Scarica Sintesi "De providentia", Seneca e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Latino solo su Docsity! “De providentia”, Lucio Anneo Seneca La domanda più antica del mondo (Alfonso Traina) “Le spiegazioni non diminuiscono il grande scandalo della sofferenza. La sua grandezza sta nell’accettazione.” (E. Mounier) In Giobbe la giustizia divina trascendeva la comprensione umana e quindi la divinità non si poteva difendere, ma solamente accettare passivamente. Successivamente, con Platone, il discorso si spostò più sul piano della giustizia che non su quello della provvidenza, con l’affermazione della necessità di riconoscere ad ognuno ciò che meritava; nel caso in cui ciò non accadesse, il filosofo greco rispondeva con tre argomenti diversi, quali il fatto che la buona coscienza abbia il premio in se stessa (prova etica, nel Gorgia), il fatto che le vicende del singolo siano subordinate a quelle, ben più rilevanti, dell’armonia del tutto (prova cosmologica, nelle Leggi) ed infine l’immortalità dell’anima (prova escatologica, nel Fedone e nella Repubblica): dunque i tre miti che raccontavano le vicende dell’anima dopo la morte non erano verità razionali, ma, come sottintende la parola, delle possibilità, cui tuttavia valeva la pena credere. La teodicea vera e propria, e quindi il chiedersi il perché del male nel mondo, nacque invece con gli stoici, il cui monismo panteistico poneva il problema di come l’uomo dovesse porsi di fronte al determinismo: in particolare Crisippo sosteneva che i contrari fossero complementari ed indissolubili e che, quindi, ogni male fosse in realtà uno stadio primitivo da cui, per successive evoluzioni, si poteva arrivare al bene. Epicuro ne sostenne l’inesistenza con una valida argomentazione: “Dio o vuole eliminare il male e non può, o può e non vuole, o né vuole né può, o vuole e può. Se è vero il primo caso è impotente; se il secondo, malevolo; se il terzo, entrambi; se il quarto, il solo che convenga a dio, allora perché non lo fa?” (Epicuro) E Stendhal, molti secoli più avanti, gli fece eco: “Dio ha una sola scusa, che non esiste.” (Stendhal) Lucrezio, seguace dell’epicureismo, affermò in realtà la stessa cosa del fondatore della filosofia cui era votato, ma in maniera molto meno palese, ovvero evitando di nominare la divinità, in tutta la sua opera, e concludendo questa con l’episodio della peste di Atene. A contrapporsi completamente a Lucrezio fu Cicerone, che, nel De natura deorum, assegnò la vittoria del dibattito allo stoico Balbo, che aveva parlato per argomenti ontologici (essendoci gli dei, deve esserci anche la provvidenza), cosmologici (riferimenti all’ordine cosmico) e teleologici (il mondo è fatto per l’uomo). Ed, arrivati a Seneca, si nota che egli produsse uno sconvolgimento nel mondo di risposte che si era tentato di dare alla medesima domanda: infatti tutti quelli che si cimentarono nell’impresa dopo di lui, da Filone ad Epitteto, diedero le sue stesse risposte, anche se con un maggior approfondimento della tematica cosmologica. Solamente Plutarco mostrò di riesumare la visione platonica: come scrive Alfonso Traina «Platone torna attuale, alle soglie di un’epoca di angoscia bisognosa di certezze più fideistiche che razionali». Ed in effetti proprio in quel momento si stava diffondendo la religione cristiana, che introdusse i due concetti, assolutamente nuovi, di fede e speranza. Il ritorno a Seneca, poi, fu incarnato dalla figura di Lattanzio, il quale, citando il filosofo romano e ponendosi di fronte al suo stesso problema (cioè il contrasto fra giustizia e provvidenza), lo risolse con i medesimi argomenti, salvo dire che era necessario aspettare la giustizia divina: in effetti Seneca si era fermato allo stadio più alto della paganità, ma solamente il cristianesimo poteva dare un futuro alla virtus e quindi permettersi di attendere la morte. Dopo la breve parentesi di Plotino, che trattò della conciliazione fra sofferenza e libero arbitrio e dell’origine del male (temi su cui Seneca aveva sorvolato), fu Agostino ad ereditare, ancora, i frutti della speculazione senecana. Tuttavia nell’uomo cristiano la prova serviva a dimostrare quanto fosse forte non la forza morale dell’uomo forte, ma l’amore gratuito dell’uomo pio nei confronti di Dio. Infine Boezio, chiedendo a Dio il perché della discrepanza fra l’ordine cosmico ed il disordine etico del mondo, sostenne che non ci fosse bisogno di un giudice esterno, dal momento che premio e castigo si trovavano nell’animo del saggio. Facendo ciò, di fatto, predicava l’autonomia etica del saggio. Da tale discorso si evince chiaramente come il De providentia si sia posto a cerniera di due ere, determinando un radicale cambiamento nel tipo di risposta offerta ai lettori. Per quanto riguarda la struttura del libro, ipotesi d’incompiutezza sono state avanzate per via di: una citazione di Lattanzio che non trova corrispondenza con il testo, l’insolita brevità, il finale brusco ed il mancato sviluppo di argomenti enunciati nella partitio. Tutti argomenti, quelli interni, contestabili: l’autore infatti annuncia di voler estrarre una piccola parte da un contesto più generale; altri scritti terminano allo stesso modo; infine, la sua struttura, non è lineare, ma sviluppa i suoi argomenti a spirale per ritornare sugli stessi punti ed illuminarne aspetti sempre nuovi. Per quanto riguarda lo stile, esso risente del fatto che l’uomo latino non è un teologo, ma un apostolo della filosofia: di conseguenza non deve solamente ricercare la verità, ma anche proclamarla ed inculcarla. Perciò il pensiero si fa stile e si ha la tendenza ad isolare in sententiae i concetti di maggior importanza. Inoltre, nella sua teodicea, egli esclude l’escatologia, mettendo in luce interiorità, morte ed antropocentrismo (d’altronde afferma addirittura che l’uomo, sopportando i mali, diventa superiore al dio, rovesciando i termini di qualsiasi teodicea): esclude l’escatologia, perché la partita si gioca tutta in questa vita e la morte altro non è che l’ultimo dono concesso all’uomo dalla divinità. Inoltre, se i mali coincidono con le cose esterne, l’appello che egli fa alla patientia diventa un appello all’interiorità. Analizzando i veri “fruitori” della sofferenza, si apre un altro percorso tematico: infatti Seneca, più che antropocentrico, era androcentrico, dal momento che, nella civiltà romana, si era soggetti morali solamente se si era soggetti politici. Donne e bambini, insomma, non contavano nulla. Non che non soffrissero anche loro, ma semplicemente non meritavano che le proprie pene venissero giustificate o rese note. Non valeva la pena di porsi questa domanda. Cosa che fece invece Dostoevskij, il quale, ne I fratelli Karamazov, fece affermare ad Ivan che, se il prezzo dell’armonia comica doveva pagarsi con la sofferenza dei bambini, egli era pronto a restituire a Dio il biglietto d’ingresso, perché non ne valeva la pena. A contrapporsi c’era il cristiano Alëša: la sua religione aveva sostituito al dio impassibile degli stoici uno sofferente, perché, come scrisse Camus, «solo il sacrificio di un Dio innocente poteva giustificare la lunga e universale tortura dell’innocenza». A concludere la riflessione Pascoli, che, intuendo la grandezza del pensiero cristiano, disse che «è un dio che non cadrà mai, perché gli uomini hanno divinizzato il dolore». Ma, come conclude Traina, «questo non risponde ancora alla domanda più antica del mondo, non fa che spostarla un gradino più su, chiedendo il perché della sofferenza di Dio». Problematica e fortuna del De providentia (Ivano Dionigi) Seneca, come afferma egli stesso nelle prime frasi del dialogo, si pose il problema, ma non lo affrontò frontalmente: in parte perché nella sua vita la provvidenza non apparve quasi mai ed in parte perché tale quesito era già da tempo stato classificato dalla scuola filosofica tra le irrisolvibili quaestiones infinitae. Eppure, nello stoicismo, questo era un problema centrale, dal momento che conciliava la libertà umana con il determinismo: ed ecco che ne venne fuori il De providentia. Dialogo sotto forma di discorso giuridico, nel quale imputata è la divinità ed in cui si possono riscontrare tutte le parti tipiche di tale tradizione: prooemium (cap. 1), narratio (cap. 2), propositio e divisio (cap. 3, § 1) probatio dei vari punti e peroratio finale, nella quale il dio interviene direttamente nel discorso che fino ad ora l’ha visto protagonista in negativo, si scagiona ed accusa. Emerge, in ogni caso, una nuova visione dell’uomo: al vir bonus si sostituisce il vir fortis, che ha come valori la milizia morale, l’impegno virile e, soprattutto, la forza interiore. Questo, in unione alla relegazione della prova cosmologica in pochi paragrafi, permette di notare il prevalente interesse antropocentrico ed etico dell’autore. Il quesito del dialogo è un labirinto in cui è facile perdersi, ma che Seneca seppe abilmente destreggiare: dicendo infatti che per natura il bene non può nuocere ai buoni, che il male non li colpisce perché i contrari non si mescolano, che essi mutano ogni cosa che accade loro in bene e che il male è solo apparente, riuscì a rovesciare i termini del problema, al punto che alla domanda «perché i mali capitano agli uomini buoni» rispose che «sono beni, se dispensati ai buoni, mali, se inflitti ai malvagi». Le sue riflessioni derivavano sicuramente da principi stoici, alcuni dei quali riscontrabili anche nel Περὶ προνοίας di Crisippo: mentre i filosofi rivolgevano il favore degli dei a dei generici ἂνθροποι, Seneca sostituì a questi i boni viri; così come la provvidenza stoica sacrificava i diritti della parte in favore del tutto (τὰ ὅλα), quella senecana lo faceva in favore di tutti (universi); alla dialettica dei contrari crisippea, per la quale bene e male erano connaturati ed il secondo esiste va solo in virtù del primo, Seneca contrappose la differenza dei contrari, per la quale erano incompatibili. Altro autore cui contrapporre il latino è Sant’Agostino, che nel De civitate Dei si soffermò su quattro punti, che facevano eco alla dottrina dei contrari di Platone e Crisippo: buoni e cattivi sono accomunati nella sorte presente, in attesa di una ridistribuzione futura di beni e mali; anche se la pena, di conseguenza, è comune, sono diversi la virtù ed il vizio, dimodoché la differenza sta non nella sofferenza, ma in chi soffre; il male non è metafisico, ma etico, in quanto non sussiste autonomamente, ma solamente in quanto mancanza di bene, non come causa efficiente, ma come causa deficiente; è inoltre funzionale e complementare al bene e concorre all’ordine cosmico, in quanto solo la presenza dei malvagi permette di notare anche quella dei buoni. Somiglianza di stilemi c’è: il male visto come prova divina privilegiata, la similitudine con la tempra dell’oro, il fine divino nell’irrobustimento dell’uomo per predisporlo e prenderlo poi con sé; tuttavia ci sono anche notevoli differenze, da non nascondere sotto tali elementi: mentre in Seneca lo scopo era il rafforzamento del saggio, in Agostino la purificazione dell’uomo; il primo rielaborò in maniera originale un materiale non originale, ritornando sul concetto e preferendo l’iterazione alla progressione, mentre il secondo no; diversi i loro auctores, ovvero coloro da cui trassero ispirazione; diversa la concezione del male, che permetteva all’uomo senecano di scoprirsi superiore al dio, mentre condannava quello agostiniano tra l’incommensurabilità del peccato e quella della grazia, sospendendolo fra due abissi che lo chiamavano; diversa la concezione del suicidio, semplicemente “stoica” in Seneca, ma aborrita da Agostino, per il quale esso era la conferma del fatto che i mali potessero dirsi tali. Volendo imporre un confronto tra la grecità e la romanità, nel mondo omerico l’uomo viveva nel segno dell’armonia e non si sentiva isolato dal mondo celeste; solo in quella postomerica divino ed umano si separarono, il primo elemento divenne sempre più sconvolgente e geloso ed alla civiltà della vergogna succedette la civiltà della colpa (emblematizzata dal mito di Edipo), all’epica la tragedia. Passare dalla Grecia a Roma equivale dunque a sostituire la dimensione individuale con quella collettiva, a trasformare la virtus da arte a semplice attività da esercitare, finalizzandola non a se stessi, ma agli altri, alla politica, allo stato. Allora è la città il luogo in cui vanno in scena bene e male. Due esempi sono Cicerone e Seneca: nel primo lo stato è res publica, un luogo della collettività dove quest’ultima acquista forza proprio dalla sua unione ed in cui il male arriva quando l’equilibrio che si viene a creare è turbato (magari per un leader politico malvagio, o quando il bonum proprium sorpassa il bonum commune) e la dicotomia bene-male viene risolta in quella dentro-fuori le mura. Nel secondo autore, al contrario, alla repubblica si sostituisce il principato, che nega la libertà politica, ed al civis viene contrapposto il sapiens; quando fuori c’è il pericolo, l’unico luogo dove si può stare tranquilli è l’interiorità, ed è questa quella verso cui Seneca si rivolge. Il sapiens sembra più vicino al Κῆπος che non alla Στοά, in quanto la genesi del male avviene con il contatto con l’altro. Come scrive Dionigi, «In Cicerone si muore per la patria e per l’altro; in Seneca si muore non per l’altro ma solo a causa dell’altro. In Cicerone la città è il luogo morale entro il quale ci si riconosce buoni di fronte ad un malvagio che si distrugge o si espelle… In Seneca, la città non sarà più che lo sfondo delle occasioni che ci mettono in contatto con gli altri. Il populus senecano non è più l’entità giuridica e morale di Cicerone ma il vulgus corrotto e corruttore. Quel popolo che non vuole verità ma consolazione». De providentia 1. (Introduzione) • § 1: Seneca introduce la trattazione ripetendo la domanda fattagli da Lucilio (richiamata anche nel sottotitolo) ed affermando di parlare in qualità di avvocato degli dei. • §§ 2 - 4: l’autore riassume brevemente la prova cosmologica, facendo notare che l’ordine che caratterizza il mondo non sarebbe possibile se non ci fosse una forza ultramondana a governarlo; tuttavia, dal momento che l’interlocutore non dubita della provvidenza, ma se ne lamenta soltanto, introduce il punto centrale della questione.