise da tondini, sormontate da una cornice a fascia dritta e cavetto215. Nei templi sicelioti il blocco composto da sima e geison si svolge sui lati lunghi e in facciata sia sui rampanti sia alla base del triangolo frontonale (figg. 159, 160). Nel tempio di Hera a Poseidonia (seconda metà del VI sec. a.C.) il rivestimento fittile dei lati lunghi girava in facciata sui rampanti del timpano, formando un alto e maestoso fastigio 215 MERTENS 2006 p. 114; WIKANDER Ch. 1993 102 da un modello in terracotta di oikos, conservato al museo di Gela220. A partire dal VI secolo a. C. nel mondo greco le terrecotte architettoniche vengono progressivamente sostituite da elementi lapidei. Questo processo di trasformazione che riguarda tutte le parti del tempio, e di cui daremo conto nella prossima parte del volume, si attua dal basso verso l’alto investendo le lastre del fregio prima delle sime. Ma ciò avviene con modalità e tempi diversi fra i vari edifici e fra le varie aree geografiche. Già in età arcaica in alcuni templi vengono realizzate in marmo le travature dei soffitti, le sime e persino le tegole. Su altri edifici invece le sime in terracotta resistono ancora in età ellenistica. Fig. 164 - Thermo. Tempio di Apollo. Ricostruzione della trabeazione, del tetto e del rivestimento in terracotta (VI sec. a.C.) (SOTIRIADIS – KAWERAU 1908) 220 SCHATTNER 1990 b, p. 406 Fig. 165 - Roma. Tempio “tuscanico” di Sant’Omobono. Ricostruzione della facciata (CRISTOFANI 1990 c) Fig166 - Olimpia. Tempio di Hera. Ricostruzione dell’acroterio centrale del frontone (MARTIN 1965) 105 Capitolo I Le rocce e il loro impiego nell’edilizia Le rocce sono aggregati di minerali. La maggior parte sono composte da più specie di minerali e altre sostanze (rocce composte od eterogenee). Più raramente sono formate da un solo minerale (rocce semplici od omogenee). Tra queste ultime possiamo annoverare ad esempio le rocce calcaree le quali sono costituite quasi interamente da calcite (CaCo3). Le rocce formano la parte esterna della terra (crosta) il cui spessore varia da alcuni chilometri – sotto gli oceani – ad alcune decine di chilometri – sotto i continenti. Dal punto di vista della loro origine (litogenesi) si distinguono in rocce magmatiche, sedimentarie e metamorfiche. (cfr. tavv. I – IV; l’ordine delle figure segue quello del testo alle pagine seguenti) 1) Le rocce magmatiche Le rocce magmatiche (dette anche eruttive o ignee o laviche) sono il prodotto della solidificazione del magma, il quale è una massa fluida a temperatura elevata (700-1300°), in movimento verso l’alto, formatasi in profondità nella Terra per fusione di rocce preesistenti e composta da un miscuglio di liquidi, gas, cristalli. In base alla zona della crosta dove avviene la solidificazione del magma si ha una distinzione tra rocce intrusive ed effusive. a) Le rocce intrusive hanno origine da masse magmatiche che non sono riuscite ad arrivare in superficie; pertanto si sono solidificate in profondità nella crosta con un raffreddamento lento e in condizione di elevata pressione dovuta alle rocce soprastanti. Queste circostanze determinano una cristallizzazione completa e uniforme (struttura olocristallina); i cristalli sono grandi, con aspetto di granuli ben distinguibili a occhio nudo, e per lo più di uguali dimensioni. Molti giacimenti sono oggi visibili in superficie grazie all’azione erosiva degli agenti atmosferici che hanno demolito le rocce soprastanti. Le più importanti rocce magmatiche intrusive sono le seguenti: - Il granito è una roccia ad alto contenuto di quarzo, compreso tra il 20 e il 60%, da sempre molto apprezzata come materiale da costruzione per la sua compattezza e l’ottima resistenza a compressione (1600-2400 kg/cm2); ha una funzione importante anche sul piano decorativo per la caratteristica macchiettatura – che presenta colori diversi a seconda dei giacimenti di provenienza – e la lucidabilità. Si trova in grandi ammassi che consentono di estrarre pezzi monolitici di considerevoli dimensioni. Importanti giacimenti erano sfruttati anticamente in Egitto dove questo materiale venne impiegato in vari edifici monumentali e da dove fu largamente esportato1. Il tipo più pregiato era la sienite, il cui nome deriva da Siene (Assuan) dove esistevano grandi cave (è altrimenti detto granito rosso di Assuan), caratterizzato da una grana grossa di colore rosato o rosso mattone, utilizzato soprattutto a partire dalla terza dinastia per lastre di rivestimento, pilastri, colonne, obelischi, sarcofaghi e sculture2. Il granito è presente anche in Italia, sulle Alpi, nell’Arcipelago Toscano, in Calabria e in Sardegna, dove era estratto già in epoca romana. Altre cave erano anticamente in Gallia, nel massiccio dell’Esterel (granito a morviglione), in Asia Minore, presso Pergamo (granito grigio misio)3 e nella Troade (granito violetto o marmor troadense)4. - La diorite5 è composta prevalentemente da plagioclasio ed è un materiale durissimo, molto difficile da lavorare e scolpire, che veniva utilizzato nelle cave egiziane per tagliare il granito. Ciò non ha impedito la realizzazione di vasi e altri oggetti di finissima fattura. - La vera e propria sienite dal punto di vista petrografico, da non confondersi con quella di Assuan, è una roccia a prevalenza di feldspato, analoga ai graniti, ma a differenza di questi ultimi è priva di quarzo o con quantità di quarzo molto piccole. Presenta colore grigio o rosato o violaceo, un’ottima resistenza all’usura e buona resistenza alla compressione, di poco inferiore a quella del granito (800-1500 kg/cm2). Ha una struttura granulare, 1 PILLET 1936-37; GALLETTI – LAZZARINI – MAGGETTI 1992 2 Sulle pietre egiziane e il loro impiego nell’architettura cfr. DE PUTTER – KARLSHAUSEN 1992; ASTON – HARRELL – SHAW 2000; LAZZARINI 2002 a, pp. 227-244; KLEMM – KLEMM 2008 3 LAZZARINI 1998; DE VECCHI et alii 2000 4 PONTI 1995 5 HARRELL 2009 106 talvolta porfiridica per la presenza dei grossi cristalli di feldspato con caratteristiche intermedie rispetto alle rocce effusive. In Italia è presente nella zona di Biella (sienite della Balma). b) Le rocce effusive, dette anche vulcaniche, sono quelle che si sono formate sulla superficie terrestre per la fuoriuscita del magma attraverso condotti o fenditure. Il brusco passaggio alla temperatura ambientale comporta un rapido raffreddamento, un forte abbassamento di pressione e la dispersione di sostanze gassose. Queste condizioni determinano la formazione di una struttura irregolare (porfirica, cosiddetta dal porfido che è la roccia magmatica effusiva più rappresentativa) composta da pochi grandi cristalli ben formati (fenocristalli) immersi in una massa di fondo costituita da minutissimi cristalli, in alcuni casi anche amorfa, formata cioè da materiali solidi, come il vetro, che mancano di un reticolo cristallino. Alcuni esempi di rocce effusive: - La porfirite, detta anche andesite, è una roccia con tessitura da afanitica – cioè minutissima e compatta - a porfirica, la quale è costituita principalmente da plagioclasio, pirosseni e orneblenda. E’ un materiale duro, tenace, lucidabile, con resistenza alla compressione simile a quella dei graniti. Comprende alcuni importanti porfidi utilizzati nell’antichità6. Il porfido rosso antico, le cui cave sono situate sul Gebel Dokhan nel deserto orientale egiziano7, fu considerata la pietra più prestigiosa, in particolare durante l’impero romano, in virtù del suo colore rosso purpureo che fu adottato da re e imperatori come simbolo di nobiltà e potere. Presenta un fondo con tonalità variabili rosso-violacee punteggiato da numerosi cristallini bianchi o rosa di plagioclasio. Materiale costo- sissimo, esso venne impiegato nella ritrattistica imperiale e per sculture di divinità, lastre di rivestimento parietali e pavimentali, colonne di edifici imperiali e pubblici, sarcofaghi, vasche. Varietà egiziane sono il porfido verde e il porfido serpentino nero. Materiale molto lussuoso fu anche il porfido verde antico8 (o serpentino), estratto nel Peloponneso, non lontano da Sparta, caratterizzato da un uniforme colore verde scuro su cui si distinguono cristalli di plagioclasio allungati e di 6 LUCCI 1964 7 ROMEO – DE BIASIO 2004; PEACOCK – MAXFIELD 2007 8 ZEZZA – LAZZARINI 2002 dimensioni variabili, con tonalità che vanno dal verde chiaro, al verde scuro, al verde giallastro. Utilizzato in epoca minoico-micenea per la manifattura di vasi rituali, venne riscoperto dai Romani nel I sec. a.C. e impiegato prevalentemente per rivestimenti parietali e pavimentali. - Il porfido quarzifero è costituito da almeno un 65% di massa microcristallina di fondo in cui sono immersi cristalli di vari minerali, prevalentemente di quarzo. In Italia le principali cave si trovano in Trentino e in Val Camonica; per le sue caratteristiche di durezza e di resistenza anche agli sbalzi di temperatura, è stato largamente utilizzato per le pavimentazioni stradali, disposto gene- ralmente a cubetti (sampietrini, bolognina). - Il basalto9 è la roccia effusiva più diffusa sulla crosta terrestre. La maggior parte dei fondali marini è costituita da questo materiale. È composto da una preponderanza di plagioclasio e pirosseni, spesso anche da olivine che sono silicati di ferro e magnesio. Il colore è scuro, nero o verdastro; la struttura è quasi sempre a grana fine, molto compatta, presenta ottima resistenza e tenacità (resistenza a compressione in genere tra i 2500 i 4000 Kg/cm2), è difficilmente lavorabile per la sua durezza. Le lave basaltiche possono, solidificando, portare a molteplici strutture. In molti casi durante il raffreddamento del magma si sono formate profonde fratture verticali a sezione esagonale che confe- riscono alla roccia un caratteristico aspetto colonnare. La più grandiosa formazione di questo tipo è quella del Giant’s Causeway nell’Irlanda settentrionale. Il basalto è largamente presente anche sul territorio italiano dove è stato sfruttato fin dall’antichità soprattutto per lastricati stradali (da cui il termine basolo). Hanno aspetto colonnare diversi giacimenti dell’Etna, della Sardegna e del Veneto. - La leucitite10, detta anche lava leucitica, è composta essenzialmente da leucite, presenta colore biancastro o grigio chiaro, la durezza è pari pressappoco a quella del basalto. In Italia è un prodotto delle eruzioni dei vulcani laziali e del Vesuvio. È stata utilizzata dai Romani soprattutto per i lastricati stradali e in piccole schegge nell’opera cementizia. - La trachite11 è costituita principalmente da feldspati, cui si associano plagioclasio e quarzo; 9 HARRELL – BOWN 1995; STOREMYR et alii 2009 10 JACKSON – MARRA 2006 11 CAPEDRI – GRANDI – VENTURELLI 1997 109 granulari), altri più duri e compatti (tufi litoidi). I valori di resistenza a compressione variano da poche decine a 200 Kg e oltre per cm2 25. Per la facile lavorabilità i tufi sono stati largamente utilizzati nelle murature sia in conci che in blocchetti. Tra i tufi litoidi dell’area laziale26, molto utilizzati negli edifici antichi, ci sono il tufo lionato27, presente nelle zone periferiche dell’ap- parato vulcanico dei Colli Albani, cosi detto per il caratteristico colore giallo-rossastro, il tufo giallo della via Tiberina28 e il tufo a scorie nere29 (o di Fidene), derivati dall’apparato vulcanico dei monti Cimini e Sabatini, il nenfro grigio scuro dei monti Volsini. Tipi più duri e di composizione molto simile, caratterizzati da una massa grigia cineritica con svariati inclusi lavici e piccole brecce calcaree, sono il peperino (Lapis Albanus)30, la pietra gabina, il tufo di Tuscolo provenienti da diverse aree sulle pendici dei Colli Albani. Tra i tufi granulari si trova il cosiddetto cappellaccio, deposito superficiale del suolo romano, sgretolabile se esposto alle intemperie ma resistentissimo all’umidità, per cui è stato impiegato preferi- bilmente nelle fondazioni. Tra i tipi più importanti della Campania ci sono il tufo giallo dei Campi Flegrei, il quale si è sedimentato nel mare, da dove è emerso successivamente per movimenti tettonici, per cui contiene sporadici fossili conchigliferi, il tufo grigio di Nocera31 che è stato molto utilizzato negli edifici di Pompei, il tufo sorrentino32, presente tra Meta e Sorrento dove forma un alto banco roccioso di colore bruno-grigiastro che si erge a picco sul mare con una falesia alta dai 50 ai 100 m. c) Le rocce sedimentarie chimiche si sono formate per azione chimica dell’acqua la quale, nel suo cammino attraverso le rocce, scioglie i sali presenti e li trasporta in conche dove si depositano 25 Cfr. CALDERONI et alii 2010 dove si espongono i risultati di alcuni test di resistenza sulle murature storiche in tufo, con bibliografia relativa ad altre indagini di questo tipo. 26 Sui tufi e le altre pietre vulcaniche usate nell’edilizia romana vedi JACKSON – MARRA 2006 27 DE CASA et alii 1999 28 LOMBARDI – MEUCCI 2006 29 ALVAREZ – GORDON – RASHAK 1975 30 AA.VV. 2003 31 SCACCHI 1881 32 GALDIERI 1913. Sull’uso del tufo della campania nelle costruzioni cfr. anche TENORE 1892 dando origine a masse compatte. Si tratta generalmente di rocce semplici perché formate dall’accumulo di un’unica sostanza. Tra le più comuni: - La salgemma, composta da cloruro di sodio, si trova in forma di grandi banchi formati dalla evaporazione di masse d’acqua salata (mari o laghi salati). - Il gesso è costituito quasi interamente da solfato di calcio che deriva dalla trasformazione di sali marini per evaporazione. Questa roccia, molto tenera e facile da tagliare, è stata utilizzata, in particolar modo a Creta in età minoica, per la confezione di basi di colonne, conci rettangolari, cornici di porte, soprattutto pannelli di rivestimento pavimentali e parietali33. Con seghe di bronzo si riusciva a ricavare senza difficoltà lastre lunghe quasi due metri con uno spessore compreso tra 25 e 70 mm. Essendo un materiale molto deperibile sotto l’acqua piovana il suo impiego è stato limitato però prevalentemente agli spazi interni. Inoltre sottoposto a cottura tra i 130 e i 250 gradi e mescolato con acqua (cfr. pp. 30-31) il gesso si trasforma in un materiale plastico che ha avuto largo impiego nell’edilizia antica per confezionare malte, intonaci e stucchi, soprattutto in Egitto dove ci sono grandi giacimenti e nel mondo romano. - I travertini sono rocce calcaree prodotte dalla evaporazione di acque ricche di carbonato di calcio. Si distinguono per una tessitura molto irregolare con frequenti concrezioni e vuoti causati dai vegetali inglobati nel sedimento e poi marciti. Hanno un colore giallo molto chiaro, quasi bianco, talvolta screziato di rosso o di bruno. È un materiale duro e pesante, con resistenza alla compressione di circa 500 kg/cm2. Celebre è soprattutto il travertino di Tivoli (lapis tiburtinus)34, molto utilizzato negli edifici romani a partire dall’età repubblicana in grandi blocchi, soprattutto nelle parti soggette a un carico maggiore, come le colonne, i pilastri, le ghiere degli archi, ma anche come rivestimento di grandi masse murarie. In Italia altri giacimenti stanno in Toscana, in Umbria35 e nelle Marche. Un travertino africano particolarmente pregiato, estratto presso Orano in Algeria e impiegato a Roma in 33 Sulle cave di gesso a Creta cfr. CHLOUVERAKI 2002; un altro importante giacimento dove il gesso era estratto in blocchi parallelepipedi destinati all’edilizia è stato individuato nell’alta valle del Belice in Sicilia (GENNUSA 2003). 34 MANCINI A. 2006 35 MORONI et alii 2002 110 epoca imperiale per lastre di opus sectile, era l’alabastro a pecorella, cosi detto per la somiglianza di una delle sue varietà con il vello ovino. - Gli alabastri36 sono aggregati di origine gessosa (solfato di calcio idrato) o calcitica (carbonato di calcio), deposti in ambienti sotterranei da acque sature di minerali, i quali si presentano in aggregati con incrostazioni a strati concentrici (concrezionati) o a zone di diverso colore (zonati) o a venature raggiate. Nell’antichità ebbe notevole diffusione soprattutto l’alabastro cotognino egiziano, di tipo calcareo, che si presenta nei suoi manufatti a tessitura zonata, caratterizzata cioè da bande di colore miele alternate a fasce più strette di colore bianco candido o rosato. Venne impiegato in epoca faraonica per sarcofaghi, lastre di rivestimento, vasi e altri oggetti, poi dai Greci in età ellenistica (tomba di Alessandro Magno)37 e dai Romani che ne ricavarono anche elementi architettonici come cornici e colonne. Giacimenti di albastro erano sfruttati anche in Asia Minore (a Hierapolis di Frigia e a Tyatira) e in Italia (alabastro del Circeo). Quest’ultimo presenta due varietà, una simile al ghiaccio (“a ghiaccione”), l’altra “tartarugata”; a Roma si sono conservate alcune colonne di epoca imperiale ricavate dal tipo “a ghiaccione”38. d) Le rocce sedimentarie organogene sono dovute all’accumulazione dei resti di organismi vegetali o animali fissati o cementati da sali di calcio o di magnesio. Hanno origine organica innanzitutto vari combustili: i carboni, che si distinguono in quattro tipi (torba, lignite, litantrace e antracite in base al tenore di carbonio e alla diversa età di carbonizzazione), il petrolio greggio (o nafta), il metano. Hanno grande importanza come pietre da costruzione: - I calcari39 e le dolomie che devono la loro formazione al carbonato di calcio disciolto nelle acque fluviali, lacustri e soprattutto marine il quale, fissato dagli organismi nei loro gusci o scheletri, si deposita in masse più o meno compatte sul fondo del mare, formando sedimenti che ricoprono aree spesso di grande estensione. Lente trasformazioni 36 Sugli alabastri utilizzati in antico cfr. LAZZARINI – VILLA – VISONÀ 2006 37 ALAIMO – BONACASA – MINÀ 2000 38 BRUNO 2002 b, p. 286 39 STIFTER 1992 cancellano poi la struttura organica e danno alla roccia un aspetto compatto e uniforme. I calcari sono composti prevalentemente da calcite, le dolomie da dolomite, che è un minerale costituito da carbonato di calcio e magnesio. A seconda del rapporto dolomite-calcite si hanno le dolomie pure, le dolomie calcaree, i calcari dolomitici e i calcari puri. Quando calcari e dolomie sono compatti, privi di infiltrazioni terrose, costituiscono un eccellente materiale da costruzione con resistenza alla compressione fino a 1500 Kg/cm2. In Italia i calcari predominano in forme più o meno pure nelle Prealpi e in tutta la parte più alta dell’Appennino Centrale e Meridionale; le rocce si distinguono anche da lontano per il loro colore bianco-cinereo. I più pregiati sono alcuni calcari compatti cripto-cristallini, cioè a struttura cristallina finissima da non essere rilevabile a occhio nudo, come il botticino40, i calcari colorati di Verona, di Vicenza, del Carso, di diverse cave lombarde, i quali si prestano a un perfetto lavoro di scultura e lucidatura e che per questo vengono comunemente chiamati marmi. Calcari compatti a grana fine sono la pietra d’Istria41, usata a Venezia anche perché resistente alla salsedine, la pietra di Bellona42, estratta vicino Capua, di colore paglierino o grigio, la giallognola pietra di Trani43. Un pregevolissimo calcare cristallino africano è il giallo antico44 (marmor numidicum), che si presenta a volte con una tessitura massiva di colore uniforme dal giallo chiaro al giallo intenso, altrimenti di aspetto brecciato con tonalità di colore più variabili. Sfruttato dai re della Numidia a partire dal II sec. a.C., ebbe grande diffusione in epoca imperiale soprattutto come lussuoso rivestimento pavimentale e parietale associato ad altre pietre colorate. Il cipollino mandolato45 è un‘altra pietra calcarea molto apprezzata in epoca romana che veniva dal versante settentrionale dei Pirenei, caratterizzato da noduli carbonatici con diverse varietà cromatiche, impiegato principalmente per incrostazioni parietali e pavimentali, comune nelle città della Gallia, ma attestato anche a Roma (Villa Adriana, Teatro di Marcello, Villa di Settebasi). 40 ZUSI 2006 41 FIORENTIN 2006 42 PENTA 1937 43 SCIOTTI 1968 44 Sulle cave di Simitthus v. RAKOB 1993 45 ANTONELLI 1999; ANTONELLI et alii 2002 111 Il rosso ammonitico46 è un tipo di calcare mal stratificato, con tessitura nodulare, caratterizzato in genere dalla presenza di numerosi ammoniti fossili, e dal colore rosso o rosato. E’ diffuso in tutta la cintura montuosa sud-europea dalla Spagna alla Turchia; in Italia i giacimenti più importanti stanno nell’area di Verona (è il materiale utilizzato nella costruzione dell’Arena), ma è presente anche in Lombardia, in Toscana e in Sicilia. Nella stesso arco montuosa dell’Europa meridionale è diffusa anche la maiolica, roccia a grana finissima composta dai frammenti dei gusci calcarei di Nannoplancton, di colore bianco in varie sfumature, tra il marrone e il verdastro, e con noduli e liste di selce in varie tonalità, da rosato a grigio scuro. Un tipo particolare, esteticamente meno pregevole ma molto resistente e quindi largamente impiegato fin dall’antichità come pietra da costruzione, è il calcare nummulitico, carat- terizzato dalla presenza di numerosi e ben visibili gusci calcarei spiraliformi di nummuliti che sono organismi unicellulari di grandi dimensioni (fino a 10-12 cm di diametro); è molto diffuso nella regione mediterranea, sia sulla sponda africana che in quella europea. Il nummulites gizehensis, dalla località di Giza, è stato utilizzato nell’Antico Regno per la costruzione delle grandi piramidi. Vaste cave stanno anche a Cirene dove questo materiale appare utilizzato nella quasi totalità degli edifici di età greca. In Italia giacimenti di questo tipo di roccia si trovano in Veneto (chiampo di Vicenza), in Puglia e in Sicilia. Nell’edilizia antica si faceva largo impiego anche di calcari impuri, teneri, di colore giallastro, molto porosi – materiale genericamente chiamato poros in Grecia – spesso con una consistente componente argillosa (in questo caso definibili marne) o sabbiosa (calcari-arenacei). Con caratteristiche fisico-meccaniche simili a quelle dei tufi, erano facilmente lavorabili in forma di blocchi rettangolari o altri elementi architettonici. È con questo tipo di rocce, reperibili non lontano dai cantieri, che furono costruiti i grandi templi arcaici e di età classica in Sicilia, in Magna Grecia e nel Peloponneso47. Normalmente queste murature venivano intonacate per proteggere la pietra, piuttosto friabile, dall’erosione degli agenti atmosferici. Tra i calcari impuri, talvolta di tipo 46 FARINACCI – ELMI 1981 47 Sul poros della regione di Corinto cfr. HAYWARD 1999: sul tufo calcareo e la pietra leccese cfr. STELLA 1993 marnoso, si può annoverare anche l’huwwar, diffuso nel Vicino Oriente, il quale ha origine dalla dissoluzione delle rocce calcaree per azione delle brevi piogge invernali; con l’evaporazione dell’acqua il carbonato di calcio si deposita a formare letti di pietra calcarea molto tenera e frantumabile, da cui si ricavava una polvere che veniva impiegata nella composizione di malte e intonaci (cfr. p. 30). - Le marne sono rocce composte da una frazione argillosa e da una frazione a grana fine o finissima di calcite (carbonato di calcio) o di dolomite (carbonato di calcio e magnesio). La componente argillosa è originata da lenta decantazione di particelle d’argilla, quella carbonatica dalla precipitazione di sali o dalla deposizione di particelle organogene, derivate cioè da resti microscopici di organismi a scheletro o guscio calcareo. Si tratta quindi di una roccia sedimentaria di transizione tra quelle clastiche (per la presenza dell’argilla) e quelle organogene (per la presenza del calcare) la quale è detta anche calcare argilloso. Con il progressivo aumento della percentuale di carbonato di calcio la marna passa a marna calcarea e a calcare marnoso. Al contrario, con il progressivo aumento dell'argilla passa a marna argillosa e poi ad argilla marnosa. - L’asfalto48 è una roccia calcarea porosa impregnata di bitume49, il quale è una sostanza termoplastica e impermeabile all’acqua che ha origine dalla evaporazione di sottostanti accumuli di petrolio. Depositi di bitume più o meno puro possono trovarsi sotto forma di affioramenti, di vene, di sacche o di laghi. In Mesopotamia si producevano delle malte con proprietà impermeabili miscelando il bitume con inerti ricavati dalla frantumazione e dalla macinazione di rocce di asfalto (cfr. p. 31). - La selce50 è una roccia composta quasi esclusivamente di silice la quale può formarsi per accumulo di spoglie silicee di microrganismi vegetali (diatomee) o animali (radiolari), cementati da silice. Si forma altrimenti per segregazione e accumulo di silice, proveniente da rocce terrigene e rocce carbonatiche. La selce tende a concentrarsi in lenti estremamente compatte e inattaccabili dagli agenti atmosferici. Essendo molto dura, resistente 48 MARSCHNER –WRIGHT 1978 49 HAMMOND 1959 50 DI LERNIA – GALIBERTI 1993; SCHILD – SULGOSTOWSKA 1997 118 Capitolo III L’estrazione 1) La preistoria L’attività di estrazione della pietra ha inizio nel paleolitico ed è finalizzata alla manifattura di armi, utensili, oggetti di uso domestico. Molte pietre destinate a essere lavorate venivano semplicemente raccolte da terra. Ciottoli e massi di ogni dimensione, prodotti dall’erosione delle rocce, erano reperibili un po’ ovunque, soprattutto nei depositi alluvionali e nei letti dei torrenti. Il materiale veniva altrimenti ricavato incidendo la roccia. Già nel paleolitico inferiore si procede a raccogliere vari tipi di pietre di piccole dimensioni scavando nel terreno dei pozzetti, generalmente non più profondi di trenta centimetri. Nel mesolitico sia in Africa che in Europa noduli di selce erano estratti per mezzo di trincee profonde due metri e larghe da uno a due metri. Alcune brevi e larghe gallerie sotterranee sono attestate per la prima volta in Egitto circa 35000 anni fa. Ma è soprattutto nel neolitico, a partire dal V millennio a.C., che si sviluppa una evoluta attività mineraria, finalizzata in particolar modo al reperimento della selce, con lo scavo di complessi sistemi di gallerie sotterranee70. I minatori sfruttavano nel modo più conveniente la morfologia del terreno per arrivare alla roccia da estrarre. In taluni casi si avanzava dal fianco del rilievo montuoso aprendo camere e gallerie in piano, altre volte era invece necessario intervenire dall’alto scavando pozzi verticali fino a raggiungere il giacimento per poi eventualmente procedere tramite cunicoli e stanze in orizzontale. Un importante esempio della prima tecnica, detta a camere adiacenti, è la miniera della Defensola71 presso Vieste in Puglia, da cui si estraevano noduli di selce che erano immersi in un grande banco calcareo (fig. 167). In base alle datazioni radiometriche l’attività della cava risulta compresa tra il 5000 e il 4500 a.C. circa. Le numerose camere e gallerie, che si sviluppavano su due livelli sovrapposti, erano collegate all’esterno da più 70 VERMEERSCH – VAN PEER 1990; DI LERNIA – GALIBERTI 1993; FLINT MINING 1995 71 GALIBERTI - SIVILLI - TARANTINI 2001; GALIBERTI 2005 ingressi e disponevano di alcuni pozzetti verticali di collegamento. La planimetra molto irregolare è frutto di escavazioni successive, multidirezionali, in parte sovrapposte. L’altezza dei cunicoli era inferiore a un metro, per cui si lavorava molto scomodamente stando carponi. Solamente nelle stanze più esterne, adibite ad attività di scheggiatura della selce, era possibile la posizione eretta. Le pareti dei cunicoli vennero foderate in più punti da muretti di contenimento a secco realizzati con pietre calcaree di scarto. Pilastri risparmiati nella roccia sostenevano i soffitti delle camere. Un esempio del secondo sistema, detto a pozzo, è il complesso di Grimes Graves72 in Inghilterra, dove un largo e profondo condotto verticale venne scavato nel banco calcareo per raggiungere il giacimento di selce dello strato inferiore (fig. 168). Lo scavo venne allargato sul fondo creando una camera dal profilo a campana. Da qui si procedette orizzontalmente in varie direzioni, realizzando intorno alla camera centrale una complessa rete di gallerie. Le miniere erano scavate con picconi di pietra dura, generalmente di selce, che venivano scheggiati in forme appuntite e taglienti e poi immanicati a dei bastoni. Si usavano anche mazzuoli e cunei sia di pietra che di legno. I cunei venivano infilati nelle fratture della pietra e percossi in modo da spaccare il banco roccioso. Quelli lignei venivano anche imbevuti d’acqua per farli gonfiare e facilitare la rottura del banco. I noduli di selce venivano estratti con l’ausilio dei cunei; se stavano in alto si scavava la parte calcarea sottostante fino a causare il crollo della roccia posta a contatto con la selce (fig. 170). L’illuminazione dei cunicoli era garantita da lucerne ricavate da blocchi di pietra. Il trasporto del materiale avveniva tramite contenitori di ceramica o pelle. Nel neolitico una rudimentale attività estrattiva connessa all’edilizia si rivolge ad affioramenti di rocce attraversate da profonde fratture le quali vengono facilmente scalzate per mezzo di utensili sia di legno che di pietra (leve, mazze, cunei) (fig. 169). Un altro procedimento consisteva nell’ac- cendere dei fuochi sulla superficie della roccia da tagliare; poi si bagnava con l’acqua in modo da provocare movimenti di espansione e contrazione che generavano delle fratture. Da questo tipo di giacimenti superficiali venivano prelevati anche 72 LONGWORTH – VARNDELL 1996 119 Fig. 167 - Pianta della miniera della Defensola, presso Vieste in Puglia. Prima metà del V millennio a.C. (GALIBERTI – SIVILLI – TARANTINI 2001) Fig. 168 - Pianta della miniera di Grimes Graves, presso Brandon nel Suffolk. III millennio a.C. (FORBES 1955-64) Fig. 169 - Preseli Hills nel Galles occidentale. Giacimento di rocce fratturate e massi erratici ◄ Fig. 170 - Procedimento di estrazione dei noduli di selce (F. Di Mattia, Scuola Nazionale di Speleologia – CAI) 120 i grandi monoliti utilizzati per costruzioni di tipo trilitico (dolmen) o come monumenti isolati (menhir)73. In molti casi, particolarmente nei territori montuosi, i blocchi di roccia venivano cavati a una quota più alta rispetto al luogo in cui era impiantata la costruzione e poi fatti scendere lungo i versanti rotolandoli o trascinandoli con l’ausilio di rulli lignei. Ad esempio sulle serre vibonesi in Calabria, nel territorio di Nardodipace, sono stati recentemente individuati i resti di cinque strutture neolitiche assimilabili a dolmen, costituite da grandi pietre che provengono in modo molto evidente da un giacimento situato nella parte alta della montagna con affioramenti di rocce di tipo granitico profondamente fratturate, dove si notano diversi pinnacoli rocciosi di 3-4 m di altezza rappresentanti il residuo non cavato delle attività di estrazione. Massi squadrati regolarmente allineati lungo il pendio incanalavano all’interno di una pista di scivolamento i rulli e il materiale trasportato74. I massi potevano essere ridotti alla forma voluta facendo ricorso agli stessi procedimenti che erano adottati per la manifattura di utensili, statuette, vasi e altri oggetti in pietra. Materiali più duri come l’ossidiana e la selce permettevano di incidere, scheggiare, sfaldare la superficie della roccia; con sostanze abrasive come la sabbia e la pomice si smussavano le superfici. In molti casi ci si limitava invece a una sommaria spianatura eliminando le escrescenze a colpi di mazzuolo. 2) Le cave egiziane Nella Mesopotamia meridionale nel IV millen- nio è attestata un’attività estrattiva di pietra calcarea destinata alle fondazioni e in qualche caso anche all’elevato di alcuni edifici di Uruk ed Eridu. Sarà però soprattutto in Egitto che si avvierà uno sfruttamento sistematico delle cave grazie al ruolo determinante tenuto dalla pietra da costruzione nell’architettura monumentale del paese75. Lastre di pietra calcarea cominciano a comparire in alcune tombe della prima dinastia, ma è in particolar modo sotto Djoser, nel 2650-2600 a.C. circa, con la costruzione del complesso funerario di Saqqara, che i blocchi di pietra squadrati cominciano a essere utilizzati in grandissimi quantitativi. Estesi 73 KOPPER – ROSSELLÓ BORDOY 1974 74 GUERRICCHIO et alii 2002 75 Sulle cave egiziane cfr. KLEMM – KLEMM 2008; GOYON et alii 2004 pp. 141-174 giacimenti di pietra calcarea affioravano ovunque nella valle del Nilo, anche vicino i luoghi di costruzione delle piramidi. L’attività di cava avveniva prevalentemente a cielo aperto, spesso in aree pianeggianti; i blocchi venivano isolati praticando dall’alto una griglia ortogonale di strette trincee per mezzo di picconi in pietra e scalpelli di rame percossi dal martello (figg. 171, 172); si provvedeva poi a staccarli dal banco sottostante praticando alla base delle incisioni profonde con il piccone ed impiegando eventualmente cunei e leve per effettuare lo strappo (fig. 181 a p. 126). I cunei di legno, che nell’Antico Regno erano forse utilizzati per le rocce più dure in quanto non hanno lasciato tracce nelle cave di calcare e di arenaria, venivano inseriti in appositi alloggiamenti di forma trapezoidale scolpiti in corrispondenza del margine inferiore del blocco da estrarre; venivano poi imbevuti d’acqua in modo che gonfiandosi provocavano la rottura della roccia. In alcuni casi si cercava di far corrispondere i tagli orizzontali con le fessurazioni naturali della roccia. Nel Nuovo Regno furono introdotti i cunei in bronzo i quali, una volta infilati nelle apposite cavità, venivano battuti dall’esterno con il martello. Quando si scendeva in profondità oppure si operava sul fianco della collina, il fronte di cava assumeva per comodità una conformazione a gradoni. A ogni livello si procedeva dall’esterno verso l’interno in modo da poter aggredire i filoni di roccia ancora intatti contemporaneamente dall’alto e di fronte. La rifinitura avveniva in cantiere prima della messa in opera, ma già in cava era necessario lavorare con una certa precisione, attuando tagli rettilinei e ortogonali. Le pietre che erano assegnate Fig. 171 - Cava di pietra calcarea a Giza 123 ripetuto, per cui venivano gettati via e sostituiti. Le lastre di granito nell’Antico Regno, impiegate già nei monumenti funerari delle prima dinastia, venivano cavate da affioramenti superficiali dove le rocce avevano una forma particolarmente frastagliata che agevolava il taglio. Durante il Nuovo Regno vengono invece sfruttati giacimenti compatti scavando in profondità lunghe e regolari trincee per estrarre enormi blocchi destinati a sculture e persino obelischi lunghi 30-40 m. Caratteristiche tracce arrotondate dei pezzi di diorite utilizzati dagli operai per questo gravosissimo lavoro sono tutt’ora visibili ad Assuan, sul fondo della trincea scavata intorno al monolite di un obelisco di cui non è stata completata l’estrazione a causa di fessurazioni che sono apparse in corso d’opera e che lo rendevano inutilizzabile (fig. 177). L’aspetto più oneroso legato all’attività di estrazione era il trasporto dei materiali dalla cava al cantiere. Le rocce più pregiate il più delle volte non erano disponibili vicino il luogo della costruzione e dovevano affrontare lunghi viaggi. Le distanze maggiori erano coperte dalla navigazione fluviale. Sulla terraferma i blocchi venivano movimentati lungo piste appositamente predisposte su rulli di legno e letti di sabbia, aiutandosi con funi e argani, ma anche caricandoli su slitte o carri trainati dai buoi. Un’intensa attività estrattiva è attestata nell’età del bronzo anche a Creta e in Anatolia, regioni dove si fa largo uso della pietra da costruzione76. A Creta sono visibili numerosi fronti di cava a gradoni aperti sui fianchi delle alture lungo la linea di costa che profittavano della vicinanza del mare per il trasporto dei materiali77 (fig. 178). Nelle cave si estraevano blocchi di eolianite, gesso e calcare poroso destinati soprattutto all’architettura monumentale. Distese di pietre erratiche e affioramenti di rocce fratturate che potevano essere asportate con facilità fornivano per il resto, anche nell’entroterra, abbondantissimo materiale per l’edilizia domestica. Negli edifici monumentali ittiti e neo-ittiti dell’Anatolia78 si fa uso di dure rocce magmatiche come il basalto e il porfido; questi materiali potevano essere agevolmente cavati da vari giacimenti superficiali con le rocce spaccate da profonde fenditure 76 WAELKENS 1992 77 SHAW 1973, pp. 30-43; BECKER 1976; PAPAGEOR- GAKIS et alii 1992; DWORAKOWSKA 1992 78 WAELKENS 1990 c Fig. 178 - Malamoures (Creta). Fronti di cave di età minoica per l’estrazione dell’eolianite. Pianta e sezioni trasversali (PAPAGEORGAKIS et alii 1992) verticali in formazioni di tipo colonnare (Zincirli, Tilmen Hüyük). Sono state individuate in ogni caso anche alcune cave a cielo aperto con tracce di canali scavati intorno alle pietre da liberare. Le cave micenee sono meno conosciute e studiate; ma è evidente che anche in tale contesto dovette svilupparsi una evoluta attività estrattiva in quanto l’architettura micenea impiega grandi blocchi di pietra, di cui molti sono in forma di parallelepipedi più o meno regolari, i quali venivano tagliati anche per mezzo di seghe, come testimoniato dalle tracce sui blocchi architettonici dell’Acropoli superiore di Tirinto, databili al XIII sec. a.C.79 I materiali più utilizzati erano rocce calcaree locali più o meno compatte, ma sono attestati anche il porfido e il marmo rosso antico. 3) Le cave greche e romane Nel mondo greco e italico in età arcaica, e anche più tardi in molte aree, l’esordio dell’architettura in pietra è contrassegnato nella maggior parte dei casi dalla apertura di cave temporanee o di comodo, le quali venivano sfruttate solamente per ricavare i 79 DWORAKOWSKA 1975, p. 82, 100, 112; SCHWANDNER 1991 124 materiali destinati a uno o più edifici da costruire nelle adiacenze ed erano poi abbandonate. La maggior parte dei templi arcaici del Peloponneso e delle colonie greche d’Occidente erano realizzati con un calcare poroso di scarso pregio, facilmente lavorabile, che era diffuso un po’ dappertutto. Per ridurre al minimo gli oneri del trasporto i costruttori andavano alla ricerca del giacimento più vicino al cantiere e si limitavano ad estrarre la quantità che serviva. Sui rilievi montuosi cinte fortificate e terrazzamenti venivano realizzati cavando le pietre subito a fianco oppure da formazioni rocciose situate più in alto, da dove venivano poi fatte scendere su scivoli o semplicemente rotolandole. Il recinto fortificato del Circeo circonda un pianoro rimasto inedificato fino ai nostri giorni, dove è possibile avere un quadro completo dell’attività di estrazione connessa alla costruzione delle mura in opera poligonale80 (fig. 179). I blocchi di pietra calcarea vennero estratti all’interno della recinzione con criteri difformi; in due punti diversi situati a breve distanza dalla mura furono scavate grandi Fig. 179 - Pianta della c.d. Acropoli del Circeo. Sono indicate le principali cave di comodo (QUILICI – QUILICI GIGLI 2005, rielab. dell’autore) 80 CALZECCHI ONESTI – TAMBURINI 1981-82; QUILICI – QUILICI GIGLI 2005. Questi ultimi autori identificano le mura con il recinto di un santuario, privo di costruzioni al suo interno, e le datano tra il II e il I sec. a.C. Fig. 180 – Sopra: Alba Fucens. Pianta delle cave situate all’interno e all’esterno del settore meridionale dell’abitato. Sotto: Sezione trasversale della punta meridionale dell’altura. Sono indicati il profilo orografico originario (in grigio), i tagli dovuti all’attività di estrazione (a tratteggio), i resti delle mura in opera poligonale (in nero grassetto) (PICCARRETA 1990) trincee ad andamento irregolare larghe da 4 a 8 m e profonde fino a 5 m, ma al tempo stesso numerosi tagli superficiali, dove ancora si riconoscono gli incassi per l’inserimento dei cunei, furono praticati un po’ ovunque lungo il circuito murario. Evidentemente le cave in trincea erano servite a fornire materiale ulteriore il quale suppliva alla insufficienza dei giacimenti che affioravano lungo il perimetro. Altrove, come è stato ben documentato ad Alba Fucens81, le cave da cui veniva estratto il materiale destinato alla cinta fortificata erano invece situate al di sotto (fig. 180). Ciò comportava un maggiore onere per lo spostamento dei materiali che 81 PICCARRETA 1990 125 andavano sollevati verso l’alto, ma procurava d’altra parte il vantaggio di ricavare sotto la linea delle mura delle alte pareti artificiali di roccia che potenziavano le difese della città. Le cave ritagliate lungo il perimetro esterno di Alba Fucens realizzano con molta efficacia questo risultato, per cui è evidente che si tratta di un sistema ben pianificato in fase di progettazione della colonia. Attività di estrazione vennero condotte anche all’interno del circuito murario e costituirono l’occasione per ricavare spazi fruibili dalla cittadinanza, scavando gli invasi destinati a ospitare il teatro e l’anfiteatro e livellando aree su cui impiantare edifici pubblici o santuari, come è il caso molto probabilmente del vasto piazzale che circonda il tempio sul colle Pettorino. I giacimenti delle rocce più dure e pregiate diventano invece oggetto di sfruttamento intensivo e sistematico. In età ellenistica e soprattutto durante l’Impero romano i materiali estratti dalle cave sono sempre più ingenti, intere porzioni di montagne vengono spianate, intorno ai marmi colorati si sviluppa un gigantesco traffico commerciale; da un capo all’altro del Mediterraneo si moltiplicano le rotte delle naves lapidariae con i loro pesanti carichi. Le numerose cave aperte nelle montagne avevano un impatto ambientale non indifferente che finì per suscitare la protesta di Plinio: “Noi invece tagliamo a pezzi e trasciniamo via, senza nessun altro scopo che i nostri piaceri, montagne che un tempo fu oggetto di meraviglia valicare [riferendosi alla spedizione di Annibale] [...] ora questi stessi monti vengono fatti a pezzi per ricavarne marmi delle specie più varie. I promontori vengono spaccati per lasciare passare il mare e la natura è ridotta a un piano livellato. Svelliamo ciò che era stato posto a far da confine fra popoli diversi, si fabbricano navi per caricarvi i marmi, e le vette montane sono portate a destra e sinistra sui flutti ...”82. Le strategie d’intervento nelle cave restano per grandi linee le stesse già adottate dagli Egiziani83. La maggior parte delle coltivazioni sono a cielo aperto articolandosi a gradoni, talvolta con grandi dislivelli (50 m e oltre come a Docimium in Frigia) 82 PLIN. NH XXXVI, I 83 Sulle cave greche e romane vedi DWORAKOWSKA 1975; DWORAKOWSKA 1983; VANHOVE 1987; KOSLEJ 1988; WAELKENS 1990 b; WAELKENS – DE PAEPE – MOENS 1990; BRUNO 2002 a; KOKKOROU ALEVRAS – POUPAKI – CHATZICONSTANTINOU 2009 da cui risulteranno, alla fine dello sfruttamento di ogni settore, alte pareti verticali traversate da un’infinita sequenza di solchi e riseghe corrispondenti ai profili dei blocchi asportati. Diverse cave si sviluppavano anche in galleria, come a Belevi vicino Efeso, a Siracusa, a Paros dove le cave delle Ninfe nella valle di Marathi penetravano nel sottosuolo per circa 150 metri e con pendenze di 30-45 gradi84. L’estrazione dei blocchi avveniva secondo il sistema tradizionale; si intagliavano con il piccone delle trincee ai lati del pezzo da asportare e si effettuava poi lo strappo inserendo cunei di legno o di metallo in corrispondenza del margine inferiore – ma anche verticalmente se si interveniva di fronte – e aiutandosi con delle leve (fig. 181). In epoca romana si diffonde anche l’uso della sega a pendolo85, sostenuta da due montanti laterali, che fendeva la roccia con movimento oscillatorio; la lama non era dentata perchè il taglio si eseguiva con la sabbia, come spiegato da Plinio: “una sega comprime la sabbia all’interno di una linea molto sottile e la induce a tagliare il marmo semplicemente attraverso il suo movimento avanti-indietro”86. Le seghe erano utilizzate nei cantieri, nelle botteghe dei marmorarii – come mostrato da un rilievo ostiense – ma anche nelle cave, in alcune delle quali sono rimaste le tracce dei tagli praticati da questo strumento. Si è stimato che la sega a pendolo utilizzata a Docimium, dove sono visibili tagli lunghi 5,8 m che servirono a staccare lastre di marmo di 20-30 cm di spessore, doveva raggiungere in proporzione almeno otto metri di lunghezza per consentire l’oscillazione orizzontale della lama; essa veniva azionata da due operai posti alle estremità mentre altri erano preposti a versare acqua e sabbia fra la lama e la roccia. La produzione delle grandi cave tende a essere sempre più standardizzata; si fabbricano in serie elementi architettonici come basi e capitelli che venivano semilavorati con le stesse modalità e destinati a essere rifiniti nei cantieri. Diametri ed enthasis dei fusti di colonna erano definiti in cava; in alcuni casi due oppure quattro fusti venivano abbozzati in un unico blocco di marmo da tagliare in cantiere (fig. 182). Se dopo l’estrazione i fusti rivelavano fratture o altri difetti che ne rendevano 84 KORRES 1995, pp. 120-121. 85 RÖDER 1971, pp. 303-311, fig. 47; BRUNO 2002a, pp. 188- 191 86 PLIN. NH XXXVI, 51 128 con tre giorni di viaggio90. Vitruvio descrive le ingegnose macchine inventate nel VI sec. a.C. da Tesifonte e da suo figlio Metagene per trasportare sulle strade, trainati dai buoi, i colossali blocchi architettonici destinati all’Artemision di Efeso (fig. 185). Le colonne ruotavano direttamente sul selciato inserite dentro un telaio composto da quattro travicelli di legno disposti in orizzontale a cui erano agganciate le catene tirate dagli animali. Per spostare le cornici Metagene “fece delle ruote di circa dodici piedi e in mezzo ad esse incassò le teste delle cornici, sistemate pure con perni ed anelli. Così mentre i buoi tiravano il telaio, col girare dei perni dentro gli anelli, giravano anche le ruote: le cornici, ficcate nelle ruote come assi, arrivarono senza intoppi al cantiere nella stessa maniera dei fusti”91. Nel VI e nel V secolo a.C. un sistema analogo era stato adottato per i tamburi delle colonne estratte a Cusa presso Selinunte, di cui sono rimasti in cava vari esemplari in diversi stadi di lavorazione; fra questi alcuni presentano degli incassi per dei perni a cui erano fissate le catene92. Le lunghe distanze erano coperte dalle naves lapidariae alcune delle quali, destinate al trasporto di obelischi o di colossali colonne monolitiche, erano di dimensioni eccezionali. I blocchi venivano issati sulle navi utilizzando delle gru collocate lungo i moli e alloggiate dentro incassi circolari o quadrati tagliati nella roccia che in alcuni casi sono ancora visibili. Fig. 186 - Torre delle mura di Gerico (VIII millennio a.C.). Sezione trasversale. 90 IG II2, 1673, l. 51-67 91 VITR. X, 6 92 ADAM 1977 Capitolo IV Murature in pietrame Durante il neolitico, come si è visto nella prima parte del volume, la pietra da costruzione ha avuto un ruolo marginale nell’edilizia domestica, utilizzata solo in alcune aree geografiche e limitatamente alla realizzazione di modesti muretti di terrazzamento, zoccoli su cui erano impostate le pareti in materiali leggeri e poche altre applicazioni (cfr. p. 21). Gli elevati della stragrande maggioranza delle abitazioni umane erano realizzati in legno e terra. Ciò non toglie che in alcuni contesti è attestata fin da tempi antichissimi anche l’esistenza di strutture d’alzato interamente in pietrame, e che in molti altri casi, pur in assenza di prove sicure, tali soluzioni costruttive non sono totalmente da escludere. L’edilizia siro- palestinese di età neolitica ad esempio, dove il pietrame è largamente utilizzato negli zoccoli, offre al proposito un quadro piuttosto incerto. In alcuni casi sono stati messi in luce resti di murature lapidee, conservati anche fino a un metro di altezza, non facilmente interpretabili, per cui non è chiaro se si tratta di alti basamenti che sorreggevano una struttura in materiali diversi oppure della parte inferiore di pareti interamente in pietra93. 1) Muri difensivi e di terrazzamento di età neolitica Gli scavi di Gerico hanno in compenso restituito il più antico esempio di fortificazione urbana in pietra, datata all’VIII millennio a.C.94. I resti messi in luce comprendono un muro libero, spesso circa 2 m e preservato per un’altezza di oltre 3,50 m, che si erge alle spalle di un fossato e si lega dalla parte interna a un torrione circolare, con diametro di circa 10 m, alto ancora oggi poco più di 9 m (figg. 186, 187). Un’apertura alta 1,70 m che si apre sul lato interno della torre immette in una scala che portava sulla sommità dell’edificio, di cui si conservano ventidue gradini, ciascuno dei quali composto da un unico blocco. La massa della torre è interamente in pietra; è costituita da blocchi informi di modeste dimensioni, facilmente manovrabili, alcuni forse sottoposti a una sommaria sbozzatura durante la messa in opera, con abbondante terra negli interstizi, 93 AURENCHE 1981, pp. 33-34. 94 KENION 1956, p. 188; KENYON 1957, pp.65-70, tavv. 24- 30 217 Capitolo VIII Il cantiere 1) Il progetto e il tracciamento L’Egitto ci ha restituito una grande quantità di documenti grafici su ostraka, papiri e tavolette relativi a progetti di edifici, i quali venivano conservati negli archivi. Rappresentano tombe, case, palazzi, giardini. Sono disegni bidimensionali in cui gli edifici sono rappresentati sia in pianta che in prospetto. Le pareti viste in prospetto sono spesso disegnate direttamente a fianco del tratto corrispondente riportato in pianta, come fossero fogli trasparenti sovrapposti. Gli alberi dei giardini posizionati in pianta sono raffigurati sempre di fronte in modo da poter distinguere le varie essenze (fig. 373). Alcuni di questi grafici sono stati identificati con monumenti ancora esistenti, come ad esempio le tombe ipogee di Ramesse IV e di Ramesse IX nella Valle dei Re. Gli elementi essenziali sono tutti rappresentati, ma nelle proporzioni tra l’uno e l’altro e nei dettagli ci sono molte divergenze, per cui si tratta più probabilmente di disegni preparatori che venivano mostrati al committente, piuttosto che di progetti esecutivi. La stessa funzione dimostrativa doveva essere presumibilmente riservata anche ai plastici. Tra i tanti modelli di edifici che provengono dall’antichità non sempre è facile stabilire se si tratti di oggetti votivi o funerari oppure di vere e proprie rappresentazioni eseguite dagli architetti. A quest’ultima categoria potrebbe forse appartenere un modello che raffigurava l’entrata del tempio di Heliopolis, datato al regno di Sethi I (XIX dinastia) (1289-1279 a.C.), di cui è rimasto solo lo zoccolo in quarzite dove sono intagliati la scalinata di accesso e gli incassi di una serie di elementi architettonici (sfingi, obelischi, pilone) che sono andati perduti278 (fig. 374). L’utilizzo dei plastici, in epoche successive, è menzionato da fonti sia greche che latine279. 278 CLARKE – ENGELBACH 1930, pp. 59-60; GOYON et alii 2004, p. 89, fig. 58 279 La fonte più esplicita al riguardo è un’iscrizione della fine del II sec. a.C. proveniente da Kyme in Eolide in onore di Archippe, una ricca dama della città che finanziò il rifacimento del tetto del bouleterion in cui si parla al proposito di un concorso di architetti con i loro modelli (Supplementum Fig. 373 - Pianta di un palazzo egiziano con giardino, dalla tomba di Merire a Tell el-Amarna (XVIII dinastia) (PERROT – CHIPIEZ 1882) Fig. 374 - A sinistra: Zoccolo in quarzite, datato al regno di Sethi I (XIX dinastia), raffigurante l’entrata del tempio di Heliopolis. Brooklyn Museum. A destra: Ricostruzione delle parti mancanti del modello (GOYON et alii 2004) Epigraphicum Graecum XXXIII 1983, n. 1040 = HELLMANN 1999, n. 26). 218 Fig. 375 - Pianta del modello dell’adyton del tempio A di Niha, in Libano (WILL 1985) Occorre d’altra parte considerare che gli architetti greci partecipavano a bandi di concorso con procedure non dissimili da quelle del mondo moderno280, presentando i propri progetti davanti agli organi deliberativi della polis e disputando tra loro. Il progetto migliore veniva approvato a maggioranza, mentre per quelli respinti era prevista la possibilità di ricorrere in tribunale. In tale contesto il modello in scala (paradeigma) costituiva sicuramente il veicolo più efficace per illustrare la propria idea. Tra i pochissimi oggetti di questo tipo giunti fino a noi va annoverato innanzitutto un modello in pietra calcarea del II sec. d.C. che è stato scoperto ai piedi del tempio A di Niha281, un santuario rurale del Libano, il quale rappresenta in scala 1/24 solamente la parte posteriore di questo edificio con una scalinata che sale a una piattaforma divisa in tre navate da colonnati; in quella centrale si trova un’edicola per la statua di culto (fig. 375). In una delle navate laterali è presente un’iscrizione in greco che lo definisce “progetto dell’adyton” (προκέντηµα ἀδύτου). I resti del tempio presentano alcune soluzioni differenti rispetto a quanto è visibile nel modello; non è da escludere in questo caso che si tratti di un progetto eseguito in corso d’opera per proporre delle varianti alla sola parte posteriore dell’edificio, il quale però non ha avuto 280 WITTENBURG 1978 281 WILL 1985 Fig. 376 - Ostia Antica. Museo. Modello marmoreo di un tempio. Pianta e sezioni (CAPRINO 1998) Fig. 377 - Tivoli. Villa Adriana. Plastico marmoreo di uno stadio. Pianta e sezione longitudinale (CAPRINO 1998) corso oppure è stato a sua volta nuovamente modificato. Al museo di Ostia si conserva poi un modello in marmo, anche questo in scala 1/24 se teniamo conto della misura della pedata degli scalini (quelli reali dovevano essere profondi un piede e mezzo), il quale rappresenta il basamento di un tempio tetrastilo pseudoperiptero con la scalinata frontale, le basi delle colonne e lo zoccolo del muro perimetrale della cella; la parte superiore doveva essere in materiali deperibili, legno o cera, collegati con dei perni di cui sono rimasti i fori nelle basi delle colonne282 (fig. 376). Da Villa Adriana proviene infine il modello marmoreo in scala 1/48 di uno stadio, edificio che molto probabilmente doveva essere costruito sul posto, con la cavea composta da 282 Potrebbe però anche trattarsi di un dono votivo. Le immagini del modello sono pubblicate in HASELBERGER 1997 e in CAPRINO 1998 221 La groma era uno strumento utilizzato per tracciare sul terreno allineamenti fra loro ortogonali; è rappresentata su alcune stele funerarie romane e ne è stato trovato un esemplare in una bottega di via dell’Abbondanza a Pompei288. Era costituita da un’asta verticale che si conficcava a terra, dotata in alto di un braccio mobile su cui era montata una croce formata da quattro bracci perpendicolari; alle estremità di questi erano appesi dei fili a piombo con i quali si effettuavano i traguardi (fig. 381). Lunghe pertiche di legno o di metallo, fissate su cavalletti, consentivano di effettuare dei traguardi orizzontali, anche a lunga distanza, per operazioni di livellazione. Vitruvio ci ha lasciato la descrizione del corobate289, costituito da un’asta lunga venti piedi montata su un traliccio che poteva essere posizionata in orizzontale calando lateralmente dei fili a piombo, i quali dovevano incrociare delle tacche che segnavano la perpendicolare (fig. 382). Per garantire una migliore precisione, sulla faccia superiore era ricavata una livella ad acqua; lo strumento era dotato molto probabilmente di piedi telescopici che ne facilitavano il posizionamento su terreni in pendio. Apparecchiature di questo genere dovevano essere utilizzate in Egitto già nell’Antico Regno. Su un muro del complesso della piramide di Neuserre ad Abusir, della V dinastia, sono state individuate delle linee orizzontali di livellamento, a distanza di un cubito l’una dall’altra, spesso accompagnate da un triangolo puntato verso il basso; le linee, che erano tracciate sui blocchi di calcare del nucleo, servivano a fissare la posizione delle lastre di granito del rivestimento290 (fig. 383). Altri strumenti erano utilizzati nei cantieri per prendere misure e angoli su distanze più corte, in particolare per posizionare e tagliare i singoli blocchi di pietra: squadre, compassi, righe graduate, fili a piombo (fig. 384). L’archipendolo, di cui restano diverse raffigurazioni su rilievi funerari di epoca romana, era una grossa squadra di legno formata da due bracci simmetrici incollati ad angolo retto e collegati da una traversina, con un filo a piombo fissato al vertice; le estremità libere dei due bracci erano tagliate a 45 gradi in modo da poter appoggiare lo strumento su un piano per verificarne l’orizzontalità: l’archipendolo si trovava a livello quando il filo a piombo incrociava una tacca posta al centro della traversina. 288 DELLA CORTE 1922 289 VITR. VIII, 6, 1-3. 290 GOYON et alii 2004, p. 93, fig. 63. Fig. 382 - Ricostruzione del corobate (FRAU 1987) Fig. 383 - Abu Sir. Piramide di Neuserre (V dinastia). Linee di livellamento tracciate in rosso sulle assise dell’angolo SE del nucleo (GOYON et alii 2004) Fig. 384 - Roma. Musei Capitolini. Rilievo dalla tomba di un liberto della gens Aebutia raffigurante un archipendolo, un filo a piombo, una squadra a bracci articolati, una squadra a L e un righello (ADAM 1989) 222 2) Il trasporto e il posizionamento dei blocchi lapidei I grandi blocchi lapidei giungevano ai cantieri direttamente dalle cave se queste erano vicine oppure da un porto. Il trasporto si effettuava solitamente su carri o slitte trainati dai buoi (cfr. p. 126). In Egitto sono state individuate alcune piste che andavano in direzione dei cantieri, lastricate con pietrame per conferire una consistenza uniforme al suolo; talvolta erano bordate da muretti sommari che proteggevano dalla sabbia del deserto evitando un rapido ricoprimento; in altri casi vi erano collocate intorno delle file di pietre che servivano a visualizzare il sentiero. Si cercava di eliminare per quanto era possibile i dislivelli lungo il percorso; si colmavano gli avvallamenti e si effettuavano tagli nelle creste montuose291. I blocchi venivano poi trascinati sopra delle rampe artificiali realizzate intorno all’edificio in costruzione per essere posizionati al livello voluto. Si conservano resti di queste strutture, talvolta solo una semplice traccia a terra, intorno ad alcune piramidi egiziane. Il primo esempio noto è la rampa della piramide incompiuta di Sekhemkhet a Saqqara, (2660-2655 a.C.), perpendicolare al lato ovest dell’edificio, in pendio dolce e costituita da una massa di ciottoli presi sul posto292. La piramide, come le altre costruzioni della III dinastia, era composta da pietre di piccole dimensioni facilmente trasportabili e manovrabili. A partire dalla IV dinastia, quando vengono introdotti i grandi blocchi, le rampe sono realizzate in funzione di un carico assai più pesante. I resti conservati fanno pensare a strutture costruite in maniera molto accurata con mattoni crudi, pietrame o una miscela di entrambi i materiali. Erano spesso bordate da parapetti in mattoni crudi e coperte da un rivestimento di limo che facilitava lo scivolamento dei blocchi. La larghezza variava dai tre ai sei metri, la pendenza era fra il 17 e il 30% (21-25% nelle rampe intorno le piramidi solitamente ortogonali all’edificio). Queste strutture venivano gradualmente sopraelevate con il procedere della costruzione; contemporaneamente venivano allungate alla base per mantenere la stessa inclinazione. Intorno alla piramide di Sesostri I a Lisht, della XII dinastia (circa 1950-1920 a.C.), restano le 291 SHAW I.M.E. 1986 292 ARNOLD 1991, p. 80, n. 83, p. 81, n. 84, fig. 3.29 Fig. 385 - Ricostruzione del cantiere della piramide di Sesostri I a Lisht (XII dinastia) (GOYON et alii 2004) Fig. 386 - Rampa in mattoni crudi sul lato interno del muro di cinta del del tempio di Nekhbet a el-Kab (XXX dinastia) tracce delle strade provenienti da quattro diverse direzioni su cui erano trasportati i materiali per il cantiere le quali erano prolungate da rampe ascendenti, ortogonali all’edificio in costruzione (fig. 385). Si sono conservati alcuni resti di tre di queste; il nucleo era costituito da un riempimento di mattoni e limo contenuto da muri laterali in mattoni crudi. La loro disposizione fa ritenere che ciascuna di esse alimentasse una zona triangolare cor- rispondente a una delle quattro facce dell’edificio. Si è interamente conservata una rampa di epoca assai più recente, costituita da mattoni crudi ad assise inclinate la quale si addossa al muro di cinta, anch’esso in mattoni crudi, del tempio di Nekhbet a el-Kab, della XXX dinastia (prima metà del IV sec. a.C.) con un percorso ascendente ad esso parallelo (fig. 386). In questo caso è legata a una costruzione in materiali leggeri; si è ipotizzato che essa servisse a trascinare i blocchi lapidei del coronamento di un grande portale il quale avrebbe occupato una breccia visibile alla sua sinistra293. Le rampe in molti casi non si collegavano direttamente alla cresta del muro in costruzione ma salivano a una voluminosa struttura provvisoria in 293 GOYON et alii 2004, p. 209, fig. 226. 223 Fig. 387 - Scena dalla tomba di Rekhmire a Tebe (XVIII dinastia) raffigurante una rampa in mattoni crudi utilizzata per la costruzione di un edificio (NEWBERRY 1900) Fig. 388 - Sezione del primo pilone di Karnak (XXX dinastia) e dei resti dei ponteggi in mattoni crudi che si erano conservati a fianco (GOYON et alii 2004) Fig. 389 - Ricostruzione di uno dei ponteggi del pilone di Karnak (GOYON et alii 2004) mattoni crudi, montata a fianco del muro, che fungeva da ponteggio e veniva progressivamente sopraelevata. Una rampa legata a una struttura di questo tipo è rappresentata in una scena della tomba di Rekhmire a Tebe, della XVIII dinastia (1479- 1426 a.C.) (fig. 387). Il solo esempio rimasto in situ si trova a fianco del I pilone di Karnak, in costruzione sotto il regno di Nectanebo I, alla fine del IV sec. a.C.; il cantiere rimase incompiuto lasciando sul posto queste opere provvisorie (figg. 388, 389). La base del ponteggio, costituito da una massa di mattoni crudi disposti su assise orizzontali presenta uno spessore di circa 13 m, pari quasi a quello del pilone; all’esterno la struttura mostrava un accentuato profilo a scarpa, il lato interno era invece verticale. Tra questo e la fronte inclinata del pilone restava una trincea che veniva riempita con scarti di lavorazione; i blocchi di mattoni aggiunti al di sopra si avvicinavano progressivamente al pilone con delle riseghe che coprivano il riempimento della trincea. Per i lavori leggeri di completamento (into- nacatura, decorazioni in rilievo e dipinte) si utilizzavano impalcature in legno o scale a pioli, le quali sono rappresentate nelle pitture egizie (fig. 390). In età arcaica nei cantieri greci vengono introdotte le macchine di sollevamento. Nei blocchi architettonici degli ultimi decenni del VI sec. a.C. si cominciano infatti a trovare le caratteristiche cavità e protuberanze a cui si agganciavano le funi dell’imbracatura. Ad Atene presso l’angolo sud-est del Partenone sono visibili gli incassi, tagliati nella roccia, delle gru che furono utilizzate nel V secolo per sollevare i blocchi di pietra fino alla sommità del tempio294 (fig. 391). Le ricostruzioni di queste macchine (machinae elevatoriae et tractoriae) si avvalgono delle descrizioni delle fonti letterarie – soprattutto il Barulkos di Erone di Alessandria e il X libro del De Architectura di Vitruvio – , delle rappresentazioni su alcuni rilievi romani, ma anche del confronto con le raffigurazioni dei cantieri medievali e moderni295 (fig. 392). Erano costituite da una o due lunghe travi di legno inclinate (antenne) che erano tenute 294 KORRES 1995, p. 52 e fig. a pag. 53 295 Si vedano in particolare GIULIANI 2006 pp. 255-268 e MARTINES 1998-99 il quale fra le altre cose analizza le illustrazioni dei manoscritti arabi dell’opera di Erone che sono riprodotte nell’articolo. Su Erone cfr. nota 287 a p. 220 226 Fig. 397 - Sistema di accostamento dei blocchi in Egitto. Sopra: Le linee segnate sulla superficie d’attesa indicano la posizione dei blocchi da collocare (ARNOLD 1991) Fig. 398 - Muro in opera quadrata di epoca romana. Accostamento con leva di un blocco lateralmente (sopra) e frontalmente (sotto) (LUGLI 1957) tempio di Apollo a Egina). In origine le cavità scavate nei blocchi hanno una sezione a elle che serve ad alloggiare due elementi di metallo, uno dei quali dotato di una sporgenza laterale; in seguito gli incassi assumono un profilo trapezoidale con un solo lato obliquo; alla fine dell’età ellenistica si impone l’olivella a tre pezzi con due lati obliqui simmetrici che avrà fortuna in tutta l’epoca imperiale. L’impiego delle macchine da sollevamento evita la costruzione delle rampe, ma anche dei ponteggi pesanti costituiti da una massa muraria piena. I blocchi vengono posizionati dalle gru direttamente sopra il muro in costruzione. Gli operai si muovono sulla cresta del muro ed eventualmente su impalcature lignee poste a fianco, le quali saranno utilizzate anche per i lavori di finitura. I ponteggi lignei leggeri sono inoltre utilizzati per le tutte le costruzioni in materiali di piccolo taglio (mattoni crudi, pietrame); in seguito saranno impiegati per le fabbriche in opera cementizia (cfr. p. 244, fig. 423). In Egitto i grandi conci di pietra da porre in opera venivano trascinati sulla cresta del muro in costruzione stendendo sui letti di attesa un velo liquido di gesso morto (cfr. p. 170) che ne facilitava lo scivolamento; degli appositi canaletti verticali praticati sulle facce laterali dei blocchi servivano alla fuoriuscita del liquido in eccesso. Il trasporto dei blocchi sui piani di posa avveniva altrimenti su rulli. In seguito utilizzando le macchine da sollevamento i blocchi potevano essere collocati direttamente in prossimità del punto di posa definitivo. Il posizionamento esatto, che consisteva nell’accostamento al blocco vicino già in opera, veniva effettuato dagli operai che stavano sulla cresta del muro i quali si aiutavano con delle leve. La punta della leva veniva alloggiata in una piccola cavità con sezione a scivolo appositamente tagliata nel piano di attesa e si dava con il bastone una spinta laterale. Talvolta l’accostamento veniva effettuato dalle impalcature; le leve venivano inserite in tal caso dentro dei fori scavati sotto il bordo superiore della faccia esterna (figg. 397, 398). Negli edifici antichi si trovano spesso dei segni incisi o dipinti sulle superfici di attesa che indicano l’esatta posizione degli elementi lapidei da collocare (fig. 397). E’ attestato in vari casi, sia in Egitto che in Grecia, anche l’uso di segni o lettere che identificano l’esatta posizione dei singoli blocchi, con sistemi analoghi a quelli utilizzati per le terrecotte architettoniche o i mattoni smaltati (cfr. 227 pp. 78-81); segni identici, come nel domino, possono indicare le facce da accostare; si usano altrimenti termini o lettere che hanno significato di “a sinistra”, “a destra”, “in alto”, “in basso” , ecc. Nel Tempio ionico della Terrazza del Teatro a Pergamo (prima metà del II sec. a.C.) tutti i blocchi sono numerati con le lettere dell’alfabeto, singole o in combinazione, che ne definiscono la posizione all’interno dei vari allineamenti297 (fig. 399). Sovente si trovano anche lettere e altri segni che non sono facilmente interpretabili; in molti casi può trattarsi di marchi di cava, di sigle che identificano i lotti di blocchi consegnati dai trasportatori oppure di firme apposte dai singoli artigiani impegnati sul cantiere298 (fig. 549). Fig. 399 - Pergamo. Tempio ionico della Terrazza del Teatro. Numerazione dei blocchi con le lettere (prima metà del II sec. a.C.) (BOHN 1896) 297 BOHN 1896, pp. 58-62 298 Sui marchi egiziani si veda ARNOLD F. 1990; su quelli punici TOMASELLO – DE SIMONE 2005 e MEZZOLANI 2008 a Fig. 400 - Segni incisi sulle mura di Bolsena (III sec. a.C.) (LUGLI 1957) 3) Il taglio, la levigatura e il fissaggio Le pietre che arrivavano dalle cave erano sommariamente sgrossate, come dimostrano i blocchi di fondazione. Quelle che andavano collocate nell’alzato venivano sagomate in cantiere. Il blocco veniva messo in forma utilizzando strumenti ammanicati a percussione diretta come le mazzette, i picconi e le asce a una o due punte, che consentivano di colpire la pietra con maggior forza. Le rifiniture si effettuavano con strumenti a percussione indiretta, come lo scalpello, che si usavano appoggiando la punta sulla superficie della pietra mentre la testa veniva colpita con il martello, con i quali si poteva effettuare un lavoro più preciso. A conclusione la superficie veniva talora molata con lo strofinamento di sostanze abrasive. Le facce maggiormente levigate erano quelle destinate a restare in vista. I vari tipi di strumenti utilizzati lasciavano sulla superficie della pietra dei caratteristici segni che li rendono tutt’ora facilmente riconoscibili. Durante la costruzione del muro venivano tagliate per prima cosa le facce che servivano da piano di riferimento per le altre: il piano di attesa doveva essere levigato prima della installazione dell’assisa successiva; di ogni blocco, prima della posa, andavano tagliate la faccia inferiore e quelle laterali. Il lato a vista invece restava provviso- riamente irregolare (fig. 401 A): le facce esterne dei blocchi venivano levigate alla fine tutte insieme. In Egitto, a partire dalla XXV dinastia (VIII-VII sec. a.C.), per rendere più preciso l’accostamento dei blocchi del muro subentra l’uso di definire prima della posa il profilo dei quattro spigoli della faccia esterna incidendo con lo scalpello una sottile fascia perimetrale (B), la quale tenderà in seguito a diventare più larga (C). In mezzo risultava una 228 sporgenza rustica (bugna) che veniva asportata dopo il completamento della parete. In molti muri greci le bugne verranno lasciate in opera e diventeranno un motivo decorativo. Il più delle volte si provvedeva a regolarizzare il profilo della sporgenza, levigandola in facciavista; altrimenti rimaneva allo stato rustico (fig. 398). Nei cantieri greci, per migliorare l’aderenza dei blocchi posti sullo stesso filare, si usava rifinire ciascuna delle due facce laterali con una fascia perimetrale ben levigata (anatirosi) che andava a Fig. 401 - Squadratura dei blocchi in Egitto. A: Prima della XXV dinastia. B: Tra la XXV e la XXX dinastia. C: in età tolemaica e romana (GOYON et alii 2004) Fig. 402 - Grappe e perni per il fissaggio dei blocchi negli edifici egiziani (CLARKE – ENGELBACH 1930) Fig. 403 - A sinistra: Grappe di bronzo utilizzate per il fissaggio dei pilastri e degli architravi di granito dei templi della valle di Chefren a Giza. A destra: Grappa di bronzo del tempio funerario di Unas a Saqqara (V dinastia) (ARNOLD 1991) contatto con quella uguale del blocco adiacente. Lo spazio interno restava leggermente incavato e allo stato rustico (fig. 401 C). Talora l’anatirosi si limitava a due sole bande disposte a L oppure a tre fasce a U. Il sistema venne adottato anche in Egitto, in età tolemaica, dove le fasce dell’anatirosi venivano tagliate dai canaletti verticali per lo scolo del gesso. In Egitto, dall’Antico Regno fino all’età greca e romana, è attestato l’uso di fissare i blocchi adiacenti per mezzo di grappe a farfalla in bronzo, pietra e soprattutto in legno, alloggiate in appositi incassi tagliati sulle facce superiori presso gli spigoli, spesso fissate con il gesso (figg. 402, 403). Erano lunghe generalmente fra i 30 e i 50 cm; a Karnak sono attestati esemplari che misurano addirittura 1,5 m. Tali elementi servivano soprat- tutto a evitare che i blocchi già in opera potessero subire degli spostamenti durante il trascinamento di quelli dell’assisa superiore. In molti casi prima di essere definitivamente coperte, le grappe di legno venivano tolte per essere riutilizzate nei filari soprastanti. Durante le operazioni di smontaggio dei muri effettuate dagli archeologi le cavità si presentavano infatti molto spesso vuote, anche in contesti dove altri reperti lignei si erano perfet- tamente conservati, oppure erano riempite dal gesso che veniva gettato sui piani di attesa per lo scivolamento dei blocchi299. In Grecia vennero introdotte molto presto le grappe di metallo le quali restavano in opera definitivamente. Lo dimostra anche il fatto che le facce superiori visibili dei blocchi conservati negli edifici greci e romani in rovina sono martoriate dai 299 GOYON et alii 2004, pp. 305-306 231 Fig. 408 - Karnak. Tempio di Amon-Ra. Particolare del rilievo della Grande sala ipostila con Sethi I portato dalla dea Hathor al cospetto di Amon-Ra (XIX dinastia) Fig. 409 - File. Particolare del primo pilone del tempio di Iside. Età tolemaica con applicazioni di vetri e metalli preziosi, uso che si tramanderà all’architettura ellenica. In Grecia gli edifici in blocchi di calcare di cattiva qualità erano rivestiti da uno strato protettivo di intonaco, a base di gesso o di calce, spesso mescolata a polvere di marmo, destinato a essere dipinto. Nei monumenti marmorei la pittura era stesa direttamente sulla pietra; molte volte si dava un fondo con un colore omogeneo (come documentato sia sul Partenone che nell’Ephaisteion) e poi con colori diversi si dipingevano le modanature e le figure in rilievo. La tecnica più antica ed economica, riconosciuta ad esempio sulle antefisse tardo-arcaiche di Gela e nel secondo tempio di Aphaia a Egina301, era la pittura a tempera che utilizzava pigmenti in polvere mescolati con l’acqua e un legante organico, tuorlo d’uovo o caseina. Dall’età classica si comincia a utilizzare anche la pittura a encausto, dove i colori erano diluiti nella cera liquefatta al fuoco e addizionata d’olio302. Questa tecnica, di cui parlano sia Vitruvio che Plinio303, consentiva colori più intensi e durevoli e maggiori gradazioni. Plinio ne attribuisce l’invenzione a Pausia di Sicione, pittore del IV sec. a.C. che avrebbe introdotto anche l’usanza di dipingere sia i lacunari che le volte. All’esterno i colori decoravano soprattutto la parte alta degli edifici (capitelli, trabeazione e frontoni) e forse anche le basi ioniche; crepidine e fusti restavano monocromi304. In età arcaica si afferma una tricromia fondata sul rosso, nero (o blu) e bianco che rende molto nitide sia le figure sia gli elementi architettonici secondo codici linguistici che tendono a una relativa standardizzazione, per cui ad esempio i triglifi sono sempre di colore scuro, mentre il rosso è generalmente assegnato alle linee orizzontali (fig. 410). Con il tempo si avrà un graduale arricchimento della tavolozza, con l’introduzione del verde, dell’oro e altre tonalità cromatiche. Le decorazioni policrome di molti templi greci, oggi non più visibili, sono state riprodotte da architetti e studiosi del XIX secolo; tra i documenti più importanti possiamo annoverare la restituzione del tempio di Empedocle a Selinunte di Hittorff (1830), quella del secondo tempio di Aphaia a Egina di Garnier (1852), la ricostruzione del Partenone di Loviot (1881), effettuate sulla base delle tracce di colore che erano ancora leggibili305 (fig. 411). Tra i monumenti archeologici le cui pitture si trovano ancora in un eccellente stato di conservazione, a parte le numerose terrecotte architettoniche conservate in vari musei, la testimo- 301 GRAEVE – PREUSSER 1981 302 LEPIK-KOPACZYNSKA 1956 303 VITR. VII, 9; PLIN. NH XXXV, 123-124. 304 Sull’uso del colore nell’architettura greca cfr. HELLMANN 2002, pp. 229-262. 305 BILLOT 1982 232 Fig. 410 - Egina. Secondo tempio di Aphaia (fine VI sec. a.C.). Ricostruzione policroma dell’ordine (HELLMANN 2002) Fig. 411 - Atene. Partenone. Ricostruzione policroma della facciata (disegno di Paccard, 1845-46, in HELLMANN 2002) Fig. 412 - Vergina. Facciata della “Tomba di Filippo” (ROCCO 1994) Fig. 413 - Lefkadia (Mieza). Ordine architettonico della “Tomba delle Palmette” (ROCCO 2003) 233 nianza di maggiore interesse è fornita dalle facciate monumentali delle grandi tombe macedoni306 (figg. 412, 413). Negli interni le pareti, anche in opera quadrata, erano interamente intonacate e dipinte. Resti di intonaci del IV sec. a.C. provenienti dalle case di Olinto dimostrano che già in quest’epoca si stava affermando uno “stile strutturale”, che sarà dominante nei due secoli seguenti, in cui le pitture parietali imitavano l’orditura dei muri in conci rettangolari, con gli ortostati del basamento, le assise in opera isodoma del registro superiore, eventuali fasce di inquadramento307 (fig. 414). Comincia in età arcaica e diventa gradualmente più comune nei secoli seguenti anche l’uso di differenziare le varie parti dell’edificio con pietre di colore diverso. Nei primi tempi la distinzione è ancora legata prevalentemente a un uso gerarchico della pietra, per cui i materiali migliori sono riservati alla parte più esposta, più sollecitata e più visibile. In seguito gli accostamenti tra i vari tipi di pietra risponderanno a voluti contrasti cromatici, come si può ravvisare ad esempio nei peristili delle case ellenistiche di Delo dove le colonne ioniche hanno spesso il fusto in marmo colorato, mentre basi e capitelli sono in marmo bianco. Le policromie con accostamenti di differenti tipi di marmi incontreranno grande favore soprattutto in epoca imperiale. Nella maggior parte dei casi le composizioni verranno realizzate assemblando sottili crustae marmoree che rivestono le pareti in opera cementizia (opus sectile, cfr. p. 342). L’uso di grandi blocchi di marmo sarà limitato essen- zialmente alle colonne, alle trabeazioni e alle cornici. 306 ANDRONIKOS 1984 307 ROBINSON D.M. 1946, pp. 183-206 . Fig. 414 - Atene. Casa presso il Dipylon. Ricostruzione del sistema decorativo (BORDA 1958) 249 come intonaco impermeabile, in qualche raro caso sono state utilizzate come legante nelle murature di cisterne (Tera)38 e opere portuali (Delo)39; si tratta in ogni modo di iniziative sporadiche, limitate allo stretto necessario a causa del costo ancora elevato di questo materiale. I costruttori preromani sapevano disporre i diversi materiali nella maniera più razionale riuscendo in questo modo ad innalzare edifici alti vari piani. Il procedimento costruttivo si basava su due principi fondamentali: 1) l’edificio era progressivamente alleggerito dal basso verso l’alto impiegando materiali di peso specifico e di dimensioni diverse; per cui ad esempio si aveva uno zoccolo – oppure l’intero piano terreno – in opera quadrata, sopra stava una muratura in pietrame e ancora più in alto eventualmente una struttura in mattoni crudi; 2) il pietrame e i mattoni crudi erano imbrigliati in un telaio portante in travi di legno – oppure a pilastri litici – che raccoglieva e convogliava i carichi gravanti. Non mancava inoltre la capacità di realizzare murature in pietrame particolarmente dure e resistenti costipando accuratamente gli elementi lapidei e sottoponendoli a battitura. Plinio ci informa che in Africa e in Spagna i muri venivano costruiti pressando le pietre e la terra dentro una cassaforma lignea e che ne risultava una struttura più dura del cemento, incorruttibile alle intemperie40. Per l’archeologia è difficile riuscire a identificare murature di questo tipo, perché dopo migliaia di anni tutte le strutture legate da malta di terra sono soggette a un consistente e inevitabile deterioramento. Ma è probabile che anticamente esse fossero molto diffuse, soprattutto in determinati contesti geografici. Si è visto poi come anche le murature in mattoni crudi fossero in grado di assicurare prestazioni molto elevate. In Mesopotamia e in Egitto disponendo questi elementi modulari su assise orizzontali per l’intero spessore del muro si ottenevano strutture meno resistenti di quelle in mattoni cotti, ma sufficientemente affidabili per realizzare edifici molto alti, probabilmente articolati anche in vari piani, non diversi da quelli che si possono vedere ancora oggi in varie città dell’Oriente (cfr. pp. 48-49). L’alleggerimento della struttura verso l’alto si attuava in questo caso 38 WILSKI 1904, p. 116 39 CAYEUX 1907, pp. 107-108 40 PLIN., NH, XXXV, 169. semplicemente con la progressiva riduzione dello spessore dei muri da un piano all’altro. Inoltre le volte radiali in mattoni crudi si impostavano con facilità sulle strutture d’alzato grazie al loro scarso peso. In Egitto e in Mesopotamia esse venivano disposte in serie per coprire lunghe file di ambienti e non si può escludere, come si è già detto, una loro diffusione anche in Grecia e in Italia dall’età arcaica. 2) L’esordio dell’opera cementizia a Roma e in Campania L’uso della malta di calce come legante degli elementi del muro si afferma in maniera decisa e definitiva nell’architettura romana tra il III e il II sec. a.C. Il risultato è un sistema costruttivo nuovo che nel giro di breve tempo finirà per trasformare profondamente la morfologia degli edifici e che non sarà mai più abbandonato, fino a quando non verrà superato – verso la fine del XIX secolo – dalla introduzione del cemento armato. I motivi per cui i costruttori romani in quest’epoca si decidono a intraprendere con convinzione questo passaggio sono più di uno. Certamente conta molto la capacità d’iniziativa e la voglia di sperimentare da parte di un popolo giovane, ricco di risorse, che si sta affermando in questo momento nel mondo politicamente ed economicamente. Ma contano pure, in questo caso come sempre nella storia dell’edilizia, i materiali da costruzione disponibili localmente. Le montagne appenniniche fornivano rocce di ottimo calcare bianco e grandi riserve di legname da utilizzare come combustibile, ma soprattutto le pozzolane campane e laziali consentivano di confezionare malte e conglomerati particolarmente robusti, con valori di resistenza addirittura otto volte superiori rispetto alle malte di sabbia ordinarie come è stato calcolato. I muri in opera cementizia confezionati con questo tipo di malte si configuravano quasi come dei monoliti. I primi risultati erano sicuramente assai incoraggianti e quindi si è andati avanti senza indugio in questa direzione. La fase sperimentale e di passaggio si coglie in alcuni edifici pompeiani di III-II sec. a.C., non perché questa città fosse all’avanguardia nella utilizzazione delle nuove tecnologie ma perché è l’unico contesto che ci ha tramandato numerosi muri di quest’epoca in discreto stato di conserva- 250 Fig. 427 - Pompei, VII, 3, 16. Parete a nervature litiche della prima età sannitica (OVERBECK – MAU 1884) zione41. Le murature più antiche, databili per lo meno a partire dalla prima metà del III sec. a.C., sono realizzate con blocchetti ben accostati e legati ancora da una malta di terra, disposti su ricorsi orizzontali fra nervature in grossi blocchi lapidei molto ravvicinate (fig. 427). In seguito, tra la fine del III e la prima metà del II sec. a.C., i blocchetti divengono di forma più irregolare e appaiono cementati da una malta abbondante con calce e sabbia che riempie i larghi interstizi; le catene sono notevolmente più distanziate. Intorno alla metà del secolo, grazie alla migliore qualità della calce, si ha la definitiva sostituzione della tecnica a nervature litiche con una struttura muraria autoportante interamente in calcestruzzo; i conci lapidei si limiteranno agli angoli e ad altri punti esposti (fig, 428), fino ad essere rimpiazzati da catene in blocchetti di pietra o laterizi. 41 Le numerose indagini effettuate a Pompei negli ultimi anni (in particolare nell’ambito del Progetto Regio VI) hanno consentito una più sicura datazione delle varie tecniche edilizie attestate nelle domus, anche per quanto riguarda le fasi più antiche. Fra le numerose pubblicazioni in materia segnalo in particolare PESANDO 2008 con bibliografia. In linea generale i calcestruzzi utilizzati nelle abitazioni comuni di Pompei non hanno una grande qualità. Ancora in epoca imperiale le murature presentano spesso malte terrose, friabili, mal mescolate e con grossi noduli di calce42. Spesso si incontrano pareti composte da un nucleo in pietrame con una malta ancora terrosa di cattiva qualità e una scatola esterna in elementi lapidei cementati invece da una malta di calce pura e compatta43. Si cerca per quanto è possibile di economizzare in considera- zione del fatto che gli edifici sono bassi; i muri in opera cementizia sono gravati al massimo dalle pareti, più sottili, di un solo piano superiore, spesso realizzate in pietrame entro telaio ligneo. I conglomerati migliori già nel II sec. a.C. si affermano negli edifici pubblici che sono più grandi, pesanti e strutturalmente complessi, come il tempio di Giove (circa 150 a.C.) e soprattutto la basilica (ultimo quarto del II sec. a.C.), la quale presenta peraltro una particolarissima innovazione connessa all’utilizzo delle malte di calce: le colonne scanalate dell’ordine gigante sono costituite da mattoncini pentagonali disposti intorno un elemento centrale circolare, tenuti insieme da letti sottili di una malta di calce e pozzolana molto tenace; le scanalature triangolari formate dai laterizi erano poi sagomate da un rivestimento di intonaco bianco che imitava il marmo (figg. 484 n. 1, 485 a pp. 280-281). Fig. 428 – Pompei. Basilica. Particolare del muro perimetrale con lo stipite di un portale Ultimo quarto del II sec. a.C. 42 Si veda soprattutto un indagine compiuta da Adam su vari edifici pompeiani (ADAM 1986). Malte terrose di questo tipo si ritrovano anche nelle Terme Centrali. 43 Cfr. CARRINGTON 1933, p. 130 251 Le prime grandi costruzioni in opera cementizia note a Roma risalgono al pieno secondo secolo a.C. Si distingue fra queste un gigantesco complesso architettonico a carattere utilitario situato in prossimità del Tevere nella pianura dell’Emporium, corrispondente all’odierno quartiere del Testaccio, tradizionalmente identificato con la porticus Aemilia menzionata da Livio44; secondo una recente proposta, che è stata largamente condivisa dagli altri studiosi, si è invece voluto riconoscervi un arsenale militare (navalia) realizzato sul modello dei neosoikoi greci45. Si è suggerito inoltre di attribuirne la progettazione all’architetto Ermodoro di Salamina, attivo a Roma negli anni centrali del II sec. a.C., autore nel 147 a.C. del tempio marmoreo di Giove Statore nel Campo Marzio e del portico circostante (porticus Metelli)46. Sia l’edificio al Testaccio che la Porticus Metelli sono realizzati in opera cementizia rivestita da una cortina in bloc- chetti tufacei di forma irregolare (opera incerta) con caratteristiche molto simili, il quale è tipico di que- st’epoca e che già alla fine del secolo a Roma sarà soppiantato dall’opera quasi-reticolata (cfr. p. 268). L’impianto del Testaccio aveva un’estensione planimetrica di 487 x 60 m ed era suddiviso internamente in una serie di 50 lunghi vani paralleli coperti da volte a botte, disposte su quattro livelli decrescenti (figg. 429-431). Secondo la più recente 44 Negli anni trenta del secolo scorso G. Gatti eseguì una serie di indagini che consentirono di fissare il perimetro del grande edificio di cui sono visibili consistenti avanzi nel quartiere del Testaccio e ne riconobbe la planimetria in quattro frammenti della Forma Urbis; uno di questi contiene l’iscrizione incompleta ...LIA che venne integrata dal Gatti nella forma [AEMI]LIA (GATTI 1934); egli ritenne infatti di poter identificare tale edificio, in base alla sua posizione topografica, con il “porticum unum extra portam Trigeminam,”, menzionato da Livio, fatto costruire nel 193 a.C dagli edili M. Aemilius Lepidus e L. Aemilius Paullus (Liv. XXXV, 10, 12) e ricostruito nel 174 a.C. (Liv. XLI, 27, 8). 45 COZZA – TUCCI 2006; l’ipotesi dei due studiosi poggia da una parte sull’inquadramento delle caratteristiche tecniche e funzionali dell’impianto, dall’altra sulla rilettura delle iscrizioni superstiti sui frammenti della FU, in particolare quella preparatoria corsiva apposta su uno di essi dove si leggono chiaramente le lettere a l i a, da cui l’integrazione [NAVA]LIA del testo principale in capitale. In epoca imperiale i navalia furono trasformati in edificio commerciale e l’area verso il Tevere venne edificata (fig. 430) 46 Ipotesi che è stata riproposta ultimamente anche da A. D’Alessio il quale sottolinea che Cicerone (de orat. I, 14, 62) aveva attribuito ad Ermodoro di Salamina la costruzione di navalium opere e sostiene che le caratteristiche del paramento in opera incerta dell’edificio al Testaccio si inquadrano nel pieno secondo secolo a.C. (D’ALESSIO 2008) ipotesi ricostruttiva il pavimento degli ambienti non era articolato in quattro gradoni corrispondenti ai salti di quota delle volte, come era stato proposto in passato, ma presentava un piano di fondo inclinato in direzione del Tevere che favoriva le operazioni di traino e di ricovero delle imbarcazioni. La planimetria, che si caratterizza per una serie di camere parallele suddivise da pilastri è stata correttamente paragonata a quella di alcuni arsenali greci (Pireo, Oiniadai47). La conformazione dell’alzato era però completamente diversa rispetto a quel tipo di impianti, i quali dovevano essere dotati di tetti a capriate impostate su sostegni verticali isolati, e trova confronto piuttosto con alcuni vasti complessi di ambienti a schiera in mattoni crudi dell’antico Oriente – come ad esempio i magazzini del Ramesseum a Medinet Habu del XIII sec. a.C. – che erano coperti da volte a botte impostate sui muri divisori (cfr. pp. 71-73, figg. 106-108). Lo schema di base dunque non era certamente nuovo. Corrispondeva a formulazioni modulari che erano le più razionali per complessi a carattere utilitario, in cui le volte a botte essendo di pari dimensioni poiché era costante la larghezza degli ambienti, potevano contrastarsi recipro- camente annullando le spinte laterali. Non è da escludere che impianti analoghi più piccoli con alzati e volte in mattoni crudi, oppure con pareti in pietrame e volte a mattoni avessero trovato una relativa diffusione anche in Grecia e in Italia. In ogni modo ciò che fino a quel momento era stato realizzato con altre tecniche, qui per la prima volta in forme grandiose viene eseguito in opera cemen- Fig. 429 – “Porticus Aemilia”. Particolare del muro di fondo in opera incerta 47 Cfr. BLACKMAN 1968 sul neosoikos del Pireo, SEARS 1904 su quello di Oiniadai. Le planimetrie dei due edifici sono riportate in COZZA – TUCCI 2006 254 Fig. 433 - Roma. Basilica di Massenzio. Giuntura di cantiere tra il muro d’imposta della volta a botte e la parete finestrata che chiude l’aula centrale (AMICI 2005 b, rielab. dell’autore) volta e il setto finestrato centrale di minore impegno statico presenta un profilo lievemente irregolare che è determinato dalla disposizione sfalsata dei mattoni del paramento, simile a quello di una vera e propria lesione verticale (fig. 433). Come è stato osservato, la si può definire una “lesione programmata”, volutamente collocata tra due settori sottoposti a carichi diversi laddove si sarebbe potuta formare altrimenti una frattura incontrollata durante la fase di essiccamento. Si tratta però di soluzioni abbastanza eccezionali. Nella grande maggioranza dei casi i muri meno sollecitati vengono invece saldamente ancorati a quelli portanti in modo da irrigidire la scatola muraria. È indispensabile soprattutto realizzare un tenace collegamento tra le facciate e i muri divisori interni, ortogonali a quelle; altrimenti le prime sarebbero facilmente soggette a distacchi, fuori piombo e nel caso di un evento sismico rischierebbero di crollare. Molto significativo è anche il rapporto tra l’opera cementizia e l’opera quadrata nel quale entrano in gioco problemi di ordine strutturale ma è condizionato anche dalla funzione decorativa che veniva tradizionalmente assegnata alla pietra. Nell’edilizia domestica, come si è detto, l’opera cementizia arriva presto a soppiantare quasi completamente i grossi blocchi parallelepipedi e i monoliti che venivano inseriti nel muro con una funzione portante, peraltro invisibili dietro il rivestimento di intonaco. Tra il II e il I sec. a.C. i conci posti sulle testate dei muri in opera incerta (fig. 428) vengono progressivamente sostituiti da fasce angolari (cantonali) con nucleo in opera cementizia e paramento in elementi lapidei rettangolari di piccolo taglio – o in laterizi – disposti su assise orizzontali, con una tessitura più curata rispetto al resto della cortina. I due diversi paramenti si ammorsano solitamente con denti rettangolari larghi un piede/un piede e mezzo e alti altrettanto, che ripetono lo schema delle catene in conci lapidei delle murature tradizionali (fig. 434). L’opera cementizia tenderà a sostituire anche i muri interamente in opera quadrata non visibili come le fondazioni lineari continue o i setti interni alle sostruzioni, compresi i podi dei templi. Negli alzati degli edifici monumentali di epoca repubblicana si usano blocchi di tufo o di calcare tenero che il più delle volte sono intonacati e quindi hanno una funzione solamente strutturale. A partire dalla metà del II sec. a.C. in alcuni templi si introduce il marmo bianco, materiale prestigioso che resta in vista. Nelle costruzioni più lussuose, come il Tempio rotondo del Foro Boario51 (seconda metà del II sec. a.C.), il marmo è usato non solo nel colonnato esterno ma anche nel muro della cella che Fig. 434 – Pompei. Tempio dei Lari Pubblici. Ammorsature tra il cantonale in opera laterizia e il paramento in opera quasi- reticolata del resto della parete (MEDRI 2001) 51 RAKOB – HEILMEYER 1973 255 Fig. 435 - Roma. Tempio rotondo del Foro Boario. Prospetto ricostruttivo (RAKOB – HEILMEYER 1973) è in opera pseudoisodoma a giunti simmetrici secondo i canoni dell’architettura classica (figg. 435, 436). Ma nella maggior parte dei casi l’uso del materiale lapideo si limita alle colonne, alle trabeazioni e alle cornici, che sono le parti più visibili ma anche le più sollecitate, mentre le pareti della cella sono in opera cementizia rivestita d’intonaco o di incrostazioni marmoree. Nel Tempio rotondo dell’acropoli di Tivoli52 (fine II sec. a.C), costruito a fianco di un precedente tempio rettangolare pseudoperiptero interamente in opera quadrata, sono realizzati in blocchi di travertino a vista il rivestimento del podio, le colonne e la trabeazione della facciata, il soffitto a lacunari della peristasi, le cornici del portale e della finestra; ma il muro perimetrale della cella è costruito per il resto interamente in conglomerato cementizio con paramento in opera incerta (figg. 437, 438). In epoca imperiale l’uso dell’opus caementicium si generalizza anche nelle pareti dei templi più importanti e diventano comuni le volte a botte in calcestruzzo perforate da lacunari in luogo delle tradizionali coperture lignee o a cassettoni lapidei. I muri con paramento in opera laterizia o in opera mista sono rivestiti da sottili crustae di marmi colorati allettate in uno strato di intonaco; l’interno è spesso movimentato da avancorpi a colonne con i blocchi della trabeazione che s’incastrano entro 52 GIULIANI 1970 pp. 132-143 Fig. 436 - Roma. Tempio rotondo del Foro Boario. Sezione trasversale ricostruttiva della peristasi e pianta di un settore del soffitto (RAKOB – HEILMEYER 1973) 256 Fig. 437 - Tivoli. Assonometria delle sostruzioni e dei templi dell’acropoli (GIULIANI 1970) 259 carico concentrato molto pesante, soprattutto nelle fondazioni delle colonne e dei pilastri (fig. 301 a p. 184). Nei grandi edifici per spettacoli gli anelli esterni sono realizzati interamente in conci lapidei perché costituiscono la parte più alta del fabbricato, gravata da un maggiore carico verticale ma anche dalle sollecitazioni laterali del complesso sistema di volte interne; l’opera cementizia prevale in corri- spondenza dell’ima e media cavea che sono parti più basse e di minore impegno statico. La sezione del Teatro di Marcello54 (seconda metà del I sec. a.C.) è un paradigma: dall’esterno verso l’interno con la progressiva diminuzione dell’altezza dell’edificio sono impiegati materiali via via meno resistenti (fig. 441). La fronte è in opera quadrata di travertino; il semicerchio dietro la facciata è in conci di tufo litoide con gli archi rinforzati da blocchi di travertino nei punti più sollecitati (in chiave e alle reni); sono costruiti in opera quadrata di tufo anche i muri radiali per una profondità verso l’interno di circa 10 m. Tutta la parte interna delle sostruzioni, posta sotto la media e ima cavea, è invece in conglomerato cementizio. I muri radiali hanno un paramento in opera reticolata di tufo, quelli degli ambulacri semicircolari sono in opera laterizia, materiale che è più resistente del primo e trova anche in questo caso una ragione statica. Sulla serie di muri radiali si impostano volte a botte di uguali dimensioni che si contrastano reciprocamente trovandosi in perfetto equilibrio; alle pareti dei corridoi semianulari che stanno sotto le precinctiones compete una più impegnativa funzione di controspinta dei settori più alti della cavea; le volte a botte sono inoltre gravate dal peso dei baltea e delle prime file di sedili retrostanti. L’Anfiteatro Flavio (72 - 80 d.C.) è invece costituito da un vero e proprio scheletro portante in pilastri di travertino collegati alla sommità da grossi archi di mattoni bipedali o in conci di travertino55 (fig. 442). I piloni formano sette anelli concentrici e il loro ingombro aumenta progressivamente verso l’esterno in proporzione alla maggiore altezza dell’edificio. Quelli degli anelli interni (dal terzo al sesto) sono collegati da setti radiali – in opera quadrata di tufo al pian terreno, in più leggero calcestruzzo con paramento in mattoni (opera laterizia) nel secondo ordine – i quali sono completamente svincolati dai pilastri e costituiscono 54 FIDENZONI 1970 p. 51 55 COZZO 1971, pp. 34-44; REA – BESTE – LANCASTER 2002, pp. 365-374 pertanto una mera tamponatura. Sui piloni lapidei e gli archi a mattoni del telaio s’impostano le volte in opera cementizia, inclinate e a botte, che sostengono la cavea (fig. 443). L’alta facciata è in opera quadra- Fig. 442 - Roma. Anfiteatro Flavio. Pianta dell’edificio divisa in quattro settori corrispondenti a quattro diversi livelli. È indicata in nero la distribuzione delle strutture portanti in travertino (COZZO 1971) Fig. 443 - Roma. Anfiteatro Flavio. Schema delle pilastrate sorreggenti la volta della cavea (COZZO 1971) 260 Fig. 444 - Capua (S. Maria Capua Vetere). Anfitatro Campano. Particolare degli ambienti radiali al piano terreno (SPINA 1997) ta di travertino (fig. 368 a p. 215), mentre le sostruzioni dei due settori inferiori della cavea fanno a meno dell’ingabbiatura litica e sono quindi interamente in opera laterizia. Nell’Anfiteatro Campano di Capua56 (fine I sec. – inizio II sec. d.C.), che è il più grande edificio di questo genere in Italia dopo il Colosseo, i pilastri e le arcate dei tre anelli esterni sono in conci di calcare bianco, ma il resto della struttura qui è interamente in opera laterizia. Il carico delle volte a botte degli ambulacri ellittici e degli ambienti radiali si distribuisce uniformemente su tutti i muri, i quali presentano un nucleo cementizio molto resistente e di ottima fattura, costituito da frammenti laterizi fittamente disposti su letti orizzontali che corrispondono ai ricorsi dei mattoni del paramento (fig. 444). Una parte dei muri sono costituiti interamente da questo tipo di calcestruzzo; in altre pareti esso costituisce un robusto involucro, con uno spessore di almeno trenta centimetri, che racchiude un nucleo in opera cementizia con scapoli di tufo. 56 SPINA 1997; GIULIANI 2001 La grande architettura in opera cementizia di epoca imperiale saprà affrancarsi totalmente dai rinforzi lapidei inseriti negli elevati. La diffusione delle cupole e delle volte composte e l’adozione degli archi di scarico nelle murature porteranno alla moltiplicazione di strutture a telaio, che saranno realizzate interamente in calcestruzzo. Le arcate e gli spigoli delle volte si impostano su piloni o sulle teste dei muri divisori degli ambienti adiacenti, mentre gli spazi intermedi restano aperti oppure sono tamponati da diaframmi murari di scarso impegno statico. Nelle costruzioni in calcestruzzo la maggiore resistenza delle strutture sottoposte a un forte carico si realizza non solo utilizzando caementa più duri e in strati più fitti, ma anche aumentando lo spessore della massa muraria. Piloni e muri portanti su cui si impostano le volte sono notevolmente più grossi delle pareti che hanno una mera funzione di chiusura dello spazio interno. Negli edifici a più livelli tutti i muri sono inoltre progressivamente più sottili da un piano all’altro, con scarti di almeno 15 cm (fig. 544 a p. 306); eventualmente si ha anche una graduale diminu- zione del peso specifico grazie all’uso di materiali più leggeri. Una delle più grandiose strutture a pilastri portanti interamente in opera cementizia è la rotonda del Pantheon57 (figg. 445-448). Il muro perimetrale, che all’esterno ostenta una superficie curvilinea continua, è in realtà costituito da otto enormi piloni lunghi ca. 9 m, spessi 6,30 m, alti quasi 30 m, assimilabili a delle torri, i quali sono perforati al loro interno da tre ordini di concamere voltate che consentono un risparmio di muratura senza indebolirne la funzione statica; essi si alternano ad ampi vuoti corrispondenti al portale d’ingresso e a sette nicchie alternativamente semicircolari e rettangolari (fig. 446). La parete di fondo di quest’ultime, che si lega alla muratura delle parti piene adiacenti, ha uno spessore di appena 1,70 m. ca. Tutto il carico della copertura è convogliato sugli otto pilastri da due file sovrapposte di archi di scarico in mattoni, situati rispettivamente in corrispondenza del secondo ordine interno e nella parte inferiore della cupola (fig. 448). Le colonne marmoree delle nicchie svolgono una funzione portante del tutto secondaria; esse servono a sostenere la trabeazione e i setti murari dei vani del secondo ordine, ma sono completamente risparmiate 57 FINE LICHT 1968 261 Fig. 445 – Roma. Pantheon. Pianta e sezione longitudinale (FINE LICHT 1968) Fig. 446 – Schema della struttura portante del Pantheon (PELLICCIONI 1984) Fig. 447 - Roma. Pantheon. Sezione trasversale (a sinistra su una nicchia, a destra su un pilastro con relative concamere) e schema degli archi di scarico (FINE LICHT 1968) Fig. 448 - Disegno assonometrico che mostra l’organizzazione degli archi di scarico nel muro perimetrale del Pantheon. “M” indica gli archi maggiori che collegano i pilastri; “m” indica gli archi minori situati dentro i pilastri (LANCASTER 2005) 337 impastata a elementi vegetali, soprattutto paglia. Lo spessore complessivo degli intonaci poteva arrivare a 9 cm e oltre. Per favorire l’aderenza dei vari strati l’uno sull’altro spesso si praticavano delle incisioni con la cazzuola sull’interfaccia di quello già in posa. Talvolta veniva resa più scabra a colpi di martellina anche la superficie del paramento del muro che era destinata a ricevere il pesante rinzaffo. Quest’ultimo in qualche caso veniva addirittura fissato al muro per mezzo di chiodi. Gli strati superficiali non sempre erano costituiti da polvere di marmo. Le analisi microfotografiche hanno individuato in molti casi dei composti contenenti monocristalli di calcite, provenienti molto probabilmente dalla frantumazione del marmo o delle pietre calcaree, ma molto spesso anche malte di calce e sabbia naturale di granulometria più fine rispetto a quella contenuta negli strati di preparazione242. Di frequente era utilizzato anche il gesso. La pittura sull’intonaco era caratterizzata dalla tecnica dell’affresco: i colori erano stesi sullo strato superficiale che conteneva calce ancora umida in modo che i pigmenti dopo la presa ne restavano inglobati e acquistavano una grande resistenza. Il lavoro era complicato dai tempi stretti di realizzazione; era necessario lavorare il più velocemente possibile per concludere il dipinto prima che il supporto si asciugasse, fenomeno che poteva avvenire entro tre ore dalla stesura dell’intonaco. Per questo motivo il pittore doveva lavorare a zone corrispondenti alle parti che egli era in grado di realizzare nel tempo dovuto. Si lavorava generalmente dall’alto verso il basso. Le interruzioni del lavoro corrispondevano con le fasce decorative che scompartivano i vari riquadri della parete in modo che le linee di giuntura non erano visibili. Questa tecnica inoltre non consentiva ripensamenti; una volta lasciata una traccia di colore, questa veniva immediatamente assorbita dall’intonaco. Eventuali correzioni erano effettuate a secco, mediante colori a tempera, mescolati con l’acqua e un collante organico (soprattutto albume), che venivano stesi sull’intonaco asciutto. Gli stucchi sono decorazioni architettoniche in rilievo eseguite con le malte, in genere a base di calce o di gesso, ed eventualmente dipinte (fig. 611). La composizione è la stessa degli intonaci; 242 COUTELAS 2009, p.110 Fig. 611 - Roma. Foro Traiano. Ambiente adiacente al lato meridionale del muro di recinzione. Resti della decorazione in stucco della volta come quelli sono costituiti da vari strati di malta gradualmente più fini dall’interno verso l’esterno. Alcuni elementi decorativi, molto sporgenti, necessitavano di uno scheletro di supporto che poteva essere realizzato da listelli di legno applicati tra il muro e l’intonaco. Nelle murature in conci le modanature erano scolpite nella pietra e quindi rifinite con l’intonaco. Nelle costruzioni in opera laterizia le sagome erano realizzate con i mattoni che erano disposti nel muro con le dovute sporgenze; talvolta si usavano mattoni speciali provvisti di smussi che facilitavano la realizzazione delle modanature. La stesura dell’intonaco consentiva in ogni caso la realizzazione di ulteriori dettagli. Le figure seriali erano incise su stampi di legno che venivano poi pressati sulla malta ancora fresca; per le modanature si utilizzavano sagome allungate che ne riproducevano la sezione; altre decorazioni venivano altrimenti modellate o incise direttamente sull’intonaco utilizzando spatole e strumenti appuntiti. All’esterno non tutti i muri con paramento in blocchetti lapidei o in cortina laterizia erano intonacati. Come si è visto sono attestate diverse composizioni policrome con le tesserae del reticulatum; soprattutto nel II sec. d.C. si hanno 338 ▲Fig. 613 - Cuma. Foro. Tempio della Masseria del Gigante. A sinistra: Rilievo dei fori e degli incassi visibili sulla parete destra della cella. A destra: restituzione del rivestimento lapideo (M. Bianchini) ◄ Fig. 612 – Rivestimento marmoreo della parte inferiore di un muro. Schema dei fondamentali elementi costitutivi (GIULIANI 2006) numerosi esempi di decorazioni architettoniche in opera laterizia, talvolta giocate anche sui contrasti cromatici dei materiali, dove i mattoni modanati e altri elementi in terracotta non costituivano l’ossatura di un rivestimento d’intonaco, ma erano destinati a restare in vista. A volte sulle facciate si applicava in alternativa all’intonaco una semplice imbiancatura protettiva con latte di calce o di gesso, senza granulati. Il rivestimento più nobile era costituito dalle composizioni policrome di lastre marmoree (opus sectile)243. Lo spessore di tali elementi variava da qualche centimetro a pochi millimetri. I marmi più spessi e pesanti venivano preferibilmente collocati nel registro inferiore della parete e richiedevano l’uso di grappe metalliche (fig. 612). Le lastre, che risultavano dalla segagione di blocchi più grandi, non avevano spessori uniformi. Venivano disposte in verticale allineando le facce esterne a qualche centimetro dal muro e fissate a questo per mezzo di grappe di metallo, in genere di bronzo. Le grappe erano cementate con la malta dentro appositi fori praticati nel muro con lo scalpello, dove erano talora messe insieme a piccole zeppe in marmo o in laterizio, e all’altro capo erano piegate a uncino intorno i bordi delle lastre. Tra queste e il muro si effettuava una colata di malta la quale asciugandosi assicurava la tenuta della decorazione. Sul retro delle lastre marmoree – anche nei pavimenti – si usava incollare con la calce dei tasselli di ardesia, di 243 PLIN. NH, XXXVI, 47-53. laterizio o di marmo i quali formavano delle sporgenze che si addentravano nello strato di malta assicurando un legame più saldo (fig. 618 a p. 341). I marmi più sottili (crustae) non necessitavano delle grappe, ma venivano fatti aderire allo strato di intonaco già in posa e ancora fresco con una semplice pressione della mano. Si realizzavano anche complicati intarsi utilizzando crustae di piccole dimensioni e delle più diverse qualità di marmo, sagomate in varie forme con grande accuratezza. Molto spesso le decorazioni marmoree erano abbinate ad affreschi; in genere il rivestimento marmoreo occupava la parte inferiore della parete ed era sovrastato dall’intonaco (fig. 612). In quasi tutti gli edifici antichi, in seguito al loro abbandono, i rivestimenti marmorei e le grappe di metallo vennero sistematicamente asportati. Restano oggi visibili i fori da grappa, disposti su allineamenti orizzontali e verticali che corrispondono ai giunti fra le lastre. Il rilievo di queste tracce ci consente di ricostruire l’orditura originaria della decorazione244 (fig. 613). 2) I pavimenti I primi pavimenti in malta di calce, come si è visto, risalgono al neolitico preceramico. Da allora l’impiego della calce nelle pavimentazioni è attestato in diversi contesti geografici e cronologici. Sovente si tratta di uno strato d’intonaco duro che 244 Sull’argomento cfr. BRUTO – VANNICOLA 1990 339 viene semplicemente dipinto, altrimenti è un letto di preparazione di un pavimento in ciottoli, in lastrine o in cubetti di pietra; oppure il piano di calpestio è costituito da elementi lapidei che si alternano a fasce di intonaco in vista (cfr. p. 139). I lastricati in pietra degli edifici monumentali poggiavano invece generalmente su una preparazione di pietrame misto a terra; la stabilità del pavimento era assicurata dalle dimensioni e dal peso delle singole lastre. In ogni epoca saranno inoltre molto comuni i piani di calpestio in terra battuta, eventualmente mescolata a frantumi di pietra che conferivano una maggiore durezza, i quali potevano essere coperti da stuoie, tappeti o da un tavolato. Con l’avvento dell’opera cementizia nelle murature, si avrà un sistematico impiego della calce anche nelle pavimentazioni245, la quale viene mescolata preferibilmente a sabbia e a laterizi frantumati dando luogo a un composto particolarmente resistente all’usura. Questo tipo di pavimento, spesso decorato da piccole tessere lapidee, che fu prevalente negli edifici romani fra il III sec. e i primi decenni del I sec. a.C., è stato definito per molto tempo dalla letteratura archeologica, sulla base di un passo di Plinio, opus signinum 246. Questo termine è stato contestato in tempi recenti perché il testo di Plinio appare in contraddizione con la descrizione dell’opus signinum fornita da Vitruvio, che è stata peraltro ripresa in un’altra parte della Naturalis Historia247; per cui negli ultimi anni si è imposta in sua vece fra gli specialisti della materia la definizione di “pavimenti in cocciopesto”248. 245 Cfr. PAPI 1995. Ad esempio nelle domus sulle pendici settentrionali del Palatino si riscontra questo cambiamento di tecnica pavimentale tra la fine del III e gli inizi del II sec. a.C. quando gli edifici furono ristrutturati in opera cementizia. 246 PLIN. NH, XXXV, 165: “Che cosa non escogita la vita usando anche cocci rotti in maniera che i cosiddetti Signini pestati i cocci e aggiuntavi calce siano più solidi e durino più a lungo! Hanno escogitato di fare anche i pavimenti di questo materiale”. 247 VITR. VIII, 6, 14. PLIN. NH, XXXVI, 173. Su opus signinum e cocciopesto cfr. pp. 246-247. 248 Giuliani ha per primo contribuito a chiarire la differenza fra opus signinum e cocciopesto (GIULIANI 1992). Grandi Carletti ha in seguito proposto di bandire la ricorrente definizione di opus signinum per questo tipo di pavimentazioni, suggerendo in sostituzione il termine “pavimenti cementizi” (GRANDI CARLETTI 2001), che però ha forse il difetto di essere troppo generico. Negli ultimi anni tra gli specialisti del settore si preferisce parlare più propriamente di “pavimenti in cocciopesto”, termine che è stato accolto anche in un recente intervento di analisi etimologica (BRACONI 2009). Non tutti Lo strato di preparazione di questo tipo di pavimenti era solitamente costituito da un letto di argilla e sabbia mischiate a piccole pietre disposte in maniera uniforme e compatta. Sopra veniva steso uno strato di calce mescolata a sabbia, tritume di terracotta, eventuali frammenti di tufo o altre pietre; lo spessore andava da qualche millimetro a 2 cm. I pavimenti erano eseguiti per settori, di cui si possono vedere le linee di giuntura, ed erano colo- Fig. 614 - Claterna (Maggio di Ozzano, Bologna). Particolare del pavimento in cocciopesto di una domus. (Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia-Romagna) Fig. 615 - Roma. Castel Giubileo. Villa romana sotto la basilica di San Michele Arcangelo (cfr. BIANCHINI – VITTI 2003). Planimetria dei resti di un pavimento in cocciopesto (fine del II sec. a.C.) (rilievo M. Bianchini) gli studiosi però si sono adeguati al nuovo corso e l’espressione opus signinum è stata riproposta poco tempo fa in una importante monografia dedicata a questo genere di pavimenti (VASSAL 2006).