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Sintesi Manuale di Diritto Penale - Parte Generale - Marinucci, Dolcini, Gatta - 12° Ed., Dispense di Diritto Penale

Vendo riassunti del Manuale di Diritto Penale - Parte Generale Marinucci, Dolcini, Gatta 12° Edizione (ultima) Aggiornato alla Cartabia

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 31/08/2023

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Scarica Sintesi Manuale di Diritto Penale - Parte Generale - Marinucci, Dolcini, Gatta - 12° Ed. e più Dispense in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! Manuale di Diritto Penale Parte Generale Marinucci – Dolcini – Gatta 2 Capitolo I Legittimazione e compiti del diritto penale Teorie della pena e tipo di Stato Che cosa legittima il ricorso dello Stato all’arma della pena? La risposta a tale quesito viene offerta dalle teorie della pena, che possono ricondursi a tre filoni: 1. Teoria retributiva: la pena statuale si legittima come un male inflitto dallo Stato per compensare (retribuire) il male che un uomo ha inflitto a un altro uomo o alla società. Nella forma più primitiva, questa teoria trova espressione nella legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente). La teoria viene designata come assoluta, ossia svincolata dalla considerazione di un qualsivoglia fine da raggiungere: si punisce perché è giusto, non perché la pena sia utile in vista di una qualsivoglia finalità. 2. Teoria della prevenzione generale: la pena è un mezzo per orientare le scelte di comportamento della generalità dei suo destinatari facendo leva sugli effetti di intimidazione correlati al contenuto afflittivo della pena. Si confida che col tempo si crei nella collettività una spontanea adesione ai valori espressi dalla legge penale. 3. Teoria della prevenzione speciale o individuale: la pena è uno strumento per prevenire che l’autore di un reato commetta in futuro altri reati. Questa funzione assume tre forme: a. La risocializzazione (reinserimento nella società); b. L’intimidazione; c. La neutralizzazione (rendere inoffensivo l’autore del reato). Non esiste una teoria della pena che si imponga come vincente: la legittimazione della pena varia a seconda del tipo di Stato in cui si pone il problema. Struttura del reato e tipo di Stato Premessa Il reato è un’entità giuridica storicamente condizionata sia nella forma, sia nei contenuti. La secolarizzazione del diritto penale La storia del diritto penale moderno è segnata da una svolta epocale: il passaggio dall’equazione “reato = peccato” all’equazione “reato = fatto dannoso per la società”, cioè dalla repressione di comportamenti puniti in quanto contrastanti con la legge divina, alla repressione dei soli comportamenti che mettono in pericolo o ledono beni individuali o collettivi. Questa svolta viene preparata dall’opera pionieristica dei giusnaturalisti, che caldeggiano uno Stato secolarizzato guardiano della pace esteriore. È però con l’illuminismo che si consolida la separazione tra reato e peccato e il primato dell’oggettivo sul soggettivo (Cesare Beccaria). La secolarizzazione del diritto penale si inserisce in un più vasto movimento ideale volto alla laicizzazione complessiva dello Stato: lo Stato teocratico cede progressivamente il passo ad uno Stato laico e liberale, fondato da uomini per scopi immanenti all’umana società e portatore dei valori della tolleranza civile, della libertà religiosa e dell’inviolabilità della coscienza. In Italia, il modello liberale di diritto penale si afferma stabilmente nell’Ottocento, trovando compiuta teorizzazione nell’opera di Francesco Carrara. La concezione del reato che assume quale pietra angolare il fatto dannoso, e assegna a dolo e colpa il ruolo di meri limiti alla responsabilità dell’autore del fatto, domina nella dottrina penalistica italiana dell’Ottocento e del Novecento e viene fatta propria dal legislatore sia nella codificazione del 1889, sia in quella del 1930. Suggello finale dell’impronta oggettivistica del nostro diritto penale è il rango costituzionale del principio di offensività, per cui non c’è reato senza offesa ai beni giuridici. 5 • Il principio di proporzione è immanente ai principi costituzionali di eguaglianza- ragionevolezza (art. 3 Cost.), e della rieducazione del condannato (art. 27, co. 3, Cost.): l’ampia discrezionalità del legislatore nella determinazione del trattamento sanzionatorio delle fattispecie criminose è sindacabile solo ove venga superato il limite della manifesta irragionevolezza, oppure del manifesto difetto di proporzionalità che pregiudica il finalismo rieducativo della pena (Corte Cost., sent. n. 136/2020). • Il principio di sussidiarietà è invece ricollegabile all’art. 13, co. 1, Cost., ove si riconosce carattere inviolabile alla libertà personale: infatti, le sanzioni penali oggi contemplate nel nostro ordinamento incidono tutte, indirettamente o direttamente, sulla libertà personale. Ciò vale anche per le pene pecuniarie. In definitiva, in Italia il ricorso alla pena da parte del legislatore si legittima per finalità di prevenzione generale, entro i limiti imposti dal principio di rieducazione del condannato, a tutela proporzionata e sussidiaria di beni giuridici contro offese inferte colpevolmente. La legittimazione dell’inflizione della pena da parte del giudice Lo scopo della pena nello stadio giudiziale: rieducazione sotto il limite della colpevolezza Qual è lo scopo che legittima l’inflizione della pena e che deve orientare le scelte del giudice nella commisurazione della pena? La Costituzione individua il fondamento e la legittimazione della pena anche in questo stadio: affermando che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, l’art. 27, co. 3, Cost. impone al giudice di scegliere la pena più idonea a prevenire il rischio che il reo delinqua nuovamente, intimidendolo o promuovendone il reinserimento nella società. Secondo la stessa logica, il giudice dovrà poi operare l’ulteriore scelta del quantum di pena. Il principio di colpevolezza (art. 27, co. 1, Cost.) vincola dunque non solo il legislatore nella costruzione dei tipi di reato, ma anche il giudice nella commisurazione della pena: nella commisurazione della pena le considerazioni di prevenzione speciale incontrano pertanto un limite invalicabile segnato dalla colpevolezza per il singolo fatto. Il ruolo della prevenzione generale L’inflizione della pena da parte del giudice trova un ulteriore fondamento giustificativo nelle esigenze di prevenzione generale dei reati. Che le pene minacciata dalla legge si traducano in concreto in sede di condanna è funzionale alla prevenzione generale non solo come intimidazione, ma anche come orientamento culturale. La prevenzione generale, mentre concorre a legittimare l’inflizione della pena da parte del giudice, non può però svolgere nessun ruolo nella commisurazione della pena: pene esemplari si porrebbero infatti in contrasto sia col principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, co. 1, Cost.), sia con il principio di dignità dell’uomo (art. 3, co. 1, Cost.). Prevenzione speciale e pene brevi: sospensione condizionale e sostituzione Una volta che il giudice abbia commisurato la pena, può aprirsi un’ulteriore fase in cui lo stesso giudice può disporre che la pena non venga eseguita (c.d. sospensione condizionale della pena) ovvero può sostituirla con pene diverse e meno gravose di quella inflitta (c.d. sostituzione della pena detentiva breve, ossia non eccedente i due anni). In questa fase, quale criterio per orientare i poteri discrezionali del giudice domina incontrastata l’idea di prevenzione speciale, evitando all’autore del fatto gli effetti desocializzanti del carcere. La legittimazione dell’esecuzione della pena da parte del potere esecutivo Il fondamento special-preventivo dell’esecuzione della pena Al di fuori dei casi in cui la pena sia stata sospesa, la pena inflitta dal giudice deve essere eseguita. Questo compito è affidato a diversi organi del potere esecutivo: l’apparato dell’amministrazione penitenziaria, la polizia penitenziaria e le cancellerie presso il giudice dell’esecuzione). 6 Per quanto riguarda la pena detentiva, la sua esecuzione deve essere orientata, per quanto possibile, verso finalità di prevenzione sociale: più precisamente, deve essere orientata allo scopo di rendere possibile la rieducazione del condannato, proponendosi di aumentarne le chances di reinserisi nella società libera nel rispetto delle sue regole. I limiti alla funzione rieducativa Nella fase dell’esecuzione, la ricerca della rieducazione del condannato incontra una serie di limiti: • L’opera di rieducazione non può essere condotta coattivamente: la rieducazione deve assumere la forma dell’offerta di aiuto, non della trasformazione coattiva della personalità; • La rieducazione deve cedere il passo, almeno in parte, alla neutralizzazione del condannato, qualora questi non appaia suscettibile né di essere reinserito nella società attraverso l’esecuzione della pena, né appaia sensibile ai suoi effetti di intimidazione. Una parziale inversione di rotta è stata segnata dalla Corte costituzionale con riferimento alle discipline dettate dagli artt. 4-bis ord. penit e 41-bis ord. penit. Quanto all’art. 4-bis, la Corte ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale: • Nella parte in cui escludeva l’applicazione di alcune ipotesi di detenzione domiciliare della donna incinta o madre di prole di età non superiore a 10 anni quando si tratti di condannata non collaborante con la giustizia (sent. n. 239/2014); • Nella parte in cui l’art. 47-quinquies precludeva in assoluto alle madri di prole di età non superiore a 10 anni condannata per delitti di cui all’art. 4-bis di espiare una frazione della pena presso istituti a custodia attenuata, o altri luoghi di cura, assistenza o accoglienza (sent. n. 253/2019); • Nella parte in cui non prevedeva che ai condannati per i delitti contemplati nell’art. 4-bis potessero essere concessi permessi-premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter, allorché siano acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti (sent. n. 263/2019); • In relazione all’art. 2, co. 3, d.lgs. n. 121/2018, stabilendo che il divieto di concessione di benefici penitenziari e di misure penali di comunità ex art. 4-bis non può applicarsi nei confronti dei condannati minorenni (sent. n. 263/2019). Quanto all’art. 41-bis, la Corte ne ha dichiarato l’illegittimità: • Per violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., nella parte in cui imponeva limiti numerici ai colloqui con i difensori (sent. n. 143/2013); • Nella parte in cui vietata ai detenuti sottoposti al regime detentivo speciale di cuocere cibi (sent. n. 186/2018); • Nella parte in cui vietava in modo assoluto lo scambio di oggetti da parte dei condannati sottoposti al regime detentivo speciale appartenenti allo stesso gruppo di socialità (di norma, composto da non più di quattro detenuti) (sent. n. 97/2020); • Nella parte in cui impone il visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al regime speciale e il difensore (sent. n. 18/2022). È stato invece ritenuto legittimo l’art, 41-bis, co. 2 e co. 2-quater, nella parte in cui consente l’applicazione del regime speciale, oltre che nei confronti dei detenuti, anche nei confronti degli internati, e cioè delle persone sottoposte a misura di sicurezza detentiva. I rapporti tra il diritto penale e gli altri rami dell’ordinamento L’efficacia del giudicato penale nei giudizi extrapenali Accade spesso che vi siano situazioni conflittuali che reclamano una pluralità di interventi sanzionatori, con misure tratte dai più diversi rami dell’ordinamento. È quindi possibile che una data classe di fatti sanzionati penalmente attiri anche altre sanzioni, e che sia perciò illecita a diversi titoli. Occorre chiarire se l’inflizione della sanzione penale vincoli o meno gli organi preposti all’applicazione delle sanzioni extra-penali. 7 La disciplina apprestata dal nostro ordinamento è nel senso di un’articolata e differenziata efficacia del giudicato penale di condanna nei giudizi civili, amministrativi e disciplinari. • Nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale, la condanna con sentenza penale irrevocabile pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso (art. 651, co. 1, c.p.p.). La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile resa nel giudizio abbreviato, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato. Sono tagliate fuori dall’area dell’efficacia del giudicato le sentenze di patteggiamento. • Negli altri giudizi civili e amministrativi la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quando si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali oggetto del giudizio penale, purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa (art. 654 c.p.p.). • Ben più ampia è l’efficacia della sentenza penale irrevocabile di condanna nei giudizi disciplinari, che ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato (art. 653, co. 1-bis, c.p.p.). La stessa efficacia ha la sentenza di patteggiamento. Accessorietà e autonomia del diritto penale I rapporti tra il diritto penale e gli altri rami dell’ordinamento si lasciano cogliere da un altro e più ampio angolo visuale: l’accessorietà ovvero l’autonomia della norma penale rispetto alla disciplina extrapenale della classe di fatti costitutivi delle figure di reato. • Vi sono norme incriminatrici in rapporto di accessorietà con gli altri rami dell’ordinamento. Si pensi ai c.d. elementi normativi della fattispecie legale (ad es., il concetto di altruità della cosa nel furto). • Altre norme incriminatrici sono invece caratterizzate da autonomia rispetto agli altri rami dell’ordinamento, in primo luogo come autonomia del significato da attribuire a un dato termine, pur presente in quegli altri rami. o Talora è la stessa legge a conferire quell’autonomo significato, stabilendo che cosa significa questo o quel termine agli effetti della legge penale (ad. es., la nozione di “prossimi congiunti” ex art. 307 c.p.); o Altre volte è in via di interpretazione che individua il significato di un termine ai fini della norma incriminatrice (ad es., la nozione di possesso all’interno dell’art. 646 c.p.). L’autonomia del diritto penale rispetto agli altri rami dell’ordinamento si manifesta sotto altri profili: • Talvolta, per soddisfare le peculiari esigenze di tutela espresse da una norma incriminatrice, se ne amplia in via interpretativa il raggio di azione, reprimendo fatti che non troverebbero tutela in altri rami dell’ordinamento; • Altre volte, l’autonomia del diritto penale si afferma di fronte all’invalidità civilistica di un negozio, che non si ripercuote sulla configurabilità del reato consistente nella stipulazione di quel negozio, purché siano presenti tutti i requisiti di validità eccettuato quello per cui il fatto costituisce reato. Diritto penale e unità dell’ordinamento giuridico Fondamentale è infine il punto di vista dell’unità dell’ordinamento giuridico: ciascun ramo del diritto, infatti, pur avendo autonomia di strutture e di funzioni, deve essere collocato rispettando l’unitarietà dell’ordinamento giuridico. Ciò in quanto è inammissibile che uno stesso fatto venga considerato favorevolmente da una branca e negativamente da un’altra: che venga perciò considerato, ad un tempo, lecito e illecito. 10 • Sent. n. 364/2008: la Corte, riconosciuto che responsabilità penale personale è sinonimo di responsabilità per fatto proprio colpevole, ha affermato la rilevanza dell’errore sulla legge penale nei casi di errore inevitabile (ossia errore non dovuto a colpa); • Sent. n. 1085/1988: la Corte ha messo al bando la responsabilità oggettiva, individuando nella colpa il requisito minimo per l’attribuzione della responsabilità penale; • Sent. n. 73/2020: la rimproverabilità soggettiva è presupposto essenziale della responsabilità penale; il quantum di pena deve riflettere il grado di rimproverabilità soggettiva dell’agente. Quanto al principio di riserva di legge: • Sent. n. 96/1981: illegittimità della norma incriminatrice del delitto di plagio; • Sent. n. 34/1995: illegittimità di una norma in materia di espulsione dello straniero. Relativamente al principio di eguaglianza e al principio della rieducazione del condannato: • Sent. n. 253/2019: illegittimità del divieto assoluto di concessione dei permessi premio a coloro che, condannati per uno dei gravi reati di cui all’art. 4-bis, co. 1, ord. penit., non collaborino con la giustizia; • Sent. n. 149/2018: illegittimità della disciplina dell’ergastolo dettata per i casi in cui la condanna sia stata pronunciata per alcune ipotesi di sequestro di persona; • Sent. n. 40/2019: illegittimità del trattamento sanzionatorio del traffico di stupefacenti relativamente al minimo edittale previsto in 8 anni di reclusione, ridotto dalla Corte a 6 anni. Quanto ai diritti costituzionali di libertà, la Corte ha dichiarato l’illegittimità: • Delle norme incriminatrici delle associazioni antinazionali, della propaganda fatta per distruggere o deprimere il sentimento nazionale e del pubblico incitamento a pratiche contro la procreazione; • Delle sentenze che hanno ristretto l’area applicativa delle fattispecie di pubblica apologia di delitti e di pubblica istigazione all’odio tra le classi sociali; • Della figura delittuosa dello sciopero per fini contrattuali, dello sciopero politico e della coazione della pubblica autorità mediante sciopero. Il principio della riserva di codice (e le perduranti esigenze di una nuova codificazione) Il principio della riserva di codice è enunciato nell’art. 3-bis c.p., a mente del quale: Nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia. In applicazione di tale principio, il d.lgs. n. 21/2018 ha trasferito nel codice penale una serie di rilevanti disposizioni previste in leggi complementari • Nella parte generale del codice sono state inserite disposizioni relative a talune circostanze del reato e alla condisca; • Gli interventi più consistenti hanno interessato la parte speciale del codice, nelle quale sono state trasferite diverse figure delittuose e circostanze del reato. Es. ® Figure delittuose: doping, aborto, delitto di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. Es. ® Circostanze: art. 270-bis.1, art. 416-bis.1, art. 406-ter. La riforma operata dal d.lgs. n. 21/2018 ha realizzato un riassetto solo parziale della legislazione penale: settori importantissimi del diritto penale (ad es., stupefacenti, armi e reati societari) tuttora giacciono fuori dal codice. Permane, dunque, almeno in parte, l’esigenza di restituire il codice penale alla sua funzione di tavola delle fondamentali figure di reato, poste a tutela dei beni di maggior spicco contro le aggressioni più gravi. 11 Capitolo II Le Fonti La funzione di garanzia del principio di legalità Il principio di legalità o di riserva di legge in materia penale – cioè il monopolio del potere legislativo nella scelta dei fatti da punire e delle relative sanzioni – è frutto del pensiero illuministico. Costituiscono corollari del principio della riserva di legge: • Il divieto di analogia (ossia il divieto di applicare la legge penale a casi che il legislatore non ha espressamente previsto); • Il principio di determinatezza, in base al quale il legislatore può reprimere con la pena solo ciò che può essere provato nel processo. Anche dopo l’avvento del fascismo, l’eredità del pensiero liberale consente la riaffermazione del principio di legalità nel codice penale del 1930. La legalità dei reati e delle pene è sancita dall’art. 1 c.p., il quale dispone che: Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. Parimenti, l’art. 199 c.p. stabilisce che: Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti. La Costituzione repubblicana del 1948 recepisce il principio di legalità in tutti i suoi significati: • L’art. 25, co. 2, Cost. dispone che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge”; • L’art. 25, co. 3, Cost. stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”. Dato il carattere rigido della Costituzione, il principio di legalità acquista cos’ forza vincolante anche nei confronti del legislatore, il quale: • Non può spogliarsi del monopolio della produzione delle norme penali, rinviando ad atti del potere esecutivo per l’individuazione del precetto e/o della sanzione (riserva tendenzialmente assoluta di legge formale); • È tenuto a formulare le leggi penali in modo chiaro (principio di precisione); • Non deve incriminare fatti insuscettibili di essere provati nel processo (principio di determinatezza); • Deve imporre al giudice il divieto di estensione analogica delle norme incriminatrici e deve a sua volta formulare le norme incriminatrici in modo rispettoso del divieto di analogia (principio di tassatività). La riserva di legge come riserva di legge formale dello Stato Decreto-legge, decreto legislativo e norma penale Il fondamento politico della riserva di legge in materia penale impone di interpretare la formula “legge” nell’art. 25, co. 2, Cost. come legge formale, escludendo i decreti legislativi e i decreti-legge dalle fonti del diritto penale: solo il Parlamento, come espressione dell’intero popolo, è in grado di compiere le scelte punitive nel rispetto della dialettica tra maggioranza e minoranza. Opposto è però l’orientamento della prassi parlamentare e governativa: il Governo ha fatto ampio ricorso al decreto-legge in materia penale, nonché alla delega legislativa (soprattutto per dare attuazione a direttive comunitarie). Gran parte della dottrina approva gli orientamenti della prassi, interpretando la riserva di legge ex art. 25 Cost. come riserva di legge in senso materiale, comprensiva dunque anche degli atti normativi del potere esecutivo che hanno forza di legge: • Quanto al decreto-legge, si rileva che in caso di conversione i suoi contenuti vengono incorporati in una legge formale, mentre in caso di mancata conversione gli effetti del decreto- legge risulterebbero integralmente travolti sin dall’inizio ex art. 77 Cost.; 12 • Quanto al decreto legislativo, la sua inclusione nel concetto di legge ai sensi dell’art. 25 Cost. sarebbe legittimata dal fatto che il Parlamento deve dettare, ex art. 76 Cost., principi e criteri direttivi per l’esecutivo. Secondo Marinucci, il decreto-legge non dovrebbe essere fonte di norme penali in quanto, in caso di mancata conversione, risultano non più reversibili gli effetti sulla libertà personale prodotti da un decreto-legge che preveda nuove incriminazioni o inasprisca un trattamento sanzionatorio. Es. ® Questo rischio si è profilato nella vicenda dei c.d. rave party: l’art. 434-bis c.p., che prevedeva la reclusione da 3 a 6 anni, con possibilità di custodia cautelare in carcere, è rimasta in vigore dal 31 ottobre al 30 dicembre 2022, non essendo stata confermata dalla legge di conversione. Anche il decreto legislativo non dovrebbe essere incluso tra le fonti del diritto penale: • Da un lato, la prassi appare lontanissima dagli standard di rigore, analiticità e chiarezza auspicati dalla dottrina quali condizioni per le legittimità della legge delega; • Dall’altro, l’attribuzione al potere esecutivo di scelte politiche è un dato immanente alla tecnica della delega: la determinazione di principi e criteri direttivi può circoscrivere, ma non eliminare, la discrezionalità politica del potere esecutivo nell’esercizio della delega. La Corte costituzionale ha evidenziato che il principio di riserva di legge rimette al legislatore, nella figura del Parlamento, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare ed è violato qualora quella scelta sia invece effettuata dal Governo in assenza o fuori dai limiti di una valida delega legislativa. La verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata diviene, allora, strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva di legge in materia penale, sancito dall’art. 25, co. 2, Cost. (sent. n. 5/2014). I decreti governativi in tempo di guerra L’unica deroga alla riserva di legge formale ex art. 25, co. 2, Cost. è rappresentata dai decreti governativi in tempo di guerra che, in base all’art. 78 Cost., possono essere fonte di norme penali su delega espressa del Parlamento. Legge regionale e diritto penale La legge regionale non può essere fonte di norme incriminatrici. L’art. 117, co. 2, lett. l), Cost., infatti, stabilisce che lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di ordinamento penale. Tale preclusione si giustifica in quanto solo il Parlamento nazionale riflette la volontà dell’intero popolo, mentre l’Assemblea regionale è rappresentativa dei soli cittadini della Regione. Ne segue che sono illegittime leggi regionali che: • Creino un nuovo tipo di reato o abroghino una norma incriminatrice preesistente; • Ne modifichino la disciplina sanzionatoria; • Sostituiscano la sanzione penale con una sanzione amministrativa; • Configurino una nuova causa di estinzione della punibilità o amplino la portata di una causa di estinzione preesistente. L’incompetenza delle Regioni a dettare norme penali riguarda soltanto le norme incriminatrici, e non le norme scriminanti, che non sono norme penali. Quanto alle cause di giustificazione, la legge regionale non può modificare la disciplina delle cause di giustificazione che sono espressione di principi generali dell’ordinamento. Diritto dell’Unione Europea e diritto penale Fino all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona non vi era alcun dubbio sul fatto che nessuno dei trattati istitutivi delle Comunità europee attribuisse in forma espressa a istituzioni comunitarie la potestà di creare norme incriminatrici: era pacifico che gli organi dell’Unione Europea potessero tutelare direttamente gli interessi comunitari soltanto con sanzioni amministrative. Inoltre, l’Unione Europea poteva imporre al legislatore degli Stati membri l’obbligo di emanare norme penali a tutela di determinati interessi. Al riguardo, occorreva distinguere tra: 15 Ciò nonostante, da numerose fonti internazionali discendono obblighi a carico sia del legislatore, sia del giudice italiano: • Quanto al legislatore, l’art. 117, co. 1, Cost. dispone che la potestà legislativa è esercitata nel rispetto degli obblighi internazionali: una legge emanata in violazione di tali obblighi sarà costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost.; • Il giudice ha il dovere di interpretare le leggi nazionali, anche in materia penale, in maniera conforme alla lettera e alla ratio degli obblighi internazionali che vincolano lo Stato italiano. Laddove il contrasto tra legge interna e obblighi internazionali non sia superabile in via interpretativa, il giudice dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della legge interna, invocando come norma-parametro l’art. 117, co. 1, Cost. e come norma interposta la disposizione internazionale che si assume violata. Questi principi si applicano anche alla CEDU: l’eventuale contrasto tra una legge interna e la CEDU non potrà essere risolto direttamente dal giudice ordinario attraverso la disapplicazione della legge interna – come invece accade quando il contrasto concerne il diritto UE – ma dovrà essere sottoposto alla Corte costituzionale, alla quale sola spetterà la sua risoluzione attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge medesima, sempre che la disposizione convenzionale non contrasti essa stessa con la Costituzione italiana. Prima di sottoporre la questione alla Corte costituzionale, il giudice ordinario sarà peraltro tenuto a verificare se il contrasto sospettato possa essere risolto in via interpretativa, attraverso una interpretazione conforme alla CEDU della legge in questione. Tanto la Corte costituzionale quanto il giudice ordinario, infine, saranno tenuti a confrontarsi con la lettura che delle disposizioni della CEDU ha fornito la Corte di Strasburgo. Il tema dei “rimedi per l’esecuzione delle decisioni della Corte EDU” è affrontato nell’art. 628- bis c.p.p., introdotto con la riforma Cartabia. La disposizione prevede che il condannato o la persona sottoposta a misura di sicurezza possa richiedere alla Corte di Cassazione, entro 90 giorni dalla data in cui è divenuta definitiva la decisione della Corte EDU, di: • Revocare la sentenza penale o il decreto penale di condanna pronunciati nei suoi confronti; • Disporre la riapertura del procedimento; • Adottare i provvedimenti necessari per eliminare gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla violazione accertata dalla Corte EDU. L’adozione del provvedimento di cui all’art. 628-bis c.p.p. è rimessa ad una valutazione discrezionale della Corte di cassazione, che è chiamata ad accogliere la richiesta quando la violazione accertata dalla Corte europea, per natura e gravità, abbia avuto una incidenza effettiva sulla sentenza o sul decreto penale di condanna pronunciati nei confronti del richiedente. Tra i poteri della Corte di cassazione, rientra anche la sospensione dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza ex art. 635 c.p.p. Prima del recente intervento del legislatore, con la sent. n. 113/2011 la Corte costituzionale aveva aggiunto un nuovo caso di revisione (c.d. revisione europea) a quelli già previsti dall’art. 630 c.p.p. proprio per le ipotesi in cui, dopo l’intervento di una sentenza irrevocabile di condanna a livello nazionale, la Corte EDU avesse riscontrato la violazione di una disposizione convenzionale. L’intervento additivo della Corte costituzionale è ormai superato dalla riforma legislativa. È discusso se i principi espressi dalle sentenze della Corte EDU possano produrre effetti nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente. Le Sezioni Unite Genco (sent. n. 8544/2019) hanno chiarito che deve sussistere almeno una delle seguenti tre condizioni: 1. Si sia in presenza di una “sentenza pilota” ai sensi dell’art. 61 del regolamento della Corte; 2. La Corte europea abbia espressamente ravvisato una violazione di carattere strutturale o sistemico imputabile allo Stato italiano, la cui rimozione imponga l’adozione delle misure di carattere generale o individuale adeguate; 3. La Corte abbia implicitamente riconosciuto l’esistenza di una violazione di portata generale, purché la sentenza possa dirsi espressione di una giurisprudenza consolidata. 16 Anche con riferimento ai vincoli che discendono dagli obblighi internazionali in materia penale, possono prodursi sia effetti riduttivi che effetti espansivi del penalmente rilevante: • Gli effetti riduttivi – che possono essere l’esito di un’operazione di interpretazione conforme alle norme internazionali o di una dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma nazionale – possono avere ad oggetto sia il precetto penale, sia la sanzione ad esso correlata; • Gli effetti espansivi possono discendere dagli obblighi di incriminazione di determinate condotte contenuti in norme di diritto internazionale pattizio o ricavati in via interpretativa dalle Corti dei diritti. Più spesso, tuttavia, gli effetti espansivi sono il portato dell’interpretazione conforme alle norme sovranazionali. L’incidenza di questi vincoli sull’ordinamento penale interno è diversa a secondo del loro oggetto. • In virtù dell’obbligo di interpretazione conforme, il giudice penale, per evitare di esporre lo Stato italiano alla responsabilità per la violazione degli obblighi pattizi, dovrà in primo luogo interpretare restrittivamente le norme esimenti che sottraggono classi di fatti alla sanzione penale; • Inoltre, è frequente che l’interpretazione fornita alle norme CEDU dalla Corte di Strasburgo riconosca all’individuo una protezione più ampia rispetto a quella riconosciuta dalla giurisprudenza italiana nell’interpretazione delle norme costituzionali corrispondenti: in queste ipotesi, il riferimento alle norme internazionali in parola, così come interpretate dal loro giudice, arricchirà il contenuto precettivo delle stesse norme costituzionali, determinando un innalzamento degli standard di tutela dei diritti fondamentali di volta in volta interessati. Quanto all’incidenza nell’ordinamento penale interno degli obblighi di incriminazione derivanti da fonti internazionali pattizie, il principio di legalità di cui all’art. 25, co. 2, Cost. osta radicalmente a che la Corte costituzionale possa ovviare alla mancanza di un’incriminazione conforme agli obblighi internazionali, estendendo la portata di altre norme incriminatrici o addirittura introducendo una nuova figura di reato. Ciò non esclude che la Corte possa dichiarare l’illegittimità costituzionale di norme penali di favore che, in violazione di obblighi internazionali di incriminazione, sottraggano determinate classi di fatti alla sanzione penale prevista in generale da un’altra legge statale, attraverso l’indebita previsione di cause di giustificazione, di scusanti o di cause di non punibilità. In tali ipotesi, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma penale di favore contrastante con gli obblighi internazionali consentirà l’automatica riespansione della norma incriminatrice generale, già prevista dal legislatore italiano in conformità ai propri obblighi internazionali. Consuetudine e diritto penale Il principio di riserva di legge ex art. 25 Cost. preclude: • La creazione di norme incriminatrici da parte della consuetudine (c.d. consuetudine incriminatrice); • La c.d. consuetudine incriminatrice, cioè per il rinvio della legge alla consuetudine per l’individuazione di un elemento del reato. Il principio di gerarchia delle fonti impedisce poi alla consuetudine di produrre l’abrogazione di norme legislative incriminatrici (c.d. consuetudine abrogatrice). Le norme consuetudinarie possono invece essere fonte di cause di giustificazione (c.d. consuetudine scriminante), in quanto oggetto della riserva di legge ex art. 25 Cost. sono soltanto le norme incriminatrici: d’altra parte, in base al principio di gerarchia delle fonti, la consuetudine può assumere rilievo scriminante solo a condizione che sia richiamata da una norma di legge. Corte costituzionale e legge penale La riserva di legge non preclude il controllo di costituzionalità delle norme incriminatrici quando ne derivi un effetto in bonam partem: quello cioè di eliminare una figura di reato, di ridurne il campo di applicazione ovvero di mitigare le sanzioni previste dalla legge; né preclude il controllo di una 17 legge di depenalizzazione che abbia irragionevolmente mantenuto in vita, come ipotesi di reato, fatti omogenei a quelli trasformati in illeciti amministrativi. La riserva di legge ex art. 25, co. 2, Cost. esclude invece che attraverso il sindacato sulle norme incriminatrici, la Corte costituzionale possa produrre un effetto in malam partem. La Corte costituzionale non può, dunque: • Ampliare la gamma dei comportamenti penalmente rilevanti; • Inasprire il trattamento sanzionatorio di un reato; • Far rivivere la figura di reato abolita o depenalizzata dal legislatore. La Corte costituzionale ritiene da tempo di poter sindacare la legittimità delle c.d. norme penali di favore, dichiarandone l’incostituzionalità. Ritenendo ammissibile il sindacato su norme penali di favore, la Corte ha ripetutamente sottolineato che le norme di favore non sono una “zona franca” sottratta al controllo di legittimità. D’altra parte, va sottolineato che il sindacato di legittimità costituzionale su norme di favore non può essere il veicolo attraverso il quale la Corte sostituisca proprie valutazioni politico-criminali a quelle espresse dal legislatore. Riserva di legge e atti del potere esecutivo Riserva assoluta, relativa o “tendenzialmente assoluta”? Individuata nella legge formale dello Stato l’unica fonte di norme incriminatrici, si pone il problema di stabilire se la riserva di legge ex art. 25, co. 2, Cost. debba intendersi come: • Riserva assoluta, nel senso che sarebbe riservata alla legge l’individuazione di tutti gli elementi del reato e del relativo trattamento sanzionatorio; • Riserva relativa, nel senso che la legge potrebbe rinviare a una fonte di rango inferiore per l’individuazione del precetto e delle sanzioni; • Riserva tendenzialmente assoluta, nel senso che la legge potrebbe rinviare alla fonte sublegislativa solo per la specificazione sul piano tecnico di singoli elementi del reato già individuati dalla legge. Il problema si pone in termini diversi a seconda che si tratti dei rapporti: • Tra legge e atti normativi generali e astratti del potere esecutivo; • Tra legge e provvedimenti individuali e concreti dell’esecutivo. Legge penale e atti normativi generali e astratti del potere esecutivo Quanto ai rapporti tra legge e atti normativi generali e astratti del potere esecutivo (regolamenti, decreti ministeriali, ecc.): • Un primo orientamento (che si dichiara favorevole alla riserva assoluta, ma in realtà patrocina una lettura della riserva come relativa) ritiene legittima ogni forma di rinvio da parte della legge a una fonte subordinata; • Un secondo orientamento (a favore del carattere relativo) riconosce che le norme generali e astratte emanate da fonti subordinate alla legge, sulla base di un rinvio contenuto nella norma legislativa, integrano il precetto, concorrendo a definire la figura di reato; • Un terzo orientamento (che utilizza la formula “riserva tendenzialmente assoluta”) ritiene legittimo il rinvio della legge ad atti generali e astratti del potere esecutivo solo se quegli atti si limitano a specificare sul piano tecnico elementi già descritti dal legislatore. Lo schema della riserva tendenzialmente assoluta merita approvazione, proprio perché il carattere solo tecnico dell’integrazione non comporta scelte politiche da parte dell’esecutivo. • Quando la legge penale rinvia ad atti preesistenti, tale disciplina sarà legittima quando non permanga in capo all’autorità amministrativa il potere di modificare l’atto: in tal caso il rinvio ha carattere recettizio, nel senso che la legge recepisce il contenuto del preesistente atto amministrativo, facendolo proprio; 20 A partire dagli anni Ottanta, la Corte ha invece valorizzato il principio di precisione sia sul piano delle enunciazioni di principio, sia dichiarando costituzionalmente illegittime talune norme sottoposte al suo sindacato. Il principio di precisione viene talora valorizzato anche come criterio interpretativo delle norme penali, che impone al giudice di optare tra i diversi possibili significati di una norma per quello che meglio soddisfa le esigenze di precisione: e questa indicazione di metodo si coniuga spesso con un richiamo al contesto in cui si inserisce la singola disposizione. Quanto alla giurisprudenza di legittimità, la Corte di Cassazione ha recentemente dato espresso e autonomo rilievo al principio di precisione, al principio di determinatezza e al principio di tassatività: • In ragione del principio di precisione, le norme penali devono assumere la veste formale più chiara possibile, al fine di evitare interpretazioni creative e consentire a chiunque di prevedere le conseguenze delle proprie condotte; • In relazione del principio di determinatezza, ha rilevato che esso si oppone alla configurazione di reati incentrati su un mero connotato soggettivo interiore, sottratto alla possibilità di qualsiasi elemento empirico di registrazione e di prova; • Quanto al principio di tassatività, la Corte ha rammentato che esso preclude l’applicazione analogica delle norme incriminatrici. Al di là di tali enunciazioni di portata generale, la Corte di cassazione si è misurata in più occasioni con il principio costituzionale di precisione quale criterio interpretativo di disposizioni incriminatrici. Non mancano tuttavia ipotesi in cui la Corte di cassazione, pur a fronte di concetti irrimediabilmente imprecisi, non solleva questione di legittimità costituzionale e fornisce invece una lettura della norma incriminatrice che si sostanza in una sua riscrittura, con evidente usurpazione del ruolo del legislatore. Principio di precisione e recente legislazione penale Negli ultimi decenni la legislazione penale sembra più attenta al rispetto del principio di precisione: • La norma sull’usura (art. 644 c.p.) ha agganciato a parametri numerici fissati dalla legge il concetto di interessi usurari: l’interesse è usurario quando eccede di ¼, aumentato di ulteriori 4 punti percentuali, quello rilevato trimestralmente per quella classe di operazioni dal MEF; • La riforma dell’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) ha individuato le condotte abusive sulla base del contrasto con precise norme di legge o di regolamento, eliminando così la discrezionalità; • La norma della riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù (art. 600 c.p.) è stata riformata nel 2014, e sono stati chiariti i concetti di schiavitù e di servitù; • In relazione alla circostanza aggravante della guida sotto l’influenza dell’alcool o di sostanze stupefacenti è stato sostituito il riferimento alle “ore notturne” con l’indicazione temporale (dopo le ore 22 e prima delle ore 7). (B) Il principio di determinatezza Con la formula “principio di determinatezza” si esprime l’esigenza che le norme penali descrivano fatti suscettibili di essere accertati e provati nel processo. Per mettere il cittadino al riparo dagli arbitri del giudice, infatti, non basta che la norma abbia un contenuto intellegibile, ma occorre altresì che essa rispecchi una fenomenologia empirica verificabile nel corso del processo sulla base di massime d’esperienza o di leggi scientifiche. La Corte costituzionale: • Nella prima sentenza di accoglimento fondata sull’art. 25, co. 2, Cost., ha dichiarato illegittima per contrasto col principio di determinatezza la norma incriminatrice del plagio (art. 603 c.p.), che puniva “chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione”. Secondo la Corte “non si conoscono né sono accertabili i modi con i quali si può effettuare l’azione psichica del plagio né come è raggiungibile il totale stato di soggezione che qualifica questo reato” (sent. n. 96/1981). • Ha rigettato una questione di legittimità relativa al delitto di atti persecutori, ritenendo che l’art. 612-bis c.p. non contrastasse col principio di determinatezza: secondo la Corte, le 21 reiterate minacce e molestie che comportino un perdurante stato d’ansia o di paura ovvero un fondato timore per l’incolumità integrano comportamenti effettivamente riscontrabili nella realtà, che il giudice può appurare con ragionevole certezza (sent. 172/2014). (C) Il principio di tassatività Il principio di tassatività come vincolo per il giudice Un ulteriore sbarramento frapposto dalla riserva di legge agli arbitri del giudice penale è il divieto di analogia a sfavore del reo (c.d. analogia in malam partem), altrimenti designabile come principio di tassatività delle norme incriminatrici. A norma dell’art. 1 c.p., il giudice non può punire fatti che non siano espressamente preveduti dalla legge come reato; secondo quanto prescrive l’art. 14 Preleggi, non può applicare le leggi penali oltre i casi e i tempi in esse considerati. La linea di confine tra interpretazione e analogia è segnata dal significato letterale della legge: • Si tratta di interpretazione estensiva allorché il giudice attribuisce alla norma un significato tale da abbracciare tutti i casi che possono essere ricondotti al suo tenore letterale; • Il giudice fuoriesce dall’interpretazione allorché riferisce la norma a situazioni non riconducibili a nessuno dei suoi possibili significati letterali, e in particolare viola il divieto di analogia allorché estende la norma a casi simili a quelli espressamente contemplati dalla legge, sulla base di una comune ratio di disciplina. Il divieto di analogia presuppone che il legislatore abbia formulato norme incriminatrici precise: quel divieto viene infatti svuotato quando il legislatore, usando termini vaghi ed elastici, consente al giudice di sottrarsi alla legge, riempiendo la norma di qualsiasi contenuto. La giurisprudenza della Corte di cassazione distingue costantemente tra interpretazione (consentita) e analogia (vietata), quando l’analogia riguardi le norme incriminatrici. Es. ® In tema di omissione di soccorso (art. 593 c.p.), la prevalente giurisprudenza ritiene che l’espressione “trovare” sia riferibile soltanto a chi sia in presenza di una persona in pericolo, rilevando invece che solo un’estensione analogica della norma consentirebbe di includervi la semplice notizia del ritrovamento da parte di altri di una persona in pericolo, come nel caso di chi sia avvertito per telefono che altrove una persona giace al suolo ferita. Non mancano però casi in cui la Cassazione, in modo aperto o occulto, viola il divieto di analogia. Es. ® In tema di getto pericoloso di cose (art. 674 c.p.), la Corte ha ripetutamente affermato che il fenomeno della creazione, emissione e propagazione di onde elettromagnetiche rientra nella contravvenzione di cui all’art. 674 c.p., per effetto di un’interpretazione estensiva dell’espressione “getto di cose”, non comportando tale esegesi un’estensione analogia in malam partem. Il divieto di analogia interessa, oltre alle disposizioni incriminatrici, anche le disposizioni che prevedono circostanze aggravanti. Es. ® La Corte di cassazione lo aveva riconosciuto negando la possibilità di applicare l’aggravante dell’omicidio doloso ai danni del coniuge (art. 577, co. 2, c.p.) quando l’omicidio riguardi il convivente di fatto. Oggi tale possibilità è riconosciuta dal c.d. codice rosso. Non mancano peraltro ipotesi in cui la Corte di cassazione non rispetta il divieto di analogia in materia di circostanze aggravanti. Es. ® La Corte di cassazione ha applicato la circostanza aggravante del furto “all’interno di mezzi di pubblico trasporto” in un caso in cui la vittima del furto si accingeva a salire su un autobus. Il divieto di analogia opera anche nei casi in cui si sanzioni penalmente la violazione di un precetto contenuto in una disposizione extrapenale appartenente ad un settore dell’ordinamento che ammette il ricorso all’analogia (ad es., il diritto societario): ammissibili ai fini extrapenali, l’analogia è vietata agli effetti penali (Sezioni Unite Cani, n. 11545/2011, Rv. 251820). Il principio di tassatività come vincolo per il legislatore Il divieto di analogia vincola non solo il giudice, ma anche il legislatore ordinario: 22 • Si oppone all’eliminazione delle disposizioni che vietano al giudice l’applicazione analogica delle norme incriminatrici; • Vieta l’introduzione di norme che facoltizzino l’analogia nel diritto penale; • Preclude la creazione di fattispecie ad analogia espressa. L’efficacia vincolante del divieto di analogia per il legislatore ordinario si profila soprattutto nei casi in cui la norma si apra con la descrizione di una serie di condotte, situazioni od oggetti e si chiuda con formule del tipo “e altri simili”. Norme del genere violano il principio di tassatività quando contengono elenchi di ipotesi eterogenee e, a maggior ragione, quando descrivono una sola ipotesi, seguita dal riferimento a casi simili: si parla in proposito di fattispecie ad analogia espressa, perché la formulazione della norma dà via libera ad una incontrollabile attività creatrice di norme, caso per caso, da parte del singolo giudice. Sono invece costituzionalmente legittime le norme contenenti formule del tipo “e altri simili”, che siano però precedute dall’elencazione di una serie di ipotesi omogenee, tali da consentire l’individuazione di un genere sotto il quale ricondurre sia i casi espressamente menzionati, sia quelli evocati con quelle formule. La Corte costituzionale ha chiarito che solo l’omogeneità delle indicazioni esemplificative consente di individuare un preciso criterio di identificazione delle attività similari a quelle espressamente menzionate, escludendo così che la norma attribuisca al giudice un potere di ampliare per analogia il precetto penalmente sanzionato (sent. n. 120/1963). (D) L’analogia a favore del reo Il divieto di analogia in materia penale opera soltanto quando l’applicazione analogica andrebbe a sfavore dell’agente (analogia in malam partem): il divieto di analogia non si estende alle norme che escludono o attenuano la responsabilità (analogia in bonam partem). In base all’art. 14 delle Preleggi, il divieto di analogia interessa non solo le leggi penali, ma anche le leggi – penali e non penali – che dettano una disciplina eccezionale, cioè che derogano alla normale disciplina apprestata dall’ordinamento o da un settore dell’ordinamento, anche se la loro estensione analogica andrebbe a favore dell’agente. Ribadita quindi l’ammissibilità in linea di principio dell’applicazione analogica delle norme favorevoli all’agente, va però sottolineato che il ricorso all’analogia va incontro a tre limiti: 1. La norma non deve ricomprendere il caso in esame, neppure se interpretata estensivamente; 2. La lacuna individuata dall’interprete non deve essere intenzionale, ossia frutto di una precisa scelta del legislatore; 3. La norma favorevole non deve avere carattere eccezionale. In dottrina e in giurisprudenza si discute se l’analogia a favore del reo sia ammissibile in relazione a cause di giustificazione, scusanti, cause di esclusione della punibilità e circostanze attenuanti. • Il divieto sancito dall’art. 14 delle Preleggi non abbraccia le norme che prevedono le cause di giustificazione. Non sono infatti norme penali, trattandosi di norme con finalità proprie, situate in ogni luogo dell’ordinamento; né sono norme eccezionali, perché anzi sono espressione di altrettanti principi generali dell’ordinamento. • L’art. 59, co. 4, c.p. esclude la responsabilità per dolo quando il soggetto commetta un fatto penalmente rilevante nell’erronea convinzione di realizzarlo in presenza degli estremi di una causa di giustificazione. Manca invece una disciplina per le ipotesi in cui l’agente commetta il fatto nell’erronea convinzione di trovarsi in presenza di una c.d. quasi giustificante o quasi scriminante, cioè in un caso (ad es., l’omicidio del consenziente) nel quale l’ordinamento considera l’antigiuridicità del fatto non esclusa, ma attenuata, ricollegando al reato una pena meno severa di quella prevista per il corrispondente reato comune: l’agente deve rispondere per dolo entro i limiti della sua rappresentazione e volizione. • Si discute se le scusanti siano estensibili per analogia oltre i casi previsti nelle norme relative. Secondo Marinucci, il problema va risolto in senso negativo in ragione del carattere intenzionale di eventuali lacune individuate dall’interprete nella loro tipologia o nei loro 25 • Il principio di offensività impone l’espulsione dalla fattispecie legale dei fatti in concreto inoffensivi del bene giuridico tutelato; • Il principio di colpevolezza appone come limite alla rilevanza penale dei fatti offensivi di beni giuridici il rimprovero all’autore di aver realizzato quel fatto almeno per colpa; • Il principio di precisione comporta che tra i possibili significati letterali si estromettano quei significati che conferiscono alla norma contorni inguaribilmente incerti; • L’appartenenza dell’Italia all’Unione europea impone al giudice italiano di interpretare conformemente alla normativa europea la legge nazionale. Il diritto penale ha poi in comune con gli altri settori dell’ordinamento le restanti regole che presiedono all’attività interpretativa: • Il giudice deve interpretare le leggi così da armonizzarne i contenuti con gli obblighi internazionali che vincolano l’Italia, in primis conformemente alla CEDU; • Il giudice deve ricorrere all’interpretazione sistematica della norma con altre disposizioni di legge ordinaria, ubicate dentro e fuori il diritto penale; • Il giudice deve ricorrere all’interpretazione a fortiori, che impone di chiarire i dubbi interpretativi sollevati da una norma alla luce di un’altra norma di portata più ampia. Nessuno spazio ha invece il principio di autorità: le opinioni dominanti in giurisprudenza e/o in dottrina non possono scalfire la soggezione del giudice alla sola legge. Restare entro la cornice dei “possibili significati letterali” è tuttavia impossibile quando le norme siano inguaribilmente imprecise: in questi casi il giudice non può interpretare la norma, ma deve investire la Corte costituzionale affinché ne dichiari l’illegittimità costituzionale ex art. 25, co. 2, Cost. Quando invece la norma non sia inguaribilmente imprecisa, il significato o i significati di questo o quel termine vanno cercati attingendo a svariati linguaggi: • Vi sono termini il cui significato va senz’altro cercato nel linguaggio comune, depurato propri dai pregiudizi depositati dalle letture giurisprudenziali e dottrinali. Es. ® Si pensi al termine “violenza”: la giurisprudenza maggioritaria attribuisce al termine violenza un significato incompatibile anche con il significato più lato che quel termine possiede nel linguaggio comune. • Altre volte occorre far ricorso al linguaggio giuridico. È l’ampio territorio occupato dagli elementi normativi giuridici, che compaiono nei settori del diritto penale che disciplinano materie in parte già giuridicamente performate, tra l’altro, dal diritto civile, alle cui regole il giudice dovrà necessariamente far riferimento. Es. ® Si pensi al concetto di “altruità” della cosa nel delitto di furto (art. 624 c.p.). • Talvolta si fa riferimento a terminologie specialistiche: o Al linguaggio economico-aziendale (ad es., “situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società”); o Al linguaggio medico (ad es., “malattia nel corpo” di cui all’art. 582, co. 1, c.p.); o Al linguaggio biologico (ad es., “embrione umano” nella legge sulla procreazione medicalmente assistita, l. n. 40/2004). • In alcuni casi è l’interpretazione sistematica che può venire in aiuto per individuare, tra più significati compatibili con la lettera della legge, quello che va preferito. Es. ® Si pensi al significato da attribuire al termine “malattia” nei delitti di lesione personale. • Infine, talvolta si ricorre all’argomento a fortiori. Es. ® Si pensi al delitto tentato: se sono penalmente irrilevanti gli atti preparatori di un delitto compiuti da più persone, a maggior ragione saranno penalmente irrilevanti gli atti preparatori di un delitto compiuti da una sola persona. Si apre adesso lo spazio per le preannunciate interpretazioni conformi alla Costituzione, in funzione selettiva dei fatti penalmente rilevanti. 26 1. Il principio di offensività impone all’interprete l’espulsione dalla fattispecie legale di fatti che, pur riconducibili entro la cornice dei possibili significati letterali, sono in concreto inoffensivi del bene giuridico tutelato. 2. Il principio di colpevolezza vincola l’interprete, di fronte ai tanti casi in cui il legislatore del 1930 ha conservato o introdotto ipotesi di responsabilità oggettiva, a subordinare l’attribuzione della responsabilità alla possibilità di muovere all’agente almeno un rimprovero per colpa. 3. Il principio di precisione preclude all’interprete di attribuire alla norma significati compatibili con il tenore letterale del divieto o del comando imposto dalla legge, ma che gli conferirebbero contorni inguaribilmente imprecisi. 4. Incapace di contribuire all’individuazione dei fatti penalmente rilevanti, il principio di imparzialità della pubblica amministrazione può invece contribuire all’individuazione della portata di una causa fi giustificazione di quei fatti. 5. L’enorme divario di rango costituzionale tra il bene della vita e il bene patrimonio pone l’interprete della disciplina della legittima difesa nel domicilio e negli esercizi commerciali di fronte a un’alternativa: tale disciplina va sottoposta alla Corte costituzionale o deve essere interpretata secondo costituzione da parte del giudice ordinario? La giurisprudenza della Cassazione è orientata in quest’ultimo senso. 6. Dalla Costituzione può ricavarsi un argomento che corrobora una lettura restrittiva della formula embrione nella legge sulla procreazione assistita: tra le possibili letture della formula “embrione”, si dovrebbe ritenere che prima dello stadio relativo alla comparsa del genoma definitivo non vi sia ancora un embrione. 27 Capitolo III I limiti all’applicabilità della legge penale LIMITI TEMPORALI Il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli all’agente In uno Stato liberale di diritto il cittadino deve poter sapere, prima di agire, se dal suo comportamento potrà derivare una responsabilità penale, e quali siano le eventuali sanzioni in cui potrà incorrere. Per tale motivo i fondatori dei principi dello Stato liberale di diritto hanno arricchito la tutela del cittadino introducendo il principio di irretroattività delle norme penali sfavorevoli all’agente: hanno così inteso garantire il suo affidamento che il se e il quanto della punizione saranno determinati soltanto dalla legge in vigore al momento della commissione del fatto, ponendolo al riparo dalle sopraffazioni del giudice e del legislatore che, ispirandosi a ragioni politiche o sotto spinte emotive che promanino dalla collettività, puniscano fatti che al tempo della loro commissione non costituivano reato, ovvero li puniscano più severamente. Il rispetto del principio di irretroattività delle norme che contengono nuove incriminazioni è imposto al giudice dall’art. 2, co. 1, c.p., a mente del quale: Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costitutiva reato. L’art. 2, co. 4, c.p. vieta inoltre al giudice di applicare retroattivamente una legge successiva sfavorevole al reo: Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo. Tali norme non sono modificabili né derogabili dal legislatore ordinario, in quanto il principio di irretroattività di norme penali sfavorevoli al cittadino ha rango di principio costituzionale ex art. 25, comma 2, Cost.: Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. La Corte costituzionale (sent. n. 32/2006) ha chiarito che il divieto riguarda sia la punizione di fatti che al tempo della loro commissione non costituivano reato, sia la punizione più severa di fatti che già costituivano reato. Il divieto in parola: • Da un lato, mira a garantire al destinatario della norma una ragionevole prevedibilità delle conseguenze cui si esporrà trasgredendo il precetto penale. E ciò sia per garantirgli certezza di libere scelte d’azione, sia per consentirgli di compiere scelte difensive; • Dall’altro, si pone a garanzia dell’individuo contro possibili abusi da parte del potere legislativo. Il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole al reo è espressamente enunciato anche in svariate fonti sovranazionali, quali: • L’art. 7 CEDU; • L’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici; • L’art. 49 CDFUE. Il principio di irretroattività della legge penale ha altresì decisive ripercussioni sulla configurazione e sul funzionamento del sistema penale, in quanto: 1. È condizione indispensabile perché la minaccia della pena da parte del legislatore funzioni come strumento di prevenzione generale; 2. Impone al legislatore di includere fra i presupposti dell’applicazione della pena la colpevolezza dell’agente: al fine di garantire al cittadino libere scelte di azione è infatti necessario che non gli venga accollata alcuna responsabilità penale per fatti a lui non rimproverabili (C. Cost., n. 322/2007). 30 Proprio alla luce degli artt. 25, co. 2 e 117, co. 1 Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, un recente orientamento giurisprudenziale ha escluso l’applicazione retroattiva di alcune ipotesi speciali di confisca, dopo averne affermato la sostanziale natura di pene e non di misure di sicurezza. La Corte Costituzionale (sent. 97/2009), allorché ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 200, 322-ter c.p. e 1 della legge finanziaria 2008 – che aveva esteso ai reati tributari di cui al d.lgs. 74/2000 la confisca per equivalente ex art. 322-ter c.p. nella parte in cui quegli articoli consentivano di applicare la misura anche in relazione a reati commessi prima della novella legislativa – ha affermato che la confisca per equivalente ha nella sostanza natura di sanzione penale, come tale sottratta alla disciplina dell’art. 200 c.p. e soggetta la divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 25, co. 2, Cost. Parimenti, la Corte costituzionale (sent. n. 196/2010) e le Sezioni Unite (sent. n. 23428/2010, Caligo, Rv. 247042-01), hanno qualificato come pena, escludendone così l’applicazione retroattiva, la confisca obbligatoria del veicolo conseguente alla condanna per le contravvenzioni di guida in stato di ebbrezza e di rifiuto di sottoporsi agli accertamenti alcolimetrici. In tal senso si è sottolineato che il veicolo guidato dal contravventore non è una cosa intrinsecamente pericolosa, riconducibile alle ipotesi di confisca obbligatoria di cui all’art. 240, co. 2, c.p., e che la natura sanzionatoria (e non preventiva) di tale confisca è confermata dalla circostanza che la misura è applicabile anche in caso di veicolo incidentato e, quindi, privo di pericolosità oggettiva. Peraltro, a seguito della riforma del 2010, l’ipotesi di confisca in esame ha oggi natura di sanzione amministrativa accessoria, comunque irretroattiva ai sensi dell’art. 1, l. n. 689/1981. La prevalente giurisprudenza continua a ritenere applicabili retroattivamente due ipotesi di confisca: 1. La c.d. confisca allargata (art. 240-bis c.p.), nell’ambito di un provvedimento di contrasto alla criminalità organizzata, per una serie di reati di gravità medio-alta, allorché il condannato risulti avere la disponibilità di denaro, beni o altre utilità di valore sproporzionato al reddito e non possa giustificarne la provenienza; 2. La confisca prevista, come misura di prevenzione ante delictum, dal Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione. Principio di irretroattività, diritto processuale penale e esecuzione della pena Non sono ricomprese nel divieto di retroattività le norme che regolano il processo penale. Per la materia processuale opera di regola il principio tempus regit actum, cioè il principio secondo cui: • Gli atti processuali già compiuti conservano la loro validità anche dopo un mutamento della disciplina legislativa; • Gli atti da compiere sono immediatamente disciplinati dalla nuova legge processuale, ancorché collegati ad atti compiuti in precedenza. In alcuni casi è pacifica l’appartenenza di una determinata disciplina alla materia processuale, e quindi la sua riconducibilità al principio tempus regit actum. Altre volte, invece, l’appartenenza di una norma al diritto processuale penale o al diritto penale sostanziale è controversa, con la conseguenza che per una serie di istituti che si collocano ai confini tra i due settori dell’ordinamento si pone il problema se siano o no interessati dal divieto di retroattività. Per la soluzione di questi casi occorre far capo alla funzione assegnata dalla Costituzione al principio di irretroattività (Corte Costituzionale, sent. n. 32/2020). Problematica è l’efficacia nel tempo di una legge che allunghi la durata del tempo necessario per la prescrizione di un reato. In proposito occorre distinguere a seconda che: • All’entrata in vigore della legge sia già decorso il tempo per la prescrizione del reato: in tal caso, un’applicazione retroattiva della nuova disciplina va esclusa. Decorso il tempo necessario per la prescrizione, l’agente non è punibile e può fare affidamento su questo stato di cose. • All’entrata in vigore della legge la prescrizione non sia ancora maturata: la legge che sancisce l’allungamento dei termini potrebbe applicarsi anche retroattivamente. 31 Questa soluzione, mentre trova conferma nella giurisprudenza della Corte EDU e in una parte della giurisprudenza della Corte di Giustizia, non è invece condivisa dalla Corte di Cassazione che, invocando la natura sostanziale della prescrizione del reato, ha escluso la possibilità di applicare retroattivamente una disposizione (art. 157, co. 6, c.p.) che ha previsto il raddoppio del termine di prescrizione del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi; diversa la soluzione offerta dalla Suprema Corte per il caso in cui le condotte di maltrattamenti siano iniziate prima, ma siano proseguite dopo il raddoppio dei termini di prescrizione. Anche la Corte costituzionale inquadra la prescrizione del reato come istituto sostanziale, coperto dalla garanzia del principio di legalità ex art. 25, co. 2, Cost. Nel caso Taricco, la Corte di Giustizia ha affermato che compete al singolo ordinamento nazionale stabilire se l’istituto della prescrizione del reato abbia natura sostanziale o processuale: nel primo caso, non potrà essere applicato un termine di prescrizione più lungo a chi ha commesso il reato prima della sentenza Taricco. Questo esito è stato confermato dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 115/2018, ha ribadito la natura sostanziale dell’istituto. Il problema della retroattività di modifiche in malam partem della disciplina della prescrizione del reato si è da ultimo riproposto in giurisprudenza a fronte della sospensione del corso della prescrizione disposta per alcuni mesi nei procedimenti in corso nell’ambito dell’emergenza Covid-19. La Corte costituzionale (sent. n. 278/2020) ha dichiarato la questione non fondata in relazione all’art. 25, co. 2, Cost. In particolare, la Corte: • Ha ribadito la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione del reato, che ricade pertanto nell’area coperta dal principio di irretroattività e dai suoi corollari; • Ha individuato nella disciplina di cui all’art. 82 del d.l. n. 18/2020 un’ipotesi di generalizzata sospensione del procedimento penale per esigenze di tutela della salute pubblica; • Ha ricondotto la disciplina emergenziale alla regola generale di cui all’art. 159, co. 1, c.p., che attraverso un automatismo ancora la sospensione del termine di prescrizione del reato alla sospensione del procedimento penale “imposta da una particolare disposizione di legge”; • Ha escluso una violazione del principio di irretroattività dopo aver considerato come, proprio in virtù della disciplina di cui all’art. 159, co. 1, c.p., al momento del fatto l’autore sapeva o era comunque in grado di sapere “che se il procedimento saranno sospesi in ragione dell’applicazione di una disposizione di legge che ciò preveda, lo sarà anche il decorso del termine di prescrizione”. La soluzione è stata avallata dalle Sezioni Unite Sanna (sent. 5292/2020, Rv. 280432-02). Va peraltro segnalato che in una successiva sentenza (n. 140/2021) la Corte Costituzionale, dopo aver ribadito la natura sostanziale della prescrizione del reato, e la soggezione della sua disciplina all’art. 25, co. 2, Cost., ha dichiarato costituzionalmente illegittima una diversa ipotesi di sospensione del corso della prescrizione durante l’emergenza Covid-19, prevista dallo stesso art. 83, c.l. n. 18/2020 per contrasto con il principio di legalità. Problematico è altresì stabilire se il principio di irretroattività operi in relazione alle modifiche peggiorative per il condannato in materia di esecuzione della pena. Emblematico il caso di restrizioni all’accesso alle misure alternative alla detenzione, come quelle previste dall’art. 4-bis, co. 1, ord. penit. per gli autori di specifiche figure di reato. • Invocando la natura processuale di tale disciplina, la prevalente giurisprudenza ha in passato ritenuto applicabile il principio tempus regit actum e quindi non operante il principio di retroattività in malam partem (Sezioni Unite n. 24561/2006, Rv. 233976). • Secondo Marinucci, invece, modifiche normative tali da incidere sulla qualità della pena ricadono nell’ambito del divieto di retroattività. La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi in merito all’applicabilità retroattiva delle restrizioni all’accesso alle misure alternative introdotte dalla legge Spazzacorrotti per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione, ha ritenuto la nuova disciplina, per come interpretata dalla prevalente giurisprudenza, costituzionalmente illegittima (sent. n. 32/2020). Secondo la Corte, infatti, l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura 32 della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con i principi di legalità e irretroattività della pena ex art. 25, co. 2, Cost. La dichiarazione di illegittimità costituzionale non riguarda le sole misure alternative alla detenzione, ma si estende alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna. In definitiva, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, il problema dell’applicabilità retroattiva di disposizioni relative all’esecuzione della pena va risolto distinguendo tra: • Modifiche che, come quelle in esame, determinano una trasformazione della natura della pena (coperta dal divieto di retroattività); • Modifiche che riguardano le sole modalità esecutive che non fanno venir meno la sostanziale dimensione intramuraria della pena stessa (non coperte dal divieto di retroattività). Il principio di retroattività delle norme penali favorevoli all’agente Le ipotesi in cui dopo la commissione del fatto sopravvenga una legge penale più favorevole all’agente sono regolate dall’art. 2, co. 2-4, c.p. secondo il principio di retroattività della legge più favorevole, che riguarda: • La legge che abolisce il reato; • La legge che modifica la disciplina del reato e, in particolare, le disposizioni concernenti il tipo e la misura della pena, nonché tutte le norme sostanziali che, pur riguardando profili diversi dalla sanzione in senso stretto, incidono sul trattamento sanzionatorio riservato al reo. L’art. 2, co. 2, c.p. stabilisce che: Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. La norma sopravvenuta che abolisce l’incriminazione si applica dunque retroattivamente: • Se non è stata ancora pronunciata la condanna, il soggetto deve essere prosciolto; • Se vi è stata sentenza definitiva di condanna, cessa l’esecuzione della pena e ogni effetto penale della condanna. Il principio di retroattività della legge più favorevole trova inoltre applicazione nelle ipotesi di successioni di leggi penali modificative della disciplina del reato. Secondo l’art. 2, co. 4, c.p.: Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. Anche una legge sopravvenuta che modifica in senso favorevole all’agente la disciplina di un reato si applica dunque retroattivamente, a condizione però che la sentenza di condanna non sia ancora passata in giudicato. Infine, a norma dell’art. 2, co. 3, c.p.: Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 135. Se dunque la modifica favorevole al reo consiste nella previsione della pena pecuniaria laddove la legge precedente prevedeva una pena detentiva, la legge sopravvenuta si applica retroattivamente senza incontrare il limite del giudicato. Il principio di retroattività della legge più favorevole trova applicazione, in pendenza di giudizio, anche durante il periodo della c.d. vacatio legis (15 giorni successivi alla pubblicazione della legge). La Corte costituzionale ha costantemente escluso che il principio di retroattività della norma penale favorevole all’agente trovi copertura costituzionale nell’art. 25, co. 2, Cost. Nondimeno, secondo la Corte costituzionale anche il principio di retroattività della norma penale favorevole all’agente, benché non trovi enunciazione espressa nella Costituzione, è coperto da garanzia costituzionale. Il rango costituzionale del principio di retroattività della lex mitior discende dal principio di eguaglianza ex art. 3 Cost.: il principio di retroattività della norma penale favorevole vincola non solo il giudice, ma anche il legislatore ordinario. 35 Es. ® Depenalizzazione: la l. n. 120/2010 ha trasformato la guida in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro di sangue da contravvenzione ad illecito amministrativo. Es. ® Trasformazione in illecito civile sottoposto a sanzione pecuniaria: il d.lgs. 7/2016 ha trasformato l’ingiuria da reato a sanzione pecuniaria civile da 100 e 8.000 €. La legge abolitrice del reato può anche essere una c.d. legge intermedia che, intervenuta dopo la commissione del fatto, risulti poi abrogata al momento del giudizio: ai sensi dell’art. 2, co. 2, c.p., infatti, è sufficiente che il fatto non costituisce reato secondo una legge posteriore. Es. ® Rifiuto di sottoporsi ad alcooltest: inizialmente era previsto come reato; nel 2007 è tato depenalizzato; nel 2008 è stato nuovamente configurato come reato. Un’abolizione del reato può derivare anche dalla restrizione dell’area applicativa di una incriminazione preesistente. In tale ipotesi (abolizione parziale del reato) il legislatore fa venir meno la rilevanza penale di una sola parte delle classi di fatti in precedenza riconducibili ad una determinata figura di reato, conservandola, invece, per un’altra parte. Ciò si verifica allorché la figura di reato risultante dalla modifica normativa è speciale rispetto a quella precedente, perché si riferisce a una classe di fatti in essa espressamente o tacitamente già ricompresa, che conserva rilevanza penale. In particolare, i fatti commessi nel vigore della precedente legge, nei limiti in cui rientrano nella previsione della nuova legge, rimangono punibili a norma dell’art. 2, co. 4, c.p., mentre gli atri, ad essa non riconducibili e, pertanto, oggetto della parziale abolitio criminis, non costituiscono più reato, ai sensi dell’art. 2, co. 2, c.p. (Sezioni Unite Giordano, n. 25887/2003, Rv. 224608). La formale abrogazione della norma incriminatrice non sempre comporta l’abolizione del reato. Può infatti accadere (ipotesi di c.d. abrogatio sine abolitione) che le classi di fatti in precedenza riconducibili alla norma incriminatrice abrogata conservino rilevanza penale, senza soluzione di continuità, in quanto riconducibili a un’altra norma incriminatrice: • Già prevista nell’ordinamento e divenuta applicabile solo dopo e per effetto della modifica legislativa; • Introdotta contestualmente alla modifica legislativa stessa. Questo fenomeno, che si verifica allorché la figura di reato soppressa è speciale rispetto ad una fattispecie generale già vigente o introdotta contestualmente alla sua soppressione, ricade nella previsione dell’art. 2, co. 4, c.p.: dà luogo ad una successione di leggi meramente modificative della disciplina di fatti che continuano ad essere previsti come reato, poiché “legge posteriore”, ai sensi dell’art. 2, co. 4, c.p., non è necessariamente quella introdotta dopo la commissione del fatto, ma può essere anche la disciplina divenuta applicabile al caso concreto a seguito di mutamenti normativi intervenuti dopo il fatto (Sezioni Unite Rizzoli). In particolare, è il caso: • Di una preesistente norma generale, divenuta applicabile solo dopo e per effetto dell’abrogazione di una norma speciale; • Di una norma generale introdotta in sostituzione di una norma speciale abrogata con la medesima o con altra disposizione di legge. Es. ® L’abrogazione della norma che puniva l’omicidio per causa d’onore (art. 587 c.p.) non ha comportato una abolitio criminis: in caso di omicidio per causa d’onore commesso prima della riforma del 1981, il giudice applicherò la norma sull’omicidio per causa d’onore, vigente al momento del fatto, trattandosi di norma più favorevole al reo. L’art. 2, co. 2, c.p. stabilisce che: Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. Questa disposizione attribuisce dunque una retroattività illimitata all’abolizione del reato, nel senso che ne può risultare travolto anche il giudicato. In particolare: • Se non è stata ancora pronunciata sentenza definitiva di condanna, l’agente deve essere assolto perché “il fatto non è previsto dalla legge come reato” (art. 530, co. 1, c.p.p.); • Se la sentenza di condanna è passata in giudicato, ed è tuttora in corso l’esecuzione della pena principale, deve essere disposta, da parte del giudice dell’esecuzione, la revoca della 36 sentenza di condanna e la cessazione dell’esecuzione della pena (art. 673 c.p.p.); del pari, cessa l’esecuzione delle pene accessorie e vengono meno gli altri effetti penali della condanna. Restano invece ferme le obbligazioni civili nascenti da reato nonché, secondo una parte della giurisprudenza, la misura di sicurezza patrimoniale della confisca. Un recente orientamento giurisprudenziale ha parificato all’abolitio criminis l’incompatibilità tra una norma incriminatrice e una norma di fonte UE dotata di efficacia diretta. Si è affermato di conseguenza che anche in questa diversa ipotesi, non regolata dall’art. 2, co. 2, c.p., trova applicazione l’art. 673 c.p.p. La Corte costituzionale ha dichiarato infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p. sollevata, per contrasto con gli artt. 3, 27, co. 3 e 117, co. 1, Cost., nella parte in cui non include, tra le ipotesi di revoca della sentenza di condanna, anche il mutamento giurisprudenziale, determinato da una decisione delle Sezioni Unite, in base alla quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato. Abolizione del reato e successione di norme integratrici È controverso se l’abolizione del reato possa essere la conseguenza di modifiche, intervenute successivamente alla commissione del fatto, che non riguardano (direttamente) la norma incriminatrice, rimasta formalmente invariata, bensì una norma giuridica o extragiuridica in vario modo richiamata dalla norma incriminatrice. Secondo Marinucci, la soluzione è diversa a seconda che la norma richiamata integri o no la norma incriminatrice (Sezioni Unite Magera, n. 2451/2007, Rv. 238197): solo nel primo caso si potrà parlare propriamente di successione di norme integratrici della norma penale e sarà applicabile la disciplina dell’art. 2, co. 2, c.p., in quanto la modifica si ripercuoterà sulla fisionomia della figura di reato, nonché sulle scelte politico-criminali e sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore nella configurazione del reato. Qualora la norma incriminatrice faccia riferimento ad un’altra norma (giuridica o extragiuridica) attraverso un elemento normativo della fattispecie, la norma richiamata non integra la norma incriminatrice perché non contribuisce a descrivere la figura astratta del reato e ad esprimere la scelta politco-criminale in essa racchiusa: con la conseguenza che la modifica della norma richiamata non si ripercuote sulla fisionomia del reato e sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore e non dà vita, dunque, a fenomeni, anche parziali, di abolizione del reato. Es. ® La fattispecie di “contraffazione di monete” (art. 453, n. 1, c.p.), attraverso la formula “aventi corso legale nello Stato”, richiama le norme extrapenali che individuano le monete utilizzabili come mezzi di pagamento. L’emanazione di una norma che determini la cessazione del corso legale di una determinata moneta non comporta una parziale abolizione del reato: chi abbia contraffatto banconote che avevano corso legale al momento della contraffazione dovrà essere condannato ex art. 453 c.p. anche se quelle banconote abbiamo successivamente perduto corso legale. Sono invece vere e proprie norme integratrici della norma penale le norme definitorie, cioè le norme – penali o extrapenali – attraverso le quali il legislatore chiarisce il significato di termini usati in una o più disposizioni incriminatrici, concorrendo ad individuare il contenuto del precetto penale: pertanto, una modifica della norma definitoria, che restringa l’ambito dell’incriminazione, dà vita ad una (parziale) abolizione del reato, con efficacia retroattiva rispetto ai fatti commessi prima della modifica. Es. ® Allorché la l. 39/1975 ha ridefinito la nozione di “minore”, abbassando da 21 a 18 anni il limite della maggiore età, le norme incriminatrici che fanno riferimento al minore come elemento costitutivo del fatto hanno conosciuto una restrizione del loro ambito applicativo. Vere e proprie norme integratrici della norma penale sono poi le norme che “colorano” il precetto delle c.d. norme penali in bianco, che hanno diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento entro i limiti segnati dalla riserva di legge tendenzialmente assoluta, cioè entro i limiti di una mera integrazione tecnica da parte di atti generali e astratti del potere esecutiva. 37 Es. ® L’eliminazione di una sostanza da un elenco di stupefacenti contenuto in un decreto ministeriale determinerà una parziale abolizione dei reati in materia di stupefacenti, con effetto retroattivo per chi abbia agito prima della modifica del decreto ministeriale. La successione di norme modificative della disciplina (art. 2, co. 3 e 4, c.p.) Può darsi che una legge posteriore alla commissione del fatto mantenga inalterata la fisionomia astratta del reato, cioè non comporti l’abolizione totale o parziale del reato (art. 2, co. 2, c.p.) e nemmeno un ampliamento dell’incriminazione (art. 2, co. 1, c.p.): la modificazione può infatti riguardare soltanto la disciplina del reato o, detto altrimenti, di una classe di fatti che l’ordinamento continua a configurare come reato. • Se la legge posteriore è meno favorevole, il principio di irretroattività impone che si applichi la legge vigente al momento del fatto; • Se la legge posteriore è più favorevole, in base al principio della retroattività della legge più favorevole si applicherà quest’ultima. Dispone infatti l’art. 2, co. 4, c.p. che: Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo. Nulla esclude che la legge più favorevole al reo possa essere anche una c.d. legge intermedia, non più in vigore al momento del giudizio. Nello stabilire quale sia la legge più favorevole, il giudice non potrà combinare disposizioni dell’una e dell’altra, creando una “terza legge”: dovrà applicare integralmente o l’una o l’altra. La retroattività della legge posteriore più favorevole incontra un limite: non deve essere intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna, perché sull’esigenza di un trattamento più mite prevale l’intangibilità della cosa giudicata, come espressione dell’esigenza di salvaguardare la certezza degli accertamenti giudiziari ormai esauriti. La regola enunciata dall’art. 2, co. 4, c.p. si applica infatti “salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. Il giudice, per decidere quale sia la legge che contiene la disciplina più favorevole all’agente ai fini dell’art. 2, co. 4, c.p., deve effettuare un giudizio in concreto caso per caso, confrontando i risultati che deriverebbero dall’applicazione al caso concreto dalla legge del tempo e delle leggi posteriori. Il metodo che deve seguire il giudice è pertanto il seguente: • Deve prima applicare idealmente al caso concreto la legge del tempo del commesso reato; • Quindi quella in vigore al momento del giudizio, nonché, nell’ipotesi in cui le leggi in successione siano più di due, le eventuali leggi “intermedie”; • Infine, deve comparare i risultati delle diverse applicazioni ideali per decidere quale sia la legge che contiene la disciplina più favorevole per il caso concreto. Per stabilire quale sia la legge che contiene la disciplina in concreto più favorevole, il giudice deve considerare l’intera disciplina: deve considerare in particolare la specie (la pena pecuniaria si considera sempre più favorevole rispetto alla pena detentiva) e la misura della pena principale, le pene accessorie, le pene sostitutive delle pene detentive, le circostanze del reato, gli effetti penali della condanna, le misure di sicurezza, le cause di giustificazione, le scusanti, le cause di non punibilità, le cause di estinzione del reato e della pena. Un’ipotesi particolare di legge posteriore più favorevole è quella in cui dopo la commissione di un reato punito con pena detentiva (arresto, reclusione o ergastolo) entri in vigore una nuova legge che preveda per quel reato una (sola) pena pecuniaria (ammenda o multa). Es. ® Delitto di vilipendio alla nazione italiana (art. 291 c.p.): originariamente punito con la reclusione da 1 a 3 anni, attualmente è punito con la multa da 1.000 a 5.000 €. • Qualora la nuova legge entri in vigore prima che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile ai sensi della legge del tempo del commesso reato, la nuova legge troverà applicazione a norma dell’art. 2, co. 4, c.p.: verrà dunque inflitta, se del caso, la pena pecuniaria. • Qualora invece la nuova legge intervenga dopo la pronuncia di una sentenza definitiva di condanna, se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente 40 giudice dell’esecuzione di continuare ad applicare la legge penale dichiarata incostituzionale che sia stata alla base di una sentenza di condanna passata in giudicato (ex art. 30, co. 4, l. 87/1953). Tale principio trova applicazione anche nella disciplina processuale: a norma dell’art. 673, co. 1, c.p.p., in caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione deve revocare la sentenza di condanna o il decreto penale, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato. La giurisprudenza ha precisato l’ambito di applicazione della disciplina prevista dall’art. 30, co. 4, l. 87/1953, affermando che questa trova applicazione: • Allorché venga dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice; • Allorché la dichiarazione di illegittimità costituzionale riguardi una circostanza aggravante o, comunque, disposizioni relative al trattamento sanzionatorio. In queste ultime ipotesi la sentenza di condanna non può essere revocata a norma dell’art. 673 c.p.p.; ciò non toglie che il giudice debba rideterminare la pena inflitta in applicazione della disposizione dichiarata illegittima. Un ulteriore problema relativo all’ambito di applicazione della disciplina prevista dall’art. 30, co. 4, l. 87/1953 riguarda l’estensione di tale disciplina alle sanzioni amministrative riconducibili alla materia penale secondo i c.d. criteri Engel elaborati dalla Corte EDU. Con la sent. n. 43/2017 la Corte costituzionale ha dichiarato infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 30, co. 4, l. n. 87/1953, sollevata per contrasto con gli artt. 3, 25, co. 2 e 117, co. 1 Cost in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non estende alle sanzioni amministrative punitive la disciplina dettata per la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una disposizione incriminatrice. La Corte costituzionale, in particolare, ha chiarito che nella giurisprudenza della Corte EDU non si rinviene alcuna affermazione dalla quale si possa esigere che gli Stati aderenti sacrifichino il principio dell’intangibilità del giudicato nel caso di sanzioni amministrative inflitte sulla base di norme successivamente dichiarate costituzionalmente illegittime. La questione è tornata recentemente all’esame della Corte con riferimento alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida ex art. 222, co. 2, cod. strada. La Corte, con la sent. n. 68/2021, ha dichiarato la questione fondata, ritenendo superato il principio dell’intangibilità del giudicato a fronte di una dichiarazione di illegittimità costituzionale. Quanto agli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale di favore, occorre operare una distinzione: • Se si tratta di fatti commessi prima della dichiarazione di illegittimità, andrà applicata la norma penale di favore, e quindi l’agente dovrà essere prosciolto o punito meno severamente; • Andrà applicata la disciplina più sfavorevole risultante dalla pronuncia della Corte costituzionale in relazione ai fatti commessi a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione della Corte. Il tempo del commesso reato Problema comune all’intera disciplina della successione di leggi penali è l’individuazione del tempo in cui è stato commesso il fatto (c.d. tempus commissi delicti): il problema si pone infatti sia ai fini dell’applicazione retroattiva delle norme che aboliscono un reato, sia ai fini della individuazione della legge applicabile in caso di successione di norme modificative della disciplina, ma risulta particolarmente acuto nell’ipotesi di una nuova incriminazione o del trattamento penale più severo di un fatto già preveduto dalla legge come reato. Nel silenzio della legge, la soluzione più persuasiva sembra quella che individua il tempus commissi delicti: • Per i reati commissivi nel momento dell’azione o dell’ultima azione prevista dalla norma: • Per i reati omissivi nel momento n cui andava compiuta l’azione doverosa (c.d. teoria della condotta). La legge non può orientare il comportamento del suo destinatario quando, esaurita l’azione o l’omissione, si veridica, magari dopo un lungo intervallo temporale, l’evento richiesto dalla norma 41 incriminatrice: per questa ragione va respinta la c.d. teoria dell’evento, che fa riferimento all’evento per individuare il tempo del commesso reato. • Nei reati permanenti (ad es., sequestro di persona), il reato si considera commesso nel momento in cui il soggetto compie l’ultimo atto con cui volontariamente mantiene la situazione antigiuridica. Ne consegue che, se durante un sequestro di persona il legislatore inasprisse il trattamento sanzionatorio di tale reato e gli autori del sequestro, sordi all’imperativo del legislatore, continuassero volontariamente a mantenere in vita la privazione della libertà personale della vittima, sarebbe applicabile la legge più severa in quanto legge del tempo del commesso reato. • Nei reati abituali (ad es., maltrattamenti), il tempo del commesso reato è quello in cui si realizza l’ultima condotta che integra il fatto di reato: pertanto, si applicherà all’agente l’eventuale trattamento sanzionatorio più severo previsto da una legge che sia entrata in vigore durante la serie di atti. LIMITI SPAZIALI La tendenziale universalità della legge penale italiana La complessiva disciplina dedicata dal codice penale italiano all’efficacia della legge penale nello spazio esprime una tendenziale adesione al principio di universalità. La legge penale italiana è infatti applicabile a tutti i casi da essa previsti come reato dovunque, da chiunque e contro chiunque commessi, ad eccezione di una ristretta gamma di reati, per lo più di limitata gravità (artt. 9 e 10 c.p.): • Le contravvenzioni; • I delitti puniti con la sola pena pecuniaria; • I delitti commessi dallo straniero ai danni dello Stato italiano o del cittadino puniti con la reclusione inferiore ad un anno; • I delitti commessi dallo straniero ai danni delle Comunità europee, di uno Stato estero o di un altro straniero puniti con la reclusione inferiore nel minimo a 3 anni. La nozione di territorio dello Stato La legge penale italiana si applica innanzitutto ai reati commessi nel territorio dello Stato ed è indifferente che l’autore del reato sia un cittadino o uno straniero. Dispone infatti l’art. 6, co. 1, c.p.: Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana. La nozione di territorio dello Stato è fornita dall’art. 4, co. 2, c.p., a mente del quale: Agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Appartengono dunque al territorio dello Stato: • Il suolo dello Stato, le acque interne e il lido del mare; • Il sottosuolo, nei limiti della sua concreta utilizzabilità e raggiungibilità; • Lo spazio aereo nazionale (c.d. soprassuolo), limitatamente allo spazio atmosferico; • Il mare territoriale, che si estende fino a 12 miglia marine dalle coste continentali e insulari della Repubblica ex art. 2, co. 2, disp. prel. cod. nav. Secondo l’art. 4, co. 2, ult. pt., c.p., sono considerati inoltre territorio dello Stato: Le navi e gli aeromobili italiani, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera. Pertanto, i reati commessi a bordo delle navi e degli aeromobili italiani si considerano commessi nel territorio dello Stato sia che la nave o l’aereo si trovino in acque internazionali o nello spazio aereo internazionale, sia che la nave o l’aereo si trovino nell’ambito di un territorio straniero. Inoltre: • È illimitata l’estensione della legge penale italiana alle navi e agli aeromobili militari italiani che si trovino nell’ambito di un territorio estero. • Quando invece si tratti di navi o aerei civili italiani (commerciali o da diporto) che si trovino in territorio estero, l’assoggettamento alla nave è limitato, nel senso che è escluso quando ricorra una delle seguenti condizioni: 42 o Che la vittima del reato sia persona diversa dai membri dell’equipaggio; o Che il fatto turbi la tranquillità dello Stato estero; o Che sia stato richiesto l’intervento dell’autorità locale. In presenza di queste condizioni, secondo la prassi internazionale il fatto ricadrà sotto la legge e la giurisdizione dello Stato estero. Il codice penale nulla dice a proposito dei reati commessi a bordo di navi o aeromobili stranieri che si trovino nel territorio italiano: si ritengono tuttavia applicabili le regole ora esposte. I reati commessi nel territorio dello Stato L’art. 6, co. 2, c.p., accogliendo la c.d. teoria dell’ubiquità, chiarisce che: Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero se ivi si è verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione. Questa disciplina è volta ad estendere, con una finzione giuridica, l’applicabilità della legge penale italiana a fatti che non sono stati realizzati in tutti i loro elementi nel territorio dello stato: basta che un frammento del reato si sia verificato in Italia per attrarre l’intero reato sotto la disciplina italiana. Si tratta quindi di precisare quando l’azione o l’omissione sia stata realizzata almeno in parte nel territorio dello Stato: • Quanto all’azione, il dettato della legge impone che si tenga conto soltanto di comportamenti tipici, cioè riconducibili al tipo di azione descritto dalla norma incriminatrice. o Nei reati a forma vincolata (reati nei quali la legge esige che l’azione sia compiuta con determinate modalità), tipica è l’azione che corrisponde allo specifico modello di comportamento descritto nella norma incriminatrice; o Nei reati a forma libera (reati nei quali la legge attribuisce rilevanza a qualsiasi comportamento umano che abbia causato un determinato evento), solo apparentemente l’azione tipica non è individuata dal legislatore: § Nei reati dolosi a forma libera, tipica è l’attività che consiste nell’uso del mezzo impiegato dall’agente; § Nei reati colposi a forma libera, tipica è ogni azione che abbia colposamente creato il pericolo concretizzatosi nell’evento. • Quanto all’omissione, il reato si considererà commesso nel territorio dello Stato se ivi doveva essere realizzata l’azione doverosa che è stata omessa; e nel caso in cui si dovessero compiere più azioni, se almeno una di tali azioni dovesse essere compiuta nel territorio dello Stato. Nei reati di evento, sia commissivi che omissivi, la legge penale italiana risulta applicabile quando nel territorio dello Stato si sia verificato l’evento descritto nella norma incriminatrice: e ciò anche nel caso in cui l’azione o l’omissione che rispettivamente l’hanno causato o non impedito siano state compiute in territorio estero. • Quanto ai reati abituali, il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando ivi è stato compiuto anche uno solo degli atti la cui reiterazione integra il reato; • Quanto ai reati permanenti, l’applicabilità della legge italiana è assicurata dal compimento in Italia anche di una sola parte del fatto. Il codice penale italiano non detta nessuna regola per disciplinare i casi in cui il reato, consumato o tentato, venga commesso in territorio estero, mentre in Italia siano compiute condotte di partecipazione, materiale o morale, condotte cioè che abbiano contribuito causalmente alla realizzazione del fatto. Nel silenzio della legge, prevale l’opinione che considera sufficiente a fondare l’applicazione della legge penale italiana la commissione nel territorio dello Stato di una qualsiasi condotta di partecipazione, ritenendola parte integrante della fattispecie concorsuale. I reati commessi all’estero punibili incondizionatamente secondo la legge italiana La tendenziale universalità della legge penale italiana trova la sua massima manifestazione nei confronti di una vasta gamma di reati commessi integralmente all’estero dal cittadino o dallo 45 Relativamente più ristretto è l’ambito di applicabilità della legge penale italiana ai delitti comuni dello straniero commessi all’estero a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero: deve trattarsi di delitti puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni (art. 10, co. 2, c.p.). Sono sempre necessarie: a. La presenza dell’agente nel territorio dello Stato; b. La richiesta del Ministro della giustizia; c. La non concessione, da parte del Governo italiano, dell’estradizione dello straniero ovvero la non accettazione dell’estradizione da parte del Governo dello Stato estero. La richiesta del Ministro della giustizia non è necessaria, invece, quando si tratti di alcune ipotesi di corruzione di altri delitti contro la p.a. Per tutti i delitti comuni commessi all’estero dallo straniero, l’applicabilità della legge penale italiana è subordinata all’ulteriore condizione della doppia incriminazione del fatto. Il rinnovamento del giudizio Un corollario della tendenziale universalità della legge penale italiana è la riserva della giurisdizione italiana su tutti i fatti assoggettati alla nostra legislazione penale ai sensi degli artt. 6-10 c.p. La riserva di giurisdizione è piena e incondizionata per i reati commessi nel territorio dello Stato: Nel caso indicato nell’art. 6, il cittadino o lo straniero è giudicato nello Stato, anche se sia stato giudicato all’estero (art. 11, co. 1, c.p.). Per i delitti, sia politici che comuni, commessi all’estero del cittadino o dallo straniero, il rinnovamento del giudizio in Italia è invece subordinato alla richiesta del Ministro della giustizia. Secondo il codice penale del 1930, il principio ne bis in idem non opera nei rapporti internazionali: una persona giudicata all’estero può essere giudicata per lo stesso fatto anche in Italia. Attualmente, peraltro, il processo di integrazione europea determina la tendenza al riconoscimento del ne bis in idem all’interno dell’Unione europea; anzi, il principio è stato elevato a principio fondamentale all’interno dell’UE attraverso l’art. 50 CDFUE, a mente del quale: Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge. Il riconoscimento delle sentenze penali straniere Nella visione del codice del 1930, la riserva di giurisdizione si manifesta anche nella tendenziale irrilevanza delle sentenze penali straniere, che sono ineseguibili in Italia in ordine alla pena principale inflitta dal giudice dello Stato estero. La possibilità di riconoscimento è circoscritta a taluni aspetti secondari della sentenza: • Per stabilire la recidiva o un effetto penale della condanna; • Per dichiarare l’abitualità, la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere; • Per applicare una pena accessoria; • Per applicare una misura di sicurezza personale. Oltre a questi effetti di natura penale, il riconoscimento della sentenza straniera può produrre taluni effetti di diritto civile (art. 12, co. 1, n. 4, c.p.): • Il riconoscimento può essere operato ai fini delle restituzioni o del risarcimento del danno; • La sentenza penale straniera può essere riconosciuta ad altri effetti civili: si pensi all’esclusione dalla successione per indegnità a norma dell’art. 463 c.c. I Paesi membri del Consiglio d’Europa hanno stipulato una serie di convenzioni finalizzate alla lotta alla criminalità, che hanno ampliato la portata del riconoscimento delle sentenze penali straniere: • Può essere data esecuzione in Italia alle pene principali inflitte da un giudice straniero; inoltre, l’esecuzione della pena principale, iniziata all’estero, può proseguire in Italia a seguito del trasferimento della persona condannata; • Le sentenze penali straniere possono essere riconosciute anche ai fini della confisca disposta dal giudice straniero su beni che si trovino nel territorio dello Stato, sempre che si tratti di beni che sarebbero confiscabili se si procedesse secondo la legge italiana. Inoltre, è 46 confiscabile il valore dei proventi del reato, cioè una somma di denaro corrispondente al valore del prezzo, del prodotto o del profitto del reato. Nell’ambito dell’Unione europea sono state emanate alcune “decisioni quadro” che impegnano gli Stati membri al reciproco riconoscimento, tra l’altro: a. Delle sentenze che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale; b. Delle sentenze che dispongono la sospensione condizionale della pena o un’altra misura sospensiva o sostitutiva, sottoponendo il destinatario a obblighi o divieti; c. Delle sentenze che irrogano sanzioni pecuniarie; d. Delle sentenze che dispongono la confisca; e. Dei provvedimenti che applicano misure cautelari diverse dalla custodia in carcere. Il sistema penale italiano pone una serie di condizioni perché si possa procedere al riconoscimento di una sentenza penale straniera: • Condizione prioritaria è la doppia incriminazione del fatto. Occorre peraltro che la legge italiana preveda quel fatto come delitto. Inoltre, quale che sia la qualificazione del reato nell’ordinamento straniero, non è necessario che il reato riceva identico o analogo trattamento sanzionatorio nell’ordinamento italiano ed in quello straniero. • Deve esistere un trattato di estradizione con lo Stato estero (art. 12, co. 2, c.p.), anche se non è necessario che il delitto rientri tra quelli per i quali è prevista l’estradizione; in mancanza di un trattato di estradizione, si può procedere al riconoscimento della sentenza straniera sulla base della richiesta del Ministro della giustizia. L’estradizione Con il termine estradizione si designa un procedimento attraverso il quale uno Stato consegna ad altro Stato una persona che si trova nel suo territorio affinché, nello Stato richiedente, sia sottoposto a giudizio (c.d. estradizione processuale) o all’esecuzione di una pena già inflittagli (c.d. estradizione esecutiva). Si parla inoltre di estrazione attiva e di estradizione passiva a seconda che si guardi all’estradizione dal punto di vista dello Stato che richiede l’estradizione o dello Stato che la concede. L’art. 13, co. 1, c.p. individua quale fonti che regolano l’estradizione: • La legge penale italiana; • Le convenzioni; • Gli usi internazionali. A norma dell’art. 696 c.p.p., prevalgono peraltro le norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato italiano e le norme di diritto internazionale generale: ciò comporta che le norme di diritto internazionale si applicano in luogo di quelle di diritto interno, anche emanate successivamente, ove dettino una disciplina diversa. Al diritto interno compete pertanto un ruolo solo residuale, limitato cioè alle ipotesi in cui manchino norme di diritto internazionale. Limiti invalicabili sono posti dal diritto italiano con norme di rango costituzionale in ordine all’estradabilità del cittadino per reati comuni: L’estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali (art. 26, co. 1, Cost.). Non è ammessa l’estradizione del cittadino, salvo che sia espressamente consentita nelle convenzioni internazionali (art. 13, co. 4, c.p.). Condizione per l’estradizione è la doppia incriminazione del fatto (art. 13, co. 2, c.p.). Tale condizione deve sussistere al momento della decisione sulla domanda di estradizione, mentre non è necessario che ricorra alla data della commissione del reato. Il principio della doppia incriminazione riguarda la riconducibilità del fatto concreto sia sotto una norma incriminatrice prevista dalla legge straniera, sia sotto una norma incriminatrice prevista dalla legge italiana: è irrilevante che il fatto abbia una diversa qualificazione giuridica nei due ordinamenti, che siano diversi gli elementi richiesti per la configurazione del reato ovvero che il reato sia punito con pene diverse. 47 È invece irrilevante, ai fini della concedibilità dell’estradizione, la circostanza che nell’ordinamento dello Stato richiesto il reato sia sottoposto a condizioni di procedibilità non previste nello Stato richiedente: le condizioni di procedibilità decidono infatti non dell’opportunità di infliggere una pena, bensì dell’opportunità di instaurare un procedimento diretto ad accertare la responsabilità penale. Un’ulteriore condizione per l’estradizione, sia attiva che passiva, è fissata dal principio di specialità dell’estradizione. Questo principio comporta il divieto per lo Stato che ottiene l’estradizione di sottoporre l’estradato a restrizione della libertà personale a qualsiasi titolo per fatti anteriori e diversi da quello per il quale l’estradizione è stata concessa. Inoltre, il principio comporta il divieto di consegnare l’estradato ad un altro Stato. Il divieto di sottoporre l’estradato a restrizione della libertà personale per fatti anteriori e diversi da quello cui si riferisce l’estradizione viene meno in quattro casi: 1. Quando lo Stato richiedente abbia domandato e ottenuto una estradizione suppletiva, cioè l’estensione dell’estradizione per perseguire altri reati anteriormente commessi; 2. Quando l’estradato si sia volontariamente trattenuto nel territorio dello Stato che ha ottenuto l’estradizione per almeno 45 giorni dalla sua definitiva liberazione; 3. Quando l’estradato, dopo aver lasciato il territorio dello Stato al quale era stato consegnato, vi abbia fatto volontariamente ritorno; 4. Quando l’estradato abbia manifestato il consenso ad essere processato per un reato anteriore e diverso da quello per il quale è stata concessa l’estradizione. La materia dell’estradizione è infine governata dai principi di sussidiarietà e del ne bis in idem: • Sussidiarietà: l’estradizione non può essere concessa se per lo stesso fatto e nei confronti della persona della quale è domandata l’estradizione è in corso un procedimento penale nello Stato italiano; • Ne bis in idem: l’estradizione è impedita quando per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona è stata pronunciata in Italia sentenza irrevocabile (di condanna o di proscioglimento). La Costituzione prevede alcuni limiti personali all’estradizione: • Il cittadino è estradabile per reati comuni soltanto ove l’estradizione sia espressamente prevista nelle convenzioni internazionali (art. 26, co. 1, Cost.); • Il cittadino e lo straniero non sono estradabili per reati politici (artt. 26 co. 2 e 10 co. 4 Cost.). Un ulteriore divieto di estradizione interessa sia i reati politici, sia i reati comuni, e opera allorché ci sia motivo di temere atti persecutori o discriminatori, ovvero la violazione di un diritto fondamentale della persona. L’art. 698 c.p.p., dopo aver ribadito il divieto di estradizione per reati politici, dispone che: Non può essere concessa l’estradizione quando vi è ragione di ritenere che l’imputato o il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona. Quanto, in particolare, agli stranieri extracomunitari e agli apolidi, l’art. 19, co. 1-bis, T.U. immigrazione stabilisce che non è ammessa l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. È infine vietata l’estradizione da parte dell’Italia per reati per i quali l’ordinamento dello Stato richiedente preveda la pena di morte: il divieto opera sia nelle ipotesi in cui l’estradando dovrebbe essere giudicato nello Stato estero, sia nelle ipotesi in cui dovrebbe essere eseguita nei suoi confronti la pena di morte già precedentemente inflitta. Il divieto di estradizione per i casi in cui esista un rischio serio che l’interessato sia sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti è espressamente enunciato anche nell’art. 19, co. 2, CDFUE e nell’art. 3 CEDU. 50 Si tratta di una causa di giustificazione, che rende leciti i fatti penalmente rilevanti compiuti dal consigliere regionale nell’esercizio della funzione legislativa, in quella di indirizzo politico o nell’attività di auto-organizzazione del consiglio. I consiglieri regionali non godono di alcuna immunità processuale. Anche i giudici della Corte costituzionale fruiscono di un’immunità funzionale di diritto sostanziale per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni: tale immunità ha natura di causa di giustificazione e produce quindi l’effetto di escludere ogni forma di responsabilità. I giudici costituzionali, limitatamente alla durata della loro carica, godono altresì di un’immunità processuale extrafunzionale: senza autorizzazione della Corte costituzionale i giudici non possono essere privati della libertà personale e non possono essere sottoposti a procedimento penale; inoltre, non possono essere disposte intercettazioni, né il sequestro di corrispondenza. L’art. 32-bis, l. n. 195/1958, dispone che i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura non sono punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto della discussione. Si tratta di un’immunità funzionale di diritto sostanziale, alla quale il legislatore ricollega effetti più circoscritti rispetto a quelli propri delle immunità parlamentari, dei consiglieri regionali e dei giudici della Corte costituzionale: i membri del Consiglio Superiore della Magistratura vengono esonerati soltanto dalla responsabilità penale, e non anche dalla responsabilità civile e amministrativa. Siamo dunque in presenza di una causa di esclusione della punibilità. Le immunità di diritto internazionale Tra le immunità di diritto internazionale, un’immunità assoluta compete al Sommo Pontefice, la cui persona è definita “sacra e involabile” nell’art. 8 del Trattato del Laterano. Il Sommo Pontefice gode pertanto di un’immunità di diritto sostanziale anche per atti compiuti al di fuori delle funzioni, nonché di una piena immunità di diritto processuale; tali immunità si estendono a tutti i rami dell’ordinamento. Agli effetti del diritto penale, l’immunità ha natura di causa personale di esclusione della punibilità. Analoga immunità è riconosciuta dall’art. 11 del Trattato del Laterano alle persone fisiche che operano in qualità di organo degli enti centrali della Chiesa cattolica, cioè gli enti della Curia romana che svolgono attività con fini prevalenti di governo religioso della Chiesa. Anche il Capo di Stato estero, i suoi familiari e il suo seguito, quando si trovino in tempo di pace in territorio italiano, godono di una immunità assoluta di diritto sostanziale e processuale, penale ed extrapenale, che abbraccia anche gli atti compiuti al di fuori dell’esercizio delle funzioni. Godono di una immunità di diritto sostanziale sia agli effetti penali sia agli effetti extrapenali, quando si trovino nel territorio dello Stato italiano, i capi e i membri di governi stranieri, i componenti delle missioni speciali inviate in Italia da uno Stato estero e i rappresentanti di Stati esteri in conferenze internazionali e in organizzazioni intergovernative: tale immunità riguarda però i soli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni. Gli agenti diplomatici stranieri godono dell’immunità dalla giurisdizione penale, civile e amministrativa dello Stato italiano anche per gli atti compiuti al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni. I membri del personale tecnico e amministrativo della missione diplomatica sono esentati dalla giurisdizione penale dello Stato, mentre l’esenzione dalla giurisdizione civile e amministrativa è circoscritta agli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni. I funzionari e gli impiegati consolari stranieri godono di una immunità funzionale di diritto sostanziale, penale e extrapenale; sul terreno del diritto penale, l’immunità ha natura di causa personale di non punibilità. Per gli atti compiuti al di fuori dell’esercizio delle funzioni i funzionari e gli impiegati consolari non possono essere arrestati, né assoggettati a custodia cautelare in carcere, a meno che non si tratti di un delitto punito con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni. La fonte di tutte queste immunità risiede nelle norme consuetudinarie di diritto internazionale generalmente riconosciute e quindi rilevanti ex art. 10 Cost. La ratio di tali immunità è quella di non 51 turbare i rapporti tra Stati, ovvero di non ostacolare l’attività di organismi internazionali nel territorio dello Stato. Non si tratta perciò di cause di giustificazione, bensì di cause personali di esclusione della punibilità: le immunità quindi non si estendono a chi abbia eventualmente partecipato alla commissione di un fatto previsto come reato dalla legge italiana; inoltre, si potrà reagire per legittima difesa nei confronti del fatto illecito posto in essere da questi soggetti immuni. I membri del Parlamento europeo godono di un’immunità funzionale, penale ed extrapenale, per le opinioni e i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni: non possono essere ricercati, detenuti o perseguiti a motivo delle opinioni o dei voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni. Per la durata delle sessioni dell’Assemblea, i parlamentari europei godono inoltre di un’immunità processuale extrafunzionale. Gli appartenenti alle forze armate di uno Stato estero che in tempo di pace si trovino nel territorio dello Stato italiano sono soggetti alla sola legge dello Stato di appartenenza, quando si tratti di reati commessi in servizio. Una disciplina speciale è prevista per gli appartenenti delle forze armate dei Paesi partecipanti alla NATO di stanza in Italia dalla Convenzione di Londra del 19 giugno 1951, la quale prevede la giurisdizione esclusiva dello Stato di origine per i fatti non punibili in base alla legge italiana e la corrispondente giurisdizione esclusiva dello Stato italiano per i fatti non punibili secondo la legge dello Stato di origine. I restanti fatti, previsti come reato sia dalla legge italiana sia dalla legge dello Stato di appartenenza del militare, sono sottoposti alla giurisdizione concorrente di entrambi gli Stati, con attribuzione di sfere di giurisdizione prioritaria a ciascuno di essi, modificabili a seguito di rinuncia alla priorità. In particolare, la giurisdizione dello Stato di appartenenza è prioritaria per: • I reati che attentano esclusivamente alla sicurezza di quello Stat; • I reati che offendono esclusivamente la persona o la proprietà di un membro delle forze armate dello Stato di appartenenza, del personale civile, del loro coniuge o dei figli a carico; • I reati risultanti da ongi atto di negligenza compiuti nell’esercizio del servizio. La sentenza definitiva, di assoluzione o di condanna, pronunciata dallo Stato di appartenenza preclude il giudizio per i medesimi fatti da parte dello Stato italiano. Per ogni altro reato commesso nel territorio italiano è prioritaria la giurisdizione del nostro Stato. Sia lo Stato estero, sia lo Stato italiano possono rinunciare, a seconda dei casi, alla loro priorità giurisdizionale. UN SISTEMA PENALE SOVRASTATUALE Il diritto penale internazionale Accanto al diritto penale classico esiste da tempo il diritto penale internazionale, nei confronti del quale non trovano applicazione i limiti spaziali, personali e temporali sopra esaminati. Il diritto penale internazionale ha la sua fonte nel diritto internazionale ed è dotato di efficacia vincolante sugli individui, senza necessità di mediazione del diritto interno. Tale immediata efficacia vincolante riflette l’estrema gravità dei comportamenti incriminati. Si parla in proposito di crimini internazionali, che a loro volta si articolano in crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione. Il riconoscimento di questo nucleo di diritti (c.d. crimina iuris gentium) quali offese che devono essere penalmente sanzionate a prescindere da limiti territoriali o dalla nazionalità di chi li commette è avvenuto per via consuetudinaria ed è rispecchiato negli statuti di vari tribunali penali internazionali istituti nel corso del XX secolo. La nascita del diritto penale internazionale presuppone il riconoscimento dell’individuo quale soggetto di diritto internazionale e coincide col riconoscimento della responsabilità penale dell’individuo sul piano internazionale. La svolta in materia di giustizia penale internazionale è segnata dall’adozione dello Statuto di Roma, che nel 2002 ha istituito la Corte Penale Internazionale (ICC) con sede all’Aja. La Corte è stata creata mediante un trattato internazionale, attualmente ratificato da 123 Stati, e rappresenta il primo 52 esempio di giurisdizione penale permanente, indipendente, sovrastatuale, con competenza sui crimini più gravi, motivo di allarme per l’intera comunità internazionale che siano stati commessi dopo la sua entrata in funzione. La giurisdizione della Corte si basa sul principio di complementarità rispetto alle giurisdizioni nazionali: si attiva solo se lo Stato che sarebbe competente in base ai consueti criteri di territorialità e di nazionalità non voglia o non sia in grado di procedere nel caso specifico. Quanto alla competenza territoriale, la Corte ha giurisdizione sui crimini commessi sul territorio di uno degli Stati membri o da parte di un loro cittadino. In casi particolari è inoltre previsto un meccanismo di segnalazione alla Corte da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (c.d. referral) che prescinde da qualsiasi criterio territoriale o di nazionalità. Il bilancio dell’attività della Corte in questi anni non soddisfa le aspettative: le poche sentenze di condanna pronunciate sono. Quasi tutte nell’ambito delle indagini in Congo e in pochi altri Paesi africani, mentre in molti degli altri casi l’ICC è sostanzialmente bloccata allo stadio preliminare a causa della mancata cooperazione degli Stati interessati. L’importanza dello Statuto di Roma risiede in ogni caso non solo nell’aver dato vita alla Corte Penale Internazionale, ma anche nell’aver operato per la prima volta una sorta di codificazione del diritto penale internazionale. Accanto alla definizione delle singole figure di illecito, lo Statuto prevede infatti una vera e propria parte generale. Tali norme sono il frutto di un difficile compromesso tra tradizioni giuridiche molto diverse tra loro. In definitiva, attraverso l’adozione dello Statuto di Roma e la creazione della Corte Penale Internazionale la comunità internazionale ha mosso un importante passo verso la creazione di un diritto penale a vocazione universale, non vincolato da limiti segnati dai territori nazionali e dalle giurisdizioni statuali. Ratificando il trattato istitutivo della Corte, gli Stati entrano volontariamente a far parte di tale sistema e, pur mantenendo la propria competenza primaria ad esercitare la giurisdizione nazionale qualora un crimine internazionale sia commesso sul loro territorio o da parte di un loro cittadino, accettano una limitazione della propria sovranità nella misura in cui ammettono la giurisdizione della Corte nei casi previsti dal trattato. L’Italia è tra i Paesi che più hanno contribuito nella fase preparatoria all’elaborazione dello Statuto e lo ha prontamente ratificato con la legge 12 luglio 1999, n. 232, rendendo esecutivo il trattato nel nostro ordinamento. • La l. n. 237/2012 ha permesso la cooperazione giudiziaria delle autorità italiane con la Corte dell’Aja, regolandone le modalità di esecuzione. • Con la l. n. 202/2021 si è provveduto alla ratifica ed esecuzione degli emendamenti allo Statuto riguardanti il crimine di aggressione. Sul piano del diritto penale sostanziale manca, invece, tuttora, nell’ordinamento italiano una legge di adeguamento della legislazione interna allo Statuto della Corte penale internazionale. Nel 2022, durante il Governo Draghi, è stata istituita presso il Ministero della Giustizia una Commissione per l’elaborazione di un progetto di Codice dei crimini internazionali. La commissione ha adempiuto al proprio mandato con la presentazione di un articolato. Il 16 marzo 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge, ad oggi non ancora pubblicato, con il quale si dovrebbe dare avvio all’iter parlamentare del Progetto. Il diritto penale internazionale è allo stato attuale al centro di un groviglio segnato non solo da visioni diverse tra il Governo Draghi e il Governo Meloni, ma anche da una complessa dialettica che si intravede all’interno dello stesso attuale Governo. 55 (b) Reato e illecito amministrativo Anche nei rapporti con l’illecito amministrativo, l’unico criterio per identificare i reati è offerto dal nome delle pene principali: • Quando la legge commina la multa o l’ammenda ci si trova in presenza di un reato; • Sanzioni pecuniarie non designate come multa o ammenda sono sanzioni amministrative. Nell’ordinamento italiano le sanzioni pecuniarie amministrative non hanno un nome tecnico. Diversi ordini di ragioni richiamano l’attenzione del penalista sull’illecito amministrativo: • Da tempo l’illecito amministrativo affianca l’illecito penale, reprimendo offese a beni giuridici selezionate in base ai principi di proporzione e di sussidiarietà: il ricorso alla sanzione amministrativa in luogo della sanzione penale è un importante strumento di deflazione del sistema penale a disposizione del legislatore; • La previsione di illeciti amministrativi è l’unica via che può percorrere il legislatore regionale per la tutela sanzionatoria di beni giuridici; • Nel 2001 lo schema della responsabilità amministrativa è stato adottato dal legislatore italiano per configurare una responsabilità da reato a carico degli enti, dotati o no di personalità giuridica; • L’impatto della sanzione amministrativa sui diritti fondamentali della persona è andato crescendo nella legislazione vigente. La disciplina generale dell’illecito amministrativo, contenuta nella l. n. 689/1981, abbraccia profili sia di diritto sostanziale, sia di diritto processuale: • Quanto al diritto sostanziale, la scelta di fondo del legislatore del 1981 è stata nel senso di una larga mutuazione di principi penalistici: una soluzione coerente con la funzione di tutela preventiva di beni giuridici assolta dalle sanzioni amministrative (pecuniarie e interdittive) interessate da tale disciplina. In tale logica si collocano: o L’enunciazione dei principi di legalità e di irretroattività; o La disciplina della capacità di intendere e di volere; o La disciplina dell’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo; o La disciplina del concorso di persone; o La disciplina del concorso tra norme penali e norme sanzionatorie amministrative; o La disciplina della commisurazione delle sanzioni pecuniarie amministrative. • Quanto ai profili processuali, la sanzione amministrativa viene irrogata, nella forma dell’ordinanza-ingiunzione, dall’ufficio periferico del Ministero nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione ovvero, in assenza di tale ufficio, dal Prefetto. Contro l’ordinanza-ingiunzione, l’interessato può proporre opposizione davanti al giudice di pace, ovvero davanti al tribunale. Sia il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni amministrative, sia le eventuali successive fasi giurisdizionali non coinvolgono il giudice penale: i giudici davanti ai quali può essere proposta opposizione sono infatti il giudice di pace civile e il tribunale civile. Il giudice penale conosce dell’illecito amministrativo solo in caso di connessione obiettiva con un reato, ossia quando l’esistenza di un reato dipende dall’accertamento di un illecito amministrativo: in tal caso il giudice penale applicherà sia la sanzione penale, sia la sanzione amministrativa pecuniaria, sia le eventuali sanzioni amministrative accessorie. Sanzioni amministrative punitive ed estensione delle garanzie penalistiche Sia le sanzioni amministrative di cui alla l. n. 689/1981, sia le sanzioni pecuniarie civili di cui al d.lgs. n. 7/2016 hanno natura punitiva. In relazione alle sanzioni amministrative, questo carattere punitivo è stato da tempo evidenziato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che a partire dalla sentenza Engel ha elaborato una nozione autonoma di materia penale, la quale non considera decisiva la formale qualificazione dell’illecito nell’ordinamento di un Paese, ma dà rilievo anche alla natura sostanziale dell’illecito e della relativa sanzione. 56 Muovendo da tali premesse, la Corte di Strasburgo ha da tempo attratto le sanzioni amministrative nella materia penale, così da estendere a tali sanzioni le garanzie previste dalla CEDU per le pene. Quanto alla Corte costituzionale, la sua giurisprudenza riconosce le sanzioni amministrative punitive nell’ambito applicativo dell’art. 25, co. 2, Cost. Secondo la Corte, dunque: • Ciò che per la giurisprudenza europea ha natura penale deve essere assistito dalle garanzie che la stessa ha elaborato per la materia penale; • Solo ciò che è penale per l’ordinamento nazionale beneficia degli ulteriori presidi rinvenibili nella legislazione interna. La CEDU e la CDFUE prevedono, quali garanzie per la materia penale e per l’illecito amministrativo presidiato da sanzioni amministrative: • Il divieto di bis in idem; • Il principio di irretroattività; • Il diritto al silenzio. A norma dell’art. 649 c.p.p., l’imputato prosciolto o condannato in via definitiva non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto (principio ne bis in idem). Si pone il problema se tale principio operi anche nei rapporti tra sanzione penale e sanzione amministrativa. • In materia di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazioni di mercato, la Corte EDU si è pronunciata con la sentenza Grande Stevens: mentre il legislatore italiano prevede sia la convergenza sui medesimi fatti di sanzioni penali e di sanzioni amministrative, sia lo svolgimento di due autonomi procedimenti, l’uno penale e l’altro amministrativo, la Corte EDU ha ritenuto che tale assetto normativo integri una violazione del ne bis in idem; • In materia tributaria, la Corte di Strasburgo, se in un primo tempo ha espresso principi coincidenti con quelli di cui alla sentenza Grande Stevens, successivamente ha ridimensionato la portata del principio. Secondo la Corte, il divieto non sarebbe violato allorché: o La risposta sanzionatoria complessiva (sanzione penale + sanzione amministrativa) da parte dell’ordinamento non risulti sproporzionata per eccesso; o Esista una connessione sostanziale e cronologica sufficientemente stretta tra procedimento penale e procedimento amministrativo. • In materia tributaria la Corte di Giustizia ha affermato la diretta applicabilità dell’art. 50 CDFUE (che sancisce il diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato), salvo demandare al giudice dello Stato membro il compito di stabilire se la sanzione pecuniaria amministrativa avesse natura sostanzialmente penale alla luce dei criteri Engel; • Nella sentenza A. E B. contro Norvegia, la Corte di Giustizia ha fissato i limiti entro i quali può considerarsi rispettato il divieto di bis in idem previsto dall’art. 50 CDFUE: o Rispetto del principio di proporzione, in forza del quale il complesso delle sanzioni irrogate non può andare oltre lo stretto necessario; o Garanzia di un coordinamento tra i due procedimenti relativi all’idem factum, così da limitare il più possibile gli oneri supplementari generati dalla duplicazione dei procedimenti e delle sanzioni. • La Corte di Giustizia ha poi affrontato il problema dell’operatività dei ne bis in idem nei casi in cui una sanzione amministrativa per violazioni tributarie e una sanzione penale si rivolgano l’una nei confronti di una persona giuridica e l’altra nei confronti della persona fisica del legale rappresentante dell’ente: la Corte ha escluso una violazione del principio qualora una sanzione riguardi una persona fisica e l’altra una persona giuridica. I principi enunciati a livello sovranazionale dalla Corte EDU e dalla Corte di Giustizia sono stati recepiti anche dalla giurisprudenza nazionale. Una significativa, recente tappa nell’evoluzione dei rapporti tra sanzione penale e sanzione amministrativa punitiva è stata segnata dalla Corte costituzionale (sent. n. 149/2022), che per la prima volta ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. in relazione al contrasto di tale disposizione con il diritto al ne bis in idem come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte EDU. 57 Capitolo V Analisi e sistematica del reato La parte generale del diritto penale Il codice penale e le c.d. leggi speciali (art. 16 c.p.) prevedono e puniscono una molteplicità di reati: non puniscono genericamente chiunque commette una malefatta, bensì, in modo specifico, chi commette un omicidio, un furto, ecc. L’individuazione di un numero chiuso di specifiche figure di reato rappresenta l’espressione di uno stadio evoluto del diritto penale, sotto un duplice profilo: • Da un lato, si accorda al cittadino una assicurazione scritta in base alla quale egli verrà punito soltanto ove ne ricorrano i presupposti legali, nonché entro i limiti stabiliti dalla legge; • Dall’altro, l’individuazione delle singole figure di reato è un processo in evoluzione, che rispecchia una molteplicità di fenomeni: l’emersione di nuovi beni o di nuove forme di aggressione a beni già protetti, nonché l’enucleazione di più specifiche incriminazioni dal seno di originari, amplissimi tipi di reato. L’evoluzione del diritto penale non si è peraltro esaurita nella formulazione di una sempre più ricca e dettagliata tipologia di reati, elencati e raggruppati nella parte speciale della legislazione penale. La dottrina ha altresì proceduto ad astrarre dai singoli reati elementi comuni, che hanno formato oggetto di elaborazione concettuale, in parte recepita e fatta propria dal legislatore nella parte generale delle codificazioni. Si tratta di concetti generali e astratti. Il numero di concetti generali, tuttavia, va oltre quello die concetti delineati nella parte generale del codice: spetta alla dottrina giuridica elaborare ulteriori concetti generali e astratti. L’esigenza di una scomposizione analitica del reato Il reato può essere espresso con una formula matematica del tipo: Se vi sono a + b + c, etc., deve esserci x (la pena). Da tale punto di vista, meramente formale, tutti gli elementi del reato si collocano sullo stesso piano. Se però ci si domanda perché questo o quell’elemento è assunto quale presupposto per l’applicazione della pena, ossia qual è la funzione assolta da ciascun elemento nella struttura del reato, le risposte saranno necessariamente differenziato. • Una serie di elementi hanno la funzione di descrivere un fatto, ossia una specifica offesa al bene giuridico; • Altri elementi decidono se il fatto è antigiuridico, ossia è disapprovato dall’ordinamento; • Altri elementi ancora esprimono le condizioni in presenza delle quali il fatto antigiuridico è colpevole, cioè è personalmente rimproverabile a chi lo ha realizzato; • Altri elementi, infine, riflettono eventuali valutazioni del legislatore in ordine alla punibilità del fatto antigiuridico e colpevole, cioè all’opportunità di applicare la pena nel caso concreto. Il reato perciò risulta composto da una serie di elementi, disposti l’uno di seguito all’altro nel seguente ordine logico: il reato è un fatto umano, antigiuridico, colpevole, punibile. Oggettivismo e soggettivismo: un’alternativa nell’analisi del reato Il legislatore italiano ha quasi costantemente costruito i tipi di reato assegnando il primato all’oggettivo rispetto al soggettivo, cioè al fatto rispetto all’autore: nella legislazione italiana il reato è, innanzitutto, offesa a uno o più beni giuridici. Questa concezione del reato non è suscettibile di essere abbandonata o derogata dall’odierno legislatore. La Costituzione italiana ha infatti disegnato un modello di reato che fa perno sul fatto (art. 25, co. 2, Cost.), assegnando invece alla colpevolezza il ruolo, logicamente successivo, di individuare le condizioni che consentono di rimproverare il fatto al suo autore. Il vincolo imposto dalla Costituzione opera altresì nei confronti dell’interprete, che dovrà necessariamente muovere dall’individuazione del fatto incriminato, riservando ad uno stadio logicamente successivo l’accertamento della personale responsabilità di chi ha commesso il fatto. 60 Fondano la punibilità quelle che il legislatore designa come condizioni obiettive di punibilità (art. 44 c.p.): si tratta di quegli accadimenti, menzionati in una norma incriminatrice, che non contribuiscono in alcun modo a descrivere l’offesa al bene giuridico tutelato dalla norma, ma esprimono solo valutazioni di opportunità in ordine all’inflizione della pena. Escludono la punibilità le c.d. cause di esclusione della punibilità, ossia: • Cause personali concomitanti di non punibilità: situazioni contestuali alla commissione del fatto che attengono alla posizione personale dell’agente o ai suoi rapporti con la vittima; • Cause personali sopravvenute di non punibilità: comportamenti dell’agente susseguenti alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole; • Cause oggettive di esclusione della punibilità: situazioni inerenti all’entità dell’offesa; • Cause di estinzione del reato: fatti, naturali o giuridici, successivi alla commissione del fatto antigiuridico e colpevole, che o sono del tutto indipendenti da comportamenti dell’agente o comunque non si esauriscono in un comportamento dell’agente. Talvolta il legislatore rimette al giudice il compiuto di valutare l’opportunità di una effettiva punizione dell’autore di un fatto antigiuridico e colpevole. Es. ® Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.). Il carattere vincolante della sistematica quadripartita L’ordine nel quale sono disposti gli elementi del reato secondo la sistematica quadripartita è un ordine logico che ha un fondamento normativo. L’art. 530 c.p.p., in relazione alla sentenza pronunciata all’esito del dibattimento, individua formule assolutorie corrispondenti a ciascun elemento della sistematica quadripartita del reato: • Il fatto non sussiste (co. 1); • Il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione (co. 3); • Il fatto non costituisce reato (co. 1); • Il fatto è stato commesso in presenza di una causa personale di non punibilità (co. 3). L’art. 129, co. 1, c.p.p., inoltre, impone l’immediato proscioglimento in ogni stato e grado del processo quando il giudice riconosce che il fatto non sussiste ovvero che il fatto non costituisce reato. Secondo questa logica, la Corte di cassazione (sent. 28351/2013, Rv. 256674) ha affermato che: Ai fini dell’applicazione della esatta formula di assoluzione, il giudice deve innanzitutto stabilire se il “fatto” sussiste nei suoi elementi obiettivi (condotta, evento, rapporto di causalità) e, solo in caso di accertamento affermativo, può scendere all’esame degli altri elementi (imputabilità, dolo, colpa, condizioni obiettive di punibilità, etc.) da cui è condizionata la sussistenza del reato. In definitiva, la sistematica quadripartita garantisce sia all’analisi teoria, sia alla prassi giudiziaria completezza, razionalità e verificabilità: nell’accertamento della responsabilità penale non si trascurerà nessun aspetto rilevante per il diritto. L’inquadramento dei reati omissivi nella sistematica quadripartita La sistematica quadripartita pone il problema se talune specificità dei reati omissivi impongano, ai fini dell’esposizione didattica, una trattazione separata rispetto ai reati commissivi, ovvero se quelle specificità possano essere utilmente valorizzate e inquadrate all’interno dell’esposizione relativa ai singoli elementi del reato nei quali si manifestano. Entrambe le scelte sono plausibili. Tuttavia, la seconda strada sembra preferibile, in quanto consente di mettere in luce ciò che di volta in volta differenzia la struttura dei reati omissivi rispetto a quella dei reati commissivi. 61 Capitolo VI Il fatto IL FATTO NEI REATI COMMISSIVI L’azione Nozione Al centro di ogni fatto commissivo penalmente rilevante compare, descritta da un verbo, un’azione umana. L’indefettibile presenza di un’azione in ogni figura di reato è strettamente correlata alla fisionomia del diritto penale italiano, che reprime gli attacchi dell’uomo all’integrità dei beni giuridici e non la mera volontà di offendere un bene che non si sia tradotta in una attività esteriore (cogitationis poenam nemo patitur). Reati a forma libera e reati a forma vincolata Due sono le tecniche alle quali il legislatore può far ricorso per descrivere azioni penalmente rilevanti: • Può esigere che l’azione sia compiuta con determinate modalità, e si parla in questo caso di reati a forma vincolata: l’azione concreta sarà rilevante (cioè tipica) solo se corrisponde allo specifico modello di comportamento descritto nella norma incriminatrice; • Può attribuire rilevanza ad ogni comportamento umano che abbia causato, con qualsiasi modalità, un determinato evento: si parla allora di reati a forma libera. In questi casi l’azione concreta penalmente rilevante si individuerà: o Nei reati dolosi in funzione del mezzo impiegato in concreto dall’agente; o Nei reati colposi in funzione di qualsiasi azione che abbia colposamente creato il pericolo concretizzatosi nell’evento. Reati di possesso e reati di sospetto • Reati di possesso: reati nei quali l’oggetto del divieto è il possesso (o la detenzione) di questa o quella cosa. Es. ® Delitto di detenzione di monete falsificate (art. 453, co. 1, n. 3, c.p.). • Reati di sospetto: sottogruppo dei reati di possesso, il cui carattere peculiare è di natura processuale e riguarda l’inserzione nella norma incriminatrice di un’anomala regola di giudizio. In contrasto con la presunzione di non colpevolezza, l’onere della prova della destinazione o della provenienza lecita della cosa incombe interamente sull’imputato, e finché il giudice versi in dubbio si impone una pronuncia di condanna. Es. ® Possesso ingiustificato di chiavi o di grimaldelli (art. 707 c.p.). I presupposti della condotta In molte figure di reato la rilevanza penale di un fatto come specifica forma di offesa a un bene giuridico è subordinata alla condizione che l’azione venga compiuta in presenza di determinate situazioni di fatto o giuridiche, che devono preesistere all’azione o ne devono accompagnare l’esecuzione. Tali situazioni vengono designate come presupposti della condotta. Es. ® In assenza del presupposto “gravidanza”, non può realizzarsi il reato degli atti interruttivi della gravidanza (art. 593-ter c.p.). L’evento Spesso la norma incriminatrice richiede il verificarsi di un evento, cioè di un accadimento temporalmente e spazialmente separato dall’azione e che da questa deve essere causato. Il nome evento spetta soltanto a quelle conseguenze dell’azione che sono espressamente o tacitamente previste dalla norma incriminatrice, e non anche alle eventuali ulteriori conseguenze non prese in considerazione dalla singola norma. L’evento può consistere, tra l’altro: 62 • In una modificazione della realtà fisica; • In una modificazione della realtà psichica; • In un’alterazione della realtà economico-giuridica; • In un comportamento umano. La nozione di evento, come accadimento che deve essere causato dall’azione, è espressamente utilizzata dal legislatore in una serie di previsioni normative di parte generale: fra l’altro, nella definizione del rapporto di causalità e nella definizione del delitto doloso. Accanto alla nozione di evento sin qui descritta, come elemento che compare in talune figure di reato e che viene abitualmente designato come evento naturalistico, parte della dottrina parla anche di evento giuridico per alludere all’offesa (danno o pericolo) al bene tutelato dalla norma incriminatrice, che è elemento costitutivo di tutti i fatti penalmente rilevanti. Il rapporto di causalità nei reati commissivi Nozione Quando tra gli estremi del fatto compare un evento, l’evento rileva se e in quanto sia stato causato dall’azione: tra l’azione e l’evento deve sussistere un rapporto di causalità. Ex art. 40, co. 1, c.p.: Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Le principali teoria della causalità possono così compendiarsi: a. L’azione A è causa dell’evento B, se può dirsi che senza A, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, l’evento B non si sarebbe verificato (teoria condizionalistica o della condicio sine qua non); b. L’azione A è causa dell’evento B quando senza l’azione A l’evento B non si sarebbe verificato e inoltre l’evento B rappresenta una conseguenza prevedibile (o normale) dell’azione A (teoria della causalità adeguata); c. L’azione A è causa dell’evento B quando senza l’azione A l’evento B non si sarebbe verificato e inoltre il verificarsi dell’evento B non è dovuto al concorso di fattori eccezionali (teoria della causalità umana). Teoria condizionalistica Secondo la teoria condizionalistica, giuridicamente rilevante come cause dell’evento è ogni azione che non può essere eliminata mentalmente senza che l’evento concreto venga meno. Si parla a questo proposito di “procedimento di eliminazione mentale” o di “giudizio controfattuale”. Basta dunque che l’azione di Tizio sia uno (anche uno solo) degli antecedenti senza i quali l’evento non si sarebbe verificato perché quell’azione possa considerarsi causa dell’evento. Questa concezione della causalità trova piena applicazione anche in due gruppi di casi discussi: • Un primo caso è quello della c.d. causalità ipotetica. Sussiste il rapporto di causalità, ad esempio, nel caso del medico che pratichi una iniezione mortale a un malato terminale per alleviargli le sofferenze, dal momento che si tratta di una persona che comunque sarebbe morta qualche tempo dopo? Sì, in quanto: o L’evento che rappresenta il punto di riferimento del rapporto di causalità è l’evento concreto, e non l’evento astratto; o Il rapporto di causalità va accertato tenendo conto del decorso causale effettivo, e non di un decorso causale solo ipotetico (che poteva verificarsi ma non si è verificato). • Un secondo caso è quello della c.d. causalità addizionale. Sussiste il rapporto di causalità tra l’azione di Tizio, che ha somministrato a Caio una dose si veleno di per sé sufficiente ad uccidere, e la morte di Caio, se anche Sempronio ha versato, all’insaputa di Tizio, una dose mortale dello stesso veleno nella medesima bevanda assunta da Caio? Sì, in quanto: o Il rapporto di causalità va accertato in relazione all’evento concreto, tenendo conto, fra l’altro, della quantità di veleno reperito dal medico legale nel corpo della vittima; 65 Secondo questa teoria possono infatti considerarsi opera dell’uomo soltanto gli sviluppi causali che l’uomo può dominare con i suoi poteri conoscitivi e volitivi e tra gli sviluppi dominabili non possono essere ricompresi quelli dovuti al concorso di fattori causali rarissimi. Ne segue che la gamma degli eventi che possono dirsi causati da un’azione risulta più ristretta rispetto a quanto postulato dalla teoria condizionalistica, ma più ampia rispetto alla ricostruzione proposta dalla teoria della causalità adeguata: questa teoria estromette tutti i decorsi causali anormali, mentre la teoria della causalità umana estromette soltanto i decorsi causali caratterizzati dalla presenza di fattori rarissimi, ovvero “eccezionali”. Teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento Anche la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento muove dal presupposto che la teoria condizionalistica abbia bisogno di essere corretta in senso restrittivo, in relazione alle ipotesi di decorso causale atipico. Secondo questa teoria, l’evento causato dall’azione potrebbe essere oggettivamente imputato all’agente solo in presenza di almeno due condizioni: 1. Che l’agente, con la sua condotta, in violazione di una regola di diligenza, prudenza o perizia, abbia creato o aumentato o non diminuito il rischio del verificarsi di un evento del tipo di quello che si è verificato; 2. Che l’evento sia la concretizzazione del rischio che la regola cautelare violata mirava a evitare o a ridurre. La teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento concepisce l’imputazione oggettiva come un requisito ulteriore rispetto alla causalità: • La teoria della causalità dà risposta al quesito se l’evento sia conseguenza della condotta; • La teoria dell’imputazione oggettiva dà risposta all’autonomo, ulteriore quesito se l’evento possa considerarsi opera dell’agente, ossia se l’evento sia a lui imputabile. Una parte della dottrina italiana concepisce la teoria dell’imputazione oggettiva non come limite alla teoria condizionalistica, bensì come strumento per sostituire la causazione dell’evento con l’aumento del rischio del suo verificarsi. Il risultato di questa operazione sarebbe però la trasformazione sottobanco dei reati di evento in reati di pericolo. L’accoglimento della teoria condizionalistica nell’art. 41 c.p. Quale teoria della causalità è compatibile con il tenore dell’art. 41 c.p.? Il primo e il terzo comma dell’art. 41 c.p. enunciano due corollari della teoria condizionalistica: • Il primo comma stabilisce che per la sussistenza del rapporto di causalità basta che l’agente abbia posto in essere uno solo degli antecedenti necessari dell’evento (“il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”); • Il terzo comma stabilisce che un’azione che sia condizione necessaria dell’evento ne resta causa anche se tra i fattori causali si annoveri un fatto illecito altrui (“le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”). Oggetto di controversie è invece la disciplina contenuta nel secondo comma, secondo cui: Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. A ben vedere, anche tale disposizione ribadisce l’adesione del legislatore alla teoria condizionalistica: a. Esprime un ulteriore corollario di tale teoria; b. Non contiene nessuna formula che evochi né l’idea di valutazioni prognostiche, né l’intervento di fattori causali rarissimi. La teoria condizionalistica non ha bisogno di correttivi L’adesione da parte del legislatore italiano alla teoria condizionalistica non comporta un eccessivo ampliamento dell’area della responsabilità penale, come sostenuto dai teorici della causalità adeguata: 66 • Nelle ipotesi di responsabilità per dolo o per colpa le esigenze di delimitazione della responsabilità perseguite dalle teorie della causalità adeguata e della causalità umana sono comunque soddisfatte quando, una volta accertata la sussistenza del rapporto di causalità tra una determinata azione e un determinato evento, si passa ad esaminare se quell’evento è stato dolosamente o colposamente. • Quanto all’obiezione per cui la teoria condizionalistica sembrerebbe produrre un’eccessiva dilatazione della responsabilità penale nelle ipotesi in cui l’evento viene posto a carico dell’agente a titolo di responsabilità oggettiva, cioè solo perché l’azione dell’agente lo ha materialmente causato, senza che sia necessario accertare la sussistenza del dolo o della colpa, basti considerare che oggi tutte le ipotesi di responsabilità oggettiva non hanno più diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento: ogni elemento del fatto deve essere investito almeno dalla colpa. • Infine, quanto all’obiezione per cui la teoria condizionalistica aprirebbe la strada ad un regresso all’infinito, occorre rilevare che se il regresso all’infinito fosse un problema reale, non si capirebbe come tale problema non si ponga mai nella giurisprudenza. La verità è che nella prassi il problema della causalità si pone soltanto per un comportamento del quale si sospetti che sia antigiuridico e colpevole. L’oggetto materiale In alcune figure di reato l’azione o l’evento devono incidere su una persona o su una cosa: tale entità viene normalmente designata come oggetto materiale del reato. Le qualità o le relazioni del soggetto attivo nei reati propri • Reati comuni: reati che possono essere commessi da chiunque; • Reati propri: reati che possono essere commessi soltanto da chi possegga determinate qualità o si trovi in determinate relazioni con altre persone. Dalle qualità o relazioni richieste per il soggetto attivo nel reato proprio dipende la fisionomia stessa del fatto come offesa a un bene giuridico: si tratta cioè di una posizione del soggetto che riflette un particolare rapporto con il bene giuridico. Questa appartenenza della qualità o delle relazioni del soggetto al fatto costitutivo del reato proprio ha uno spiccato rilievo nell’ambito del concorso di persone: • Da un lato, il soggetto privo della qualifica richiesta dalla norma incriminatrice (c.d. estraneo) che ha agevolato o istigato la persona qualificata (c.d. intraneo) alla commissione del reato proprio concorre oggettivamente in questo reato, perché ha contribuito all’offesa del bene giuridico tutelato dalla norma; • Dall’altro, si potrà avere un concorso doloso all’offesa che caratterizza il reato proprio solo se l’agevolatore o l’istigatore sia a conoscenza di tutti gli elementi del fatto, a cominciare dalla qualità del soggetto attivo. Quanto alla natura delle qualità o delle relazioni del soggetto attivo che entrano a comporre il fatto nei reati propri, può trattarsi di: • Qualità o relazioni di fatto: si pensi all’aborto autoprocuratosi dalla donna oltre 90 giorni dall’inizio della gravidanza senza osservare le condizioni fissate dalla legge; si tratta di reato proprio della donna. • Qualità o relazioni giuridiche: si pensi al delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), ove il fatto costitutivo può essere realizzato soltanto in presenza delle qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio. L’offesa al bene giuridico Nozioni Altro e fondamentale elemento costitutivo del fatto penalmente rilevante è l’offesa al bene tutelato, che può assumere la forma della lesione o del pericolo per l’integrità del bene. 67 • Nel caso in cui l’offesa riguardi un solo bene giuridico si parla di reato monoffensivo (ad es., il furto o l’omicidio); • Se l’offesa riguarda più beni si parla di reato plurioffensivo (ad es., rapina). Con la formula persona offesa dal reato (artt. 90 ss. c.p.p.) si indica il titolare del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. La persona offesa non coincide necessariamente con il danneggiato da reato, cioè con il soggetto che ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale da reato e che, ex art. 185 c.p., ha diritto al risarcimento. Tale diritto può essere fatto valere nel processo civile o nel processo penale, attraverso la costituzione di parte civile. L’offesa come elemento espresso o come elemento sottinteso del fatto di reato Diversi sono i modi in cui l’offesa al bene giuridico affiora nella fattispecie legale: • In alcune ipotesi l’offesa al bene protetto è un elemento espresso del fatto di reato, in quanto esplicitamente menzionato nella norma incriminatrice; • In altre ipotesi, all’interno del modello di reato, la legge individua un elemento costitutivo che rappresenta l’equivalente fenomenico dell’offesa al bene giuridico: anche in questi casi l’offesa si può considerare elemento costitutivo espresso del fatto di reato. • Altre volte l’offesa al bene giuridico non compare nella lettera della norme incriminatrice, né direttamente, né indirettamente. In molte di queste ipotesi l’offesa al bene giuridico va fatta emergere in via interpretativa, trattandosi di un elemento sottinteso del fatto di reato: la norma incriminatrice, pur non menzionando espressamente l’offesa né un evento che ne rappresenti l’equivalente fenomenico, vieta una condotta in quanto crea il pericolo del verificarsi di un evento offensivo. E proprio in queste ipotesi l’elemento dell’offesa al bene giuridico assume un ruolo particolarmente rilevante nella ricostruzione del fatto di reato. Es. ® In tema di cessione e detenzione di sostanze stupefacenti, la Corte di cassazione ha stabilito che non costituiscono reato la cessione o la detenzione di quantitativi di stupefacente talmente tenui da non poter indurre, neppure in maniera trascurabile, la modificazione dell’assetto neuropsichico dell’utilizzatore. In definitiva, in un diritto penale aderente al principio costituzionale di offensività il giudice deve conformarsi al seguente, fondamentale criterio interpretativo: la lettera della legge rappresenta soltanto il limite esterno imposto all’opera dell’interprete; entro questo limite, per ricostruire i fatti penalmente rilevanti, l’offesa al bene giuridico rappresenta un indispensabile criterio selettivo, che determina l’espulsione dal tipo legale dei comportamenti inoffensivi. Diversa dall’ipotesi in cui manchi l’offesa al bene giuridico è quella in cui l’offesa vi sia, ma sia particolarmente tenue (o esigua); talora la particolare tenuità dell’offesa assume rilevanza nel quadro delle circostanze attenuanti: ebbene, la Corte di cassazione ha più volte affermato che la mancanza dell’offesa è cosa diversa dalla sua particolare tenuità. La tipologia di beni giuridici Nella legislazione italiana i beni giuridici tutelati sono numerosissimi e possono assumere le fisionomie più diverse. Beni individuali e beni collettivi A seconda della natura del soggetto che ne è titolare, i beni giuridici possono raggrupparsi in: • Beni individuali, ossia beni che fanno capo a singole persone fisiche. Si tratta di beni che l’ordinamento riconosce e garantisce, in linea di principio, a tutti gli esseri umani, e che rappresentano il contenuto di altrettanti diritti soggettivi individuali. • Beni collettivi, ossia beni che fanno capo: o Allo Stato o ad altri enti pubblici (c.d. beni istituzionali): sono quelli facenti capo allo Stato come espressione della collettività organizzata, ai singoli poteri o organi dello Stato o ad altri enti pubblici; 70 Anche nei reati omissivi propri è presente l’offesa al bene tutelato, come elemento sottinteso del fatto. Es. ® Nell’omissione di soccorso di una persona ferita l’offesa consiste nel mantenimento di una preesistente situazione di pericolo per la vita o l’integrità fisica, che si aveva l’obbligo di rimuovere compiendo le azioni doverose imposte dalla legge. Ne segue che il reato non si configura allorché Tizio non presti assistenza né dia immediato avviso all’autorità qualora altri abbia già provveduto e non risulti più necessario l’ulteriore intervento dell’obbligato. I reati omissivi impropri Nozione Sono reati omissivi impropri quei reati nei quali la legge incrimina il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa imposta per impedire il verificarsi di un evento: in questi casi l’evento è elemento costitutivo del fatto. Il dovere giuridico di agire ha dunque un’estensione più ampia rispetto a quella che caratterizza i reati omissivi propri, includendo nel suo oggetto anche l’impedimento dell’evento. Anche l’obbligo di impedire l’evento presuppone il relativo potere materiale. A differenza dei reati omissivi propri, per lo più i reati omissivi impropri non sono configurati attraverso norme di parte speciale. La loro previsione è il risultato del combinarsi di una disposizione di parte generale (art. 40, co. 2, c.p.) e di norme incriminatrici di parte speciale che vietano la causazione di un evento. L’art. 40, co. 2, c.p. dispone infatti che: Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Es. ® Combinando l’art. 40, co. 2, c.p. con l’art. 575 c.p., ne risulta una norma incriminatrice del seguente tenore: chiunque non impedisce la morte di un uomo, avendo l’obbligo giuridico di impedirla, è punito… È controverso se la regola di cui all’art. 40, co. 2, c.p. sia applicabile, oltre che ai reati a forma libera, anche a quelli a fonda vincolata. • La giurisprudenza è orientata nel senso di ammettere la configurabilità di un reato omissivo improprio anche nei reati a forma vincolata. • Parte della dottrina invece lo esclude, non potendosi individuare nell’omesso impedimento dell’evento il particolare disvalore espresso dalle modalità dell’azione richieste dalla norma incriminatrice (ad es., gli artifizi o raggiri nella truffa). L’individuazione del fatto nei reati omissivi impropri deve scontare un deficit di precisione. Due sono comunque i criteri vincolanti ai quali il giudice deve attenersi per stabilire se e quando l’omesso impedimento di un evento sia penalmente rilevante: • Non basta la mera possibilità materiale di impedire l’evento, né un obbligo di attivarsi che abbia la sua fonte in norme di natura etico-sociale: rileva solo il mancato compimento di un’azione impeditiva dell’evento imposta da una norma giuridica; • È il contenuto delle singole norme giuridiche che decide quali siano i presupposti in presenza dei quali sorge l’obbligo di impedire l’evento e quali siano gli eventi il cui verificarsi deve essere impedito. Le fonti dell’obbligo di impedire l’evento Il rispetto del primo criterio è imposto dall’art. 40, co. 2, c.p., il quale espressamente subordina la rilevanza penale dell’omesso impedimento di un evento alla presenza di un obbligo giuridico di impedirlo: un obbligo che fa del suo destinatario il garante dell’integrità di uno o più beni giuridici, impegnandolo a neutralizzare i pericoli innescati da comportamenti di terzi o di forze della natura. Attraverso la formula “obbligo giuridico di impedire l’evento”, che individua un elemento normativo del fatto costitutivo del reato omissivo improprio, l’art. 40, co. 2, c.p. rinvia a norme giuridiche extrapenali ovunque ubicate, senza distinguere a seconda del loro rango. Potrà trattarsi di: • Norme contenute in leggi in senso formale o in senso materiale; • Norme contenute in atti generali e astratti del potere esecutivo; • Norme contenute in atti normativi emanati da organi degli enti locali; 71 • Norme contenute in fonti di diritto privato. Secondo la giurisprudenza e una parte della dottrina, fonte dell’obbligo di impedire l’evento può anche essere una precedente attività pericolosa. Questo orientamento appare però discutibile: manca una norma giuridica da cui possa ricavarsi, in capo a chi abbia creato la situazione di pericolo, l’obbligo di attivarsi per neutralizzare quel pericolo, impedendo il verificarsi di eventi dannosi. Obblighi di protezione e obblighi di controllo Il contenuto e i presupposti degli obblighi giuridici richiamati dall’art. 40, co. 2, c.p. (spesso designati come “posizioni di garanzia”) possono essere desunti solo dalle singole norme giuridiche che fondano l’obbligo di impedire questo o quell’evento. Dall’insieme di queste norme, attraverso un procedimento di astrazione, si possono individuare due diverse classi di obblighi: • Obblighi di protezione: ricorrono quando l’obbligo giuridico riguarda la tutela di uno o più beni che fanno capo a singoli soggetti o a una determinata classe di soggetti nei confronti di una gamma più o meno ampia di pericoli. Obblighi di protezione possono derivare: o Dalla legge (ad es., nei rapporti tra coniugi l’art. 143 c.c. impone un obbligo reciproco di assistenza materiale); o Da contratto (ad es., obblighi assunti dall’assistente bagnanti di uno stabilimento). L’obbligo di protezione nascente da contratto può riguardare anche persone diverse dai contraenti. Inoltre, in tal caso l’obbligo di impedire l’evento sorge a partire non dal momento pattuito fra le parti, bensì dal momento in cui l’obbligato assume effettivamente e materialmente l’incarico. Es. ® La posizione di garanzia del medico operante in una struttura pubblica nei confronti del paziente sorge non nel momento in cui il medico viene inquadrato nella struttura ospedaliera, bensì nel momento in cui si instaura un rapporto terapeutico tra il medico e il singolo paziente. • Obblighi di controllo: sono quelli aventi per oggetto la neutralizzazione dei pericoli derivanti da una determinata fonte, in funzione di tutela di chiunque possa essere messo a repentaglio da quella fonte di pericolo. Vengono qui in evidenza sia pericoli creati da forze della natura, sia pericoli connessi allo svolgimento di attività umane. Es. ® L’obbligo di neutralizzare i pericoli per l’incolumità pubblica derivanti da frane, inondazioni e valanghe incombe sui diversi organi in cui si articola la Protezione Civile. L’individuazione dei garanti nelle società commerciali Problemi peculiari presenta l’individuazione dei garanti nell’ambito delle imprese strutturate in forma societaria. In proposito si individuano due categorie di doveri di garanzia: a. Quelli relativi all’amministrazione dell’impresa, finalizzati alla protezione del patrimonio sociale (c.d. obblighi di protezione); b. Quelli relativi alla gestione tecnica, operativa e commerciale dell’impresa, finalizzati al controllo delle fonti di pericolo immanenti all’attività (c.d. obblighi di controllo). Dai doveri di protezione del patrimonio sociale discende l’obbligo di impedire la commissione di reati fallimentari e societari da parte dei direttori generali, dei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, nonché da parte dell’institore. Titolari di questo ordine di obblighi sono i membri del consiglio di amministrazione della società, i membri del comitato esecutivo o l’amministratore o gli amministratori delegati, ai quali il consiglio di amministrazione può delegare parte delle proprie attribuzioni. La delega di funzioni al comitato esecutivo o all’amministratore delegato lascia tuttavia sussistere posizioni di garanzia in capo ai membri del consiglio di amministrazione: permane cioè il dovere di impedire i reati – da chiunque stiano per essere commessi, anche dai delegati – quando i membri del consiglio di amministrazione siano venuti a conoscenza del pericolo della loro realizzazione. Anche gli obblighi di controllo – correlati alla gestione tecnica, operativa e commerciale dell’impresa – incombono sulle persone fisiche che occupano i vertici dell’amministrazione: titolare 72 dell’impresa individuale e consiglieri d’amministrazione delle società di capitali. Ad essi la legge affida il compito di organizzare la struttura e l’attività dell’impresa in modo adeguato alla salvaguardia degli interessi dei singoli e della collettività che possono essere messi in pericolo dell’attività d’impresa. peraltro, un’ottimale tutela di tali beni esige che destinatari degli obblighi di garanzia siano anche altri soggetti operanti all’interno dell’impresa, anche soggetti, cioè, diversi dagli amministratori della società. In tale prospettiva si tratta di stabilire: a. Se una delega di funzioni possa comportare un totale trasferimento degli obblighi di garanzia dei vertici dell’impresa ai soggetti delegati. Si ritiene che possano essere trasferiti per delega obblighi di controllo su una più o meno ampia gamma di fonti di pericolo, ma in ogni caso rimane in capo ai vertici dell’impresa un dovere di vigilanza sul rispetto da parte dei delegati dei compiti ad essi attribuiti. Gli amministratori potranno rispondere, in concorso con gli autori, per omesso impedimento dei più diversi reati, dolosi o colposi, commessi da terzi nell’ambito o nell’esercizio dell’impresa. b. Quali siano la fonte e le condizioni di validità degli obblighi di garanzia in capo ai soggetti delegati. La fonte dell’obbligo di garanzia in capo al soggetto delegato è un atto dell’autonomia privata che delinea l’organizzazione interna dell’impresa. La delega di funzioni, d’altra parte, non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. Il nesso tra omissione ed evento Nei reati omissivi impropri l’evento è elemento costitutivo del fatto e il nesso tra omissione ed evento, secondo il disposto dell’art. 40, co. 2, c.p. consiste nel mancato impedimento dell’evento. La struttura del rapporto di causalità nel reato omissivo improprio è quindi peculiare e diversa da quella dei reati commissivi: • Nei reati commissivi il rapporto di causalità è una relazione reale tra accadimenti: si configura quando l’azione è un antecedente storico che non può essere eliminato mentalmente senza che l’evento venga meno; • Nei reati omissivo il rapporto di causalità tra omissione ed evento è ipotetico: sussiste quando l’azione doverosa che è stata omessa, se fosse stata compiuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento (ossia: aggiungendola mentalmente, l’evento non si sarebbe verificato). L’accertamento del rapporto di causalità tra omissione ed evento richiede una duplice indagine: • In primo luogo, si tratta di accertare un effettivo rapporto di causalità tra un dato antecedente e un dato evento concreto (c.d. causalità reale); • In secondo luogo, si deve compiere un giudizio controfattuale, modellato secondo la peculiare struttura del reato omissivo improprio: bisogna chiedersi cioè se, aggiungendo mentalmente l’azione doverosa che è stata omessa, ne sarebbe seguita una serie di modificazioni della realtà che avrebbero bloccato il processo causale sfociato nell’evento (c.d. causalità ipotetica). Una duplice indagine è richiesta anche dalla giurisprudenza, che affronta questo problema soprattutto a proposito dell'attività medico-chirurgica. Quando l’evento è il risultato di un processo causale innescato da fattori meccanici o naturali, per stabilire se l’azione doverosa che è stata omessa avrebbe o meno impedito l’evento si dovrà fare ricorso a leggi scientifiche: l’effetto impeditivo dell’evento andrà cioè accertato sulla base di una legge scientifica dalla quale risulti che una data azione, in quelle concrete circostanze, avrebbero interrotto il processo causale con un grado di probabilità ai limiti della certezza. L’orientamento oggi prevalente in giurisprudenza è quello inaugurato con la sentenza Franzese, che considera sufficiente ai fini della sussistenza del nesso causale un grado medio-basso di probabilità statistica, qualora con certezza possano escludersi decorsi causali alternativi: un’elevata probabilità logica potrebbe compensare una probabilità statistica medio-bassa. Questa soluzione è stata ribadita dalle Sezioni Unite ThyssenKrupp. 75 Capitolo VII L’antigiuridicità e le cause di giustificazione Nozione di antigiuridicità e disciplina comune delle cause di giustificazione La nozione di antigiuridicità L’antigiuridicità è il concetto con il quale si esprime, come secondo elemento del reato, il rapporto di contraddizione tra il fatto tipico e l’intero ordinamento giuridico. Le cause di giustificazione Un fatto può essere o antigiuridico o lecito: • È antigiuridico, se è in contraddizione con l’intero ordinamento; • È lecito, se anche una sola norma dell’ordinamento lo facoltizza o lo impone. Può infatti accadere che, in un qualsiasi luogo dell’ordinamento, esista una norma che, per salvaguardare un bene che l’ordinamento ritiene preminente, facoltizzi o addirittura renda doverosa la realizzazione del fatto. Se nel caso concreto sono presenti tutti gli estremi di due norme antinomiche, si profila un conflitto di norme, che è però solo apparente. L’unità dell’ordinamento giuridico impone infatti di risolvere quel conflitto. L’ordinamento italiano lo risolve assegnando la prevalenza alla norma che facoltizza o impone la realizzazione del fatto: il fatto è dunque lecito, e come tale non punibile, per difetto dell’antigiuridicità del fatto. Con il nome di cause di giustificazione del fatto (o scriminanti o cause di esclusione dell’antigiuridicità) si designa l’insieme delle facoltà o dei doveri derivanti da norme, situate in ogni luogo dell’ordinamento, che autorizzano o impongono la realizzazione di questo o quel fatto penalmente rilevante. • Se è commesso in assenza di ogni causa di giustificazione, il fatto è antigiuridico; • Se è commesso in presenza di una causa di giustificazione, il fatto è lecito, e quindi non punibile né assoggettabile a misure precautelari o cautelari. L’efficacia “universale” delle cause di giustificazione L‘unità dell’ordinamento giuridico comporta che l’efficacia delle cause di giustificazione sia universale: il fatto, cioè, sarà lecito in qualsiasi settore dell’ordinamento, e quindi non potrà essere assoggettato a nessun tipo di sanzione. Fonti e applicabilità per analogia delle cause di giustificazione Le norme che prevedono cause di giustificazione, essendo situate in qualsiasi luogo dell’ordinamento giuridico, e avendo efficacia in ogni luogo dell’ordinamento, non sono norme penali. • Non sono perciò soggette alla riserva di legge né al divieto di analogia. • Non si tratta nemmeno di norme eccezionali. La disciplina delle cause di giustificazione agli effetti del diritto penale Le cause di giustificazione sono facoltà o doveri che hanno per oggetto la commissione di un fatto penalmente rilevante. Si tratta pertanto di un giudizio di liceità a carattere oggettivo, nel senso che non dipende dalle valutazioni, dalle conoscenza o dalle finalità del singolo agente: • I fatti antigiuridici non perdono questo loro carattere solo perché si perseguono scopi leciti; • I fatti leciti non diventano antigiuridici solo perché con essi si perseguono scopi illeciti. Le rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione trova riconoscimento nell’art. 59, co. 1, c.p.: Le circostanze che escludono la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute, o per errore ritenute inesistenti. Di regola, chi concorre alla realizzazione di un fatto tipico commesso in presenza di una causa di giustificazione non è punibile perché concorre in un fatto lecito. Dispone l’art. 119, co. 2, c.p. che: 76 Le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato. È pacifico che tra le cause oggettive di esclusione della pena rientrino le cause di giustificazione, sebbene faccino eccezione a questa regola le cause di giustificazione c.d. personali. Cause di giustificazione e clausole di “illiceità espressa” Talvolta singole norme incriminatrici contengono clausole di illiceità espressa: contengono cioè termini come “ingiusto”, “indebitamente”, “arbitrariamente”, ecc., che non contribuiscono a descrivere il fatto penalmente rilevante, ma danno espresso rilievo alle cause di giustificazione previste dall’ordinamento, la cui presenza nel caso concreto rende lecita la commissione del fatto penalmente rilevante. L’erronea supposizione della presenza di cause di giustificazione: rinvio Se il fatto viene commesso in assenza di una qualsivoglia causa di giustificazione, è definitivamente antigiuridico. Tuttavia, l’agente può credere erroneamente di agire in presenza di una situazione di fatto che, se esistesse nella realtà, darebbe vita ad una causa di giustificazione riconosciuta dall’ordinamento. Tale ipotesi (c.d. scriminante putativa) è disciplinata dall’art. 59, co. 4, c.p.: Se l’agente ritiene per errore che esitano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Es. ® Caso Re Cecconi, che ha visto coinvolto un noto calciatore ucciso mentre simulava una rapina ai danni di un amico gioielliere. • Con riferimento al consenso dell’avente diritto, l’erronea supposizione dell’esistenza della situazione scriminante va riconosciuta quando, in base alle circostanze di fatto, l’agente è ragionevolmente persuaso di operare con l’approvazione della persona che può validamente disporre del relativo diritto; • Con riferimento all’esercizio di un diritto, la scriminante putativa è configurabile solo quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare e verificare l’oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio. L’eccesso nelle cause di giustificazione Se il fatto è commesso in presenza di una situazione che integra la previsione di una norma scriminante, ma la condotta dell’agente eccede i limiti segnati da tale norma, si parla di eccesso nelle cause di giustificazione. Il fatto è antigiuridico, perché travalica i limiti della legittima difesa, ma per porre quel fatto a carico dell’agente bisognerà accertare se l’eccesso sia rimproverabile all’agente per colpa o per dolo; se invece l’eccesso è incolpevole, sarà esclusa qualsiasi forma di responsabilità penale. Il codice penale disciplina espressamente l’eccesso colposo all’art. 55, co. 1, c.p.: Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. • La colpa dell’agente può anzitutto riguardare un’erronea valutazione della situazione scriminante (ad es., l’agente ha creduto di vedere nelle mani di un aggressore disarmato un coltello che non c’era, incorrendo in un errore sull’entità dell’aggressione); • La colpa può radicarsi nella fase esecutiva della condotta, in particolare di un cattivo controllo dei mezzi esecutivi, che comporta un risultato più grave di quello voluto dall’agente (ad es., l’agente estrae un’arma allo scopo di intimorire l’aggressore, ma nel maneggiarla maldestramente fa partire un colpo che determina la morte dell’aggressore). Una disciplina speciale per l’eccesso colposo è stata introdotta dalla l. n. 36/2019 relativamente alla legittima difesa nel domicilio all’art. 55, co. 2, c.p., che così dispone: 77 Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’articolo 61, primo comma, numero 5), ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto. Si è così individuata un’ipotesi in cui, pur a fronte di un eccesso colposo nella causa di giustificazione, la responsabilità penale è esclusa per difetto di colpevolezza: la disposizione configura una scusante. • Si tratta di eccesso doloso, come tale non riconducibile alla previsione dell’art. 55 c.p., quando l’agente si sia rappresentato esattamente la situazione scriminante, abbia pienamente controllato i mezzi esecutivi e abbia consapevolmente e volontariamente realizzato un fatto antigiuridico che eccede i limiti della causa di giustificazione; • Nessuna responsabilità sorge nel caso di eccesso incolpevole, che si ha quando l’errore in cui è incorso l’agente non sia dovuto a colpa, perché non sarebbe stato evitato da parte di un uomo ragionevole che si fosse trovato ad agire nelle stesse circostanze di tempo e di luogo. Il fatto commesso da chi ecceda dolosamente o colposamente i limiti di una causa di giustificazione è un fatto illecito, che dunque obbliga al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. La giurisprudenza prevalente prevede, in caso di eccesso colposo nelle cause di giustificazione, la condanna al risarcimento del danno in misura diminuita in ragione del concorso del fatto del danneggiato. In relazione ai profili risarcitori dell’eccesso colposo di difesa nel domicilio in situazioni di minorata difesa o di grave turbamento psichico, l’autore dell’eccesso deve corrispondere al danneggiato una indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, tenuto altresì conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta del danneggiato. Le cause di giustificazione con estremi imperniati su un giudizio ex ante Il sacrificio di un bene, incarnato dalla commissione di un fatto, può essere giustificato solo dalla presenza degli estremi oggettivi di una causa di giustificazione, che sono talora imperniati su un giudizio ex ante. Es. ® Il prototipo è l’estremo del pericolo nella legittima difesa: esprimendo la prognosi di un’offesa che giace nel futuro, il pericolo comporta strutturalmente un giudizio ex ante. Lo stesso dicasi per il dovere o la facoltà di arresto e il fermo di indiziato di delitto. Le singole cause di giustificazione Le cause di giustificazione espressamente disciplinate nel codice penale sono: • Il consenso dell’avente diritto (art. 50 c.p.); • L’esercizio di un diritto (art. 51 c.p.); • L’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.); • La legittima difesa (art. 52 c.p.); • L’uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.); • Lo stato di necessità (art. 54 c.p.). Il consenso dell’avente diritto Fondamento della causa di giustificazione L’art. 50 c.p. stabilisce che: Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne. Si tratta di una causa di giustificazione a portata limitata: possono essere giustificati soli i fatti penalmente rilevanti che ledono o pongono in pericolo diritti individuali che le norme penali proteggono nell’esclusivo interesse del titolare. Il fatto penalmente rilevante che lede o pone in pericolo un diritto disponibile con il consenso del titolare sarà dunque lecito. 80 L’esercizio di un diritto Fondamento della causa di giustificazione L’art. 51, co. 1, c.p. stabilisce che: L’esercizio di un diritto… esclude la punibilità. Accanto alle facoltà legittime espressamente contemplate dal codice penale (consenso dell’avente diritto e legittima difesa), l’ordinamento prevede altre norme attributive della facoltà legittima di commettere fatti penalmente rilevanti, rendendone così lecita la realizzazione. Il concetto di “diritto” ex art. 51 c.p. L’espressione “diritto” di cui all’art. 51 c.p. viene pacificamente intesa come comprensiva non solo dei diritti soggettivi in senso stretto, ma anche di qualunque facoltà legittima di agire riconosciuta dall’ordinamento: libertà costituzionali, diritti potestativi riconosciuti dal diritto civile, poteri degli organi pubblici, mere facoltà concesse al privato. Le fonti del diritto scriminante Facoltà di agire rilevanti ex art. 51 c.p. possono scaturire da: • Norme costituzionali; • Norme di legge ordinaria; • Norme del diritto dell’Unione europea; • Leggi regionali; • Norme consuetudinarie richiamate in funzione integrativa da una disposizione di legge. Non rientra invece tra le fonti di un diritto scriminante ex art. 51 c.p. il provvedimento amministrativo. I limiti del diritto scriminante Per stabilire se un fatto penalmente rilevante è lecito perché commesso nell’esercizio di un diritto, è necessario accertare previamente il contenuto della norma attributiva del diritto: in particolare, si tratta di accertare se tra le facoltà costitutive di tale diritto rientri proprio la specifica azione od omissione realizzata dall’agente. La rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione stabilita dall’art. 59, co. 1, c.p. comporta che il fatto resta lecito, in quanto realizzato nell’esercizio di un diritto, qualunque sia il fine che ha in concreto animato il soggetto nell’esercizio del suo diritto. Tuttavia, in alcune ipotesi la legge attribuisce il diritto a condizione che l’agente non sia animato da una certa finalità illecita. Es. ® Diritto di proprietà, il cui esercizio non si configura in caso di atti emulativi, cioè quando il proprietario faccia uso della cosa al solo scopo di nuocere o recare molestie ad altri. In altre ipotesi l’attribuzione di una facoltà o l’imposizione di un dovere è condizionata alla presenza di una peculiare finalità lecita. Es. ® Infiltrati che commettano fatti penalmente rilevanti al fine di acquisire elementi di prova. Due ipotesi di diritti scriminanti: (a) la libertà di manifestazione del pensiero Questo diritto di libertà abbraccia: • La manifestazione di opinioni e convincimenti: il diritto derivante dall’art. 21 Cost. copre anche manifestazioni di opinioni non argomentate né motivate, e magari formalmente scorrette. La libertà di manifestazione del pensiero non è infatti un privilegio riservato agli uomini di cultura, bensì un diritto attribuito a tutti. • L’esposizione di vicende e fatti: la giurisprudenza, soprattutto con riferimento alla cronaca giornalistica, sottolinea che gli eventuali contenuti offensivi della reputazione sono giustificati solo in quanto rispondano a verità, la quale va accertata al momento della diffusione della notizia attraverso un controllo sulle fonti di informazione. Un secondo limite al diritto di cronaca è rappresentato dall’esistenza di un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti dal giornalista. 81 Un terzo limite è rappresentato dalla correttezza del linguaggio usato (c.d. continenza), intesa come forma espositiva corretta della critica, e cioè strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita aggressione all’altrui reputazione. (b) il diritto di sciopero Il riconoscimento nella Costituzione del diritto di sciopero (art. 40 Cost.) ha comportato la progressiva eliminazione delle molte norme penali previste nel codice Rocco che configuravano quel diritto come delitto. Conservano rilevanza penale soltanto: • Lo sciopero per fini non contrattuali (art. 503 c.p.); • La coazione alla pubblica autorità mediante sciopero (art. 504 c.p.), limitatamente alle ipotesi in cui siano diretti a sovvertire l’ordinamento costituzionale ovvero ad impedire o ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare. Il legislatore nel 1990 ha depenalizzato le norme che punivano lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, sostituendo alle sanzioni penali un articolato sistema di sanzioni amministrative. Resta tuttora in vigore l’art. 340 c.p., che reprime l’interruzione di un servizio di pubblica necessità. Il diritto di sciopero consiste nel diritto di astenersi collettivamente dal lavoro, esercitando eventualmente un’azione persuasiva diretta ad ottenere adesioni anche da parte di altri lavoratori. Non rientrano invece nel delitto di sciopero, e quindi integrano il delitto di violenza privata (art. 610 c.p.), le azioni di picchettaggio violento, cioè l’uso di violenza o minaccia per costringere i lavoratori ad aderire allo sciopero. L’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica Fondamento della causa di giustificazione e individuazione del dovere scriminante L’art. 51, co. 1, stabilisce che: L’adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica… esclude la punibilità. Uno stesso ordinamento non può vietare sotto minaccia di pena la realizzazione di un fatto e, al tempo stesso, imporne la realizzazione: si configurerebbe altrimenti un conflitto di doveri. La scriminante dell’adempimento di un dovere viene in considerazione anche a proposito del rifiuto di trattamenti terapeutici. Es. ® Caso Welby: il Tribunale di Roma aveva ritenuto giustificato l’atto con cui il medico aveva disconnesso il respiratore che teneva in vita Piergiorgio Welby, con una condotta che il tribunale ha inquadrato nell’adempimento di un dovere discendente dall’art. 32, co. 2, Cost. Oggi, un conflitto di doveri si profila tra la norma incriminatrice dell’omicidio del consenziente e le disposizione della l. n. 219/2017 che impongono al medico di rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare trattamenti necessari alla sua sopravvivenza: in questa sfera, peraltro, il conflitto è risolto dal legislatore, che dichiara espressamente il medico esente da responsabilità civile o penale. Altre volte il dovere prevalente verrà individuato dall’interprete tramite il criterio della specialità. Es. ® L’art. 380 c.p.p. è norma speciale rispetto all’art. 605 c.p., ricomprendendo tutti gli elementi costitutivi del sequestro di persona e in più gli elementi specializzanti della qualità del soggetto attivo (ufficiale) e della situazione di flagranza o quasi-flagranza nel reato. Quando non sussista un rapporto di specialità tra le norme in conflitto, la prevalenza spetterà al dovere il cui adempimento soddisfa un interesse di rango superiore. Es. ® Tra il divieto di diffamazione (art. 595 c.p.) e l’obbligo del testimone di riferire i fatti di cui è a conoscenza (art. 372 c.p.), anche se lesivi dell’altrui reputazione, prevale il secondo. Fonti del dovere scriminante Le norme giuridiche che impongono un dovere scriminante possono promanare: • Dalla legge; • Dagli altri atti dotati di forza di legge (decreto legislativo e decreto-legge); • Da fonti sublegislative, come ad esempio un regolamento; • Da norme di diritto internazionale. 82 L’adempimento di un dovere imposto da un ordine della pubblica autorità Il dovere scriminante imposto da un ordine legittimo Secondo il disposto dell’art. 51 c.p., un dovere il cui adempimento rende lecita la realizzazione di fatti penalmente rilevanti può derivare anche da un ordine legittimo della pubblica autorità. L’ordine – in ogni caso promanante da una pubblica autorità e non da un privato – deve essere: • Formalmente legittimo, circostanza che ricorre quando concorrono tre requisiti: o La competenza dell’organo che lo ha emanato; o La competenza del destinatario ad eseguire l’ordine; o Il rispetto delle forme eventualmente prescritte per la validità dell’ordine. • Sostanzialmente legittimo, circostanza che ricorre quando sussistono i presupposti fissati dall’ordinamento per la sua emanazione. La responsabilità di chi emana e di chi esegue un ordine illegittimo L’art. 51, co. 2 e 3, c.p. dispone che: Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine. Quanto alla responsabilità di chi ha emanato l’ordine illegittimo per il fatto commesso dall’esecutore dell’ordine, l’art. 51, co. 2, c.p. dà esplicito rilievo ad una normale ipotesi di concorso di persone nel reato: la responsabilità del superiore discende dal suo ruolo di istigatore, e quindi di concorrente morale nel reato commesso dall’esecutore. Quanto invece alla responsabilità di chi ha eseguito l’ordine illegittimo sancita dall’art. 51, co. 3, c.p., è senz’altro configurabile nei confronti di coloro che, come i pubblici impiegati, non sono vincolati all’obbedienza degli ordini dei superiori: hanno anzi il preciso dovere di astenersi dall’eseguire l’ordine del superiore quando l’atto sia vietato dalla legge penale. Il pubblico impiegato ha infatti il potere-dovere di controllare la legittimità sia formale sia sostanziale dell’ordine: con la conseguenza che, ove dia esecuzione all’ordine di commettere un reato, non potrà invocare la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere. Del pari hanno il dovere di astenersi dall’eseguire un ordine la cui esecuzione integra un reato i privati che ricevano un ordine illegittimo di polizia. Gli ordini illegittimi insindacabili L’art. 51, co. 4, c.p. stabilisce che: Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine. Esistono nel nostro ordinamento ordini illegittimi vincolanti, ma non si tratta mai di un vincolo assoluto. In particolare, i militari e gli appartenenti alla polizia di Stato hanno il dovere di eseguire gli ordini dei superiori, ma tale dovere incontra un triplice limite: 1. L’ordine non deve essere formalmente illegittimo; 2. Anche se formalmente legittimo, l’ordine non deve essere manifestamente criminoso; 3. Il subordinato non deve comunque essere personalmente a conoscenza del carattere criminoso dell’ordine. L’art. 729, co. 2, d.P.R. n. 90/2010 dispone che: Il militare al quale è impartito un ordine che non ritiene conforme alle norme in vigore deve, con spirito di leale e fattiva partecipazione, farlo presente a chi lo ha impartito dichiarandone le ragioni, ed è tenuto ad eseguirlo se l’ordine è confermato. Da tale disciplina si evince che il militare o equiparato ha il dovere di eseguire l’ordine confermato dal superiore, purché non si tratti di un ordine formalmente illegittimo, né di un ordine manifestamente criminoso, né di un ordine del cui carattere criminoso il militare sia personalmente a conoscenza. • Se compiuta entro i limiti indicati, l’esecuzione degli ordini da parte del militare o dell’appartenente alla polizia di Stato non potrà ritenersi antigiuridica, costituendo l’oggetto 85 Es. ® La donna che sta per subire uno stupro può difendersi anche a costo di uccidere l’aggressore; chi sta per subire un borseggio non può difendersi uccidendo il ladro. Per la valutazione comparativa dei beni, si farà riferimento alle valutazioni etico-sociali dei beni in conflitto, eventualmente rispecchiate dalla Costituzione. Va invece respinta la tesi secondo la quale la proporzione tra difesa e offesa andrebbe accertata tenendo conto, tra l’altro, dei mezzi a disposizione dell’aggredito, nel senso che l’uso del mezzo meno lesivo sarebbe sempre proporzionato. La legittima difesa nel domicilio e negli esercizi commerciali Solo in anni recenti la legittima difesa nel domicilio ha trovato nel nostro ordinamento una specifica disciplina (art. 52, co. 2, 3 e 4 c.p.), che attribuisce limiti più ampi alla causa di giustificazione. Si tratta di una disciplina riferita ai soli casi in cui il fatto venga realizzato: • Nell’abitazione o in altri luoghi di privata dimora; • Nei luoghi in cui venga esercitata un’attività commerciale professionale o imprenditoriale. Attualmente la disciplina della legittima difesa domiciliare risulta articolata in due ipotesi (co. 2 e 4). Entrambe le disposizioni presuppongono che vi sia stata una violazione di domicilio; la seconda disposizione dà rilievo al carattere violento dell’intrusione. La violazione di domicilio – che deve essere consumata – potrà realizzarsi in tutte le forme previste nell’art. 614 c.p.: con l’introdursi clandestinamente, con inganno, o contro la volontà espressa o tacita del titolare; con il trattenersi clandestinamente, con inganno o contro la volontà espressa del titolare. La prima ipotesi di legittima difesa domiciliare è regolata dall’art. 52, co. 2, c.p., secondo cui: Nei casi previsti dall’art. 614, primo e secondo comma, sussiste sempre il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) La propria o la altrui incolumità; b) I beni propri o altri, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione. • Nell’ipotesi in esame, la legittima difesa domiciliare può essere invocata solo da colui che sia legittimamente presente nel luogo in cui si compie il fatto; • Il mezzo utilizzato nella condotta difensiva deve consistere in un’arma legittimamente detenuta ovvero in altro mezzo idoneo a fini difensivi: si è voluto così evitare che il cittadino, per difendersi, andasse in cerca di armi sul mercato clandestino; • La legge stabilisce una presunzione assoluta di proporzione tra il bene messo in pericolo e il. Bene leso dalla reazione difensiva; e questa presunzione assoluta opera anche quando chi si difende usa un’arma. Ne segue che il fatto posto in essere nel domicilio in difesa della propria o dell’altrui incolumità è giustificato: o Anche se colui che si difende con un’arma o altro mezzo uccide l’aggressore; o Anche se il bene o i beni che corrono pericolo di aggressione sono soltanto beni patrimoniali di colui che si difende o di un terzo. Nell’ipotesi di legittima difesa domiciliare di cui all’art. 52, co. 2, c.p., a differenza che nell’ipotesi di cui al co. 4, la presunzione legale riguarda non tutti i requisiti della legittima difesa previsti dall’art. 52, co. 1, c.p., bensì la sola proporzione. Anche nel quadro di questa disciplina permangono: • Il requisito del pericolo attuale di un’offesa ingiusta alla persona o al patrimonio creato dall’autore della violazione di domicilio: tale requisito non è oggetto di presunzione legale. L’art. 52, co. 2, c.p. non consente un’indiscriminata reazione nei confronti del soggetto che si introduca fraudolentemente nella dimora altrui, ma presuppone un pericolo attuale rispettivamente per l’incolumità fisica dell’aggredito o di altri o per i beni propri o altrui. Nell’ipotesi di reazione difensiva a tutela del patrimonio (art. 52, co. 2, lett. b) parte della giurisprudenza, sul presupposto della necessità di un contestuale pericolo anche per l’incolumità fisica, ritiene peraltro che il requisito dell’attualità vada riferito al solo patrimonio. Quanto al pericolo di aggressione, considera invece sufficiente una ragionevole prognosi sulla condotta del malintenzionato che si trovi nell’altrui domicilio, il quale, pur 86 mirando a commettere reati contro il patrimonio e non avendo ancora posto in essere azioni aggressive nei confronti della persona, a ciò potrebbe determinarsi qualora la vittima tentasse di opporre resistenza. Altra parte della giurisprudenza ritiene invece legittima la reazione solo quando sussista un pericolo attuale per l’incolumità fisica dell’aggredito o di altri. • Il requisito della necessità della difesa: bisogna, in primo luogo, che la persona non possa difendere il bene minacciato attraverso un comportamento penalmente irrilevante, ma egualmente efficace per la difesa; se non esiste un’alternativa lecita, bisogna inoltre, per restare nei limiti della necessità, che la difesa venga realizzata nella forma meno lesiva per l’aggressore. • Il limite del venir meno del pericolo inizialmente creato: bisogna che il potenziale ladro non abbia desistito dall’esecuzione del reato. È questo il requisito dell’attualità del pericolo. Gli intenti del legislatore del 2006, in sede di riforma della legittima difesa, erano ben compendiati nella formula “licenza di uccidere”. Un punto cruciale della disciplina dell’art. 52, co. 2, c.p. è quello relativo all’ipotesi di cui alla lettera b), all’ipotesi cioè in cui il soggetto agisca per difendere i beni propri o altrui. Tuttavia: • Dalla Costituzione si ricava il superiore bene vita rispetto al bene patrimonio: non si può perciò uccidere per difendere un qualsivoglia bene patrimoniale; • La Costituzione non tollera che si ferisca per difendere il patrimonio; • L’art. 2 CEDU consente l’uccisione dell’aggressore soltanto quando si tratti di garantire la difesa della persona contro una violenza illegale. La Corte di cassazione ha individuato la necessità che venga messa in pericolo anche l’incolumità fisica della persona, affermando che “la reazione a difesa dei beni è legittima solo quando non vi sia desistenza ed anzi sussista un pericolo attuale anche per l’incolumità fisica dell’aggredito o di altri”. La seconda ipotesi di legittima difesa nel domicilio, caratterizzata dalle modalità violente dell’intrusione, è disciplinata dall’art. 52, co. 4, c.p.: Nei casi di cui al secondo e terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone. La nuova disciplina si riferisce a casi in cui l’aggressore ha violato il domicilio e l’aggredito, ivi legittimamente presente, ha difeso con un’arma legittimamente detenuta o con un altro mezzo idoneo la propria o altrui incolumità, ovvero i beni propri o altrui. L’elemento di specialità presente nell’art. 52, co. 4, c.p. è rappresentato dal carattere violento della violazione di domicilio, riconducibile all’ipotesi aggravata di cui all’art. 614, co. 4, c.p. Ne consegue che: l • La presunzione di proporzione riguarda ipotesi di violazione di domicilio non aggravata; • L’art. 52, co. 4, c.p. riguarda i casi di violazione di domicilio aggravata. Secondo la volontà del legislatore, nell’ipotesi considerata il giudice dovrebbe sempre riconoscere la legittima difesa, escludendo l’antigiuridicità del fatto, senza accertare i requisiti della disciplina ordinaria di cui all’art. 52, co. 1, c.p. (necessità e proporzione). Così disponendo, il legislatore mirava a legare le mani al giudice, addirittura esonerando chi si difende tra le mura di casa dal peso e dai costi del processo penale: un intento manifestato dalle forze politiche che hanno proposto la legge. Il problema centrale posto dall’art. 52, co. 4, c.p. riguarda la presunzione assoluta che coinvolge tutti i requisiti ordinari della legittima difesa: • Quanto alla proporzione, un’interpretazione conforme a Costituzione impone di escludere la legittima difesa quando nell’azione difensiva all’interno del domicilio venga sacrificato un bene di rango nettamente superiore a quello che ha corso il pericolo; • Quanto alla necessità della difesa, si tratta della facoltà eccezionale di autotutela, che si può ragionevolmente ammettere quando l’autodifesa è necessaria, non essendo possibile difendersi con un comportamento penalmente irrilevante o in modo meno lesivo. Quanto alla prassi, i procedimenti penali nei quali viene in rilievo la legittima difesa domiciliare hanno una dimensione inversamente proporzionale all’enfatizzazione politica e al clamore mediatico che ha accompagnato l’approvazione della riforma del 2019. 87 Il legislatore del 2019 ha altresì modificato la disciplina dell’art. 55 c.p. in materia di eccesso colposo nelle cause di giustificazione, inserendo un secondo comma del seguente tenore: Nei casi di cui all’art. 52, co. 2, co. 3 e co. 4, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all’art. 61, co. 1, n. 5, ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto. • Il primo comma dell’art. 55 richiama l’art. 52 per configurare l’ipotesi dell’eccesso colposo di difesa, prevedendo la responsabilità dell’agente; • Il secondo comma mira a escludere quella responsabilità in ipotesi di eccesso di difesa all’interno del domicilio: si tratterà dunque di eccesso colposo di legittima difesa, ferma restando la responsabilità dell’agente in caso di eccesso doloso nella difesa domiciliare. Inoltre, la previsione dell’art. 55, co. 2, c.p. riguarda ipotesi in cui il fatto sia stato commesso per la salvaguardia della propria o altrui incolumità: a fronte, quindi, di un pericolo per beni personali. Chi ecceda i limiti della legittima difesa domiciliare per la salvaguardia di soli beni patrimoniali non potrà quindi invocare l’art. 55, co. 2, c.p. L’esenzione da responsabilità penale ex art. 55, co. 2, c.p. è legata a due situazioni alternative: • Una situazione di minorata difesa ex art. 61, co. 1, n. 5, c.p. in cui si sia trovato l’aggredito. Un’interpretazione restrittiva porta ad escludere che una situazione di minorata difesa sia presente in ogni caso di aggressione nel domicilio. Il giudice dovrà valutare, caso per caso, se ci sia stato un approfittamento di condizioni, oggettive o soggettive, che hanno effettivamente ostacolato l’azione difensiva: non basta che ricorra una situazione nella quale il giudice riterrebbe configurabile l’aggravante di cui all’art. 61, n. 5, c.p. rispetto al fatto commesso da chi si è introdotto nell’altrui domicilio, ma è necessario che la situazione di minorata difesa abbia in concreto reso impossibile opporre una normale difesa rispetto all’aggressione subita. • Un grave turbamento psichico dell’agente, derivante dalla situazione di pericolo in atto. Si impone altresì un’interpretazione restrittiva del concetto di grave turbamento psichico, che ne escluda il carattere presunto e verifichi un duplice rapporto. Il turbamento: o Deve essere effetto derivante dalla situazione di pericolo in atto; o Deve essere causa rispetto all’accesso di difesa, valutato come incolpevole da parte del legislatore. La disciplina dell’art. 55, co. 2, c.p. opera non sul piano dell’antigiuridicità, bensì sul piano della colpevolezza. La nuova disposizione configura infatti una scusante, riferibile ai reati colposi, cioè una circostanza anormale che influisce in modo irresistibile sulla volontà o sulle capacità psicofisiche dell’agente, rendendo inesigibile un comportamento diverso. In altri termini, le due situazioni di vulnerabilità in cui può trovarsi chi subisce un’aggressione nel domicilio – la minorata difesa o il grave turbamento – assumono rilievo per la pressione che esercitano sull’agente, impedendogli di tenere una condotta rispettosa di regole cautelari la cui osservanza avrebbe impedito l’evento. La disciplina dell’art. 55, co. 2, c.p. presuppone che la causa di giustificazione della legittima difesa domiciliare presenti dei limiti, che potranno essere ecceduti dall’agente. • La nuova disposizione potrà trovare applicazione in rapporto all’art. 52, co. 2, c.p.; • Sarà invece riferibile all’ipotesi di cui all’art. 52, co. 4, c.p. solo nella misura in cui attraverso un’interpretazione conforme a Costituzione si introducano limiti alla legittima difesa non contemplati dal tenore letterale della norma. L’uso legittimo delle armi I presupposti e i limiti dell’uso legittimo dei mezzi di coercizione fisica trovano nell’art. 53 una disciplina che si articola in tre ipotesi: 1. Quella in cui l’uso dei mezzi di coercizione sia necessario per respingere una violenza o vincere una resistenza all’autorità (art. 53, co. 1, pt. I, c.p.); 2. Quella in cui la coercizione fisica sia necessaria per impedire la consumazione di una serie di gravissimi delitti (art. 53, co. 1, pt. II, c.p.); 3. Le ulteriori ipotesi in cui è consentito un uso più largo delle armi (art. 53, co. 3, c.p.). 90 Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Questa disposizione non si applica a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo. La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall’altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l’ha costretta a commetterlo. Si discute se lo stato di necessità vada inquadrato: • Tra le cause di giustificazione: si tratterebbe quindi di una facoltà legittima il cui esercizio rende lecita la commissione di un fatto penalmente rilevante; • Tra le scusanti: si tratterebbe di un’ipotesi in cui l’ordinamento ritiene che non si possa muovere un rimprovero a chi ha commesso un fatto antigiuridico, avendo agito sotto la pressione psicologica di una circostanza che rendeva inesigibile l’astensione da quel fatto. La disputa riguarda soltanto una delle ipotesi di stato di necessità, e cioè quella prevista al primo e al secondo comma dell’art. 54. Non è infatti contestabile che abbia natura di scusante l’ipotesi dello stato di necessità determinato da altrui minaccia prevista nel comma 3. I presupposti dell’azione di salvataggio ex art. 54, co. 1e 2, c.p.: (a) il pericolo attuale e non volontariamente causato La nozione di pericolo coincide con quella illustrata a proposito della legittima difesa. La fonte del pericolo può risiedere: • In un accadimento naturale; • In un comportamento dell’uomo. Quanto all’attualità del pericolo, il pericolo è attuale: • Sia quando il verificarsi del danno è imminente; • Sia quando il danno è già in atto, ma non è ancora esaurito (c.d. pericolo perdurante). Qualora si tratti di un pericolo futuro, ma che possa essere fronteggiato soltanto con un’azione immediata, a pena del verificarsi di un danno certo, una parte della dottrina include tali ipotesi nella nozione di “pericolo attuale”, secondo il modello dell’“ora o mai più”. La legge pone un ulteriore limite al pericolo rilevante ai fini dello stato di necessità, esigendo che il pericolo non sia stato volontariamente causato. Resta pertanto esclusa, ad es., l’ipotesi in cui il pericolo sia stato creato intenzionalmente o previsto e accettato come una conseguenza certa o seriamente possibile della propria condotta. La lettera dell’art. 54, co. 1, c.p. non autorizza invece a escludere dall’ambito dell’esimente i casi in cui il pericolo sia stato creato colposamente: per definizione, la colpa si caratterizza per l’involontarietà dell’evento e dunque l’ipotesi della causazione colposa dell’evento giace al di fuori di tutti i possibili significati letterali dell’espressione “pericolo volontariamente causato”. Va tuttavia segnalato che l’orientamento prevalente è nel senso di considerare la formula “volontariamente” come sinonimo di “colpevolmente”, abbracciando così anche l’ipotesi in cui il pericolo sia stato cagionato da una condotta colposa. (b) il danno grave alla persona Questa esimente ha un ambito applicativo assai più ristretto di quello della legittima difesa: oggetto del pericolo deve essere infatti un “danno grave alla persona” dall’agente o di un terzo. Il bene minacciato può consistere nella vita, nell’integrità fisica o in altri beni di natura personalissima, come la libertà personale e la libertà sessuale. Può altresì consistere in uno di quei beni collettivi che rappresentano la sintesi di beni di singole persone: è il caso della incolumità pubblica e della salute pubblica. Per contro, sono pacificamente esclusi non solo i beni individuali che non hanno carattere personalissimo, come i beni matrimoniali, ma anche i beni istituzionali, quei beni cioè che fanno capo allo Stato o ad altri enti pubblici. 91 Quanto alla gravità del danno alla persona, tale requisito va accertato in relazione: • Sia al rango del bene esposto al pericolo; • Sia all’intensità della lesione incombente. Es. ® La Corte di cassazione ha ritenuto che abbia agito in stato di necessità lo straniero ridotto in condizioni di schiavitù e obbligato a prostituirsi, il quale sia costretto a commettere il reato di atti osceni in luogo pubblico per il timore che, in caso di disobbedienza, possa essere esposta a pericolo la vita o l’incolumità fisica dei suoi familiari. Per contro, non potrà parlarsi di pericolo di un danno grave alla persona in relazione ad un malessere di breve durata, intenso ma rapidamente superabile, come quello derivante dall’astinenza da sostanze stupefacenti. I requisiti dell’azione di salvataggio: (a) necessità dell’azione e inevitabilità del pericolo Ai fini dello stato di necessità, la legge richiede: 1. Che la commissione del fatto penalmente rilevante sia necessaria per fronteggiare il pericolo di un danno grave alla persona: ciò comporta l’assenza di alternative lecite o meno lesive egualmente efficaci per neutralizzare il pericolo; 2. Che il pericolo non sia altrimenti evitabile. Il pericolo deve dunque essere evitabile solo attraverso una condotta penalmente rilevante; e se ci sono a disposizione altre condotte capaci di evitare il pericolo, quand’anche siano rischiose per il soggetto, si dovranno tenere queste altre condotte. In altri termini: a. Nella legittima difesa l’azione difensiva dell’aggredito è lecita quando non sia possibile un commodus discessus; b. Nello stato di necessità l’esistenza di alternative anche rischiose per il soggetto agente esclude l’operatività dell’esimente. (b) la proporzione tra fatto e pericolo L’art. 54, co. 1, c.p. esige che il fatto penalmente rilevante sia proporzionato al pericolo sventato con la commissione del fatto. Con questo requisite la legge impone una valutazione comparative tra il bene personale esposto a pericolo e il bene dell’innocente sacrificato dall’azione di salvataggio. Ciò che si richiede non è necessariamente la prevalenza del bene salvato rispetto a quello sacrificato, né l’equivalenza tra i due beni. Si può sacrificare un bene anche di rango superiore rispetto al bene in pericolo che viene salvato, sempreché il divario di valore tra i due beni non sia eccessivo: così, la proporzione può sussistere anche nel fatto di chi uccide per salvare il bene della libertà personale. La costrizione Perché possa parlarsi di stato di necessità il soggetto deve essere costretto dalla necessità di commettere il fatto penalmente rilevante. Lo stato di necessità è dunque una causa di giustificazione o una scusante? • Causa di giustificazione: la costrizione starebbe a denotare soltanto l’oggettiva impossibilità di salvare il bene in pericolo senza sacrificare il bene di un terzo innocente; • Scusante: la costrizione si identifica con l’esclusione, o quanto meno con una restrizione, della libertà di agire; ciò che presuppone la consapevolezza del pericolo e un effettivo turbamento psicologico in chi commette il fatto. A sostegno della seconda lettura (scusante) parlano diversi argomenti: 1. I casi tradizionalmente ricondotti sotto lo stato di necessità sono tutti caratterizzati da un’effettiva pressione psicologica provocata dalla natura o dall’uomo, che addirittura chiama in causa l’istinto di conservazione; 2. Solo attraverso una lettura del requisito della costrizione che dia risalto al turbamento motivazionale dell’agente – e non al bilanciamento di interessi – si evita di ricondurre allo stato di necessità una serie di casi che nessuno considererebbe immeritevoli di pena; 92 3. La natura dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia (co. 3) è la stessa dell’ipotesi generale di stato di necessità disciplinata dal primo comma: cambia soltanto la fonte del pericolo. In tutti i casi si tratta dunque di una scusante, e quindi il giudice dovrà sempre accertare che l’autore del fatto abbia subito un effettivo turbamento motivazionale. Da questa ricostruzione imposta dalla complessiva disciplina dello stato di necessità deriva un’importante conseguenza in tema di “soccorso di necessità”, cioè nei casi in cui l’agente commetta un fatto penalmente rilevante per salvare “altri” dal pericolo attuale di un danno grave alla persona: potrà essere scusato il soccorso del terzo solo in quanto la rappresentazione del pericolo che incombeva su di lui abbia prodotto un effettivo turbamento del processo motivazionale dell’agente. Dall’inquadramento dello stato di necessità tra le scusanti, oltre alla necessaria conoscenza del pericolo e al conseguente effetto di costrizione psicologica, deriva ancora la possibilità di esercitare la legittima difesa contro chi agisce in stato di necessità. Inoltre, lo stato di necessità può essere applicato ai concorrenti nella realizzazione di un fatto di reato solo se si accerti in relazione ad ogni singolo concorrente la consapevolezza del pericolo e l’effetto di coazione psicologica. Il “particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo” La legge esclude che possa essere applicato lo stato di necessità a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo (ad es., vigili del fuoco). Questo limite all’applicazione dello stato di necessità è del tutto coerente con la sua natura di scusante: l’ordinamento può scusare il comune cittadino, ma non chi, avendo ricevuto uno specifico addestramento e magari disponendo di un idoneo equipaggiamento, è particolarmente attrezzato per fronteggiare quel pericolo; ciò a condizione che: • Si tratti proprio del tipo di pericolo che l’agente ha il dovere giuridico di affrontare; • L’agente si trovi ad affrontare un mero pericolo (anche per la vita), e non la prospettiva di una morte certa. 95 Il momento rappresentativo del dolo si considera di regola integrato anche nei casi di dubbio, perché chi agisce in stato di dubbio ha un’esatta rappresentazione di quel dato della realtà, sia pure coesistente con una falsa rappresentazione di quel dato. Il dubbio risulta invece incompatibile con il dolo nei casi in cui eccezionalmente la legge richiede una conoscenza piena e certa dell’esistenza di un elemento del fatto. Es. ® Nel delitto di calunnia (art. 368 c.p.) la legge richiede che l’agente incolpi di un reato taluno che egli sa innocente. • Vi sono elementi del fatto la cui conoscenza può essere acquisita attraverso i sensi: si tratta degli elementi descrittivi (ad es., uomo, madre, minore di anni dieci). • Altri elementi del fatto (i c.d. elementi normativi) sono invece individuati attraverso concetti che esprimono qualità giuridiche o sociali di un dato della realtà (ad es., cosa altrui). Non si pretende che la persona abbia una conoscenza da esperto: basta la conoscenza propria del profano, ossia del comune cittadino. Per contro, difetta la rappresentazione del fatto necessaria per la sussistenza del dolo quando l’agente versa in un errore sul fatto (art. 47 c.p.). Ciò accade: • Quando non si rappresenti la presenza di almeno uno degli elementi del fatto come conseguenza di un’errata percezione sensoriale (c.d. errore di fatto). Es. ® Un cacciatore crede di vedere agitarsi dietro un cespuglio un cinghiale, mentre si tratta di un altro cacciatore: spara e uccide un uomo, ma quel che si è rappresentato è un fatto diverso, ossia l’uccisione di un animale. Se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa quando il fatto è preveduto come delitto colposo (art. 47, co. 1, c.p.) • Quando non si rappresenti la presenza di almeno uno degli elementi del fatto come conseguenza di un’errata interpretazione di norme giuridiche o sociali diverse dalla norma incriminatrice e da questa richiamate (c.d. errore di diritto). Es. ® Tizio può non rendersi conto di commettere un furto se dalla lettura di un contratto, magari frutto del parere di un esperto notaio, è pervenuto all’errata convinzione di aver solo dato in prestito la cosa la detentore, conservandone la proprietà. L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato (art. 47, co. 3, c.p.). Va tuttavia sottolineato che la prevalente giurisprudenza, svuotando la previsione di cui all’art. 47, co. 3, c.p. ritiene che l’errore su una legge diversa dalla legge penale, essendo assimilato all’errore sulla legge penale, rileva solo se inevitabile, cioè non dovuto a colpa. Il momento volitivo del dolo Il dolo non si esaurisce nella rappresentazione del fatto: perché sia in dolo, il soggetto deve aver voluto la realizzazione del fatto antigiuridico che si era preventivamente rappresentato, cioè deve aver deciso di realizzarlo in tutti i suoi elementi. In particolare, il momento volitivo del dolo consiste innanzitutto nella risoluzione di realizzare l’azione: e tale risoluzione deve essere presente nel momento in cui il soggetto agisce, rappresentandosi tutti gli estremi del fatto descritto dalla norma incriminatrice. Nel nostro ordinamento non vi è quindi spazio per le vecchie figure del c.d. solo antecedente, del c.d. dolo susseguente e del c.d. dolo generale. La risoluzione: • Può essere la conseguenza immediata di un improvviso impulso ad agire (c.d. dolo d’impeto); • Può essere presa e tenuta ferma fino al compimento dell’azione per un apprezzabile lasso di tempo senza soluzione di continuità (c.d. dolo di proposito, che per taluni reati viene designato dal legislatore come premeditazione e integra una circostanza aggravante). I gradi del dolo: dolo intenzionale, dolo diretto e dolo eventuale Il dolo può assumere tre gradi, che dipendono dall’intensità del momento volitivo e rappresentativo: 96 • Dolo intenzionale: si configura quando il soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto. Es. ® Spara e uccide, avendo di mira la morte di quell’uomo. Non è necessario che la realizzazione del fatto rappresenti lo scopo ultimo perseguito dall’agente, potendo essere anche uno scopo intermedio. Parimenti, non è necessario che la causazione dell’evento perseguito dall’agente sia probabile: basta la mera possibilità di successo. Vi è perciò dolo intenzionale di omicidio anche se la persona offesa si trovava ad una distanza ai limiti della portata balistica dell’arma impiegata dall’agente. Di regola, la legge non richiede ai fini della responsabilità dolosa che il fatto sia stato realizzato intenzionalmente: la presenza del dolo intenzionale rileverà soltanto ai fini della commisurazione della pena, sotto il profilo dell’intensità del dolo. Talora peraltro la legge esige il dolo intenzionale, o meglio esige che l’agente sia animato da particolari finalità in relazione a questo o quell’evento. In taluni di questi casi l’evento che l’agente deve prendere di mira deve realizzarsi per la consumazione del reato. In una più ampia serie di casi – nei c.d. reati a dolo specifico, caratterizzati dalla presenza di formule quali “al fine di”, “allo scopo di”, “per”, ecc. – il legislatore richiede che l’agente commetta il fatto avendo di mira un risultato ulteriore, il cui realizzarsi non è necessario per la consumazione del reato. Es. ® Delitto di strage (art. 422 c.p.): l’agente deve compiere gli atti pericolosi avendo di mira la morte di almeno un uomo, ma il reato è consumato anche se tale evento non si verifica. Nella maggior parte dei casi – c.d. reati a dolo generico – le finalità perseguite dall’agente con la commissione del fatto sono irrilevanti per l’esistenza del dolo. • Dolo diretto: si configura quando l’agente non persegue la realizzazione del fatto, ma si rappresenta come certa o come probabile al limite della certezza l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione. Es. ® Ricettazione (art. 648 c.p.): antiquario che sappia per certo che un quadro è stato sottratto da una collazione (ne hanno parlato i telegiornali) e con questa consapevolezza decida comunque di acquistare il quadro. Di regola, così come non è necessario che l’agente persegua come scopo la realizzazione del fatto, così non è richiesto che si rappresenti la realizzazione del fatto come certa: basta il dolo eventuale. Eccezionalmente, la legge richiede una conoscenza piena e certa dell’esistenza di un elemento del fatto. • Dolo eventuale (o dolo indiretto): si ha quando il soggetto non persegue la realizzazione del fatto, ma si rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi. Il soggetto decide di agire “costi quel che costi”, mettendo cioè in conto la realizzazione del fatto (Sezioni Unite Nocera, n. 12433/2010, Rv. 246324). I tratti salienti del dolo eventuali sono ben espressi dalla seconda formula di Frank: l’agente deve essersi detto “sia presente o meno quella circostanza, avvenga questo o quest’altro, io agisco comunque”. È opinione diffusa che il dolo eventuale sia caratterizzato dall’accettazione del rischio del verificarsi del fatto. Presa alla lettera, è opinione contra legem: oggetto dell’accettazione deve essere non l’evento, ma il pericolo del verificarsi dell’evento, altrimenti si trasformerebbero i reati di evento in reati di pericolo del verificarsi dell’evento. Invero, perché sussista il dolo eventuale, ciò che l’agente deve accettare è proprio l’evento: è il verificarsi dell’evento che deve essere stato accettato e messo in conto dall’agente, pur di non rinunciare all’azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria possibilità di provocarlo. L’esatta definizione del dolo eventuale delinea, in primo luogo, i confini della responsabilità penale. Ciò accade per i fatti che sono previsti nella sola forma del delitto doloso. Es. ® Alcuni fatti di danneggiamento (art. 635 c.p.) si possono realizzare anche per colpa, ma la legge li configura come reato solo se commessi con dolo. 97 In secondo luogo, quando il fatto è punito sia se commesso con dolo sia se commesso per colpa, il dolo eventuale rappresenta la linea di confine che separa l’area della responsabilità per dolo da quella della responsabilità per colpa. Il dolo eventuale va nettamente distinto dalla colpa cosciente. I due criteri di imputazione hanno in comune la previsione dell’evento, ma presentano tratti ulteriori diversi: o Nella colpa con previsione l’agente si rappresenta il possibile verificarsi di un evento, ma ritiene per colpa che non si realizzerà nel caso concreto, e ciò in quanto, per leggerezza, sottovaluta la probabilità del verificarsi dell’evento ovvero sopravvaluta le proprie capacità di evitarlo. o Agisce con dolo eventuale chi ritiene seriamente possibile la realizzazione del fatto e agisce accettando tale eventualità. Dal punto di vista concettuale, la giurisprudenza maggioritaria ritiene che il dolo eventuale si caratterizza per l’accettazione e la messa in conto del verificarsi dell’evento, mentre la colpa cosciente si connota per la convinzione dell’agente, dovuta a negligenza o a imprudenza, che l’evento non si verificherà nel caso concreto. • Il problema del confine tra dolo eventuale e colpa cosciente viene in rilievo in giurisprudenza in relazione ad un’ampia casistica, che riguarda con particolare frequenza: o Omicidio o lesioni personali conseguenti a contagio da HIV derivante da rapporti sessuali non protetti. Es. ® Si è ritenuto che si trattasse di omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente un caso in cui l’imputato, sieropositivo, anche in baso al suo modesto livello culturale, aveva maturato la convinzione, poggiante sulla considerazione che il suo. Stato di salute non aveva subito negli anni alcun processo peggiorativo, che niente di male sarebbe potuto succedere alla moglie. Es. ® La Corte ha ritenuto sussistente il dolo eventuale in un caso in cui l’infezione era stata trasmessa da una donna pienamente consapevole sia della malattia da cui era affetta, sia della possibilità di trasmetterla al proprio compagno; ciò in quanto il marito, tempo prima, era morto di AIDS. o Omicidio o lesioni personali conseguenti alla guida di autoveicoli in stato di alterazione psicofisica (conseguente all’assunzione di alcool o stupefacenti). Es. ® La Suprema Corte ha escluso il dolo eventuale dell’imputato che avendo imboccato con la propria auto una via contromano ad alta velocità, in una zona priva di illuminazione, non avrebbe potuto ignorare e pertanto accettare il rischio di gravi conseguenze anche per la propria incolumità. In questi casi la giurisprudenza ricorre alla prima formula di Frank, secondo la quale il dolo eventuale sussiste quando è possibile ritenere che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento. La l. n. 41/2016 ha configurato l’omicidio stradale (art. 589-bis) e le lesioni stradali gravi o gravissime (art. 590-bis) come autonome figure di delitto colposo. Per colui che cagioni per colpa la morte di una persona essendosi posto alla guida di un veicolo a motore in stato di grave ebrezza o di alterazione psicofisica da stupefacenti, l’art. 589-bis prevede la pena della reclusione da 8 a 12 anni, con possibilità di aumento fino a 18 anni in caso di morte di più persone e addirittura fino a 30 anni se il conducente, avendo cagionato la morte di più persone, si dia alla fuga. In definitiva, il legislatore ha optato per la qualificazione di queste ipotesi come colpose, salvo sottoporle ad un trattamento sanzionatorio estremamente severo. o Infortuni sul lavoro. Es. ® Caso ThyssenKrupp: in primo grado amministratori e dirigenti erano stati condannati per omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento, mentre l’a.d. era stato condannato per omicidio doloso commesso con dolo eventuale.