Scarica Sociologia della comunicazione - Vittadini e più Appunti in PDF di Sociologia Della Comunicazione solo su Docsity! Sociologia della comunicazione – appunti lezione La sociologia è lo studio del sociale e ha come oggetto lo studio dei rapporti fra gli uomini e le strutture sociali in cui questi si costruiscono. Comte definisce la sociologia come lo studio positivo dell’insieme delle leggi fondamentali proprie a fenomeni sociali. Simmel vede la sociologia come la scienza che studia i gruppi e le interazioni sociali. Weber parla della sociologia come la scienza dell’azione sociale che vuole comprendere interpretandola e di cui vuole spiegare socialmente lo svolgersi. Secondo lui si tratta di un agire che sia riferito secondo il suo senso intenzionato dell’agente – all’atteggiamento degli altri individui, e orientato nel suo corso in base a questo. Sguardo sociologico sulla comunicazione: attraverso la comunicazione non forniamo solo delle informazioni, ma «costruiamo» la nostra realtà sociale; quando comunichiamo incrementiamo la nostra conoscenza condivisa cioè il «senso comune», la precondizione essenziale per l’esistenza di qualsiasi comunità. Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tuto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano. è un sistema di significati e di definizioni della realtà… rappresentazioni (gli altri, l’ambiente) schemi di conoscenza che le persone impiegano a livello implicito (sospensione del dubbio). È un prodotto del vivere collettivo e sociale ed è una piattaforma per la comunicazione e l’azione della cultura. Comunicazione significa mettere in comune significati sociali (parole, valori, abitudini) “elementi di comportamento o modi di vita”. Significa partecipare a un processo di costruzione di senso condiviso (il racconto collettivo della realtà sociale). Quando le persone comunicano non solo scambiano informazioni, ma costruiscono la loro relazione. È uno strumento attraverso cui si compiono i processi di integrazione dei sistemi sociali (collettività) attraverso: la condivisione delle rappresentazioni comuni della realtà, la costruzione di una memoria condivisa, la costruzione di una appartenenza La comunicazione interpersonale: ruoli, contesti, fiducia La comunicazione interpersonale si trova in una dimensione prettamente sociale ed è quindi importante l’immagine di un ruolo ovvero il comportamento sociale che una persona ha quando entra in comunicazione con gli altri. Bisogna avere delle competenze che ci permettono di capire come comportarci e bisogna avere dei modelli interpretativi in mente, degli schemi interpretativi della reazione probabile dell’altro (ci si mette al posto dell’altro) e si entra in una comunicazione collaborativa dove è importante riconoscere il ruolo dell’altro e se non si crea questo rapporto non c’è cooperazione ed è probabile che nasca un conflitto. Gli schemi interpretativi gli utilizziamo scegliendo un determinato comportamento, sono dei modi. Questo ci permette di aspettarsi un determinato comportamento dall’altro. Nella comunicazione mettiamo in gioco questi schemi interpretativi. Non siamo degli autonomi, Mead (psicologo sociale) dice che l’identità delle persone che vivono nella società è composta da due parti: ME – riflesso di come l’individuo si percepisce in base agli atteggiamenti degli altri nei suoi confronti/ I – la risposta che l’individuo elabora in base all’interpretazione del me. Le due parti producono la socializzazione dell’individuo e le regole di ruolo, generano elementi di creatività e originalità dell’azione individuale. I ruoli - “L’insieme delle norme e delle aspettative che convergono in un individuo in quanto occupa una determinata posizione in una più o meno strutturata rete di relazioni sociali”. Quando entriamo in relazione con gli altri non mettiamo sempre in gioco tutte le nostre caratteristiche sociali, psicologiche e le nostre personalità. Bisogna semplificare e non possiamo mettere in comune tutto ciò che siamo, tutte le nostre identità, quindi qualcosa viene “nascosto”. Noi mettiamo in gioco quando comunichiamo un SE particolare. Abbiamo tanti diversi ruoli nella nostra vita (amica, figlia, studentessa…) e ne scegliamo qualcuna in un determinato momento, lo scegliamo tra il SE totale. Il ruolo che prendiamo dipende dalla situazione comunicativa. Ci sono delle reciproche aspettative di ruolo durante la comunicazione sociale più o meno flessibili e rigide. Quello che fa funzionare le nostre attività comunicative è collegato all’interpretazione dei ruoli. Come si creano i ruoli - George Simmel, un sociologo si è occupato del modo in cui noi riusciamo a comprendere i ruoli. Afferma che la nascita del bisogno di riconoscerci con dei ruoli nasce dal bisogno di tipizzazione anche se è impossibile riconoscere l’altro come persona individuale, devo poterlo riconoscere come “tipo” o rappresentante di una categoria generale (membro di un gruppo). Gli individui si percepiscono reciprocamente come in qualche misura generalizzati. Per la creazione del ruolo abbiamo diversi step: 1. Primo step – a. Tipizzazione: È impossibile conoscere perfettamente l’altro come persona individuale, devo poterlo riconoscere come «tipo» o rappresentante di una categoria generale (membro di un gruppo, una classe sociale, una professione), gli individui si percepiscono reciprocamente come "in qualche misura generalizzati”. La tipizzazione è una protesi della conoscenza mancante dell’altro b. Presupposti della tipizzazione: saper riconoscere le caratteristiche che appartengono a una categoria; saper elevare questi caratteri a un tipo perfetto di quella categoria; inferire il comportamento probabile dell’altro a protesi della conoscenza mancante dell’altro 2. Secondo step – individualizzazione: riconoscere quello che i singoli individui rappresentano di atipico e di inconfondibile. Il ruolo viene inteso diversamente da persona a persona e in ragione della diversità viene esplicato in modo diverso restando però riconoscibile 3. Terzo step – assunzione di posizione sociale: tipizzazione e individualizzazione hanno senso perché sono inserite in un sistema funzionalmente differenziato di posizioni sociali. Gli individui occupano posizioni sociali come detentori di posizioni, le persone acquistano un valore di comunità. A cosa serve il ruolo - il ruolo serve per orientare la propria condotta nelle diverse situazioni (so cosa fare…), a definire la reciprocità delle aspettative (di ruolo) e formulare previsioni (so cosa farà). Il ruolo serve anche a restringere la possibilità di imprevedibilità e gestire il coordinamento. Se ci si trova davanti a una cultura diversa abbiamo lo shock culturale: sensazione di spiazzamento e di confusione che si prova quando ci si trova davanti a una cultura diversa dalla nostra, abbiamo delle aspettative di ruolo e cambiamo, ci adattiamo alle altre culture. Nelle relazioni sociali i ruoli hanno una funzione normativa, definisce delle regole della relazione sociale, conoscere e applicare l’agire tipico di ruolo, comportamenti che ci permettono di riconoscere che l’altra persona sta comprendendo. Come assumiamo un ruolo - Il sociologo Evvin Goffman come oggetto di studio ha la vita quotidiana e i comportamenti sociali e fa un passo in avanti rispetto a Simmel: accanto all’agire tipico del ruolo ci sono delle modalità con cui ciascuno interpreta le regole e non interpretiamo i ruoli in maniera passiva. Ciascun individuo interpreta i ruoli in modo particolare. Abbiamo due modi di interpretare i ruoli: assorbimento o distanza dal ruolo. Attraverso la role performance si interpreta il ruolo: 1. Adattamento al ruolo 2. Distanza dal ruolo (ci si distanzia dalle aspettative). Abbiamo comportamenti che fanno emergere una non completa adesione alle aspettative di ruolo informali e che esprimono l’individualità. Si colloca nello spazio intermedio fra le aspettative normative che definiscono i ruoli e l’immagine complessiva che proiettiamo di noi stessi. Per esempio, il video estratto da “attimo fuggente”, l’insegnante sale sulla cattedra e mette in discussione la parte formale ma non smette di essere un insegnante (si distanzia dal ruolo), egli non rispetta tutte le caratteristiche che un insegnante deve avere, le aspettative sono diverse e succede quando ci sono in atto dei rinnovamenti del ruolo attraverso un processo sociale che qualcuno innesca e si forma quindi un rinnovamento che a sua volta può rinnovare la situazione in cui si trova, la situazione sociale. Come apprendiamo i ruoli – Ciascun individuo interpreta il ruolo in modo particolare (assorbimento o distanza dal ruolo). Attraverso la «role performance» che comprende: adattamento al ruolo e distanza dal ruolo. Distanza dal ruolo: comportamenti che fanno emergere una non completa adesione alle aspettative di ruolo informali (e che esprimono l’individualità) si colloca nello spazio intermedio tra le aspettative normative che definiscono i ruoli e l’immagine complessiva che proiettiamo di noi stessi. Il ruolo collega realtà. Si parla quindi di un processo di racconto in cui rispetto all’evento vengono selezionati alcuni aspetti dei quali si propone una particolare interpretazione. Inserirlo nella nostra testa e all’interno di un frame porta comunque alla creazione di un frame interpretativo piuttosto che un altro. I modelli di frame sono anche dei modi per dare la notizia: 1.Corriere della Sera – “Brusca richiede i domiciliari”: il titolo mette in luce le due dichiarazioni, Brusca e Maria Falcone che sono contrapposte – questo è il modello del CONFLITTO tra le parti 2.Corriere della Sera – “senza insegnante di sostegno…”: notiamo qui che sono ancora una volta dichiarazioni, una lamentela e al centro viene messa l’emotività e la testimonianza, strategia di comunicazione emozionale e sociale – questo modello si chiama di PERSONALIZZAZIONE dove l’evento di focalizza su un individuo esemplare e il racconto è presentato dal punto di vista dell’individuo. 3. Corriere della Sera – “l’emergenza clima…”: attenzione sull’aspetto economico, sulla perdita economica che rispetto all’emergenza clima è una conseguenza, come racconto l’emergenza clima? – questo modello si chiama CONSEGUENZE e il tema è presentato dal punto di vista delle esperienze, schema cognitivo e logico, schemi di tipo causa/effetto che ci fa collegare un ragionamento più ampio, tutti sistemi di semplificazione. 4. Corriere della Sera – “Clima il 30%...”: subito mi colpisce la critica – questo è un modello di INCORNICIAMENTO MORALE, il tema è presentato dal punto di vista di una valutazione e siamo colpiti dal giudizio negativo, contrapposizione tra il giusto e lo sbagliato. 5. Corriere della Sera – “Si di Trump…”: la chiave con cui il corriere ha aperto il sito, suggerire l’interpretazione dei fatti, c’è stata un’influenza e viene descritta la potenza del presidente e si racconta di una responsabilità – questo è il modello della RESPONSABILITA’, il tema è presentato dal punto di vista della responsabilità della risoluzione (o creazione) del problema. Questi frames servono perché noi leggiamo una cosa e la inquadriamo dentro a uno schema interpretativo e la possiamo collegare dentro a dei modelli. Perché i frames funzionano devono avere tre caratteristiche: 1. Devono avere risonanza – attirare e mobilitare le persone 2. Credibilità – devono essere coerenti con le cose in cui crediamo, le bussole della nostra cultura 3. Salienza – ovvero la rilevanza del frame e della sua coerenza rispetto a valori e idee centrali per i destinatari. Alle volte i media costruiscono i frames, dei modelli interpretativi che noi non avevamo vengono costruiti dai media, una chiave di interpretazione degli eventi che fino a una decina di anni fa non esisteva: 4 articoli che usano tutti la stessa parola – Femminicidio. Questa è una parola che non rappresentava un modello interpretativo, poteva rappresentare qualcosa che non aveva uno specifico significato e che è stato progressivamente costruito dai media: a noi basta leggere una parola e abbiamo in mente un preciso frame comunicativo. Il fatto che i media abbiano costruito questo frame ha fatto si che adesso noi troviamo questa parola come parola che ha acquisito un significato e ci attira un preciso frame comunicativo ed è nata una categoria di eventi che prima venivano considerati come eventi singoli, si tratta di notizie che fanno parte di un tema più ampio, questo frame ha dato visibilità alla categoria. La nascita della categoria fa succedere delle cose sul territorio e queste sono date dal fatto che esiste la categoria nella nostra testa (wall of dolls, vertical run, non una di meno…). Non si tratta di spazio fisico ma anche di normative che la categoria promulga. Tema su cui si muove l’opinione pubblica, i media costruiscono i frames come risposta al fenomeno che nasce. La questione della fiducia - Per avviare una relazione sociale deve esserci un rapporto di fiducia, questo fa parte del sapere comune ma bisogna andare oltre. La fiducia nell’ambito della comunicazione è parte di un fenomeno più ampio che è la fiducia all’interno del contesto sociale. Per vivere in una società devono esserci legami di fiducia a diversi livelli, il non sapere cosa può accadere quando mi relaziono con un altro può rendere difficile il rapporto all’interno della società. La fiducia si costruisce nel tempo come la competenza sui ruoli e la competenza sui frames. Esiste un punto di partenza del processo di costruzione e si chiama fiducia ontologica che non si costruisce all’interno della società ma all’interno dei nuclei più piccoli, come quelli familiari che costituiscono la società. La fiducia ontologica si forma all’interno della famiglia o della comunità primaria in cui vivo – primo livello di fiducia, non ragionata, immediata e non riflessiva: fa parte degli aspetti ai quali non bisogna porre attenzione. Si parla di fiducia in, un esito positivo dell’incertezza e nell’esistenza di una comunità solidale. Il fatto che noi siamo capaci di crede che ci sia un esito positivo davanti a un problema e che esista una comunità di base ci permettono di vivere in società – servono perché nell’incertezza noi non riusciremmo a fare nulla. Nelle prime fasi di sviluppo le persone imparano questi atteggiamenti di fiducia che permettono di credere che le cose si concludano in un modo positivo e non in un contesto di minaccia: es. se io sono malato qualcuno si prende cura di me quando sono malato – fiducia nella risoluzione positiva dell’incertezza. La fiducia ontologica che si costruisce nel nucleo primario è necessaria per vivere in una comunità più ampia, ma questa non ci basta per costruire i legami che ci tengono insieme nell’ambito di una società o comunità perché altrimenti ci porterebbe a fidarci solo di poche persone. Per questo si è cominciato a parlare di fiducia interpersonale generalizzata: cosa succede quando usciamo dal nucleo privato? Quando incontriamo altre persone che sono a noi anonime ed estranee? – competenze: immaginare i ruoli, negoziare la comunicazione: processo sociale non semplice. La fiducia ontologica che noi abbiamo appreso siamo in grado di trasferirla all’altro generalizzato, non a un singolo che noi conosciamo e incontriamo ma agli altri nel loro complesso – devono esserci questi meccanismi per non vivere nel timore costante dell’altro. Siamo capaci di estendere quello che abbiamo imparato e siamo in grado di fidarci del generico altro e delle regole che comunemente applichiamo. La fiducia ontologica diventa una fiducia interpersonale generalizzata. Il terzo passaggio è la fiducia sistemica, noi a partire dal passo uno e dal passo due siamo in grado di fidarci della società nel suo complesso. Luhman, che si occupa di sistemi sociali, dice che si parla di una forma di confidence e fiducia nel fatto che i sistemi sociali funzionino come ci si aspetta. Mi fido non sono delle persone ma anche dei sistemi sociali e delle istituzioni, mi fido del fatto che abbiamo dei meccanismi automatici di funzionamento che si ripetono. Es. università – come istituzione ha routines e meccanismi automatici: se verbalizzo il voto l’esame è sostenuto e io non lo devo rifare, se l’aspettativa viene a meno la sensazione di incertezza è grande. Luhman dice che io mi fido perché sono capace di fidarmi dei sistemi sociali perché mi aspetto che quello che so essere il funzionamento di queste istituzioni che è confermato ogni volta. Per costruire la fiducia sistemica dobbiamo interiorizzare valori comuni, all’interno della società si devono dividere alcuni valori. Siamo in grado di estendere la fiducia fino a credere nel funzionamento dei meccanismi. Noi però viviamo in contesti in cui la fiducia sistemica non sempre è confermata: questo è un problema perché serve che istituzioni funzionino bene e portino alla fiducia della comunità e non dell’incertezza – più cresce l’incertezza più le società e le comunità fanno fatica a crescere piegandosi in una situazione di difesa. Bisogna ricostruire il sistema di fiducia perché altrimenti la società non cresce. Luhman dice che la fiducia sistemica è una risposta a un bisogno di sicurezza all’interno della società che si manifesta soprattutto quando le società sono complesse. Altri sociologi si sono occupati di questi temi e di fiducia sistematica che viene vista come: 1. La fiducia nel ripetersi delle regole del gioco sociale (Garfinkel) 2. È la fiducia nel funzionamento dei mezzi generalizzati di scambio e di comunicazione (Parsons) Le attività di comunicazione si svolgono all’interno di queste modalità di fiducia che sono necessarie perché costruiscono il nostro senso di sicurezza. La fiducia però è anche una precondizione della comunicazione ed è specifica del processo di comunicazione e ci sono dei livelli di fiducia che vi sono strettamente legati. Tutto parte da una disponibilità di accordare fiducia in partenza, noi siamo capaci di comunicare con l’altro se siamo capaci di offrire la disponibilità iniziale; alcuni sociologi l’hanno definita principio di carità e di benevolenza, un accordo portante su cui si basa la relazione comunicativa. Esiste un principio di carità e benevolenza che precede l’azione comunicativa ma le consente di esistere. Questo principio è un atteggiamento di fiducia verso il fatto che dall’altra parte ci sia un altro che può ascoltarmi e capirmi, devo presupporre che dall’altra parte ci sia qualcuno in grado di ascoltare e capire e dall’altra parte si comprende una disponibilità nei confronti dell’altro quindi che l’altro abbia qualcosa di significativo da comunicarmi – due facce: comunicare con chi mi ascolta e io sono disponibile a credere che dall’atto ci sia un arricchimento. Questo però è solo un punto di partenza e la fiducia nell’ambito della comunicazione preleva anche degli aspetti dagli altri livelli di fiducia: la comunicazione è possibile perché fa suoi degli elementi di fiducia della base prerazionale della vita sociale – si parla di fiducia reciproca nel fatto che l’altro sia come appare e che sia ciò che dice di essere: se l’altro si presenta con un certo ruolo deve rispettarlo e il fidarsi deve essere reciproco perché l’altro deve credermi, credere al mio ruolo. Noi mettiamo in atto questi piani di fiducia e ci accorgiamo che esistono nel momento in cui si rompono e questi sono gli elementi che ci feriscono di più – contraddicono il nostro slancio di fiducia anche se noi continuiamo a compierli perché non possiamo controllarli. Non solo io mi fido della verità dell’altro ma mi fido anche che questa attività di comunicazione venga portata avanti in modo comunicativo: faccio un atto di fiducia nel fatto che l’altro non manipolerà la comunicazione, sarà collaborativo e rispetterà gli impegni e sarà sincero su di sé e sul mondo. C’è un altro piano della fiducia nell’ambito della comunicazione che è la dimensione della credibilità dell’altro, perché avviando relazioni comunicative io metto in gioco capacità della credibilità dell’altro: può essere qualcuno vicino a me ma anche qualcuno con cui comunico attraverso un medium. Noi cerchiamo di essere credibili quando comunichiamo, cerchiamo di proiettare indizi di credibilità (credibilità proiettata) mentre dall’altra parte devono essere credibili e accolti gli indizi della mia credibilità (credibilità percepita). La credibilità si costruisce ed è influenzata dai contesti e dalle azioni che vi si svolgono e dagli indizi che si lasciano durante tutto il percorso di comunicazione. La credibilità non si gioca solo sulle competenze tecniche ma esistono tre piano sui quali si può costruire la credibilità: 1. Piano cognitivo: basata sulla conoscenza e sulla competenza, meccanismo razionale, basata sulla dimensione del rapporto costi-benefici (es. se mi fido di te medico mi faccio curare, se riconosco la tua credibilità verrò a farmi curare da te). Credo in chi parla perché è competente, è riconosciuto come credibile in un certo settore e si lega a alla radice cognitiva la figura del leader carismatico (a cavallo tra le due se il leader carismatico è portatore di valori credibili positivi) 2. Piano normativo: molto spesso riconosciamo credibilità a qualcuno non sulla base della sua competenza ma perché incarna una serie di valori condivisi, perché condivide con me valori importanti e quindi per me è credibile. Questo potrebbe non avere rischi ma in realtà questo piano si sposta anche su chi ha un certo prestigio sociale o un certo status, è una fiducia basata sulla stima e sulle differenze sociali. Se si basa su valori condivisi ha una base solida ma se si tratta di prestigio e status le basi non sono solide e rischia di sfociare nella fiducia, ad esempio, del leader carismatico. Si affida questa credibilità a chi incarna valori desiderabili, il modello ideale e credo in chi parla perché desiderabile al ruolo che ricopre. 3. Piano affettivo: io riconosco credibilità anche solo alle persone con cui ho un legame affettivo forte, è una fiducia più immediata e non riflessiva, nasce dalla familiarità con una persona, si basa su un processo di identificazione ed è considerata come la più cieca, più lontana dalla dimensione razionale – apre elementi di criticità perché si trasferisce facilmente a una rete sociale, mi fido sempre di più di queste persone e non metto più in atto un meccanismo razionale ma mi baso solo sulla dimensione affettiva. (DALLA PIU’ RAZIONALE A QUELLA MENO RAZIONALE) La dimensione della credibilità ha un’ultima caratteristica importante all’interno della comunicazione interpersonale e interpersonale mediata: la credibilità si può trasferire da un soggetto all’altro attraverso dei meccanismi di accreditamento – se io sono un soggetto credibile e dico che un’altra persona è credibile trasferisco la mia credibilità sull’altro (la recommendation, l’investitura, il testimonial… / ci fidiamo sui social anche dell’amico dell’amico). Il trasferimento di credibilità funziona da un contesto all’altro: se sono stata una persona credibile in un contesto, dammi credibilità anche in un altro contesto (es. Trump – non ha credibilità politica ma ha traslato nella campagna elettorale la credibilità come imprenditore). Se manca la fiducia si acuisce il senso di incertezza e davanti all’incertezza cerco regole e qualcosa che inquadri in modo preciso quello che mi circonda e per questo ci si affida a dei regimi totalitari. Il moltiplicarsi delle regole porta a maggiori controlli. Succede anche nel momento in cui cresce l’incertezza che si faccia un passo indietro e ci si affidi a qualcuno che gestisca tutto quanto: leader carismatici e figure della maggioranza, Toqueville). Ciò che l’individuo fa non si basa su una conoscenza diretta e certa ma su immagini che egli forma o che gli vengono date. La spirale del silenzio Metà anni 70: Elisabeth Noelle-Neuman – la spirale del silenzio: “i media ci dicono cosa non dire”. Studiosa di sociologia politica e sociologia della comunicazione, per sviluppare la sua teoria parte da alcuni presupposti ovvero che l’opinione pubblica è il frutto di un lavoro sociale teso all’allineamento in cui l’allineamento del singolo è il frutto dell’allineamento degli altri. Dall’interno delle comunità si forma un’opinione pubblica che in quanto condivisa serve per tenere insieme le persone ma lei non ha sempre un’opinione impositiva dell’opinione pubblica. Preoccupazione rispetto al fatto che esista una sola opinione pubblica. I media contribuiscono alla formazione dell’opinione pubblica e si parla di un insieme di opinioni sullo stato della cosa pubblica generate dagli individui in relazione ai media. Cercando di mettere a fuoco questi processi, lei trova almeno 4 relazioni che bisogna osservare: 1. Il rapporto con i media – l’opinione pubblica si forma in relazione con i media 2. L’opinione pubblica si forma anche all’intersezione di comunicazione interpersonale e rapporti sociali dove entrano anche i media 3. L’opinione pubblica si forma anche con le manifestazioni individuali di opinione, cosa viene detto o non detto nella rete relazionale 4. Percezione dei climi di opinione nel proprio ambiente sociale influenza la creazione dell’opinione pubblica. Gli ultimi due punti sono innovativi rispetto a quello che è stato già detto che può essere considerato presente già all’interno della teoria dell’agenda setting. Come conseguenza di questi due nuovi punti abbiamo altre affermazioni: l’aspetto di monitorare l’ambiente che ci circonda e capire quali sono le opinioni più diffuse nell’ambiente che ci circonda porta alla formazione di un’opinione. Quelle che noi intuiamo essere le opinioni più diffuse sono le opinioni più importanti per l’opinione pubblica – dobbiamo essere attenti al fatto che bisogna monitorare costantemente l’ambiente in cui viviamo. Elisabeth per completare la sua teoria recupera un autore americano, Riesman che scrive “the lonely cloud”, uno studio sull’evoluzione delle caratteristiche secondo le basi storiche degli individui all’interno della società. Riesman cerca di raccontare come il rapporto tra individuo e società cambia con l’evoluzione storica: ogni tipo di società (premoderna, moderna e postmoderna) è caratterizzata da un tipo di individuo sociale. Questi diversi tipi di individui sono diversi per il modo in cui rendono i loro comportamenti conformi alle aspettative sociali. Riesman parla di tutti quei processi in cui noi impariamo a stare in società, in ogni società ci sono dei meccanismi in cui si diffondono dei modelli conformi, adeguati e corretti. Lui suddivide la storia della società in tre fasi: premoderna, moderna e postmoderna. Quando lui immagina società premoderne immagina una vita tribale, economia di sussistenza, società scarsamente alfabetizzate, basate su una tradizione orale. La coesione sociale o l’apprendimento di quelli che sono i comportamenti conformi, come avviene? Abbiamo gli individui diretti dalla tradizione, il canale attraverso cui impara cosa sono i comportamenti conformi è il tramandare in modo orale le tradizioni. I ruoli sono legati allo status e in questo tipo di società non c’è molta mobilità sociale. Sono società immutabili e si dipende dalla fedeltà di amici e parenti. Vengono poi le società moderne, le società dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione. Nelle società moderne gli individui possono mutare il loro status sociale e non c’è più il trasferire tradizioni adatte a un certo status. La conformità e la coesione passano anche attraverso quello che raccontano i media, lo spostarsi verso la città e le dimensioni di cambiamento fa si che le persone tipiche della società moderna sono diretti da un sistema personale e individuali di valori. Si parla di individui autodiretti e nel loro essere autodiretti hanno bisogno di trovare bussole date dai media e dalla stampa. Abbiamo poi le società postmoderne: le persone si spostano nel mondo e raggiungono anche i non-luoghi, ovvero quei luoghi uguali in tutto il mondo, con le stesse caratteristiche (si parla tipicamente di aeroporti, grandi catene, centri commerciali). Le persone si spostano molto di più, si spostano per andare a lavorare e si ritrovano a nascere dei luoghi che rendono omogenei il paesaggio: cosa succede nelle società post-moderne? Gli individui devono trovare dei punti di riferimento, devono integrarsi e agiscono secondo le pressioni esterne e le regolo dei gruppi primari, è necessario uniformarsi alle reti sociali che si hanno attorno e ai valori che vi appartengono. La stabilità di questi individui è data dalle reti sociali che riescono a costruirsi intorno – dalla conformità alle reti sociali. Questo serve come link per arrivare il pensiero di Elisabeth – lei trova in Riesman la conferma del suo pensiero: nelle società postmoderne dobbiamo integrarci con quelli che sono attorno a noi. Più le società si fanno complesse più sentiamo il bisogno di conformarci ai valori delle reti sociali e l’individuo monitora il suo intorno. Lei mette a fuoco 4 punti: 1. La società fa uso nei confronti degli individui devianti della minaccia di isolamento – noi cerchiamo di non avere comportamenti devianti per non essere al di fuori delle reti sociali 2. Gli individui avvertono costantemente la minaccia di isolamento – perché al di fuori della nostra comunità noi facciamo fatica, la minaccia è sentita 3. Per paura di essere isolati gli individui tentano di monitorare il clima di opinione – cercano di capire 4. Il risultato della loro valutazione influenza il loro comportamento soprattutto nella sfera pubblica e in particolare attraverso il mettere in mostra o il nascondere le proprie opinioni per esempio attraverso l’eloquio o il silenzio. Lei ci dice che noi viviamo in società postmoderne che sono difficili perché non ci sono regole precise e dettate dalla tradizione e non ci sono nemmeno le regole della società industriale, l’unica bussola grazie alla quale posso sopravvivere è appartenere a reti sociali di riferimento. La cosa peggiore che mi può capitare è essere isolato perché io perdo il mio appoggio e per non essere isolato io cerco di capire anche quali sono le opinioni dominanti delle reti a cui appartengo. Tutto questo influisce sul nostro comportamento nella sfera pubblica – se x pensa che i migranti vadano fermati e percepisce che nel suo intorno sociale i migranti vadano accolti, non cambia opinione ma non lo dice per paura di essere isolato. Anche i media hanno un ruolo in questo perché lei dice che i media fanno due cose rispetto al monitorare il clima di opinione: rappresentano certe opinioni come dominanti che non sempre però sono veritiere, a volte sono le opinioni di opinion leader o delle classi dominanti che si occupano della produzione di contenuti/ ci forniscono anche delle rappresentazioni del pubblico: come il pubblico reagisce davanti a una certa opinione piuttosto che un’altra – rappresentazione indiretta di quello che succede se si esprime un’opinione. Queste due rappresentazioni hanno un effetto sul processo di formazione dell’opinione: quelle che i media mi raccontano come opinioni dominanti hanno un effetto sulla formazione dell’opinione pubblica. Queste opinioni sembrano più forti di quello che sono nella realtà e quelli che la pensano diversamente sembrano meno credibili, più deboli. Alle volte si crea un’illusione ottica: ci convinciamo che se no la pensiamo in quel modo siamo una parte poco influente, debole o poco informata e che quindi non dobbiamo condividere. Così si crea il processo di spirale del silenzio. Cos’è il processo di spirale del silenzio? Quando un individuo si trova all’interno di una rete sociale, si pone l’obiettivo di non essere isolato dagli altri e si pone l’obiettivo di capire qual è l’opinione prevalente della sua comunità. A volte grazie ai media vede che l’opinione prevalente è x. Succedono due cose: l’opinione è la mia e allora ho voglia di parlare e chi la pensa in un certo modo tende a raccontarmelo con più entusiasmo, l’effetto fa sembrare che l’opinione è prevalente e dominante. Oppure l’opinione non è la mia, e allora cosa faccio? Se vado in giro a parlarne mi trovo in un contesto di opinioni contrarie e allora non ne parlo per non sentirmi escluso. Ci sono quindi effetti individuali, io come individuo esprimo meno la mia opinione se penso di essere una minoranza e di più se faccio parte di una maggioranza ed effetti sociali perché io mi convinco sempre di più che alcune opinioni siano più presenti nella società, altre invece totalmente assenti: scompaiono le voci dissonanti rispetto all’opinione dominante. Un passo in avanti viene fatto da Elihu Katz, un sociologo tedesco di origine ebraica che in questi anni lavora negli stati uniti. I gruppi che sono rappresentanti di un’opinione non maggioritaria sono chiamate minoranze rumorose e lui cerca di studiarne le forme e le caratteristiche. Il punto di partenza è che esistono dei gruppi minoritari (quelli che sono sul fondo della spirale) che sono in grado di risalire nell’opinione pubblica e si configurano come nuovi gruppi di opinione pubblica, ma non tutti riescono, devono avere delle caratteristiche: 1. Devono avere accesso ai media, devono riuscire ad entrare all’interno della visibilità mediale, devono rendersi in qualche modo notiziabili 2. Riescono a risalire il percorso a spirale se sono dotati di estrema coerenza e devono essere caratterizzati dalla difesa a oltranza di alcune posizioni e alcuni singoli temi, sono dei blocchi molto chiari. Es. Greta T – tutti i venerdì sedeva davanti al parlamento svedese e protestava e scioperava per il clima (coerente e difesa di una posizione – posizione chiara e semplice che ha generato interesse mediatico ed è stato in grado di risalire la spirale dell’opinione). Prima di Greta, abbiamo altri movimenti come Green Peace – Green Peace nasce da Jim Bohlen nel 1971 ed è diventata subito visibile dal punto di vista mediale: hanno preso una barca e sono partiti per l’Alaska dove gli stati uniti stavano svolgendo esperimenti nucleari (fanno un’azione potenzialmente inutile ma fortemente simbolica) con l’intenzione di fermarsi in un punto in cui se gli esperimenti nucleari fossero continuati sarebbe stati investiti dalle radiazioni – sfidano il sistema degli stati uniti con un’azione simbolica. Un’azione potenzialmente inutile porta l’attenzione dei media: non si appoggiano a un’opinione dominante perché c’era interesse nello sviluppo bellico. Loro costruiscono attorno a questo gesto simbolico un racconto eroico dove riprendono il racconto dell’piccolo eroe che sfida il gigante. Il nucleare non è l’unico obiettivo, verso la fine degli anni 70 l’attenzione di Green peace si sposta contro la caccia alle balene, ma con le stesse modalità – difesa ad oltranza di un singolo obiettivo. Successivamente si parla della gestione di un’emergenza: fare qualcosa per il pianeta: cambiano l’oggetto ma sempre con un messaggio semplice. Non ha più senso però muoversi in mare, bisogna cambiare e inventare qualcosa di notiziabile ma che non ha un obiettivo materiale: per riprendere l’idea del gesto eroico, si prendono monumenti con alto valore simbolico e appendono dei banner – i media sono avvisati e convocati del fatto che ci sarà un’azione dimostrativa di Green Peace e i media ne sono interessati perché sanno che questo movimento sta risalendo la spirale: diventa un processo più costruito con i media. In anni più recenti la questione del nucleare si è riaperta e Green Peace torna a preoccuparsene: es. banner esposti durante eventi sportivi molto seguiti. Corrente dominante che va a cercare una visibilità di riflesso – monumenti ed eventi in cui si immette come voce e con copertura mediatica. Le minoranze rumorose utilizzano anche video virali diffusi in rete – cosplay dei personaggi di star wars che combattono contro le emissioni di co2 della questione Volkswagen. Green Peace crea questo video per far si che diventi virale: non sono andati a cercare i giornalisti ma in una logica pertinente al mondo della rete sono andati a cercare attivisti per coinvolgerli nella diffusione del video che parla della posizione di Green Peace – cercando una notiziabilità interna e cercando di coinvolgere gli attivisti. Richiamo a Green peace e alla sua modalità: bambini che sfidano un colosso come Volkswagen. L’opinione pubblica perciò si genera in modo frammentato attraverso forme di esposizione selettiva; è parte della creazione di politiche identitarie di gruppo; da voce alle minoranze rumorose. Analisi dell’opinione pubblica: caso Trump e Clinton – problema di lettura, fino alla notte delle elezioni 20% e 80% poi totalmente diverso. In realtà si poteva vedere che l’opinione stava cambiando: i siti di sondaggi, ufficiali e non, riportavano dati diversi, con Trump sempre in vantaggio. Ma sono sondaggi non ufficiali e non rappresentativi, per questo gli analisti dell’opinione pubblica non li hanno presi in considerazione. C’era una serie di elementi che faceva propendere per i sondaggisti ufficiali e si trattava di cose successe prima: i media, i quotidiani e le televisioni sostenevano la candidatura della Clinton, i media prendono una posizione, endorsement, la candidata viene intervistata da numerose tv e mette in risalto le sue qualità; anche gli opinion leader mediali avevano sostenuto Hilary, i personaggi dello star sistem sostengono un candidato piuttosto che un altro e di solito si tratta del candidato vincente – si era mossa per Hilary Madonna; un’altra cosa era l’analisi dei casi precedenti, outsiders non hanno mai vinto le elezioni per questo si dava Hilary come favorita, i media dicevano che Trump non aveva chances. Tutte queste cose costruiscono l’opinione pubblica dominante, l’americano medio pensa perciò che tutti voteranno Hilary Clinton – per questo motivo l’americano medio che simpatizza per Trump non ha il coraggio di dirlo neanche nei sondaggi ufficiali. Un’altra cosa che non avevano guardato gli studiosi dell’opinione pubblica era il risvolto che Trump stava avendo sui social network, specialmente su Twitter dove le sue interazioni sono il doppio rispetto a quelle della Clinton. È stato sottovalutato anche il trasferimento di credibilità dato dal successo in un altro contesto. evolvere le diverse culture, idea di cultura collettiva. La cultura di un popolo è legata a un’idea di cultura piuttosto ampia che ha cominciato a svilupparsi come principio filosofico, la cultura come dimensione antropologica, fatta di conoscenze, credenze e arte, la morale, il diritto e il costume – aspetti che vengono definiti come capacità o abitudine che gli uomini acquisiscono in quanto membri di comunità o società. Abbiamo dentro la cultura quindi oggetti materiali, espressioni artistiche, morale, regole – diventa cultura tutto quello che non fa parte della dimensione biologica: tutto è cultura. Della cultura fanno parte 4 cose: 1. NORME: le regole che si da una comunità, convenzioni e criteri di giudizio 2. VALORI: ideali ai quali si vuole tendere, società giusta, le mete collettive, obiettivi che ci si dà in comunità 3. CREDENZE: convinzioni profonde ma anche pregiudizi, giudizi di fondo bene e male, giusto e sbagliato 4. SIMBOLI: tutto quello che rende la cultura rappresentabile e circolabile, quello che io scrivo, che metto in forma audiovisiva. L’approccio culturale per lo studio dei media La scuola di Toronto – McLuan, sociologo famoso e mediale: “The medium is the message”. Prima di McLuan ci sono altri sociologi i cui pensieri sono necessari per la formazione del pensiero di McLuan, tra questi c’è Harold Innis, un economista che studiando l’economia canadese scopre che il sistema dei media è influente sull’economia, sugli scambi economici e sulle aziende. Studia i contesti sociali e pubblica il libro nel 51, “the bias of communication” – ragiona sul fatto che le tendenze della comunicazione svolgono un ruolo importante influenzando non solo l’economia ma anche le direzioni e le caratteristiche delle diverse società. Lui parte da due idee di fondo: 1. Se noi guardiamo quanto un sistema dei media influenzi la società non ci serve guardare solo i contenuti ma anche a struttura dei sistemi dei media; questo modo in cui è organizzato e le tecnologie su cui si appoggia è importante – nella sintesi di McLuan diventa “the medium is the message”. 2. C’è un altro livello di effetto dei media che riguarda l’organizzazione dello spazio e del tempo: alcuni mezzi di comunicazione sono centrati sul tempo, alcuni mezzi sono “time binding” e sono in grado di influenzare i modelli culturali a lungo termine perché sono media e supporti che si basano su materiali e tecnologie stabili nel tempo, altri sono invece “space binding”, hanno un’influenza ad ampio raggio nello spazio. Quando ha in mente dei media “time binding” ha in mente cose che non si cancellano nel tempo prende come esempio e storie scritte all’interno dei monumenti: tutto quello che è stato tramandato e persiste nel tempo – questi sono dei media che veicolano contenuti culturali che hanno un effetto a lungo termine nel tempo, veicolano storie e tradizioni generazione per generazione; funzionano per comunità abbastanza piccole perché una persona ha bisogno di poter vedere quello di cui si sta parlando. Gli altri mezzi “space binding” sono quelli legati alla carta stampata, che si possono trasportare facilmente nello spazio e possono diffondersi nello spazio. Questi mezzi tendono a veicolare informazioni che possono raggiungere più destinatari possibili nello spazio, anche in uno spazio molto esteso, richiedono più investimento a livello di conservazione e sono supporti dinamici che favoriscono il cambiamento e la nascita degli imperi, organizzazioni politico culturali. Esistono dei media creati per durare nel tempo e tenere insieme piccole comunità e media creati per circolare nello spazio. Innis scrive anche “Empire e communications” in cui mette a fuoco l’impatto sociale del sistema dei media e il controllo della circolazione del sapere: diverso è un sistema in cui il controllo è nelle mani di una élite e un sistema in cui il controllo è tra élite e gli strati più vasti della popolazione – esiste una maggiore differenziazione tra i soggetti che possono decidere cosa circola e cosa no all’interno di una cultura. Ogni società privilegia il sistema dei media che è più sintonico con le direzioni di sviluppo e consolidamento che sta sperimentando. Base di Innis sulla scuola di Toronto e sui sistemi dei media. Sulle premesse di Innis si appoggiano quelle di McLuan, c’è un rapporto di modellamento reciproco tra noi e gli strumenti che usiamo: noi li pieghiamo in un certo modo ma anche loro ci danno una forma; non sono i media che si impongono, modellamento reciproco. Con lo sviluppo dei media che abbiamo visto fino adesso noi viviamo in un villaggio globale, assistiamo a eventi collettivi come se fossimo in un villaggio ma non lo siamo: assistiamo agli stessi eventi in tv ma siamo sparsi nel resto del mondo, ci sentiamo parte di un’unica comunità anche se siamo lontani. Questo fenomeno oggi è molto impoverito ma restano le altre idee di McLuan, l’evoluzione dell’infrastruttura e il modellamento reciproco. Joshua Meyrowitz, è un altro studioso canadese che cerca di capire come l’evoluzione delle tecnologie di comunicazione influenzano le relazioni sociali e la vita quotidiana. Il suo punto di partenza è: il sistema dei media per come è organizzato influenza la cultura di un paese. Si parla di un approccio culturale, lui vuole vedere come i media influenzano la cultura, le relazioni sociali e la vita quotidiana. Quando scrive “oltre il senso del luogo” riprende sia McLuan che Goffman – approccio culturale e attenzione alla vita quotidiana e all’approccio sociale. Dobbiamo guardare alle caratteristiche tecnologiche perché influenzano il modo in cui immaginiamo spazio e tempo all’interno della società e per spiegare cosa intende lui riprende Goffman e dice che i media influenzano il modo in cui noi interpretiamo ruoli, regole, finalità e ribalta e retroscena. Lui dice che vuole guardare come il sistema dei media influenza le relazioni sociali e la loro struttura di cui vuole vedere come le tecnologie cambiano contesti e regole e spostano ribalta e retroscena. Lui ragiona sulla tv e come vengono spostati i confini: qual è il ruolo sociale della tv? È una macchina che permette di guardare a individui, gruppi e contesti sociali rispetto a prima che non erano visibili, strutturalmente la tv rende visibili aspetti di retroscena deli altri. I media mutano i contesti d’interazione e le loro dimensioni spazio-temporali. Mutano le regole dell’interazione sociale, ruoli, contesti e regole spostando i confini tra il visibile e il non visibile. La televisione funziona come una macchina che rende visibili alcuni aspetti che prima erano nel retroscena: tv come secret exposing machine che permette agli individui e ai gruppi di guardarsi gli uni con gli altri in modo innovativo. Guarda alle trasformazioni: 1. I ruoli dell’essere, essere uomo o donna – noi abbiamo ascritto l’essere nato uomo o donna su una base di regole e processi di formazione. La tv ci permette di accedere a discorsi di backstage di entità di genere, soprattutto del genere che non ci appartiene, ci rende visibili dei tipi di contenuti che non sarebbero stati visibili altrimenti. Tra i backstage di gender abbiamo i reality e i factual – c’è una maggiore visibilità reciproca dei momenti di retroscena, cambiano le dinamiche dei generi e commistioni di pratiche. 2. I ruoli del divenire - non qualcosa che ci appartiene in partenza ed è ascritto, ma qualcosa che apprendiamo e sviluppiamo nel corso della nostra esistenza, dimensione diacronica, ruoli che si apprendono in divenire: prima imparo ad essere bambino, poi adolescente e poi adulto. Si parla di backstage delle fasi della crescita delle persone, alcuni aspetti di backstage che appartengono all’età adulta diventano visibili ai più giovani e ai bambini, alcuni aspetti della vita degli adulti non vengono di solito esibiti davanti ai bambini, il sistema dei media come anticipazione, vengono socializzati e apprendono alcuni aspetti della vita adulta rispetto quelli che sono i tempi – ci sono dei rischi, i bambini sono chiamati ad affrontare questioni che non sono pertinenti con la loro età. Tra i backstage di diverse fasi biografiche abbiamo i teen movies e le family series. 3. I ruoli dell’autorità – pesa i ruoli legati a istituzioni o legati a grandi competenze, due fenomeni paralleli che vanno a incidere: da un lato la pervasività dei media che ci consente di accedere a contenuti che prima erano riservati solo a certi soggetti (quando l’accesso è generalizzato l’autorità di questi soggetti si indebolisce), parallelamente, rispetto ai ruoli dell’autorità noi viviamo in un sistema dove ci viene mostrata la vita personale delle figure di autorità – questi due fenomeni mettono in discussione proprio l’autoritas che si costruisce sulla base della possibilità che alcuni soggetti hanno di costruire l’autoritas e sulla ridotta visibilità della persona in questione: diminuisce lo status e l’autoritas che si compone di una certa riduzione delle informazioni alle quali io posso accedere rispetto a una persona. In effetti noi assistiamo a una difficoltà nel ricostruire l’autoritas. Backstage delle figure istituzionali: informazione e political series. Questi cambiamenti hanno aspetti positivi e anche più critici, il rapporto che ci racconta Goffman tra ribalta e retroscena è cambiato: si spostano i confini ma ci sono due fenomeni che riguardano il cambiamento che noi percepiamo come ribalta e retroscena, alle volte i media ci mettono in una posizione inedita, spesso ci troviamo come osservatori, come pubblico in cui vediamo sia il primo piano che il retroscena, siamo in una posizione di spazio intermedio o scena laterale. Questa posizione che M osserva oggi lo ritroviamo anche nel modo in cui vengono costruite anche delle trasmissioni televisive; accanto allo spazio intermedio si sono creati due altri spazi, primissimo piano riservato esclusivamente alla ribalta e profondo retroscena che non è visibile neanche allo sguardo laterale. Nelle situazioni quotidiane possiamo trovarci in situazioni sociali de-spazializzate con moltiplicazioni di ribalta e retroscena – persona seduta al tavolo: spazio fisico, due spazi mediali (telefono e computer). I media complicano le cose perché mettono le persone in difficoltà ovvero bisogna vedere quale ribalta privilegiare e quello che noi mettiamo in scena perché noi viviamo delle esperienze a metà tra ribalta e retroscena. Gli anni 80 portano a un altro piano di osservazione: tutta l’attenzione alla presenza dei media apre un filone di studi su che effetti hanno i media o come influenzano la vita quotidiana e vedere come questi interagiscono con le loro routine – James Lull studia gli usi sociali dei media e come siano una componente dell’esperienza della vita quotidiana. Non possiamo studiare i media solo per i contenuti che veicolano ma anche per le loro caratteristiche. Lui va all’interno di famiglie che hanno la tv, si mette li e osserva quello che succede quando le famiglie guardano la tv raccogliendo materiale e poi fa una serie di interviste che vengono poi pubblicate nel libro che si chiama “Inside family viewing”: come la televisione entra nelle relazioni famigliari e all’interno della routine quotidiana. Divide i tipi di usi che le famiglie fanno della tv: usi strutturali e usi relazionali – 1. Usi strutturali: attenzione all’oggetto materiale che è la tv, parte dell’ambiente domestico. Le persone sottopongono la tv anche a usi ambientali, non la guardano ma la lasciano accesa come voce presente all’interno dello spazio domestico durante le diverse attività – questo non è un uso legato ai contenuti, ma all’oggetto in sé. Si parla anche di un uso regolativo, alle volte il mezzo televisivo serve a scandire alcune routines dell’esperienza quotidiana – si ha un uso in cui si regolano comportamenti attraverso i media in cui alcuni appuntamenti scandiscono i ritmi e i tempi della giornata. 2. Usi relazionali: quelle volte in cui i media e i loro contenuti vengono usati all’interno delle loro dimensioni comunicative, strumento che offre dei temi di conversazione interpersonale, utilizzati per avviare conversazioni con gli altri – percorso di decodifica e interpretazione del contenuto, utilizzati per parlare d’altro. Si parla di usi relazionali anche quando io uso la tv in sostituzione alle relazioni con gli altri. Negli usi relazionali è presente anche il fatto che il pubblico guarda la tv per riconoscere temi e valori. Lull sottolinea anche il fatto che la tv venga utilizzata per sottolineare i propri ruoli, momento di negoziazione. La tv secondo Lull offre anche la possibilità di costruirsi una propria autoritas su alcuni temi e argomenti. Non sono effetti a livello marco, non si parla di trasformazione della società, ma lui riesce comunque a vedere come il mezzo di comunicazione non sia ininfluente. Quello che lui vuole mostrare è che la presenza dei media all’interno dei nuclei famigliari effettivamente cambia, viene offerto uno strumento tecnologico che può essere utilizzato all’interno di diversi contesti. Non è solo il media e il contenuto a generare il cambiamento ma è il media in quanto tale. Cambiamenti sociali macro studiati da M e micro da Lull Usi e gratificazioni Elihu Katz sposta l’attenzione da cosa i media fanno alle persone a cosa le persone fanno con i media all’interno del libro “The use of mass communication”. Quello che interessa è perché le persone scelgono di usare un mezzo piuttosto che un altro o perché le persone scelgono di consumare un contenuto piuttosto che un altro: il pubblico non è passivo e la prima attività che compie è quella di scegliere cosa consumare. Il pubblico agisce e per spiegare queste azioni non casuali, si orientano verso un approccio teorico che è quello del comportamentismo – partono dal presupposto che le azioni compiute dal pubblico siano razionali e logiche; le motivazioni delle scelte del pubblico si possono ricondurre a dei bisogni di carattere psicologico o di carattere sociale. Dentro questa cornice del comportamentismo e della psicologia sociale si studia come si spiegano le scelte del pubblico: le audience usano i media per soddisfare dei propri bisogni e ottenere gratificazioni, quello che muove le persone a usare i media è la risposta e la gratificazione di un bisogno. Gli spettatori sono orientati verso uno scopo che essi cercano di realizzare attraverso l’uso dei media. Questi ultimi cercano di colmare e rispondere ai bisogni del pubblico che utilizza il mezzo di comunicazione. Quali sono le circostanze sociali a cui si cerca risposta attraverso i media? Si fa riferimento alla scala Maslow, modello di descrizione degli individui: si parte dai bisogni primari che se non sono soddisfatti impediscono lo sviluppo dell’esistenza; parliamo poi di bisogni utili come la sicurezza, la oppositiva – vedo la pubblicità di mc ma allo stesso tempo magari ho visto il docufilm e non riesco a mangiare perché ho una serie di elementi, conoscenze e punti di vista che mi portano a pensare all’opposto, la leggo come una menzogna. Hall parla di una terza possibile lettura: decodifica negoziale, non pone totalmente in discussione il codice dominante, non si pone nell’ottica del super size me, ne accetta alcune parti e ne rifiuta altre elaborando in modo diverso, elaboro un comportamento di consumo che è intermedio. Quello che interessa ai cultural studies è come vengono prodotti i prodotti culturali e come ne viene fornita l’interpretazione – incorporation resistance: negoziazione culturale dei significati e in questa rappresentazione si continuano a bilanciare due posizioni: chi accetta la cultura originale che è l’incorporation e quella che invece resiste e non accetta la codifica dominante e quindi pur comprendendo i messaggi né dà un’interpretazione diversa e opposta rispetto a quella che era immaginata all’inizio. Dinamica culturale attraverso cui una parte del contesto sociale cerca di veicolare un’interpretazione del mondo costruita secondo alcuni modelli e quello dei ricettori che non è in grado di accettare questa interpretazione ed è in grado di costruire altre letture. Lo struggle for meaning è visibile. Encoding e decoding: un esempio – le iene. Filo conduttore della puntata del 27/10, ingiustizie. “Al baghdadi e morto?” – si parte da un evento di cronaca che poi viene incorniciato in un servizio, ma qual è l’argomentazione che ci viene proposta? Qual è la lettura che ci viene suggerita? Costruisce un discorso e lo identifica come un contraltare/ ora che gli USA dichiarano di aver ucciso il leader del califfato, la battaglia del rambo iracheno potrebbe essere vanificata perché nel raid alcuni prigionieri sono evasi. Il filo dell’argomentazione: c’è stato il raid, ci dicono che è stato ucciso il fondatore del califfato, sono fuggiti i prigionieri e la battaglia che alcuni contro leader hanno fatto potrebbe essere stata inutile. Incorporation e resistance: sono d’accordo, rappresentazione accettabile, rappresentazione non accettabile, un po’ si un po’ no. “Vestiti usati” – intervista e indagine sull’uso improprio di questi cassonetti, inchiesta sotto copertura presso chi rivende gli abiti usati e filo conduttore tenuto dal conduttore delle iene: esistono cassonetti che sono marchiati con il logo della Caritas ma la percentuale di guadagno/vestiti che arriva alla Caritas è solo l’1% perché il resto rimane nelle mani della camorra: davanti al racconto del cittadino imbrogliato dietro ai quali ci sono i guadagni della camorra. Nel proporre una lettura dominante, le trasmissioni che ci raccontano la realtà finiscono per confermare quella che nel mondo viene vista come la cultura dominante. Viviamo in un contesto in cui siamo sempre vittime di truffe, di cui noi siamo vittime inconsapevolmente ed è rappresentata dai media come opinione dominante. Chi direbbe il contrario? Da questo si fondano i cultural studies all’interno dei quali si fanno ricerche che cercano di capire come si formano queste letture emergenti: una ricerca importante viene fatta sul programma della BBC “nationwide” – la ricerca si chiede: ma ci sono delle variabili che fanno si che prenda piede una certa lettura? Ci sono delle caratteristiche che indirizzano la gente verso una lettura piuttosto che un’altra. Il programma approfondisce i temi caldi della settimana dal 1969 al 1983: era importante perché selezionava temi di rilievo e facevano ricerche di approfondimento – prodotto mediale e culturale che racconta secondo un codice dominante la lettura che dobbiamo dare di un determinato tema. David Morley negli anni 80 si chiede: da quali variabili dipendono i modelli di decodifica proposti da Hall? Lui pensa a variabili di tipo sociodemografico: professione, gender, generazione. Ipotesi: gli stessi programmi sottoposti a pubblici differenziati per caratteristiche sociodemografiche producono diverse letture: le letture dominanti (incorporation) saranno quelle che riconosceranno le priorità e i temi e la riconosceranno come una rappresentazione adeguata alla realtà; letture resistenti (resistance) secondo i quali le priorità e i temi usati non sono per niente adeguati a rappresentare la realtà. I risultati portano a tre tipi di letture, anche quella negoziale, vede che esistono variabili sociodemografiche che orientano le letture e sono variabili legate al posizionamento sociale delle persone, conforme al senso comune, veritiero, non vedono criticità. Trova poi l’opposto, la lettura resistente che la identifica attraverso persone che sono socialmente lontani dal milieu culturale della BBC, percepiscono il racconto come un momento parziale. La terza lettura è quella negoziale, parte che ha uno sguardo particolare sul mondo, coloro che sono impegnati in politica, il mondo sindacale, lettura negoziale perché ritengono credibile e conforme al senso comune la rappresentazione che viene data da nation wide: non mettono in discussione complessivamente il racconto fatto da nation wide ma negoziano il racconto. Secondo Morley, l’audience non è opaca, non sono una massa di individui che adotta una lettura egemonica, diversi sottogruppi e ognuno ha delle competenze e delle tradizioni culturali che portano a parlare dei diversi tipi di letture. Si parla di sottogruppi e subcultura, storia e tradizioni culturali. A partire dal lavoro di Morley, continuano i reception studies e riprendono quello che Morley ha detto legato alla dimensione della differenza culturale. Negli anni 80 nelle dinamiche dei prodotti culturali non si può guardare solo alla società inglese: l’industria mediale avanza e cominciano a circolare i prodotti a livello globale. Un prodotto tipicamente globalizzato sono le soap operas che circolano oltre i confini nazionali: diventano oggetto di studio e parte dei cultural studies. Troviamo qui Tamar Liebes ed Elihu Katz che si mettono a studiare Dallas e scrivono “the export of meaning” dove si chiedono cosa succede quando i prodotti si muovono trasversalmente a culture e parlano perciò di un significato interculturale. Perché fanno questo ragionamento? Perché quando si parla di circolazione globale dei contenuti si parla di imperialismo globale: quando l’America comincia a esportare in tutto il mondo prodotti televisivi comincia il dibattito sulla globalizzazione e nasce il timore che l’esportazione massiva di prodotti televisivi americani sia una forma di diffusione di prodotti dominanti. Il timore è che importare prodotti culturali provenienti da altri paesi sia dannoso per le culture nazionali andando a potenziare il modello culturale proposto dai paesi dominanti. Dallas – soap opera USA, CBS, 78/91, distribuita in tutto il mondo. Trama, vita della famiglia di petrolieri texani, topic legato alla cultura americana, il Texas rappresenta più di tutti l’identità americana, condensato di cultura. Famiglia con due capostipiti, ciascuno con 3 figli e ognuno rappresenta una tipologia umana: bobby, valori solidi, con sua moglie ideale positivo della famiglia; figlio privo di valori e spregiudicato, JR; terzo figlio, quello più incapace che non riesce a trovare una propria dimensione. La ricerca viene pubblicata nel libro di Katz e Liebes e analizzano l’influenza che le appartenenze culturali (etniche) hanno sulla decodifica o codifica: Partono da un’ipotesi, nel momento in cui noi attribuiamo senso culturale a un prodotto mediale, mettiamo in gioco la nostra esperienza culturale, ma loro dicono che non è un lavoro che fanno in maniera individuale, è qualcosa che si costruisce insieme perché le persone si rinforzano nelle letture. La formazione culturale ha un peso e la decodifica è frutto di un lavoro di condivisione e rafforzamento reciproco. Fanno una ricerca, non più l’osservazione partecipante, ma fanno dei focus group persone che appartengono allo stesso gruppo ed etnia per arrivare a cosa pensano della soap: gruppo culturale per gruppo culturale. Diverse coppie amiche tra di loro, si conoscono, discutono e vogliono dare un significato comune. Sono tutte persone che vivono in Israele, stesso status economico e hanno come unica vera differenza ovvero quella di avere dei background diversi, paesi e culture diverse. I paesi che scelgono sono tre: israeliani che arrivano dal Marocco, dalla Russia, da Israele. Emergono tre letture diverse: 1. israeliani di origine marocchina – interpretano la trama come un racconto sui legami familiari e la difficoltà della vita, raccolgono quello che per la loro cultura è ciò di più significativo 2. Israeliani di origine russa – interpretavano Dallas come una dura e puntuale critica al capitalismo e al modello di vita conseguente (ricordare la situazione della Russia) 3. Israeliani di origine israeliana – vedono Dallas come una pura opera di intrattenimento che non rifletteva una società realistica. Quello che concludono è che l’appartenenza culturale ha un peso nell’attribuire un significato culturale a un prodotto; osservano che all’interno dei gruppi i significati vengono prodotti discutendone insieme, ad ampio raggio ogni cultura elabora una sua interpretazione del mondo culturale; i temi centrali della storia sono letti con un chiaro riferimento alla cultura di appartenenza e questi soggetti non sono assolutamente ingenui ma sono consapevoli del processo di interpretazione. Questa ricerca rispetto alla teoria dell’imperialismo culturale e diffondono ovunque un modello culturale americano, introducono un concetto di cui si parlerà più avanti ed è quello della glocalizzazione (non solo globalizzazione): ogni cultura si relaziona ai prodotti culturali globali in modo diverso, ogni cultura se ne appropria in modo suo, non scompaiono le culture locali ma semmai interagiscono. Culture di gusto L’attenzione alla cultura si traduce in uno studio che fa attenzione ai consumatori facendo riferimento al concetto di gusto: da un lato la teoria degli usi e gratificazioni ha un aspetto psicosociali, qui si cerca di capire come si sviluppano all’interno di una cultura le scelte di prodotti mediali che vengono definiti come gusti ai quali vengono dati valori sociali. Avere un gusto, non è una dimensione puramente individuale ma sia un modo attraverso cui le persone agiscono all’interno della cultura. La cultura che si sviluppa è il frutto del lavoro di tutti quelli che fanno parte della società: la cultura non è più intesa come l’essere colti o meno, ma viene intesa come tutta quella parte simbolica di cui si raccontano valori e ambizioni. Tre livelli: 1. Le persone incorporano una cultura, impariamo a stare in comunità 2. Abbiamo anche persone che producono cultura, frutto del lavoro di tutti, chi produce regole e norme 3. Soggetti che usano prodotti culturali per produrre delle identità, per sentirsi parte di una cultura. La cultura come pratica, qualcosa a cui io partecipo perché alle volte ne produco anche di miei – oggi produciamo contenuti e partecipiamo attivamente alla cultura. A partire da questa premessa, sul concetto di gusto inizia a lavorare nel 1980 Pierre Bourdieu: per prima cosa cerca di dare una definizione, “all’interno di una stessa cultura le persone hanno gusti diversi e dobbiamo capire questo gusto che loro esprimono che cos’è”. Lui dice che il gusto è qualcosa che ci permette di fare delle distinzioni, lo strumento che usiamo per decidere cosa apprezziamo e cosa non apprezziamo, noi stabiliamo delle differenze e delle distinzioni. L’esercizio del gusto di fatto è un’attività sociale perché noi utilizziamo il gusto per muoverci all’interno della società: gusto come bussola sociale, la uso per orientarmi verso un tipo di prodotti culturali che mi fanno assomigliare a qualcuno e meno ad altri; bussola che ci permette di dirigersi verso pratiche di consumo e beni culturali che si addicono a me. I gusti sono delle vere e proprie attività culturali e vi sono correlate attività sociali, perché attraverso esse si manifestano valori etici e giudizi estetici: con l’espressione del nostro gusto noi raccontiamo molto. Il gusto è il modo che noi abbiamo per distinguerci da un gruppo piuttosto che da un altro. Su questo tema scrive un libro “la distinction” o “critica del gusto”: lui recupera un’inchiesta che era stata condotta in Francia sui gusti culturali dei francesi e vuole capire il rapporto tra le differenze che si trovano tra le differenze estetiche e l’habitus, ovvero il modo in cui un individuo integra la sua cultura. Esiste un rapporto tra classe sociale e gusto: scelgo certe cose perché mi si addicono non solo come persona ma anche come persona che appartiene a una certa classe sociale. Non dobbiamo pensare alla classe sociale come qualcosa che dipende dal reddito, ma le differenze si basano sulla distinzione di tre tipi di capitali: economico – la disponibilità di risorse finanziarie orienta il consumo e ne maturano l’inclinazione; culturale – non è solo il titolo di studio ma anche le competenze e conoscenze io ho acquisito attraverso la socializzazione extrascolastica; sociale – insieme di relazioni con altre persone in cui noi siamo inseriti, la loro quantità e la loro qualità. Il gusto esprime che tipo di capitale abbiamo a disposizione e a che tipo di gruppo sociale facciamo parte. Bisogna studiare come si articolano i capitali e come diventano motivo di espressione del gusto. Prima di Bourdieu anche Gans parla di culture di gusto: lui dice che noi possiamo riconoscere coloro che fruiscono di un certo tipo di prodotto culturale come appartenenti a una certa cultura di gusto. Appartengono a un gruppo con elementi che li accomunano – completa il ragionamento di Bourdieu. Quando studiamo il pubblico degli oggetti cultuali non dobbiamo guardare solo i tre capitali ma anche che culture di gusto hanno. Ci sono insiemi di consumi culturali che rappresentano delle vere e proprie culture. Questo ragionamento sulle culture di gusto vale la pena osservarlo perché le culture sono coerenti, perché le culture accomunano gruppi sociali e all’interno dei pubblici dei media noi possiamo distinguerle attraverso diverse culture di gusto. Come Bourdieu era ancora legato all’idea di capitale, anche Gans era legato a un’idea rigida: scrive il libro intitolato “popular culture e high culture” e identifica 5 culture di gusto – cultura alta; cultura media-alta; cultura medio-bassa; cultura bassa; cultura quasi folk. Nel distinguere questi 5 livelli di cultura viene detto qualcosa di interessante: le culture si distinguono perché esprimono dei valori circa la desiderabilità, scelgono delle forme culturali che vengono privilegiate, scelgono dei media circolazione prodotti culturali. Dalla scuola di Toronto i media abbiamo visto che hanno un peso come tecnologie e prodotti culturali: consapevolezza che cresce non solo a livello di contenuti ma anche a livello di materialità. Quando negli anni 90 cominciano a entrare nelle case i personal computer vengono considerati come una tecnologia con una dimensione mediale, oggetti che entrano nella routine delle persone, le cose cambiano anche rispetto agli usi: non si parla solo di tool di lavoro ma quando entrano nelle case ci si accorge che impattano anche sul modo in cui sono percepiti i media. Gli studiosi iniziano a guardare al personal computer. Due studiosi: Silverstone, Hirisch. Tra il 91 e il 94 ii due fanno una ricerca che vuole esplorare questo nuovo aspetto dei computer, questa ricerca si chiama “Consuming technologies. Media and information in domestic spaces”. Loro si propongono di osservare come le tecnologie digitali interagiscono reciprocamente all’interno dell’ambiente domestico e come queste tecnologie entrano in relazione con chi abita nell’ambiente domestico. Questo lavoro di ricerca parte dall’osservazione di quello che sta succedendo: non c’è una teoria sul personal computer, non c’è a priori qualcosa da dimostrare – grounded partire dall’osservazione per formulare una teoria. Questo modello della domestication è diventato nel tempo il punto di partenza di tante altre ricerche fatte sui media e sul loro ingresso nella vita quotidiana delle persone. Il punto di partenza è l’opposto rispetto ad altre teorie. Ricerca in due fasi: 1. Intercettato un numero di famiiglie disponiibiili a partecipare alla ricerca e hanno fatto redigere dei diari di uso delle tecnologie mediali che avevano in casa registrando le attività con ora e momento della giornata. Avere un quadro oggettivo il più possibile. Il diario però non era abbastanza quindi hanno fatto una settimana di osservazione partecipante, foto dell’ambiente domestico, disegni dell’ambientazione, elenco delle tecnologie, studio sui membri della famiglia 2. Interviste alle famiglie ripetute nell’arco dei diversi mesi. Ne esce un racconto in sei fasi di qual è il percorso di ingresso di una nuova tecnologia nell’ambiente famigliare. 1. Mercificazione e 2. Immaginazione – prima di fare entrare lo strumento nelle loro famiglie, queste ultime hanno immaginato lo strumento. Fase importante perché ogni strumento entra nella nostra vita seguendo la collocazione, l’uso e le pratiche che prima di avvicinarci abbiamo immaginato. 3. Appropriazione – priima di capire come il personal computer è entrato nelle case bisogna capire i processi di appropriazione 4. Oggettivazione e 5. Incorporazione – come il computer entra nelle case delle persone 6. Conversione – cosa succede dopo che il computer è entrato nelle case delle persone. 1.Fase di mercificazione: si tratta di una fase preliminare – chi ha prodotto l’oggetto come lo ha immaginato? Quali usi suggerisce? Strumento pensato per scrivere e per costituire un archivio materiale di quello che veniva prodotto, l’oggetto in sé costituisce già un suggerimento per come deve essere usato: vengono poste le condizioni d’uso. Nel momento in cui si costruisce un prodotto vengono attribuiti valori economici e simbolici: negli anni 90 è un prodotto ad alto investimento, valore economico alto e di conseguenza si alza anche il valore simbolico. Ma questo comincia più lontano: come i produttori pensano un prodotto – analisi del prodotto e capire cosa hanno pensato i produttori. 2. Fase di immaginazione: si tratta di una fase preliminare - supportata dai discorsi sociali su un prodotto. Pubblicità che costruisce un’immaginazione attorno ai personal computer, articoli che escono sui computer e contribuiscono a far sì che le persone gli immaginino in un modo piuttosto che un altro. Fase importante che orienta prima dell’acquisto, quello che si era pensato nella fase di produzione viene raccontato alle persone. Contemporaneamente si sviluppano altri discorsi sociali: una parla del business man che appartiene a una élite, parallelamente di parla di un personal computer che può essere per chiunque. Due filoni diversi di immaginazione, due occasioni per immaginarlo. 3. Fase di appropriazione: si tratta dell’incontro – l’acquisto della tecnologia sancisce il suo ingresso nello spazio domestico; è un’occasione di negoziazione con valori e comportamenti del micronucleo sociale; vengono riconosciuti e attivati alcuni dei valori sociali ed economici della tecnologia. Viene fatta un’analisi sulle negoziazioni sul punto di vendita (osservazione etnografica) e interviste sulle motivazioni d’acquisto. 4. Fase di oggettivazione: fase dell’ingresso della tecnologia nell’ambito domestico legata allo spazio. Quando io trovo spazio a qualcosa di nuovo all’interno della mia casa devo in qualche modo sacrificare qualcos’altro. È importante capire a cosa si rinuncia per questa nuova tecnologia anche per capire il significato che attribuiamo a questo strumento. Una nuova tecnologia riorganizza lo spazio e il ruolo che anche gli altri media hanno rispetto al nuovo strumento. Fase caratterizzata dall’esibizione o dal nascondere: sono orgogliosa di avere il computer o lo nascondo perché non voglio che invada il mio spazio domestico? – riflessione sul valore che viene attribuito allo strumento. 5. Fase di incorporazione: bisogna anche fare uno studio su come il pc impatta sul tempo delle persone – ingresso d’uso delle tecnologie nella vita quotidiana delle family households. Riorganizzazione delle routine e reciproca influenza delle routine esistenti e dell’uso delle tecnologie – erode parte del tempo che veniva impiegato per altri dispositivi. Si fa un’analisi raccolta di diari d’uso e focus nelle interviste ai membri della famiglia. 6. Fase di conversione – si tratta della riapertura verso l’esterno. Le relazioni che il nucleo famigliare ha istituito con la tecnologia vengono investite di un valore simbolico. Entrano nelle relazioni comunicative delle family households con l’esterno – due opzioni possibili però: esibizione o nascondere. Viene fatta un’analisi di focus nelle interviste ai membri della famiglia, raccolta di autoproduzioni. Modello che ci consente di comprendere e analizzare e raccontare l’ingresso di nuovi media nella vita delle persone. Contemporaneamente è stato un passaggio importante perché ha confermato sul piano pratico e concreto alcune acquisizioni teoriche: il rapporto che noi abbiamo con i media è anche un rapporto con oggetti, i consumi mediali sono abbinati a un oggetto e sono caricati di un valore simbolico – valore simbolico del consumo e attribuito agli oggetti. Ci dicono che questo valore è importante e contribuisce al successo o all’insuccesso di una società, il consumo come parte del racconto di uno stile di vita, di appartenenza e di valori e interessi. Nuovi dispostivi, esempio, Alexa o Google home – si può applicare lo stesso discorso fatto sui computer? Come cambieranno? Audience Abercrombie e Longhurst vedono che il parradigma tra incorporation e resistance ha alcuni limiti: pone al centro il rapporto tra pubblico e media con un’idea di una cultura “ideologica” – il prodotto è il risultato di una cultura dominante. Non bisogna escludere che ci sia un prodotto dominante dentro la creazione culturale: bisogna guardare altri aspetti rispetto a quelli visti durante la nascita del paradigma. Il rapporto che il modello immagina tra il pubblico e i prodotti mediali rimane dentro la dialettica accettazione o rifiuto, non racconta di altre dinamiche che sono comunque presenti nella relazione con i media. Non buttiamo via quello che Katz e Lagersfield hanno raccontato ma sii esaminano anche altri contesti. Tutti i filoni di studio già citati hanno fatto emergere altri concetti lontani da accettazione e rifiuto: si parla anche di appartenenze culturali, aspetti della nostra identità, il modello della domestication. Emerge un nuovo concetto: identità – dialettica tra incorporazione e resistenza ma anche come attività carica di valori simbolici che noi utilizziamo per comunicare e creare la nostra identità. Si cerca di fare un passo ulteriore: come il consumo mediale entra nei processi di costruzione della nostra identità? I media sono una risorsa nel processo di costruzione delle audience come singoli e come gruppi. I due studiosi dicono anche che l’identità delle audience non si costruiscono in base alla fruizione di un singolo o di un mezzo, ma si costruisce in rapporto al mediascape ovvero il sistema globale dei media. La loro idea è che l’evoluzione complessiva del sistema dei media sia d’impatto, non bisogna guardare solo a un medium ma dobbiamo vedere come si relazionano complessivamente. Il fuoco si sposta dall’attenzione ideologica all’attenzione identitaria, dal medium singolo all’intero insieme – dimensione pervasiva del sistema mediale. I due pensano che l’audience si possa immaginare in un modo diverso e danno un nome: audience diffusa. Caratteristiche delle audience diffuse: 1. Si muovono in un mediascape in cui il consumo mediale è pervasivo, in cui le occasioni dii consumo mediale sono diffuse all’interno dello spazio e il tempo di vita delle persone 2. Le audience sono sempre parte di un pubblico, non solo nel momento in cui si assiste a qualcosa (spettacolo, televisione…): sono sempre parte di un pubblico che può attivarsi in qualsiasi momento della giornata e in qualsiasi luogo – la fruizione mediale si attiva in qualsiasi momento a prescindere dalla modalità e dei singoli eventi (essere un membro di un’audience non è tanto un momento eccezionale, piuttosto è parte della vita quotidiana) 3. Il tempo è importante, non si parla solo di luoghi ma anche di quanto tempo effettivamente le audience dedicano al consumo mediale 4. Osservano la costruzione dell’identità e il rapporto con i media che mette al centro il concetto di spettacolo/performance – non c’è più solo il rapporto incorporation and resistance, viene sostituita dal rapporto tra la fruizione e la messa in scena della dimensione spettacolare e la successiva continua fruizione. Questo tipo di contesto sociale caratterizzato da questi elementi che sono stati messi a fuoco viene definito performative society – questa fruizione dei media così pervasiva fa si che le persone vivano in società performative, la dimensione della messa in scena di qualcosa che sia visto da un pubblico fa parte della dimensione dominante, ma tutta questa presenza dei media all’interno della società, fa si che la dimensione performativa entri nella società e noi agiamo in relazione a una performance. Esempio: Christmas Village di Roma – la dimensione pervasiva dei mezzi di comunicazione, essere sempre esposti a delle performance fa si che per raccontare qualcosa si mettano insieme delle performance: per raccontarci il Natale si costruiscono i Christmas village, costruisco un luogo dove metto in scena il Natale (albero, luci, colori, giostre…) e quello che può evocare il Natale; le persone vanno per partecipare a una messa in scena. Uno degli effetti della pervasività è che qualsiasi evento può essere trasformato in una performance e qualsiasi evento può essere tale che tutti partecipino alla performance – il village non lo guardiamo dall’esterno, siamo chiamati a fare parte della performance. Espressione tipica delle società performative, non solo modo in cui io guardo ai media, ma modo in cui la pervasività dei media trasforma la quotidianità delle persone: mondo e tutto ciò al suo interno che viene trattato sempre più come qualcosa a cui si assiste. All’interno di una performative society. Gli oggetti e gli eventi non vengono dati per scontati, spesso sono inseriti in cornici che permettono di documentarli, osservarli e controllarli. Il racconto del mondo finisce per essere costellato di performance, l’evento diventa strumento di racconto essendo una performance. Noi ci muoviamo all’interno di una società altamente performativa. Abercrombie e Longhurst dicono che la dimensione performativa diventa una cifra comunicativa anche delle persone: le persone e gli eventi che fanno parte del mondo fanno si che ci si trovi sempre davanti alla messa in scena di performance. Esistono degli effetti delle società performative: 1. La pervasività dei media contribuisce alla costruzione del mondo come uno spettacolo 2. Il passo in più che porta le persone vicino all’esperienza della vita quotidiana, il rapporto tra il vedere e l’essere guardati come un soggetto della performance fa parte della vita quotidiana, noi abbiamo incorporato il metterci in scena 3. La costruzione dell’identità passa attraverso la capacità di mostrarsi e farsi vedere nell’ambito del costante spettacolo del mondo. Vedere ed essere visti è una parte fondamentale della vita contemporanea, è il nostro approccio allo spettacolo del mondo: il modo in cui ci raccontiamo agli altri è una performance. Social: dall’altra parte c’è un pubblico, messa in scena che deve essere curata, messa in scena delle società performative. Non passa solo attraverso la tecnologia, ma anche attraverso la simbologia (es. abbigliamento, travestirsi ad Halloween, carnevale, Natale – messa in scena, performance). I due studiosi riflettono sull’incursione della performance nella vita quotidiana e vedono come le società performative siano altamente narcisiste (due accezioni: narcisismo patologico e narcisismo come atteggiamento diffuso). I due parlano di attenzione al sé come estremamente diffusa e caratteristica della società contemporanea, noi agiamo spesso come se fossimo davanti ad un’audience immaginaria e mettiamo in scena la nostra vita quotidiana. Audience che contribuisce alla creazione della mia immagine e la dimensione narcisistica si traduce nella pervasività delle performance immaginate davanti agli altri: immaginiamo il mondo come un’audience. I due vogliono fare un passo in più per vedere come la pervasività dei media si relaziona con l’audience. Si sviluppano quindi i punti principali del paradigma spectacle/ performance: 1. Il pubblico replica nella propria vita quotidiana il modello dello spettacolo proprio dei media, fa parte della nostra vita quotidiana: le audience descritte sono sempre consapevoli, non subiscono e basta 2. Sono in grado di immaginarsi mentre mettono in scena delle performance nei confronti degli altri 3. I media forniscono immagini, modelli di performance, o quadri di azione e di pensiero che diventano risorse di routine del quotidiano. Le persone in altre parole usano nella vita quotidiana quello che i media forniscono. Anche in questo senso, il media diventa parte della vita quotidiana e del modello che usiamo. contestuali al processo: i media ci permettono di estendere i limiti della nostra comunicazione nel tempo e nello spazio; i media tendono a sostituire attività sociali o esperienze dirette con quelle mediate; attività sociali e istituzionali che si adeguano alla media logic; comunicazione interpersonale e comunicazione di massa si fondono perché le piattaforme digitali ospitano entrambe. Ma cos’è la media logic? Per parlarne si riprende un libro della fine degli anni 70 che aveva cominciato a riflettere sulle logiche mediali. Nel libro era già messa a fuoco una questione fondamentale: i media non esercitano un potere verticale sulla società, si guardava all’interazione tra il comportamento all’interno della società e il media, si parla di un’influenza dei media sul modo in cui la società si organizza, agisce e si comporta: questa influenza si traduce nel fatto che le logiche dei media sono state accettate come chiave e prospettiva attraverso cui i problemi sono interpretati e risolti – le logiche dei media servono per interpretare la realtà. I media e i formati della comunicazione danno forma al modo di agire delle persone all’interno della società. La logica dei media è il modo in cui i media nel raccontarci quello che avviene organizzano il materiale, lo presentano in un certo stile e individuano certi focus. La media logic con il cambiare dei sistemi dei media cambia: questo vuol dire che attraverso il processo di mediatizzazione non solo cambia il medium ma anche il nostro modo di agire all’interno della realtà. Anche aspetti tecnologici, organizzativi e culturali dei media fanno parte della media logic. Mediatizzazione: modelli che forniscono logiche di comportamento che passano all’interno della media logic. Media logic pre-social media – 1. Nelle società contemporanee qualsiasi istituzione è diventata parte della cultura mediale, e questo essere parte della cultura è avvenuto all’interno di tutte le grandi istituzioni nell’interpretare tutte le attività al loro interno 2. La realtà è un flusso continuo di eventi, persone e cose che ci accompagnano in continuità e quindi questa logica di flusso continuo è stata introiettata: le pause sono difficili da tollerare 3. Il racconto del mondo deve essere improntato alla neutralità e deve ospitare certe opinioni e punti di vista, si deve appoggiare a esperti 4. La media logic propone un mondo in cui l’attenzione per gli eventi sale, si satura velocemente e poi passa ad altro. Uno dei casi a cui è stata applicata la media logic e la mediatizzazione è stata la comunicazione politica: quando la comunicazione politica risente delle logiche dei media? Nella riflessione sulla mediatizzazione della politica, nella fase della pre-mediatizzazione abbiamo fonti informative personali, fase della mediatizzazione abbiamo i media e nella fase dell’auto mediatizzazione abbiamo i media personali ma anche le fonti informative personali, le esperienze personali e la comunicazione interpersonale. Questo ha degli effetti, nella fase della pre mediatizzazione il mondo su cui posso avere informazioni e conoscenze è quello delle mie reti personali, poi le fonti sono quelle giornalistiche e informative, nell’ultima fase torno a muovermi in modo personalizzato e poi mi baso sulle mie esperienze e quelle dei miei amici. Aspetti positivi e negativi: il parere di un esperto e il parere di un amico sono equiparabili – sullo stesso piano sono messe dalle logiche della comunicazione mediale che noi usiamo di più. I media piano piano si fanno indipendenti, uno strumento che viaggia secondo le sue logiche al quale bisogna adattarsi. Le iistituzioni devonoo adeguarsi alle logiche dei media per comunicare ma entrambe devono adattarsi a Internet e alle grandi potenze legate alla comunicazione in rete: Amazon, Google, Facebook. Si parla anche delle pratiche dei media: nella fase della premediatizzazione si comunicano contenuti che sono a servizio di una logica che appartiene a un altro sistema, quello politico; nella fase di mediatizzazione la comunicazione politica è dettata dai contenuti dei media; nella terza fase sono dettati dalla comunicazione della rete. La mediatizzazione e l’influenza delle logiche dei media sulla vita sociale è un percorso che si sta sviluppando e evolvendosi verso le tecnologie digitali e non più quelle tradizionali. Social media logic Questo ci porta al peso e all’impatto dei media digitali – social media logic e le logiche che portano con sé. Una delle studiose della social media logic è Van Dijck che nel libro “the culture of connectivity” dice che dobbiamo guardare alle piattaforme non solo come piattaforme social ma anche come piattaforme con un lato economico, istituzionale e mediale: le chiama artefatti che hanno caratteristiche tecno-socioculturali. Un’altra studiosa, Papacharissi, dice che i social media sono degli spazi socioculturali, dobbiamo guardare alle piattaforme come forme tipiche di una cultura, ma si tratta anche di forme di comunicazione che hanno una loro logica, modellano una cultura e sono attive nel processo di mediatizzazione: quella che creano è una cultura connessa. Nella cultura contemporanea in cui viviamo ii social media sono un’espressione della cultura contemporanea e la influenzano e bisogna capire quali sono le logiche che li animano. Gli elementi messi in gioco sono le caratteristiche tecnologiche, le interfacce, gli usi degli utenti, i discorsi sociali prodotti dai media e dagli utenti stessi e i modelli economici delle diverse piattaforme. Le 4 logiche che vengono individuate come tipiche dei social media, secondo Van Dijck, sono: 1. Programmabilità – noi ci troviamo davanti a piattaforme che sono in grado di guidare e indirizzare in una certa direzione le produzioni comunicative degli utenti, ci mettono a disposizione degli strumenti e ci troviamo davanti a uno sviluppo della creatività che è programmabile, quello che noi produciamo e pubblichiamo è guidato dalle piattaforme: le persone si abituano a muoversi in flussi di creatività programmata, i flussi non sono ininfluenti e non bloccano la creatività, la creatività ha solo degli elementi ripetitivi, questo non ci crea problemi perché siamo abituati 2. Popolarità – importante e pressante nelle piattaforme digitali e social, l’indice di popolarità che è espresso nel social, un indice che viene premiato implicitamente nelle piattaforme seguendo le logiche degli algoritmi. L’indice di popolarità dei singoli utenti è premiato dalle piattaforme anche in termini di visibilità. La logica della popolarità è stata introiettata e viene associata ad affidabilità e verità. Quanto più una cosa è popolare, tanto più le diamo credibilità 3. Connettività – tutte le piattaforme social si basano sul principio di connettività, nascono con il principio di connettere le persone tra di loro, ma come si formano questi legami? Si formano sulla base di iniziative prese dagli utenti che portano sulle piattaforme social le loro reti sociali. Ma esiste anche un meccanismo proposto dalle piattaforme che promuove la connessione di rete, le piattaforme ci suggeriscono anche con chi entrare in relazione secondo la tattica di formazione automatica di gruppi. A seguito degli interessi anche economici delle piattaforme questa affinità viaggia a seconda di interessi e like condivisi 4. Datafication – le piattaforme social si basano sulla trasformazione di tutti gli aspetti del mondo che riescono a quantificare in dati. Tutte le attività che svolgiamo all’interno delle piattaforme social vengono trasformate in dati, il modo con cui vengono conservate e gestite tutte le nostre attività all’interno delle piattaforme social è il passaggio da attività a dati, tracce dette digital footprints. Questo ha due facce: questa possibilità di trasformare in dati tutte le attività è qualcosa che noi diamo di acquisito all’interno della nostra vita sociale; si rendono possibili tutta una serie di forme di sorveglianza, le mie attività sono tracciabili a livello di opinioni, interessi e anche posizionamento politico. Audience – un passo avanti Si rimette in discussione il concetto di audience – Sonia Livingstone dice che bisogna fare un passo in avanti, quando immaginiamo l’audience dei media broadcast noi immaginiamo soggetti che svolgono due attività, ascoltare e guardare. Primo passaggio: pensare le audience come utenti se guardiamo alla rete, in primo luogo perché sono coinvolti nel rapporto con i mezzi di comunicazione attraverso una gamma più ampia di attività come agire, scrivere… Secondo passaggio: non c’è il senso di collettività che era centrale nel processo di audience, si tratta di quello che ricordiamo parlando di audience immaginate. Si ragiona della comunicazione in rete e di Internet quando questo senso di comunità immaginata viene un po’ meno. Si ricostruisce il senso di comunità con confini molto più piccoli rispetto alle comunità di audience precedenti – l’essere parte di un gruppo si è ripristinato. Nel frattempo, Pertti Alasuutari dice che noi continuiamo a parlare di audience perché è un concetto che ci torna comodo: le persone continuano a parlare di audience perché sono affezionati a questo concetto, piuttosto che trattarsi di qualcosa che c’è davvero. Parliamo di internet partendo dall’analisi di come le persone lo incorporano nella vita quotidiana, non partendo dal concetto di audience: noi dobbiamo osservare i mezzi e capire come le persone li stanno incorporando nella vita quotidiana, quale immaginario hanno e come si sta sviluppando internet, ma soprattutto capire cos’è internet per la gente. L’obiettivo dell’analisi è come si studia l’audience della rete, analizzando i frame che utilizziamo per concepire i media e i loro contenuti e il modo in cui le audience si concepiscono come tali. L’analisi dell’audience deve includere i discorsi che costituiscono l’audience come tale, includendo “the audience’s notions of themselves as the audience”. Henry Jenkins, a differenza degli altri due autori, cerca di dare un nome a quello che sta succedendo: prima di lui le audience erano state chiamate diffuse e performative, adesso lui usa il termine partecipazione. La performatività metteva già in gioco un’attività significativa delle audience, ma Jenkins osserva il passo successivo: la partecipazione è effettiva nel processo di produzione mediale e condivisione dei contenuti. Se le audience performative avevano in mente di poter essere influenti nella produzione dei contenuti, le audience partecipative producono direttamente contenuti che sono analoghi ai contenuti professionali. Mette in luce: 1. Quello che sta cambiando il sistema dei media è lo sviluppo dei sistemi digitali: nuove potenzialità come modificare contenuti, appropriazione dei contenuti e distribuzione dei contenuti 2. Dentro questa nuova dimensione partecipativa si stabilisce una relazione diversa tra produttori e consumatori: non si parla più di un’interazione che si gioca sul piano della ricezione, il tutto si svolge usando gli stessi canali, i contenuti mediali circolano in rete e la rete è lo strumento che gli utenti usano per acquisirli e rimetterli in circolazione (fenomeno della convergenza) 3. Le audience sono convinte di essere in grado di contribuire alla produzione mediale, non sempre lo fanno, ma tutti credono di poterlo fare, le audience si immaginano come soggetti in grado di produrre contenuti che vengono tenuti in considerazione e valutati - una cultura partecipativa è una cultura con barriere relativamente basse (non è più difficile creare contenuti) per espressione artistica e impegno civico che da un forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle creazioni e prevede una qualche forma di mentorship informale, secondo la quale i partecipanti più esperti condividono conoscenza con i principianti. All’interno di una cultura partecipativa, i soggetti sono convinti dell’importanza del loro contributo e si sentono in qualche modo connessi gli uni agli altri (basse barriere/ forti supporti per creare e condividere/ mentorship informale/ i membri credono che i loro contenuti contino/ i membri percepiscono i gradi di connessione con gli altri/ appartenenza mediale fondata sulle pratiche). La figura tipica di questa cultura è il pro-sumer: produttore e consumatore, consumatore di contenuti e produttore reale o potenziale. Modello della cultura convergente: al centro del modello ci sono le piattaforme cross mediali, le piattaforme che ospitano i contenuti ma anche le piattaforme di rete attraverso le quali circolano i contenuti; la parte nuova è quella dei pubblici connessi con la parte del pro- sumer: le produzioni amatoriali e pubblici realmente connessi tra di loro dalle piattaforme digitali. L’arrivo dei media digitali sviluppa la figura del pro-sumer. Quello che era stato osservato fino adesso era stato guardato alla vita reale o a comunità di pubblici immaginati, successivamente succede che le comunità immaginate possono connettersi in maniera diversa guardando materialmente a quelle comunità che prima erano solo un’immagine che il pubblico si creava pensando a con chi condivideva dei contenuti. I pubblici connessi detti anche pubblici in relazione sono comunità immaginate che lasciano una traccia di se. Posta questa premessa, si comincia a voler mettere più a fuoco le attività dei pubblici connessi e a voler capire quali sono le attività dei pro-sumer e una delle prime studiose è Mitsuko Ito. Dopo una serie di ricerche cerca di definire quali sono le tipologie d’azione che questi pubblici possono svolgere e ci sono tre livelli di interazione per i networked publics: 1. Reactors: pubblici che semplicemente consumano i contenuti e reagiscono esprimendo una valutazione 2. Makers or remakers: soggetti che si fanno coinvolgere e realizzano contenuti oppure li rielaborano e li modificano mettendosi in gioco (dal video al meme) 3. Distributors or redistributors: piano intermedio, soggetti che mettono in circolazione contenuti prodotti da altri favorendo l’accrescimento del pubblico. Il discorso viene anche ripreso da Jenkins nel 2012 all’interno del suo libro Spreadable content, il contenuto deve circolare e viene fatto circolare dai pubblici connessi. La studiosa cerca di descrivere questi tre livelli riprendendo gli studi di Jenkins e la spreadability of content. Sui pubblici connessi però nel frattempo si quante persone visitano la pagina, quanto tempo ci stanno… Quello che viene dal panel e dal sistema censuario crea il nastro di pianificazione. La ricerca di base ha l’obiettivo di quantificare quanti tra gli italiani hanno accesso a internet, da quali luoghi, da quali device e con quale frequenza (su questo vengono fatte le interviste, 20mila l’anno). Il panel computer ha l’obiettivo di misurare in modo dettagliato su quali siti navigano le persone: hanno 30mila persone che fanno parte del panel computer che è rappresentativo della popolazione italiana dai 2 anni in su e registra di questo campione il consumo di internet. Smartphone e tablet sono tutti maggiorenni e si tratta di circa 8mila persone. Il sistema censuario funziona invece a partire del sito web e sono misurazioni che vengono fatte sul singolo sito, si quantificano quanti browser si connettono ai siti web. Alla fine, si crea la parte di catalogo che fornisce una serie di informazioni su tutti i siti web iscritti al censimento in termini di priorità. Gli strumenti forniti da audiweb sono: un report, una serie di metriche… Società della rete – politica in rete Come l’avvento delle reti permettono delle modalità di partecipazione e mobilitazione diversa. Si fa riferimento a diverse teorie e ci si avvicina a un approfondimento degli snodi critici dal punto di vista sociologico. Quando è nato internet con la sua dimensione orizzontale, sono nate tante aspettative – la nuova infrastruttura elettronica del mondo trasforma l’intero pianeta in un mercato per le idee; assistiamo quindi a una vera rivoluzione; il potere passa realmente al popolo – potere all’interno del contesto sociale, cambia l’idea di governance: di colpo il popolo ha acquistato un improvviso e rivoluzionario potere anche all’interno della comunicazione politica. Questa prospettiva di guardare alla rete è stata definita come il sublime digitale che guarda alle innovazioni che questo sistema porta senza guardare in concreto se sia davvero così. Si parte dall’idea deterministica, che guarda alle caratteristiche di una tecnologia e immagina che queste si trasferiranno al contesto sociale, siccome i media digitali hanno una certa caratteristica, di colpo questo diventerà il vettore per costruire una società nuova, orizzontale e con una comunicazione paritetica – le caratteristiche dei media sociali che possono trasformare la società sono state delineate da Sara Bentivegna, studiosa di comunicazione politica. Tra le caratteristiche abbiamo: 1. Reticolarità: caratteristica strutturale di internet, caratteristica che ha capacità trasformative che non permette solo una comunicazione broadcast ma consente alle persone di fare rete e di agire dal punto di vista culturale e delle mobilitazioni in modo diverso. 2. Interattività: si consente di andare oltre la comunicazione in modo tradizionale e di interagire e comunicare anche con le istituzioni e i soggetti politici che comunicano attraverso la rete 3. Compresenza: anche se le persone non sono nello stesso posto possono essere insieme per fare qualcosa. 4. Disintermediazione: dato oggettivo che la comunicazione in rete consente alle istituzioni, politici e partiti di comunicare con gli utenti scavalcando il sistema dei media. 5. Velocità: portata dal processo di disintermediazione, quando si decide di prendere una posizione può essere comunicata senza i tempi che caratterizzavano la comunicazione attraverso i media prima della rete. 6. Assenza di confini: riferimento al fatto che la comunicazione in rete non è confinata entra una nazione, una comunità, un confine fisico preciso. 7. Costi ridotti: per aprire uno spazio in rete non è necessario lo stesso investimento fatto per canali televisivi o testate giornalistiche, democratizzazione della comunicazione politica, accessibile a tutti i soggetti. Queste 7 caratteristiche sono vere, non utopiche; quello che cambia da sociologo a sociologo è quanto peso si da alle caratteristiche: cambiano completamente la comunicazione in rete o è necessario guardare ogni caratteristica? Di sicuro apportano trasformazioni: creazione di nuove possibilità di associazione, mobilitazione e azione politica. Queste associazioni avvengono tra persone che non si conoscono e possono anche non incontrarsi, non implicano il radicamento sul territorio, questa mobilitazione si muove in modo veloce, valicando i confini locali e nazionali. Un esempio delle trasformazioni è quello della Primavera Araba (2011) – contesto di regimi politici in cui la mobilitazione sul territorio è difficile, la rete ha consentito una movimentazione per il cambio della politica autoritaria esistente: si è costruita una sensibilità comune, agire per cambiare e per trasformare. La mobilitazione è cominciata in alcuni paesi e si è poi diffusa in altri paesi. Il fenomeno è stato supportato dalla rete, in un sistema in cui i media (controllati dal governo) non avevano voce. A partire da queste considerazioni alcuni autori hanno cercato di capire le direzioni delle trasformazioni e Kudri le identifica; Jenkins, (La cultura convergente, 2006) fa un passo in più per parlare delle trasformazioni e parla di quello che potrebbe essere il cambiamento della rete: la partecipazione alle mobilitazioni politiche assomiglia al fandom, le persone coinvolte da alcune cause di comportano come fan della stessa; le competenze di queste persone che sono le stesse delle audience partecipative, le applicano anche nei campi della partecipazione: come sono fan di una celebrity, sono anche fan di una causa mettendo in atti gli stessi comportamenti che uso per raccontare che mi piace un prodotto mediale per raccontare di una causa che mi appassiona. Le possibilità di collaborazione che mettono in atto le audience online vengono adottate anche in altri campi: le competenze che abbiamo acquisito come audience sono il votare, il far circolare, il commentare e il raggrupparsi. Quali sono le forme di partecipazione in rete? Gruppi Facebook di quartiere, social street (fenomeno nato a Bologna, movimento che aggrega tante vie di città italiane che si sono date delle identità online e a partire da questa identità stanno cercando di ripristinare i legami tra coloro che abitano nella stessa via). La partecipazione come fandom è tipica della rete e hanno un obiettivo, quello di creare legami che si erano indeboliti – modalità più democratica della diffusione della conoscenza che ricade anche su una forma più partecipativa di gestione del potere. Couldry però vede anche dei limiti: questa trasformazione va contestualizzata nel mondo occidentale perché non tutte le politiche sono uguali e nemmeno le culture. Il secondo autore che viene preso in considerazione è Yochai Benkler, un giurista che si occupa della rete (La ricchezza della rete, 2006). Lui parte dal basso costo di cui si è parlato citando le 7 caratteristiche: uno degli snodi cruciali è il fatto che per poter raccogliere e comunicare informazioni prima dell’avvento della rete bisognava avere dei capitali a disposizione, oggi siccome la costruzione della rete non costa così tanto ci troviamo davanti a una comunicazione capillarmente distribuita. Lui parla di topologia della rete, com’è fisicamente costruita nello spazio, costruisce nuove forme di partecipazione politica, nuove pratiche di produzione sociale. Ma quali sono le trasformazioni? Le competenze informatiche sono abbastanza diffuse, abbiamo un rapido emergere e coordinamento online di piccoli gruppi con punti di vista omogenei; a partire da questi due processi abbiamo una comunicazione polverizzata (fatta da piccoli gruppi). Ci sono nuove forme di circolazione delle informazioni: questi gruppi non hanno a disposizione solo i media ma anche altri canali basati sulla collaborazione e condivisione (la domanda di informazione si sta spostando verso altre fonti mediali diverse dai media tradizionali. Ci sono dei limiti: i costi di riempimento delle informazioni non sono calati (es. reperire notizie originali dall’estero). Terzo autore di riferimento di Couldry: Manuel Castells (Comunicazione e potere, 2009). Il concetto da cui parte Castells è quello della società in rete, utilizzato per definire la società contemporanea. Lui pensa anche alle reti digitali e parte dal presupposto che l’avvento di Internet e della comunicazione in rete abbia operato delle trasformazioni, lo strumento attraverso il quale le persone si connettono l’una con le altre (questa connessione è transnazionale). In queste reti si scambiano informazioni, si costruiscono significati e interpretazioni di quello che succede, si riconosce il potere che esiste in una certa fase storica del paese e il suo significato. Le reti hanno un’importanza perché si elabora collettivamente se le cose vanno bene, male, se il potere politico è legittimo o meno. La società in rete ruota attorno alle reti digitali e al loro interno succede che è vero che sono ancora i media tradizionali a decidere cosa ha valore o meno creando un’agenda di temi, ma Castells all’interno delle reti vede anche un processo di individualizzazione, perché al loro interno le persone prestano attenzione alle informazioni che colpiscono la loro vita personale o possono trovare utile – ci muoviamo all’interno di reti sociali di cui siamo il perno, guardiamo tutto quello che ci sta intorno, facciamo una selezione mettendo noi al centro, si focalizza attorno all’io non solo la costruzione delle reti ma anche i processi secondo i quali ci interessiamo di cosa seguire. Parallelamente dentro la società in rete si sviluppa l’auto comunicazione di massa: prendere voce da parte di soggetti e persone, noi siamo in grado come singoli soggetti di diventare comunicatori pubblici, siamo in grado di diventare comunicatori mediali di massa perché accessibile a tutti. L’individualizzazione che metto l’io al centro dei processi influisce anche nella comunicazione che la politica fa ai cittadini, comunicazione sempre rivolta ai singoli. Castells è fiducioso sul fatto che tutto questo si tradurrà in un incremento della mobilitazione dal basso che si appoggia alle reti che sarà in grado di avere un effetto sulle istituzioni e la politica. Anche qui però Couldry vede dei limiti: Castells descrive l’oggi, non è chiaro e dimostrato quello che succederà in futuro. Tre punti chiave degli autori rispetto alla comunicazione di come internet ha trasformato le forme di mobilitazione e partecipazione dei cittadini: Jenkins dice che la mobilitazione cambia perché è una mobilitazione di fandom, che si esprime come tale, condivisione, commento; Benkler ci dice che è una comunicazione frammentata con idee coese e comuni che si muovono per una causa; Castells ci dice che le reti di comunicazione risentono delle reti io centrate che si costruiscono in internet. Quadro ampio ma con alcuni punti di riferimento di cosa cambia nell’ambito della partecipazione. Couldry aggiunge il suo quadro di interpretazione d’insieme: la cosa attorno a cui bisogna prima di tutto ragionare è se è cambiato qualche cosa nel modo in cui le persone riconoscono l’autorità perché nella politica è cruciale; allo stesso tempo questo riconoscimento dell’autorità è legato al modo in cui le persone valutano quello che l’autorità è: se cambiano le forme e i modi con cui le persone valutano l’autorità le cose cambiano. La valutazione non è solo un modo di esprimere ma fa parte del modo in cui vengono valutati i giudizi e attraverso i frames attraverso i quali valutiamo il mondo. I media digitali influiscono in questi processi, nel modo in cui le persone valutano ed esprimono un loro pensiero riguardo l’autorità. All’interno della società in rete emergono nuove voci che parlano e che fanno parte del discorso politico. Ma chi sono queste nuove voci? 1. Sono degli attori della rete, agenti in grado di aggregare persone, gruppi e posizioni senza una sede definita o una appartenenza sociale vincolata (es. No Global, Seattle 1999 – movimento che nasce in rete, nuovi attori della politica, non ha nulla di tradizionale, ha la forma del movimento tipica della contemporaneità e che nasce dalle aggregazioni in rete). Si parla sempre di attori politici non formali, non c’è un luogo o una sede, nascono come comunità di pratiche online (gruppi che si aggregano per fare qualche cosa), mobilitazione internazionale (movimenti che si diffondono trasversalmente i confini delle singole nazioni), forme di sostegno alla mobilitazione con siti che vengono sviluppati e spiegano come fare ad aggregarsi e produrre contenuti. Perché questi movimenti hanno tanto successo? Hanno successo perché offrono la possibilità di azione anonima a distanza che abbassa le barriere e i timori dell’azione e perché sono degli strumenti informali che non chiedono neanche un’iscrizione e sono dei gruppi in cui si può partecipare indipendentemente dallo status. 2. Nuovi attori politici individuali: singoli agenti che sono in grado di aggregare attorno a sé posizioni, idee e opinioni su un certo argomento e sono in grado di aggregare attorno a sé dei gruppi: singole persone che parlano attraverso la rete. Queste voci affiancano quelle che tradizionalmente sono state le voci della comunicazione su temi sociali e politici. 3. Attori politici latenti: autori di post a contenuto politico non ancora riconosciuti come voci del dibattito politico. Professionisti ad esempio che creano una nuova riserva di azione politica. Es. professionista del clima che esprime un parere sul cambiamento climatico / Roberto Burioni, medico: spesso è stato chiesto di entrare in politica ma lui ha deciso di mantenere la sua professione e restare latente – esempio della nascita e dello sviluppo di nuove voci. Couldry affronta come avviene e perché avviene la mobilitazione politica all’interno di questi contesti caratterizzati dai media digitali. L’offerta di impegno politico presentata dalla rete privilegia forme contro (porre il veto, giudicare, controllare) e raramente propone forme pro mirate a raggiungere degli obiettivi precisi. Le ragioni che Couldry individua per dire che prevalgono le forme di mobilitazione sono: 1. molto più facile creare mobilitazione sui singoli eventi piuttosto che creare comunità orientate a raggiungere interessi comuni (più facili da costruire come eventi di mobilitazione) 2. La presenza di forme sempre più diffuse di sorveglianza, favoriscono lo sviluppo di forme di co-veglianza in rete mirate a sorvegliare i propri pari e genera una pressione a generare storie, fughe di notizie, rivelazioni. Un modello favorito anche dai media tradizionali. Un modello tipico di questo percorso è la vicenda di Wikileaks: Julian Assange ha trovato dei documenti di attività non pubbliche di alcuni governi e le ha pubblicate in rete – eroe che sorveglia attraverso la rete? Questo si traduce nell’atteggiamento che anche altri utenti della rete applicano: usare La celebrity digitale si costruisce anche dal basso, la presenza delle piattaforme digitali genera altri meccanismi oltre al fatto che le celebrities si ripetano nel mondo digitale. Si moltiplicano le possibilità di seguire le celebrities, non è solo topdown la possibilità di vedere le celebrities all’interno del sistema dei media. Moltiplica la capacità delle celebrities di generare stupore quando le si incontra: lo stupore dato dalle occasioni nel mondo reale si moltiplica. I social media consentono la nascita delle self made celebrities – non partono da avere raggiunto un consenso nel campo della performance artistica o sportiva ma sono personaggi che si costruiscono fin dall’inizio come celebrities autoprodotte. Solo grazie alla presenza dei media digitali abbiamo questo fenomeno. Etica dei media L’approccio etico implica la considerazione di quali problemi i media sollevano per la vita umana. L’approccio etico risponde al bisogno di ridurre il conflitto e rispondere ai bisogni di libertà, fiducia, cooperazione e riconoscimento reciproco. Couldry dice che è necessario che i media abbiamo un comportamento sociale: devono agire in modo tale da avere un impatto positivo, focalizzandosi su snodi importanti sui quali si gioca l’azione dei media. Questo approccio parte dall’obiettivo di individuare la direzione sulla quale i media devono orientarsi, alla quale devono contribuire. Si tratta di un approccio aristotelico o kantiano che mira a individuare “cosa sia una vita buona” e una direzione verso obiettivi e valori da raggiungere. Dopo aver definito alcuni punti di partenza ne vengono definiti altri: alcuni di carattere generale – non si può parlare dell’etica di un singolo medium perché le narrazioni sono transmediali; l’etica non riguarda solo il mondo dell’informazione e del giornalismo perché tradizionalmente molte questione di etica e di deontologia sono state riferite a quella parte delle azioni dei media che sono il fare informazione e il diffondere affermazioni; l’etica dei media è distinta da una generale etica della comunicazione perché considera gli assetti strutturali ed economici dei media e le aspettative che gli individui hanno su di essi. Aggiunge anche che le organizzazioni mediali, le infrastrutture mediali e quello che i singoli e i gruppi fanno in rapporto ai media sono oggi parte del modello fondamentale della vita quotidiana e rispondono a un bisogno fondamentale che l’essere umano ha, ovvero quello di essere informato. Siccome i media sono parte costitutiva della vita quotidiana è chiaro che si tratta di una pratica eticamente significativa. Couldry sottolinea anche come tutte le tipologie di persone e gruppi abbiano una voce: uno dei possibili limiti etici dei media è quello di lasciare individui e gruppi senza le risorse comunicative – i media possono includere e escludere singole tipologie di individui negandole la partecipazione nei cambiamenti del contesto sociale. La questione dei media su scala globale – lo spazio globale che i media rendono possibile presenta per l’etica una nuova sfida, trasformando la scala rispetto alla quale deve muoversi il pensiero etico. Bauman dice che sembra che abbiamo bisogno di un tipo del tutto nuovo di etica. Quando i media agiscono su scala globale fanno emergere quelli spazi di varietà morale, fatta di regole e disaccordi da rispettare che caratterizzano le diverse culture del mondo. I media agendo su scala globale ci fanno vedere di più questi disaccordi rendendo più difficile il trovare armonia e disaccordi. Non è possibile ricondurre tutti i popoli del mondo al consenso sulla morale, non si può trovare un consenso mondiale, un unico quadro normativo possibile; si possono però ritrovare principi etici comuni che vanno al di la delle singole regole applicate e ci si può muovere sullo stesso orizzonte – si torna a principi di partenza comuni a tutti, dopo aver visto le differenze sul piano morale bisogna ragionare a livello di principi. La questione vale per i media tradizionali e per la comunicazione digitale. Es. Foto storica del Vietnam – si pone una questione? Questa foto è subito riconoscibile e collegabile a un evento storico? La foto è stata diffusa dai media occidentali e non nello stesso modo in tutte le parti del mondo. Si solleva un problema etico: la bambina è nuda. Facebook stesso ha dovuto chiedersi: questione etica, minore senza vestiti o questione etica dell’informazione? Facebook ha deciso di toglierla, perché su scala globale vale il principio etico che non andava a confliggere con i diversi ordinamenti morali dei vari popoli e culture. Ha scelto il principio etico più alto di tutti a discapito del principio etico e informativo delle altre culture. Couldry per riconoscere un’etica riconosce tre virtù: 1. Precisione / 2. Sincerità – Couldry cita Williams riprendendo le massime di Grice: il punto di partenza dell’etica dei media si basa sul fatto che il dire il vero è un prerequisito di una buona vita collettiva e di un comportamento e un atteggiamento etico da parte dei media. Si arriva a toccare il mondo dei media e dell’informazione ma Couldry vuole dire che quello che conta è il tendere verso la virtù e non la regola di comportamento, i media non ci dicono casualmente la verità ma quello che conta è che l’informazione che passa attraverso i media sia caratterizzata da una tensione denominata investimento investigativo ovvero un atteggiamento costante, un impegno a fare fatiche a mettere in campo le risorse necessarie per accettare che quello che si comunica sia preciso. Tensione e dare valore come parole chiave. Lui dice che tutto questo è importante perché se viene meno la fiducia che i media agiscano sul principio di investimento investigativo viene a mancare la base comune per l’interazione ma anche la serenità di sapere che le nostre opinioni e scelte sono diffuse sulla base di questa comune tensione. Se viene meno la fiducia anche da parte dei media stessi alla fine quelle che sono tempo ed energie impiegate nella precisione non vengono più considerate come un valore. Insieme alla precisione c’è la sincerità, una disposizione verso il dire quello che si crede effettivamente, la precisione di quello che si comunica si affianchi all’adesione a quello che si dice, che deve essere preciso e avere una coerenza in relazione a quello che si crede vero con il resto del mondo, che ci sia una sincerità nella comunicazione dei media che non è solo controllare ma è anche data da un’adesione del mondo realistica e condivisibile. La sincerità si basa su degli impliciti conversazionali: gli oggetti mediali sono il frutto di un prodotto che mira alla verità; le affermazioni dei media non contraddicono altre cose che sono credute vere da quanti fanno quell’affermazione. Noi fatichiamo a riconoscere il comportamento etico che fa riferimento a determinate tensioni. Le ragioni per cui lo vediamo poco sono pratiche: l’utilizzo del web come fonte del lavoro giornalistico che crea un collasso globale della raccolta di informazioni e della veridicità; necessità di massimizzare l’attenzione in un periodo molto breve e con ritmi veloci legata all’allargarsi della competizione per l’attenzione del pubblico; competizione estesa a sempre nuovi soggetti per attrarre l’attenzione dei giornalisti. 3. Cura – ovvero il curarsi di ciò che le persone credono in conseguenza di quello che diciamo. Una prima forma di cura è quella dell’ospitalità o le capacità di dar voce, di rappresentare, di ascoltare l’altro così che tutti abbiano la percezione di avere il diritto di parlare e di essere ascoltati. È importante perciò il riconoscimento delle persone all’interno del contesto etico (l’unica criticità è quella di perdere delle linee guida). Una seconda forma di cura è l’ospitalità linguistica di Ricoeur, ovvero quella forma di cura per cui quando parliamo e scriviamo riconosciamo la diversità e non la offendiamo. Una terza forma di cura è tenere conto delle conseguenze di quello che noi diciamo sullo spazio comune di comunicazione: l’eticità dei media e di noi che ci facciamo medium significa chiedersi quali sono le conseguenze delle nostre comunicazioni (sto costruendo il conflitto o la cooperazione? Fiducia o sfiducia?). Ultimo elemento sul ragionamento etico: giustizia. I media hanno il vincolo di scegliere forme di comportamento eticamente valide e condivisibili ma esiste anche la dimensione della giustizia. Couldry intende con giustizia, il fatto che i media siano giusti nei confronti delle persone di cui trattano e a cui si rivolgono. Couldry parla di giustizia legata al digital divide: con digital divide si intende la grande differenza riscontrata nei diversi paesi del mondo di accedere alla comunicazione digitale e all’informazione. Progressivamente questa disuguaglianza è stata considerata come una diseguaglianza sociale che ha attirato l’attenzione di organismi internazionali (es. WSIS) che si occupano di comunicazione in rete: questo problema è stato considerato come principale perché tutti devono essere in grado di accedere alle risorse date dai media digitali – questa mancanza è stata considerata come un segno di ingiustizia. L’obiettivo delle attività come le WSIS è quello di costruire una società dell’informazione inclusiva e garantire il diritto di comunicare (in realtà non si tratta solo di fruire contenuti ma anche della possibilità di poter comunicare). Posta questa premessa che ci fa capire cosa significa pensare in termini di giustizia dei media, Couldry mette a fuoco altre ingiustizie legate ai media: 1. Incapacità di prendere voce – una persona viene danneggiata dai media e quest’ultima non ha strumenti efficaci per rendere pubblico il danno o per chiedere una riparazione del torto. Questa forma di ingiustizia si verifica all’interno dei media tradizionali ma anche all’interno dei media digitali. I media non sono paritetici, con la quantità di comunicazione che fanno possono sempre intercettare qualcuno di cui volontariamente o non danneggiano la reputazione (es. servizio televisivo “quartiere dello spaccio” e io passo lì per caso: la mia immagine è danneggiata). Con un’eventuale rettifica non posso comunque raggiungere la stessa audience che ho raggiunto con il primo contenuto: per questo Couldry insiste su precisione, sincerità e cura. 2. Invisibilità – ci sono gruppi definiti di persone che non hanno voce, non vengono sufficientemente riconosciuti all’interno dei prodotti di istituzioni e settori mediali. (es. indigeni cileni, in diversi stati sud americani, questa popolazione non ha voce all’interno dei media – diventano invisibili rispetto alla rappresentazione del mondo che i media suggeriscono e questa è una forma di ingiustizia). 3. Disuguaglianza di risorse simboliche – quando un individuo o un gruppo vorrebbero avere una voce diretta ma ne sono impediti dalla mancanza di accesso a qualsiasi strumento di rappresentazione: risorse simboliche che mi permettono di creare immagini, descrizioni, di quello che faccio e che sono. Prima di parlava di voce attribuita ai media, ora di parla di risorse attraverso le quali si può avere una voce. Tutto questo fa parte della capacità di riconoscimento. Si parla di ingiustizia anche nel momento in cui gli spazi pubblici di discorso sono chiusi a qualsiasi individuo che voglia avanzare richieste di riconoscimento. In sintesi, sull’etica abbiamo tre coordinate e assi: 1. Coordinamento, cooperazione e non dannosità 2. Riconoscimento della capacità di contribuire al processo sociale 3. Eticità della co-veglianza, riferito alle piattaforme social. La co-veglianza, ovvero sorveglianza tra pari è necessaria nelle piattaforme social e Couldry crede sia essenziale ma non deve portare al conflitto (il giudizio non deve portare fratture), deve portare alla cooperazione e al rispetto del riconoscimento. Couldry pone il problema nel momento in cui gli utenti sono attori della comunicazione mediale: è giusto che gli utenti siano sottoposti agli stessi orizzonti etici? La risposta è sì.