Scarica Sintesi di Storia della Letteratura greca - parte II e più Appunti in PDF di Letteratura Greca solo su Docsity! La filosofia del V secolo Empedocle > nasce fra il 490 e il 470 ad Agrigento, restando in contatto con gli ambienti pitagorici e parmenidei; era di nobile famiglia, ma si schierò con la fazione democratica; esercitò la medicina, e spesso la sua figura è avvolta da un alone di mistero che lo vuole un santone mistico, fors’anche per il suo stretto contatto con l’ambiente orfico di Pitagora. La sua filosofia postulava l’esistenza di quattro elementi, che egli chiama “radici”, ossia: fuoco, aria, acqua e terra, rappresentati da corrispettive divinità. Queste sono immutabili ed eterne come l’Essere parmenideo, ma non immobili, bensì in constante movimento. È il movimento stesso che produce la vita: ci sono due fasi, dominate rispettivamente dall’Amore e dall’Odio, in cui però non è possibile la vita; essa è possibile solo nelle fasi intermedie. Ultimo campo di ricerca è quello sull’anima, che egli vede essere stata “punita” da un’originaria condizione di beatitudine; essa è infatti costretta a girovagare sotto varie forme corporee, e trova la beatitudine solo in una purificazione grazie alla propria assoluta moralità. Anassagora > nativo di Colofone in Asia Minore, si trasferì poi ad Atene, attorno al 460, e fece parte della cerchia di Pericle per una trentina d’anni; fu poi condannato a morte con l’accusa di empietà, accusa che i suoi delatori volevano colpisse soprattutto Pericle; fu costretto a lasciare Atene e a scappare. La sua filosofia trova nella teoria dell’Intelletto la sua più grande fortuna: esso ordina e mischia i “semi”, ossia particelle piccolissime e ulteriormente divisibili, che compongono la materia. Il loro movimento rotatorio determina la creazione di nuovi esseri; la prevalenza di un certo tipo di particelle su altre determina la consistenza, l’aspetto e la natura della cosa stessa; la nostra conoscenza è determinata dal possedimento di alcune particelle della cosa che si esamina. Democrito > nacque ad Abdera, sulle coste della Tracia, attorno al 460. Fonti storiche collegano la sua teoria atomistica a Leucippo, che sarebbe stato maestro di Democrito. La materia primordiale e unica, la cui teoria è tratta dai maestri di Mileto, è formata da particelle invisibili ed indivisibili, ossia gli atomi, essi sono pure eterni ed immutabili. Sono tutti uguali, e differiscono l’un dall’altro solo per grandezza, peso e forma. Da tali differenze derivano le diversità delle cose nel mondo sensibile. Gli atomi si aggregano e separano nel vuoto, grazie ad un continuo movimento vorticoso. L’anima è pure mortale. La conoscenza si acquisisce grazie alla penetrazione di sottilissimi atomi attraverso i pori del corpo. Democrito si discosta dai predecessori soprattutto grazie alla diversità dei campi di indagine: astronomia, etica, matematica, linguistica, musica, etc. I Sofisti e Socrate > tramontata quella tipologia di filosofia che vedeva nella ricerca ultima dell’origine dell’universo la propria essenza, trascendendo dunque l’uomo, la filosofia, che ora si concentra in suolo ateniese, mira a scandagliare l’uomo e la sua natura. Questo è l’aspetto che accomuna la Sofistica e Socrate. I primi non costituiscono una scuola, ma trovano nell’utilizzo della parola come fonte di verità e nella professionalità della loro indagine un comune campo d’azione. I Sofisti trovavano nelle istituzioni di Atene il proprio campo da gioco, offrendo la propria abilità retorica e dialettica non alla collettività, bensì ad una cerchia ristretta di allievi, che pagavano lauti compensi per ottenere un loro insegnamento. Da ciò si distingueva Socrate, che per prima cosa non si faceva pagare, e, soprattutto, non era interessato all’insegnamento dell’abilità dialettica, ma della conoscenza stessa. Protagora > nacque nella ionica Abdera, verso il 485. Visse poi ad Atene, dove Pericle gli assegnò il compito di redigere la costituzione di Turii. Fu accusato di empietà. Ci giungono pochi frammenti di una sua opera, ossia i Discorsi demolitori. Qui appare uno strenuo relativismo, che mette in luce l’impossibilità assoluta di ogni indagine esterna all’uomo, che è “di tutte le cosa misura”. In realtà il passo appare polivalente e poco chiaro. È conosciuto anche il suo potente agnosticismo, giacché egli afferma di non poter conoscere gli dei, non avendone prova. La moralità e l’etica andrebbero insegnate, dal momento che non esiste un’etica universale e comune, ma deve essere sviluppata attraverso l’esercizio. Delle sue opere si conoscono anche le Antilogie, nelle quali egli esprime la teoria secondo cui attorno ad un argomento è possibile esprime un’opinione contraria e a favore in maniera indistinta e del tutto credibile: aspetto che va ricollegato al suo profondo relativismo. Gorgia > capostipite della teoria della retorica della Sofistica; evidenzia il carattere “magico” e ipnotico della parola, se usata magistralmente. Egli insegna ai suoi allievi proprio questo. Nacque a Lentini in Sicilia nei primi decenni del V secolo. Giunse ad Atene nel 427. Ci pervengono alcuni titoli delle opere di Gorgia, di cui le più seducenti erano le orazioni: l’Epitafio per i caduti ateniesi nella guerra del Peloponneso, l’Encomio di Elena (che era un’esercitazione) e la Difesa di Palamede, due saggi in difesa di personaggi ingiustamente accusati. A lui si ascrive un potente relativismo che vede l’assoluta impossibilità di conoscenza: su ciò quindi si fonda la possibilità di conoscere e propagandare il verosimile, che Gorgia promette di insegnare tramite l’arte retorica. I Sofisti minori > Prodico di Ceo (di lui ci dà notizia Senofonte, il quale gli ascrive la famosa allegoria di Eracle al bivio), Ippia di Elide (contrapposizione fusis e nomos), Antifonte Sofista (predominanza assoluta del diritto di natura su quello positivo, eguaglianza tra popoli), Crizia (vede la religione come creazione di un “antico sapiente” e dei potenti, che vogliono tenere sotto controllo le menti degli uomini). Socrate > a distinguerlo dalla Sofistica è il principio dell’esistenza della verità come valore assoluto, scansandolo da ogni inutile relativismo. La spiegazione di questo è affidata al dialogo: in questa forma è possibile osservare il dinamismo del pensiero in atto, che giunge autonomamente a cogliere il senso delle cose. Nacque ad Atene verso il 470. Dedicò la propria indagine a scoprire quale fosse il Bene e quali fossero le strade per raggiungerlo. Nel 399 il politico Anito presentò una condanna nei suoi confronti articolata su tre capi d’imputazione: di non credere negli dei della città, di introdurre divinità nuove, di corrompere i giovani. Il malcontento ateniese verso la rinnovata forma democratica, che risentiva dell’ultimo periodo di governo affidato ai Trenta, e la messa in discussione delle convenzioni ataviche della società operata da Socrate, trovò nella sua condanna una sfogo naturale e in lui un potente capro espiatorio. Secondo la propria teoria filosofica, la verità è raggiungibile a gradi: essa può essere colta attraverso una profonda riflessione interna, che Socrate stimola tramite la forma del dialogo. La storiografia del V secolo Sarà Erodoto a definire il campo di indagine della ricerca storica: attraverso l’analisi diretta o indiretta dell’agire umano, il compito dello storiografo è quello si dare testimonianza di tali fatti. In realtà Erodoto rappresenta ancora l’aspetto primitivo di questa disciplina: inserisce fatti non solo acquisiti tramite metodo autoptico e accertamenti delle fonti, ma anche miti e costumi di varie popolazioni. La forma prosaica risulta funzionale al racconto delle varie sfaccettature della realtà. Ecateo di Mileto > nativo della città sulla costa ionica, fu a capo della rivolta contro i Persiani dell’inizio del V secolo. Lo si definisce “logografo”, non ancora storico. Ai connazionali sconsigliò vivamente l’insurrezione, enumerando le potenze militari su cui poteva contare l’esercito nemico. L’opera di Ecateo, ossia la Periegesi della Terra, è un periplo del Mediterraneo ad uso di commercianti e navigatori. La sua attitudine alla realtà è assolutamente laica e improntata ad una visione razionalistica della realtà: rifugge gli aspetti religiosi dogmatici e cerca di considerare il fatto da un punto di vista critico e razionale. Erodoro > nativo di Alicarnasso, dove nacque attorno al 484, viaggiò molto: si recò in Egitto, in Scizia, etc., dove apprese e trascrisse le usanze di molti popoli. Entrò poi in contatto con l’ambiente culturale di Pericle, e ad Atene tenne letture pubbliche della propria opera. Morì a Turii, in Magna Grecia. Alla sua opera venne dato solo successivamente il titolo di Storie, e pure successiva è la sua suddivisione in nove libri, a ciascuno dei quali venne assegnato il nome di una delle Muse. Della sua opera si è molto discusso, soprattutto riguardo alla sua struttura: solo la seconda parte è dedicata alla congiuntura e al successivo scontro tra Greci e Persiani, mentre la prima è dedicata alla Persia e alle popolazioni cui essa venne in contatto. Due sono le tesi principali: si è supposto che dapprima lo storico volesse fare un’opera logografica, incentrata sui costumi e usi delle popolazione, e solo in un secondo momento, dopo il contatto con Pericle, ci sarebbe stato un “cambio di rotta”; la seconda tesi vuole che fin dal principio Erodoto volesse fare un’opera storica. In ogni caso appare evidente come l’oggetto al centro della ricerca di Erodoto sia la Persia e il suo ipertrofico allargamento, fino all’inevitabile scontro con la Grecia. Le storie si concludono nell’anno 478, con un episodio poco significativo: ciò fa supporre che l’opera sia rimasta incompiuta. Nel prologo delle sue Storie, Erodoto parte prima con una leggenda che spiegherebbe l’originaria ostilità tra Greci e Barbari (il ratto delle europee Io ed Elena da parte di uomini d’Asia), ma accantona questi miti, preferendo una spiegazione laica: il re di Lidia Creso fu il primo che portò guerra alle città d’Asia Minore. Da qui il logos lidio, da cui si passa alla storia della Persia. Il II libro tratta dell’Egitto. Il III tratta estesamente della Persia, e dell’avvento al trono del re Dario. Il IV libro tratta di due campagne militari di Dario: contro la Scizia e contro la Libia. Il V libro si concentra sulla rivolta ionica (ha quindi inizio la parte storiografica vera e propria), e sugli aiuti chiesti dai Milesii, cui rispondono solo gli Ateniesi. Il VI libro si concentra sulla disfatta di Maratona. Il VII libro tratta della battaglia delle Termopili, condotta dal nuovo re Serse. Il libro VIII si apre con la battaglia navale dell’Artemisio, seguita dallo scontro cruciale, ossia Salamina. L’episodio di Platea si prolunga per il IX libro, che termina con la conquista di Sesto da parte dei Greci. Sull’attendibilità storiografica dell’opera erodotea si è molto discusso: va comunque considerato come egli non abbia precursori nel proprio campo. L’elemento favoloso e soprannaturale trova ampio spazio nella sua opera, indirizzata ad un pubblico vasto e che richiede intrattenimento Gli storici minori > le Elleniche di Ossirinco, rinvenute in un papiro proveniente dalla località dal medesimo nome, sono un’opera storiografica ora contesa tra Londra e Firenze. La sua attribuzione si deve probabilmente all’ateniese Cratippo. Eforo di Cuma, nato nei primi decenni deo IV secolo, è il primo a concepire il piano di una storia universale, che comprendesse le vicende anche di altre popolazioni. Riservò più ampio sviluppo alla storia recente. Teopompo di Chio nacque pure nei primi decenni del IV secolo e trascorse gran parte della propria vita in esilio a causa delle inclinazioni filospartane. Egli si ripropose di portare a termine l’opera di Tucidide, interrotasi al 410, nel medesimo stile e metodo storiografico. Nelle Filippiche egli narrò poi il regno macedone di Filippo II. In quest’opera si inseriscono vari elementi dello stile di Erodoto, come le digressioni a carattere geo-etnografico. Gli Attidografi > autori di cronache locali ateniesi, in cui l’esposizione storica si univa a notizie sulle istituzioni civili e religiose, su leggende e genealogie, etc. L’iniziatore di questo metodo fu Ellanico di Lesbo. L’oratoria del IV secolo Isocrate > inaugura una nuova stagione per l’oratoria attica: il IV secolo porta con sé ampi sconvolgimenti sociali, che decentrano la polis dal proprio ruolo dominante, e inducono l’individuo ad interrogarsi su di sé. La sua oratoria appare come una vera e propria filosofia, che mira ad insegnare all’uomo come cogliere il kairos, ossia la giusta occasione, e come agire in maniera retta in disparate situazioni. La parola è quasi oggetto di culto, e la raffinatezza formale è oggetto protagonista della sua ricerca. Nacque nel 436 e morì nel 338. Proveniva da una famiglia benestante; fu in rapporto con l’ambiente sofistico. Intorno al 390 egli aprì una scuola, dove l’insegnamento impartito aveva eminentemente carattere retorico, che entrò ben presto in competizione con l’Accademia platonica. La produzione isocratea a noi giunta comprende circa una ventina di orazioni. Nelle sue maggiori orazioni, l’oratore svolgeva tematiche care alla collettività politica di Atene: il rinnovamento dell’Areopago nell’Areopagitico, la celebrazione dell’antica Atene e la delusione per quella nuova nel Panatenaico. È soprattutto in politica estera che si rivolge l’attenzione di Isocrate: nel Panegirico, ad esempio, egli auspica l’unione di tutti i Greci sotto l’egemonia di Atene; nel Filippo, Isocrate comprende l’era del tramonto di Atene, ed auspica ad un retto governo da parte di Filippo, nuovo re di Macedonia. Demostene > egli è inserito molto più di Isocrate nella vita pubblica di Atene; la sua visione si volge ad un passato idealizzato, entro cui Demostene vorrebbe quasi arrestare il corso del presente. Ci restano, a suo nome, una sessantina di orazioni. Nacque ad Atene nel 384 da una famiglia di elevata condizione economica: egli dovette presto cimentarsi nell’eloquenza giudiziaria, per rimediare al danno fatto dai parenti alla morte prematura del padre, i quali avevano dilapidato il patrimonio famigliare. Demostene riprende le tradizionali tendenze antispartane e dà voce al suo integralismo democratico, che si manifesta nell’esortazione a intervenire con la forza. Nel 351 egli pronunciò una delle più famose sue orazioni, ossia la prima Filippica, per ammonire gli Ateniesi che vigilassero sulle iniziative del pericoloso avversario. Si tratta di uno splendido saggio di oratoria appassionata e multiforme. Nel 348 la città fu costretta ad avviare le trattative con Filippo. Nel 344 egli compose la seconda Filippica, in cui ammonisce gli Ateniesi a guardarsi dalle trame di Filippo. Eschine diventa poi il bersaglio della polemica demostenica. Dopo averlo denunciato, pronunciò durante il processo l’orazione Sull’ambasceria corrotta. Degli anni ’40 appaiono pure la terza e la quarta Filippica, dove egli auspica ad una concreta alleanza fra Greci. E in effetti una resistenza ci fu, ma fu subito stroncata nella disastrosa battaglia di Cheronea, che segnò la fine del sistema delle poleis e la confluenza della Grecia sotto l’egemonia della Macedonia. Nel 336 un suo amico e compagno, Ctesifonte, propose di assegnare a lui la corona d’oro per i suoi meriti verso la patria, ma Eschine si oppose, e Democrito pronunciò una delle sue più belle orazioni, ossia Per la corona. Quindi Demostene vinse, ed Eschine dovette andarsene dalla città. Gli anni successivi non furono altrettanto gloriosi: invischiato in un losco affare di corruzione, dovette lasciare Atene e, pochi anni dopo, per non cadere nelle mani di un generale macedone, si diede la morte bevendo una fiala di veleno. Eschine > nacque ad Atene attorno al 390. Prese da subito parte alla vita politica e nel 348 condusse le trattative con Filippo. In seguito a ciò Eschine si schierò definitivamente dalla parte filomacedone. Dopo che fu costretto a lasciare la città a causa di Demostene, si rifugiò in Asia Minore e poi a Rodi. Di lui si conoscono l’orazione Contro Timarco, Sull’ambasceria corrotta, Contro Ctesifonte, etc. Iperide > nacque ad Atene attorno al 390. Era di famiglia facoltosa e fu allievo di Isocrate. Lo troviamo al fianco di Demostene per diversi anni, ma per l’affare di Arpalo (che vedeva Demostene imputato per appropriazione di parte del tesoro pubblico) egli si staccò dall’amico. Conserviamo sei orazioni, in forma più o meno lacunosa. La filosofia del IV secolo Platone > nacque ad Atene nel 427. Dopo aver passato la giovinezza a stretto contatto con la cerchia di Socrate, le disillusioni in campo politico non tardarono ad arrivare: prima il regime dispotico dei Trenta, poi, con il ritorno della democrazia, la condanna a morte del maestro di vita. Si allontanò dunque da Atene, essendo stato discepolo di Socrate, e si recò prima a Megara, poi in Sicilia e in Magna Grecia, dove venne a contatto con gli ambienti pitagorici. In Sicilia fu alla corte di Dionisio I, tiranno di Siracusa. Platone non ripose alcuna speranza in lui, ma nel cognato Dione, il quale aveva accolto con entusiasmo il suo progetto politico. Lasciò l’isola perché in contrasto con Dionisio, e si recò a Egina, dove fu fatto schiavo, ma venne presto riscattato, quindi tornò ad Atene, dove fondò l’Accademia, dal nome dell’eroe cui era consacrato quello spazio. Qui egli rimase per tutta la vita, ad eccezione di due viaggi a Siracusa (dove nel frattempo regnava Dionisio II), l’ultimo dei quali fu un vero trauma per il filosofo. Morì nel 347, lasciando in eredità i propri averi ai suoi discepoli; l’Accademia resse per altri otto secoli, quando fu fatta chiudere da Giustiniano nel 529 d.C. Il fine principale dell’Accademia era l’educazione dei giovani per l’inserimento nella vita pubblica. Alla morte di Platone, scolara fu eletto Speusippo. Il corpus delle sue opere è raccolto in nove tetralogie. L’ultima opera di Platone furono le Leggi, pubblicate postume. Appare quasi una certezza che i dialoghi siano stati scritti successivamente alla morte di Socrate, giacché il maestro non voleva mettere per iscritto le proprie dottrine. Possiamo individuare due tipologie di dialogo: quello “drammatico”, in cui i personaggi sono indotti a parlare in prima persona, e quello “diegematico”, nel quale un testimone al dialogo lo riferisce a più ascoltatori non presenti. I dialoghi possono così essere messi in successione cronologica: Apologia, Critone, Protagora, Gorgia, Menone, Simposio, Fedone, Repubblica, Fedro, Leggi. Molte delle sue teorie, tuttavia, non appaiono nelle sue opere, ma sono ricavabili da testimonianze indirette: questo è spiegabile dal momento che il dialogo vivo era ritenuto principale conduttore di verità, dunque alcune considerazioni non era possibile ricercarle ed esprimerle nella forma scritta. Secondo la teoria di Platone, il mondo sensibile dipende dall’esistenza di Idee eterne ed immutabili; al di là di esse si distinguono due Principi, ovvero l’Uno e la Dualità. L’Essere si definisce quindi come coesistenza e cooperazione di due principi. Apologia di Socrate: essa reinterpreta liberamente la difesa tenuta da Socrate davanti al tribunale che lo condannò a morte. Alla miseria morale dei propri accusatori Socrate oppone la propria verità. Critone: ad attendere Socrate c’è il suo valente amico, che predispone tutto per l’evasione. Ma Socrate rifiuta, giacché si comporterebbe da ipocrita. Una personificazione delle Leggi stesse espone gli argomenti. Protagora: qui Socrate discute con Protagora se la virtù possa essere insegnata. Socrate dapprima esprime la concezione secondo cui la virtù è un dono innato degli dei all’individuo. Poi le posizioni si rovesciano, e il problema di fondo rimane aperto. Gorgia: punto di partenza è la natura della retorica; Socrate la critica aspramente, perché essa altera i significati di giusto ed ingiusto. La felicità consiste nella moralità interiore. Menone: primo accenno alla dottrina delle Idee. Socrate fa risolvere ad uno schiavo un problema di geometria, ed è mediante l’anamnesi che questi ci riesce. Simposio: Eros è amore del bello e desiderio di possederlo in eterno. Fedone: con la figura di Socrate e delle sue ultime ore di vita, Platone si spinge a postulare l’immortalità dell’anima, tramite la dottrina della reminiscenza. Repubblica: la politica rappresenta il tema di fondo. Prospetta la struttura dello stato ideale, basato su una rigida gerarchia: importanza fondamentale riveste l’educazione. Nell’organismo statale si riflette la tripartizione dell’anima in ragione, volontà e passione. Qui trova posto anche il mito della caverna, funzionale alla spiegazione della teoria delle Idee. Attraverso il mito di Er, poi, si spiega il principio dell’immortalità dell’anima. Qui prospetta tre classi: quella dei governanti, quella dei custodi, quella dei lavoratori. Un processo di selezione individua chi deve far parte di ciascuna classe. L’arte viene pure presentata come strenua e arida imitazione del mondo sensibile. Fedro: opposizione alla retorica. Leggi: opera molto ardua per l’aspetto dello stile. Aristotele > nacque nel 384 a Stagira, nella penisola Calcidica. Si trasferì ad Atene, dove per vent’anni frequentò Platone e la sua Accademia. Dopo che la direzione della scuola passò a Speusippo, Aristotele si trasferì ad Asso, per poi passare a Mitilene insieme al fedele amico e allievo Teofrasto. Nel 343 fu scelto da Filippo di Macedonia come precettore del figlio Alessandro. Nel 335 Aristotele tornò ad Atene, dove fondò la propria scuola: questa prese il nome di Liceo, grazie al vicino santuario di Apollo Liceo, o di Peripato, giacché egli soleva svolgere le lezioni presso un porticato. Dopo che Alessandro morì, egli fu costretto a rifugiarsi a Calcide, dove morì poco tempo dopo. Si distinguono due tipologie di opere aristoteliche: quelle “essoteriche”, ossia destinate alla pubblicazione ma andate perdute (ci rimane solo la Costituzione di Atene; esse comunque si distinguevano in dialoghi ed opere erudite), e quelle “esoteriche” (o “acroamatiche”), costituite invece da appunti che il filosofo concepisce ad uso interno della propria scuola. La tradizione ha conservato solo l’ultimo gruppo di opere: queste, passate di mano in mano ai suoi discepoli, furono riportate alla luce dal filosofo Andronico di Rodi, che le mise assieme e diede loro la forma di corpus quale ora è giunta a noi. Studi recenti hanno perciò messo in rilievo che non si tratta di una raccolta unitaria ed omogenea, ma di una raccolta eterogenea e quasi in “work in progress”. Il corpus si apre con una sezione denominata Organon, riservata alla logica, necessaria per la speculazione filosofica, segue il De interpretatione, che suddivide le varie parti del discorso, e la parte più importante, ossia la trattazione del sillogismo, in Analitici I e Analitici II. Segue la Fisica, ossia la parte filosofica di maggior rilievo, nella quale tratta i principi fondamentali del mondo sensibile. Ad essa seguiva la Metafisica, comunque non portata a termine, che trattava dei principi essenziali dell’Essere supremo. Ci pervengono anche opere di etica: l’Etica nicomachea, l’Etica eudemea, la Grande etica. Dell’ultimo periodo sono la Retorica e la Poetica, sulla cui estensione si è molto discusso: è comunque probabile che l’ultima comprendesse due libri, di cui solo il primo, che tratta della tragedia e accenna alla commedia, ci è pervenuto. Aristotele tende ad assottigliare quel divario che aveva aperto la filosofia di Platone, ossia separando nettamente il mondo sensibile, visto come imperfetto e fallace, dal mondo delle Idee. Aristotele dapprima imposta una nuova metodologia di analisi del reale: alla conoscenza presiede la logica, i cui elementi determinano la nostra conoscenza della realtà. L’universale stesso è oggetto della sua ricerca: esso è presente nell’essere, come forma immanente; ciò che viene determinato dalla forma è la materia; ogni sostanza esiste in quanto partecipe di forma e materia. Nella materia si trova un “essere in potenza”, che diviene “essere in atto” quando riceve la forma. Tale passaggio si realizza attraverso il movimento, che è prodotto da un precedente atto. Il movimento non è fine a se stesso, ma si propone il compimento di uno scopo. Il fine ultimo del movimento è l’Essere supremo, Dio. Questo è anche la causa del movimento, ovvero il Motore Immobile. Esso è atto puro, essendo privo di potenza. È forma non partecipe della materia. L’elemento fondamentale per una classificazione degli esseri viventi è l’anima, che è il principio della vita. Ci sono varie funzioni dell’anima: quella nutritiva e generativa, quella intellettiva. L’origine delle conoscenze sta nella sensazione. Non è comunque chiaro cosa Aristotele pensasse della continuazione dell’anima dopo la morte: sembra che nella sua concezione l’unica a sopravviverle fosse la parte intellettiva; il fine ultimo dell’uomo risulta essere la felicità; questa si raggiunge quando l’anima si conforma alla vita morale. Esistono due tipi di virtù: quelle dianoetiche, come la sapienza, ed etiche. Nella Poetica, Aristotele analizza specificamente il fenomeno tragico, ritenendo il teatro una “mimesi” della realtà. Il fine ultimo di questo tipo di rappresentazione risiede nella catarsi dell’anima, ossia il deflusso liberatorio delle passioni. Altro campo d’indagine è quello sull’essenza stessa della forma artistica: ritiene che il valore universale della poesia rispetto alla storiografia, portatrice del particolare, risieda nella messa a racconto dell’eikos, ossia del verosimile; lo storiografo, invece, è obbligato a descrivere la realtà quale è: in ciò sta la supremazia dell’arte poetica rispetto ad ogni altra forma artistica. Allievo e successore della reggenza del Peripato fu Teofrasto, nato nel 370 ad Ereso in Lesbo. Delle sue opere se ne conservano tre: due sulla botanica e una, i Caratteri, risulta essere un compendio e una raccolta di trenta tipi umani, analizzati secondo la propria forma e propensione caratteriali. Si è supposto che essi costituissero un manuale per la rappresentazione comica, anche per la forte originalità dell’opera, dato che non si conservano altre opere simili nella letteratura greca. La commedia di mezzo Aristotele individua due tappe fondamentali nell’elaborazione comica: quella rappresentata da Aristofane, e quella rappresentata da Menandro. Già la critica antica, tuttavia, aveva messo in rilievo come ci fosse stata una parte della commedia, di cui non ci pervengono prove, a mezzo tra sua vita è il poema (che conta circa 6000 versi) in esametri intitolato Argonautiche, giunto a noi integralmente. La poesia di Apollonio appare improntata sulla raffinatezza e la ricercatezza stilistiche proprie del suo tempo, ma non esita a distanziarsi da Callimaco per le tematiche trattate; il suo modello è l’epos omerico, visto come imprescindibile punto di riferimento, pur essendo oggetto di modifiche strutturali profonde. Il tema centrale dell’opera è l’impresa affidata a Giasone e ai suoi compagni, che devono giungere in Colchide per recuperare il vello d’oro, in possesso del re Eeta. L’impresa gli era stata affidata da Pelia, che aveva usurpato il trono al padre di Giasone, di cui egli era fratellastro. L’episodio apparteneva alla tradizione epica più remota, figurando già in Esiodo e in alcuni poemi del Ciclo. Venne ripreso anche nella Medea di Euripide. La narrazione lineare è spesso intervallata da digressioni su aspetti minuti sovente a sfondo eziologico, come voleva il gusto dell’epoca. Il I libro parte da un prologo di matrice omerica, che espone pure gli antefatti, per concludersi con l’episodio, famoso, del ratto del giovinetto Ila ad opera delle Ninfe, che suscita dolore in Eracle, il quale si rifiuta di ripartire per la spedizione. Nel II libro è narrato tutto il viaggio fino all’arrivo in Colchide, dopo una serie di avventure come quella della liberazione del vecchio e cieco Fineo dalle Arpie. Il III libro introduce la figura di Medea, figlia del re Eeta. A quel punto Medea si innamora di Giasone, e il racconto della sua passione e il ritratto psicologico dell’eroina risultano gli elementi più riusciti dell’intero poema. Per ottenere il vello, Giasone dovrà aggiogare due tori spiranti fuoco, seminare un campo e uccidere i guerrieri che vi nasceranno. Riesce nell’impresa, ma solo per l’aiuto di Medea, cui Giasone promette di portarla assieme in Grecia. Il IV libro narra del ritorno in patria, dopo che Medea intima all’eroe di partire presto, giacché il padre potrebbe aver scoperto la verità. Nel periglioso viaggio si notano gli echi omerici dell’Odissea: Giasone incontra le sirene, Circe, Scilla e Cariddi, etc. Infine hanno luogo le nozze tra Giasone e Medea. L’introspezione psicologica di Medea risente dell’influsso della tragedia. Il ritratto di Giasone, per converso, ne fa un personaggio inconsistente e mediocre: si può parlare di “mediocrizzazione” dell’eroe epico, nel senso che nella figura eroica non si trovano più quegli ideali che avevano mosso i possenti eroi epici. Riano ed Euforione > poeti attivi nella seconda metà del III secolo, attingono alla materia epica per i propri epilli: il primo trattando della materia sulle gesta di Eracle, il secondo della dinastia degli Alevadi in Tessaglia. La poesia didascalica di Arato e Nicandro > la poetica ellenistica amava richiamarsi ad Esiodo, giacché questo si opponeva ai poemi omerici per la relativa brevità della propria opera, e per la capacità analitica nei confronti della realtà. Il primo, Arato, scrisse un poema intitolato Fenomeni, che trattava di moti celesti e di astronomia, oltre che di meteorologia. Egli si formò nell’ambiente stoico dell’inizio del IV secolo. Fu quindi uno dei primi poeti ellenistici. Nicandro di Colofone, invece, scrisse un’opera dal titolo Theriakà, sui rimedi contro i mali attraverso i veleni. Va rintracciato come il didascalismo dell’età età ellenistica serva solo da facciata nei confronti dell’intento intellettualistico più profondo, che animava realmente gli scrittori dell’epoca. Teocrito > con lui gli antichi facevano cominciare il genere dell’idillio, ossia della poesia bucolica, che sceglie i propri personaggi tra pastori e contadini. L’origine di questo indirizzo poetico va ricercato nella terra natale di Teocrito, ossia la Sicilia: qui ritroviamo un’ampia tradizione di componimenti a sfondo agreste, come il dramma siceliota di Epicarmo, e il mimo, campo in cui si cimentò pure Teocrito. Dubbia è la destinazione dell’opera pastorale teocritea: si è supposto che questa fosse volta alla recitazione (in effetti i suoi componimenti ben si prestano a questo obiettivo), oltre che alla lettura personale. Nella sua opera ravvediamo pure l’intento di fuga dal progressivo urbanesimo che stava colpendo le città greche, verso un più genuino e allettante paesaggio agreste. Teocrito, nativo di Siracusa, visse pure ad Alessandria, dove venne a contatto con Callimaco, di cui condivideva le idee poetiche. Visse anche sull’isola di Cos. Il corpus teocriteo comprende circa 30 carmi. Qui troviamo produzioni di diversa natura: epilli, mimi, idilli, encomi. Sul significato del termine idillio si è molto discusso: in origine non aveva sicuramente la valenza che ha ora, non indicando quindi un poemetto specificamente bucolico; il termine era più generico: lo si collega al termine “eidullion”, che significa forma, aspetto, forse alludendo ad un componimento a carattere descrittivo, un bozzetto. Nel Tirsi troviamo la descrizione di un dialogo tra un pastore e un cantore: il primo chiede al secondo se gli è possibile cantare della morte per amore di Dafni, un suo amico pastore, figura alla quale viene ricollegata l’origine stessa della poesia bucolica. Per compiacerlo, egli gli dona pure una coppa istoriata, oggetto di un’ampia e raffinata descrizione. La tematica erotica appare in generale molto utilizzata per l’idillio. Altro carme in cui il motivo centrale è quello erotico è il Ciclope, nel quale Polifemo canta una serenata all’amata Galatea, che non lo corrisponde. Infine il ciclope si rasserena al pensiero che altre donne sarebbero ben liete di dilettarsi con lui. Divertente mimo sono le Siracusane, incentrate su due donne siceliote, Prassinoa e Gorgo. La prima scena si svolge nella casa di Prassinoa, dove è venuta in visita di Gorgo. Le amiche sparlano rispettivamente dei loro mariti. Escono di casa, inoltrandosi tra la folla, e raggiungono il palazzo del re Tolemeo, aperto per un’occasione festiva. Uno degli epilli più conosciuti è poi l’Ila, che riprende la materia trattata da Apollonio nelle Argonautiche. L’ipotesi più plausibile è che l’opera di Teocrito sia posteriore a quella di Apollonio, per la struttura ellittica e a tratti più complessa dell’opera. L’amore appare in tutta la sua disillusione nell’opera teocritea: così il ciclope non avrà mai Galatea, Dafni addirittura si suicida, etc. Mosco e Bione > il primo si tramanda fosse vissuto attorno al II secolo. La sua fama è dovuta soprattutto grazie all’epillio Europa, dove egli descrive il ratto di Europa da parte di Zeus. L’arguta minuzia dei particolari raffigura in successione l’arte figurativa, tendenza che si esprimerà con maggior tono successivamente. Del secondo, pure lui siceliota, si conosce un Compianto di Adone, epillio che narra lo strazio di Afrodite di fronte al corpo dell’amato. In questo si nota un potente patetismo che domina tutta la scena. Il mimo e la poesia giambica > iniziatore di questo genere fu Eroda, nato verso la seconda metà del III secolo sull’isola di Cos. Egli scrisse “mimiambi”, ossia il corrispettivo mimo di Teocrito, che scrive in esametri, in metro giambico, riprendendo la tradizione ipponattea che lo aveva reso celebre. Si discute ancora se i mimi fossero destinati alla fruizione teatrale o fossero destinati alla semplice lettura. Poeti giambici e satirici > Cercida di Megalopoli visse nel III secolo. Sono attestati i Meliambi, in metri lirici: il contenuto satirico (perciò giambico) dava questo tipo di titolo all’opera. Le tematiche sono pure riprese da Ipponatte, come quella della ricchezza che viene distribuita in maniera ingiusta. Altri autori furono Macone, rinomato autore di alcune commedie, di cui resta un’opera a sfondo erotico. L’epigramma > le origini di questo genere letterario coincidono con la forma letteraria greca più antica, ossia la Coppa di Nestore, risalente agli ultimi decenni dell’VIII secolo, formata da un trimetro giambico e da due esametri. Questa poesia risulta ancora rudimentale ed è anonima, al pari di altri componimenti analoghi. Gli epigrammi sono parte integrante di tombe, offerte votive, monumenti. Nel corso del IV secolo l’epigramma assume una sempre più marcata forma letteraria, come risulta da quelli attribuiti a Platone. Con l’Ellenismo l’epigramma ottiene una consacrazione definitiva. La sua sede risulta il libro. I motivi a fondo sono l’iscrizione sepolcrale e l’offerta votiva. Anche la tematica erotica è variamente trattata. Nella misura fulminea dell’epigramma si misura la dimensione fulminea del racconto. Il distico elegiaco è la struttura metrica di gran lunga più frequente. Tutta la produzione epigrammatica greca si sviluppa per circa un millennio: essa parte dal V secolo a.C. per concludersi nel V secolo d.C. Possiamo affermare che gli epigrammi giunti a noi siano il frutto della più fiorente produzione, raccolta probabilmente nell’XI secolo nella cosiddetta “Antologia Palatina”, scoperta nell’omonima biblioteca agli inizi del ‘600. Essa contiene circa 3700 epigrammi, appartenenti a 340 poeti diversi. L’Antologia è suddivisa in 15 libri, in cui si riflette l’aggregazione di complessi minori intorno ad un nucleo fondamentale. Intorno al 1300, il monaco e filologo alessandrino Massimo Planude raccolse un’altra antologia, detta Antologia Planudea, che contiene circa 400 epigrammi. Una raccolta di cui si abbia più precisa informazione è quella della Corona di Meleagro: in essa Meleagro aveva raccolto epigrammi suoi e di altri quarantasei autori. Il III secolo vide poi una straordinaria fioritura del genere epigrammatico. Questa fioritura ha determinato una prolissa produzione: già la critica antica tendeva suddividere tale produzione in diverse scuole, a seconda del contesto e delle tematiche trattate. Una prima demarcazione esiste tra gli epigrammisti che usano il dialetto dorico, che trattano di tematiche naturali e realistiche, e quelli che utilizzano il dialetto ionico, la cui tematica prediletta è l’eros. Esempi dell’indirizzo dorico sono Anite, attivo a cavallo tra III e II secolo, e quindi fra i primi epigrammatici dell’età alessandrina, che tratta della morte prematura di giovani donne; Nosside, considerata quasi erede della poetica saffica, che tratta quindi di tematica amorosa; Leonida, che condusse una vita raminga e difficile, la cui maggior parte della produzione era incentrata su dediche votive e iscrizioni funerarie, dove è riprodotto un ambiente popolaresco e povero. Esempi della corrente ionica sono invece Asclepiade, attivo nell’ambiente alessandrino, le cui tematiche maggiormente trattate sono l’amore e il simposio; Posidippo e Alceo. Meleagro di Gadara, in Palestina, nato verso il finire del II secolo, è considerato l’iniziatore di una nuova corrente dell’epigramma, che ha il proprio epicentro nel Vicino Oriente, e viene definita “fenicia”. A lui si ascrive una delle più antiche raccolte passate all’Antologia Palatina, la cosiddetta Corona. Il suo tema prediletto è l’amore. Meleagro è il cantore lieve e disincantato di una società tranquilla. La prosa dell’Età ellenistica Polibio > all’interno della pletora di storici che scrivono durante l’Età ellenistica, fra i quali troviamo moltissimi adulatori di Alessandro, spicca Polibio, che polemizza chiaramente contro i propri predecessori, che avevano abbassato il livello del criterio storiografico. Nacque a Megalopoli, in Arcadia, verso la fine del III secolo, da una famiglia benestante ed in vista (il padre Licorta ebbe un ruolo determinante nella Lega achea). Prese ben presto parte nella vita pubblica, nella quale prese posizione antiromana. Dopo la vittoria di Roma in Macedonia, con la sua definitiva sconfitta nel 168, Polibio venne accusato di aver tenuto un atteggiamento neutrale, e venne deportato a Roma per essere sottoposto a processo, che in realtà non ebbe mai luogo. Entrato in contatto con la cerchia degli Scipioni, Polibio ottenne di restare in Roma, ed ebbe modo di studiare in modo approfondito i costumi, le tradizioni e le istituzioni romane, potendo pur indagare i motivi della grandezza dell’appena nata potenza. La sua permanenza venne intervallata da numerosi viaggi al seguito di Scipione, durante i quali egli potè accrescere la propria conoscenza geografica. Assistette alla distruzione di Cartagine (146). Nello stesso anno ci fu la definitiva dissoluzione della Lega achea. La sua opera più conosciuta sono le Storie, che contano ben 40 libri, e spaziano dal 264 al 144. Possediamo per intero solo i libri I-V. I primi due libri erano dedicati ad un’esposizione riassuntiva degli avvenimenti dal 264 al 220. A partire dal libro VII subentra un criterio annalistico, con qualche digressione. Il libro VI era dedicato alla teoria delle costituzioni e all’analisi delle cause che determinarono la grandezza di Roma. Risulta verosimile che lo storico abbia cominciato la composizione delle Storie attorno al 160, e che poi le avesse gradualmente continuate. L’opera storiografica di Polibio poggia su una vasta teorizzazione storiografica: deve essere, in primo luogo, pragmatica. Non deve presentare nessun tipo di abbellimento retorico né di stile, ma totalmente oggettiva e rispondente al vero; deve essere fondata su fatti politici e militari: l’opera si rivolge, infatti, con l’intento educativo che le è intrinseco, a uomini politici così come strateghi militari. Anche l’uso dei discorsi diretti deve essere limitato e sottoposto ad attento vaglio. Sulla scia di Tucidide, Polibio compie una rigorosa distinzione tra causa vera (aitia) e il pretesto o causa formale (profasis) e l’inizio. Il carattere universale della storia è un altro dei suoi requisiti fondamentali. Egli dedica un’ampia parte della propria opera all’analisi delle cause della grandezza di Roma: il fattore essenziale è rappresentato dalla sua grandezza politica, ossia la costituzione mista in cui si fondono secondo un efficace equilibrio monarchia (i consoli), l’aristocrazia (il senato) e la democrazia (gli organi popolari). A ciò si aggiunge la poderosa forza dell’assetto militare. Altra teoria centrale alla sua filosofia storica è quella dell’anaciclosi, ossia del ritorno ciclico delle costituzioni. Esistono tre forme di “buon governo”: monarchia, aristocrazia e democrazia. Ad esse corrispondono altrettante forme “cattive”, ossia: tirannide, oligarchia e oclocrazia. Le tre forme buone sono necessariamente volte alla corruzione, per poi ricominciare con l’intero percorso. La lingua da lui utilizzata nell’opera è la medesima koinè utilizzata nelle cancellerie degli stati ellenistici. La filosofia Epicuro e l’epicureismo > egli nacque a Samo nel 341. Si sistema ben presto ad Atene, dove fonda la propria scuola filosofica, denominata Giardino perché l’aveva stabilita nel giardino della casa che aveva acquistato. Scrisse moltissimo. Ci restano soltanto tre sue lettere: A Erodoto, A Pitocle, A Meneceo. I papiri semicarbonizzati di Ercolano, portati alla luce nel 1738 ed ancora oggi oggetto di studio ed approfondite letture, ci consentono di recuperare numerosi frammenti della sua opera più importante, ossia il trattato Sulla natura. Anche Lucrezio, col suo De rerum natura, ci offre una preziosa testimonianza indiretta sulla filosofia di Epicuro. Il fine della sua dottrina è di far raggiungere all’uomo la felicità. L’etica prevale, quindi, sulla logica e sulla fisica. Quest’ultima risulta improntata su quella di Democrito, con un’importante aggiunta, ossia il concetto di deviazione atomica. La liberazione dell’uomo dalla paura delle divinità e della morte, è altro elemento portante della sua filosofia: gli dei vivono negli intermundia, non interessandosi dell’uomo; quando c’è l’uomo non c’è la morte, e viceversa. L’etica mira al soddisfacimento del piacere, non inteso come fugace e inappagate (cinetico), ma duraturo ed essenziale (catastematico). In questo modo, ovvero con l’eliminazione progressiva del dolore e del turbamento dell’animo, è possibile la via della felicità. Il cosiddetto “tetrafarmaco” risulta essere la