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NOTE SULLA GESTIONE DELL’IDENTITÀ DEGRADATA
Erving Goffman
ombre corte | testi
Stigma
Note sulla gestione dell'identità degradata
INTRODUZIONE Di Mario Bontempi - Leggere Stigma oggi Quando uscì, nel 1963, negli USA era ancora in vigore la segregazione raziale, abolita nel 1964, e il movimento dei diritti civili era in piena espansione. “Stigma” poteva esser letto come un testo di critica della cultura dominante e dei suoi stereotipi, un contributo alle trasformazioni che attraversavano la cultura USA dell’epoca. Sarebbe stato già tanto, ma se fosse stato solo questo non lo staremmo studiando ancora. Nel mezzo secolo che ci separa dalla sua pubblicazione i temi del riconoscimento delle diversità e della lotta agli stereotipi sono entrati nelle politiche socio-culturali di tutti i paesi occidentali. Compreso il nostro, con consueto ritardo. Dove più dove meno, molte cose sono state fatti, eppure oggi un libro che affronta direttamente la stigmatizzazione ci suona attuale. “Stigma” oggi non trova una mobilitazione intensa e vasta per la difesa dei diritti e dei doveri, non trova lettori inclini a leggerlo come un contributo a un più ampio percorso di superamento delle stigmatizzazioni che pare a portata di mano, trova invece atteggiamenti che sembrano voler lasciare alle spalle quelle speranze, settori della popolazione che invocano la stigmatizzazione come una pratica difensiva e per alcuni da rivendicare orgogliosamente. Un contesto molto diverso nel quale un testo come questo non è meno necessario. Questo non riduce la portata di un testo classico, sia per la ricerca sociologica che per la psicologia sociale. Goffman non ha scritto un libro militante, mentre conduce il lettore nei territori della sofferenza di chi deve affrontare atteggiamenti stigmatizzati, mostra come i processi di stigmatizzazione siano legati alle logiche sociali di presentazione del self, quelle logiche che in “The Presentation of Self in Everyday Life” ha cercato di studiare nel loro farsi nelle interazioni, mentre in “Stigma” sono proprio gli ostacoli, il disagio, le frustrazioni e le resistenze causati dalla stigmatizzazione nella presentazione del self che sono oggetto di studio insieme alle strategie attuate per fronteggiare le incertezze che un’identità degradata deve affrontare per trovare o costruire la propria accettazione. La lucidità analitica e concettuale con la quale svolge la sua analisi permette a Goffman di definire un campo di ricerca che ha avuto nei decenni un grande sviluppo, sia con studi applicati a specifiche situazioni stigmatizzanti, sia nella formazione di professionisti del lavoro sociale. Leggere questo testo oggi vuol dire affrontare un classico della sociologia; classico perché si interroga su alcuni dei grandi nodi tematici del pensiero sociologico, in particolare la relazione-tensione tra interazione e struttura sociale e lo fa con una lucidità metodologica che non si piega a una sociografia dei casi empirici, che oggi renderebbe il libro obsoleto, ma riesce a coniugare in profondità l’analisi empirica con l’elaborazione di una teoria generale dei processi di stigmatizzazione che è anche un contributo allo studio delle relazioni tra ordine e mutamento sociale, tra l’”altro” delle norme generali e delle loro pretese di validità e il “basso” delle situazioni specifiche e del loro ordine interazionale. È con l’intento di restituire al lettore italiano questo patrimonio teorico che si è rifatta questa traduzione. Leggere “Stigma” significa immergersi in una scrittura concreta, con esempi, e al contempo capace di astrazioni e teorizzazioni raffinate, una scrittura che programmaticamente coinvolge il lettore e lo rinvia al piano delle proprie interpretazioni delle interazioni, illuminate dai concetti che l’autore gli offre. - La scrittura di Goffman e il suo lavoro teorico Un tratto della scrittura di Goffman è l’uso di materiali eterogenei come fonti delle sue analisi. qui è stato calcolato che dei 292 riferimenti citati come fonti il 42% consisteva in lavori scientifici e il 58% in autobiografie, romanzi, saggi divulgativi e conversazioni personali. Questo tipo di scrittura, eterodosso rispetto alla modalità corrente della scrittura sociologica, ha radici nella prospettiva analitica sviluppata da Goffman e nella sua elaborazione teorica dei concetti sociologici. Relativamente alla prima ci chiediamo quale sia l’esigenza che lo spinge ad usare testi letterari come fonti. Sembra logico chiedersi se nell’analisi dello stigma non sarebbe stato più appropriato usare solo descrizioni di casi reali. Le quali non avrebbero forse dato più forza all’analisi delle condizioni degli stigmatizzati? Che cosa offrono allo studio le descrizioni 2 al lettore un notevole compito introspettivo di chiarificazione di quanto e come dà per scontata questa duplice possibilità nelle interazioni che agisce ogni giorno o se invece pensa se stesso e gli altri come statisticamente appartenenti ad una sola delle due posizioni. - L’unità di stigmatizzato e normale Il punto di condensazione teorico dell’analisi sviluppata in “Stigma” può essere individuato nell’idea che lo stigma e la sua gestione non sono false credenze dalle quali illuministicamente emanciparsi, ma una caratteristica generale della società, “un processo che si verifica ovunque ci siano norme di identità”. Dall’analisi di Goffman emerge che normale e stigmatizzato non sono condizioni permanenti in base alle quali distinguere le persone, né sono sempre effetti di dislivelli di potere e di esclusione sociale di un gruppo ai danni di altri. Normale e stigmatizzato sono prospettive che sorgono intorno alla gestione interazionale di una diversità e si sviluppano con logiche informate ai significati e alle aspettative categoriali socialmente condivise. In questo senso normale e stigmatizzato sono “parti dello stesso complesso”, dimensioni di una stessa logica, quella di gestione dell’identità. Goffman mostra analiticamente e con testimonianze in quale senso questo accada. Qui è il caso di indicare solo alcuni dei complessi passaggi teorico-analitici di questa analisi. in primis, in quanto membri della stessa società, normali e stigmatizzati condividono una stessa costituzione mentale, un modo socialmente appreso di disporsi mentalmente di fronte all’identità e alla differenza. Non in senso psicologico, ma rispetto alla stessa dotazione di risorse sociali per mezzo delle quali interpretare l’identità dell’altro. Questa dotazione interpretativa è appresa ed acquistata con l’esperienza sociale ed è un’esperienza di chiunque vivere incontri nei quali qualche differenza vergognosa è in gioco o si uvole evitare che lo sia, per sé e/o per altri. Così come è esperienza generale trovarsi sia nel ruolo di chi è portatore di questa differenza vergognosa, che in quello di chi non ha una differenza che in quella situazione potrebbe essere giudicata vergognosa, nel ruolo di un normale. In secondo luogo questa esperienza-conoscenza generale di normale-e-stigmatizzato è una base che permette agli individui di intuire e capire, sulla base della propria esperienza, gli stati d’animo di chi si trova nell’altra condizione. Questa dinamica è attestata anche dai cambiamenti di aspettative che possiamo osservare in quegli individui che passano da una condizione all’altra, come quando chi ha acquistato un attributo screditante, fisico o mentale, si aspetta le incertezze dell’accettazione che dovrà affrontare nell’interazione faccia a faccia e la conseguente necessità di cercare strategie di adattamento. O lo stigmatizzato che si libera di uno stigma, ad esempio con un intervento chirurgico, e dopo intuisce il tipo di cambiamento che sta per vivere nell’interpretazione faccia a faccia. In terzo luogo, questa unità normale-e-stigmatizzato è connessa con una competenza sociale importante, sia per lo studio dello stigma che per l’organizzazione dell’esperienza sociale in generale: l’apprendimento e la gestione del limite. Ogni definizione della situazione e il frame che la struttura, comportano la determinazione del limite in qui la definizione della situazione viene conservata dai partecipanti, ed oltre il quale il frame viene messo in discussione, straripa e si rompe. “Stigma” mostra come nell’interazione tra normali e stigmatizzati il limite sia un nodo cruciale e sempre problematico. Al contempo, l’esperienza e la componente del limite sono comuni a tutti i membri di una società. sia il normale che lo stigmatizzato sanno che cosa significhi andare oltre il limiti o rientrarvi. Andare oltre è per l’individuo un porsi in un nuovo allineamento all’interno di un frame che fino a quel momento conosceva già come qualcosa che riguardava altri e che da quel momento lo riguarderà di persona. Per questo quando qualcuno vive un’improvvisa stigmatizzazione, la sua pena “può derivare non dalla confusione dell’individuo sulla propria identità, ma dal sapere fin troppo bene quello che è diventato”. Infine, un’altra attestazione di questa unità di stigmatizzato-e-normale è osservabile nello scambio di ruoli nei contatti tra normale e stigmatizzato: la logica della reciprocità istituisce nell’interazione la distinzione normale-stigmatizzato, ma non è mai una distinzione stabile, infatti “ciascuno dei due può sentirsi non pienamente accettato dall’altro, e ritenere, magari a ragione, che il proprio comportamento sia osservato troppo da vicino”, non solo lo stigmatizzato, ma anche il normale può sentirsi giudicato e discriminato. Questa instabilità rende manifesta la logica circolare della copresenza con la quale Goffman declina la 5 dinamica meadiana di Io-Me. Allo stesso modo, il carattere situazionale della distinzione tra stigmatizzato e normale emerge nella tendenza sia dell’una che dell’altra posizione a stare con i propri simili per non dover affrontare il disagio di contatti misti. È il fatto che questa separazione sia cercata da entrambe le parti e per lo stesso motivo che per Goffman attesta l’unità sociale fondamentale di cui la distinzione normale- stigmatizzato è un’elaborazione situazionale. La comprensione del ruolo dell’altro è alla base della percezione del limite di ciò che si può dire o no, alludere o tacere, entro il quale muoversi nella situazione interazionale. La forza del limite varia nella storia di uno stigma, ed è la sua variazione che permette di farne storia. Così il declino di uno stigma avviene quando si indebolisce il limite che distingue ciò che può esser mostrato da ciò che di quello stigma deve essere ignorato o tenuto segreto. La definizione della situazione cambia e si aprono spazi interazionali e riconoscimenti di identità prima impossibili. La distinzione di stigmatizzato e di normale si indebolisce e sfuma. Proprio questo sfumare, mostrando come i due ruoli non sono due realtà strutturalmente distinte, né fissate stabilmente su individui, attesta l’unità di fondo di stigmatizzato-e-normale e il carattere proiettivo della distinzione. Questa dinamica situazionale si riproduce ogni volta che è in gioco un attributo valutato socialmente come screditante. Dunque ciò che è situazionale può diventare un’esperienza ricorrente di stigmatizzazione se c’è di mezzo un attributo che dura tutta la vita. ma gli attributi non determinano la natura della distinzione tra i due ruoli, normale e stigmatizzato, determinano solo la frequenza con la quale quell’individuo assume ciascuno dei due ruoli negli incontri interazionali. Il punto di arrivo segna un’acquisizione teorica importante. L’unità di stigmatizzato e normale de-ontologizza lo stigma, ridefinendolo come una questione di relazioni e non di attributi di per sé screditati. Lo stigma non può essere pensato né come una posizione strutturale, né come interamente generato dalla situazione interazionale, ma come una configurazione situazionale dinamica della conformità, e non della sottomissione alle norme dell’identità proprie di una società. il posizionamento di stigmatizzato e normale nell’interazione sono una conseguenza del carattere normativo dell’idea sociale di normale, che porta con sé la determinazione del suo contrario, in questo senso “le norme sull’identità alimentano le deviazioni così come alimentano il conformismo” e le strategie di resistenza alla stigmatizzazione messe in atto dagli stigmatizzati, come il passing e il covering, mostrano come “la base comune delle norme può essere rispettata al di là della cerchia di coloro che vi aderiscono pienamente”. L’insieme dei processi di stigmatizzazione costituisce una potente risorsa di conformazione ai valori e agli ideali identitari di una società ed è la collocazione interazionale su uno dei due lati della distinzione normale/stigmatizzato, non l’attributo in sé, a essere il nucleo del dispositivo dello stigma. Una collocazione che è costitutivamente instabile ma che trova, nell’interazione, elementi di stabilizzazione che possono favorire uno specifico tracciamento situazionale di questa distinzione, l’intrusione dello stigma nell’interazione è uno particolarmente efficace. C’è una tensione tra la definizione dell’identità nella combinazione situazionale del setting sociale con l’interazione, da un lato, e le norme sociali sull’identità che non sono generate situazionalmente, ma che solo nelle interazioni possono essere agite, dall’altro. È per questa tensione che lo stigma può essere pensato solo in termini di relazione, ma anche che degli stigmi si può sempre fare una storia. È sempre in ragione di questa tensione che Goffman arriva a conseguire due acquisizioni fondamentali per la teoria sociologica. La 1° è che non sono possibili interazioni immunizzate dalla stigmatizzazione. L’aspirazione ad una società “libera” dagli stigmi si infrange sull’insuperabile esigenza di norme sociali sull’identità in qualsiasi società umana. La 2° è che cambiando le norme sociali sull’identità cambiano le fratture rilevanti per la stigmatizzazione. Il fattore fondamentale nella generazione di nuovi stigmi è la diffusione nella società della percezione di un limite rispetto al quale definire la distinzione normale/stigmatizzato, la forma storica dello stigma viene plasmata intorno al tipo di significato che in quel periodo è percepito come “territorio sensibile”. Tre sono le possibilità principali che potremmo schematicamente individuare rispetto alla definizione dell’identità: I) Quanto più l’identità viene socialmente concepita come appartenenza e separazione, tanto più le pratiche di stigmatizzazione svilupperanno stigmi dell’appartenenza, che Goffman chiama “stigmi tribali”; 6 II) Quanto più l’identità viene socialmente concepita come qualità individuale, tanto più le pratiche di stigmatizzazione svilupperanno stigmi “della personalità individuale”, “percepiti come debolezza di volontà, passioni sfrenate o innaturali, credenze pericolose e inflessibili, disonestà”; III) Gli stigmi generati intorno agli ideali corporei di normalità: la stigmatizzazione delle malformazioni fisiche, gli stigmi più antichi e probabilmente quelli più stabili nel tempo. È chiaro che nella vita sociale non si trova solo un tipo ma di volta in volta una specifica configurazione storico-sociale dei tre tipi, ed è compito della ricerca sociale individuare le condizioni e i caratteri propri dell’epoca. In questa prospettiva si può capire come dagli anni 60’ più che di superamento degli stigmi si possa parlare di mutamento delle pratiche di stigmatizzazione. Se in alcuni casi ciò che era stigmatizzato ci è oggi indifferente, dalla visibilità pubblica delle malformazioni fisiche fino all’ammissibilità pubblica dell’omosessualità come tratto identitario, in altri casi la continuità come l’oggi è impressionante, ma ciò che fa più la differenza da quel periodo è che “Stigma” si colloca in uno sfondo dove l’identità come appartenenza era declinata nella forma inclusiva del melting pot e nei processi di emancipazione condotti dai movimenti per i diritti civili. Oggi abbiamo un ritorno di pratiche di stigmatizzazione radicali che segnano uno scarto da quel periodo, da un lato nell’investire la semantica dell’identità come appartenenza e nel declinarla nelle forme difensive ed aggressive dei neo-nazionalismi, mentre, dall’altro, nelle società occidentali hanno diffusione e riconoscimento giuridico molte pratiche neoliberali che invece fanno della coesistenza delle differenze in modalità non stigmatizzanti il proprio criterio di valore. “Stigma” ci mostra perché la norma giuridica abbia senso come sanzione giuridico-formale dello stigma, ma non come fattore del suo superamento. Ciò significa che se per un verso lo stigma è ineliminabile dalla vita sociale, insieme a esso si eliminerebbe l’identità, per l’altro è nelle interazioni faccia-a-faccia che ci sono i margini e le risorse per l’accettazione, per quanto sempre incerti e temporanei; altri mezzi e risorse possono promuovere e favorire modalità interazionali più o meno “accettanti”, ma non suppliscono o sussumono l’interazione e le sue possibilità di disconoscimento o riconoscimento dell’altro. Dunque “Stigma” chiude ogni possibilità di critica sociale dello stigma? No, e non c’è dubbio che il libro ne sia un esempio. tuttavia, da questo punto di vista il lettore di “Stigma” è destinato a sorprendersi più di una volta: se si aspetta denuncia e rivendicazione dei diritti degli stigmatizzati non le troverà nella forma della chiamata alla mobilitazione, ma nella distaccata esposizione analitica dei frammenti di testimonianze nelle quali gli stigmatizzati stessi descrivono le proprie angosce e reazioni; se si aspetta una trattazione scientificamente distaccata incontrerà parole di fuoco con cui Goffman restituisce il pensiero dei normali sugli stigmatizzati. Troverà sempre Goffman su di una posizione coerente, ma non nel modo in cui se lo aspetterebbe. Questo spaesamento è una risorsa importante per il lettore, lo coinvolge in modo inatteso, lo impegna e lo spinge ad andare in profondità sulle proprie reazioni alla lettura. Se intende chiedere al libro cosa e come fare per migliorare la vita degli stigmatizzati, non troverà né cosa, né come, e sarà sempre rinviato all’interazione faccia a faccia e alle sue logiche sociali. Si sentirà spinto nella posizione di Goffman, osservare lo stigma dal di dentro e dal di fuori dell’interazione, non solo durante la lettura, ma nella propria esperienza, una volta chiuso il libro. Stare nell’interazione con più consapevolezza delle sue dinamiche può dare le condizioni di un impegno concreto all’accettazione del diverso, di una politica di resistenza al mainstream stigmatizzante, di un’azione politica situazionale che faciliti l’attivazione di interazioni consapevoli, ma non subalterne alla stigmatizzazione e per questo in grado di dare accoglienza. Ecco il significato politico che “Stigma” può avere oggi: indicare i territori dell’interazione come spazio possibile della pratica di critica, non solo della stigmatizzazione. - Questa traduzione La scrittura di Goffman è complessa da tradurre; egli si serve di registri linguistici diversi, e come è un’inesauribile fonte di concetti costruiti ad hoc, è anche un geniale produttore di neologismi e di usi peculiari di termini. Nella traduzione ho cercato di considerare tutto questo, ma restituirlo in italiano non è facile, e non sempre ci sono riuscito. Nel condurre la traduzione mi sono servito di altre due traduzioni, in 7 CAPITOLO I STIGMA E IDENTITÀ SOCIALE I Greci inventarono il termine stigma per indicare un segno sul corpo che serviva a mostrare qualcosa di insolito e negativo nella condizione morale del portatore. Questi segni erano incisi o impressi a fuoco sul corpo a informare che il portatore era uno schiavo, un criminale o un traditore. Più tardi, in epoca cristiana, furono aggiunti a questo termine due livelli metaforici: il 1° si riferisce ai segni corporei della grazia divina, che prendevano forma di eruzioni cutanee; il 2° ai segni corporei di un discorso fisico. Oggi il termine è usato in un significato simile a quello originario, ma è applicato più alla disgrazia che alla sua manifestazione corporea. Inoltre ci sono stati cambiamenti nel tipo di minorazione che suscita turbamento e interesse. Gli studiosi si sono poco impegnati nel dare una definizione del concetto stesso. È perciò necessario iniziare cercando di delineare alcune premesse e definizioni generali. - Concetti introduttivi È la società a stabilire i modi per dividere le persone in categorie e l’insieme degli attributi che devono essere considerati ordinari e naturali per i membri di ciascuna di essa. Sono i setting sociali a determinare quali categorie di persone è più facile incontrare. La ruotine dei rapporti sociali definiti ci permettono di avere a che fare, senza ricorrere a articolari attenzioni o controlli, con persone del tipo che ci aspettiamo. Quando ci troviamo davanti un estraneo è probabile che il suo aspetto immediato ci consenta di stabilire in anticipo a quale categoria appartiene e quali sono i suoi attributi, qual è la sua identità sociale. Ci fidiamo delle supposizioni fatte, le trasformiamo in aspettative normative e in richieste formulate a buon diritto. Generalmente non siamo consapevoli di aver formulato tali richieste, né della loro natura, finché non sorge il dubbio se saranno o meno rispettate. È solo allora che ci rendiamo conto che durante tutto il processo avevamo fatto affidamento su alcune ipotesi di come sarebbe dovuta essere la persona che adesso abbiamo davanti. Per questo, le richieste che facciamo potrebbero essere definite come “valide per la maggior parte dei casi” e la caratteristica che attribuiamo all’individuo potremmo intenderla come se fosse un’attribuzione a posteriori fatta solo virtualmente, una qualificazione “a grandi linee”, un’identità sociale virtuale. La categoria e gli attribuiti che si potrebbero mostrare essere in suo possesso saranno definiti come sua identità sociale effettiva. Mentre l’estraneo è davanti a noi, può manifestarsi una qualche prova che questi possiede un attributo che lo rende diverso dagli altri membri di quella categoria di persone alla quale lo si ascriverebbe, un attributo poco desiderabile e tale da renderlo una persona cattiva o pericolosa o debole. Nella nostra mente, viene così degradato da persona integra e regolare a persona corrotta, screditata. Tale attributo è uno stigma soprattutto quando produce un discredito; talvolta viene definito una mancanza, un handicap, una limitazione. Esso forma un divario tra identità sociale virtuale e identità sociale effettiva. Tra identità sociale virtuale e identità sociale effettiva ci sono altri tipi di discordanze, per esempio quella che ci spinge a ricollocare una persona da una categoria socialmente ipotizzata in un’altra, appropriatamente ipotizzabile, ma disegno diverso; o quel tipo di discordanza che ci spinge a modificare in senso positivo la nostra valutazione di un individuo. Si consideri che quanto detto non vale per tutti gli attributi indesiderabili, ma solo per quelli che contrastano con il nostro stereotipo di come un certo tipo di individuo dovrebbe essere. Il termine stigma sarà impiegato per riferirci a un attributo che è discreditante, ma va tenuto presente che ciò che conta è il linguaggio delle relazioni, non quello degli attributi. Un attributo che stigmatizzi un tipo di portatore può confermare la regolarità di un altro, e dunque, in quanto tale, non è in sé né screditante, né meritorio. Per esempio, in America alcuni lavori spingono il lavoratore che non ha la formazione universitaria che socialmente ci si aspetterebbe per quella mansione a nascondere questo fatto; altri lavori possono portare i pochi lavoratori che hanno un’istruzione di livello superiore a nasconderlo, per paura di essere considerati dei falliti o degli esclusi. Analogamente, un ragazzo di classe media non si fa scrupolo di esser visto andare in una biblioteca, mentre un criminale di professione scrive: 10 “Ricordo, ad esempio, che in passato in più di un’occasione sono andato alla biblioteca pubblica vicino alla zona dove abitavo. Prima di entrare mi guardavo alle spalle un paio di volte per essere sicuro che nessuno di mia conoscenza fosse nei paraggi e mi vedesse entrare”. Così, anche un individuo che desideri combattere per il proprio Paese può nascondere un difetto fisico, per timore che venga screditata la sua condizione fisica dichiarata; poi, lo stesso individuo, deciso a lasciare l’esercito, può riuscire a farsi mandare all’ospedale militare, dove verrebbe screditato se invece si scoprisse che non ha davvero una grave malattia. Uno stigma è in realtà un tipo di rapporto tra attributo e stereotipo. Tuttavia, non ritengo che si debba continuare a definirlo così, anche perché ci sono importanti attributi che, quasi ovunque nella nostra società, sono screditanti. Il termine stigma e i suoi sinonimi nascondono una duplice prospettiva: l’individuo stigmatizzato presuppone che la sua diversità sia già riconosciuta o a prima vista evidente, oppure presuppone che non sia conosciuta dai presenti né percepibile? Nel primo caso si ha a che fare con la difficile condizione dello screditamento, nel secondo con quella dello screditabile. Questa è una differenza importante, anche se è probabile che un individuo stigmatizzato abbia esperienza di entrambe le situazioni. Comincerò con la condizione dello screditato, per passare poi a quella dello screditabile, ma non sempre le terrò separate. Si possono citare tre tipi di stigma molto diversi. In primis ci sono gli abomini del corpo, le deformazioni fisiche. Poi ci sono i difetti del carattere dell’individuo, percepiti come debolezza di volontà, passioni sfrenate, credenze pericolose e inflessibili, disonestà, che vengono dedotti dalla conoscenza di un’attestazione o documentazione relativa, per esempio, a patologie mentali, condanne penali, uso di stupefacenti, alcolismo, omosessualità, disoccupazione, tentativi di suicidio e radicalismo politico. Infine ci sono gli stigmi tribali della razza, della nazione e della religione, che possono essere trasmessi attraverso la discendenza e che contaminano allo stesso modo tutti i membri di una famiglia. In ogni caso, in tutti questi esempi di stigma, compresi quelli che avevano in mente i greci, troviamo le stesse caratteristiche sociologiche: un individuo, che facilmente avrebbe potuto essere accettato in una normale interazione sociale, possiede un tratto che si può imporre all’attenzione e far allontanare chi di noi lo incontra rovinando il credito che gli altri suoi attributi ci spingerebbero a riconoscergli. Ho uno stigma, una diversità non desiderata rispetto a quanto ci aspettavamo. Chiamerò normali noi e coloro che non si discostano per qualche caratteristica negativa dalle aspettative che, nel caso specifico, abbiamo verso di loro. Gli atteggiamenti che noi normali assumiamo nei confronti di una persona con uno stigma, e il modo in cui la trattiamo, sono noti, perché sono queste reazioni che l’azione sociale benevola mira ad attenuare e a rendere migliori. Ovviamente, per definizione, noi normali riteniamo che una persona con uno stigma non sia del tutto umana. Partendo da questa premessa mettiamo in atto una varietà di discriminazioni, grazie alle quali di fatto gli riduciamo le possibilità di vita. elaboriamo una teoria dello stigma, una ideologia per spiegare la sua inferiorità e dare conto del pericolo che essa rappresenta, talvolta razionalizzando un risentimento fondato su altre differenze, come quelle di classe sociale. Nelle nostre conversazioni quotidiane usiamo termini stigmatizzanti, come storpio, bastardo, ritardato, che diventano fonte di metafore e immagini, di solito senza pensare al significato originario. Tendiamo ad attribuire una vasta gamma di imperfezioni sulla base di quella originaria e a imputare alcuni attributi desiderabili ma non desiderati come il “sesto senso” o l’”intuizione”: “Alcuni possono avere qualche esitazione nel toccare o nel giudicare una persona non vedente, mentre per altri la percezione dell’incapacità di vedere può venire generalizzata in un’idea astratta di disabilità, così alcuni alzano la voce con i ciechi come se fossero sordi o tentato di sollevarli come se fossero paralitici. Chi si trova a interagire con un cieco può rivelare una vasta gamma di credenze radicate nello stereotipo. Per esempio può penare di essere esposto a un giudizio alquanto insolito perché presuppone che il cieco attinga informazioni da particolari canali non accessibili agli altri”. Inoltre, potremmo percepire la sua reazione difensiva rispetto alla propria condizione come diretta espressione del suo difetto e considerare quindi sia il difetto che la reazione come un giusto castigo per qualcosa che lui, i suoi genitori o tribù hanno fatto; da questo ricavare una giustificazione del modo in cui noi lo trattiamo. E ora passiamo dal normale alla persona rispetto alla quale questi risulta normale. È una 11 verità generalmente accettata che i membri di una categoria sociale possano sostenere con convinzione un criterio di giudizio che, per loro e per altri, non possa esser fatto valere per la propria condizione. Così, l’uomo d’affari può esigere un comportamento femminile dalle donne o un comportamento ascetico dai monaci, e non considerare se stesso come tenuto a mettere in atto l’una o l’altra di queste condotte. La differenza sta nel mettere in pratica una norma o sostenerla. Il problema dello stigma non nasce qui, ma solo dove esiste un’aspettativa diffusa che chi appartiene a una certa categoria non debba solo sostenere una data norma, ma anche applicarla. Inoltre, un individuo potrebbe non essere all’altezza di ciò che effettivamente ci aspettiamo da lui, e tuttavia non sentirsi toccato da questa mancanza; isolato nella propria emarginazione, protetto dalle sue credenze identitarie, egli si considera un essere umano normale e ritiene che siamo noi a non essere del tutto umani. Porta uno stigma, ma non sembra esserne toccato. Questa possibilità è messa in risalto nei tipici racconti sui mennoniti, gli zingari, i malfattori incalliti e gli ebrei ultra-ortodossi. Ciò detto, sembra che oggi in USA le norme di buona reputazione differenziate per gruppi sociali siano in declino. L’individuo stigmatizzato tende ad avere le nostre stesse credenze sull’identità; questo è un fatto fondamentale. Le sue convinzioni riguardo a ciò che egli è possono essere il suo senso di essere una “persona normale”, un essere umano come tutti, una persona, dunque, che merita le stesse opportunità e gli stessi diritti. Tuttavia, egli può sentire che, indipendentemente da quello che dichiarano, gli altri non lo “accettino” davvero e non siano disposti ad avere rapporti con lui su di un piano di “parità”. Inoltre, gli orientamenti che ha interiorizzato come membro della società lo rendono intimamente consapevole di ciò che gli altri vedono come una sua mancanza, e inevitabilmente lo portano, anche se solo in qualche momento. a riconoscere, non a torto, di non essere all’altezza di ciò che egli realmente dovrebbe essere. La vergogna diventa una possibilità determinante: deriva dalla percezione di qualche attributo dell’individuo come una cosa umiliante, un attributo di cui si può immaginare privo. È probabile che sia la presenza dei normali a rafforzare la frattura tra ciò che richiede al suo sé e il suo self, ma in realtà, l’odio e il disprezzo di sé possono manifestarsi anche quando si trova solo, davanti a uno specchi: “Quando finalmente mi alzai […] e imparai di nuovo a camminare, un giorno presi uno specchio e cominciai a guardarmi. Ero solo. Non volevo che nessuno […] sapesse come mi sentivo nel vedermi per la prima volta. Non feci alcun rumore; non urlai di stupore; non gridai di rabbia quando mi vidi. Mi sentivo soltanto come bloccato. Quella persona nello specchio non potevo essere io. Dentro di me mi sentivo come una persona sana, normale, fortunata – per niente simile a quella nello specchio. Ma quando rivolsi il volto verso lo specchio c’erano i miei occhi che mi guardavano a loro volta accesi di vergogna […]. Non piansi, né emisi alcun suolo, e mi divenne impossibile parlarne con qualcuno, e la confusione e il panico causati dalla mia scoperta da allora rimasero bloccati dentro di me e per molto tempo ancora lì dovetti affrontare da solo”. “Molte volte ho dimenticato quello che avevo visto nello specchio: non riusciva a entrare nell’intimo della mia mente e a diventare parte integrante di me. Sentivo come se non avesse nulla a che fare con me; era solo un travestimento. Non però quei travestimenti che si indossano volontariamente e con i quali si cerca di confondere gli altri sulla propria identità. Quel travestimento mi era stato imposto senza il mio consenso, senza esserne consapevole, come nelle favole, e il primo non avere un’idea chiara della mia identità, ero io stesso. Guardai nello specchio e fui terrorizzato perché non mi riconobbi. Nella posizione in cui mi trovavo, in preda a quell’ostinata euforia immaginaria di essere una persona fortunata per la quale tutto era possibile, vedevo un estraneo, una piccola, pietosa, mostruosa figura e un viso che, mentre lo fisavo, diventava doloroso e rosso di vergogna. Era là, proprio là, ed era reale. Ogni incontro con me stesse era una mazzata. Mi lasciava ogni volta stordito, ammutolito e frastornato, finché lentamente e cocciutamente la mia ostinata illusione di benessere e di bellezza si diffondeva di nuovo in me, dimenticavo quella realtà lontana e tornavo a essere del tutto impreparato e vulnerabile” Possiamo stabilire la caratteristica principale della situazione in cui viene a trovarsi, nella vita, l’individuo stigmatizzato. Si tratta di quella che spesso viene chiamata “accettazione”. Coloro che hanno contatti con lui smettono di accordargli quella stima e quella considerazione che gli avevano concesso in base ai tratti non compromessi della sua identità sociale, e che lui si aspettava di ricevere; lui fa eco a questo diniego considerando che alcuni dei suoi attributi lo giustificano. Come risponde lo stigmatizzato a questa 12 noi normali lo identificheremo e lo accoglieremo. Ecco, per esempio, cosa scrive uno studioso di disabilità fisiche: “Per le persone disabili l’incertezza del proprio status prevale in un’apia gamma di interazioni sociali oltre a quelle relative all’occupazione. Finché non avviene il contatto, i ciechi, i malati, i sordi, i paralitici non possono mai essere sicuri se l’atteggiamento del nuovo conoscente sarà di rifiuto o di accettazione. È la stessa posizione in cui si trova l’adolescente, in nero dalla pelle chiara, l’immigrato di seconda generazione, la persona che ha cambiato classe sociale di appartenenza e la donna che svolge un lavoro in un settore a netta predominanza maschile”. Questa incertezza nasce non solo dal fatto che lo stigmatizzato non sa in quale delle diverse categorie sarà collocato, ma anche dal fatto che sa che gli altri, nel loro intimo, potrebbero definirlo in base al suo stigma: “E lo avverto sempre con le persone normali . ogni volta che sono gentili e affabili con me, ogni volta, davvero, sotto sotto mi giudicano come criminale e nient’altro. È troppo tardi per essere diverso da quello che sono, ma ancora lo sento, e molto chiaramente, che questo è il loro atteggiamento e che sono incapaci di accettarmi come qualcos’altro”. Così lo stigmatizzato ha la sensazione di non sapere cosa gli altri stiano pensando “davvero” di lui. Inoltre, durante i contatti misti, può darsi che lo stigmatizzato si senza “sotto i riflettori”, che sia imbarazzato e calcoli l’impressione che sta suscitando con un’intensità e in una varietà di comportamenti che pensa non siano richieste agli altri. Per di più, è probabile che abbia la sensazione che gli schemi abituali di interpretazione degli eventi quotidiani siano compromessi. Crede che i suoi piccoli successo possano essere giudicati come segni di notevoli capacità e degni di nota. Un criminale di professione ne dà un esempio: “Sai, è davvero sorprendente vederti leggere libri come questo, sono sbalordito, davvero. Avrei pensato che leggessi libri gialli, horror, libri così. E invece, eccoti con Claud Cockburn, Hugh Klare, Simone de Beauvoir e Lawrence Durrell! Lo sai, non l’ha vita affatto come un’osservazione offensiva. Anzi, credo proprio che parlasse onestamente quando mi disse di essersi sbagliato. Questo è proprio il tipo di comportamento paternalistico che si riceve dalle persone normali, se sei un criminale. “Fantastico – dicono -, in qualche modo sei proprio un essere umano!”. Non sto scherzando, quando dicono così mi viene voglia di strozzarli!”. Un cieco offre un altro esempio: “I suoi gesti una volta normali – camminare per strada, prendere i piselli dal piatto, accendersi una sigaretta – non lo sono più. È diventato una persona strana. Se compie quei gesti con eleganza e sicurezza suscita lo stesso genere di meraviglia che ispira un prestigiatore quando tira fuori i conigli dal cappello”. Al contempo lo stigmatizzato crede che alcune sue piccole manchevolezze o trascuratezze possano essere interpretate come espressione diretta della sua diversità stigmatizzata. Ex pazienti psichiatrici a volte hanno paura a farsi coinvolgere in una discussione animata con la moglie o con il datore di lavoro per paura che uno scatto emotivo possa essere interpretato come segno di qualcos’altro. Lo stesso problema devono affrontare le persone con problemi mentali. Accade che, se una persona con un basso QI dimostra un qualche tipo di problema, la difficoltà viene attribuita più o meno automaticamente al “difetto mentale”, mentre se una persona di “intelligenza normale” si trova in una simile difficoltà, questa non viene considerata come sintomo di nulla di particolare. Altri esempi sono dati da una ragazza con una gamba sola, che così ricorda la sua esperienza sportiva: “Ogni volta che cadevo, veniva fuori uno sciame di donne agitate e starnazzanti come un branco di galline allo sbando. Voleva essere una gentilezza da parte loro, e, ripensandoci, oggi apprezzo la loro sollecitudine, ma in quel momento provavo risentimento ed ero profondamente imbarazzata per la loro intromissione. Perché non pensavano nemmeno per un istante che la mia caduta dai pattini potesse essere dovuta a un normale rischio del pattinaggio, come urtare contro un bastone o una pietra. Davano per scontato che io fossi caduta perché ero una povera zoppa indifesa”. Nessuno di loro gridava con rabbia: “è stato quel cavallo imbizzarrito a buttarla per terra!” – cosa che, Dio lo perdoni, era poi la verità. Era come rivivere orribilmente i vecchi tempi in cui pattinavo, tutta quella gente brava a lamentarsi in coro: “Quella poverina, quella povera ragazza è caduta!”. 15 Quando il difetto dello stigmatizzato può esser percepito semplicemente orientando la nostra attenzione verso di lui è probabile che senta che la sua presenza tra i normali lo espone a una violazione della sua intimità, esperienza ancora più dolorosa, forse, quando sono i bambini che si fermano per guardarlo. L’imbarazzo di sentirsi esposto può essere acuito dalle conversazioni che gli estranei possono iniziare con lui, e nelle quali loro manifestano quella curiosità sulla sua condizione che lui trova morbosa, o quando gli offrono un aiuto che non vuole o di cui non ha bisogno si può aggiungere che in queste conversazioni si fa spesso uso di formule classiche come: “Mia cara ragazza, come avete preso questo quiggle?”; “Un mio prozio aveva un quiggle, per cui penso di sapere tutto sul tuo problema”; “Sai, ho sempre detto che i quiggle sono bravi padri di famiglia e generosi verso chi ha bisogno”; “Dimmi, come fate a fare il bagno con quel quiggle”. Il presupposto implicito di questi approcci è che lo stigmatizzato è una persona alla quale gli estranei possono rivolgere la parola quando vogliono, purché dimostrino comprensione per le sofferenze delle persone del suo tipo. Prevedendo ciò che gli toccherà affrontare quando viene a trovarsi in situazioni sociali miste, è possibile che reagisca anticipatamente chiudendosi in se stesso, per proteggersi. Questa reazione è descritta da uno studio su alcuni disoccupati tedeschi durante la Depressione. Le parole sono quelle di un muratore di 42 anni: “Quanto è duro e umiliante essere chiamato disoccupato! Quando esco, tengo gli occhi bassi perché mi sento inferiore. Quando vado per strada, mi sento inferiore e mi sembra che tutti mi indichino a dito. Istintivamente evito di incontrare gente. Le vecchie conoscenze e gli amici dei tempi migliori non sono più così cordiali nei miei confronti. Mi trattano con indifferenza, quando ci incontriamo. Non mi offrono più una sigaretta e i loro occhi sembrano dire: “Non ne sei degno, perché non lavori””. Una ragazza storpia offre un’analisi esemplare: “Quando […] cominciai a camminare da sola per le strade della città […] mi resi conto che ogni volta che passavo su marciapiede davanti a un gruppetto di tre o quattro bambini, mi gridavano dietro […] a volte mi rincorrevano, urlando e prendendomi in giro. Non sapevo come affrontare questa cosa, mi sembrava di non esserne assolutamente capace […]. Per un certo periodo, questi incontri per strada, con qualunque bambino che non conoscevo, mi gelavano dalla paura […]. Un giorno, mi resi improvvisamente conto che ero diventata così insicura e impaurita di fronte a ogni bambino sconosciuto che, come gli animali, loro si accorgevano che avevo paura e anche il più mite e amabile di loro veniva istintivamente spinto a deridermi proprio per quel mio arretrare e per quella mia paura”. Invece di chiudersi in se stesso per la paura, lo stigmatizzato può cercare di affrontare questi rapporti misti con ostilità provocatoria, ma così rischia di indure negli altri reazioni altrettanto spiacevoli. Si può aggiungere che lo stigmatizzato talvolta oscilla tra la sottomissione e la spavalderia, passando dall’una all’altra e rivelando un comportamento in cui l’ordinaria interazione faccia a faccia può finire fuori controllo. Sostengo che l’individuo stigmatizzato avrà motivi particolari per ritenere che le situazioni sociali miste favoriscono un’interazione disancorata e ansiosa. Ma se le cose stanno così, allora possiamo presumere che anche noi normali troviamo queste situazioni destabilizzanti. Potremmo avvertire che la persona stigmatizzata è troppo aggressiva o troppo imbarazzata e troppo propensa ad attribuire significati non voluti alle nostre azioni. Noi stessi possiamo sentire che se ci mostriamo interessati e comprensivi per la sua condizione possiamo rischiare di andare sopra le righe; tuttavia, se tralasciamo di considerare che ha una carenza, potremmo facilmente pretendere da lui cose impossibili e ferire inconsapevolmente tutti quelli che soffrono come lui. Quando siamo con lui, ogni potenziale fonte di disagio nei suoi confronti può diventare qualcosa di cui sentiamo che lui è consapevole, consapevole che noi ne siamo consapevoli, e consapevole del nostro essere a conoscenza della sua consapevolezza; la situazione è quella della regressione all’infinito della considerazione reciproca, della quale la psicologia sociale di Mead ci dice come inizia, ma non come finisce. Considerando gli elementi che gli stigmatizzati e i normali introducono nelle situazioni sociali miste, è comprensibile che non tutto procederà senza intoppi. È probabile che cercheremo di proseguire come se in realtà lui, lo stigmatizzato, corrispondesse pienamente a uno dei tipi di persone che normalmente si trovano in quella situazione, anche se questo significa considerarlo migliore di quanto 16 lo riteniamo noi, o peggiore di quanto pensiamo che probabilmente è. Se nessuna di queste vie è possibile, possiamo cercare di agire come se fosse una “non persona” e non come qualcuno cui si deve l’attenzione rituale. A sua volta, può darsi che lui adotti queste strategie. Di conseguenza, l’attenzione viene deviata dai destinatari stabili, e sopravvive l’imbarazzo, per se stessi e anche per l’imbarazzo che l’altro prova nei nostri confronti, che si esprime in quella patologia dell’interazione che è il “sentirsi a disagio”. Questa dinamica è descritta nel caso degli invalidi fisici: “Sia che la reazione all’handicap sia esplicita e brusca, o, come è più frequente, non vi si faccia esplicito riferimento, la presenza sullo sfondo di una consapevolezza più acuta, concentrata, fa sì che l’interazione si sviluppi troppo limitatamente nei termini dell’handicap. Questo, come hanno spiegato i miei informatori, è di solito accompagnato da uno o più dei noti segni del disagio e della riluttanza: la reticenza nel riferire le fonti, le parole di uso quotidiano improvvisamente diventate dei tabù, lo sguardo fisso altrove, un’artificiosa leggerezza, la loquacità compulsiva, la inopportuna solennità”. Nelle situazioni sociali con un individuo il cui stigma è noto o percepito, è probabile che si facciano categorizzazioni non appropriate, e che quindi sia noi che lui possiamo sentirci a disagio. Certo, da questo punto di partenza spesso si sviluppano importanti variazioni, e poiché probabilmente lo stigmatizzato si trova più spesso di noi a dover fronteggiare queste situazioni, è facile che egli diventi più abile di noi nella loro gestione. - I suoi e i saggi Può esserci una discrepanza tra l’identità virtuale e l’identità effettiva di un individuo. Quando è conosciuta o è evidente, questa discrepanza finisce col danneggiare l’identità di quell’individuo; ha l’effetto di tagliarlo fuori dalla società e da se stesso e di renderlo una persona screditata, che si trova ad affrontare un mondo che non lo accetta. In alcuni casi, come chi nasce senza naso, può darsi che debba vivere con la consapevolezza di essere l’unico con questa particolarità e che tutto il mondo è contro di lui. Nella maggior parte dei casi questo individuo scoprirà l’esistenza di persone comprensive nei suoi confronti, che sono disponibili ad assumere il suo punto di vista sul mondo e a condividere con lui il sentimento che lui è umano e “essenzialmente” normale, nonostante le apparenze e i dubbi che ha su se stesso. Prendiamo in considerazione due di queste categorie di persone. Il primo gruppo di persone comprensive è composto da coloro che hanno il suo stesso stigma. Sapendo per esperienza diretta cosa significa avere quel particolare stigma, alcuni di loro possono insegnargli i trucchi del mestiere e farlo sentire sostenuto da una cerchia di persone dalle quali può ricevere supporto morale e accoglienza, possono farlo sentire a proprio agio, accettato come una persona che davvero è come qualunque altra. Uno studio sugli analfabeti è esemplare: “Tra queste persone, l’esistenza di un diverso sistema di valori è confermata dalla comunanza di comportamento che si nota quando gli analfabeti interagiscono tra di loro. Non solo si trasformano da individui inespressivi e confusi, come spesso appaiono nella società in generale, in persone espressive e comprensive all’interno del proprio gruppo, ma si esprimono anche in termini istituzionali. Condividono un universo di risposte, plasmano e riconoscono simboli di prestigio e di discredito; valutano situazioni pertinenti in termini delle loro norme e del loro linguaggio; e nelle relazioni che hanno tra loro cade la maschera di adattamento accomodante”. Ecco un altro esempio relativo a una persona con problemi di udito: “Ricordo quanto fosse rilassante, alla Nitchie School, essere con persone che consideravano come una cosa normale avere problemi di udito. Allora desideravo conoscere persone che consideravano del tutto normale l’uso di apparecchi acustici. Come sarebbe riposante regolarmi il volume del trasmettitore senza dovermi preoccupare di esser visto. Smettere di dover pensare, per un po’, se dietro il collo mi si vede il filo. Che lusso poter dire ad alta voce a qualcuno, “Accidenti, la mia batteria è scarica!”” Trai suoi simili, l’individuo stigmatizzato può organizzare la propria vita intorno al suo difetto, ma per farlo deve rassegnarsi a vivere in un mondo parziale. Qui egli può sviluppare al massimo la sua storia, della vita 17 probabilmente non sarebbero cresciuti con il cotone nelle orecchie. Il giovedì pomeriggio frequentavo i corsi di lettura labiale per adulti, e dopo tutti insieme giocavamo a carte e prendevamo il tè. Ogni venerdì lavoravo al Bollettino. Il sabato facevo panini con uovo sodo e insalata e preparavo la cioccolata calda. Una volta al mese partecipavo alla riunione del gruppo ausiliario femminile, un gruppo di volontariato fonato nel 1921 dalla signora Wendell Phillips e da altre mogli di otologi interessate a raccogliere fondi, fare proseliti e rappresentare la Lega nella vita sociale. Preparavo i dolcetti di Halloween per i bambini di sei anni e aiutavo a servire la cena del Giorno del Ringraziamento agli anziani. Scrivevo le circolari natalizie con richieste di contributi, aiutavo a scrivere gli indirizzi e ad attaccare i francobolli. Ho appeso le nuove tende e aggiustato il vecchio tavolo da ping-pong; accompagnavo i ragazzi e le ragazze al ballo di San Valentino e tenevo una bancarella alla fiera di beneficienza di Pasqua”. Si potrebbe aggiungere che una volta che una persona con un determinato stigma raggiunge un’alta posizione professionale, politica o finanziaria è probabile che le si apra una nuova carriera, quella di rappresentare la propria categoria di stigmatizzati. Si rende conto di essere così impotente da non poter impedire di essere presentata dai suoi come un loro modello. Su questa specie di professionalizzazione si fanno a volte due osservazioni. In primis, nel far del proprio stigma una professione, i leader della categoria devono avere contatti con rappresentati di altre categorie, e finiscono col rompere il circolo chiuso della categoria. Invece di appoggiarsi alla stampella, arrivano a servirsene come mazza da golf, cessano in termini di partecipazione sociale, di essere rappresentativi dalle persone che rappresentano. In secondo luogo, coloro che professionalmente presentano il punto di vista della loro categoria possono mostrare alcuni pregiudizi radicali per la semplice ragione che sono troppo coinvolti nel problema per poterne scrivere. Sebbene qualsiasi categoria di stigma possa disporre di esperti che esprimono orientamenti diversi e possa anche promuovere pubblicazioni che sostengono programmi diversi, c’è un tacito accordo sul fatto che la situazione dell’individuo con questo stigma sia degna di attenzione. Che uno scrittore prenda uno stigma seriamente o gli dia poca importanza, deve definirlo come qualcosa di cui vale la pena scrivere. Questo accordo minimo, anche quando non ce ne sono altri, contribuisce a consolidare la credenza nello stigma come fondamento per un’idea di sé. Anche qui la rappresentanza difficilmente può venire da chi non riflette sul proprio stigma, o che non ha la preparazione necessaria. Con questo, non voglio sostenere che gli esperti sono per lo stigmatizzato l’unico strumento pubblico che hanno per ricordare la loro condizione di vita; ce ne sono altri che svolgono questo compito. Ogni volta che qualcuno con uno stigma particolare sale alla ribalta per aver violato la legge, vinto un premio o essere diventato il primo del suo genere in qualcosa, nella comunità locale diventa oggetto di pettegolezzi; ed eventi simili possono trovare spazio nei media, anche oltre il livello locale. In ogni caso, chi ha lo stesso stigma della persona assurta alla notorietà diventa più avvicinabile dalle persone normali del loro ambiente e anche oggetti di un piccolo trasferimento di credito/discredito. La loro situazione li porta a vivere in un mondo di eroi e di cattivi della loro specie che godono di una vasta pubblicità e la loro relazione con questo mondo è mantenuta dalle persone loro vicine, siano esse normali o stigmatizzate, che li tengono informati sulle vicende di questo o di quello dei loro simili. Ho considerato un insieme di persone dalle quali lo stigmatizzato si può aspettare qualche sostegno: coloro che condividono il suo stesso stigma e in virtù del quale sono definite e si definiscono come la sua stessa specie. Il secondo insieme è composto dai “saggi”, da quelle persone che sono normali e la cui condizione particolare li ha resi comprensivi e consapevoli della vita segreta dell’individuo stigmatizzato, persone che in qualche modo sono accettate dal gruppo e ne diventano membri onorari. I saggi sono i marginali, di fronte ai quali lo stigmatizzato non sente vergogna né esercita autocontrollo, sapendo che, malgrado quella sua manchevolezza, sarà considerato come una qualsiasi persona normale. Un esempio ci viene dal mondo delle prostitute. “Sebbene si faccia beffe della rispettabilità, la prostituta, e in particolare la ragazza-squillo, si rivela ipersensibile quando si trova in società, rifugiandosi nelle sue ore libere presso artisti bohémien, scrittori, attori e aspiranti intellettuali. In quell’ambiente può essere accettata come una personalità anticonformista, senza per questo essere vista come una stranezza”. 20 Prima di assumere il punto di vista delle persone con un particolare stigma, il nomale che sta diventando saggio può dover passare da un’esperienza personale di trasformazione interiore, di cui esistono molte testimonianze letterarie. E dopo che il normale empatico si è reso disponibile allo stigmatizzato, spesso deve aspettare di esser riconosciuto come membro onorario della categoria. Il self non deve essere solo offerto, ma anche accettato. Talvolta sembra che l’ultimo passo venga fatto dalla persona normale: “Non so se posso o no, ma lasciate che vi racconti un episodio. Una volta sono stato accettato in un gruppo di ragazzi neri che avevano più o meno la mia età, con i quali andavo a pescare. Quando ho iniziato a unirmi a loro, in mia presenza usavano il termine “negro” con molta cautela. A poco a poco, con l’andare a pescare sempre più spesso, cominciarono a scherzare tra loro, davanti a me, e a chiamarsi “negro”. Il vero cambiamento consisteva nell’uso scherzoso della parola “negro” dopo che, in precedenza, l’avevano bandita. Un giorno, mentre stavamo nuotando, un ragazzo, scherzando, mi dette una forte spinta e io gli dissi: “Non fare il negro con me!”. “Bastardo!” rispose, facendomi un grande sorriso. Da quel momento tutti potemmo usare la parola “negro”, ma le vecchie categorie erano completamente cambiate. Finché vivo, non dimenticherò mai la reazione allo stomaco dopo che cominciai a servirmi della parola “negro” senza più alcuna riserva”. Un tipo di saggio è colui la cui “saggezza” deriva dal lavorare in una struttura che si occupa dei bisogni di chi ha uno stigma particolare, o dei provvedimenti che la società prende in loro favore. Per esempio, infermieri e fisioterapisti possono essere saggi; possono arrivare a saperne di più, su un certo tipo di protesi, del paziente che deve imparare a servirsene in modo da ridurre gli effetti della propria menomazione. Spesso sono saggi i commessi non ebrei delle gastronomie ebraiche, i baristi eterosessuali nei bar gay, le cameriere delle prostitute d’alto bordo del quartiere di Mayfair. I poliziotti, avendo sempre a che fare con i criminali, possono diventare saggi nei loro confronti, al punto da far dire a un delinquente di professione che, “oltre agli altri criminali, i poliziotti sono gli unici che ti accettano per quello che sei”. Un secondo tipo di saggio è chi è in contatto con lo stigmatizzato attraverso la struttura sociale, un tipo di relazione che induce la società a trattare entrambi gli individui come un’unica persona. Così, la solerte moglie del paziente psichiatrico, la figlia dell’ex detenuto, il genitore dello storpio, l’amico del cieco, i familiari del boia, sono tutti costretti a condividere parte del discredito dello stigmatizzato. Si potrebbe dire che chi acquisisce un certo grado di stigma in questo modo può avere legami che a loro volta sono contaminati da un certo disagio di secondo grado. I problemi che le persone stigmatizzate devono affrontare si espandono come i cerchi nell’acqua, con intensità via via minore. La rubrica della posta dei lettori di un quotidiano ne dà un esempio: “Cara Ann Landers, sono una ragazza di dodici anni, esclusa da qualunque vita sociale perché mio padre è un ex detenuto. Cerco di essere gentile e cordiale con tutti, ma non serve a nulla. Le mie compagne di scuola mi hanno detto che le loro madri non vogliono che mi frequentino, perché questo danneggerebbe la loro reputazione. I giornali hanno dato una cattiva fama a mio padre e, sebbene abbia ormai scontato la pena, nessuno lo dimenticherà. Cosa possa fare? Sono molto triste, non è certo divertente stare sempre da sola. Mia madre cerca di portarmi fuori con lei, ma io voglio stare con gente della mia età. Per favore dammi un consiglio. – UN’EMARGINATA”. In generale, la tendenza di uno stigma a diffondersi dallo stigmatizzato alle persone che sono in stretta relazione con lui spiega perché queste relazioni tendono a esser evitate o, dove esistono, interrotte. Le persone con uno stigma onorario offrono un modello di “normalizzazione”, dimostrando fino a che punto i normali possono arrivare nel trattare lo stigmatizzato come se questo non lo fosse. Inoltre, è possibile che si sviluppi un culto dello stigmatizzato, così la reazione stigmafobica del normale viene controbilanciata dalla stigmafilia del saggio. Chi ha uno stigma onorario può mettere a disagio tanto lo stigmatizzato quanto il normale. Con quel loro essere sempre pronti a portare un fardello che non è “veramente” il loro, mettono tutti gli altri di fronte al loro eccesso di moralità; e poiché considerano lo stigma come un attributo neutro, da affrontare con disinvoltura, espongono se stessi e lo stigmatizzato ai malintesi delle persone normali che possono trovare offensivi certi loro modi di comportarsi. Il rapporto tra lo stigmatizzato e il suo “sostituto” 21 può non esser facile. Il primo può sentire che in qualunque momento è possibile una regressione allo stereotipo, specialmente quando le sue difese sono abbassate e la sua dipendenza più accentuata. Così una prostituta: “Ebbene, vorrei vedere cosa potrebbe succedere. Gli ho spiegato che se fossimo sposati e avessimo un litigio, lui me lo rinfaccerebbe. Lui mi ha risposto che non lo farebbe, ma gli uomini sono fatti così”. D’altra parte, l’individuo con stigma onorario può scoprire di dover subire molte delle privazioni tipiche del suo gruppo d’adozione e di non essere in grado di godere di quel senso di dignità di sé che è la tipica difesa in situazioni simili. Inoltre, e in modo simile a come si sente lo stigmatizzato nei suoi confronti, può dubitare di essere davvero “accettato” dal suo gruppo d’adozione. - La carriera morale Le persone con un particolare stigma tendono ad avere simili esperienze di apprendimento per quel che riguarda la loro condizione, e cambiamenti simili nella concezione del sé, una “carriera morale” simile, che è insieme causa ed effetto dell’impegno a sviluppare in sequenze simili le fasi dell’adattamento. Una fase di questo processo di socializzazione è quella con la quale lo stigmatizzato apprende e interiorizza il punto di vista dei normali, facendo proprio le credenze sull’identità presenti nella società nel suo insieme e un’idea generale di cosa implicherebbe possedere un determinato stigma. Un’altra fase è quella attraverso la quale lo stigmatizzato apprende di essere in possesso di uno stigma e, questa volta in modo dettagliato, quali ne possono essere le conseguenze. Le scansioni temporali e l’interdipendenza di queste due fasi iniziali della carriera morale sono dei modelli fondamentali su cui si basano gli sviluppi successivi. Inoltre, questi modelli danno uno strumento per differenziare le carriere morali che si aprono allo stigmatizzato. Si possono distinguere quattro modelli fondamentali. Il primo comprende chi nasce con uno stigma ed è socializzato nella propria condizione svantaggiosa, compresa la fase nella quale apprende e interiorizza quegli standard di normalità che non riesce a soddisfare. Un orfano apprende che è normale e naturale che i bambini abbiano i genitori, anche quando si rende conto di cosa significa non averli. Dopo aver passato i primi 16 anni della propria vita in orfanotrofio, può sentire di sapere istintivamente come poter essere un padre per il proprio figlio. Un secondo modello è determinato dalla capacità della famiglia e, dei vicini, di creare una capanna protettiva per il loro piccolo. All’interno di questa capanna, un bambino con uno stigma congenito può essere assecondato con il controllo dell’informazione. Si fa di tutto per impedire che qualsiasi definizione che possa umiliarlo entri nella capanna protettiva, mentre si consente ampio accesso a quelle concezioni diffuse nella società che orientano il bambino protetto a considerare se stesso come un normale essere umano, a tutti gli effetti, provvisto di una identità normale rispetto ad aspetti basilari come l’età e il sesso. Nella vita della persona protetta, il momento in cui la cerchia domestica non riesce più a proteggerla varia in relazione alla classe sociale di appartenenza, al luogo di residenza e al tipo di stigma; ma in ogni caso, quando si presenta, costituirà un’esperienza morale per lo stigmatizzato. Un’esperienza spesso citata di apprendimento sul proprio stigma è l’ingresso a scuola, un’esperienza a volte vissuta in modo brusco nei primi giorni, con prese in giro, provocazioni, ostracismo e liti. È interessante notare che quanto più grande è il grado di “deficit” del bambino, maggiore sarà la possibilità che venga iscritto a una scuola speciale per ragazzi della sua condizione, e più brusco sarà il confronto con l’idea che ha di lui il mondo esterno alla famiglia. Si sentirà dire che per lui le cose saranno più facili se sta tra “i suoi”, quelli che si trovano nelle sue condizioni, e così imparerà che quelli che pensava fossero “i suoi” non lo sono e che lo sono davvero questi “suoi” meno dotati, si dovrebbe aggiungere che, anche se lo stigmatizzato dalla nascita riesce ad attraversare i suoi primi anni di scuola conservando alcune delle sue illusioni, il momento della verità arriva per lui quando iniziano i rapporti con l’altro sesso o quando si mette a cercare lavoro. In alcuni casi, la possibilità di scoprirlo è accidentale. “Penso che la prima volta che mi sono resa conto della mia situazione e il mio primo grande dolore che ne ho provato siano avvenuti un giorno, in modo accidentale, quando ero andata con un gruppo di miei coetanei, sui quattordici- 22 con la comunità informale e le organizzazioni formali di persone nelle sue stesse condizioni è quindi di importanza cruciale. Questo rapporto segnerà una grande differenza tra coloro ai quali la diversità dà pochi elementi per un nuovo “noi” e chi, come i membri dei gruppi minoritari, si trova in una comunità organizzata con tradizioni radicate, che richiede lealtà ai propri membri e rivendica un certo livello di reddito, definendo chi ne fa parte come uno che dovrebbe sentirsi orgoglioso della propria malattia e non cercare di guarire. In ogni caso, che il gruppo stigmatizzato sia formalmente costruito o no, è in relazione a questo che si può individuare la storia naturale e la carriera morale dello stigmatizzato. Nel riesaminare la propria carriera morale, può darsi che l’individuo stigmatizzato evidenzi e rielabori retrospettivamente alcune esperienze che gli servono per spiegare le credenze e i modi di comportarsi che egli ora ha verso i suoi simili e normali. Un evento biografico può avere una duplice ripercussione sulla carriera morale: in primis, può essere una base oggettiva immediata per un vero e proprio punto di svolta e in seguito quell’evento può essere una risorsa per motivare un atteggiamento assunto nel presente. Un’esperienza spesso indicata per questo scopo è quella attraverso cui lo stigmatizzato recente si rende conto che i membri a pieno titolo del gruppo con cui ha a che fare sono poi in realtà simili a comuni esseri umani. “Quando io [una giovane ragazza che sta iniziando una vita dedita al vizio e incontra per la prima volta la sua maitresse] andai nella Quarta Strada, il coraggio mi mancò di nuovo e stavo per tornarmene indietro, ma giusto in quell’istante Mamie uscì da un ristorante dall’altra parte della strada e mi accolse con calore. Il custode, che aprì la porta in risposta al nostro squillo di campanello, ci disse che Miss Laura era nella sua stanza e ci condusse da lei. Vidi una donna magnifica, di mezz’età, che non somigliava affatto all’orribile creatura della mia immaginazione. Mi salutò con una voce soave e bell’accento. Tutto in lei parlava così eloquentemente delle sue potenzialità materne che istintivamente mi guardai intorno per vedere se c’erano i bambini che avrebbero dovuto attaccarsi alla sua gonna”. Un altro esempio è il racconto di un gay su come lo è diventato: “Ho incontrato un tale che era stato mio compagno di scuola. […] Era omosessuale, naturalmente, e dette per scontato che lo fossi anche io. Rimasi sorpreso e piuttosto impressionato. Non corrispondeva affatto all’idea che comunemente si ha di un omosessuale, perché era robusto, di aspetto virile e ben vestito. Per me una cosa del tutto nuova. Anche se ero perfettamente preparato ad ammettere l’esistenza dell’amore tra uomini, avevo sempre provato una certa repulsione verso gli omosessuali manifesti che avevo conosciuto, a causa della loro vanità, dei loro modi di affettarsi e di quel loro continuo chiacchierare. Ora, però, mi accorgevo che quelli erano solo una piccola parte del mondo omosessuale, anche se quella più evidente…”. Analoghe sono le osservazione di un paralitico: “Se dovessi scegliere un gruppo di esperienze che alla fine mi hanno convinto dell’importanza di questo problema [dell’immagine di sé] e della necessità per me di combattere le mie battaglie per affermare la mia identità, sceglierei tutti quegli episodi che mi hanno reso profondamente consapevole del fatto che i paralitici possono essere identificati con caratteristiche differenti da quelle della loro menomazione fisica. Arrivai a capire che i paralitici possono essere attraenti, affascinanti, brutti, amabili, stupidi, brillanti, come ogni altra persona; e ho scoperto che potevo amare o odiare un paralitico nonostante la sua menomazione”. Si può aggiungere che facendo attenzione alle occasioni passate nelle quali ho scoperto che le persone con il suo stesso stigma sono uomini come tutti gli altri, l’individuo può trovarsi a dover ricordare un’ulteriore circostanza: quando i suoi amici del periodo precedente allo stigma attribuivano caratteri non umani a coloro che egli considerava persone a tutti gli effetti, come se stesso. Così, nel ripensare alla propria esperienza come lavoratrice in un circo, una ragazza osserva che prima ha dovuto scoprire che i suoi colleghi non erano fenomeni da baraccone, e poi che i suoi amici del periodo precedente al suo ingresso nel circo erano preoccupati per lei nel vederla viaggiare su un pullman insieme agli altri membri della troupe. Un altro punto di svolta è un’esperienza di isolamento, inabilitante, spesso un periodo di ospedalizzazione, che in seguito verrà considerato come il momento in cui l’individuo ha avuto modo di riflettere sulla sua condizione, di esser consapevole di sé, di inquadrare la propria situazione, e di raggiungere una nuova comprensione di cosa è importante e vale la pena di cercare nella vita. si dovrebbe aggiungere che sono 25 considerate svolte decisive della vita non solo le esperienze personali, ma anche quelle che, in passato, furono rimosse. Per esempio, la lettura di opere riguardo il gruppo stigmatizzato può far provare un’esperienza sentita e rivendicata come ricostruttiva: “Non credo di esagerare affermando che “La capanna dello Zio Tom” descrive un panorama fedele e veritiero della schiavitù. Comunque sia, mi ha aperto gli occhi su chi e cosa ero e su come il mio Paese mi considerava. A dire il vero, mi ha permesso di orientarmi”. 26 CAPITOLO II CONTROLLO DELL’INFORMAZIONE E IDENTITÀ PERSONALE - Lo screditato e lo screditabile Quando c’è discrepanza tra l’identità sociale effettiva di un individuo e la sua identità virtuale, è possibile che il normale ne sia a conoscenza già prima di entrare in contatto con lui, o che gli sia evidente non appena lo vede. Si tratta in questo caso di uno screditato, ed è soprattutto di lui che abbiamo parlato. Come si è detto, è probabile che non riconosciamo in modo esplicito ciò che lo discredita, e mentre si sviluppa questo processo di voluta disattenzione, la situazione può farsi tesa, incerta e ambigua per tutti i partecipanti e soprattutto per lo stigmatizzato. Una possibilità importante nella vita di una persona stigmatizzata è di cooperare con i normali interagendo come se la sua conosciuta diversità fosse irrilevante e non meritevole di attenzione. In ogni caso, quando il suo essere diverso non risulta immediatamente apparente, e non sia noto, quando egli è una persona screditabile e non screditata, è allora che emerge la 2° tensione che si genera durante i contatti sociali, ma la gestione dell’informazione relativa al suo attributo screditante: mostrare o non mostrare, dire o non dire, far capire o non far capire, mentire o non mentire, e a chi, come, quando e dove. Per esempio, quando il paziente psichiatrico è all’ospedale e vanno a visitarlo i membri della sua famiglia, può venir trattato con tatto, come se fosse sano, quando ancora c’è qualche dubbio sulla sua malattia, anche se egli non ne ha; o può essere trattato come un folle anche se ritiene che non sia giusto. Ma per l’ex paziente psichiatrico il problema può essere abbastanza diverso: non si trova a dover fronteggiare un pregiudizio nei suoi confronti, ma a affrontare una ignara accettazione da parte di individui prevenuti proprio nei confronti di quella categoria di persone di cui lui potrebbe rivelare di far parte. Dovunque egli vada, il suo comportamento confermerà agli altri, in modo ingannevole, che si trovano in compagnia di una persona che corrisponde alle loro aspettative, una persona mentalmente integra come loro, aspettative che però loro possono scoprire essere false. Volutamente o di fatto l’ex paziente psichiatrico nascondo informazioni sulla sua vera identità sociale, ricevendo e accettando un trattamento basato su falsi assunti nei suoi confronti. È di questo secondo problema generale che si parla ora: del “passing”. Naturalmente esiste anche il fenomeni inverso, chi nasconde fatti meritevoli di elogio, ma in questo contesto non è pertinente. - L’informazione sociale Nello studio dello stigma, l’informazione di maggiore importanza ha alcune caratteristiche precise. Si tratta di un’informazione che riguarda un individuo e le sue caratteristiche più o meno stabili, in opposizione agli stati d’animo, ai sentimenti e alle intenzioni che egli può avere in un determinato momento. l’informazione è riflessa e iscritta nel corpo; cioè è trasmessa dalla presenza attraverso l’espressione corporea, nell’immediata presenza di coloro che la ricevono. Chiamerò qui “sociale” l’informazione che ha tutte queste caratteristiche. Alcuni segni che trasmettono l’informazione sociale sono spesso accessibili in modo continuativo, e vengono ricercati e ricevuto in modo abituale. Tali segni possono esser chiamati “simboli”. L’informazione sociale trasmessa attraverso un certo simbolo può confermare quello che altri segni dicono sull’individuo, completando l’immagine che abbiamo di lui in odo non problematico e ridondante. Esempi di ciò sono alcuni distintivi che attestano l’appartenenza a qualche club, come la fede al dito di un uomo. Comunque, l’informazione sociale trasmessa da un simbolo può essere una specifica pretesa di prestigio, onore o appartenenza a una classe sociale desiderabile. Una pretesa che non potrebbe essere avanzata in un altro modo, o che, se lo fosse, non sarebbe altrettanto immediatamente riconosciuta. Un segno di questo tipo è chiamato “simbolo di status”, sebbene sarebbe più preciso il termine “simbolo di prestigio”, essendo la prima definizione più appropriata quando si tratta di posizioni sociali strutturate. I simboli di prestigio possono essere contrapposti ai simboli di stigma, segni che hanno particolare efficacia nell’attirare l’attenzione verso qualche discrepanza che svaluta l’identità, spezzando quella che altrimenti sarebbe un’immagine coerente, con una valutazione conseguentemente negativa di quell’individuo. La testa rasata 27 interferisce nel flusso dell’interazione. Ad esempio, in una riunione di lavoro, un partecipante su una sedia a rotelle è senza dubbio visibile sulla sedia a rotelle, ma attorno al tavolo di lavoro il suo handicap può diventare relativamente facile da ignorare. D’altra parte, un partecipante con un disturbo con un disturbo del linguaggio difficilmente può aprire bocca senza intaccare la disattenzione che potrebbe essere mostrata verso il suo attributo, e continuerà a suscitare disagio ogni volta che parla. Sono i meccanismi stessi dell’interazione verbale a riportare continuamente l’attenzione sul difetto, perché la continua necessità di messaggi chiari e rapidi resta sempre frustrata. Si può aggiungere che la stessa minoranza può avere espressioni diverse, ognuna con un diverso grado di intrusione. Per esempio, una persona cieca con un bastone bianco mostra in modo evidente la sua condizione; ma il simbolo di stigma, una volta notato, può talvolta essere ignorato con tutte le sue implicazioni. Ma un cieco che non rivolge il volto verso i co- partecipanti all’interazione, è un evento che viola ripetutamente una regola della comunicazione, intralciando costantemente la dinamica di feed-back dell’interazione verbale. In terzo luogo, la visibilità di uno stigma deve essere separata da ciò che può essere chiamato il “focus percepito” dello stigma. Noi normali sviluppiamo certe concezioni riguardo alla sfera di vita in cui un particolare stigma discredita subito una persona. La bruttezza ha l’effetto più importante all’inizio delle relazioni sociali, minacciando il piacere che potremmo altrimenti trarre in compagnia di quella persona. Percepiamo, comunque, che la sua condizione non dovrebbe avere nessun effetto sulle sue capacità di agire da solo, sebbene potremmo discriminarlo semplicemente in base alle sensazioni che proviamo nel guardarlo. La bruttezza è uno stigma che viene messo a fuoco in determinate situazioni sociali. Si ritiene che altri tipi di stigma, come l’avere il diabete, non abbiamo nessun effetto iniziale sulle competenze necessarie all’individuo per stabilire una interazione faccia a faccia. Tali stigmi ci portano prima di tutto a discriminare in questioni come l’attribuzione di posti di lavoro e investono le interazioni sociali dirette solo perché, per esempio, lo stigmatizzato può aver cercato di tener nascosta la sua diversità e non è sicuro di esserci riuscito, o perché gli altri presenti sanno della sua condizione e compiono un doloroso sforzo per non far allusioni a essa. Molti altri tipi vengono a trovarsi tra questi due poli estremi di focalizzazione, poiché vengono percepiti come capaci di esercitare un ampio affetto iniziale su molte sfere della vita. per esempio, può darsi che, nella comunicazione faccia a faccia una persona con paralisi spastica possa non solo risultare impegnativa per l’interlocutore, ma che vengano messe in dubbio le sue capacità di agire da sola. La questione della visibilità, quindi, deve essere distinta da alcuni altri aspetti: il “quel che se ne sa” di un attributo, la sua interferenza e il suo focus percepito. Tutto questo ancora non tiene conto dell’implicita premessa che la maggior parte delle persone interpreterà, in qualche modo, ciò che si vede. Ma nello svelare l’identità potranno entrare in gioco degli specialisti la cui esperienza permette loro di essere immediatamente colpiti da qualcosa che resta invisibile ai profani. Un medico che incontra per strada una persona con una macchina rossastra sulla cornea e gli incisivi scheggiati, incontra un caso in cui si presentano due dei segni della “triade di Hutchinson” e pensa che probabilmente si tratta di un sifilitico. Gli altri presenti “ciechi” dal punto di vista medico, non si accorgeranno di nulla. In generale, prima di poter parlare del grado di visibilità, bisogna specificare qual è la capacità di decodifica da parte ei presenti. - L’identità personale Per poter considerare in modo sistematico la situazione dello screditabile e il suo problema di occultarsi e di essere smascherato, è stato necessario esaminare le caratteristiche dell’informazione sociale e della visibilità. Prima di procedere oltre sarà necessario considerare anche un altro fattore, quello dell’identificazione, intesa in senso criminologo e non psicologico. Fino l’analisi dell’interazione sociale tra lo stigmatizzato e il normale non ha richiesto, prima che inizi l’interazione, che le persone coinvolte nel contatto misto si conoscano “personalmente”. Ciò ha una sua logica. Il modo di gestire lo stigma è lo sviluppo di un aspetto basilare della società: il processo di stereotipizzazione o “profilazione” delle nostre attese normative riguardano alla condotta e al carattere. Classicamente, la stereotipizzazione è riservata ai clienti, agli orientali e agli automobilisti, cioè persone che rientrano in categorie molto ampie e che per noi 30 possono essere solo degli estranei di passaggio. È un’idea diffusa che anche se i contatti impersonali tra estranei sono soggetti a reazioni stereotipate, quando le persone giungono a rapporti più stretti tale approccio categoriale si ritragga e gradualmente venga sostituito da solidarietà, comprensione e da una valutazione realistica delle qualità personali. Anche se un’imperfezione, come una deformità del viso, potrebbe allontanare un estraneo, si può immaginare che tra intimi non dovrebbe accadere. Potremmo dunque considerare l’area della gestione dello stigma come qualcosa che riguarda principalmente la vita pubblica, il contratto tra estranei o tra semplici conoscenti, collocandola all’estremità di un continuum il cui polo opposto è l’intimità. L’idea di questo continuum ha una certa validità. Per esempio, è stato mostrato che oltre alle tecniche per gestire l’interazione con gli estranei, il disabile fisico può sviluppare altre particolari per aggirare il tatto o la distanza con cui di solito viene accolto all’inizio. Il disabile può cercare di passare a un piano più “personale” nel quale il proprio difetto smette di essere un fattore determinante. Un processo arduo, che Davis chiama “fare breccia”. Inoltre, chi ha uno stigma fisico riferisce che, entro certi limiti, i normali con i quali ha frequenti interazioni lo allontaneranno sempre meno a causa della disabilità, così da poter sperare che giorno dopo giorno possa svilupparsi qualcosa di simile ad una routine di normalizzazione. Ecco la testimonianza tratta dalla vita quotidiana di un cieco: “Ci sono dei negozi di barbiere nei quali adesso mi accolgono con la tranquillità di prima [di diventare cieco], e alberghi, ristoranti e luoghi pubblici nei quali posso entrare senza destare la sensazione che qualcosa stia per accadere. Alcuni conducenti di tram e di autobus ora mi danno semplicemente il buongiorno quando salgo con il mio cane e alcuni camerieri che conoscono mi servono con la tradizionale indifferenza. Naturalmente, la cerchia ristretta della mia famiglia ha smesso da tempo di preoccuparsi di me più del necessario, e lo stesso ha fatto la gran parte dei miei amici più intimi. In questo senso ho lasciato un segno nell’educazione delle persone”. È probabile che lo stesso atteggiamento protettivo sia applicati verso intere categorie di stigmatizzati: i negozi che talvolta si trovano nelle immediate vicinanze degli ospedali psichiatrici possono diventare posti con un’altra tolleranza nei confronti di comportamenti psicotici; i quartieri vicini a certi ospedali sviluppano una capacità di comportamento controllato nei confronti di persone con volti sfigurati che stanno per sottoporsi a chirurgia plastica; nella città in cui ci sono scuole che insegnano ai ciechi a impiegare cani- guida, la gente impara ad accettare i ciechi che tengono in mano un giudizio attaccato a un istruttore rivolgendogli comandi solitamente riservate ai cani. Nonostante queste prove sulle ricorrenti convinzioni su stigma e rapporti di familiarità, si deve osservare che non necessariamente la familiarità riduce il disprezzo. Per esempio, i normali che vivono accanto a insediamenti di stigmatizzati tribali tendono spesso a conservare i propri pregiudizi. Comunque, qui è più importante considerare che le varie conseguenze prodotte dall’avere tutta una serie di presupposti categoriali su un individuo sono visibili nelle nostre interazioni con persone con le quali abbiamo avuto una relazione di lunga durata, intima ed esclusiva. Nella nostra società, parlare di una donna come la propria moglie, vuol dire collocare questa persona in una categoria nella quale può essere vigente un solo membro, e tuttavia ci si riferisce a una categoria e di conseguenza quella donna è solo uno dei membri. Alcuni elementi peculiari, storicamente specifici, colorano i contorni della nostra relazione con questa persona; al centro c’è un’intera gamma di aspettative socialmente condivise sulla condotta e sulla natura di questa donna in quanto esempio della categoria “mogli”. Ci aspettiamo che si occupi della casa, intrattenga i nostri amici e possa avere figli. Sarà una moglie buona o cattiva, e ciò rispetto alle aspettative medie, quelle stesse che altri mariti nel nostro gruppo hanno nei confronti delle proprie mogli. Perciò, sia che noi interagiamo con estranei o con persone intime, scopriremo che le propaggini della società si sono inaspettatamente spinte all’interno di questo rapporto, anche qui collocando ciascuno nella propria posizione sociale. Per questo motivo ci saranno sicuramente dei casi in cui chi non è tenuto a condividere lo stigma di un individuo o a prendersene cura a lungo e con tatto trova più facile accettarlo di quanto non sia in grado di fare chi è sempre a contatto con lui. Se si sposta l’attenzione delle persone screditate a quelle screditabili, emergono molte più prove del fatto che tanto gli intimi quanto gli estranei saranno disturbati dal suo stigma. In primo luogo, proprio gli intimi 31 possono diventare quelli nei cui confronti lo screditabile più si preoccupa di nascondere qualcosa di vergognoso. La situazione degli omosessuali ne offre un esempio: “Sebbene sia comunque per un omosessuale sostenere che la sua diversità non è una malattia, è importante notare che se proprio deve consultare qualcuno è più facile che sia un medico piuttosto che chiunque altro. Ma difficilmente sarà il medico di famiglia. La maggior parte dei nostri intervistati erano angosciati per il fatto di tenere nascosta la loro omosessualità alla famiglia. Perfino alcuni di quelli che si comportano in maniera inequivocabile in pubblico, sono poi attentissimi nell’evitare l’insorgere di sospetti tra i famigliari”. Inoltre, anche se, in una famiglia, un genitore può condividere un oscuro segreto su, e con, l’altro genitore, i figli piccoli possono essere considerati non solo depositari poco affidabili per questo tipo di informazione, ma anche di natura così delicata da essere seriamente danneggiati nel venirne a conoscenza. Il caso di un genitore ricoverato in una struttura psichiatrica ne è un esempio: “Nello spiegare la malattia del padre ai figli più piccoli quasi tutte le madri cercano di tenere una condotta reticente. Al bambino si dice che il padre è in ospedale (senza dare ulteriori spiegazioni), oppure che è ricoverato per una malattia fisica (mal di denti o problemi a una gamba oppure male al pancino o mal di testa)”. “[La moglie di un paziente psichiatrico]: Vivo nel terrore – un terrore totale – che qualcuno possa dire la verità a Jim [il bambino] e prenderlo in giro…” Si potrebbe aggiungere che ci sono alcuni tipi di stigma che sono così occultabili da pesare in misura molto ridotta nei rapporti dell’individuo on gli estranei e con i semplici conoscenti, mentre esercitano un effetto soprattutto sugli intimi: frigidità, impotenza e sterilità possono essere buoni esempi. Così, nel cercare di spiegare che l’alcolismo non sembra escludere un uomo dalla possibilità di interpretare una relazione matrimoniale, uno studioso suggerisce che: “è anche possibile che le circostanze del corteggiamento o la consuetudine sociale del bere minimizzano la visibilità al punto da non avere influenza nella scelta del partner. L’interazione più intima che verrà col matrimonio può poi far affiorare il problema in una forma riconoscibile per l’altro coniuge”. Inoltre, le persone intime possono arrivare a svolgere un ruolo speciale nella gestione delle situazioni sociali da parte dello screditabile, tanto che perfino quando non è lo stigma a influenzare l’accettazione dello screditabile, si sentiranno in dovere di comportarsi in un certo modo. Invece, quindi, di pensare a una linea di continuità dei rapporti, caratterizzata da un lato da una considerazione categoriale e dissimulativa, e dall’altro da un atteggiamento aperto alle peculiarità dell’identità, sarebbe meglio pensare alle diverse strutture in cui hanno luogo e si stabilizzano i contatti e vedere che in ciascun caso ci potrebbero essere peculiari discrepanze tra l’identità sociale virtuale e quella effettiva, e che vengono compiuti sforzi specifici per gestire la situazione. Eppure, ciò che influenza il problema della gestione complessiva dello stigma è se conosciamo lo stigmatizzato personalmente o no. Comunque, il cercare di descrivere in cosa consista questa influenza, richiede la formulazione di un ulteriore concetto, quello di identità personale. Nei circoli sociali ristretti e da lungo tempo costituiti è noto che ciascun membro arriva a esser considerato dagli altri come una persona “unica”. Il termine unico è abusato da scienziati sociali principianti che vorrebbero trasformarlo in qualcosa di fervido e creativo, un qualcosa che non dovrebbe essere ulteriormente suddiviso, almeno secondo i sociologi. Comunque, questo termine comprende alcune idee importanti. La 1° idea inclusa nella nozione di “unicità” di un individuo è quella di un “segno assertivo” o “supporto d’identità”, per esempio l’immagine fotografica dell’individuo nella mente degli altri o la conoscenza della sua peculiare collocazione in una determinata rete di parentela. Una caso comparativo interessate è quello dei Tuareg dell’Africa Occidentale, presso i quali gli uomini si coprono la faccia lasciando solo una piccola fessura per vedere. In questo caso sembrerebbe che la faccia come ancoramento per l’identificazione personale sia sostituita dall’aspetto esteriore del corpo e dalle movenze fisiche. Solo una persona alla volta può corrispondere all’immagine di cui sto parlando, e chi era così connotato nel passato è connotato così anche nel presente e lo sarà anche in futuro. Si osservi che elementi come le impronte digitali, che sono i 32 attesta che ha l’età legale per consumare alcolici in locali pubblici. Allo stesso modo, le carte di credito testimoniano a un livello superficiale l’identità personale, utile per decidere se il credito debba essere concesso o no, ma attestano anche l’appartenenza del titolare a una certa categoria sociale, che è a sua volta una garanzia per la concessione del credito. Un tale dimostra di essere il dottor Smith per dimostrare di essere un medico, ed è più raro che mostri il tesserino di medico per dimostrare di essere Smith. Analogamente, è possibile che persone respinte da certi alberghi in base alla loro appartenenza etnica possano essere state identificate etnicamente attraverso i loro nomi. Anche in questo caso un frammento della biografia di una persona viene utilizzato per un’attribuzione categoriale. In generale i fattori biografici connessi alla documentazione dell’identità possono porre limitazioni al modo in cui un individuo può scegliere di presentare se stesso; è il caso di alcuni ex pazienti psichiatrici britannici che per l’agenzia di collocamento non possono rientrare nella categoria di normali candidati al lavoro perché il loro libretto contributivo è senza bollini. Potrei aggiungere che il fatto di occultare la propria identità personale può comportare conseguenze rispetto alla categoria sociale: è probabile che gli occhiali da sole che i personaggi famosi portano per nascondere la propria identità rivelino la categorizzazione sociale di chi vuole spostarsi in incognito e che, senza di essi, sarebbe facilmente riconosciuto. Una volta compresa la differenza tra simboli e documenti di identità si può procedere oltre a considerare la peculiare posizione delle testimonianze verbali che attestano in modo linguistico, e non solo espressivo, l’identità sociale e personale. Laddove un individuo abbia una documentazione inadeguata per ricevere un servizio desiderato, cercherà di far ricorso ad attestati orali in sostituzione di questa. Naturalmente, i diversi gruppi e le diverse società differiscono nel loro modo di valutare, in situazioni sociali grosso modo equivalenti, quanto una testimonianza di identità sia appropriata. Così, uno scrittore indiano lascia intendere: “Nella nostra società un uomo è sempre ciò che la sua qualifica fa di lui, per questo quindi siamo molto scrupolosi nel assegnarlo. A Delhi ho visto che ai ricevimenti alcune persone aggiungono da sole il proprio titolo, quando chi le presenta omette di annunciarlo. Un giorno, a casa di un diplomatico straniero a Delhi, mi fu presentato un giovane senza che la sua posizione ufficiale venisse menzionata. Immediatamente si inchinò e aggiunse: “Del Ministero X, e lei a quale Dipartimento appartiene?” Quando ho risposto che non appartenevo a nessun ministero, sembrò molto sorpreso del fatto che fossi stato invitato a quel ricevimento senza avere un titolo specifico”. - Biografia Sia che la storia biografica di un individuo venga conservata nelle menti dei suoi intimi o nelle schede del personale di un’organizzazione, sia che la documentazione della propria identità personale sia attestata dal suo comportamento o depositata in un archivio, egli è un’entità su cui è possibile creare una documentazione. L’individuo è determinato come oggetto di biografia. Gli scienziati sociali si sono serviti della biografia nella forma di storia di una carriera, mentre è stata data poca attenzione alle proprietà generali del concetto, tranne che per sottolineare che le biografie sono molto soggette alla costruzione retrospettiva. Il ruolo sociale come concetto e come elemento formale dell’organizzazione sociale è stato esaminato accuratamente ma non la biografia. Il primo punto da notare sulle biografie è che si presume che un individuo ne possa avere solo una, e questo in forza non delle leggi sociali, ma di quelle della fisica. Noi assumiamo a priori che qualsiasi cosa un individuo abbia fatto e possa fare sia contenibile nella sua biografia, come mostra il tema letterario del dottor Jekyll-Mister Hyde, anche se dovessimo assumere uno specialista di biografia, un detective privato, che colmi per noi i vuoi dei fatti mancanti e crei connessioni tra quelli scoperti. Anche se una persona è un mascalzone, o la sua esistenza falsa, segreta, o scandita da impeti, slanci e inversioni di rotta, i fatti concreti da lui vissuti non possono esser contraddittori o disgiunti. Si osservi che questa unicità omnicomprensiva che abbraccia la vita intera è in contrasto con la molteplicità dei self che si riscontrano in un individuo quando lo si considera dal punto di vista del ruolo sociale: se l’individuo riesce a gestire con efficacia la segregazione del ruolo e la segregazione del pubblico, egli può sostenere diversi self e rivendicare di non essere più quello di prima. Dati questi presupposti sulla natura dell’identità personale, emerge un fattore che sarà rilevante per questa analisi: il grado di “connettività 35 informativa”. Dati i fatti sociali importanti che riguardano una persona, quelli che vengono elencati negli elogi funebri, quanto un paio di questi si possono associare o quanto sono distanti tra loro, in base alla frequenza con cui chi ne conosce uno finirà per conoscere anche l’altro? Più in generale, dato l’insieme dei fatti sociali importanti che riguardano l’individuo, in che misura coloro che ne conoscono alcuni ne conoscono molti? Il camuffamento sociale deve essere distinto da quello personale; un uomo d’affari dell’alta borghesia che parte vestito in abiti informali per un fine settimana di bagordi in una località di vacanza estiva poco nota si camuffa in senso sociale; quando si registra in un motel come il signor Rossi, si camuffa in senso personale. Che si tratti di identità sociale o personale, si può comunque distinguere la mesa in scena che mira a dimostrare che uno è quello che non è da quella rivolta a mostrare che uno non è quello che è. In generale, le norme sull’identità sociale, come si è inteso sopra, riguardano il tipo di repertori o profili di ruolo che riteniamo ammissibili per un qualsiasi determinato individuo. Non ci aspettiamo che una donna o uno studioso di lettere classiche diventino campioni di biliardo, ma non siamo sorpresi o imbarazzati dal fatto quando a diventarlo sono un lavoratore di origine italiana o un nero che vive in una grande città. Le norme che si riferiscono all’identità personale non riguardano la gamma delle combinazioni ammissibili degli attributi sociali, ma il tipo di controllo dell’informazione che l’individuo può praticare. Se uno ha avuto un passato oscuro, questo è un problema che riguarda la sua identità sociale, ma il modo in cui gestisce le informazioni che si riferiscono a quel passato è un problema di identificazione personale. L’avere uno strano passato è un tipo di irregolarità; ma che la persona viva una vita agli occhi di coloro che ignorano il suo passato e non ne siano stati informati da lui, può essere un tipo diverso di irregolarità: nel primo caso ha a che fare con regole che presiedono all’identità sociale, nel secondo con quelle che riguardano l’identità personale. Si direbbe che oggi, negli ambienti della classe media, quanto più un individuo devia in una direzione indesiderabile rispetto a quella che si riteneva fosse la sua vera natura, tanto più è tenuto a dare volontariamente informazioni su se stesso, anche se il costo che deve pagare potrebbe aumentare in modo proporzionale alla sua sincerità. In queste circostanze, il diritto alla reticenza sembra garantito solo se non si ha nulla da nascondere. Sembra che per gestire la propria identità personale sarà necessario che l’individuo sappia distinguere a chi deve molte informazioni e a chi poche. Di conseguenza, egli dovrà avere anche “memoria”, e cioè, in questo caso, una pronta e precisa classificazione mentale dei fatti del suo presente e del suo passato che potrebbe dover rivelare agli altri. Dobbiamo considerare l’influenza reciproca tra l’identificazione personale e quella sociale e cercare di sbrogliare alcune delle loro interrelazioni più evidenti. È chiaro che nel comporre l’identificazione personale di un individuo usiamo aspetti della sua identità sociale, insieme a tutto ciò che può essergli associato. È evidente che l’essere in grado di identificare personalmente un individuo ci dà un dispositivo di memorizzazione in base al quale organizzare e consolidare le informazioni riguardanti la sua identità sociale. Si può anche presupporre che il fatto di tenere segreta una carenza screditabile assuma un significato più profondo quando le persone a cui l’individuo non ha ancora rivelato se stesso non sono per lui estranei, ma amici. La scoperta pregiudica non solo la situazione sociale del momento, ma anche le relazioni consolidate; non solo l’immagine effettiva che gli altri presenti hanno di lui, ma anche quella che avranno in futuro; non solo le apparenze, ma anche la reputazione. Lo stigma e lo sforzo di nasconderlo o di porvi rimedio diventano fattori “fissi”, parte dell’identità personale. Da ciò deriva la nostra maggior propensione ad assumere comportamenti impropri quando si indossa una maschera, o quando si è lontani da casa; la propensione di alcuni a pubblicare rivelazioni anonime, a presentarsi a un ristretto pubblico privato nella speranza che la scoperta da parte del pubblico più vasto non li chiami direttamente in causa. Un esempio di questo tipo è stato raccontato riguardo alla Mattachine Society, un’organizzazione impegnata nel presentare e migliorare le condizioni dei gay, che tra le sue attività pubblica anche una rivista. In apparenza, una succursale situata in un edificio commerciale è impegnata in attività rivolte al pubblico, e i funzionari si comportano in modo che gli altri inquilini dello stabile si comportino in modo che gli altri inquilini dello stabile siano all’oscuro di quello che loro stanno facendo e della loro identità. - Gli Altri biografici 36 L’identità personale e l’identità sociale articolano l’idea dell’individuo e del suo mondo che hanno coloro che entrano in rapporto con lui. La distinzione è il primo luogo tra quelli che sanno e quelli che non sanno. Quelli che sanno sono quelli che hanno un’identificazione personale dell’individuo, basta che lo vedano o sentano il suo nome per essere subito in grado di fornire informazioni su di lui. Quelli che non sanno sono quelli per i quali l’individuo è del tutto estraneo, uno di cui non hanno ancora iniziato a stilare nessuna biografia personale. L’individuo di cui gli altri sanno può sapere o non sapere che essi sanno di lui; questi, a loro volta possono o meno sapere che lui sappia o non sappia che loro sanno di lui. Mentre crede che gli altri non sappiano di lui, egli non può esserne certo. Ancora, se egli sa che essi sanno di lui, deve almeno in una certa misura, sapere di loro, ma se non sa che essi sanno di lui, può darsi che non sappia di loro nulla su altri aspetti. Tutto questo può essere importante dal momento che il problema che l’individuo ha nel gestire la propria identità sociale e personale varia molto a seconda che quelli in sua presenza sappiano di lui o no; e, se sanno di lui, se lui è informato o no del fatto che loro sanno di lui. Quanto uno si trova con persone per le quali è uno sconosciuto e interessante solo per la sua identità sociale immediatamente visibile, la sua grande incertezza è se queste persone cominceranno o no a costruire un’identificazione personale di lui, o se eviteranno di accumulare e organizzare ciò che sanno di lui per arrivare a un’identificazione personale, caratteristica questa propria della situazione di completo anonimato. Si osservi che, mentre le strade pubbliche delle grandi città offrono contesti anonimi per le persone “come si deve”, tale anonimato è biografico; per quanto riguarda l’identità sociale, una cosa come il completo anonimato quasi non esiste. Si può aggiungere che ogni volta che un individuo entra a far parte di un’organizzazione o di una comunità si verifica un cambiamento nella struttura delle conoscenze che lo riguardano e c’è un mutamento nelle possibilità di controllo dell’informazione. Per esempio, tutti gli ex pazienti psichiatrici devono affrontare il problema di aver fatto, durante il loro ricovero, delle conoscenze che poi si trovano a dover salutare una volta fuori, cosa che può portare una terza persona a chiedere: “Chi era quello?”. Ancora più importante è, forse, che deve affrontare il “non sapere che si sa di lui”, cioè persone che possono identificarlo personalmente e che sanno, mentre lui non sa che loro sanno, che lui è “davvero” un ex paziente psichiatrico. Con l’espressione riconoscimento cognitivo intendo l’atto percettivo di “collocare” un individuo, come detentore di una specifica identità sociale o di una particolare identità personale. Il riconoscimento delle identità sociali è una delle funzioni di controllo cui sono tenuti guardiani e portieri. Meno noto è il fatto che il riconoscimento di identità personali sia un’attività funzionale del tutto normale in alcune organizzazioni. Nelle banche ai cassieri può esser chiesto di acquisire questo genere di competenza nei confronti dei clienti. Negli ambienti criminali inglesi pare ci sia un ruolo chiamato “l’uomo dell’angolo”: chi lo ricopre occupa un posto in strada, vicino all’ingresso di un’attività illecita e, poiché conosce l’identità personale di quasi tutti quelli che passano, all’avvicinarsi di un tipo sospetto è in grado di dare l’allarme. Tra le persone che dispongono di informazioni biografiche riguardanti un certo individuo, che sanno di lui, ci saranno sempre quelle che fanno parte di una cerchia più ristretta in cui lui è noto “socialmente” in forma più o meno intima e su di un piano di maggiore/minore parità. Avranno il diritto e l’obbligo di scambiare con lui un cenno con il capo, un saluto o due chiacchiere e questo è il riconoscimento sociale. Naturalmente, ci saranno occasioni nelle quali un individuo accorda il riconoscimento sociale a un altro, o lo riceve da quello, pur non conoscendolo personalmente. In ogni caso, dovrebbe essere chiaro che il riconoscimento cognitivo è un atto di percezione, mentre il riconoscimento sociale ha a che fare con il ruolo di un individuo in un rituale comunicativo. La conoscenza sociale superficiale o la conoscenza personale è necessariamente reciproca, sebbene una o entrambe le persone che si conoscono possano dimenticarsi di conoscersi superficialmente, proprio come una o entrambe possono essere consapevoli della loro conoscenza superficiale, ma momentaneamente dimenticare quasi tutto quello che riguarda l’identità personale dell’altro. Quando un individuo vive una vita di quartiere, sia che abiti in una piccola o in una grande città, saranno in pochi che lo conosceranno solo di nome, e quelli che di lui sanno qualcosa, probabilmente lo conosceranno di persona. Invece, con il termine “fama” si fa riferimento alla possibilità che la cerchia di persone che sanno di un certo individuo possa diventare molto ampia, più ampia di quella 37 questi due estremi non riescono a coprire una vasta gamma di casi, in primo luogo, ci sono degli stigmi importanti, come è il caso delle prostitute, dei ladri, dei gay, dei mendicanti e dei tossici, che richiedono all’individuo di mantenere assolutamente segreta la sua situazione ad una categoria di persone, ad esempio la polizia, mentre si espongono sistematicamente ad altre categorie di persone, cioè i loro clienti, colleghi, soci, contatti, ricettatori, ecc. Quindi, indipendentemente dal ruolo che i vagabondi assumono in presenza della polizia, essi spesso devono rivelarsi come tali alle casalinghe per ottenere un pasto gratuito, e può anche darsi che debbano esporre il proprio status ai passanti, quando il pasto gli viene servito nella veranda sul retro della casa e loro lo chiamano “pasto in mostra”. In secondo luogo, anche nel caso in cui un individuo possa mantenere segreto uno stigma non evidente, scoprirà che le relazioni intime con gli altri ,caratterizzate nella nostra società dalla reciproca confessione di difetti invisibili, lo inducono ad ammettere la sua situazione alla persona intima o a sentirsi in colpa per non averlo fatto. In ogni caso, quasi tutte le questioni molto segrete sono conosciute da qualcuno e quindi gettano un’ombra. Analogamente, ci sono molti casi in cui si ritiene che lo stigma sia sempre visibile, ma invece non lo è. Infatti, se si guarda bene, ci si accorge che talvolta l’individuo può scegliere di nascondere l’informazione determinante che lo riguarda. Ad esempio, sebbene si possa pensare che un ragazzo zoppo si presenti sempre come tale, gli estranei possono, temporaneamente, supporre che lo stia per le conseguenze temporanee di un incidente, proprio come una persona cieca che, aiutata da un amico a salire su un taci non illuminato, si rendesse conto che per un momento il tassista ha pensato che ci vedesse, o un cieco che porta occhiali scuri mentre è seduto nella penombra di un bar viene preso per una persona che ci vede da un cliente appena entrato, o il caso di un uomo al quale sono state amputate le mani e che al loro posto ha degli uncini e che in un cinema può far urlare di terrore una donna che, seduta accanto a lui e in vena di allacciare un rapporto sociale, toccandolo, si accorge della presenza del metallo. Allo stesso modo, può capitare che neri dalla pelle particolarmente scura, che non hanno mai cercato di are il passing proiettino pubblicamente, parlando al telefono o scrivendo una lettera, un’immagine di sé che in un secondo momento può venir screditata. Considerate le diverse possibilità, che si collocano tra gli estremi dell’assoluta segretezza e della totale informazione, sembra che i problemi di chi compie sforzi precisi per fare il passing siano problemi che in molte persone, prima o poi devono emergere. Poiché ci sono grandi vantaggi nell’essere considerati normali, quasi tutte le persone che sono in condizione di compiere il passing lo faranno intenzionalmente in qualche occasione. Inoltre, lo stigma di un individuo può riguardare argomenti che non possono essere adeguatamente rivelati agli estranei. Per esempio, se un ex detenuto rivela il suo stigma a molti, lo fa a suo rischio, fidandosi troppo di conoscenti occasionali ai quali comunica fatti personali la cui rivelazione sarebbe giustificata solo dall’esistenza di rapporti più intimi. Il conflitto tra la sincerità e il salvare le apparenze sarà spesso risolto a favore di quest’ultimo. Infine, quando lo stigma si riferisce a parti del corpo che i normali devono nascondere in pubblico, il passing è inevitabile, che si voglia o no. Una donna che abbia subito una mastectomia o un molestatore sessuale norvegese che sia stato punito con la castrazione, sono costretti a presentarsi in modo ingannevole in quasi tutte le situazioni, dovendo nascondere i loro segreti non comuni, dal momento che tutti gli altri devono nascondere anche quelli più convenzionali. Quando un individuo fa il passing, che lo faccia intenzionalmente o meno, è possibile che venga scoperto e screditato proprio per quello che in quel momento mostra con evidenza anche a chi lo identifica socialmente solo per ciò che chiunque può percepire nell’interazione. Ma questo tipo di minaccia all’identità sociale virtuale non è l’unico. A prescindere dal fatto che in un certo momento le azioni presenti di un individuo possono screditare le sue pretese, nel passing un rischio è dato dal pericolo di essere scoperto da chi è in grado di identificarlo personalmente, perché dispone di informazioni biografiche su di lui, relative a fatti reali non evidenti, che sono incompatibili con le sue attuali pretese. Succede allora che l’identificazione personale ha un effetto sull’identità sociale. Questa è la base di tutte le forme di ricatto. C’è il “complotto”, che consiste nel manipolare qualcosa che sta accadendo in un certo momento per usarlo in seguito come base per un ricatto. Esiste il “pre-ricatto”, col quale il ricattatore costringe la vittima a proseguire una serie di azioni minacciandola di fare delle rivelazioni e rendendo impossibile qualsiasi cambio di rotta. Thomas cita un 40 caso di un poliziotto che costringeva una prostituta a continuare nel suo mestiere redditizio, bloccando sistematicamente, con il discredito, i suoi tentativi di trovare un lavoro presentandosi come ragazza di buona reputazione. C’è poi il “ricatto di auto-tutela”; in esso il ricattatore, di fatto o intenzionalmente, si sottrae a una punizione meritata, perché fagli scontare la pena comporta il discredito di chi lo accusa. “La “presunzione di innocenza fino a prova contraria” tutela molto meno una madre single che un padre single. La colpa della donna è resa evidente dalla crescita della pancia, difficile da nascondere. Il padre non ha segni esteriori e il suo ruolo nella gravidanza deve essere dimostrato. Ma per fornire una prova del genere, laddove lo Stato non assume l’iniziativa di stabilire la paternità, la madre single deve rivelare pubblicamente la sua identità e il suo comportamento sessuale fuori norma. La sua riluttanza a ciò rende abbastanza facile per il suo complice maschio mantenere l’anonimato e, qualora lo volesse, un atteggiamento di ostentata innocenza”. Infine, c’è il ricatto “integrale” o classico, quando il ricattatore si fa pagare minacciando di rivelare fatti riguardanti il passato o il presente del ricattato, fatti che potrebbero screditare completamente l’identità che si attribuisce in quel momento. Si può osservare che ogni ricatto integrale comprende il ricatto di auto- tutela, dal momento che il ricattatore che ha successo, oltre a ottenere il denaro, riesce a evitare la penalità relativa. Dal punto di vista sociologico, il ricatto in quanto tale può non essere importante; è più importante considerare i tipi di relazioni che un individuo può avere con coloro che potrebbero ricattarlo, se lo volessero. È in questo caso che si vede come una persona che fa il passing conduca una doppia vita, e come la connettività informativa della biografia può consentire diversi modi di doppia vita. quando il fatto screditante appartiene al suo passato, l’individuo si preoccuperà non tanto delle fonti originarie di prove e di informazioni, quanto delle persone che possono rivelare ciò di cui sono già a conoscenza. Quando invece il fatto screditante fa parte del presente, allora l’individuo deve stare attento non solo a informazioni già note, ma anche a non farsi cogliere in flagrante, come suggerisce una prostituta: “Era possibile mostrarsi in pubblico senza essere arrestate, ma era ugualmente doloroso. “Ogni volta che vado a una festa, mi guardo sempre rapidamente intorno”, diceva. “Non si sa mai. Una volta mi sono imbattuta in due miei cugini, erano con un paio di prostitute e non mi hanno nemmeno fatto un cenno di saluto. Ho lasciato correre -sperando che fossero troppo occupati a badare a se stessi per pensare a me. Mi sono sempre chiesta cosa farei se mi capitasse di incontrare mio padre, visto che bazzicava abbastanza spesso da quelle parti” Se nel passato o nel presenti di un individuo c’è qualcosa che può screditarlo, si direbbe che la sua posizione sarà tanto più precaria quanto maggiore sarà il numero di persone che sono a conoscenza del segreto; più sono quelli che conoscono il suo lato oscuro, più insidiosa è la situazione. Per questo può darsi che sia più sicuro per un cassiere di banca flirtare con l’amica di sua moglie che frequentare le corse. Che siano molti o pochi quelli che sanno, si tratta di una semplice doppia vita, nella quale sono coinvolti sia quelli che pensano di conoscere tutto dell’uomo, che quelli che lo conoscono “realmente”. Questa possibilità deve essere contrapposta alla situazione dell’individuo che vive una duplice doppia vita, che si muove in due cerchie, ciascuna delle quali non è a conoscenza dell’esistenza dell’altra, con una sua diversa biografia della persona. Un uomo che ha una relazione extraconiugale, eventualmente nota a un piccolo numero di individui che con la coppia illecita possono anche fare vita sociale, sta portando avanti una doppia vita semplice. Tuttavia, se la coppia illecita inizia a fasi degli amici che non conoscono la situazione, allora inizia a emergere una doppia vita. nel primo tipo di doppia vita il pericolo è costituito dai ricatti o dalle rivelazioni maliziose; nel secondo tipo il pericolo maggiore è la divulgazione involontaria, poiché nessuno di coloro che conosce la coppia sa che deve mantenere il segreto, dato che non sanno che ce ne sia uno. Finora ho considerato una vita condotta nel presente, minacciata da quello che altri sanno del passato della persona o degli aspetti oscuri del suo presente. Ora dobbiamo considerare la doppia vita da un’altra prospettiva. Quando un individuo lascia una comunità dopo averci vissuto per alcuni anni, si lascia dietro di sé un’identificazione personale, cui spesso si collega una biografia completa, comprese le ipotesi su come ci si aspetta che “finirà”. Nella sua attuale comunità, l’individuo svilupperà una biografia anche nella mente degli altri, potenzialmente un ritratto completo che comprende una versione di quello che era 41 prima e il contesto da cui è venuto. Ovviamente, può darsi che sorga una discrepanza tra questi due tipi di conoscenze su di lui e può svilupparsi qualcosa come una doppia biografia; quelli che lo conoscevano in passato e quelli che lo conoscono ora pensano, ciascuno a modo suo, di conoscere tutto di lui. Spesso tale discontinuità biografica viene saldata, da un lato, dall’individuo stesso che da informazioni sul suo passato a coloro che sono nel suo presente, e dall’altro, dalle persone del suo passato che aggiornano, attraverso notizie e pettegolezzi che lo riguardano, le biografie di lui che hanno sviluppato. Questo lavoro di connessione è facilitato quando ciò che l’individuo è diventato non è un discredito rispetto a quello che è stato, e quando ciò che era non è un discredito per quello che è diventato, e questo è quello che normalmente accade. In breve, ci saranno delle discontinuità nella sua biografia, ma non tali da screditarlo. Ora, mentre gli studiosi sono abbastanza consapevoli dell’effetto di un passato deprecabile, sul presente dell’individuo, poca attenzione è stata data all’effetto di un presente biasimevole sui suoi biografi del periodo precedente. Non è stata sufficientemente riconosciuta l’importanza per un individuo di mantenere un buon ricordo di sé tra coloro con i quali non vive più, anche se questo fatto rientra con quella che viene chiamata la teoria dei gruppi di riferimento. Il caso classico è quello della prostituta che, sebbene ambientata nel suo quartiere urbano e abbia contatti regolari, teme di “imbattersi” in un uomo della sua città di origine, che potrebbe riconoscere le sue attuali caratteristiche sociali e riferirle al ritorno. In questo caso il suo armadio è grande quanto il suo marciapiede, ed è le istessa lo scheletro che c’è dentro. Questa preoccupazione affettiva verso coloro con cui non abbiamo più rapporti attivi, è uno dei prezzi da pagare per un’attività immorale, ben esemplificata dall’osservazione di Park, per cui sono i clochard e non i banchieri che non vogliono vedere le proprie foto sul giornale, una modestia favorita dalla paura di essere riconosciuti da qualcuno di casa. In letteratura sull’argomento si trova qualche indicazione riguardo a un ciclo naturale del passing. Il ciclo può iniziare con il passing involontario nel quale l’individuo che lo compie non si rende conto di esserne coinvolto, il successivo è il passing non intenzionale di cui l’individuo si accorge con stupore solo mentre lo sta facendo. Poi c’è il passing per “divertimento”, quello che si fa nei momenti non routinari della vita sociale, come le vacanze e i viaggi; il passing che si fa durante le normali occasioni quotidiane, come al lavoro o nei luoghi pubblici: infine, la “sparizione”, il passing completo in tutte le sfere della vita, il cui segreto è noto solo all’interessato. Si può notare che quando si fa un passing relativamente completo, l’individuo organizza il proprio rite de passage, andando a vivere in un’altra città, chiudendosi in una stanza per giorni con abbigliamento e cosmetici precedentemente scelti che si è portato dietro, e poi, come una farfalla, emerge per provare le nuove ali. Naturalmente, in ciascuno di questi casi si può verificare una interruzione del ciclo e un ritorno al punto di partenza. Se ancora non si può parlare con certezza di un ciclo, e di alcuni attributi screditabili che parrebbero ostacolarne le fasi finali, è possibile cercare alcuni punti di stabilità nella diffusione del passing; certo è possibile vedere che la misura del passing può variare, da quello momentaneo e non intenzionale al classico passing totale programmaticamente perseguito. In precedenza ho accennato a due fasi del processo di apprendimento della persona stigmatizzata: quando apprende il punto di vista dei normali e quando apprende di essere squalificato secondo quel punto di vista. Si può ipotizzare che una fase successiva consista nell’imparare ad affrontare le modalità con cui gli altri trattano il tipo di persona che mostra di essere. Una fase ulteriore è quella di cui vorrei occuparmi ora, l’imparare a fare il passing. Quando una diversità è poco evidente, l’individuo deve imparare che in realtà può contare sulla propria discrezione. Certo, il punto di vista degli osservatori deve essere considerato con cura, ma senza attribuirvi un’ansia maggiore di quella degli osservatori stessi. Partendo dalla convinzione che tutto ciò che è noto a se stesso e agli altri, spesso deve prendere realisticamente atto che le cose non stanno così. Ad esempio, è stato detto che i fumatori di marijuana imparano un po’ alla volta che quando sono “su di giri” in presenza di chi li conosce bene possono comportarsi senza che gli altri si accorgano di nulla. Allo stesso modo, si hanno testimonianze di ragazze che, avendo appena perso la verginità, si guardano allo specchio per vedere se il loro stigma si veda, e solo un po’ alla volta arrivano a ritenere che, in realtà, il loro aspetto non è diverso da prima. Un caso analogo è l’esperienza di un uomo dopo la sua prima esperienza omosessuale non coperta: 42 Simili contingenze aiutano a spiegare l’ambivalenza, prima citata, che l’individuo può provare quando si confronta con persone che hanno i suoi stessi problemi. Come suggerisce Wright, “chi desidera nascondere la propria disabilità noterà in altre persone i manierismi rivelatori. Inoltre, è probabile che provi risentimento per questi manierismi che segnalano una disabilità, perché nel voler tenere nascosta la propria desidera che anche gli altri nascondano la loro. Per questo chi ha problemi di udito e si sforza di tenerlo nascosto sarà infastidito dalla vecchia signora che mette la mano a coppa dietro l’orecchio. Ostentare la disabilità è una minaccia per lui perché, oltre a fargli rischiare di essere smascherato, gli crea un senso di colpa per aver cercato di nascondere la sua appartenenza al gruppo dei sordi. Potrebbe preferire di cogliere il segreto dell’altro e rispettare tacitamente l’accordo di continuare entrambi a rappresentare i ruoli “come se”, anziché contestare all’altro la sua simulazione confidandole la propria”. Il controllo delle informazioni riguardo l’identità ha un particolare effetto sulle relazioni. Queste hanno bisogno di tempo trascorso assieme, e più un individuo sta on un altro, più sono le possibilità che acquisisca informazioni screditanti su di lui. Inoltre, come abbiamo già detto, ogni rapporto obbliga le persone coinvolte a scambiarsi una certa quantità di informazioni intime come prova di impegno e fiducia. Le relazioni strette che l’individuo aveva prima di trovarsi a dover nascondere qualche cosa sono compromesse, improvvisamente carenti di informazioni condivise. È probabile che rapporti stretti da poco, o “post-stigma”, portino la persona screditabile oltre il punto in cui sente che ha fatto bene a nascondere i fatti. E, anche le relazioni effimere possono essere un pericolo, perché la chiacchierata tra estranei piò toccare debolezze segrete, come quando la moglie di un marito impotente deve rispondere a domande su quanti bambini ha e, non avendoli, come mai non ne ha. Il fenomeno del passing ha sempre sollevato una serie di problemi sullo stato psichico di chi lo compie. In primo luogo, si presume che egli debba pagare un alto prezzo psicologico, un alto livello di ansia, per vivere una vita che può collassare in ogni momento. lo mostra la dichiarazione di una moglie di un paziente psichiatrico: “[…] immaginiamo che quando George esce e tutto sembra andare per il meglio venga fuori qualcuno che gli rinfacci la sua condizione. Rovinerebbe tutto. Vivo nel terrore che ciò possa succedere… nel terrore più totale”. Penso che uno studio accurato di chi compie il passing dimostrerebbe che quest’ansia non si trova sempre e che su questo le nostre popolaresche concezioni sulla natura umano possono essere fuorvianti. In secondo luogo, si ritiene che chi fa il passing si senta combattuto nell’appartenenza a due mondi diversi. Si sentirà un po’ distante dal suo nuovo “gruppo”, perché è improbabile che sia in grado di riconoscersi del tutto nell’atteggiamento che questo avrebbe verso ciò che lui sa di poter dimostrare di essere. E probabilmente proverà una sensazione di tradimento e disprezzo di sé quando non potrà far nulla contro osservazioni “offensive” fatte da membri della categoria all’interno della quale sta compiendo il passing contro la categoria della quale finge di far parte, soprattutto quando egli stesso ritiene pericoloso astenersi dal partecipare a questa denigrazione. Come affermano alcuni screditabili: “Quando qualcuno faceva battute sui “finocchi”, dovevo ridere con tutti gli altri; quando le conversazioni riguardavano le donne dovevo inventare delle mie conquiste. Mi odiavo in quei momenti, ma sembrava non ci fosse nient’altro che potessi fare. Tutta la mia vita era diventata una bugia”. “Il tono della voce a volte usato [dagli amici] per alludere alle zitelle mi turbava. Mi sentivo un’imbrogliona perché davo tutta l’apparenza di una donna sposata quando in realtà mi trovavo nella condizione – appunto quella di zitella – che le persone sposate guardavano con sospetto. Mi sentivo un po’ disonesta ance verso le mie amiche ancora nubili che non parlavano mai di questi argomenti ma mi guardavano con una certa curiosità e invidia per la mia situazione, che in realtà non mi piaceva affatto”. In terzo luogo, sembra scontato, e si direbbe a ragione, che chi compie il passing dovrà essere attento ad aspetti della situazione sociale che gli altri considerano non previsti e trascurabili. Quelle che per le persone normali sono abitudini svolte senza pensarci possono diventare problemi da risolvere per le persone esposte a discredito. Non sempre questi problemi possono esser gestiti con l’esperienza del passato, poiché 45 sorgono spesso nuovi imprevisti che rendono inadeguate le precedenti tecniche di dissimulazione. Chi ha una segreta carenza deve fare attenzione alla situazione sociale, scrutandone le possibilità, ed è quindi probabile che si senta estraneo a quel mondo più semplice che le persone che lo circondano a quanto pare abitano. Ciò che per loro è lo sfondo per lui è la figura. Un giovane quasi cieco ne dà un esempio: “Siamo andati insieme al bar una dozzina di volte e tre al cinema prima che Mary si accorgesse che ci vedevo male. Usavo tutti i trucchi che conoscevo. Ogni mattina prestavo particolare attenzione al colore del suo vestito, e poi tenevo ben aperti gli occhi e le orecchi e il mio sesto senso davanti a chiunque avrebbe potuto essere lei. Non volevo correre rischi. Se non ero sicuro, salutavo chiunque con familiarità. Probabilmente pensavano che fossi matto, ma non mi importava. La sera, quando andavano e tornavamo dal cinema, per strada le tenevo sempre la mano, e lei mi guardava senza saperlo e quindi non dovevo preoccuparmi di gradini e marciapiedi”. Un ragazzo con una stenosi uretrale, con difficoltà a orinare in presenza di altri e che voglia mantenere segreta la sua diversità, sarà costretto a organizzare e ad architettare pretesti in situazioni che per gli altri sono normali, in quanto ragazzi: “Quando andai in collegio all’età di dieci anni dovetti affrontare nuove difficoltà e trovare nuovi modi per affrontarli. In generale, si trattava di urinare non quando volevo, ma di farlo sempre quando potevo. Era per me necessario mantenere nascosta la mia disabilità agli altri ragazzi, poiché la cosa peggiore che può capitare a un ragazzo che va a scuola è di essere considerato in qualche modo “diverso”; così, anche io andavo al gabinetto quando ci andavano loro anche se non accadeva nulla, nient’altro se non un continuo aumento della mia invidia per la libertà dei miei compagni di comportarsi in modo naturale, arrivando persino a sfidarsi a chi arrivava più in alto (mi sarebbe piaciuto unirmi a loro in questo gioco, ma se qualcuno mi avesse sfidato, io avrei sempre risposto “ho appena finito”). Ho usato vari stratagemmi. Uno era di chiedere il permesso durante le lezioni, quando i bagni della scuola erano vuoti. Un altro era di rimanere sveglio la notte e usare il pitale mentre gli altri occupanti del dormitorio dormivano, o almeno quando era buio e potevo non essere visto”. Analogamente, si sa della costante attenzione dei balbuzienti: “Abbiamo molti trucchi ingegnosi per mascherare o ridurre al minimo i nostri blocchi. Aguzziamo le orecchie ai suoi e a i termini “Giona”, chiamati così perché sono rovinosi, e invidiamo la balena per la sua facilità nell’espellerli. Evitiamo le parole “Giona” quando possiamo, sostituendole con quelle non temute o cambiando rapidamente il nostro pensiero fino a che il filo del nostro discorso diventa intricato come un piatto di spaghetti”. A proposito della moglie di un paziente psichiatrico: “Spesso la dissimulazione è complicata da gestire. Così, per impedire che i vicini sapessero in quale ospedale è ricoverato mio marito (dopo aver detto loro che si trovava in ospedale con una diagnosi di sospetto tumore), la signora G. doveva correre al suo appartamento per ritirare la posta prima che la prendessero i vicini, come erano soliti fare. Ha dovuto abbandonare le pause caffè al bar con le vicine di casa per evitare le loro domande. Prima di poter far entrare gente in casa deve far sparire tutto ci che si riferisce all’ospedale in cui è ricoverato il marito, e così via”. E di un gay: “Spesso diventava intollerabile la fatica di ingannare la mia famiglia e gli amici. Dovevo controllare ogni parola e ogni gesto, per paura di tradirmi”. Un fenomeno simile si osserva anche tra i colostomizzati: “Non frequento mai i cinema della zona e se voglio vedere un fil ne scelgo uno grande, come Radio City, dove ho una scelta più ampia di posti a sedere e posso scegliere uno dove posso correre in bagno se ho aria nell’intestino”. “quando salgo su un autobus, scelgo il mio posto con attenzione. Mi siedo in fondo o vicino alla porta”. Tutto questo può richiedere una regolazione dei tempi. È così che un individuo screditabile arriva a “vivere al guinzaglio” cioè, resta vicino al luogo in cui può rinnovare il proprio travestimento, e dove può prendersi 46 una pausa dall’obbligo di indossarlo; e si allontana dal suo “centro di manutenzione” solo quanto basta per poter tornare indietro senza perdere il controllo delle informazioni che lo riguardano: “Poiché il clistere costituisce la difesa primaria contro l’incontinenza intestinale, oltre a rappresentare un’attività riparatrice di grande peso emotivo, i colostomizzati programmano spesso i viaggi e i rapporti sociali in relazione al tempo e all’efficacia del clistere. Il viaggio è di solito limitato alla distanza che può essere percorsa nell’intervallo tra le irrigazioni a casa, e i contatti sociali sono limitati a quei periodi tra le irrigazioni che si ritiene possano offrire la massima protezione contro l’incontinenza o la flatulenza. Si può dire, quindi, che questi pazienti vivono “al guinzaglio”, lungo solo quanto l’intervallo di tempo tra un clistere e l’altro”. Resta un aspetto da considerare. Un bambino con uno stigma può compiere il passing in un modo particolare. I genitori, consapevoli della condizione di stigmatizzazione del figlio, possono proteggerlo in una bolla di accettazione domestica e nell’ignoranza di quello che dovrà diventare. Quando si avventura all’aperto lo fa come uno che inconsapevolmente fa il passing, almeno nella misura in cui il suo stigma non è evidente. A questo punto i suoi genitori si trovano di fronte a un dilemma fondamentale per quanto riguarda la gestione delle informazioni, e a volte si rivolgono ai medici per avere dei consigli su come comportarsi. Se il bambino viene a sapere della propria condizione in età scolare, si pensa che potrebbe non essere abbastanza forte psicologicamente per sopportare la notizia, e che potrebbe anche ingenuamente rendere noti i fatti che lo riguardano a chi non ha bisogno di saperli. D’altra parte, se il bambino è tenuto troppo all’oscuro, allora non sarà preparato a quello che gli accadrà e gli potrà capitare di essere informato della sua condizione da estranei che non hanno ragione per trovare il tempo e la cura necessari per presentargli i fatti sotto una luce costruttiva, piena di speranze. - Tecniche di controllo delle informazioni Abbiamo visto che l’identità sociale di un individuo suddivide il mondo delle persone e dei luoghi che sono in relazione con lui, e che, sebbene in modo diverso, lo stesso è fatto anche dalla sua identità personale. Sono questi i contesti di riferimento che si devono applicare nello studio della ruotine quotidiana di una determinata persona stigmatizzata, quando va e torna dal lavoro, la sua casa, i negozi dove fa acquisti e i luoghi in cui trascorre il tempo libero. A questo proposito un concetto chiave è quello di ruotine quotidiana, poiché è questa che collega l’individuo alle sue diverse situazioni sociali. Lo studio della routine quotidiana richiede una particolare prospettiva: nella misura in cui l’individuo è stigmatizzato, si cerca quel ciclo abitudinario di limitazioni che egli deve affrontare per gestire le informazioni che lo riguardano. Per esempio un individuo con una deformità facciale può aspettarsi di essere sempre meno una sorpresa scioccante per i suoi vicini di casa, che in qualche modo finiscono per accettarlo, analogamente, l’abbigliamento usato per nascondere parte della sua deformità non avrà effetto sul vicinato, mentre potrebbe essere utile in altre parti della città, dove è uno sconosciuto e quindi trattato meno bene. Possiamo considerare alcune delle tecniche più comuni di cui si serve chi ha una carenza segreta per gestire le informazioni fondamentali che lo riguardano. Ovviamente, una strategia è quella di nascondere o cancellare i segni che sono diventati simboli dello stigma. Un esempio noto è cambiare nome. I tossici offrono un altro esempio: “I poliziotti [durante un intervento antidroga a New Orleans] hanno iniziato a fermare i tossicodipendenti per strada e a esaminare le loro braccia per cercare i segni dell’ago. Se trovavano dei segni, facevano pressioni sul tossicodipendente affinché firmasse una dichiarazione che ammettesse la sua condizione, così da poter essere accusato in base alla “legge sulla tossicodipendenza”. Ai tossicodipendenti veniva promessa la condizionale se si fossero dichiarati colpevoli, consentendo così di applicare la nuova legge. I tossicodipendenti scrutavano i loro corpi in cerca di vene, oltre a quelle del braccio, nelle quali iniettarsi la droga. Infatti, se i poliziotti non trovavano segni di ago su una persona, di solito la lasciavano andare. Se trovavano dei segni, la trattenevano per settantadue ore cercando di farle firmare una dichiarazione”. 47 Si dovrebbe aggiungere che gli intimi non solo aiutano la persona screditabile nella sua dissimulazione, ma possono anche farlo al di là della consapevolezza del beneficiario; infatti possono agire da rete di protezione, consentendogli di pensare di essere pienamente accettato come una persona normale mentre in realtà le cose stanno diversamente. Pertanto, gli intimi saranno più consapevoli della sua diversità e dei suoi problemi di quanto non lo sia lui. In questi casi è inadeguata l’idea che la gestione dello stigma riguardi solo l’individuo stigmatizzato e gli estranei. È interessante notare che coloro che condividono un particolare stigma possono spesso contare sul reciproco aiuto nel compiere il passing, dimostrando ancora una volta che quelli che possono essere più insidiosi sono spesso quelli che sono in grado di dare il massimo aiuto. Ad esempio, quando un gay ne abborda un altro, lo può fare in modo che i normali non si rendano conto che stia accadendo qualcosa di straordinario: “Se in un locale frequentato da gay guardiamo con attenzione e sappiamo cosa guardare, si comincia con l’osservare che alcuni di essi comunicano con altri senza scambiarsi parole, ma semplicemente con gli sguardi – non, però, quel tipo di sguardo veloce che di solito ci si scambia tra uomini”. Lo stesso tipo di collaborazione si trova tra le cerchie di persone stigmatizzate che si conoscono di persona. Gli ex pazienti psichiatrici che si erano conosciuti nell’istituto, una volta fuori possono mantenere un controllo molto causo di questa loro conoscenza. In alcuni casi, come quando uno degli individui è in compagnia di persone normali, questo può scambiare un segnale con l’altro così che si passeranno accanto come se fossero estranei. Qualora fosse scambiato un saluto, può esser gestito con discrezione; il contesto d’origine della conoscenza non viene reso esplicito, in modo che all’individuo la cui situazione è la più delicata si consenta il diritto di prendere l’iniziativa del riconoscimento e dello scambio di socialità che ne consegue. Naturalmente, gli ex pazienti psichiatrici non sono i soli. “La prostituta di professione segue un codice che regola i suoi rapporti con i clienti. Per esempio, è consuetudine che essa non dia mai segno di riconoscere un cliente quando lo incontra in pubblico, a meno che lui non la saluti per primo”. Dove non è concessa questa discrezione, a volte si può aspettare che l’individuo screditato intraprenda un’azione punitiva, come mostra Reiss nel suo articolo sulla delinquenza giovanile. “Camminavo per strada con la mia ragazza fissa quando questo gay con il quale ero stato una volta in passato mi si avvicina in auto, mi fischia e dice: “Ciao dolcezza”… mi è venuta una rabbia… così sono andato a cercare altri ragazzi, ci siamo appostati e gliene abbiamo date tante da lasciarlo mezzo morto… Non mi faccio trattare così da una checca”. C’è da aspettarsi che coloro che compiono il passing gestiscano in modo strategico e volontariamente i vari livelli di distanza; in questo caso, lo screditabile ricorrerà per lo più agli stessi espedienti dello screditato, ma per ragioni diverse. Rifiutando o evitando situazioni di intimità, l’individuo può evitare il conseguente obbligo di rivelare le informazioni. Mantenendo una certa distanza nelle relazioni ci si assicura di non dover trascorrere del tempo con l’altro, perché, come si è detto, più tempo viene trascorso con altri, maggiori sono le possibilità di eventi inattesi che mettano in luce il segreto. Alcuni esempi ci vengono dalla gestione dello stigma da parte delle mogli dei pazienti psichiatrici: “[Dopo aver citato persone che “sapevano”, l’intervistata dice:]. Ho troncato ogni rapporto con gli altri nostri amici. Non ho detto loro che stavo lasciando l’appartamento e fatto togliere il telefono, in modo che non sapessero come mettersi in contatto con me”. “Non ho fatto amicizia con nessun in ufficio perché non voglio che la gente sappia dove si trova mio marito. Immagino che se diventassi amica inizierebbero a fare domande, e potrei cominciare a parlare, e credo sia meglio che meno gente possibile sappia di Joe”. Col mantenere una distanza fisica, l’individuo può anche limitare la tendenza degli altri a costruire un’identificazione personale di lui. Se abita in una zona con alta mobilità, può limitare le occasioni di una regolare conoscenza da parte degli altri. Se abita in un luogo isolato da quello che in genere frequenta, può 50 darsi che riesca a creare una soluzione di continuità nella sua biografia: sia intenzionalmente, come nel caso di una ragazza incinta non sposata che va a vivere con il figlio fuori dallo Stato, o di gay di una piccola città che vanno a vivere a New York; sia involontariamente, come nel caso del paziente mentale che è contento di scoprire che il luogo del suo internamento è lontano dalla città e quindi un po’ tagliato fuori dai suoi contatti ordinari. Restando in casa e non rispondendo al telefono o al campanello, l’individuo screditato può cancellare se stesso dalla maggior parte di quei contatti attraverso i quali la sua menomazione può esser definita come una parte della sua biografia agli occhi degli altri. Si deve considerare un’ultima possibilità, quella che consente all’individuo di rinunciare a tutte le altre. Può volontariamente rivelarsi, trasformando in modo radicale la sua situazione da quella di un individuo con informazioni da gestire a quella di un individuo con situazioni sociali difficili da gestire, da quella di una persona screditabile a quella di una persona screditata. Una volta che un individuo segretamente stigmatizzato ha dato informazioni su di sé, è possibile che si impegni in una qualsiasi delle azioni di adattamento prima citate, accessibili a chi si sa che è stigmatizzato; questo può spiegare in parte la sua decisione di rivelarsi. Un modo per rendere palese il proprio stigma consiste nel portare un simbolo, un segno visibile che renda nota la sua carenza ovunque vada. Vi sono persone con problemi di udito che indossano un apparecchio acustico senza batteria; persone quasi cieche che ostentano un bastone bianco pieghevole; ebree che indossano una stella di David come collana. Va notato che alcuni di questi simboli di stigma, come il distintivo dei Cavalieri di Colombo, da cui si desume che chi lo porta è cattolico, non sono esibiti per rivelare una stigmatizzazione, quanto l’appartenenza a organizzazioni che di per sé non comportano significati di questo tipo. Si deve osservare che questo espediente può essere impiegato da militanti di attività di ogni tipo, perché l’individuo che si contrassegna con un simbolo dichiara di essere escluso dalla società dei normali. Un esempio ci è dato dal modo in cui una setta di ebrei di New York si presenta: “Obgehitene Yiden, “Guardian Jews”, raccoglie i cosiddetti ebrei ultra-ortodossi che non solo seguono la Shulhan Aruch nei minimi dettagli, ma sono anche meticolosi e zelanti nella loro osservazione. Eseguono con la massima cura tutti i comandamenti e i precetti prescritti. Sono apertamente identificabili come ebrei. Portano barbe e/o abiti tradizionali particolari al solo scopo di essere identificati come ebrei all’esterno: barbe, così come “l’immagine di Dio sia sul loro volto”, abiti tradizionali in modo che “possano astenersi da ogni possibile peccato””. I simboli dello stigma hanno la caratteristica di poter essere percepibili in qualsiasi momento, ma vengono anche usati metodi di rivelazione meno palesi. Indizi fugaci dello stigma possono essere messi in evidenza come lapsus intenzionali, come quando un cieco commette volutamente un’azione maldestra in presenza di nuove conoscenze, così da informarle del suo stigma. C’è anche una “etichetta della rivelazione”, grazie alla quale l’individuo ammette in modo naturale la propria carenza sostenendo l’ipotesi che i presenti siano al di sopra di tali pregiudizi, evita così loro di rimanere impantanati nel dimostrare che non lo sono. Quindi, durante una conversazione con estranei, il “buon” ebreo o il malato di mente aspetta il “momento opportuno” e dice: “Ebbene, il fatto di essere ebreo mi ha fatto sentire che…”, o: “Avendo avuto esperienza diretta come paziente psichiatrico, posso…”. Si è suggerito che imparare a compiere il passing costituisce una fase della socializzazione della persona stigmatizzata e un punto di svolta nella sua carriera morale. Voglio suggerire che l’individuo stigmatizzato può arrivare a rendersi conto che dovrebbe essere al di sopra del passing, che se accetta se stesso e si rispetta non sentirà il bisogno di nascondere la propria carenza. Dopo aver imparato a occultare, può darsi che l’individuo debba disimparare tutto. È a questo punto che la rivelazione volontaria entra nella carriera morale come un segno di una delle sue fasi. Va aggiunto che nelle autobiografie di individui stigmatizzati, questa fase della carriera morale è tipicamente descritta come l’ultima, quella della maturità, e del completo adattamento. - Il covering Abbiamo tracciato una distinzione tra la simulazione dello screditato, caratterizzata dalla gestione della tensione, e la situazione dello screditabile, caratterizzata dalla gestione delle informazioni. Gli stigmatizzati impiegano una tecnica di adattamento che richiede allo studioso di considerare insieme queste due 51 possibilità. Quella che è in gioco qui è la differenza tra la visibilità e l’intrusione. È un fatto che coloro che sono disponibili ad ammettere di avere uno stigma possono fare uno sforzo per evitare che lo stigma si imponga. L’obiettivo è quello di ridurre la tensione, di rendere più facile, per sé e per gli altri, distogliere l’attenzione dallo stigma e far sì che l’attenzione si concentri sul contenuto esplicito dell’interazione. Ciononostante, i mezzi usati per questo compito sono abbastanza simili, e in alcuni casi identici, a quelli usati nel passing, poiché ciò che permette di occultare uno stigma a persone ignare potrebbe facilitare le cose a coloro che ne sono a conoscenza. È così che una ragazza che pur muovendosi meglio con il suo arto di legno rigido, quando è in compagnia, preferisce usare le stampelle o un arto artificiale anatomico. Questo processo verrà chiamato covering. Molti di quelli che raramente cercano di fare il passing tentano regolarmente di fare il covering. Un tipo di covering riguarda l’individuo che si preoccupa delle caratteristiche talvolta associate al suo stigma. Così i ciechi, che a volte sono distinti tra chi ha una deturpazione nell’area degli occhi e chi non ce l’ha. Gli occhiali scuri, a volte indossati per provare volontariamente la cecità, possono al contempo essere indossati per coprire i segni di questa deturpazione: “Penso che la condizione di cieco, in tutta coscienza, sia già abbastanza evidente senza dover considerare l’elemento estetico. Non riesco a pensare a nulla che possa aggiungere così tanto alla tragedia della condizione di un cieco come la sensazione che, nella lotta per riconquistare la vista, abbia perso non solo la lotta, ma anche l’integrità del suo aspetto”. Allo stesso modo, poiché la cecità può portare alla comparsa della goffaggine, può darsi che si debba fare uno sforzo per imparare di nuovo certe attività motorie, una “facilità, grazia e abilità in tutti quei movimenti che il mondo dei vedenti considera del tutto normali”. Un analogo tipo di covering comporta uno sforzo per limitare l’esposizione di quei difetti che più si identificano con lo stigma. Per esempio, una persona quasi cieca che sa che le persone presenti sanno della sua diversità può esitare a leggere, perché per farlo dovrebbe portare il libro a pochi centimetri dagli occhi, rivelando così troppo palesemente una delle caratteristiche fondamentali della cecità. Si deve sottolineare che questo tipo di covering è un aspetto importante delle tecniche “di assimilazione” usate dai membri dei gruppi etnici minoritari; l’intento che sta dietro a espedienti come il cambiarsi di nome o farsi la rinoplastica, non è solo di fare il passing, ma anche di limitare il modo in cui un attributo noto si impone al centro dell’attenzione, poiché l’intrusione rende più difficile mantenere una serena indifferenza verso lo stigma. La manifestazione più interessante del covering è associata all’organizzazione di situazioni sociali. Come già suggerito, tutto ciò che interferisce direttamente con l’etichetta e la meccanica della comunicazione si intromette sempre nell’interazione e risulta difficile ignorarlo. Quindi gli individui con uno stigma, soprattutto quelli con un handicap fisico, possono dover apprendere la struttura dell’interazione per saper entro quali binari devono riportare la loro condotta se vogliono ridurre al minimo l’intrusione del loro stigma. Dai loro sforzi si possono capire caratteristiche dell’interazione che, altrimenti, potrebbero esser ritenute così scontate da sfuggire all’attenzione. Ad esempio. le persone con problemi di udito imparano a parlare con l’altezza del tono di voce che gli ascoltatori ritengono appropriata per la situazione, e anche a essere pronti ad affrontare quei momenti critici dell’interazione che richiedono un buon udito, per rispettare le buone maniere. “Frances aveva messo a punto tecniche complesse per affrontare i “silenzi durante la cena”, gli intervalli ai concerti, alle partite di calcio, alle feste da ballo e così via, al dine di proteggere il suo segreto. Ma queste servirono solo a renderla più insicura, e di conseguenza più cauta, e quindi ancora più insicura. Così, Frances aveva perfettamente compreso che, invitata a cena, avrebbe dovuto (1) sedersi accanto a qualcuno con una voce squillante; (2) soffocarsi, tossire o farsi venire il singhiozzo, se qualcuno le avesse fatto una domanda diretta; (3) impadronirsi della conversazione, chiedere a qualcuno di raccontare una storia che aveva già ascoltato, di fare domande di cui conosceva già le risposte”. Allo stesso modo, i non vedenti a volte imparano a guardare direttamente verso l’oratore, anche se questo sguardo non comporta vedere, ma evita al cieco di fissare il vuoto o far ciondolare la testa o anche violare inconsapevolmente il codice dei segni di attenzione con cui si organizza l’interazione verbale. 52 nonostante le apparenze sono sani di mente, generosi, equilibrati, virili, capaci di duro lavoro, di sport fisicamente impegnativi; che sono devianti gentiluomini, persone carine come noi, nonostante la reputazione che hanno quelli come loro. Questi codici di condotta consigliati danno allo stigmatizzato non solo una piattaforma e un’impostazione politica, non solo istruzioni su come trattare gli altri, ma anche ricette sul giusto atteggiamento da tenere nei confronti di se stesso. Non riuscire ad aderire al codice significa essere una persona frustrata e disorientata; riuscirci significa essere vera e degna, due qualità spirituali che si fondono per produrre “autenticità”. Possiamo citare qui due conseguenze di queste attività di sensibilizzazione. In primis, i consigli sul comportamento personale stimolano a volte lo stigmatizzato a diventare un critico della scena sociale, un osservatore delle relazioni umane. Potrebbe essere spinto a raggruppare grandi quantità di interazioni sociali informali per esaminarne la trama. Può diventare “consapevole della situazione”, mentre le persone normali presenti sono coinvolte nella situazione, che per loro rappresenta uno sfondo di questioni di cui sono ignari. Questa dilatazione della coscienza da parte delle persone stigmatizzate è rafforzata, come prima osservato, dal loro particolare fiuto per le incognite dell’accettazione e della rivelazione, verso le quali le persone normali sono meno sensibili. In secondo luogo, i consigli dati allo stigmatizzato riguardano spesso quella parte della sua vita che egli ritiene più intima e vergognosa; le sue ferite più nascoste vengono toccate ed esaminate con quell’atteggiamento clinico che è di moda nella letteratura corrente. Intensi dibattiti sulle posizioni personali vengono presentati in forma romanzata, seguiti dallo sviluppo di profonde crisi di coscienza. vengono confezionate e diffuse versioni fittizie di umiliazione e tronfi sulle persone normali. Ciò che è più intimo e imbarazzante diventa qui ciò che è più collettivo, proprio perché sono i sentimenti più profondi dello stigmatizzato quelli che vengono descritti, a voce o con i libri, dagli stessi stigmatizzati più colti e in grado di esprimersi in pubblico. E poiché ciò che diventa disponibile per lo stigmatizzato lo diventa inevitabilmente anche per noi, queste presentazioni sollevano spesso il problema dell’esposizione e del tradimento, anche se, in ultima analisi, finiscono per essergli di aiuto. - Allineamenti al gruppo di appartenenza Anche se queste filosofie di vita, queste ricette esistenziali, sono presentate come se si trattasse del punto di vista personale dello stigmatizzato, se si analizzano si vede che traggono origine da qualcos’altro. Questo qualcosa sono i gruppi, nel senso lato di individui che si trovano in condizioni simili, e non c’è da sorprendersi, dato che quello che un individuo è, o potrebbe essere, deriva dal posto che quelli del suo tipo occupano nella struttura sociale. Uno di questi gruppi è l’aggregato fatto dai compagni di sofferenza dell’individuo. I suoi portavoce sostengono che questo è il vero gruppo dell’individuo, quello a cui appartiene naturalmente. Tutti gli altri gruppi e categorie ai quali l’individuo necessariamente appartiene vengono implicitamente considerati come non suoi; egli non è davvero uno di loro. Quindi il vero gruppo dell’individuo è quell’aggregato di persone che può soffrire le stesse privazioni di cui egli soffre perché hanno lo stesso stigma; il suo vero “gruppo” è la categoria che può servire a screditarlo. Il carattere che questi portavoce attribuiscono all’individuo deriva dal rapporto che questi ha con gli altri suoi compagni di stigma. Se si rivolge al suo gruppo è leale e autentico, se si allontana è un vigliacco e un pazzo. Qui c’è una chiara illustrazione di un tema sociologico fondamentale: la natura di un individuo, come è attribuita da lui stesso e da noi a lui, deriva dalla natura delle sue appartenenze di gruppo. Come ci si potrebbe aspettare, gli esperti che adottano un punto di vista interno al gruppo possono sostenere una linea militante e sciovinista, fino al punto di favorire un’ideologia di rottura. Adottando questa linea, nei contatti misti lo stigmatizzato esalterà le qualità particolari e i contributi dati dai compagni di stigma. Può anche arrivare a ostentare alcuni attributi stereotipati che altrimenti potrebbero essere tenuti nascosti; è il caso di quegli ebrei di seconda generazione che intercalano in modo risoluto il discorso con espressioni idiomatiche e accento ebraico, o di gay militanti che fanno patriotticamente le checche nei luoghi pubblici. L’individuo stigmatizzato può anche contestare la malcelata disapprovazione con cui i normali lo trattano, e aspettare di “cogliere in fallo” chi si è autonominato saggio, che stia lì a sorvegliare le azioni e le parole degli altri fino 55 a quando non troverà un segno fugace che dimostri che la loro ostentazione nell’accettarlo è solo una finzione. Sono noti i problemi associati alla militanza. Quando l’obiettivo politico fondamentale è quello di togliere lo stigma alla diversità, l’individuo può scoprire che sono proprio i suoi sforzi a politicizzare la sua vita, rendendola ancora più diversa dalla vita normale che gli è stata negata. Inoltre, il richiamare l’attenzione sulla situazione di quelli del suo stesso gruppo, ha come effetto il rafforzare l’immagine pubblica della sua diversità come qualcosa di reale e dei suoi compagni di stigma come un vero gruppo. D’altra parte, se cerca qualche forma di separazione e non di assimilazione, può scoprire che sta inevitabilmente esprimendo il suo impegno militante nella lingua e nello stile dei suoi nemici. Inoltre, le richieste che fa, la situazione critica che esamina, le strategie che sostiene, fanno tutte parte di un linguaggio espressivo e sentimentale che appartiene all’intera società. il suo disprezzo per una società che lo respinge può essere inteso solo in rapporto al concetto di orgoglio, dignità e indipendenza che ha quella società. in breve, a meno che non abbia alle spalle una cultura diversa su cui ripiegare, più si separa strutturalmente dai normali e più è probabile che finisca per essere culturalmente come loro. - Allineamenti al gruppo cui non si appartiene Il gruppo “proprio” dell’individuo può influenzare il codice di condotta che i professionisti consigliano. Allo stigmatizzato si richiede di considerare se stesso anche dal punto di vista di un secondo raggruppamento: quello dei nomadi e della società nel suo insieme che loro formano. Vorrei analizzare in dettaglio l’ombra proiettata da questo secondo punto di osservazione. Il linguaggio di questo orientamento ispirato dai normali non è tanto politico, come nel caso precedente, quanto psichiatrico. In questo caso, è il registro retorico di immagini connesse alla salute mentale che viene utilizzato. Chi aderisce alla linea proposta viene definito maturo e gli si dice che ha raggiunto un buon livello di adattamento; chi non segue questa linea viene definito un incapace, una persona rigida, che si tiene sulla difensiva, e che manca di adeguate risorse psicologiche. Quali conseguenze comporta questo modello di condotta? Allo stigmatizzato si consiglia di considerarsi un essere umano come tutti gli altri, uno al quale nel peggiore dei casi può succedere di essere escluso da ciò che è solo una sfera della vita social. Non è un tipo o una categoria, ma un essere umano: “Chi dice che gli storpi sono sfortunati? Lo dicono loro o lo dici tu? Solo perché non possono ballare? Qualunque musica deve fermarsi, prima o poi. Solo perché non possono giocare a tennis? Un sacco di volte il sole è troppo caldo! Solo perché li devi aiutare a salire e scendere le scale? C’è qualcos’altro che preferiresti fare? La poliomielite non è una cosa triste: è un maledetto inconveniente; vuol dire che non puoi avere uno scatto d’ira di quelli che corri nella tua stanza prendendo a calci la porta. Storpi è una parola orribile. Definisce! Emargina! È indiscreta! È paternalistica! Mi fa venire da vomitare, come un baco che si dimena per uscire dal bozzolo”. Poiché ciò che lo affligge non è niente di per sé, non se ne dovrebbe vergognare, né di quelli come lui, né dovrebbe cercare di nasconderlo. D’altra parte, con un duro lavoro e una continua auto-formazione dovrebbe rispondere alle esigenze ordinarie, arrestandosi solo davanti alla normificazione, quando i suoi sforzi possono dare l’impressione che stia cercando di negare la sua diversità. E poiché anche i normali hanno i loro problemi, lo stigmatizzato non dovrebbe amareggiarsi, provare risentimento e autocommiserazione. Dovrebbe cercare di essere allegro e socievole. Ne segue una serie di istruzioni per trattare i normali. Le competenze che l’individuo stigmatizzato acquisisce nell’affrontare situazioni sociali miste dovrebbero essere usate per aiutare gli altri. I normali non intendono davvero fare del male, e quando accade è perché non sanno fare di meglio e quindi dovrebbero essere aiutati, con tatto, a comportarsi bene. Le offese, i mancati saluti, le osservazioni, non dovrebbe prestarci attenzione, o dovrebbe impegnarsi in una benevola rieducazione del normale, mostrandogli con pazienza e tatto che, nonostante le apparenze, l’individuo stigmatizzato è un essere pienamente umano. Quando la persona stigmatizzata si accorge che è difficile per i normale ignorare le sue carenze, dovrebbe cercare di aiutarli e di modificare la situazione sociale con uno sforzo consapevole rivolto a ridurre la tensione. In queste circostanze lo stigmatizzato può cercare di “rompere il ghiaccio”, facendo riferimento al suo handicap in 56 modo distaccato e mostrando di essere in grado di accettare la sua condizione con disinvoltura. Oltre a un certo pragmatismo, si raccomanda anche un tono leggero: “Poi c’era lo scherzo della sigaretta. Andava sempre bene per fare una risata. Ogni volta che andavo in un ristorante, in un bar o a una festa, tiravo fuori un pacchetto di cicche, lo aprivo ostentatamente, ne prendevo una, la accendevo e mi sedevo fumando soddisfatto. Quasi sempre attirava l’attenzione. La gente guardava e quasi mi pareva di sentirli dire: Accipicchia! Non è meraviglioso quello che può fare con un paio di uncini? Ogni volta che qualcuno commentava questo talento sorridevo e dicevo: “C’è una cosa di cui non devo mai preoccuparmi, che mi si brucino le dita”. Lo so, è banale, ma funziona per rompere il ghiaccio…”. Una paziente sofisticata, il cui viso era stato deturpato da un trattamento di bellezza, si era accorta che era un mezzo efficace, entrare in una stanza dove c’erano persone e dire in modo scherzoso: “Scusate questo caso di lebbra”. Si afferma che la persona stigmatizzata quando si trova in compagnia mista possa trovare utile riferirsi alla sua disabilità e al suo gruppo nel linguaggio che usa quando è con i “suoi”, e sia solita usare il linguaggio impiegato dai normali quando si trova in una situazione in cui questi sono tra loro. In altri momenti può ritenere appropriato conformarsi all’”etichetta della rivelazione” e presentare la sua carenza come argomento di seria conversazione, sperando così di ridurre il significato come argomento di preoccupazione repressa: “La sensazione dell’invalido di non essere compreso come persona, insieme all’imbarazzo della persona non invalida in sua presenza, genera una relazione tesa e scomoda che contribuisce ulteriormente ad allontanarli. Per alleviare questa tensione sociale ed essere maggiormente accettato, l’invalido potrebbe non solo essere disposto a soddisfare la curiosità manifesta delle persone non invalide […] ma anche a iniziare egli stesso il discorso sulle cause della usa menomazione…”. Vengono raccomandati anche altri mezzi per aiutare gli altri a comportarsi con tatto nei suoi confronti. Per esempio, nel caso di sfregi facciali, si raccomanda di attendere un po’ prima di un incontro così da permettere ai partecipanti di dominare le loro reazioni. “Un uomo di trentasette anni la cui faccia era ampiamente sfigurata, ma che lavorava come agente immobiliare, dichiarava: “Quando ho un appuntamento con un nuovo contatto, cerco di fare in modo di restare a una certa distanza dalla porta, così che la persona che sta entrando possa avere più tempo per vedermi e riuscire ad abituarsi al mio aspetto prima di iniziare a parlare”. Allo stigmatizzato viene inoltre consigliato di agire come se gli sforzi dei normali per facilitargli le cose fossero efficaci e apprezzati. Le offerte non richieste di interesse, solidarietà e aiuto, anche se spesso percepite come arroganti intromissioni nella vita privata, devono essere accettate con tatto: l’aiuto non è solo un problema per chi lo dà. Se lo storpio vuole che si rompa il ghiaccio, deve ammettere il valore dell’aiuto e consentire alle persone di darglielo. Innumerevoli volte ho visto svanire la paura e lo smarrimento negli occhi della gente mentre allungavo la mano per chiedere aiuto. Non siamo sempre consapevoli dell’aiuto e di come possiamo stabilire un terreno d’incontro. Uno scrittore poliomielitico tratta un tema simile: “Quando, in un giorno di neve, i vicini suonano al campanello per chiedermi se ho bisogno qualcosa dal negozio, anche se ho già fatto le provviste in previsione del brutto tempo, cerco di pensare a qualcosa da comprare piuttosto che rifiutare un’offerta generosa. È più cortese accettare l’aiuto che rifiutarlo sforzandosi di dimostrare indipendenza”. In modo simile, un amputato: “Molti amputati in qualche modo assecondano gli altri per farli sentire bene perché stanno facendo qualcosa per loro. Questo non li mette in imbarazzo, come invece potrebbe avvenire se si fosse ancora capaci di stare in piedi”. Sebbene l’accettare con tatto le offerte maldestre di aiuto possa già essere un peso per lo stigmatizzato, da lui si esige qualcosa di più. Si dice che se si sente avvero a suo agio con la sua diversità, questa accettazione 57 compulsivo, usano questo termine solo quando non riescono a trovare una malattia specifica. Là dove la scienza medica deve ritirarsi, la società può continuare ad agire in modo più determinante. Perciò, anche quando si dice allo stigmatizzato che è un essere umano come tutti gli altri, gli si suggerisce che sarebbe incauto fare il passing o tradire il gruppo dei “suoi”. In breve, gli si dice che è come tutti gli altri e nello stesso tempo che non lo è. Questa contraddizione, una vera e propria beffa, è il suo destino ineluttabile e costituisce una sfida perenne per chi rappresenta gli stigmatizzati. È questa contraddizione che spinge gli “esperti” a elaborare una coerente politica dell’identità, e li rende in grado di cogliere subito gli aspetti “non autentici” di altri programmi proposti, ma che li trattiene dall’accorgersi, se non troppo tardi, che potrebbe non esserci nessuna soluzione “autentica”. Lo stigmatizzato si trova in un’arena di elaborate discussioni e controversie su ciò che dovrebbe pensare di se stesso, e cioè sulla sua identità dell’ego. Agli altri suoi problemi si aggiunge così quello di essere spinto contemporaneamente in più direzioni da esperti che gli dicono che cosa dovrebbe fare e sentire riguardo a ciò che è e che non è, e tutto questo nel suo stesso interesse. Intraprendere per iscritto o a parole una di queste “vie di fuga” può rappresentare una soluzione interessante in sé, che però è purtroppo negata alla maggior parte di coloro che sanno appena leggere e ascoltare. 60 CAPITOLO IV IL SELF E IL SUO ALTRO Questo saggio affronta il problema della persona stigmatizzata e i modi in cui risponde alla difficile condizione in cui si trova. Per poter collocare quanto emerge nel suo contesto concettuale più adeguato, sarà utile considerare da diversi punti di vista il concetto di deviazione, ponte che collega lo studio dello stigma allo studio del resto del mondo sociale. - Deviazione e norme Si potrebbe pensare che siano i difetti più rari e gravi quelli più adatti per questa nostra analisi. Sembra invece che la diversità più esotica sia più utile perché mezzo per rendere consapevole una persona di questi presupposti dell’identità che di solito vengono soddisfatti al punto da non esserne consapevoli. È anche possibile ritenere che i gruppi minoritari istituzionalizzati, come i neri e gli ebrei, possano essere un ottimo oggetto per questo tipo di analisi. Ma questo potrebbe portare a uno squilibrio dell’analisi. Dal punto di vista sociologico, il problema centrale che riguarda questi gruppi è la loro collocazione nella struttura sociale; le situazioni che queste persone incontrano nell’interazione faccia a faccia sono solo una parte del problema, qualcosa che non può essere compreso appieno senza fare riferimento alla storia, allo sviluppo politico e agli orientamenti politici del gruppo. Si può anche limitare l’analisi a coloro che hanno un difetto che disturba quasi tutte le situazioni sociali in cui vengono a trovarsi, cosa che porta questi sfortunati a sviluppare una parte importante della loro concezione di sé per reazione, in modo reattivo a questa difficile situazione. L’impianto argomentativo di questa ricerca è diverso. È probabile che anche il più fortunato dei normali abbia la sua mancanza nascosta, e per ogni piccola carenza ci sarà un’occasione sociale nella quale sentirà un peso enorme, che crea un divario tra la sua identità sociale virtuale e quella effettiva. Di conseguenza, coloro che hanno una precarietà occasionale e coloro che ne hanno una costante formano un continuum e la loro posizione nella vita risulta analizzabile secondo una stessa organizzazione. Ciò implica che non si dovrebbe guardare al diverso per capire la nostra la nostra diversità, ma all’ordinario. La questione delle norme sociali è certamente centrale, ma per le deviazioni inusuali dall’ordinario l’interesse è minore di quello per le deviazioni abituali. Si può sostenere che una condizione necessaria per la vita sociale sia la condivisione di un insieme di aspettative di tipo normativo da parte di tutti i soggetti, in quanto le norme vengono rispettate anche perché sono fatte proprie. Quando viene violata una norma, ci saranno interventi di riparazione, la violazione viene interrotta e il danno riparato da chi ha compiti di controllo o dallo stesso colpevole. Tuttavia, le norme di cui si tratta in questo saggio riguardano l’identità o l’essere e sono di un tipo particolare. Il rispettare o violare queste norme ha un effetto diretto sull’integrità psicologica dell’individuo. Allo stesso tempo, il semplice desiderio di attenersi alla norma non basta, poiché in molti casi l’individuo non ha alcun controllo immediato sul suo livello di adesione alla norma. È una questione relativa alle condizioni dell’individuo, non alla sua volontà; è una questione di conformità, non di sottomissione. Se la considerassimo in termini di azione volontaria sarebbe come se, rispetto alla posizione dell’individuo nella struttura sociale, chiedessimo a questi di esserne continuamente consapevole e impegnato a mantenerla. Inoltre, mentre alcune di queste norme, riguardanti l’essere vedenti o istruiti, possono essere pienamente rispettate dalla maggior parte dei membri della società, ci sono altre norme, come quelle riguardanti l’adeguatezza fisica, che prendono forma di ideali e costituiscono gli standard di fronte ai quali quasi nessuno può essere all’altezza in ogni momento della propria vita. e anche quando si tratta di norme rispettate, la loro molteplicità ha l’effetto di squalificare mote persone. Per esempio, in USA, si può dire che ci sia un solo tipo d’uomo dal quale ci si aspetta che non abbia niente di cui vergognarsi: è il giovane, sposato, bianco, abitante nei centri urbani, proveniente dagli stati del nord, etero, padre, protestante, con istruzione universitaria, un lavoro a tempo pieno, di buon incarnato, giusto peso e altezza e con qualche medagli sportiva. Ogni maschio americano tende a guardare il mondo da questo punto di vista, e questo è il senso in cui si può parlare di un sistema comune di valori in America. Coloro che 61 non riescono a qualificarsi in nessuno di questi modi è probabile che si considerino inadeguati, incompleti e inferiori; a volte è probabile che faccia il passing e si trovi costretto a prendere le difese o a manifestare aggressività verso quegli aspetti conosciuti di sé che gli altri probabilmente considerano indesiderabili. È possibile che i valori identitari di una società non siano stabili in nessuna delle sue parti, e tuttavia proiettino un’ombra su tutti gli incontri che si fanno nella vita quotidiana. Inoltre, per quanto riguarda gli attributi codificati dallo status entra in gioco qualcosa di più delle norme. Il problema non è semplicemente la visibilità, ma l’intrusività; questo significa che l’incapacità di rispettare le molte norme minori riguardanti il rituale della comunicazione faccia a faccia può avere un effetto molto pervasivo sull’accettabilità del soggetto inadempiente nelle interazioni. Pertanto, non serve a molto calcolare quante sono le persone che soffrono per la difficile condizione umana analizzata. Lemert osserva, il loro numero potrebbe essere grande quanto si vuole. Infatti, se agli stigmatizzati si aggiungono quelli con uno stigma onorario e quelli che una volta hanno fatto esperienza di tale condizione e, se non altro a causa dell’invecchiamento, sono destinati a farla, allora si scopre che il problema non è tanto che una persona abbia vissuto l’esperienza con un suo stigma, perché quell’esperienza l’ha fatta in ogni caso, quanto stabilire le diverse forme in cui l’ha vissuta. Si può dire che le norme sull’identità alimentano le deviazioni così come alimentano il conformismo. Prima abbiamo parlano di due soluzioni a questo problema normativo. La prima è quando una categoria di persone sostiene una norma che esse stese e anche i membri di altre categorie ritengono troppo difficile da mettere in pratica da parte loro. La seconda soluzione è quando l’individuo che non può rispettare una norma di identità si allontana dalla comunità che sostiene quella norma o evita da subito di sviluppare un sentimento di attaccamento a quella comunità. Questa è una soluzione che è a caro presso, sia per la società che per l’individuo, anche se è una cosa che si verifica per pochi casi. I processi di stigmatizzazione qui analizzati sono una terza importante soluzione al problema del non rispetto delle norme. Attraverso questi processi la base comune delle norme può essere rispettata al di là della cerchia di coloro che vi aderiscono pienamente; stiamo parlando della funzione sociale di questi processi e non della loro causa né della loro desiderabilità. Di questi processi fanno parte il passing e il covering, che offrono allo studioso un esempio specifico dei modi in cui viene gestita l’impressione che l’individuo fa sugli altri, arte fondamentale nella vita sociale, attraverso la quale l’individuo esercita un controllo strategico sull’immagine di sé e sugli effetti che produce sugli altri. Si tratta anche di una forma di tacita cooperazione tra normali e stigmatizzati: chi devia può permettersi di rimanere legato alla norma perché altri rispettano con cura il suo segreto, passando sopra con leggerezza al suo svelamento, o ignorano le prove che lo rivelerebbero; questi altri, a loro volta possono permettersi di trattarlo con gentilezza, perché gli stigmatizzati si asterranno dall’avanzare richieste di accettazione che vadano oltre il limite entro il quale i normali si sentono a proprio agio. - Il deviante normale Va osservato che la gestione dello stigma è una caratteristica generale della società, un processo che si verifica ovunque ci siano norme di identità. Si presentano le stesse caratteristiche tanto quando è in gioco una diversità notevole, di quel genere che tradizionalmente viene chiamato stigmatico, quanto quando è in gioco una diversità di poca importanza, della quale la persona esposta alla vergogna si vergogna di vergognarsi. Si può ipotizzare che il ruolo di normale e il ruolo di stigmatizzato facciano parte dello stesso complesso, che siano tagli di stoffa della stessa pezza. Gli studiosi inclini a interpretazioni psichiatriche hanno spesso sottolineato le conseguenze patologiche dell’autodenigrazione, così come hanno sostenuto che il pregiudizio contro un gruppo stigmatizzato può essere una forma di malattia. Questi estremi non sono di nostro interesse, in quanto gli schemi di risposta e adattamento considerati in questo saggio sono del tutto comprensibili nell’ambito della psicologia normale. In primis, riteniamo che le persone con diversi tipi di stigma si trovino in una situazione simile e che reagiscano in un modo altrettanto simile: poiché si teme che il farmacista del quartiere possa spettegolare ai vicini, le farmacie di quartiere vengono evitate da chi ha bisogno di qualsiasi farmaco o prodotto sanitario particolare. Si tratta di persone completamente 62 sintonia, anche esponendosi al rischio di passare da stolti. Tutto questo è implicito nell’affermazione che il passing venga fatto per ragioni divertenti. La persona che fa il passing occasionalmente spesso racconta l’episodio ai suoi compagni come prova della follia dei normali e del fatto che i loro argomenti riguardo alla sua diversità non sono che pure e semplici razionalizzazioni. Questi errori di identificazione sono oggetti di ironia da parte di chi fa il passing e dei suoi amici. Allo stesso modo si scopre che coloro che nascondono abitualmente la propria identità personale o lavorativa possono provare piacere nel tentare il diavolo, nel portare una conversazione con normali ignari su argomenti in cui i normali finiranno per rendersi ridicoli, perché esprimono idee che la presenza di chi fa il passing screditerà completamente. In questi casi, chi si dimostra falsa non è la persona con una diversità, ma tutte quelle che incappano in quella situazione e tentano di difendere modelli convenzionali di trattamento. Naturalmente ci sono anche esempi più diretti in cui quella che p minacciata non è la persona ma la situazione interazionale. I disabili fisici costretti a ricevere offerte di solidarietà e le domande da parte di estranei, possono tutelare la loro privacy con qualcosa di diverso dal tatto. Così, una ragazza con una gamba sola, soggetta a molte domande da parte di estranei sulla sua menomazione, sviluppò un gioco strategico che lei chiamava “prosciutto e gambe” e che consisteva nel rispondere alle domande con una spiegazione assurda presentata in modo drammatico. Un’altra ragazza nella stessa condizione racconta di un strategia simile: “Le domande sulle cause della mia amputazione mi annoiavano, così ho messo a punto una risposta standard che avrebbe dovuto scoraggiare la gente a proseguire nell’interrogatorio: “Ho chiesto un prestito in una banca e hanno preso la gamba a garanzia””. Si trovano anche risposte fulminee capaci di troncare un incontro indesiderato: “”Povera ragazza, vedo che ha perso una gamba”. Ecco l’opportunità per la stoccata: “Oh, come sono sbadata!”” Oltre a questo c’è l’arte molto meno gentile di prender in giro l’altro, per cui i membri dei gruppi svantaggiati, durante le occasioni sociali, inventano una storia su se stessi e su quello che provano davanti ai normali che goffamente esprimono la loro solidarietà, finché la storia arriva a un punto in cui risulta chiaramente che è stata congeniata in modo da apparire, alla fine, come una semplice invenzione. Un’occhiata gelida può scongiurare un incontro prima che abbia inizio, come mostrano delle memorie di un nano aggressivo: “C’erano quelli dalla sensibilità di un elefante, che mi guardavano come fanno i montanari accorsi a vedere uno spettacolo itinerante. C’erano quelli che sbirciavano al di sopra del giornale e abbassavano gli occhi arrossendo se colti sul fatto. C’erano i compassionevoli che, dopo esserti passati accanto, schioccavano la lingua così forte che potevi sentirli. Ma peggio di tutti, c’erano i chiacchieroni, i cui commenti potevano anche essere: “Come va povero ragazzo?” Lo dicevano con sguardi, modi e tono di voce inconfondibili. Io avevo una difesa valida per tutti: un’occhiata gelida. Così anestetizzato contro il mio prossimo, potevo affrontare il problema per me fondamentale: prendere la metropolitana e uscirne vivo”. Da qui siamo a un passo dai bambini storpi che riescono a picchiare qualcuno che li deride, o da coloro che, esclusi da certi ambienti con cortesia ma fermamente, con altrettanta cortesia e fermezza, vi entrano in gruppo e con decisione. La realtà sociale che risulta dall’incontro tra un individuo sensibile di una categoria di stigmatizzati e un normale dalle buon maniere avrà sempre una storia. Quando un attributo perde molta della sua forza stigmatizzante, come nel caso del divorzio o dell’appartenenza etnica irlandese, si assiste a un periodo in cui la definizione preesistente di quel tipo di situazione è fatta bersaglio di vari attacchi, prima in qualche lavoro teatrale e poi nel corso di contatti misti il luoghi pubblici, fino a quando quella definizione cessa di avere un peso sia rispetto a ciò che può esser mostrato senza difficoltà, sia riguardo a ciò che deve esser tenuto segreto o ignorato. In conclusione, va ripetuto che lo stigma non riguarda tanto un insieme di individui concreti che possono esser separati in due gruppi, gli stigmatizzati e i normali, quanto un pervasivo processo sociale a due ruoli in cui ogni individuo partecipa ad entrambi i ruoli, almeno in alcune relazioni e in alcune fasi della vita. i normali e gli stigmatizzati non sono persone, ma punti di vista che 65 vengono generati in situazioni sociali durante i contatti misti in virtù di norme di cui non si è consapevoli. Ma che possono esercitare un’influenza su tale incontro. Gli attributi che permangono per tutta la vita possono costringere il soggetto a svolgere il ruolo di stigmatizzato in quasi tutte le situazioni sociali in cui è coinvolto, rendendo naturale che si parli di lui, come ho fatto io, in quanto individuo stigmatizzato la cui situazione di vita lo colloca in opposizione ai normali. Tuttavia i suoi particolari attributi stigmatizzati non determinano la natura dei due ruoli, ma solo la frequenza con cui si assume uno dei 2. E poiché stiamo parlando di ruoli di interazione, non di individui concreti per certi aspetti dimostri tutti i normali pregiudizi nei confronti di coloro che sono stigmatizzati per altri aspetti. Sembra che, almeno nella società americana, l’interazione faccia a faccia sia costruita in modo tale da essere esposta al tipo di problemi considerati. Sembra che le discrepanze tra identità virtuale ed effettiva rimarranno sempre e che sempre susciteranno la necessità di gestire la tensione e di controllare le informazioni. E dove i vari tipi di stigma sono molto visibili o invasivi, o sono trasmissibili lungo linee familiari, allora le instabilità che ne derivano nell’interazione possono avere un effetto molto pervasivo su coloro ai quali viene attribuito il ruolo di stigmatizzato. Tuttavia, sia il fatto di ritenere indesiderabile una particolare caratteristica persona che la conseguente capacità di innescare questi processi tra i ruoli di stigmatizzato e di normale hanno una storia, una storia che viene modificata dalle azioni sociali intenzionali. E anche se si può sostenere che i processi di stigmatizzazione sembrano avere una formazione sociale generale e che in certa misura presumibilmente resistono al cambiamento, si deve considerare che sembrano implicare ulteriori funzioni, che variano secondo il tipo di stigma. La stigmatizzazione di coloro che hanno una cattiva reputazione morale può funzionare come mezzo di controllo sociale formale; la stigmatizzazione di membri di alcuni gruppi raziali, religiosi ed etnici sembra aver funzionato come mezzo per escludere queste minoranze da vari campi di competizione; e lo sviluppo di chi soffre di deturpazioni fisiche può essere interpretato come contributo a un necessario restringimento del campo di scelte sentimentali. 66 CAPITOLO V DEVIAZIONE E DEVIANZA Una volta considerato come le dinamiche della diversità screditante siano una caratteristica generale della vita sociale, possiamo proseguire guardando il rapporto tra lo studio di queste dinamiche e quello di problemi affini al termine “devianza. Muovendo dalla nozione generale di gruppo di individui che condividono alcuni valori e aderiscono a un insieme di norme sociali relative alla condotta e agli attributi personali, possiamo definire “deviatore” un singolo membro che non rispetta le norme, e “deviazione” la sua particolarità. Non penso che tutti i deviatori abbiano abbastanza tratti in comune da giustificare un’analisi specifica; differiscono tra loro molto più di quanto non siano simili, anche per la profonda differenza delle dimensioni dei gruppi nei quali possono verificarsi deviazioni. Tuttavia, è possibile suddividere il campo in settori più piccoli, alcuni dei quali potrebbero meritare di essere esaminati con attenzione. È noto che in alcuni piccoli gruppi molto uniti il fatto di ricoprire una influente posizione equivale all’autorizzazione a deviare e quindi a poter essere un deviatore. Il rapporto che il deviatore ha con questo tipo di gruppo, e la concezione che i membri hanno di lui, sono tali da impedire, proprio in virtù della stessa deviazione, ogni alterazione della struttura del gruppo. Il membro definito come fisicamente sofferente è nella stessa situazione; se gestisce correttamente la sua condizione, può allontanarsi dagli standard di prestazione senza che ciò si rifletta su di lui o sul suo rapporto con il gruppo. Il membro che si trova in una posizione eminente e quello malato possono allora essere liberi di essere deviatori perché la loro deviazione può essere completamente cancellata senza comportare una loro diversa identificazione; la loro situazione particolare dimostra che sono tutto tranne che dei devianti, nell’accezione comune del termine. In molti gruppi e comunità uniti ci sono casi di un membro che devia, per le azioni o per gli attributi, o per entrambi, e di conseguenza arriva a svolgere un ruolo speciale, diventando un simbolo del gruppo e un esecutore di certe funzioni clownesche, perfino quando gli viene negato il rispetto che invece è dato a tutti ed essere avvicinato da tutti senza problemi. È spesso al centro dell’attenzione e tiene tutti gli altri uniti in un cerchio intorno a lui, anche se ciò gli limita il suo status di partecipante. Sebbene sia per certi versi qualificato come un membro normale del gruppo, fa da mascotte. Ne sono esempi tradizionali lo scemo del villaggio, l’ubriacone del paese e il buffone del reggimento; un altro esempio è il ragazzo grasso dell’associazione studentesca. In un gruppo ci si aspetta di trovare solo una di queste figure, poiché ne basta solo una, visto che altre non sarebbero che un altro fardello per la comunità. Potrebbe essere chiamato deviante integrato per ricordare che è deviante rispetto a un gruppo concreto e non solo a delle norme e che la sua identificazione nel gruppo lo distingue da un altro tipo ben noto di deviatore, l’isolato del gruppo, che, pur non facendone parte, si trova sempre in situazioni sociali con esso. Si osservi che tutti i tipi di deviatori considerati qui fanno stabilmente parte di una cerchia nella quale sono condivise molte informazioni biografiche che li riguardano, insomma, c’è una completa identificazione personale. Abbiamo detto che nei piccoli gruppi il deviante integrato può essere distinto dagli altri deviatori perché, a differenza di questi si trova in una relazione asimmetrica con la vita morale accettata dalla media dei membri del gruppo. In verità, se volessimo prendere in considerazione altri ruoli sociali insieme a quello di deviante integrato, potrebbe essere utile esaminare quei ruoli che sono svolti da individui che non rispettano la moralità ordinaria del gruppo. Se cambiamo il “sistema di riferimento”, passando dai piccoli gruppi familiari ai gruppi che possono sostenere una maggior specializzazione dei ruoli, emergono due di questi ruoli. Uno di questi ruoli moralmente disallineati è quello di pastore o parroco: chi lo ricopre è obbligato a rappresentare la vita retta e a viverla più di una persona normale; l’altro è quello del tutore della legge, che deve vivere la propria ruotine quotidiana tra le infrazioni degli altri. Se si sposta ancora il “sistema di riferimento” da una comunità locale con relazioni faccia a faccia al più vasto mondo degli insediamenti metropolitani, si riscontra un corrispondente cambiamento nella varietà e nel significato delle deviazioni. Una di queste deviazioni, importante per la nostra analisi, è rappresentata da chi volontariamente e apertamente rifiuta di accettare il posto sociale che gli è assegnato e si comporta in modo irregolare e 67