Scarica Storia contemporanea del mondo arabo. I paesi arabi dall’impero ottomano ad oggi e più Dispense in PDF di Storia dei paesi islamici solo su Docsity! STORIA DEI PAESI ISLAMICI INTRODUZIONE La storia contemporanea dei singoli paesi non può essere disgiunta dall’analisi dell’evoluzione dei fenomeni storici transnazionali che hanno caratterizzato il mondo arabo nella stessa epoca. Grazie anche al potente collante della comune lingue araba fenomeni iniziati in un singolo paese si sono rapidamente riversati nell’insieme del mondo arabo, stimolando eventi simili negli altri paesi. Il termine Mondo arabo implica un’idea di somiglianza e di condivisione, fondata sulle innegabili caratteristiche comuni dei Paesi arabi, piuttosto che sulle loro differenze. Obiettivo del libro è quello di collegare la lettura della storia dei singoli paesi arabi all’analisi dell’evoluzione storica dei fenomeni comuni a tutto il mondo arabo. I paesi definiti arabi sono i 18 paesi, sei dell’Africa e dodici dell’Asia, in cui la lingua ufficiale e maggioritaria è l’arabo; un’accezione appena più allargata e istituzionale definisce i paesi arabi come i 22 paesi membri della lega degli stati arabi. L’identità araba di questi paesi p determinata dalla condivisione di una storia e di una cultura comune. CAP.1 IL MONDO ARABO CONTEMPORANEO: UNO SGUARDO D’INSIEME 0. Le quattro grandi fasi della storia araba contemporanea La storia politica contemporanea del mondo arabo può essere schematicamente divisa in quattro grandi fasi. La prima, lunga fase di gestazione del mondo arabo è stata quella della modernizzazione (1800-1920), caratterizzata da un lato dal progressivo inserimento dei paesi arabi nel sistema economico e politico internazionale dominato dagli europei, e dall’altro dal “riformismo difensivo”, il grande sforzo di riforma intrapreso dall’impero ottomano e della dinastie arabe autonome per appropriarsi della modernità e contrastare il predominio europeo. Questa prima fase è stata anche la fase della nascita dell’arabismo, dall’inizio dell’era coloniale e della Prima guerra mondiale, da cui è conseguita l’implosione del vecchio ordine imperiale ottomano. La seconda fase (1920-1945) è stata quella dalla prima alla seconda guerra mondiale, caratterizzata dalla nascita degli stati nazionali arabi, e del loro sistema regionale, che si sono realizzati sotto l’egida del colonialismo europeo, ambiguamente sostenuto dai notabili locali, ma progressivamente contrastato dalle lotte d’indipendenza, condotte in nome del nazionalismo arabo da nuove lite emergenti. La terza fase (1945-1979) è stata quella delle rivoluzioni e del panarabismo, in cui gli stati arabi, via via risosi indipendenti, hanno formalmente sostenuto le cause comuni del mondo arabo: l’unità araba, lo sviluppo economico, l’indipendenza, la difesa della causa palestinese. Ma si sono anche differenziati tra ricchi e poveri in virtù della ricchezza petrolifera emergente negli anni ’70. La quarta fase (1979-2015) è stata quella del declino del nazionalismo arabo, del moltiplicarsi dei conflitti regionali, dell’aumento delle disparità sociali e dell’emergere dei movimenti politici islamici come principale forza d’opposizione ai regimi autoritari. Questa quarta fase include il periodo (2010-2015) caratterizzato dall’esplosione delle mobilitazioni popolari della Primavera araba. 1. L’età della modernizzazione (1800-1920) 1.1 L’inserimento dei Paesi arabi nel sistema internazionale e il declino ottomano Il mondo arabo è entrato nell’età contemporanea via via che le sue province sono state coinvolte nei due fenomeni storici globali che hanno creato la modernità: da un lato l’espansione mondiale del sistema economico capitalistico europeo e dall’altro l’espansione mondiale del sistema politico europeo degli stati nazionali. Lo stimolo esterno innescato dal commercio internazionale è stato determinante per la progressiva integrazione del mondo arabo nel mondo di produzione capitalistico. I paesi europei avevano da sempre commerciato con i paesi arabi, ma solo all’inizio del XIX secolo i loro prodotti cominciarono a soppiantare quelli del medio oriente, mentre nello stesso periodo per i proprietari terrieri e per i contadini la vendita sul mercato internazionale inizio a essere più redditizia di quella sul mercato locale. Alla fine del XVIII secolo il vasto impero ottomano che comprendeva tutti gli attuali Pesi arabi, era di gran lunga il più esteso e potente degli stati. Alla fine del XVIII secolo le province dell’impero ottomano (fondazione 1453) si estendevano dall’Europa orientale e balcanica, al vicino oriente e alla penisola araba, sino all’africa del Maghreb. Tuttavia sin da quest’epoca l’impero aveva subito un progressivo ridimensionamento del proprio controllo sui territori. Infatti la cosiddetta crisi del XVI secolo , causata dal riorientamento delle rotte commerciali che, dopo la scoperta dell’America, aveva diminuito l’importanza delle potenze mediterranee aumentato quella delle potenze atlantiche, aveva colpito anche l’impero ottomano e comincio a segnarne il suo declino. Sul piano interno, questa crisi iniziò a manifestarsi come un lento sgretolamento del potere centrale, che vide il controllo dell’esercito passare ai vassalli del sultano, e l’emergere da questi di vere e proprie dinastie locali nei Balcani ed in Anatolia. Dal XVIII secolo questo processo riguardò anche le province arabe: quando Istanbul non fu più in grado di sovvenzionare i contingenti militari di stanza nel Maghreb, i capi dei vari contingenti locali si resero autonomi, creando vere e proprie dinastie. Anche in Siria e nella Penisola si affermarono principati locali, fondati da potenti famiglie dell’aristocrazia urbana o tribale. Anche se in modi e tempi diversi, questi nuovi poteri provinciali iniziarono talora processi di arabizzazione che prepararono il terreno al successivo sviluppo dell’identità nazionale araba. Contemporaneamente a questo sgretolamento interno del potere ottomano, sul fronte esterno avvenne una progressiva erosione territoriale dell’impero: nelle guerre combattute ad intermittenza tra Ottomani e potenze europee, l’impero perse tutti i suoi possedimenti in Europa orientale fino al Danubio. Dalla fine del XVIII secolo, l’impero ottomano non fu dunque più in grado di difendersi efficacemente dalla crescente superiorità militare degli europei, ai quali dovette fare sempre maggiori concessioni. Da questo momento in poi, mentre i Paesi arabi divennero sempre più un terreno di competizione tra gli Europei, la perpetuazione dell’impero ottomano fu dovuta anche all’interesse europeo (e particolarmente quello britannico) ad evitare che si scatenasse una guerra paneuropea per la spartizione dell’impero. 1.2 L’espansione europea e le politiche di riforma (Tanzimat) Dall’inizio del XIX secolo in poi, i Paesi arabi entrarono dunque nel sistema internazionale degli Stati e le mire espansionistiche del Concerto europeo si concretizzarono presto nella prima fase dell’espansione coloniale europea nel Mondo arabo. L’azione di contrasto dello smembramento dell’impero, esercitata soprattutto dalla Gran Bretagna, ebbe infatti solo un effetto di contenimento sulle grandi tendenze storiche ormai all’opera, quali il nazionalismo e l’imperialismo. La spinta generata in Europa alla nascita degli Stati nazionali come migliore forma d’organizzazione politica delle società modernizzate dal capitalismo si estese anche all’impero ottomano, e portò nel 1830 la Grecia ad ottenere l’indipendenza dagli Ottomani; successivamente, l’indipendenza fu raggiunta anche da Bulgaria, Serbia, Romania e Montenegro. Era ormai all’opera anche il fenomeno dell’imperialismo frutto del bisogno delle economie capitaliste europee di espandersi fuori del continente per controllare direttamente rotte commerciali, materie prime e nuovi mercati. La Francia iniziò in Algeria la prima conquista coloniale europea nel Mondo arabo, presto seguita dall’occupazione britannica del porto di Aden nello Yemen, scalo strategico sulla rotta dell’istituendo dominio coloniale inglese in india. Intanto, in cambio dell’assistenza ottenuta contro le mire espansionistiche di Muhammad Ali, gli Ottomani firmarono con la Gran Bretagna la convenzione commerciale detta di Balta Liman che, bandendo ogni forma di protezionismo, toglieva all’Impero ottomano la possibilità di difendere la propria economia dalla penetrazione europea. Il conseguente squilibrio della bilancia commerciale ottomana comportò, sul fronte finanziario, un’erosione delle riserve monetarie ed un maggior ricorso ai crediti delle banche europee, che via via aprivano filiali nei Paesi arabi. Un’importante conseguenza fu il mutamento dei rapporti di potere che si realizzò, da un lato, tra le élite commerciali musulmane e quelle cristiane, divenute partner privilegiati delle imprese europee e, dall’altro, tra le province arabe, laddove in quelle più prossime alle coste mediterranee si svilupparono più intensamente e rapidamente i cambiamenti collegati al commercio internazionale, mentre le provincie dell’interno restavano relativamente più isolate. Nonostante gli sviluppi appena ricordati, sarebbe fuorviante immaginare il Mondo arabo in questa prima fase della sua storia contemporanea come una preda inerte dell’espansione europea. La realtà fu molto più articolata, soprattutto perché gli effetti locali dei fenomeni legati all’espansione mondiale del sistema capitalistico e degli Stati nazionali furono mediati e trasformati da processi autoctoni, definiti di “sviluppo difensivo”. Nell’Impero ottomano ed in alcuni dei suoi stati vassalli, questi processi si concretizzarono nell’avvio di riforme dall’alto mirate alla modernizzazione, le quali presero il nome di Tanzimat: esse avevano lo scopo di creare le risorse economiche e politiche necessarie per godere dei benefici della modernità e contrastare così l’ascesa del predominio europeo. Le riforme modernizzatrici (Tanzimat) non furono però realizzate solo dal sultano ottomano, e neppure iniziarono ad Istanbul: la politica dello sviluppo difensivo iniziò in un Paese arabo, mondo musulmano, nel periodo della grande trasformazione tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Gli intellettuali musulmani riformisti guardavano al progresso fondato sulla scienza, per liberare le società islamiche dall’oscurantismo che ne aveva causato la stagnazione ed il declino. Per far questo, il riformismo musulmano si riallacciava al grande umanesimo islamico. Pur condividendo con i movimenti di tajdid l’aspirazione al ritorno all’islam “puro” del Profeta e dei suoi primi compagni, l’interpretazione dottrinaria e culturale dei modernisti era profondamente diversa da quella dei movimenti salafiti, in quanto poneva l’enfasi sul concetto di riforma (islah) e di progresso piuttosto che su quello di purificazione e ritorno al passato. Semplificando un dibattito complesso, possiamo perciò dire che i principali ulema protagonisti del modernismo musulmano partirono dal dato teologico islamico per elaborare proposte di riforma culturale e politica mirate alla rinascita della umma, contribuendo così in modo fondamentale agli aspetti culturali del cosiddetto sviluppo difensivo del Mondo arabo.
Un esempio chiaro in questo senso è la partecipazione degli ulema del riformismo musulmano all’elaborazione dell’arabismo e del nazionalismo arabo, ovvero dell’idea dell’esistenza di un’identità araba e della necessità di dare a questa identità “ritrovata” una traduzione politica nel nazionalismo arabo e nel patriottismo locale. L’arabismo ed il nazionalismo arabo, i fenomeni politico-culturali che hanno segnato la nascita del Mondo arabo alla fine del XIX secolo, sono dunque emersi dall’incontro tra molteplici stimoli interni ed esterni e non come “semplice” frutto dell’importazione dei modelli nel nazionalismo europeo. Storicamente, l’arabismo ha preso piede durante la Nahda (in arabo “risorgimento, rinascita”), periodo di rinnovamento culturale sviluppatosi a cavallo tra XIX e XX secolo, durante il quale nelle province arabe dell’Impero ottomano, e particolarmente in quelle della Grande Siria e dell’Egitto, la lingua araba fu rinnovata, anche attraverso la diffusione della stampa periodica in arabo, e si moltiplicarono i circoli letterari e le associazioni in cui gli intellettuali arabi (musulmani e cristiani) discutevano di cultura, di progresso e di politica. Della Nahda furono dunque protagoniste tutte le componenti delle élite arabe del Mashreq, coinvolte nella modernizzazione e nel riformismo. Da identità riscoperta, l’arabismo culturale si trasformò poi in nazionalismo politico quando, dopo il colpo di Stato che nel 1908 portò al governo dell’Impero i nazionalisti turchi, le élite arabe del Mashreq iniziarono a rivendicare prima l’autonomia contro il centralismo ed il dispotismo turco, e poi l’indipendenza delle province arabe. La formazione dell’identità araba seguì però tempi e modi diversi nelle diverse regioni e Paesi del mondo arabo, differenza dovuta a molteplici fattori. Semplificando, possiamo dire che nei Paesi del Maghreb il nazionalismo arabo si diffuse più tardi e diversamente, poiché questi Paesi sperimentarono un più breve periodo di riformismo e “sviluppo difensivo” e furono sottoposti al dominio coloniale già dalla metà del XIX secolo; inoltre, le élite del Maghreb non furono direttamente protagoniste della rinascita culturale araba della Nahda. Nel Maghreb si svilupparono tuttavia importanti movimenti islamici che si opposero militarmente al colonialismo: i leader di questi movimenti magrebini facevano riferimento al pensiero del modernismo musulmano, diffuso dall’Oriente all’Occidente arabo grazie all’opera di singole personalità innovatrici ma anche grazie alla tradizionale circolazione degli intellettuali musulmani nei principali centri del sapere del Mondo arabo-islamico. Anche nei Paesi della Penisola araba il nazionalismo arabo si sviluppò più tardi ed in forme peculiari, soprattutto perché la regione fu meno toccata dai due grandi fattori di cambiamento dell’epoca: la penetrazione economico-politica europea e le riforme statali modernizzatrici. In effetti, la penetrazione europea toccò la Penisola solo dalla metà del XIX secolo, quando la Gran Bretagna iniziò a cercare di controllarne le coste ed i porti principali della regione. Quando alle riforme modernizzatrici, dato il controllo comunque limitato degli Ottomani nella Penisola, le Tanzimat toccarono marginalmente solo la regione dell’Hijaz (nell’attuale Arabia Saudita) e l’odierno Kuwait. 1.5 Lo spartiacque della Prima Guerra Mondiale Fu proprio nella Penisola araba che si consumò tuttavia il primo atto politico-militare del nazionalismo arabo: la cosiddetta “Grande Rivolta” (1916-1918) araba, lanciata dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale come jihad antiottomana dallo sharif Hussein ibn Ali degli Hashemiti, governatore ottomano dell’Hijaz dal 1908. Per ironia della storia, la rivolta nazionalista che la guerra e la repressione ottomana impedirono in Siria, culla del nazionalismo arabo, riuscì invece nel più arretrato Hijaz, dove le truppe tribali degli Hashemiti, guidate dai figli di Hussein, con l’aiuto militare britannico riuscirono a scacciare gli Ottomani. La Rivolta arava guidata dal figlio di Hussein Feisal, coadiuvato, tra gli altri, dal maggiore inglese T. Lawrence (poi noto come “Lawrence d’Arabia”), riuscì a portare verso nord una guerriglia nelle retrovie ottomane, rafforzata anche dagli ufficiali arabi disertori dell’esercito imperiale, che giunse a conquistare Damasco nell’ottobre del 1918. L’avvio della Grande Rivolta araba era stato preceduto da un carteggio tra lo sharif Hussein e l’alto commissario britannico al Cairo McMahon, in base al quale Hussein ed i nazionalisti arabi ritennero di avere l’appoggio britannico per la costituzione di un regno arabo indipendente nel Mashreq e nell’Hijaz in caso di sconfitta degli Ottomani. Hussein proclamò il suo regno nell’Hijaz già nel 1916, ma l’unione col Mashreq non fu mai realizzata, dal momento che essa era contraria agli interessi di Francia e Gran Bretagna nella regione.
In effetti, quando nel novembre 1914 l’Impero ottomano entrò in guerra a fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria, i Britannici si impegnarono in uno scontro su più fronti contro gli Ottomani. Nel frattempo, gli inglesi cercarono di promuovere alleanze diplomatiche con i leader arabi in funzione antiottomana; contemporaneamente, tuttavia, essi iniziarono a sostenere il programma sionista di insediamento in Palestina e si accordarono con gli alleati europei per la spartizione dei territori dell’Impero ottomano, in caso di vittoria. Nel quadro di questi accordi, dal novembre 1915 i Britannici negoziarono con gli alleati francesi un’intesa diplomatica segreta per la divisione delle province arabe ottomane del Mashreq in zone di influenza anglo-francesi: l’accordo detto di Sykes-Picot. Nel 1918, la Prima Guerra Mondiale finì sul fronte orientale con la sconfitta dell’Impero ottomano. Finito il conflitto mondiale, nella Conferenza di pace di Parigi (1919-1920) le potenze vincitrici, e principalmente Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia poterono ridisegnare a proprio vantaggio tutti gli assetti territoriali e politici coinvolti dalla guerra. In Medio Oriente, questo significava soprattutto la conciliazione dei diversi (e spesso contrastanti) interessi delle potenze vincitrici con le rivendicazioni conflittuali dei nazionalismi locali variamente incoraggiati, soprattutto dai Britannici, durante la guerra. Le potenze vincitrici dovettero anche conciliare interessi contrastanti a livello globale come quelli che opponevano Francia e Gran Bretagna, le maggiori potenze coloniali europee, agli Stati uniti, favorevoli dal 1914 all’autodeterminazione dei popoli, soprattutto perché vedevano negli imperi coloniali un ostacolo al libero commercio mondiale, su cui si fondava la loro supremazia. Vi erano poi le varie divergenze d’interesse che contrapponevano Francia e Gran Bretagna a livello locale, specie sull’assetto da dare alla Grande Siria ed all’Iraq. Queste divergenze furono regolate con un accordo segreto in cui, in un complicato gioco di revisione del precedente accordo segreto Sykes-Picot, la Gran Bretagna acquisì la provincia petrolifera di Mosul in Iraq ed ottenne il controllo esclusivo della Palestina, in cambio della rinuncia a sostenere la costituzione di un regno arabo indipendente nell’attuale Siria, la quale veniva invece lasciata sotto l’esclusivo controllo francese. Appianate in segreto le proprie divergenze nel Mondo arabo, le due potenze europee cercarono poi un accordo con gli Stati Uniti; poiché le ex province ottomane del Mashreq non potevano diventare colonie anglo-francesi, ma nemmeno Stati indipendenti, il compromesso fu trovato nell’inedita formula del “mandato”: un nuovo statuto di diritto internazionale che, sotto l’egida della neo-costituita Società delle Nazioni, affermava che: “Alcune comunità che appartenevano un tempo all’Impero ottomano hanno raggiunto un grado di sviluppo tale che la loro esistenza come nazioni indipendenti può essere riconosciuta provvisoriamente, a condizione che i consigli e l’aiuto di uno Stato mandatario guidino la loro amministrazione”. L’istituzione dei mandati cancellava evidentemente il principio di autodeterminazione dei popoli, il quale prevedeva l’obbligo di tenere conto della volontà dei popoli dei Paesi in questione. Inoltre, alla Conferenza di pace di Parigi, la maggioranza dei Paesi arabi non fu realmente rappresentata, se non da delegazioni fantoccio. Il Protocollo di Sanremo sancì dunque l’istituzione del sistema dei mandati nel Mashreq, confermando l’affidamento alla Francia del mandato su Siria e Libano ed all’Inghilterra del mandato su Iraq e Palestina (comprensiva dell’attuale Giordania). Il Protocollo fu adottato in spregio alle promesse d’indipendenza fatte agli Arabi durante il conflitto e nonostante le diverse richieste dei nazionalisti arabi. Dopo le rivendicazioni degli intellettuali della Nahda e la Grande Rivolta indipendentista arava del 1916, l’occupazione coloniale mascherata, rappresentata dai mandati, equivalse per i nazionalisti arabi ad un vero e proprio tradimento dei principi del liberalismo occidentale sin lì sottoscritti. Nella memoria storica del nazionalismo arabo, la ferita del “tradimento” occidentale del 1920 (definito ‘am al-nakba: anno della catastrofe) è uno dei miti fondatori dell’antioccidentalismo arabo, mito che resta molto forte tutt’oggi. 2. L’età del colonialismo e dei notabili (1920-1945) 2.1 La fondazione coloniale del nuovo sistema regionale La spartizione coloniale dei Paesi aravi del Mashreq tra Francia e Gran Bretagna provocò un’ondata di rivolte in Egitto, Siria, Iraq e Palestina che, iniziata nel 1920, continuò ad intermittenza nel decennio successivo. Tuttavia, le rivolte arabe contro i mandati non riuscirono ad ottenere quello che ottenne la Turchia, dove la guerra di resistenza di quel che rimaneva dell’esercito ottomano, guidata da Mustafa Kemal “Atatürk” (“Padre dei Turchi”), ottenne il riconoscimento dell’indipendenza della Repubblica turca col trattato di Losanna del 1923. Invece, le rivolte arabe in Egitto, Siria, Iraq e Palestina furono prive di una vera e propria forza militare, poiché erano essenzialmente rivolte di origine rurale, e non riuscirono quindi a conquistare l’indipendenza per i rispettivi Paesi, ma solo a costringere Francia e Gran Bretagna a rivedere i parzialmente i loro piani, in particolare riconsiderando i confini e le forme di governo da applicare nelle loro nuove colonie arabe.
Dopo l’imposizione dei mandati, la repressione delle rivolte nazionaliste arabe segnò dunque uno spartiacque per la storia del Mondo arabo contemporaneo, confermando l’esistenza di un nuovo sistema di Stati arabi controllato dalle potenze europee, che restò non pacificato sotto il dominio coloniale, ma fu comunque progressivamente consolidato nella sua configurazione territoriale, rimasta sostanzialmente invariata sino ad oggi. La definizione politica degli Stati arabi contemporanei fu dunque in gran parte il risultato diretto delle due successive ondate di colonizzazione europea del Mondo arabo: quella del Maghreb e della valle del Nilo (Egitto e Sudan), realizzata tra il 1830 ed il 1912 da Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna; e quella del Mashreq, progettata da Francia e Gran Bretagna prima con l’accordo segreto di Sykes-Picot del 1916 e poi realizzata col Protocollo di Sanremo del 1920, che istituiva i mandati. Solo due Paesi arabi della Penisola, Arabia Saudita e Yemen del Nord, sfuggirono al dominio coloniale diretto, ma anche questi Paesi subirono l’influenza coloniale sulla regione. La profonda distorsione dello sviluppo politico del Mondo arabo prodotta dal colonialismo può essere simboleggiata dal fatto paradossale che, dopo la Prima Guerra Mondiale, a piena indipendenza fu riconosciuta solo a due tra i Paesi più arretrati (appunto, lo Yemen del Nord e l’Arabia Saudita), mentre i Paesi arabi più avanzati dal punto di vista dello sviluppo socio- economico e socio-culturale (Egitto, Siria, Tunisia) venivano tenuti sotto un soffocante controllo coloniale. Inoltre, mentre nel Maghreb, nella valle del Nilo e nella Penisola i confini geografici e demografici degli Stati creati dal colonialismo ricalcavano grosso modo quelli delle entità politiche già esistenti nel periodo precoloniale, nel Mashreq la spartizione coloniale frantumò o accorpò arbitrariamente le preesistenti entità socio-politiche. Questa più marcata artificialità della configurazione territoriale degli Stati creati dal colonialismo nel Mashreq ha avuto importanti ripercussioni storiche, creando i presupposti per una più acuta fragilità identitaria, ed una più intensa conflittualità territoriale in questa regione del Mondo arabo. Il colonialismo nel Mondo arabo si è differenziato sotto molti altri profili. Dal punto di vista della legittimazione internazionale e della forma giuridica, il dominio europeo sul Mondo arabo è stato istituzionalizzato in quattro tipologie principali: la colonia, il protettorato, il trattato di cooperazione ed il mandato. Le colonie vere e proprie sono state realizzate nei territori considerati privi di Stato, occupati militarmente e governati direttamente da uno Stato sovrano europeo. Il protettorato, forma di dominio “inventata” dalla Francia in Tunisia, riconosceva invece l’esistenza nel Paese colonizzato di un’organizzazione statuale autonoma, alla quale veniva imposta la sottoscrizione di accordi che garantivano alla potenza coloniale il diritto di “proteggerla”, controllando direttamente o indirettamente tutti gli aspetti del governo del Paese. Invece, i trattati di cooperazione, realizzati soprattutto dalla Gran Bretagna con gli emirati della Penisola orientale, sono state forme mascherate e più blande di protettorato, instaurate attraverso trattati internazionali, con i quali il governo locale accettava una serie di obbligazioni nei confronti della potenza straniera, generalmente a garanzia di concessioni di natura economica e militare (diritti di sfruttamento delle risorse, diritti di transito, etc...). I mandati, istituiti nel Mashreq dopo la Prima Guerra Mondiale, sono stati anch’essi una forma di colonizzazione mascherata, le cui specificità erano la temporaneità ed il ruolo di garanzia teoricamente svolto dalla comunità internazionale nei confronti del Paese “affidato” alla potenza mandataria per essere avviato alla piena indipendenza. Altre differenze sostanziali tra i diversi regimi coloniali sono dipese dalla durata e dalle caratteristiche del dominio, in particolare dalla numerosità e dal ruolo dei coloni europei immigrati. Più in generale, le molteplici diversità di politica, interessi e tradizioni tra Francia. Gran Bretagna, Italia e Spagna determinarono differenze nei caratteri e negli effetti dei vari regimi coloniali. Nonostante le differenze locali è però possibile individuare un “modello di controllo” coloniale lungo periodo, ma contemporaneamente avevano come obiettivo immediato l’opposizione al dominio coloniale ed il raggiungimento dell’indipendenza politica nei rispettivi Paesi.
Negli anni ‘30 e ‘40 nacquero partiti d’opposizione ispirati al nazionalismo arabo. Il più importante dei partiti transnazionali istituiti in questo periodo fu senza dubbio il partito Ba’th (in arabo: “resurrezione”), fondato a Damasco nel 1947. Tra i molti partiti nazionalisti panarabi nati in questo periodo, il Ba’th fu l’unico capace di durare e diffondersi con le branche autonome in tutto il Mondo arabo.
Nel 1943 il primo ministro egiziano Mustafa Nahhas lanciò la proposta di costituire una “Lega degli Stati Arabi”, proposta che convinse molti dei leader arabi del tempo. Questo rapido successo della proposta avvenne perché, a differenza dei precedenti progetti di unione regionale, non richiedeva cessioni di sovranità, ma solo una cooperazione istituzionalizzata tra Stati sovrani. Fondata al Cairo nel marzo 1945 da sette Stati arabi (Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iraq, Libano, Yemen e Siria), la Lega degli Stati Arabi si diede un’organizzazione modellata sulla coeva Organizzazione delle Nazioni Unite ed uno statuto che definiva come obbiettivi della Lega le principali cause comuni del Mondo arabo (indipendenza, sviluppo e cooperazione, etc...), nonché le modalità con cui perseguire l’integrazione interaraba. l’idea dell’unità araba acquistò così una dimensione istituzionalizzata, che rafforzava i singoli governi e Stati membri delle Lega, legittimandoli grazie al loro appoggio al nazionalismo e fornendo loro un forum di cooperazione regionale organizzato. In virtù del suo patrocinio della Lega araba, che prese sede al Cairo ed ebbe quasi sempre segretari generali egiziani, l’Egitto si candidò a divenire il Paese leader di un Mondo arabo ora più coeso ed identificabile. Nel volgere del ventennio successivo, la maggioranza dei Paesi arabi divenne formalmente indipendente ed aderì alla Lega araba. 2.5 La Seconda Guerra Mondiale e l’indipendenza dei Paesi arabi La Seconda Guerra Mondiale, combattuta sul fronte nordafricano e, molto marginalmente, anche nel Mashreq, non comportò per il Mondo arabo stravolgimenti epocali come la Prima. Tuttavia, i cambiamenti impressi dal conflitto agli equilibri locali e, soprattutto, al sistema internazionale, ebbero l’effetto complessivo di spianare la strada alla finire del dominio coloniale europeo nel Mondo arabo e dare inizio all’era dell’indipendenza. Senza dubbio, uno dei più importanti esiti globali della Seconda Guerra Mondiale fu il declino delle potenze europee, la fine dei loro imperi coloniali e l’ascesa di Usa ed Unione Sovietica, le due nuove superpotenze vincitrici del secondo conflitto mondiale.
L’indipendenza formale dei Paesi arabi, sancita dal riconoscimento internazionale della loro sovranità e dal conseguente accesso ai massimi organismi internazionali dell’epoca, si realizzò in tre ondate.
La prima ondata di indipendenze fu quella tra le due guerre mondiali; la seconda ondata fu quella del periodo 1943-1956; infine, la terza ondata fu quella delle indipendenze “tardive”, vuoi per il protrarsi del conflitto coloniale, vuoi la debolezza delle spinte indipendentistiche. 3. L’età delle rivoluzioni nel Mondo arabo (1945-1979) Gli anni compresi in questa terza grande fase storica sono quelli durante i quali il Mondo arabo è emerso alla ribalta mondiale, ha goduto d’un relativo margine d’autonomia nel sistema internazionale ed ha sperimentato il socialismo arabo ed il panarabismo, che furono ideologie e politiche specificamente “arabe”. I principali motori degli eventi e delle trasformazioni di questa fase furono: l’indipendenza e la costituzione di nuovi regimi politici, caratterizzati dall’espansione del ruolo dello Stato; il rinnovamento delle élite arabe, con il passaggio del potere, spesso per via rivoluzionaria, dai notabili tradizionali ad una nuova borghesia di burocrati e militari; la prosecuzione della modernizzazione socio-culturale; e, infine, lo sviluppo dello sfruttamento delle risorse energetiche. 3.1 La crisi post-indipendenza nel Mashreq e la Nakba in Palestina La fine del dominio coloniale europeo nel Mondo arabo si realizzò con modalità diverse da Paese a Paese: in alcuni casi vi furono anni di negoziati sul trasferimento dei poteri; in altri, il colonialismo fu spezzato via da rivolte e guerriglie, più o meno prolungate; in altri casi ancora, l’indipendenza fu concessa dall’altro, quando la potenza coloniale decise di ritirarsi. Comunque avessero ottenuto il potere, i nuovi governanti degli Stati arabi si trovarono tutti ad affrontare gli stessi problemi: l’arretratezza socio-economica, la debolezza delle istituzioni statali e la fragilità dell’identità nazionale. Nel Mashreq, i nuovi governi indipendenti si rivelarono presto incapaci di affrontare le sfide dello sviluppo, della legittimità e dell’efficienza, la cui risoluzione avrebbe richiesto di affrontare la questione sociale ed assicurare che l’indipendenza agli ex colonizzatori fosse anche economica e strategica, non solo politico-istituzionale. Il decennio successivo all’indipendenza fu dunque un periodo di instabilità per tutti i Paesi arabi del Mashreq. Ad incidere sull’instabilità dei nuovi Stati non fu solo lo scontro di potere o di classe, bensì anche la debolezza dell’identità nazionale, esacerbata dall’origine (se non l’invenzione) coloniale di molti Stati arabi e dall’eredità delle politiche coloniali basate sul divide et impera, che avevano incoraggiato la contrapposizione tra le diverse componenti sociali, regionali ed etnico-confessionali. Lo scoppio del conflitto arabo-israeliano per la Palestina nel 1948 amplificò a dismisura questa prima fase di instabilità dei regimi indipendenti e ne radicalizzò gli sviluppi. Quando il 17 novembre 1947 le Nazioni Unite adottarono una risoluzione che sanciva la divisione della Palestina in due Stati, uno ebraico ed uno arabo, nessuno si illuse che non vi sarebbero stati problemi per la spartizione del territorio, poiché esso era stato conteso sin dall’inizio del mandato britannico tra la comunità palestinese autoctona e quella ebraica sionista immigrata dal 1882. Quello che però in ben pochi avevano previsto erano le dimensioni tragiche e la durata storica del conflitto, il quale sarebbe conseguito dalla decisione Onu per la spartizione, voluta dai sionisti col sostegno degli Usa ed avversata dagli Stati arabi. Dal 30 novembre 1947 e per i sei mesi seguenti, Ebrei e Palestinesi combatterono una violenta guerra civile, in cui i disorganizzati Palestinesi persero progressivamente terreno, mentre gli Ebrei passarono all’offensiva, espellendo i Palestinesi dai territori assegnati allo Stato ebraico ed occupando parte dei territori assegnati a quello palestinese. Già nell’aprile del 1948 i Palestinesi avevano cessato di combattere in modo organizzato. Per quanto riguarda i paesi arabi, prima e dopo il novembre 1947 la Lega araba aveva indetto continue riunioni sulla crisi in Palestina, ma, a causa dell’instabilità politica dei suoi membri, delle rivalità interne e della debolezza dei vari eserciti, oltre a respingere la risoluzione dell’Onu ed a sostenere modestamente la milizia palestinese, la Lega non era stata in grado di attuare nessuna strategia politico-militare congiunta. Dunque, nonostante la retorica bellicosa, i governi dei Paesi arabi confinanti con la Palestina erano divisi ed incerti, mentre in Palestina infuriava la guerra civile ed i Palestinesi venivano sconfitti ed espulsi. Solo la pressione delle opinioni pubbliche arabe, scioccate dalla tragedia in corso in Palestina, costrinse i governi di Egitto, Giordania, Siria, Iraq, Libano ed Arabia Saudita a dichiarare guerra allo Stato di Israele e ad inviare dei contingenti militari ufficialmente per difendere i Palestinesi ed il territorio assegnato dall’Onu allo Stato arabo-palestinese.
Gli Stati arabi, entrati in guerra divisi, impreparati, sospettosi gli uni degli altri e con soldati male armati subirono una pesantissima sconfitta militare nella guerra di Palestina, che durò dal maggio 1948 all’inizio del 1949. Di conseguenza, dopo gli armistizi firmati separatamente dai paesi arabi nei primi mesi del ‘49, Israele occupava il 78% del territorio della Palestina mandataria (la risoluzione Onu gliene aveva assegnato il 56%) e persino una parte di territorio egiziano nel Sinai. Alla fine della guerra, dei territori assegnati dall’Onu allo Stato palestinese, mai formalmente costituito per non dare legittimità alla spartizione avversata, restavano in mano araba solo la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, occupata e poi annessa alla Giordania. La sconfitta in Palestina dimostrò drammaticamente agli Arabi del Mashreq l’incapacità dei loro governi di realizzare le promesse di sviluppo e sicurezza fatte al momento dell’indipendenza. La colpa della sconfitta araba fu attribuita tanto alla debolezza ed alla corruzione delle élite al potere nei singoli Paesi, quanto alla mancata realizzazione dell’unità araba, senza la quale sarebbe stato impossibile per gli Arabi realizzare le loro aspirazioni. I cambiamenti non si fecero attendere: negli anni immediatamente successivi alla sconfitta del 1948, tutti i Paesi arabi confinanti con Israele subirono profondi stravolgimenti politici. Dunque, la sconfitta degli Arabi in Palestina contribuì ad influenzare gli sviluppi storici del Mondo arabo in molti modi, a cominciare da questa prima ondata di colpi di Stato militari e di cambiamenti di regime nel Mashreq post-coloniale. 3.2 I nuovi regimi post-indipendenza Pur nella diversità dei casi nazionali, possiamo dire che dopo l’indipendenza tutti i Paesi arabi, non solo quelli del Mashreq sconvolti dalla Nakba, bensì anche quelli del Maghreb e della Penisola, sperimentarono una “crisi di crescita”. Durante questo turbolento periodo di transizione, negli Stati arabi neo-indipendenti emersero i leader nazionali, il profilo istituzionale dei nuovi regimi politici, le coalizioni di potere dominanti e le loro basi sociali. Per tutti i Paesi arabi, la via d’uscita dall’instabilità post-indipendenza fu fornita dallo statalismo, ossia dalla progressiva espansione e dal relativo consolidamento del potere dello Stato e, in particolare, dei suoi apparati burocratici e di sicurezza, il che comportò anche un mutamento della composizione delle élite al potere. I Paesi della Penisola non subirono un controllo coloniale diretto e perciò non sperimentarono le lotte d’indipendenza anticoloniali, che altrove fecero emergere le nuove élite, forme moderne di organizzazione politica e diffusero il nazionalismo arabo a livello popolare. Tuttavia, i Paesi della penisola non restarono isolati dagli sviluppi che interessavano il Mondo arabo: infatti, la progressiva integrazione dei Paesi della penisola nell’economia capitalistica tramite il commercio internazionale e la conseguente modernizzazione socio-economica, ebbero anche in questi paesi profondi effetti trasformativi, benché meno rapidi e meno evidenti che nel resto del Mondo arabo. In particolare, dalla fine degli anni ‘40, fu l’inizio dello sfruttamento industriale del petrolio ad avere per i diversi paesi della Penisola conseguenze simili a quelle dell’accesso all’indipendenza nel resto dei paesi arabi l’inizio dell’era petrolifera, infatti, stimolò anche negli Stati della penisola la necessità di sviluppare tutti gli apparati dei moderni Stati nazionali, processo che contribuì a portare al potere le componenti delle élite nazionali più capaci di guidare questo nuovo sviluppo. In generale lo statalismo, cioè il ruolo dominante dello Stato e del regime, nacque dal bisogno di accentrare le decisioni e le risorse al fine di garantire la sicurezza interna ed esterna dei paesi neo-indipendenti, dopo il ritiro delle forze coloniali, ma anche per promuovere vasti programmi di sviluppo nazionale. Nel Mondo arabo, lo statalismo ebbe anche motivazioni più specifiche, quali la debolezza del settore privato nazionale nel promuovere lo sviluppo economico; la necessità di affrontare la questione sociale, diminuendo il potere politico dei latifondisti tramite ampie riforme agrarie; e, inoltre, la necessità di sopperire rapidamente al deficit di personale e competenze tecniche creato dall’esodo dei coloni dopo l’indipendenza. L’effetto più evidente dello statalismo fu, in ogni caso, l’enorme crescita dell’apparato burocratico statale, necessario per svolgere le funzioni di garante dello sviluppo e della sicurezza attribuite allo Stato dai nuovi regimi. Le riforme agrarie, le nazionalizzazioni ed i monopoli commerciali furono i principali strumenti attraverso i quali i nuovi regimi statalisti arabi sottrassero potere politico-economico alle élite tradizionali, per trasferirlo allo Stato e, talvolta, ridistribuirlo alla popolazione. Quando si realizzò, questa ridistribuzione della ricchezza avvenne direttamente, come nel caso delle vendite sovvenzionate ai contadini o alle cooperative delle terre tolte ai latifondisti, o indirettamente, attraverso la creazione di nuove infrastrutture e nuovi servizi pubblici. I risultati in termini di sviluppo socio-economico delle politiche stataliste furono importanti: le economie arabe crebbero in maniera consistente e crebbe anche il benessere medio della popolazione. L’agricoltura fu migliorata dall’estensione delle terre coltivabili, dalle irrigazioni e dalla meccanizzazione. Questo miglioramento fu reso possibile soprattutto dalla riduzione dei latifondi, realizzato con le riforme agrarie e le nazionalizzazioni, nonché dallo sviluppo delle grandi infrastrutture. Il ventennio 1950-1970 vide anche lo sviluppo dell’istruzione di massa, così che alla fine del periodo la quasi totalità dei bambini maschi e tre quarti delle bambine avevano accesso all’istruzione primaria, mentre l’istruzione secondaria coinvolgeva tre quarti dei maschi ed un quarto delle femmine: un progresso davvero notevole, se si considera che nel 1923 solo il 2% della popolazione araba in età scolastica andava a scuola. Dopo l’indipendenza, lo statalismo accomunava tutti i nuovi regimi arabi; tuttavia, questi regimi si differenziavano sotto molti aspetti, che li rendevano riconducibili a due tipologie principali: le repubbliche, dette “rivoluzionarie” o “progressiste”; e le monarchie, dette “moderate” o “conservatrici”. Questi due tipi di regime si diversificavano in base ai diversi modelli politico- istituzionali adottati, ai differenti orientamenti ideologico-culturali sostenuti ed alle diverse alleanze internazionali sottoscritte.
Le repubbliche “progressiste” istituite in Egitto, Iraq, Siria, Algeria e Yemen del sud, dal punto di vista istituzionale adottarono un regime repubblicano di tipo presidenziale, in cui il presidente, quasi sempre un militare dalla personalità carismatica, era dotato di amplissimi poteri, che gli consentivano di controllare governo, parlamento, forze armate e gli alti gradi della burocrazia statale. L'altro pilastro della struttura politica era un sistema corporativo di rappresentanza politica, che in quadrava i cittadini attraverso un esteso partito unico (o dominante) ed istituzioni i rappresentative delle diverse componenti sociali in cui era segmentata la popolazione. Erano queste istituzioni corporative a rappresentare il popolo nel parlamento, istituito per sostenere il regime, e non i partiti d’opinione, la cui formazione era vietata per legge. L’orientamento ideologico-culturale dei regimi delle repubbliche progressiste era articolato attorno ad alcuni principi fondamentali: l’unità nazionale, lo sviluppo socio-economico, l’indipendenza sostanziale da quanto restava del colonialismo e del “feudalesimo” (ovvero il potere dei notabili e, infine, la lotta per l’unità araba e la liberazione della Palestina. Il discorso di regime sosteneva il “diritto-.dovere” del popolo di raggiungere questi obiettivi e prometteva di garantirne la realizzazione.
In cambio di queste promesse, il “patto sociale” istituito richiedeva alla popolazione ubbidienza e regimi arabi “moderati”, timorosi d’essere travolti dal vento delle rivoluzioni che sembrava spazzare la regione. Le monarchie arabe si schierarono tutte nel campo occidentale ma, contemporaneamente, dovettero mantenere alte le proprie credenziali nazionaliste per rinforzare la propria legittimità.
Nel decennio 1957-1967 si rafforzò nel Mondo arabo un modello peculiare di relazioni interstatali, in cui la continua “negoziazione” dell’ordine regionale tra i diversi Stati arabi era fatta di modica e cangiante cooperazione, ma anche di profondi conflitti. L’esempio più chiaro del carattere paradossale dell’ordine interarabo del periodo fu la devastante guerra arabo-israeliana del 1967 (Terza guerra arabo-israeliana), che fu lanciata a sorpresa da Israele, sfruttando a proprio favore l’escalation di bellicosa retorica antisraeliana in cui si erano avvitati tutti gli Stati arabi. La terza guerra arabo-israeliana del ‘67 è anche nota come la “Guerra dei Sei Giorni”, poiché si risolse proprio nel giro di 6 giorni, durante i quali Israele attaccò e sconfisse Egitto, Siria e Giordania, arrivando ad occupare tutti i rimanenti territori palestinesi (Cisgiordania e Gaza) e persino il Sinai egiziano e le alture siriane del Golan. Quello che è importante sottolineare è che la sconfitta del ‘67 avviò la fine dell’età delle rivoluzioni, delegittimando le politiche nazionaliste delle repubbliche progressiste. Quando Nasser morì, nel settembre del 1970, ebbe quindi inizio la “normalizzazione” dei regimi arabi, che nei decenni successivi condusse alla progressiva convergenza delle diverse tipologie di regimi nella tipologia unica del regime autoritario arabo modernizzato e globalizzato. 3.3 I cambiamenti socio-economici e socio-culturali nell’età delle rivoluzioni I principali eventi politici dell’età delle rivoluzioni avvennero nelle capitali del Mondo arabo, ma ancora una volta furono le campagne ed i contadini a sperimentarne gli effetti più duraturi. Quasi ovunque, l’adesione della popolazione rurale alle rivolte anticoloniali fu l’elemento decisivo per la conquista dell’indipendenza. Ad indipendenza avvenuta, le riforme agrarie furono uno dei principali strumenti con cui i regimi statalisti cercarono di cambiare e sviluppare la struttura socio- economica dei propri Paesi e la reazione delle popolazioni rurali a questi cambiamenti pesò in modo significativo sull’evoluzione dei regimi. Nei primi decenni dopo l’indipendenza, tutti i Paesi arabi registrarono un reale sviluppo grazie alle politiche stataliste; tuttavia, le riforme agrarie, pur avendo effetti positivi, fallirono i loro obiettivi primari. In effetti, la ridistribuzione della proprietà della terra non fu sufficiente ad aumentare la produttività agricola. Inoltre, le riforme agrarie ebbero una parte importante nel favorire l’adesione delle masse rurali ai nuovi regimi, ma la risposta non fu sempre quella auspicata dai regimi: i contadini spesso resistettero alle nuove riforme collettivistiche di produzione, accettando la continuazione de facto dei vecchi rapporti “feudali”. Perciò le trasformazioni avviate durante l’età delle rivoluzioni furono importanti, ma la vita rurale nel Mondo arabo rimase in gran parte regolata dai rapporti sociali tradizionali, basati su familismo, tribalismo e regionalismo, il cui funzionamento fu però parzialmente aggiornato per adattarsi alle nuove politiche ed ai nuovi regimi. L’esplosione demografica che dagli anni ‘40 interessò tutto il Mondo arabo, alimentando una terza grande ondata di urbanizzazione dei contadini, dipese dal generale miglioramento delle condizioni di vita per la popolazione. Tuttavia, quando il tasso di crescita demografica superò ampiamente il tasso di produttività agricola, parte dei contadini tornò (o rimase) in povertà, avendo come unica alternativa l’emigrazione: le conseguenze negative del sovrappopolamento delle città furono drammatiche. Dagli anni ‘60, il costante flusso di migrazione delle campagne arabe cominciò a dirigersi anche verso l’estero, principalmente verso i Paesi europei per i maghrebini, e verso i Paesi arabi produttori di petrolio per gli Arabi del Mashreq. Nonostante questi nuovi sbocchi migratori, i problemi legati alla sovrappopolazione urbana continuarono a crescere. Nelle città, l’avvento dei nuovi regimi, statalisti ed autoritari, ridussero gli spazi di partecipazione politica per tutti i gruppi sociali. Assorbita nelle istituzioni corporative di regime o ridotta alla clandestinità, la pluralità delle opinioni politiche nel Mondo arabo sembrò atomizzarsi intorno a pochi intellettuali “disobbedienti”. Anche il panorama fisico e culturale delle città mutò in conseguenza ai cambiamenti politici; dopo la partenza dei coloni europei, le città arabe persero progressivamente la loro dimensione cosmopolita e l’arabismo, simbolo dell’indipendenza, iniziò a monopolizzare il panorama culturale in tutte le sue espressioni: dall’architettura all’istruzione, dalla stampa alla letteratura ed alle altre arti. Nei Paesi del Maghreb, il colonialismo aveva condotto un’attiva politica di negazione dell’identità arabo- islamica locale. Non sorprende, quindi, che uno dei primi obiettivi dichiarati dai nuovi regimi magrebini indipendenti fosse il ripristino dell’identità nazionale, in primis attraverso l’arabizzazione. In tutti i Paesi arabi, anche nel Mashreq, la politica di arabizzazione mirò tanto a rafforzare l’unità e l’identità nazionale, attraverso l’unificazione linguistica, quanto a reprimere l’espressione culturale delle minoranze etnico- linguistiche, a cui fu vietato l’uso istituzionale delle proprie lingue ed imposto l’uso dell’arabo. Tuttavia, i risultati pratici dell’arabizzazione furono molto inferiori alle intenzioni. Lo sviluppo del cosiddetto “islam politico” è un altro dei fenomeni politico-culturali tipici di questo periodo. Quando alla fine degli anni ‘60 iniziò ad evidenziarsi il fallimento del modello dei regimi statalisti arabi, la crescente crisi economica alimentò il malessere sociale, che divenne opposizione politica organizzata: si erano formati, specie in ambiente studentesco, gruppi culturali d’opposizione di ispirazione islamica. Quanto avvenne in questo periodo si può definire come la seconda fase espansiva del cosiddetto “islam politico”, dopo la prima fase iniziata negli anni ‘30 con la fondazione dell’Organizzazione dei Fratelli musulmani. Fu in questa fase che nella maggior parte dei Paesi arabi del Maghreb e del Mashreq (ri)nacque l’islam politico, che dalla fine degli annoi ‘70, dopo la rivoluzione islamica in Iran, divenne la principale forza di opposizione ai regimi autoritari arabi, attiva sia con formazioni riformiste, sia con formazioni radicali jihadiste. 3.4 La rivoluzione petrolifera La ricchezza di risorse energetiche è probabilmente la principale caratteristica associata al Mondo arabo e questa ricchezza ha fortemente influenzato la storia contemporanea dei Paesi arabi in molti modi, sia positivi che negativi. La storia di questa ricchezza è recente ed inizia pienamente ad influenzare la vita politica del Mondo arabo solo nell’età delle rivoluzioni, la quale può essere definita tale anche per la “rivoluzione petrolifera” realizzatasi negli anni ‘50-’70. Il prologo della rivoluzione petrolifera in Medio oriente risale tuttavia all’inizio del XX secolo. All’epoca, il petrolio veniva cercato in Medio oriente perché già dalla metà del XIX secolo l’invenzione del motore a scoppio, alimentato a petrolio, aveva dato il via in Occidente alla cosiddetta “seconda rivoluzione industriale”, basata appunto sullo sfruttamento dell’energia petrolifera. Di fronte all’espandersi della domanda mondiale di petrolio, “imprenditori-avventurieri” iniziarono a cercare e trovare il petrolio anche in altre aree del mondo. Tuttavia, fu l’allora giovane funzionario inglese Winston Churchill che aprì la corsa alle risorse petrolifere del Medio Oriente e del Mondo arabo: egli decise di rendere operativa la Anglo- Persian Oil, la prima compagnia petrolifera ad operare in Medio Oriente. Così, nel 1912 i Britannici parteciparono, assieme ai Tedeschi, alla fondazione della Turkish Petroleum Company (Tcp), che all’inizio del 1914 ottenne dall’Impero ottomano la promessa della concessione per la ricerca del petrolio nei suoi domini. Poco dopo, la Prima Guerra Mondiale sconvolse le sorti della regione ed al suo termine la Tcp divenne la Iraq Petroleum Company. In molti Paesi arabi, la presenza di giacimenti petroliferi, e la loro collocazione, determinò la definizione dei confini coloniali e post-coloniali e, in alcuni casi, l’esistenza stessa dello Stato. Per quanto riguarda l’Iraq, ad esempio, la distribuzione territoriale delle riserve petrolifere, concentrata soprattutto nel Nord e nel Sud del Paese, influenzò la scelta britannica di favorire uno Stato unitario ad amministrazione coloniale indiretta; il fattore petrolifero resta tutt’oggi uno dei maggiori elementi a favore della sopravvivenza di uno Stato unitario nel Paese. Storicamente, dunque, il petrolio ha favorito l’aggregazione ed il consolidamento dei Paesi arabi. Tuttavia, le risorse energetiche sono state indubbiamente anche una delle principali cause dei conflitti interstatali scoppiati sui diritti di estrazione nelle zone di confine, o sui diritti di transito degli oleodotti e delle petroliere. Ancor più gravido di conseguenze storiche è stato il fatto che il mantenimento del controllo, diretto o indiretto, delle risorse energetiche locali è stato uno dei principali motivi della continua ingerenza delle potenze internazionali nel Mondo aravo, dai primi del Novecento in poi.
Vanno però sottolineati altri due aspetti fondamentali della storia petrolifera del Mondo arabo: le differenze della sua cronologia e le differenze delle sue ricadute economiche.
In effetti, l’inizio dell’era petrolifera, cioè la data d’inizio della commercializzazione del petrolio e della relativa rendita petrolifera, varia molto da Paese a Paese ed è molto più recente di quanto si pensi. Per la maggioranza dei produttori arabi, il petrolio iniziò a significare ricchezza solo dopo la Seconda Guerra Mondiale. I bisogni della ricostruzione postbellica moltiplicarono la richiesta globale di petrolio, incentivando gli investimenti internazionali per la ricerca, l’estrazione ed il trasporto del petrolio prodotto nei Paesi mediorientali. Per molti stati della Penisola orientali la ricchezza rappresentata dalla rendita petrolifera iniziò negli anni ‘50. L’inizio dell’era petrolifera arrivò ancor più tardi per i Paesi produttori del Maghreb. La produzione di gas, altra grande fonte di ricchezza energetica, è iniziata ancor più tardi ed in alcuni Paesi arabi ha sostituito quella petrolifera, laddove questa si è presto esaurita.
Prima ancora che al suo valore geopolitico, l’influenza del fattore energetico sulla storia del Mondo arabo è dovuta al suo valore economico, che ha cominciato a far sentire i suoi effetti sin dall’epoca delle prime concessioni esplorative. Tuttavia, per quanto già rilevante ai fini interni, sino alla metà degli anni ‘50 la ricchezza petrolifera incassata dai produttori fu solo una frazione infinitesimale di quella ricavata delle grandi compagnie petrolifere, le “Sette sorelle” che dominavano il mercato petrolifero mondiale. Infatti, le concessioni via via accordate dai produttori arabi prevedevano che le compagnie concessionarie potessero svolgere senza limiti tutte le operazioni, dalla ricerca all’esportazione e vendita del petrolio, dando in cambio al governo del paese produttore solo un pagamento fisso annuale per ogni barile esportato, pagamento noto come “royalty” proprio perché In origine era un appannaggio pagato al sovrano. In altri termini, all’inizio dell’era petrolifera non vi era nessun rapporto tra i profitti, enormi, realizzati dalle compagnie con la vendita del petrolio ed il pagamento da queste corrisposto ai governi dei Paesi produttori. La “rivoluzione petrolifera”, che fu parte dell’era delle rivoluzioni, iniziando negli anni ‘50 e culminando alla metà degli anni ‘70, consistette proprio nel progressivo cambiamento dei rapporti di potere tra le compagni petrolifere ed i Paesi produttori, e consentì progressivamente a questi ultimi di diventare i principali beneficiari della ricchezza petrolifera. La progressiva erosione del dominio delle Sette sorelle, dovuta all’avvento di compagnie indipendenti, diede ai paesi produttori un margine di autonomia che questi sfruttarono per ottenere condizioni contrattuali migliori.
Alla fine degli anni ‘50 il sistema delle concessioni era definitivamente tramontato ed i Paesi produttori di tutto il mondo cercarono di aumentare ulteriormente il proprio potere contrattuale sul mercato petrolifero fondando a Caracas, nel 1960, l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec nell’acronimo inglese), un vero e proprio cartello dei Paesi esportatori, che acquistò sempre maggior potere via via che i singoli Paesi riuscivano a nazionalizzare il petrolio entro i loro confini. Grazie alle mutate condizioni del mercato petrolifero mutò anche il ruolo internazionale del Terzo mondo. La rivoluzione petrolifera araba raggiunge il suo apice all’inizio degli anni ‘70, quando i principali produttori arabi nazionalizzarono le proprie risorse, acquisendo gli strumenti per il controllo politico della produzione. Infatti, allo scoppio della quarta guerra arabo-israeliana nel 1973, i Paesi arabi produttori di petrolio si riunirono nell’Oapec, l’Organizzazione dei produttori arabi di petrolio e decisero di utilizzare il petrolio come arma di pressione del conflitto: venne adottato un embargo commerciale contro Usa ed Olanda (i principali alleati di Israele) i cui effetti economico-commerciali furono marginali, ma che ebbero enormi effetti politici. I Paesi produttori arabi divennero di colpo i temuti protagonisti dello scenario internazionale ed il prezzo del petrolio venne quadruplicato.
Quello che è importante sottolineare sono però gli effetti sul Mondo arabo, dove la rivoluzione petrolifera culminò con la moltiplicazione esponenziale della ricchezza dei paesi produttori. Non meraviglia, perciò, che la disponibilità di tanta ricchezza moltiplicasse il peso dei Paesi produttori a livello regionale ed internazionale.
Nel Mondo arabo, questa nuova ricchezza significò sostanzialmente due cose: una nuova, enorme capacità di investimento dei Paesi produttori arabi in progetti di sviluppo, da realizzare a livello nazionale o regionale; una ricaduta indiretta della rendita petrolifera anche sui Paesi arabi non produttori, che poterono beneficiare sia dei flussi finanziari (di aiuto o di investimento), provenienti dai Paesi produttori, che delle rimesse dei propri cittadini che emigravano per lavorare presso i nuovi ricchi Paesi produttori. Così, alla fine degli anni ‘70, conclusa l’era delle rivoluzioni ed iniziata l’era della normalizzazione del Mondo arabo, l’unità araba che era fallita sul piano politico sembrò per un momento in procinto di realizzarsi attraverso l’integrazione economica. Tuttavia, non fu questo il risultato della rivoluzione petrolifera nella regione araba.
La ricchezza proveniente dal petrolio, infatti, fu sostanzialmente sperperata, poiché non produsse vero sviluppo socio-economico e, anzi, aumentò la dipendenza politico-economica dei Paesi arabi dal resto del mondo. Questo avvenne soprattutto perché la stragrande maggioranza della rendita petrolifera totale guadagnata dai produttori arabi fu investita nei circuiti finanziari occidentali e non nella produzione. Inoltre, di questo enorme flusso di ricchezza (i cosiddetti “petrodollari”), investito dai Paesi produttori arabi in Occidente, circa un terzo venne speso per acquistare sofisticati armamenti occidentali che, lungi dall’aumentare la sicurezza dei Paesi produttori, ne aumentò la dipendenza dai Paesi occidentali, i quali continuavano a monopolizzare il know-how per usarli e mantenerli. I due terzi rimanenti della rendita petrolifera, un capitale comunque ingente, furono in parte impiegati nei Paesi produttori per mega progetti, specie infrastrutturali, che furono spesso opere di puro prestigio, non generatrici di sviluppo. Gli investimenti nella sanità e nell’istruzione, apparentemente più utili ai fini dello sviluppo socio- economico locale, finirono per sostenere programmi di welfare mirati a comprare il consenso politico delle popolazioni e non a stimolarne lo sviluppo e l’imprenditorialità. L’uso improduttivo delle rendite petrolifere per la difesa e l’acquisizione di consenso non riguardò solo gli Stati arabi Inoltre, là dove venne adottato o ripristinato, il multipartitismo fu accompagnato da altre misure di liberalizzazione riguardanti la libertà di stampa, di associazione e la regolamentazione dei processi elettorali che fecero crescere il numero delle ONG. Però tutte queste liberalizzazioni politiche furono realizzate senza realmente intaccare la natura autoritaria dei regimi che le adottarono. C’è una sostanziale differenza tra il concetto di liberalizzazione e il concetto di democratizzazione, la prima riguarda l’espansione dello spazio pubblico, attraverso il riconoscimento e la protezione delle libertà civili e politiche, mentre la seconda richiede un’espansione della partecipazione politica, tale da offrire ai cittadini un reale e significativo controllo collettivo sulle politiche pubbliche. La realtà fu invecchi dalla prima metà degli anni ’90 i regimi arabi in via di ristrutturazione cancellarono molte delle misure di liberalizzazione politica precedentemente adottate. Ad esempio in Egitto il presiedere Mubarak, forte del nuovo sostegno internazionale ottenuto grazie alla sua partecipazione a fianco degli Usa e preoccupato di quanto accaduto in Algeria (dove la liberalizzazione aveva portato al trionfo degli islamisti e al conseguente golpe militare), decise di riprendere il controllo sull’opposizione politica e la società civile. Nuove regole molto restrittiva furono imposte sulle attività in piena espansione della società civile. La repressione poliziesca del dissenso in Egitto divenne più pesante e incluse l’uso sistematico della tortura. Durante questa fase di deliberalizzazione le elezioni continuarono a svolgere nel mondo arabo ma i loro esisti furono manipolati tramite leggi elettorali continuamente modificate a vantaggio del regime. Questi sviluppi fecero si che la liberalizzazione politica non solo non aveva prodotto alcuni frutti ma aveva prodotto un rinnovamento dei regimi autoritari. L’esistenza di un vero processo di democratizzazione dei sistemi politici arabi fu in sostanza un mito, una falsa narrativa creata nell’interesse dei regimi, e dei loro sostenitori internazionali, per alimentare l’apparenza di un inserimento virtuoso del mondo arabo nella globalizzazione. 4.2 L’evoluzione dell’Islam politico; islamisti e jihadisti Negli anni ’70 accanto ai movimenti islamisti riformisti (cioè movimenti che agivano per una riforma sociale e politica graduale nei rispettivi paesi che permettessero di realizzare nei diversi paesi uno stato nazionale islamico fondato sulla sharia, legge islamica desunta dal corano e dalla sunna) si svilupparono anche i primi movimenti islamici radicali, detti anche movimenti jihadisti, perché adottavano il pensiero attribuito all’ideologo dei fratelli musulmani Sayyid Qutb, sulla necessità di costruire un’avanguardia per portare il jihad contro i regimi che mantenevano i popoli musulmani nell’ignoranza pagana e perciò predicavano e praticavano la lotta armata contro i regimi al potere e le forze atee di sinistra. Le principali di queste organizzazioni si svilupparono in Egitto. Dagli anni ’90 la nuova generazione del jihadismo rappresentata da AL-Qaida inizio a sostenere l’obbligo del jihad anche contro i regimi delle grandi potenze come gli USA e l’URSS. Poi a partire dalla guerra civile in Algeria negli anni 90, i jihadisti arabi cominciarono a considerare bersagli legittimi anche i musulmani contrari al credo jihadista. I movimenti jihadisti si svilupperanno anche in Marocco, dove nel 1970 fu fondato il movimento “gioventù islamica”, che si macchiò alcuni assassini politici. Durante tutta la prima fase di ristrutturazione del mondo arabo (1980-2010), la cultura, la società civile e le dinamiche politiche della regione furono profondamente influenzate dal pensiero e dalle azioni dell’ islam politico (l’insieme dei movimenti politici islamici). I movimenti islamisti riformatori raccolsero crescenti consensi politici e parteciparono, assieme ai liberali allo sviluppo di una nuova cultura politica araba, fondata sui valori della democrazia rappresentativa. La lotta armata dei jihadisti, spesso sfociata in gravi attacchi terroristici, servì ai regimi arabi per giustificare le ondate di repressione poliziesca, anche nei confronti delle componenti non violente dell’opposizione politica islamica. La partecipazione politica degli islamisti provocò cambiamenti sia in termini di equilibri di potere nei movimenti che in termini di evoluzione ideologica. Protagonisti della partecipazione in parlamento e dell’associazionismo dei Fratelli musulmani furono i rappresentanti della cosiddetta generazione di mezzo, rispetto ai fondatori e ai giovani adepti, che si era formata nell’attivismo studentesco degli anni 70. Questa diversa formazione spinse gran parte dei membri di questa generazione ad adottare prassi e valori politici diversi da quelli proposti dal metodo tradizionale della Fratellanza. Questa generazione di mezzo si uni a parte delle generazione più giovane sostenendo che gli scopi fondamentali della legge islamica includevano valori come la libertà, il pluralismo e i diritti umani. Nonostante questo l’ideologia della fratellanza rimase incompiuta a cause della repressione da parte dei regimi politici autoritari. Nonostante la continua manipolazione politica da parte dei regimi, i movimenti islamisti hanno costituito in tutti i paesi arabi la principale forza di opposizione politica e ideologia dei regimi al potere. Tuttavia nel momento dell’esplosione delle rivolte della primavera araba questi movimenti si sono dimostrati incapaci di contribuire da protagonisti all’istituzione di nuovi regimi politici democratici. Ai motivi politici del declino degli islamisti vanno aggiunti i motivi socio-culturali che hanno impedito ai movimenti islamisti di intercettare la nuova ondata di risveglio religioso che ha caratterizzato le società arabe nel primo decennio del duemila, ondata che ha provocato la crescita di nuovi movimenti salafiti, che sono andati a colmare gli sazi sociali e culturali di alterità e antagonismo abbandonati dai movimenti islamisti, repressi dai regimi e impegnati nel gioco elettorale. I salafiti hanno rivolto forti critiche agli islamisti per la priorità attribuita all’elettoralismo come strada per cambiare i regimi politici. I salafiti si concentravano sull’azione di predicazione ed ebbero ampio seguito in tutto il mondo arabo, le cui società erano percorse da un nuovo momento di rinascita religiosa. 4.3 Vecchi e nuovi conflitti armati e la ristrutturazione del mondo arabo 4.4 La primavera araba e la ristrutturazione del mondo arabo Il 17 dicembre 2010 un gesto di rivolta individuale in Tunisia scatenò un’ondata di proteste in tutto il paese, che nel giro di un mese portò acca fuga del presidente tunisino. A sua volta, l’esempio della rivolta in Tunisia contribuì a innescare un’ondata di mobilitazioni popolari antiregime, prima in Egitto e poi in tutte le regioni del mondo arabo. Queste mobilitazioni popolari, note come la “Primavera araba”, dal gennaio 2011 al febbraio 2012, costrinsero alle dimissioni o alla fuga quattro presidenti-dittatori: in Tunisia, Zine El-Abidine Ben Ali; in Egitto, Mubarak,; in Libia, Gheddafi; e in Yemen, Saleh. Le origini delle rivolte della primavera araba sono da ricercare negli effetti delle politiche neo- liberiste sviluppate a partire degli anni 80. In tutti i paesi arabi gli aggiustamenti strutturali adottati dalla seconda meta degli anni 80 avevano generato un relativo miglioramento macroeconomico, che fu pero di breve durata e accompagnato da un continuo peggioramento delle disparita sociali e delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione. Sul piano politico, l’esito combinato delle liberalizzazioni politico-economiche aveva cancellato il ruolo riconosciuto alle masse nell’eta dello statalismo. Così alla fine del primo decennio del duemila, il funzionamento dei regimi autoritari liberalizzati si basava sull’equilibrio, garantito dai dittatori, tra una serie di dinamiche politiche: il rinnovamento delle vecchie lite stataliste e l’incorporazione nel regime di nuove elitè imprenditoriali; la marginalizzazione e il controllo delle masse popolari e delle opposizioni, ottenuta grazie alla socio economica e alla manipolazione delle libertà politiche. Le rivolte della primavera araba hanno avuto come protagonisti movimenti popolari trasversali, mobilitati dalla gioventù urbana, soprattutto tramite i social media e, sono stati movimenti privi di leader o di ideologie dominanti. Le principali rivendicazioni sono state le stesse in tutto il mondo arabo: pane, dignità, libertà. Mentre l’avvio di alcune modalità delle proteste sono state influenzate da fattori transnazionali, quali l’effetto imitativo del caso tunisino ed egiziano, le modalità di proteste e il loro esisti successivi sono stati fortemente influenzati dalle specificità storiche di ciascun paese arabo. Le specificità nazionali piu rilevanti nell’influenzare gli sviluppi locali della primavera araba sono state principalmente tre. In primo luogo il grado pregresso di maturazione ed esperienza delle organizzazioni della società civile, fattore che ha influenzato la capacità popolare di sostenere nel tempo e organizzare politicamente le iniziali proteste spontanee. Il secondo fattore è stato il grado di relativa autonomia tra le istituzioni statali e il principale leader politico, fattore che ha influenzato il tipo di risposta, repressiva e o negazione, che i regimi sono stati in grado di mettere in campo per contenere le rivolte. Infine il grado di frammentazione sociale che caratterizzava ciascun paese all’epoca dell’inizio delle rivolte. Le rivolte della primavera araba hanno avuto una grande varietà di esisti politici. Ottenimento di marginali concessioni politiche o economiche, come in Mauritania, Algeria o Arabia Saudita; cambio di governo e riforme politiche più sostanziali come in Giordania e Marocco; decapitazione della leadership politica, con la caduta dei presedenti dittatori come in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen. CAP. 2 MAROCCO 1. Dalla conquista islamica alla colonizzazione europea (secoli VII-XIX) 1.1 Dalla conquista araba alla fondazione del regno alauita Il Marocco è uno dei pochi Paesi arabi contemporanei in cui lo stato può vantare una storia plurisecolare: le origini del Marocco attuale risalgono infatti al XVII secolo, ma alcuni dei suoi caratteri socio-politici emersero nei periodi ancora precedenti. La conquista arabo-islamica dei secoli VII-VIII fece dei Berberi del Marocco il nerbo della conquista islamica della Penisola iberica, iniziata nel 711. I berberi abbracciarono l’islam rapidamente ma fu solo nei secoli XI-XIV, anche a seguito dell’arrivo di tribù arabe da est, che i Berberi iniziarono ad arabizzarsi diffusamente. Più tardi la riconquista cristiana della Penisola iberica riportò in Marocco gli esuli della Spagna araba, tra cui molti ebrei, che importarono nelle città del paese un carattere andaluso, che si mescolò alle originarie tradizioni berbere e a quelle arabe-islamiche importate dall’oriente. Partire dal XV secolo, il Marocco si trovò coinvolto nello scontro tra i due grandi imperi dell’epoca (quello portoghese e quello spagnolo) per il controllo del Mediterraneo e delle grandi vie del commercio internazionale; nel 1415 la conquista portoghese della cittadina di Cuta (poi ceduta agli spagnoli nel 1668) rinnovò una serie di insediamenti stranieri sulle coste marocchine. Alla pressione degli imperi cristiani si aggiunse nel XVI secolo quella dell’impero ottomano da est ma dopo la scoperta dell’America, il riorientamento delle grandi rotte commerciali internazionali allentò la pressione sul Maghreb estremo e la sconfitta degli ottomani a Fez portoghesi alla battaglia dei tre re bloccò le penetrazioni territoriali straniere in Marocco per circa tre secoli. Proprio a causa della penetrazione esterna, nel corso dei secoli XIV-XV, le zawiva, cioè i santuari dell’islam popolare delle tribù, si trasformarono prima in ribat, centri di propagazione e difesa dell’islam guidati dai farabutti, e poi in veri e propri principati marabuttici. Nel XVI secolo questi mini-Stati furono sottomessi o federati da quello guidato dalla dinastia saadita, che vantava un diritto di primazia proclamandosi discendente del profeta. I saaditi introdussero così in Marocco un nuovo principio di legittimità per il potere centrale. Sotto i saaditi il Marocco divenne un vero e proprio impero che strinse alleanze con Elisabetta I d’Inghilterra contro l’impero spagnolo. Tuttavia nel 1659 questa dinastia fu sostituita dagli alauiti che regnarono sul Marocco dal XVII secolo sino ad oggi. 1.2 Il potere sultanale Il sistema di potere introdotto in Marocco dalla dinastie dei saaditi e degli alauiti si fondava su alcuni elementi chiavi ancora presenti nell’odierna monarchia marocchina: il sultano combinava gli attributi di santità. L’autorità del sultano era riconosciuta in tutto il regno, la sua autorità politica sarà piena nel territorio urbano, mentre nei territori tribali l’autorità del sultano era riconosciuta in quanto mediatore tra i poteri locali. Alla metà del XVI secolo questo sistema politico accomunava tre principali entità politiche in formazione nel Maghreb (i futuri Marocco, Algeria e Tunisia) e si fondava su un altalenante rapporto tra il potere cittadino e il potere tribale. Rispetto ai paesi del Maghreb, in Marocco il sultano esercitava un potere maggiore grazie alla sua investitura anche religiosa. 1.3 Dall’autonomia al protettorato: modernizzazione e influenze europee Tra la fine del 18 e l’inizio del 19 secolo il Marocco visse un periodo di ripiegamento, dovuto sia alle vicende interne (ribellioni), sia al relativo disinteresse per l’Europa, e dell’Europa alle prese con le guerre napoleoniche. Nel 1786 il Marocco fu tra i primi paesi al mondo a riconoscere i neo costituiti stati uniti d’America. La situazione cominciò a cambiare dopo l’inizio della conquista francese dell’Algeria 1830, quando il Marocco fu nuovamente investito dai tentativi di diversi Paesi europei di porlo sotto la propria influenza. Costretto dalla reazione popolare a opporsi alla conquista francese e a sostenere la rivolta in Algeria, nel 1844 l’esercito del sultano Abderrahman subì una sonora sconfitta, da parte dei francesi. Grazie all’appoggio della Gran Bretagna il sultano riuscì a ottenere un trattamento di favore nel successivo trattato di Tangeri che delimitò le frontiere con l’Algeria francese. Il Marocco verra indebolito dalla successiva invasione spagnola. 2.6 Dalla lotta politica alla lotta armata: la conquista dell’indipendenza (1951-56) Nel 1951-52 le manifestazioni indipendentiste dilagarono in tutto il paese e i leader nazionalisti furono arrestati. Nel 1953 il sultano cedette alle pressioni francesi e firmò i nuovi decreti di Juin, delegando parte dei suoi poteri a un consiglio controllato dai Francesi. Si chiese la destituzione del sultano che causò molte proteste popolari ma le autorità coloniali la legittimarono mandando in esilio Sili Mohammed. Tutto ciò provocò delle violente proteste, anche nel Marocco Spagnolo, e la Francia molto debole dal punto di vista internazionale fu costretta a dare inizio a dei negoziati firmando una dichiarazione congiunta, che prevedeva la creazione di un regno costituzionale indipendente sotto la guida dello stesso Sidi Mohammed. Il 22 novembre 1955 il sultano diede vita ad un nuovo governo, scegliendone personalmente i membri, che negoziò con la Francia i dettagli della convenzione per l’indipendenza infine proclamata il 2 marzo 1956. Il protettorato spagnolo fu abrogato con un’analoga convenzione e la zona internazionale di Tangeri fu reintegrata al Marocco il primo gennaio 1957. 3 Il Marocco indipendente sotto il regno di Mohammed V e Hassan II (1956-99) La storia del Marocco indipendente può essere divisa in tre grandi fasi. 3.1 La monarchia prende il controllo del sistema politico (56-61) Il passaggio dal protettorato all’indipendenza si svolse senza particolari difficoltà: con l’aiuto di consiglieri francesi e del governo da lui designato, il sultano assunse il controllo della polizia e dell’esercito. Nell’agosto del 1956 il sultano istituì un consiglio consultivo nazionale e nell’agosto del 1957 assunse il titolo di re con nome di Mohammes V. Il paese prese il nome di Regno del Marocco, ma l’adozione della costituzione accordata con la Francia avviene nel 61. 3.2 L’ascesa al trono di Hassan II: repressioni, crisi economiche, proteste (61-70) Dopo la morte improvvisa del re Mohammes V (1961), era successione al trono del principe ereditario con nome di Hassan II, la situazione politica non cambiò: il processo attraverso il quale la monarchia marocchina si era andata via via imponendo come l’arbitro del sistema politico, proseguì senza interruzioni o modifiche. Il nuovo re continuò l’opera del padre creando un governo d’unione nazionale con Al-Fassi premier, che accettò il decisivo rafforzamento della monarchia con l’elaborazione del testo della costituzione da parte di una commissione designata dal Re. Tuttavia Hassan II non aveva la statura carismatica del padre, e nel periodo 61-75 fece ricorso a come di controllo politico sociale sempre più stringenti. Si assicurò anche un controllo sempre più stretto delle forze armate e dei nuovi servizi di sicurezza, che servirono ad eliminare gli oppositori di questa monarchia filo-occidentale. Hassan II nel 62 realizzò la Costituzione, ispirata a quella francese della V repubblica, che soddisfaceva apparentemente molte delle richieste politiche dei nazionalisti: confermava il multipartitismo e garantiva le libertà civili e politiche fondamentali ma riserva poteri enormi al Re. Il re aveva la facoltà di istituire, controllare e revocare governo, parlamento e magistratura e dichiarare lo stato d’emergenza. Tutto cio contraddiceva la natura apparentemente democratica della costituzione ma nonostante questo venne approvata. Questo ovviamente provocò l’opposizione di alcuni partiti, tra i quale vi era quello d’indipendenza (Istiqlal). Per tentare di indebolire l’opposizione; Hassan II fece ricorso a due diverse strategie: l guerra delle sabbie contro l’Algeria , intrapresa per la ridefinizione delle frontiere sahariane, e un complotto ai danni dell’UNFP (unione nazionale delle forze popolari). La contemporanea offensiva politica contro l’opposizione fu la fabbricazione d’un falso complotto contro il re attribuito ai membri del partito comunista, dell’UNFP. Nella repressione seguita alla scoperta del complotto, un gran numero di militanti di sinistra furono incarcerati, mentre i leader fuggirono all’estero. L’UNFP fu messo fuorigioco, anche il leader Ben Barka, ma la per la grande notorietà che acquisì, rimase comunque una spina nel fianco del regime, tanto che nel 1965 lo fece uccidere dai servizi segreti parigini. Il congelamento delle riforme economiche aveva provocato una forte crisi che generano delle proteste soprattutto da parte di studenti e diplomati che rivendicavano un posto di lavoro pubblico. La protesta del 65 fu repressa nel sangue e il re ne approfitto per dichiarare lo stato d’emergenza e prendere direttamente la giuda del governo fino al 1970. 3.3 Riapertura del gioco politico:nuove forze radicali e un tentato golpe (1970-1972) Nel 1970 un nuova ondata di proteste convinsero Hassan a promulgare una nuova costituzione, che prevedeva un parlamento unicamerale designato per due terzi; tuttavia i partiti di opposizione boicottarono le elezioni per il nuovo parlamento, privando legittimità l’apertura politica del re. Nel frattempo erano maturate nuove forme di opposizione: una sinistra radicale con il partito Avanti! Nello stesso anno fu fondata l’associazione della Gioventù islamica, contraria alla monarchia e alle ideologie d’ispirazione occidentale. Molti cominciarono a non credere più nella monarchia, nonostante nel 72 vi fu l’elaborazione di una terza costituzione. Si tentò un golpe, facendo attaccare dall’aviazione l’aereo del re ma egli si salvò miracolosamente. A questo punto il re si convinse che rapporti tra monarchia, lite e società si erano troppo radicalizzati e avviò un’apertura politica, ovviamente controllata dal regime. I perni del regime continuarono a essere la repressione poliziesca e privilegi per le élite ma tutto ciò venne affiancato da una più attenta pianificazione economica. 3.4 Rilancio e crisi economica; la questione del Sahara occidentale; l’ascesa dell’opposizione islamista (72-80) Nel 1973 fu nazionalizzata la parte delle terre, delle imprese e dei commerci ancora di proprietà straniera dall’epoca coloniale: le proprietà cosi acquisite dallo stato furono poi rivendute alla grande e media borghesia, col risultato che una trentina di grandi famiglie divennero il fulcro dell’economia nazionale. Il rilancio economico fu facilitato anche dall’aumento dal 1974 del prezzo dei fosfati, minerale di cui il Marocco è il maggiore produttore. Lo strumento principale per superare la crisi del 72 fu tuttavia politico: il riscatto della regione del cosiddetto Sahara Occidentale, ancora sotto sovranità spagnola. Questo territorio desertico confinava con Marocco, Mauritiana e Algeria. Nel 72 l’Onu aveva sancito che il. Territorio non apparteneva a nessuno stato e il suo futuro andava definito con un referendum di autodeterminazione della popolazione locale. Nel maggio 73 Marocco, Algeria e Mauritiana tennero un vertice sulla questione: le rivendicazioni del Marocco non furono accolte e la popolazione autoctona della zona, i Sahrawi, costituirono il fronte Polisario contro l’occupazione spagnola. Nell’aprile del 74 quando la Spagna accettò il referendum di autodeterminazione, Hassan II tenne un discorso sulla necessita della liberazione territoriale del Marocco. Cosi pochi mesi dopo il Fronte Polisario, l’organizzazione indipendentista della popolazione sahrawi, iniziò a rivendicare l’indipendenza totale del Sahara Occidentale, e il Polisario cominciò anche gli attacchi armati contro le forze spagnole e marocchine e dall’inizio ottenne il sostegno dell’Algeria. L’euforia nazionalista raggiunse il suo apice in Marocco con la Marcia Verde, lanciata dal re nel novembre del 1975: il re invitò la popolazione a marciare nel territorio conteso per reintegrarlo nel regno, fino ad arrivare al 6 novembre quando i marciatori penetrarono pacificamente nel Sahara conteso, brandendo la bandiera verde dell’islam e quella marocchina. Il Marocco sottoscrisse un accordo, che sanciva il ritiro spagnolo e la divisione del territorio tra una zona marocchina e una zona Mauritiana, l’accordo però non fu riconosciuto da Algeria e Polisario. Così nacque un nuovo conflitto armato tra Algeria e Marocco, mentre il Polisario conduceva una guerriglia contro Marocco e Mauritiana. Nel 1976 il Polisario proviamo l’indipendenza della repubblica Araba Sahrawi Democratica. Nel 1991, dopo alterne vicende, Polisario e Marocco accettarono un cessate fuoco e l’intervento sul terreno di una forza Onu, per attuare una soluzione pacifica basata su un referendum di autodeterminazione del Sahara Occidentale. È una questione ancora irrisolta al giorno d’oggi. 3.5 La crisi socio-economica degli anni 80: rivolte e repressioni La crisi economica degli anni 80 fu l’effetto di una serie di fattori: nel 1978 il prezzo dei fosfati scese, mentre avrebbe quello del petrolio, e le economie europee entrarono in recessione; vi fu inoltre un lungo periodo di siccità e una crescita esponenziale della spesa miliare dal 1972, causato dl conflitto del Sahara. La crisi raddoppio l’indebitamento del paese tra il 78 e 83, accelerando l’impoverimento della popolazione rurale. Quando il governo nell’ 81 annuncio l’aumento del prezzo di prodotti basilari come la farina la popolazione esplose in una rivolta la cui repressione causo 1000 morti. Nel 1983 il paese sull’orlo della bancarotta accettò gli aiuti del FMI in cambio della ristrutturazione de debito. Lo sviluppo dell’islamismo marocchino cominciò nel 1974, contemporaneamente alla rinascita dell’islam politico anche nel resto del mondo arabo. Nel 1974 Abedessalam Yassin, un funzionario dell’istruzione secondaria, indirizzò al re una lettera- petizione intitolata “L’islam o il diluvio”, in cui esortava il sovrano a fare ritorno a Dio o a subirne le conseguenze. Yassin fu punito e rinchiuso in un ospedale psichiatrico, ma la lettera poco notata all’epoca, cominciò a circolare e fu la prima manifestazione della contestazione politica islamista marocchina. In Marocco l’islamismo (che rifiutava la modernità occidentalizzata dello stato postcoloniale, la denuncia dell’ingiustizia sociale) era divenuto il principale sostegno della legittimazione del potere monarchico, aveva mantenuto il suo spazio tradizionale, tramite l’azione degli ulema e delle confraternite Sufi. L’islamismo in Marocco è maturato piu tardi e ha visto lo sviluppo di due tendenze distinte. Da un lato si sviluppo un’ala radicale con la fondazione della gioventù islamica da cui nel 1981 si staccò un’ala riformista denominata “gruppo islamico”. La seconda tendenza dell’islamismo marocchino fu rappresentata da un’organizzazione di massa che si sviluppo attorno alla figura carismatica di Yassin, il quale creò un’associazione più politica impegnata nell’attività sociale nelle zone urbane più diseredate. 3.6 La liberalizzazione controllata e gli islamisti in parlamento (1990-1998) Le manifestazioni che sconvolsero il Marocco, durante la crisi del Golfo, portarono in primo piano l’attivismo politico dei movimenti islamisti marocchini. Per contrastare la crisi provocato dal conflitto nel Golfo, re Hassan II adottò una nuova strategia, fatta di liberalizzazioni politiche parziali e di rilancio della sua immagine di difensore dell’islam. Dal 1991 la liberalizzazione politica si concretizzò con misure di trasparenza per l’apparato statale, e con la promessa di una nuova costituzione; parallelamente venivano prese misure per assicurare un maggior rispetto dei diritti dell’uomo, attraverso la creazione di un apposito ente governativo e l’inserimento nella nuova costituzione di riferimenti ai diritti umani, l’elaborazione di un codice di statuto, dove venivano desi i diritti delle donne. La quarta costituzione aumentò marginalmente l’autonomia del governo nazionale e locale, ma lasciò intatti i poteri del re. I movimenti islamisti continuarono ad espandersi. 4. Il regno di Mohammed VI (1999-2915) 4.1 il consolidamento di Mohammed VI e la crescita del jihadismo Hassan II morì il 23 luglio 1999 e suo figlio salì al trono con nome di Mohammed VI, il quale cercò innanzitutto di consolidare la sua popolarità accreditandosi in vari modi come un liberale e un uomo di popolo. Dopo i primi anni di regno, nel 2003 iniziò tuttavia a riprendere il controllo del processo di liberalizzazione politica guidata dall’alto, avviata dal padre nel 1992. A questo fine oltre a limitare libertà di stampa e d’associazione, il Re utilizzò tre strumenti: il controllo imposto alle istituzioni dell’islam tradizionale (moschee, confraternite, istruzione); egli stimolò una ristrutturazione del capitalismo marocchino, che doveva permettere il rilancio della crescita e l’equilibrio di bilancio, ma anche l’emergere di una nuova classe di imprenditori legati alla monarchia; il testo che approvava i diritti delle donne venne approvato dal parlamento nel 2004. Nel 2003 un gruppo di dodici attentatori suicidi colpirono CasaBlanca, uccidendo 45 persone. Nel 2004 cittadini marocchini furono tra i principali responsabili dell’attacco terroristico jihadista a Madrid dimostrando la diffusione del jihadismo in Marocco. Questa diffusione fu causata: dal deterioramento delle condizioni socio economiche, eventi internazionali quali l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq e la contrapposta enfatizzazione del discorso religioso in Marocco da parte del re, dagli ulema, dei partiti islamisti e del fondamentalismo wahhabita. 4.2 Crisi economica e mobilitazioni della Primavera araba (2008-2015) Nel 2008 quando la crisi finanziaria mondiale cominciò a farsi sentire iniziò una nuova ondata di proteste. Nel 2009 la creazione di un nuovo partito di regime, Autenticità e Modernità, riuscì a contrastare la crescita elettorale degli islamisti PJD. Tuttavia, la convergenza tra l’ascesa dell’opposizione islamista e la crisi socio-economica aveva ormai preparato il terreno per una nuova svolta politica, maturata nel 2011 nel corso delle mobilitazioni della “Primavera Araba”. Il 20 febbraio 2011, migliaia di marocchini parteciparono in tutto il paese a manifestazioni di protesta non guidate da alcun partito, per reclamare maggiore dignità, libertà e giustizia sociale: per la prima il re e il suo entourage furono direttamente criticati: al re vennero contestate le enormi ricchezze personali, come pure il titolo di principe dei credenti. Mohammed VI rispose alle proteste annunciando un nuovo pacchetto di liberalizzazioni politiche, con elezioni politiche anticipate. Nel novembre 1942 i nazionalisti presentarono il “Manifesto del popolo algerino”, in cui chiedevano la fine del sistema coloniale francese, una costituzione e la parità tra lingua araba e francese. Le richieste furono respinte dal generale nominato da De Gaulle, ma nel 1944 si approvava le concessioni della Blum_Violette. Tuttavia queste concessioni erano ormai insufficienti per i nazionalisti che passarono dalla petizione alla mobilitazione popolare organizzando nel 1945 una serie di manifestazioni proindipendenza, che a Setif, l’8 maggio, si trasformarono in contri vilente e uccisioni. I violentissimi scontri segnarono l’inizio della guerra d’indipendenza algerina. 3.3 Dal nuovo Statuto dell’Algeria alla vigilia dell’insurrezione (1947-1954) Dopo due anni di dibattiti, nel settembre 1947 il nuovo statuto dell’Algeria fu la risposta francese alla richiesta d’indipendenza. Il quale definiva l’Algeria come un gruppo di dipartimenti dotati di personalità civica, autonomia finanziaria e un’organizzazione speciale e prendeva l’istituzione di un parlamento algerino. Nonostante ciò vi erano forti divisioni politiche in questo periodo, così come la sortita differenziazione del movimento nazionalista algerino in tre correnti, furono l’espressione politica delle divisioni socio-economiche, regionalistiche e culturali esistenti nella borghese algerina che si era formata all’ombra del colonialismo. L’Algeria fu dunque guidata all’indipendenza da élite divise, fatto che ebbe rifonde ripercussioni sul paese. 4. La guerra di liberazione nazionale (1954-1962) 4.1 La prima fase della guerra di liberazione nazionale e la battaglia di Algeri (1954-1957) Convinti che la via politica non avrebbe condotto l’indipendenza, nell’estate del 1954 i membri del Crua (Comitato rivoluzionario d’unità e d’azione) cominciarono a preparare l’insurrezione armata. All’inizio l’insurrezione non ebbe grande successo, ma dalla primavera del 1955 gli eccessi della repressione militare francese, e la condizione socio-economica esplosiva della popolazione rurale, convinsero molti giovani a unirsi all’FLN (Fronte nazionale di liberazione), dando inizio a una vera propria guerra di liberazione nazionale durata otto anni. Le altre vicende della guerra di liberazione nazionale algerina, che possono essere divise in due fasi principali, ebbe molti protagonisti. Nel primo periodo della guerra prevalse la dimensione interna del conflitto, caratterizzato dallo scontro militare tra insorti d’esercito, e degli sforzi di mobilitazione popolare del FLN. Tra i principali eventi di questo primo periodo vi fu, la decisione dell’FLN di attaccare non solo i militari ma anche i coloni francesi, cosa che intensificò lo scontro. Nel 1956 la dipendenza raggiunta a marzo da Marocco e Tunisia, cambiò la situazione strategica del FLN concedendo alla rivoluzione un retroterra militare nei due paesi confinanti e fratelli. Nell’ottobre del 56, mentre si spostavano in volo da Rabat a Tunisi, alcuni tra i principali leader del FLN furono dirottati dai francesi e imprigionati in francia. Sul fronte interno la rivoluzione era sulla difensiva: i rinforzi francesi avevano ridotto fortemente la capacita militare dell’FLN. Per riprendere l’iniziativa politica e militare, l’FLN dell’interno decise di proclamare uno sciopero generale di 8 giorni, e di portare la guerra nel cuore di Algeri con una serie di attacchi terroristici. Gli attacchi segnarono l’inizio della “Battaglia di Algeri”, in cui la ripesta militare fu affidata a Massu, il quale, anche grazie all’uso della tortura, riuscì a decapitare ala dirigenza del FLN e ridurne l’attività guerrigliera. 4.2 Dalla seconda fase della guerra di liberazione nazionale all’indipendenza (1957-1962) La seconda fase della guerra fu caratterizzata da un’esternalizzazione che fruttò il sostegno di unione sovietica e Cina, le potenze leader del blocco comunista avversario dell’Alleanza Nord- Atlantica (NATO) di cui era membro la Francia. La questione algerina si trasformò in un vero e proprio problema per la Francia, tanto che fu richiamato al potere De Gaulle, unica personalità politica nazionale abbastanza forte per risolvere la crisi. Cosi nel giugno 1958 egli volò ad Algeri, per offrire un discorso, ovvero una resa del FLN in cambio di un’amnistia, e un rilancio della politica di associazione (anziché di assimilazione), centrata sulla concessione generalizzata della cittadinanza francese agli algerini, e su un piano di sviluppo economico. La resa fu rifiutata. Nel 61 ci fu un negoziato tra De Gaulle e FLN e dopo varie rivolte si arrivò agli accordi di Evian del 1962. Essi riconoscevano l’indipendenza dell’Algeria, ma anche i diritti dei coloni francesi che fossero rimasti in Algeria, oltre a prendere un’estesa cooperazione economica e militare franco- algerina. L’indipendenza di Algeria fu proclamata il 5 luglio 1962. 5. Dall’indipendenza alla morte del presidente Boumedienne (1962-1978) 5.1 Ben Bella e l’opzione socialista (1962-1965) Se da un lato l’Algeria era diventata un modello da seguire per i paesi che ancora non avevano raggiunto l’indipendenza, dall’altro il paese era stremato sia a livello economico che sociale, la guerra di liberazione aveva causata tantissime vittime. L’Algeria si trovò guidata da un’élite divisa da lotte di potere e priva di un comune progetto per la costruzione del nuovo Stato algerino. Le lotte di potere nel FLN, emersero già nel 1962, quando i capi politici e militari dell’interno e dell’esterno si scontrarono sulla scelta dei componenti dell’assemblea costituente, ovvero sulla selezione di coloro che avrebbero definito e controllato le nuove istituzioni dello stato. Questa lotta di potere interna sfociò in un breve conflitto, dove alla fine prevalse la corrente del FLN guidata da Ben Bella e sostenuta dal capo dell’ala di stanza in Marocco. Il sistema politico prescelto fu enunciato nella Costituzione promulgata nel settembre 1963, che istituiva la repubblica democratica algerina, fondata sui principi del socialismo e sul partito unico, il FLN, rappresentante delle masse e controllore della politica dello stato, con l’arabo come lingua ufficiale, l’islam come religione ufficiale dello stato, e molti poteri accentrati nelle mani del presidente della Repubblica. In politica economica Ben Balla sperimentò la gestione collettiva delle terre e delle industrie, ma l’autogestione si dimostrò effimera, trasformandosi in statalizzazione. In politica estera Ben Balla cercò di non allinearsi, ma questo gli costò la perdita dell’appoggio degli USA e di altri paesi occidentali. Ma fu soprattutto sul fronte politico interno che Ben Balla si dimostrò incapace di governare e per scongiurare l’acuirsi delle lotte politiche interne, nel giugno 65 il generale Boumedienne, rimosse Ben Balla dal potere con un golpe e lo imprigionò, concentrando tutto il potere in un consiglio della rivoluzione formato dai capi militari e del FLN a lui piu fedeli, creando così una leadership collettiva civile militare, che p rimasta sino ad oggi una peculiarità del sistema di potere algerino. Nominato presidente, capo del governo e ministro della difesa, Boumeidienne governò fino al 1978. 5.2 Boumedienne e l’istituzionalizzazione del modello algerino La presidenza fu caratterizzato dalla stabilizzazione del sistema politico, dalla repressione del dissenso, da un deciso programma di sviluppo socio-economico e da una politica estera terzomondista. Egli dotò il paese di istituzioni che assicuravano un simulacro di partecipazione politica ma che in realtà controllavano la società dall’alto. Sul piano economico vi fu un’accelerata industrializzazione finanziata dalla ricchezza petrolifera che fece crescere il pil dell’algeria del 7,2 % l’anno la produzione industriale raddoppiò. Per quanto riguarda lo sviluppo sociale, investì nell’istruzione di massa, con una politica culturale orientata a consolidare l’identità arabo islamica del paese (campagna di arabizzazione). La presidenza di Boumedienne fu caratterizzata dall’azione diplomatica dell’Algeria, orientata alla critica dell’imperialismo e alla ricerca di un maggior ruolo internazionale dei Paesi non allineati e in via di sviluppo. La plica estera algerina fu tuttavia anche improntata al pragmatismo dietato dall’esigenza di reperire finanziamenti internazionali: così gli stati uniti, principale bersaglio delle critiche imperialiste, furono anche i principali partner dell’Algeria nel settore energetico. Il modello adottato per raggiungere questi risultati da Boumedienne creò i presupposti delle successive crisi che lacerarono il paese. Dal 1977 l’economia algerina non riusciva più a soddisfare la domanda di posti di lavoro con una popolazione in espansione vertiginosa. L’improvvisa morte per malattia di Boumedienne nel dicembre 1978 diede tuttavia luogo a una transizione ordinata secondo il dettato costituzionale, al termine del quale il FLN nominò il colonnello Banjedid candidato alla segreteria del partito e alla presidenza della repubblica per le elezioni del gennaio 1979, in cui fu eletto con il 94% dei voti. 6. Dall’elezione di Benjedid all’invio della guerra con gli islamisti (1979-1992) 6.1 La prima fase della presidenza Benjedid e la crisi socio-economica (79-88) Le principali novità in campo economico furono la suddivisione dei grandi conglomerati industriali stati in imprese più piccole, e l’introduzione di una nuova legislazione mirata ad incoraggiare e ad espandere il settore privato. Queste riforme però non raggiunsero i risultati sperati e il governo di Benjedid si trovò ad affrontare una doppia crisi: socio-culturale ed economica. La crisi socioculturale organava nelle irrisolte questioni dell’identità algerina (arabo.berbera o solo araba?, laica o musulmana?) e iniziò a manifestarsi nei primi anni 80, quando Benjadid, per contrastare la sinistra del FLN, inizio ad appoggiarsi sigli arabisti, sostenitori di un ulteriore arabizzazione, provocando la reazione dei Berbeiri; le manifestazioni sono ricordate come la primavera di Tizi Ouzu. Nell’82 gli islamisti algerini diedero vita a grandi manifestazioni in cui si chiedeva l’abrogazione della carta nazionale e l’istituzione di uno stato islamico. Negli anni 80 emerse una corrente radicale dell’islamismo, il movimenti islamico algerino armato, che propugnava l’instaurazione dello stato islamico con la lotta armata. In Algeria, come nel resto dei paesi arabi la crescente crisi socio-cultuale fu alimentata dall’aggravamento della crisi socio-economica, generata dai prezzi del petrolio nel 1986: la rendita petrolifera si dimezzò e non fu più sufficiente a coprire la spesa pubblica. Nel 1988 la disoccupazione era al 25% provocando una sollevazione di massa. 6.2 Dalla rivolta della semola alla vittoria elettorale islamista Tra il 5 e il 10 ottobre 1988 masse di dimostranti scesero spontaneamente in piazza in tutto il paese per protestare contro il caro vita e le politiche del governo, attaccando i municipi, le stazioni di polizia e tutti i simboli dello Stato e del FLN. Il 6 ottobre fu dichiarato lo stato d'assedio, e l'esercito intervenne per reprimere le manifestazioni provocando l'uccisione di 500 persone. La dura repressione non fermò le proteste. Nel Febbraio 1989 veniva approvata una nuova costituzione, che introduceva la separazione tra stato e partito, il multipartitismo e l'elezione a suffragio diretto del Parlamento; anche poteri dei militari furono ridimensionati. Nel Febbraio 1989 fu fondato il fronte di salvezza islamico (FIS) sotto la guida di Madani e Benhadj. Il nuovo partito era una coalizione delle molte anime dell’ islamismo algerino, accomunate da un vago programma politico, condito da reminescenze socialiste e terzomondiste, con al centro l'applicazione della sharia come mezzo principe per creare uno stato islamico e contrastare la crisi sociale. Le correnti più moderate più radicali dell' islamismo il algerino tuttavia rimasero fuori dal Fis, che fondarono rispettivamente ai partiti islamisti Hamas e Nhada. Il presidente Benjadid nel 90 91 cercò di cooptare il FIS nella propria strategia per rimanere al potere. Per le elezioni politiche del 1991 il presidente varò una nuova legge elettorale, per contenere il più possibile il probabile successo elettorale del FIS, che contro questa legge proclamò uno sciopero generale. Nonostante l' imprigionamento dei suoi capi il fis raccolse il 47% dei voti , rendendo concreta la possibilità di raggiungere al secondo turno la maggioranza parlamentare di 2/3 necessaria a cambiare la costituzione e dunque il regime del paese. Era ormai evidente il fallimento della strategia di cooptazione e l'esercito, nel gennaio 1992, costrinse il presidente a dimettersi. Approfittando del vuoto si costituì l’alto comitato di stato (HCE), una sorta di presidenza collegiale, indirettamente controllata dai militari, guidata da Boudiaf. 7. Dalla seconda guerra d’Algeria a oggi (1992-2015) 7.1 L’intervento dei militari: la sporca guerra (1992-1999) La messa al bando del FIS decisa dall’ HCE segnò l'inizio del decennio nero, durante il quale l'Algeria fu governata da istituzioni non elette e fu devastata da una guerra tra gli apparati di sicurezza dello Stato e islamisti insurrezionalisti che provocò la morte di circa 150.000 persone. la seconda guerra d'Algeria fu principalmente la conseguenza della convinzione degli alti gradi militari che l'unico modo per preservare il modello di Stato costruito in Algeria dopo l'indipendenza fosse quello di sradicare gli islamisti una volta per tutte. Sin dal primo successo elettorale degli islamisti del 1990, militari e servizi di sicurezza decisero di colpire subito e duramente il FIS, favorendo così la frammentazione politica e la radicalizzazione, che dal 1993 portarono alla violenza generalizzata. La guerra tra militari islamisti in Algeria non fu mai una guerra civile perché la popolazione non si sollevò e fu presa in ostaggio, colpita da entrambi i contendenti per tutta la durata della sporca guerra. scardinando la tradizionale organizzazione comunitaria che per loro prevedeva la protezione ma non l’uguaglianza. Nel 1861 il Bey Muhammad al-Sadiq adottò poi la prima costituzione di tutto il Mondo Arabo, finalizzata a limitare i poteri del Bey rispetto a quelli dei notabili europeizzati, i quali continuarono a sostenere le modernizzazioni nonostante queste richiedessero un aumento della tassazione insostenibile per la popolazione. Nel 1864 la popolazione tunisina insorse in tutto il Paese contro la tassazione divenuta insostenibile, e nel 1867 la Tunisia, fu sottoposta alla tutela d’una commissione finanziaria internazionale, che impegnò il 50% delle entrate pubbliche per il ripianamento del debito con le banche europee, privando lo stato tunisino di gran parte della sua sovranità. Il controllo europeo dell’economia tunisina fu guidato dalla Francia, che nel congresso di Berlino del 1878 ricevette da Bismarck e dalle altre potenze europee il beneplacito a mettere la Tunisia sotto il proprio diretto controllo coloniale. La Francia in memoria delle rivolte algerine era un pò restia a impegnarsi in nuove avventure coloniali. Quest’esitazione francese permise alla Tunisia di tentare nel periodo 1873-1877 un ultimo sforzo riformatore sotto la guida del primo ministro Khair al-Din, ma le rivalità interne posero presto posero fine a questo esperimento, mentre una serie di fattori spinse infine la Francia a esplicitare il proprio dominio sul Paese. Nella primavera del 1881 i francesi intervennero militarmente in Tunisia, nel maggio 1881 la presenza militare francese fu legittimata con Trattato del Bardo e con la firma successiva della convenzione di La Marsa del 1883. 2. Dal protettorato all’indipendenza (1881-1956) 2.1 Peculiarità del protettorato francese in Tunisia Il protettorato istituito sullo stato tunisino rappresentava un tipo nuovo di dominio coloniale, in effetti gli interessi strategici della Francia in Tunisia erano limitati: impedirne il controllo da parte di altre potenze, costituire una zona cuscinetto tra la Cirenaica italiana e l’Algeria francese, proteggere gli interessi economici francesi nel paese. Per far questo era sufficiente che il Bey governasse la Tunisia per conto della Francia, pertanto la convenzione di La Marsa prendeva che il Bey mantenesse l’autorità suprema, cosi come i tunisini mantenevano la loro cittadinanza e le loro istituzioni. Alla Francia bastava che il proprio rappresentante in Tunisia, il residente generale, controllasse direttamente le finanze e la politica estera del regno. Attraverso il protettorato la Francia realizzò i propri interessi appoggiandosi su quelli dell’elitè occidentalizzata. Territorio e società furono amministrati e controllati da istituzioni statali rafforzate sotto il dominio coloniale, ma pur sempre formalmente tunisine. Paragonato a quello in Algeria, il dominio francese fu relativamente benevolo, tuttavia anche in Tunisia le politiche coloniali, e la privatizzazione di molte terre produssero un progresso impoverimento della gran massa di popolazione. Anche in Tunisia una parte della borghesia locale trasse vantaggio dal sistema coloniale, soprattutto grazie all’accesso a un’istruzione moderna. Dal 1906 i figli istruiti “alla francese” di questa nuova borghesia si unirono agli studenti arabofoni dell’antica università islamica Zaituna, formando il movimento “Giovani tunisini”, che fu critico nei confronti dell’amministrazione coloniale ma non indipendentista. 2.2 Le prime rivendicazioni di indipendenza tra le due guerre mondiali La prima guerra mondiale cambiò il contesto della nascente movimento nazionale tunisino: 60.000 tunisini combatterono nell’ esercito francese e, a guerra finita, la purea prosecuzione delle politiche coloniali non era più accettabile né per la borghesia né per i lavoratori tunisini. Le proteste della borghesia furono più intense ed iniziarono ad essere rappresentate da un nuovo partito, che prese il nome di Parti liberal constitutionnel tunisien, ma divenne noto come Destour. Il partito iniziò a chiedere il riconoscimento di pari diritti civili per tutti i cittadini, la creazione di un Parlamento e una reale divisione dei poteri. Durante gli anni 20 le autorità coloniali repressero le attività del Destour. Così il inasprimento della crisi economica spinse il movimento dei lavoratori tunisini a dotarsi di una propria organizzazione sindacale , mentre cresceva la convinzione che bisognasse ripristinare la sovranità nazionale tunisino per poter garantire a tutti i maggiori diritti politici e sociali. La rivendicazione della completa indipendenza maturo dunque in Tunisia nei primi anni 30 e divenne la parola d'ordine del partito Neo-Destour, fondato nel Marzo 1934, che mirava ad unire nel comune obiettivo dell’ indipendenza borghesi e lavoratori, le due anime del movimento coloniale. Un compromesso tra movimento nazionale potenza coloniale sembro possibile nel 1936-1937, quando in Francia arrivarono al governo i socialisti del fronte popolare; ma dopo la caduta del fronte e la cancellazione delle sue aperture in materia di politica coloniale le agitazioni indipendentisti che in Tunisia ripresero con vigore. Nel 1938 i francesi imposero lo stato d'assedio, lo scioglimento dei partiti e l' imprigionamento di 200 leader nazionalisti, tra i quali Burghiba, (capo del partito). 2.3 La seconda guerra mondiale e la conquista dell’indipendenza Dalla sua prigione in Francia Burghiba ordinò ai suoi di non collaborare col governo francese o coi tedeschi , bensì di sostenere gli sforzi della Francia libera guidata da De Gaulle; il leader tunisino sperava così di forgiare un'alleanza con i politici francesi non collaborazionisti per ottenerne in seguito un appoggio all'indipendenza. Da parte loro i tedeschi incoraggiarono invece il nazionalismo tunisino in chiave antifrancese, soprattutto per favorire l'Italia alleata virgola che sotto il fascismo aveva riattivato le sue rivendicazioni sulla Tunisia. A questo fine, il governo francese di Vichy rilasciò Burghiba instradandoli verso l'Italia dove furono ricevuti con tutti gli onori da Mussolini e poi liberati. Infine Burghiba tornò a Tunisi. I primi atti del restaurato governo coloniale francese in Tunisia riaccesero lo scontro coi nazionalisti, tanto che Burghiba fu accusato dai francesi di collaborazionismo, e nel 1945 fuggì in esilio. Nel 1951 le autorità francesi dal protettorato cercare un accomodamento con i nazionalisti, permettendo il ritorno in patria di Burghiba. Contemporaneamente egli operò per un’apertura agli Stati Uniti e all' anticomunismo. Nel gennaio 52 le autorità coloniali arrestarono gran parte della leadership del neo-Destour ed il partito passò nel 54 alle azioni di vera e propria guerriglia contro i simboli del colonialismo. Il contesto sfavorevole in cui si trovava la Francia fece sì che iniziassero dei negoziati sui termini di una completa autonomia interna. Il 20 Marzo 1956 i negoziati sfociarono nel pieno riconoscimento dell'indipendenza della Tunisia, dove tuttavia la Francia si assicurava il mantenimento di una base militare a Bizerta. pochi giorni dopo l'accordo venne eletta un'assemblea costituente con a capo Burghiba. 3. La repubblica di Burghiba (1957-1987) 3.1 La fondazione della Repubblica e l’impronta modernizzatrice di Burghiba (1957-1969) Già durante i lavori della costituente Bourghiba riuscì a dare una sterzata modernista il paese con una serie di riforme fondamentali, quali la nazionalizzazione e l'adozione di un nuovo codice di statuto personale virgola che aboliva la poligamia e migliorava i diritti delle donne, nel 1957 l'assemblea costituente abolì la carica del bey e proclamò la Repubblica, nominando Burghiba primo presidente. Con l'istituzione della Repubblica ebbe inizio la storia postcoloniale della Tunisia. Il primo periodo repubblicano fu caratterizzato anche dall’eliminazione delle opposizioni politiche, dai militari, protagonisti di un tentato golpe nel 62 e dal partito comunista, messo fuorilegge per aver tentato di allargare la sua base tra studenti e lavoratori. fu caratterizzato anche dalla strutturazione di un sistema politico incentrato sull’autorità presidenziale e sulla rappresentazione politica canalizzata nel Neo-Destour. La seconda parte del periodo repubblicano fu invece caratterizzata (dal 1964) dal tentativo di realizzare una riforma economica di ispirazione socialista, che affidava al settore pubblico un ruolo preponderante. Il Neo-Destour prese il nome di partito destouriano socialista e il parlamento approvò la nazionalizzazione di tutte le terre di proprietà straniera. Tutto ciò non funzionò, anzi diede il via a delle proteste. 3.2 Riorientamento politico e relativa liberalizzazione (1970-1974) Nella prima metà degli anni 70 una combinazione di fattori favorevoli migliorarono le condizioni dell’ economia tunisina, principalmente l'aumento dei prezzi delle principali risorse naturali della Tunisia, come petrolio e fosfati. Così dopo la rielezione alla presidenza nel 1974 Burghiba si sentì abbastanza sicuro da far approvare al parlamento gli emendamenti costituzionali per divenire presidente a vita. 3.3 L’ultimo periodo della presidenza di Burghiba: proteste, scioperi, repressione e golpe (1974-1987). Nella seconda metà degli anni 70 la parte più svantaggiata della società tunisina iniziò a protestare contro la distribuzione nei uguale della ricchezza generata dalla crescita economica. Di fronte al malcontento popolare, il 26 gennaio 1978, giovedì nero, l’UGTT (unione generale tunisina del lavoro) proclamo il primo sciopero generale dall’indipendenza: questo evento si trasformò in un insurrezione anti governativa repressa nel sangue con circa 200 morti. Burghiba all’emergere di queste nuove forme di opposizione rispose con la repressione dei movimenti sindacali, di sinistra e islamici, ma anche l' avvio di una liberalizzazione controllata dal 1980. Nel 1983 Burghiba entrò nella sua crisi finale. come nella maggioranza dei paesi arabi, anche in Tunisia il debito accumulato per le spesso inefficienti spese pubbliche costrinse il governo a negoziare accordi con i principali organismi finanziari internazionali che prevedevano il taglio della spesa sociale. Nel dicembre il governo sospese i sussidi ed alcuni beni di prima necessità, tra i quali il pane e altri cereali, innescando una violenta rivolta popolare che costrinse Burghiba ad annunciare la revoca dei tagli il 6 gennaio 1984. Per la prima volta la rabbia popolare non era stata diretta solo contro il governo ma anche contro le elite privilegiate che beneficiavano delle liberalizzazioni economiche. Il primo ministro Mzali tento ancora la carta dell apertura politica, questa volta verso il movimento islamista MTI, liberandone la dirigenza e incoraggiandola prendere un ruolo leader nei movimenti sociali al posto del sindacato UGTT. L’MTI non accettò l' accomodamento e approfittando della momentanea libertà d'azione per accrescere la sua presenza nella società tunisina. questo attirò contro l’MTI una nuova ondata di repressione, che si intrecciò con le ultime convulsioni del presidente Burghiba. Per la prima volta il presidente si rivolse ai militari. Nel marzo 1987 gli islamisti dell’MTI furono accusati di aver costituito una rete clandestina con il supporto dell Iran e poi di aver compiuto una serie di attentati contro installazioni turistiche. Processati per direttissima, il desiderio di Burghiba era la pena capitale. ma la notte fra il sei e il 7 novembre 1987 Ben Ali (capo dei servizi segreti) raduno 7 medici che certificarono di infermità mentale di Burghiba e lo destituì. 4. Dalla seconda alla terza repubblica tunisina (1987-2015) 4.1 Il regime di Ben Ali dalla conciliazione al consolidamento autoritario Per consolidare il suo potere Ben Ali dedicò i primi due anni della sua presidenza ad una politica di riconciliazione di riforma e avviando un’ apparentemente decisa liberalizzazione politica. Dal 1989 egli ad ottobre una strategia ben diversa consolidando il proprio autoritarismo grazie alla liberalizzazione economica, l'appoggio agli interessi occidentali , il ricambio dell' elite interne e la pesante repressione poliziesca di ogni dissenso politico. Durante i suoi 23 anni di presidenza Ben Ali ha mantenuto il sistema politico-istituzionale creato da Brughiba (lo strato centralizzato, il partito dominante), ma allora ha adottato alle mutate condizioni internazionali e all' esigenze del suo potere personale, creando un clan al di sopra della legge, formato dai suoi familiari, dai servizi di sicurezza e dai principali imprenditori vicini al regime. 4.2 Dalle apparenti aperture alla repressione di Ennhada alla dittatura (1987-2000) L'opposizione accolse con entusiasmo le aperture di Ben Ali, convinta che il nuovo presidente avesse bisogno della sua collaborazione. in cambio di questo appoggio l'opposizione avanzi o richieste che egli non poteva soddisfare: le elezioni politiche furono anticipate al 1989 ma la legge elettorale maggioritaria non fu modificata e all’MTI non fu concesso di costituire un partito legale, nonostante nel 1989 avesse mutato il suo nome in ENNHADA, per evitare ogni esplicito riferimento religioso , come richiesto dalla nuova legge sui partiti. In realtà le liberalizzazioni adottate da Ben Ali non costituirono un avanzamento verso la democrazia, bensì un nuovo tipo di sistema autoritario, in cui il regime faceva concessioni, ma manteneva i mezzi per revocarle o modificarle a piacimento. I limiti del nuovo sistema politico divennero chiari per tutti a seguito delle elezioni del 1989: immediatamente Ben Ali abbandonò la sua politica di apertura gli islamisiti, rifiutando ancora la legalizzazione di Ennhada e riprendendo la repressione degli islamisti con arresti e torture. Nel 1991 ENNHADA fu accusato di un complotto per assassinare il presidente prendere il potere, furono arrestati più di 8000 islamisti,10 militanti morirono in carcere per le torture. Eliminato dall' arena politica il suo principale avversario fu poi relativamente facile per Ben Ali tenere sotto controllo quello che restava dell’ opposizione, tanto che nel 99 venne rieletto alla presidenza, fino al 2009. Nel 2000 Amnesty International stimava che nel paese vi fossero 1000 prigionieri d'opinione, ed azioni come lo sciopero della fame, ma gli attacchi del 2001 negli USA fecero ancora una volta chiudere un occhio sugli eccessi del regime tunisino. della prima guerra mondiale. La ritirata italiana nel 1915 dai territori interni, riaccese la competizione tra i vari capi libici. Dopo la ritirata italiana del 1915 emerse Rho quindi tre principali centri di potere in Libia: la Seussania in Cirenaica e in parti della Tripolitania e del Fezzan; Ramadan Shutaywi, signore di Misurata, nella Sartica; e Sulayman al-Baruni in Tripolitania. Nel 1917 gli italiani avevano stretto il patto di Acroma , col quale il capo della Sennusia, Idris, riconosceva la sovranità italiana sulla Cirenaica e il suo dominio sulla costa, gli italiani riconoscevano a Idris il titolo di emiro. Terminata la prima guerra mondiale gli italiani ripresero la campagna d'occupazione ma, per motivi di politica interna, tentarono anche la strada di un governo con le elite locali, tramite un accomodamento formalizzato nel 1919 negli statuti libici, adottati in Tripolitania e in Cirenaica. Questi statuti abrogavano i precedenti ordinamenti per le province libiche e prevedevano per i libici uno speciale tipo di cittadinanza italiana, un Parlamento locale elettivo, l'arabo e l'italiano come lingue ufficiali, il servizio militare volontario, la libertà di stampa e di opinione. Questi statuti però rimasero inapplicati, poiché ritenuti troppo liberali, e furono abrogati dal nuovo ordinamento fascista in Libia del 1927. 2.4 Lo spietato completamento dell’occupazione e il fascismo (1922-1932) Nell'agosto 1921, con l'arrivo come governatore della Tripolitania dell'imprenditore Giuseppe Volpi, il governo coloniale italiano in Libia abbandonò la strada del compromesso ed intraprese quella della riconquista militare. nel giugno del 1922 i leader libici Tripolitani, chiesero a Idris, di estendere il proprio mirato anche alla Tripolitania. Incerto se rispettare o no gli accordi di acroma con gli italiani, egli accettò la richiesta tripolitana a novembre, ma in quello stesso anno Benito Mussolini prese il potere con la marcia su Roma, e il nuovo regime fascista abbandonò definitivamente la strategia del governo indiretto. Così l'unico tentativo di Unione nazionale realizzato dai leader libici arrivò troppo tardi, e Idris fu costretto a fuggire in esilio, per sfuggire alle conseguenze del suo tradimento. L'Italia controllava ora la maggior parte della Tripolitania, mentre la riconquista del Fezzan fu attuata nel 1929. In Cirenaica l'esercito italiano non riusciva a vincere la resistenza capeggiata dal fratello di Idris, Rida. Rida fu catturato e la guida della resistenza passò a al-Mikhtar della Sennusia. Il 1930 fu il periodo di repressione più dura mirata a distruggere tutto sei le tribù non si fossero sottomesse. Furono gli anni delle brutali campagne di pulizia etnica guidate dal generale Graziani, che ebbero come bersaglio i guerriglieri, la popolazione civile e i loro mezzi di sostentamento e videro l'utilizzo del bombardamento di zone civili con armi chimiche, nonché di deportazioni ed esecuzioni di massa. Nel settembre 1931 al-Mukhatar fu catturato e impiccato, la sua morte segnò l'inizio della fine della resistenza libica in Cirenaica. 2.5 Unificazione dei coloni e fine dell’occupazione (1932-1943) Nel 1932 la Libia unificata fu distinta in due zone: una settentrionale ad amministrazione civile, e una meridionale, sottoposta all'amministrazione militare, denominata “Sahara libico”. Nel periodo 1933-1940, quando Italo Balbo era governatore della Libia, la colonizzazione italiana a riuscì a consolidarsi e ad espandersi: furono costruite infrastrutture; realizzati investimenti economici; praticata una politica di riconciliazione che favorì il rientro di rifugiati all'estero. Questa politica era stata immaginata da tempo, per alleviare il problema della disoccupazione, e dell'emigrazione del meridione italiano e per italianizzare la Libia. La colonizzazione ebbe una svolta quando Mussolini approvo il programma di Italo Balbo, che prevedeva l'insediamento di 20.000 coloni e la costruzione delle infrastrutture necessarie ad avviare l’ attività agricola in villaggi creati ex novo. Nel 1939 gli italiani in Libia erano 120.000, per la prima volta dall'inizio della colonizzazione italiana, La Libia pacificata viveva il suo momento di sviluppo economico sociale. Tuttavia i libici neanche questa volta furono integrati nella gestione politica ed economica del paese. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, le forze armate in Libia, sotto la guida di Graziani, attaccarono i britannici in Egitto, con lo scopo di raggiungere Suez. A seguito del contrattacco britannico, gli italiani perso il controllo della Cirenaica. Sotto la guida del generale Mont-gomery nella battaglia di El-Alamein, i britannici contrattacarono nuovamente, e sconfissero italiani e tedeschi e li espulsero da Egitto e Libia, respingendoli fino in Tunisia, dove furono definitivamente sconfitti il 13 maggio 1943. 3. L’indipendenza sotto la monarchia senussita (1943-1969) 3.1 Dall’amministrazione anglofrancese all’indipendenza (1943-1951) Dopo il definitivo ritiro italiano, i britannici crearono in tripolitania e in cirenaica un' amministrazione militare, mentre il fezzan fu affidato ai francesi. Dopo la fine della guerra nel 1945, le province libiche rimasero sotto amministrazione militare per altri quattro anni. Unità indipendenza della Libia erano gli obiettivi comuni di tutti i numerosi partiti politici che emersero durante il periodo di amministrazione militare, partiti che erano però divisi su come raggiungere questi obiettivi e sul tipo di regime di istituire nella Libia indipendente. Nel 1948 la commissione d’inchiesta inviata in Libia dalle potenze vincitrici, dopo aver raccolto le opinioni delle organizzazioni e delle personalità politiche di tutte le province, tenendo anche conto delle disastrose condizioni economiche post belliche, concluse che i libici volevano l'indipendenza ma che il paese non era pronto per esercitarla. Le conclusioni della commissione riaprirono la possibilità che il governo della Libia fosse temporaneamente affidato alle potenze europee, e una proposta di codominio Italo britannico fu presentata all'onu nel maggio 1949. Tuttavia la maggioranza delle forze politiche libiche insorse contro questa prospettiva e l'emiro Idris dichiarò unilateralmente l'indipendenza della Cirenaica nel 1949. Gli Stati Uniti, si opposero vigorosamente a qualunque soluzione mandataria, sia per una loro politica contraria al mantenimento dei domini coloniali europei, sia per gli interessi che avevano maturato in Libia dal 1943 con la creazione della base aerea USA di Wheels Field. Fu dunque soprattutto grazie alle pressioni americane che l'Onu decise la creazione di uno stato indipendente e sovrano nelle tre province della Libia e la costituzione di un consiglio consultivo dell' Onu per la Libia, presieduto dall’olandese Pelt, incaricato di assistere il paese nel periodo di transizione verso l'indipendenza. Il 7 ottobre 1951 l'assemblea nazionale transitoria approvò la costituzione del nuovo Regno Unito di Libia , che prevedeva una sostanziale autonomia per le tre province all'interno di un sistema federale, in cui il re aveva poteri molto estesi. Questo sistema con due capitali (Tripoli e Bengasi) e e quattro governi si rivelò ben presto sfavorevole alla costruzione della coesione nazionale. 3.2 La monarchia federale: uno stato accidentale (1951-1953) Al momento dell’ indipendenza proclamata il 2 gennaio 1952, la Libia guidata dal re Idris I era lo stato più povero del Mediterraneo. Queste condizioni di partenza influenzarono molto la natura del nuovo stato libico indipendente. Il 23 luglio 1953 un trattato di alleanza militare anglo libico assicurava alla Gran Bretagna il mantenimento delle proprie basi militari terrestri e aeree, in cambio di una Modica assistenza finanziaria; la trattativa con gli USA per la concessione della base aerea fu più complessa e si concluse quando gli USA accettarono le richieste economiche della Libia che, in cambio, si impegnava a non ricevere assistenza dall’URSS. Nel 1955 un accordo con la Francia garanti a quest'ultima l'uso delle vie di comunicazione nel fezzan, in cambio del l'evacuazione delle truppe francesi. Nel 1956 fu possibile stipulare anche un trattato Italo libico che prevedeva una collaborazione economica bilaterale. Il trattato garantiva la libera permanenza dei cittadini italiani residenti in Libia. Re Idris si dimostrò un monarca interessato più alle sorti della Cirenaica che allo sviluppo di uno stato nazionale sull’intero Paese. 3.3 L’inizio dell’era petrolifera (1953) Grazie alla lungimiranza del primo ministro Ben Halim, nel corso degli anni 50 e 60 la Libia sviluppò un abile politica petrolifera, che sfruttando i vantaggi del petrolio libico, riuscì in parte ad evitare la dipendenza dalle grandi compagnie petrolifere occidentali che condizionava l'epoca gli altri produttori medio orientali. L' esportazione petrolifera in quantità significative inizio nel 1962, anno in cui la Libia aderì all'OPEC. 3.4 Crisi e caduta della monarchia (1953-1969) Verso la fine degli anni 60 la debolezza e la corruzione dello Stato, e l'assenza di una vita politica organizzata fecero crescere lo scontento per il governo di re idris, che si disinteressava sempre più degli affari pubblici. In questo contesto, le uniche forze di opposizione attive in Libia erano i nazionalisti arabi. La diffusione del panarabismo in Libia, specie tra i giovani, fu dovuta soprattutto all'influenza esercitata dall Egitto di Nasser, ma anche attraverso numerosi immigrati egiziani che insegnavano nel paese. Così quando nel 1964 Nasser definì le basi occidentali in Libia un pericolo per l'Egitto e per il mondo arabo, chiedendone la chiusura, vi furono manifestazioni popolari libiche, in appoggio alla richiesta del Cairo, che non si calmarono neanche quando il governo si impegnò a non rinnovare la concessione delle basi. Tuttavia la Libia nel 1967 non partecipò alla terza guerra arabo-israeliana, nonostante le sommosse anti-britanniche e anti-americane. Nell’estate del 1969, durante un lungo soggiorno di re Idris all'estero per cure, il potente clan filo governativo al-Sahli preparò un golpe militare per porre fine alla traballante monarchia, ma la notizia trapelò nell'esercito e il piano fu anticipato dal colpo di Stato incruento realizzato il 1 settembre 1969 dagli “ufficiali liberi” guidati dal capitano Gheddafi. 4. La Libia di Gheddafi: il periodo rivoluzionario (1969-1986) 4.1 La fase nasseriana (69-73) Gli ufficiali liberi libici aderivano al panarabismo ispirandosi al presidente egiziano Nasser. Il golpe guidato da Gheddaffi riuscì soprattutto perché il regime senussita non aveva più sostenitori neanche tra le potenze occidentali che l' avevano creato: non a caso nel 1969 la Gran Bretagna respinse l'appello di re Idris ad intervenire in suo favore. Dal 10 dicembre 1969 il CCR prese direttamente la guida del paese e adottò una dichiarazione costituzionale che istituiva la Repubblica araba di Libia, con Gheddafi come capo dello Stato, e proclamava la libertà, il socialismo e l'unità araba come obiettivi della rivoluzione del nuovo regime. Prima conquista della libertà promessa furono i negoziati con gli Stati Uniti e Gran Bretagna per la chiusura delle rispettive basi militari in Libia. Il secondo passo per realizzare l'obiettivo di liberare il paese dagli imperialisti e dagli intrusi fu l'annuncio da parte di Gheddafi dell' espulsione degli italiani e degli ebrei residenti in Libia e della confisca dei loro beni immobili, che comprendevano le migliori imprese agricole del paese. In cambio i beni delle grandi società italiane operanti in Libia (ENI e FIAT) non furono confiscati e anzi negli anni 70 ci fu un progressivo rafforzamento delle relazioni economico commerciali Italo libiche. Fu soprattutto nel settore petrolifero che le relazioni tra Italia e Libia si ampliarono a scapito di quelle con le società inglesi americane, dal 1972 le relazioni bilaterali si estesero anche alla fornitura di armamenti. Nei primi mesi il nuovo regime politico ricalco il modello nasseriano, con l'introduzione di diverse nazionalizzazioni, e una serie di progetti di Unione con altri paesi arabi. Tuttavia già nel 1970 Gheddafi iniziò a distaccarsi dal modello nasseriano e ad elaborare una terza via ideologica: la terza teoria universale. 4.2 Il nuovo sistema della Jamahiriyya (1973- 86) La terza teoria universale fu prima annunciata da Gheddafi con un discorso tenuto a Zouara e poi articolata nei tre volumi del libro verde, che furono rispettivamente dedicate a: la soluzione del problema della democrazia (l'autorità del popolo), la soluzione al problema economico (il socialismo) e le basi sociali della terza teoria universale. La prima fase della rivoluzione prevedeva la gestione popolare diretta, tramite comitati popolari locali approvati dal CCR. La rivoluzione voluta da Gheddafi aveva lo scopo di smantellare definitivamente il potere tradizionale dell' elite tribali e religiose, e di mobilitare politicamente la popolazione a sostegno del regime. Quindi la rivoluzione di Gheddafi ebbe lo scopo di cercare di rinsaldare il sostegno al regime ma ebbe anche l'effetto di consolidare la profonda debolezza della legittimità e dell’efficienza dello Stato nazionale in Libia, mantenendo Gheddafi come unico riferimento nazionale per la popolazione. Per quanto riguarda la politica economica generale, Gheddafi cerco di seguire il modello algerino; la rendita petrolifera fu perciò reinvestita in 5 settori principali: l'industria petrolifera stessa, l'industria siderurgica, le infrastrutture, l'istruzione e la sanità. Nella prima metà degli anni 70 il reddito procapite, l'istruzione e l' aspettativa di vita crebbe notevolmente, ma come in Algeria, il modello economico libico marginalizzò l’agricoltura e non riuscì a creare un sistema produttivo capace di soddisfare alcuni bisogni primari. Nel 75 76, il nuovo sistema della democrazia popolare diretta iniziò a prendere la forma di una piramide di comitati del popolo, composti da 16 20 persone e costituiti su base territoriale o funzionale, che in teoria erano protagonisti di un processo decisionale dal basso. Nel 75 76 emerse una variegata opposizione politica, che si espresse con manifestazioni studentesche a Bengasi, che è grazie alla repressione poliziesca alle manovre politiche fu CAPITOLO 6 EGITTO Al crocevia tra Maghreb, Mashreq e Penisola, l’Egitto è geograficamente e storicamente al centro del Mondo arabo. Dire che la geografia ha influenzato la storia dell’Egitto è riduttivo: il bisogno di amministrare la zona fertile creata dal Nilo ha infatti richiesto sin dall’antichità un’autorità centrale, e lo sviluppo di questa autorità ha fatto dell’Egitto uno dei più antichi Stati al mondo che, con la sua posizione strategica tra Asia ed Africa, ha sempre avuto grande influenza in entrambi i continenti e nei rapporti tra questi ed il resto del mondo. 1. Dal tardo dominio ottomano al protettorato inglese ‘mascherato’ (1798-1882) Questo periodo cruciale, durato poco meno di un secolo, segnò per l’Egitto il passaggio dall’era moderna all’era contemporanea, durante il quale il Paese entrò in diretto ed intenso contatto con l’Occidente europeo, si sviluppò quasi sino a diventare il primo moderno Stato nazionale indipendente del Mondo arabo, per poi infine cadere sotto il dominio coloniale britannico. 1.1 L’invasione napoleonica e le reazioni inglesi ed ottomane (1798-1805) Alla fine del XVIII secolo, l’autorità ottomana in Egitto era diventata quasi simbolica ed il potere reale esercitato dai Mamelucchi era minato da continue lotte tra le loro fazioni rivali. Fu questo l’Egitto che Napoleone invase nel 1798. L’occupazione fu breve ma ebbe per l’Egitto conseguenze importanti: nell’immediato, indebolì definitivamente il potere dei Mamelucchi e fece del Paese un’area d’interesse strategico per le potenze europee; nel più lungo periodo, anche grazie alla missione scientifica che aveva accompagnato Napoleone, stimolò l’interesse egiziano per la cultura europea e risvegliò l’attenzione del Vecchio Continente per l’Egitto faraonico. Nel 1801, tre corpi di spedizione britannici ed ottomani invasero l’Egitto per espellere i Francesi. Dopo la loro capitolazione, i Britannici ripartirono, mentre gli Ottomani rimasero, intenzionati a togliere il controllo del Paese ai Mamelucchi. Tuttavia, nel 1805, il contingente albanese, la componente più forte dell’esercito d’occupazione ottomano, si ammutinò ed il suo leader Muhammad Ali (albanese d’origine) ottenne il riconoscimento del suo potere da Istanbul con il titolo di governatore (walì). Muhammad Ali iniziò così il proprio regno sull’Egitto, che durò sino al 1848. 1.2 L’avvento di Muhammad Ali: modernizzazioni e politiche d’espansione (1805-1848) Durante il primo periodo del suo regno, Muhammad Ali consolidò il suo potere lottando contro coloro che lo avevano sin lì detenuto – i Mamelucchi e gli ulema – ed al contempo cominciò anche un ammodernamento radicale dello Stato egiziano, conducendo inoltre campagne di conquista militare per conto dell’Impero ottomano. I Mamelucchi controllavano ancora gran parte del territorio egiziano e Muhammad Ali li sconfisse militarmente, massacrandone i capi. Tuttavia, per spezzare definitivamente il loro potere e quello degli ulema, fu necessario abolire il sistema degli ‘appalti’ agricoli e nazionalizzare l’amministrazione dei beni religiosi, da cui queste due categorie derivavano tradizionalmente le loro ricchezze. Il sistema degli appalti fu sostituito dal monopolio di Stato sulle produzioni agricole più lucrative. Le riforme introdotte da Muhammad Ali, tipico esempio di autocrate modernizzatore, partirono dalla sfera economica e non da quella amministrativa per fondare in Egitto un moderno Stato nazionale. Naturalmente, questo non era l’obiettivo esplicito di Muhammad Ali, il cui interesse immediato era semplicemente quello di mantenere ed accrescere il proprio potere. Per fare questo, il governatore si dedicò inizialmente ad una serie di campagne militari per conto del sultano. La prima si svolse nella penisola araba ed ebbe come esito la sconfitta temporanea dell’emirato saudita, il ritorno delle città sante di Medina e La Mecca sotto il controllo del sultano e l’imposizione dell’egemonia egiziana nella Penisola, sino allo Yemen ed all’area del mar Rosso. Muovendosi questa volta autonomamente, Muhammad Ali inviò lungo il Nilo un corpo di spedizione che conquistò parte del Sudan settentrionale. Nel 1822 fu introdotta la leva obbligatoria per gli Egiziani, misura impopolare che permise però a Muhammad Ali di contare sull’esercito più potente del Vicino oriente, addestrato da istruttori stranieri, ben armato e sostenuto da un’importante flotta. Questa imponente forza militare permise a Muhammad Ali di espandere il proprio regno occupando anche la Siria; l’esercito egiziano era quindi in condizione di attaccare il cuore dell’Impero, ma ciò gli fu impedito da Francia e Gran Bretagna, le quali intervennero per evitare una disgregazione dell’Impero ottomano che avrebbe scatenato conflitti in Europa per la divisione delle sue spoglie. Il bombardamento navale anglo-francese sulle forze egiziane costrinse Muhammad Ali ad accettare i termini delle due potenze europee, le quali gli imposero di restituire la Siria agli Ottomani e di ridurre drasticamente le sue forze militari; in cambio, il sultano ottomano riconobbe l’ereditarietà del regno di Muhammad Ali, il quale assunse il titolo di khedivé (Viceré) d’Egitto. 1.3 Le riforme di Muhammad Ali: le premesse per la nascita di uno Stato moderno Questa politica espansionista fu resa possibile, oltre che dalle qualità militari di Muhammad Ali e dei suoi figli, dall’impressionante balzo in avanti dal punto di vista economico, amministrativo e culturale dell’Egitto, conseguenza delle riforme imposte dal khedivé. Oltre alle riforme economiche, la produzione agricola fu migliorata ed accresciuta e fu lanciato un vasto programma di industrializzazione, anche se non pienamente riuscito. Anche in campo amministrativo vi furono ampie riforme, con l’introduzione di un sistema di governo basato su province, distretti ed unità locali, e di direzioni funzionali (simili a dei Ministeri). I livelli più alti dell’amministrazione furono affidati a funzionari turco-circassi (la Circassia è una zona dell’attuale Russia), ma nei livelli più bassi furono impiegati egiziani arabofoni che, sotto i successori di Muhammad Ali, acquisirono sempre più influenza a scapito dell’élite turco-circassa. Anche nel settore della cultura e dell’istruzione le riforme intraprese da Muhammad Ali ebbero grande influenza per il futuro dell’Egitto: furono inviate missioni di studio in Francia, grazie alle quali i turco-circassi ottenevano una formazione militare moderna, mentre gli Egiziani seguivano un curriculum di formazione generale. Al ritorno in Egitto, le personalità formatesi in Francia andavano ad insegnare nelle neonate scuole tecniche, destinate alle nuove élite militari ed amministrative, diffondendo così le conoscenze acquisite.
Il regno di Muhammad Ali cambiò il corso della storia egiziana, rilanciando l’Egitto nel momento di svolta in cui l’intero Medio Oriente entrava nella modernità politica, economica e culturale attraverso il contatto sempre più stretto con l’Occidente europeo. Il successo europeo nell’imporre il proprio predominio economico rese l’opera di Muhammad Ali e dei suoi successori insufficiente a fare dell’Egitto uno Stato indipendente; tuttavia, la modernizzazione precoce del più antico dei Paesi arabi contribuì in modo significativo a tutti i successivi sviluppi del Mondo arabo contemporaneo. 1.4 I discendenti di Muhammad Ali; l’impresa del Canale di Suez (1848-1875) Nel 1848, Muhammad Ali abdicò in favore del figlio Ibrahim, il quale però morì qualche mese dopo. Il regno passo brevemente nelle mani di Said (1854-1863), il quale è ricordato per aver dato al diplomatico ed imprenditore francese Lesseps la concessione per lo scavo del Canale di Suez, che avrebbe collegato il Mediterraneo al Mar Rosso, rivoluzionando così le rotte marittime dell’epoca. I termini della concessione per la costruzione del Canale furono molto onerosi per l’Egitto e per questo furono una delle molteplici cause che portarono all’indebitamento del Paesi sotto il khedivé Ismail (1863-1879), sovrano energico ma stravagante, che regnò deciso ad accelerare ad ogni costo la modernizzazione dell’Egitto. Sotto Ismail, il debito pubblico si accumulò a causa di tre fattori principali: l’aumento dei tributi al sultano ottomano per ottenere il pieno riconoscimento della dinastia; il costo delle nuove campagne militari in Africa (in particolare in Suda, Etiopia e Somalia); la caduta del prezzo mondiale del cotone, di cui l’Egitto era un grande esportatore. Durante il regno di Ismail maturarono anche importanti cambiamenti socio-politici: accanto ai grandi proprietari terrieri emerse, infatti, una classe di medi proprietari terrieri arabi, che ottenne cariche locali e seggi nell’Assemblea nazionale dei delegati, creata sempre da Ismail a somiglianza dei parlamenti europei; anche nell’esercito il gruppo dirigente turco-circasso fu progressivamente sostituito da ufficiali arabofoni. Da questa nuova media e piccola borghesia araba emerse anche una nuova generazione di intellettuali, i quali traevano le loro idee sia dalle fonti islamiche che da quelle europee: fu in questi anni di fine ‘800 che tra questi intellettuali si svilupparono le grandi correnti del pensiero politico del Mondo arabo contemporaneo ed emersero i primi fermenti del movimento nazionalista egiziano. 1.5 Bancarotta ed intervento militare britannico: nascita del movimento nazionalista (1875-1879) Incapace di pagare gli interessi sul debito, lo Stato egiziano dichiarò bancarotta e chiese aiuto alla Gran Bretagna, la quale si accordò con la Francia per trovare assieme meccanismi per assicurare il ripianamento del debito verso le banche europee. Le commissioni di controllo europee sulle finanze egiziane create da Francia e Gran Bretagna pretendevano la riduzione della spesa pubblica e l’aumento delle tasse; tuttavia, i controllori finanziari non riuscirono ad imporre ad Ismail le proprie ricette sino a quando, nel 1879, il khedivé fu deposto dal sultano ottomano (anch’egli a capo di un Paese in bancarotta), su istigazione europea. Dopo l’ascesa al trono del khedivé Tawfiq, i controllori anglo-francesi imposero di destinare al ripianamento del debito metà del bilancio egiziano e di dissolvere l’Assemblea dei delegati, che da tempo protestava contro le imposizione europee. Amplificata dalla stampa, emerse progressivamente una coalizione di forze della nuova borghesia egiziana che si opponeva al controllo europeo ed al khedivé. Questa coalizione comprendeva una minoranza di alti dignitari turco-circassi ed una maggioranza di egiziani: ufficiali dell’esercito, proprietari terrieri provinciali e molti ulema, sindaci e capi villaggio. Da essa si sviluppò un movimento nazionale sfociato nella rivoluzione indipendentista di Urabi pascià, il quale cercò di abbattere con manifestazioni e sommosse il regime dominato dagli interessi politico-finanziari anglo-francesi, dal khedivé Tawfiq e dalla sua élite turco-circassa. Gli oppositori egiziani fondarono il primo partito nazionalista, ma il movimento fu guidato dalla rivolta dei militari. I militari egiziani si ammutinarono e, dopo aver posto sotto assedio il palazzo del governo, riuscirono ad imporre a Tawfiq la sostituzione di alcuni ministri e la ricostituzione dell’Assemblea dei delegati. Quando il portavoce dei militari in rivolta Ahmad Urabi ottenne il posto di ministro della Difesa nel nuovo governo imposto dai rivoltosi, gli Europei allarmati inviarono in Egitto una squadra navale anglo-francese. Il nuovo governo, pur non avendo un programma radicale, cercò di limitare il potere autocratico del khedivé e di difendere gli interessi delle élite nazionali. Quando la flotta europea arrivò, il governo nazionalista diede le dimissioni e scoppiò una sommossa antieuropea. Urabi decise di resistere ad oltranza e dichiarò decaduto il khedivé: le élite autoctone e la popolazione si schierarono con lui in una rivolta generalizzata. A questo punto, la Gran Bretagna decise, senza la Francia, di inviare una spedizione militare per riportare all’obbedienza l’esercito egiziano guidato da Urabi. Quest’ultimo fu sconfitto ed i Britannici poterono così occupare il Cairo e dare inizio al loro dominio coloniale sull’Egitto. 2. Dal protettorato inglese al colpo di Stato di Nasser (1882-1952) 2.1 Il protettorato ‘mascherato’: Lord Cromer ed il radicamento del nazionalismo egiziano (1882-1914) L’occupazione britannica dell’Egitto fu il punto di arrivo degli eventi messi in moto dall’invasione napoleonica e dalla progressiva incorporazione dell’Egitto nel sistema capitalistico europeo in posizione dipendente. I Britannici si convinsero che la salvaguardia dei propri interessi strategici in Egitto, e soprattutto nel Canale di Suez, vitale per la sicurezza dei collegamenti con l’Impero coloniale britannico in India e nell’Estremo oriente, richiedeva in Egitto un governo stabile e, dunque, una presenza militare britannica. L’occupazione inglese prese la forma di un protettorato ‘mascherato’ (veiled protectorate) che durò sino al 1914. La necessità della ‘mascheratura’ del dominio britannico dipendeva dal fatto che, formalmente, il khedivé d’Egitto continuava ad esercitare il suo potere per concessione del sultano ottomano, e non poteva perciò sottoscrivere alcun trattato di protettorato con la Gran Bretagna. Di fatto però, dal 1882 il Console generale britannico al Cairo svolse il ruolo di protettore del khedivé, ‘consigliandogli’ le misure da intraprendere in tutti i campi; consiglieri britannici svolgevano lo stesso ruolo in tutti i settori dell’amministrazione, mentre ufficiali britannici comandavano l’esercito egiziano. I Britannici dotarono l’Egitto di un regime politico moderatamente liberale, il quale prevedeva che il governo designato dal khedivé fosse affiancato da un’Assemblea consultiva e da un sistema di governi locali. Il potere effettivo di questo sistema di autogoverno era, comunque, strettamente limitato.
Tawfiq, il khedivé reinsediato dai britannici, ubbidì fedelmente ai loro dettami, ma il suo successore Abbas II tentò di recuperare l’autonomia del trono. Amico del khedivé Abbas II fu Mustafa Kamil, un avvocato di formazione francese che si mise alla guida di un nuovo movimento politico-culturale nazionalista; attraverso una stampa egiziana sempre più attiva ed influente, questo movimento cominciò a reclamare maggiore indipendenza in nome del khedivé, del sultano e dell’Islam.
La dura campagna di riconquista del Sudan voluta dai Britannici fornì un forte motivo di protesta ai nazionalisti, perché era combattuta con il denaro e le truppe egiziane ad esclusivo vantaggio degli interessi britannici in Africa. Anche le condizioni miserevoli dei contadini egiziani furono attribuite dai nazionalisti alle politiche volute dagli inglesi. Il movimento nazionalista si istituzionalizzò in due partiti distinti: il Partito Nazionale, di ispirazione islamica, fondato da Mustafa Kamil, ed il partito Umma (nazione), fondato dall’intellettuale laico Ahmed Lutfi el-Sayed, primo rettore dell’Università del Cairo. Negli anni seguenti, questi due partiti furono i protagonisti della vita politica egiziana.
Il nazionalismo egiziano era ormai un’ideologia ben radicata tra le élite, anche se una parte di esse era contraria alle forme più radicali di lotta contro l’occupazione britannica. Tra le élite più timorose vi era quella cristiano-copta (i Copti erano una minoranza del Paese), dalle radici culturali dichiaravano come obiettivo principale la cooperazione e la difesa dell’indipendenza e della sovranità dei Paesi arabi. 2.6. Crisi, instabilità, violenze: dalla disfatta del ‘48 al golpe dei Liberi Ufficiali (1945-1952) Nella fase finale del periodo monarchico (1945-1952), la vita politica egiziana fu caratterizzata da un’instabilità politica ancora più marcata e dall’uso diffuso della violenza; le principali forze politiche vedevano nel dominio britannico la fonte principale dei mali del Paese, ma per il resto erano in disaccordo su tutte le altre principali questioni.
Nel frattempo, nel ‘48-’49 si era consumata la pesante disfatta dell’esercito egiziano (e degli altri eserciti arabi) nella guerra per la Palestina, dichiarata dall’Egitto all’ultimo momento assieme a Siria, Libano, Iraq e Giordania, contro lo Stato di Israele, fondato il 14 maggio 1948. Le perdite territoriali rischiate nel Sinai (evitate solo grazie all’intervento britannico) e gli scandali per corruzione che accompagnarono la disastrosa condotta della guerra di Palestina, conclusasi con l’armistizio israelo-egiziano del 1949, diedero il colpo finale al regime monarchico. Il regime, infatti, vacillava sia per l’instabilità politica sia per il peso della questione sociale, che vedeva la condizione dei lavoratori in continuo deterioramento, a fronte dei privilegi della classe dirigente europeizzata. Dopo il fallimento in Palestina, tutte le tensioni socio-politiche egiziane si esacerbarono ed i Fratelli musulmani intensificarono le manifestazioni violente per rovesciare il regime, mentre la guerriglia anti-britannica dei nazionalisti radicali divenne permanente. Il 25 gennaio 1952, il comandante delle truppe britanniche chiese alla guarnigione egiziana di stanza presso il Canale di Suez di ritirarsi: su ordine del governo, la guarnigione si rifiutò e fu massacrata, resistendo ad oltranza ai Britannici. Il giorno successivo, il ‘sabato nero’, un enorme incendio devastò il Cairo, specie nelle zone abitate dagli Europei. Il Paese nel caos era pronto ad essere salvato da un intervento capace di affrontare i problemi che l’avevano reso ingovernabile.
Il cambiamento venne, infine, col colpo di Stato portato a termine nella notte tra il 22 ed il 23 luglio del 1952 da un gruppo di giovani militari denominatosi ‘Ufficiali Liberi’, un’organizzazione segreta fondata nel ‘49 guidata dal tenente colonnello Nasser (in arabo Jamal ‘Abd al-Nasir). Il colpo di Stato guidato da Nasser si trasformò progressivamente in una vera e propria rivoluzione. 3. Dalla rivoluzione di Nasser alla restaurazione di Sadat (1952-1981) 3.1 Fine della monarchia e del sistema parlamentare; da Neghib a Nasser (1952-1954) La rivoluzione in Egitto fu la prima nei Paesi arabi a segnare la fine dell’era dei notabili e può essere definita una rivoluzione perché cambiò il sistema di potere egiziano in due modi fondamentali: in primo luogo, sostituì le élite tradizionali, formate dai proprietari terrieri cittadini, con una nuova classe di burocrati civili e militari di origine piccolo-borghese; in secondo luogo, trasferì alle istituzioni statali gran parte del potere politico ed economico. La rivoluzione egiziana, tuttavia, non nacque da un programma politico-ideologico predefinito dai golpisti, ma fu piuttosto l’esito delle relazioni del nuovo gruppo dirigente ai principali problemi politici ed economici del Paese, ereditati dal vecchio regime o posti dal nuovo sistema internazionale all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. La storia del periodo nasseriano può essere divisa in tre fasi principali: nella prima fase (1952-1956), il nuovo regime definì le proprie caratteristiche per effetto di una lotta di potere interna; nella seconda fase (1956-1967), il regime nasseriano si radicalizzò, anche per effetto dello scontro con Israele e con le principali potenze occidentali; infine, nella terza fase (1967-1970), Nasser cercò di riorientare il regime verso il riformismo, al fine di compensare l’indebolimento del Paese causato dalle precedenti politiche. Pochi giorni dopo il golpe, Nasser enunciò in un discorso gli obiettivi principali degli ‘Ufficiali Liberi?, tra i quali figuravano la difesa dei diritti dei cittadini, in particolare dei contadini e degli operai; il colmare le sperequazioni sociali che dividevano le classi; l’unità araba; la lotta al colonialismo. La realizzazione di questi obiettivi iniziò presto: i negoziati con i Britannici per il ritiro delle truppe straniere iniziarono subito, e nel settembre 1952 fu adottata la prima legge di riforma agraria; la Costituzione fu abolita; furono messi fuorilegge tutti i partiti, ad eccezione dei Fratelli musulmani, e creato un partito unico; fu abolita la monarchia ed istituita la Repubblica; venne nominato un governo comporto per la maggior parte da militari. Nasser riuscì ad assicurarsi il supporto dell’esercito e delle organizzazioni popolari: il controllo militare del sistema politico, congiuntamente con l’abolizione delle liberalizzazioni, era ormai assicurato e destinato a durare per decenni. Nasser poté concentrare i suoi sforzi sull’eliminazione delle due fonti residue di limitazione al proprio potere: la presenza militare britannica ed i Fratelli musulmani. Verso questi ultimi, la posizione di Nasser era infatti rapidamente evoluta dall’amicizia al conflitto: dopo un tentativo di assassinio di Nasser attributo ai Fratelli, fu quindi decisa la messa fuorilegge dell’organizzazione; con la Gran Bretagna, invece, fu raggiunto l’accordo per l’evacuazione delle truppe britanniche dall’Egitto. 3.2 Le sfide internazionali: non allineamento; nazionalizzazione del Canale; aggressione anglo- franco- israeliana (1955-1956) Dopo i primi due anni in cui furono definiti gli equilibri politico-istituzionali e di potere del nuovo regime, gli eventi dei due anni seguenti (1955-1956) proiettarono Nasser sul palcoscenico internazionale, facendone un leader di statura mondiale. Sul fronte del conflitto arabo-israeliano, rimasto irrisolto dopo gli armistizi del 1949, la Dichiarazione tripartita del 1950 aveva impegnato Usa, Francia e Gran Bretagna a difendere lo status quo territoriale ed a impedire la ripresa dei combattimenti con un embargo contro le vendite di armi, che di fatto colpiva solo i Paesi arabi. Tuttavia, le incursioni su Israele dei Palestinesi dai territori di Gaza e Cisgiordania, rispettivamente sotto il controllo egiziano e giordano, mantenevano attivo il conflitto e spinsero il governo israeliano ad adottare una politica di forti ritorsioni militari contro le incursioni, politica mirata a mantenere alta la deterrenza contro i Paesi arabi.
La politica israeliana spinse Nasser su posizioni sempre più rigide verso Israele, specie dopo che questi aveva respinto le sue aperture negoziali. Allo stesso modo, l’atteggiamento neo-coloniale di Francia e Gran Bretagna erose l’originaria inclinazione filo-occidentale di Nasser, spingendolo a cercare alleanze alternative. Nasser conobbe Tito, il presidente della Jugoslavia, il quale si rifiutava di diventare un satellite dell’Unione Sovietica, ed anche il primo ministro indiano Nehru, l’eroe dell’indipendenza indiana. I tre leader parteciparono insieme alla conferenza di Bandung, in cui fu fondato il Movimento dei non-allineati, che riuniva i Paesi, molti dei quali appena usciti dal dominio coloniale, che si rifiutavano di allinearsi con gli Usa o l’Urss. Dopo che nel ‘55 morirono 35 soldati egiziani in una ritorsione israeliana a Gaza, Nasser si rivolse alla Cecoslovacchia per acquistare nuove armi. Visto nell’ottica regionale, il riarmo egiziano era puramente legato al conflitto con Israele; tuttavia, se calato nella prospettiva della Guerra Fredda, questo accordo con un alleato dell’Unione Sovietica faceva di Nasser un probabile alleato dei sovietico ed un potenziale nemico degli Usa. Gli Stati Uniti decisero perciò di negare a Nasser i finanziamenti richiesti tramite la Banca mondiale per la costruzione della diga di Aswan, un imponente progetto infrastrutturale che avrebbe aumentato notevolmente la capacità industriale del Paese. Dopo che il prestito fu negato, Nasser decise di nazionalizzare la Compagnie de Suez per utilizzare i proventi del traffico sul canale in sostituzione dei finanziamenti negati. La decisione rese Nasser estremamente popolare in patria così come in tutto il Mondo arabo, ma consolidò la sua immagine anti-occidentale e cementò un’alleanza, finalizzata ad abbattere il leader egiziano, tra Israele, Gran Bretagna (ostile a Nasser, il quale le aveva imposto il ritiro da Suez ed ostacolava le sue politiche in Medio Oriente) e Francia, ostile a Nasser per il suo appoggio alla guerra di liberazione in Algeria.
Israele attaccò l’Egitto raggiungendo Suez attraverso Gaza ed il Sinai; Francia e Gran Bretagna iniziarono i bombardamenti ed i paracadutisti anglo-francesi entrarono a Port Said. Tuttavia, le truppe anglo-francesi dovettero accettare il cessate il fuoco proclamato dall’Assemblea generale dell’Onu su proposta degli usa: il successo militare si trasformò così in una disfatta politica per Francia, Gran Bretagna ed Israele a causa della netta opposizione americana. Gli Usa, infatti, temevano un allargamento del conflitto con l’intervento dell’Urss e fecero ogni tipo di pressione sugli attaccanti per costringerli a ritirarsi. La guerra di Suez fu dunque un’aggressione tripartita israelo-anglo-francese contro Nasser, e segnò una svolta nelle relazioni internazionali, rendendo manifesto il tramonto del potere anglo-francese in Medio Oriente e nel mondo. La guerra segnò anche una svolta nelle relazioni regionali, dove fu considerata la seconda guerra arabo israeliana (anche se nessun Paese arabo fuori dall’Egitto fu coinvolto) e trasformò il Nasser ‘vittorioso’ sulle vecchie potenze coloniali nell’eroe del Mondo arabo. 3.3 Riforme e statalismo; l’opzione panaraba e quella socialista (1956-1966) Con il potere ormai saldamente nelle sue mani e forte della ‘vittoria’ riportata nella guerra di Suez, Nasser poté avviare un ambizioso programma di trasformazione dell’Egitto, una rivoluzione dall’alto che progredì sino al 1966, in parallelo alla crescita della sua leadership nel Mondo arabo.
Il primo e principale strumento della trasformazione dell’Egitto sul fronte interno fu la riforma agraria. Essa spazzò via il latifondo sviluppatosi da Muhammad Ali in poi, diminuendo drasticamente il potere politico- economico della classe dei grandi proprietari; più sfumati furono, invece, i risultati socio-economici della riforma per i contadini, specie quelli senza terra, poiché la redistribuzione riguardò solo il 15% delle terre coltivabili e la regolamentazione prevista per il salario e l’età minima per i braccianti non fu di fatto applicata. La riforma agraria fu solo la più importante delle politiche economiche che trasformarono l’Egitto: tra le altre, ricordiamo in sintesi la politica di ‘egizianizzazione’, che tra il ‘56 ed il ‘61 nazionalizzò progressivamente le imprese (banche, società commerciali, etc...) possedute dagli stranieri, i quali abbandonarono l’Egitto in massa; e la politica di ‘industrializzazione veloce’, mirante all’indipendenza economica tramite la produzione di beni sostitutivi delle importazioni, la quale generò un significativo sviluppo industriale dell’Egitto nel periodo 1952-1965, soprattutto nel settore manifatturiero. Tutte queste politiche economiche ebbero come risultato complessivo lo statalismo, ovvero un ruolo esteso e centrale delle istituzioni statali nella gestione dell’economia. Lo stesso effetto ebbero le riforme politiche ed amministrative, soprattutto quelle adottate nel cosiddetto periodo socialista del regime nasseriano (1961-1966), le quali perfezionarono l’incorporazione nello Stato delle varie forze sociali attraverso la loro rappresentanza, organizzata attraverso associazioni nazionali di categoria. Le riforme socialiste includevano, tra l’altro, la rappresentanza obbligatoria di operai ed impiegati nei consigli delle imprese. L’approfondimento dello statalismo egiziano provocò progressivamente dei contraccolpi politico- economici, quali la nascita di movimenti di opposizione e la crisi del modello di sviluppo economico, che iniziarono ad evidenziarsi già nell’ultimo periodo del nasserismo. 3.4 La leadership panaraba; l’Unione con la Siria e l’escalation con Israele(1956-1967) Anche in politica estera il regime di Nasser sperimentò una parabola simile: una crescita vertiginosa dell’influenza regionale dopo il ‘56, seguita da una sovraesposizione e da una crisi devastante dopo la sconfitta riportata nella terza guerra arabo-israeliana del 1967. L’enorme popolarità acquisita dopo la vittoria di Suez del ‘56 fece di Nasser il punto di riferimento della politica interaraba: in tutti i Paesi arabi, le forze sociali e politiche che sfidavano il potere del tradizionale sistema dei notabili guardarono alla rivoluzione egiziana come al modello da seguire. Tutti i movimenti nazionalisti arabi videro in Nasser il leader che poteva finalmente far avanzare la causa dell’unità araba e della lotta contro Israele. L’Egitto di Nasser incoraggiò queste aspettative, sostenendo politicamente e militarmente molte forze ‘progressiste’ arabe e sviluppando, tramite i suoi mezzi di comunicazione, un’intensa campagna propagandistica contro l’imperialismo occidentale ed i ‘reazionari arabi’. Nasser mise così in pratica suo vantaggio quell’interpretazione del nazionalismo arabo elaborata dagli ideologi del partito Ba’th, la quale va sotto il nome di ‘panarabismo’: l’unità araba, secondo Nasser, andava realizzata innanzitutto attraverso una stretta cooperazione tra gli Stati arabi, la cui forma più completa non poteva che essere l’unione politica tra gli Stati stessi. Per Nasser, l’unità araba era uno strumento indispensabile per la realizzazione della rivoluzione egiziana e perciò il panarabismo nasseriano va interpretato soprattutto come uno strumento per l’egemonia regionale del nazionalismo egiziano. Tuttavia, la realtà storica mostra che Nasser coinvolse l’Egitto in politiche unioniste che si rivelarono spesso sfavorevoli agli interessi nazionali egiziani: nel 1953, ad esempio, Nasser si impegnò inutilmente per convincere il Sudan ad accedere all’indipendenza unendosi all’Egitto; nel 1962, l’intervento a favore dei golpisti repubblicani in Yemen si trasformò in una guerra per procura con l’Arabia Saudita che consumò le risorse economiche e militari egiziane. Inoltre, la creazione nel 1964 dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), su iniziativa dell’Egitto, si trasformò in un boomerang quando, dal 1968, l’organizzazione palestinese si rese autonoma sotto la presidenza di Arafat.
La più nota delle iniziative politiche panarabe si ebbe nel 1958, quando la Siria e l’Egitto unirono le rispettive istituzioni nazionali per formare la Repubblica araba unita (Rau), che assieme allo Yemen del Nord formò poi li ‘Stati uniti arabi’. L’unione fu tuttavia realizzata secondo i termini imposti da Nasser, trasformandosi in una vera e propria annessione politica della Siria da parte dell’Egitto; come tale, fu presto rifiutata dalla maggioranza delle forze politiche siriane, le quali guidarono la secessione nel 1961, accusando Nasser di egemonismo contrario ai fini dell’unità araba. 3.5 la terza guerra arabo-israeliana del 1967; disfatta e morte di Nasser (1967-1970) L’inizio dell’escalation che portò alla terza guerra arabo-israeliana del 1967 furono gli attacchi israeliani in Siria, nel 1965-1966. Dopo i continui scontri tra Israele e Siria e la firma di un patto di mutua difesa con la Giordania, Nasser prese alcune iniziative bellicose, nelle sue intenzioni mirate soprattutto a contrastare la propagando ostile degli altri Stati arabi, che lo accusavano di non avere il coraggio di tener testa ad Israele. Questi atti furono interpretati ed utilizzati da Israele come casus belli per scatenare una guerra preventiva contro gli Arabi. L’attacco a sorpresa che Israele scatenò il 5 giugno 1967 ebbe come bersaglio principale l’Egitto, il più forte militarmente dei suoi vicini arabi. Il 7 giugno la Giordania accettò il cessate il fuoco; l’8 giugno anche l’Egitto 1980-1981, Sadat rispose alle critiche delle opposizioni con un’ondata di repressione e la cancellazione di alcune delle precedenti misure di liberalizzazione. Soprattutto, Sadat cercò di cooptare a suo sostegno gli effetti del processo culturale e politico di re-islamizzazione in corso nel Paese, come nel resto del Mondo arabo, dopo il 1967. Le concessioni di Sadat non furono tuttavia sufficienti ad imbrigliare l’ondata di trasformazione politico- culturale che, dopo la sconfitta del ‘67, aveva investito tutto il mondo arabo, sostituendo l’islam al nazionalismo come ideologia e visione del Mondo arabo. Nel quadro di questa cosiddetta ‘rinascita islamica’, in Egitto avevano cominciato a svilupparsi due fenomeni distinti ma collegati: il riemergere dei Fratelli musulmani come principale forza di opposizione islamica e lo sviluppo di movimenti islamisti insurrezionalisti ispirati da un’interpretazione radicale dell’ideologia. Alcuni tra questi movimenti islamisti radicali egiziani avevano compiuto, a partire dagli anni ‘70, azioni terroristiche con l’obiettivo di rovesciare il regime ‘apostata’ di Sadat, colpevole di promuovere la corruzione e l'occidentalizzazione della società. Come conseguenza della diffusione di questi movimenti radicali, il 6 ottobre 1981 Sadat veniva assassinato da un gruppo di militari legati al Jihad islamico. La morte di Sadat fu accolta da scarse manifestazioni di dolore (ed anche da alcune di giubilo). 4. L’era di Mubarak (1981-2011) 4.1 Il consolidamento interno e ripresa delle relazioni internazionali (1981-1990) Mubarak dedico la prima decade della sua presidenza a consolidare il suo potere e a riequilibrare gli effetti più destabilizzanti delle politiche del suo predecessore. Sul fronte di politica estera rispettato l'accordo con Israele e rafforzò i legami con gli Stati Uniti, tentando tuttavia di mantenere le apparenza di una pace fredda con lo Stato ebraico e di una qualche autonomia rispetto alle politiche americane in Medio Oriente. Sul fronte interno le politiche di Mubarak si svilupparono all'insegna della continuità, il ruolo del Parlamento e dei partiti fu ampliato elezioni politiche del 1984 e 1987 furono più libere di quelle tenute sotto Sadat. Fu consentito l'emergere di una più ampia opposizione, la cui componente principale era rappresentata dai fratelli musulmani. Mubarak crea così un sistema di apparente pluralismo politico, mantenendo il controllo sulla vita politica attraverso una serie di meccanismi di manipolazioni e repressione delle forze politiche legali o tollerate. In ambito economico Mubarak mantenne e rafforzò l' orientamento liberista introdotto da Sadat, ma non fece nulla per correggerne le ricadute socio economiche negative, anche perché l'espansione del turismo e gli aiuti esteri permisero al l'economia egiziana di crescere comunque sino al 1984. Con la caduta dei prezzi petroliferi, nello stesso anno l'Egitto vide diminuire sia la rendita petrolifera che le rimesse degli emigrati; questa diminuzione delle entrate costrinse il governo a misure di austerità che provocarono moti di protesta. Via via che il debito estero si accumulava, il governo egiziano fu costretto ad accettare una crescente intrusione degli organismi economici internazionali nelle proprie politiche economiche. Però nel 1990 si ebbe un rilassamento di queste pressioni economiche internazionali quando, in cambio della partecipazione dell'Egitto alla coalizione politico militare contro l'invasione irachena del Kuwait, il paese ottenne il pieno appoggio finanziario dell’Arabia esaudita e la cancellazione di gran parte del debito estero. 4.2 Repressione interna; ripresa del terrorismo islamista (1990-2000) Grazie all'autorità personale ormai consolidata, e al contesto internazionale favorevole dopo la guerra per il Kuwait, Mubarak inizio una seconda fase della sua presidenza caratterizzata da un esercizio più duro dell’autoritarismo, ed al rafforzamento di un sistema di potere sempre più elitario. Nella prima parte di questo periodo (1990 2000) l'obiettivo principale di Mubarak fu di riprendere il controllo dei settori sociali antagonisti, cresciuti nella prima fase di tolleranza, infine la repressione poliziesca del dissenso fu sistematica. Mubarak presentò questa deliberazione come una reazione difensiva, resa necessaria dalle violazioni delle leggi da parte dell'opposizione e soprattutto dalla lotta al terrorismo islamista, che dal 1992 al 1997 insanguinò l'Egitto. 4.3 Il risveglio della politica: l’antifada al-islah, gli scioperi; la farsa elettorale (2000-2010) L'Egitto ha vissuto una stagione di grande attivismo politico, dopo un periodo stagnante per le restrizioni imposte dal regime. Il primo periodo (2004-2006) di rinascita politica è noto come antifada al-islah (sollevazione per la riforma), ed è stato caratterizzato dal moltiplicarsi di movimenti per la riforma (il più attivo fu il “movimento per il cambiamento”) e di manifestazioni pubbliche in tutto il paese nelle quali per la prima volta furono mosse critiche dirette al presidente Mubarak. le proteste e rivendicavano maggiori libertà politiche e si opponevano alla successione alla presidenza del figlio di Mubarak: Jamal. Per quanto riguarda il regime, l'aspetto saliente delle politiche di Mubarak, fino al 2010 , fu infatti l'ascesa politica dei nuovi imprenditori guidati da Jamal. Mentre al governo accadeva tutto questo la situazione socioeconomica della popolazione si degradava gravemente nonostante la vantata crescita macroeconomica. Così nelle elezioni del novembre 2005 i fratelli musulmani registrarono un successo inusitato. Nonostante quest’ondata di protesta, il regime Mubarak sembrò riprendere il controllo della vita politica. Nelle elezioni politiche del 2010, pesantemente condizionate da brogli e violenza, il regime Mubarak stravinse. Nonostante questo le rivolte continuarono. 5. La seconda rivoluzione (2011-2015) 5.1 La primavera egiziana di piazza Tahir: le dimissioni di Mubarak La richiesta di libertà politiche di giustizia sociale del popolo egiziano e infine esplosa nei primi mesi del 2011 e ha provocato le dimissioni di Mubarak. Di tutte le mobilitazioni popolari della primavera araba quella che ha infiammato l' Egitto è stata la più seguita dall' opinione pubblica internazionale. Le mobilitazioni egiziane si sono sviluppate in due fasi: la prima è stata la fase della rivoluzione, che ha portato alle dimissioni di Mubarak e all'insediamento al potere del consiglio superiore delle forze armate (Scaf); la seconda fase è stata quella della cosiddetta transizione, caratterizzata da proteste contro lo scaf, per la mancata o lenta realizzazione degli obiettivi della rivoluzione, e della competizione per il potere tra i militari dello scaf, le forze del vecchio regime da esso rappresentate, e I fratelli musulmani. La manifestazione del 25 gennaio fu promossa da movimenti giovanili di recente formazione. Il 25 gennaio gli attivisti egiziani riuscirono a prendere di sorpresa le forze di polizia e a radunarsi in piazza Tahrir. A Tahrir i manifestanti protestarono contro la polizia, il governo e il presidente. Il 28 gennaio, il venerdì della collera, le manifestazioni furono ancora più ampie e adottarono lo slogan “il popolo vuole la caduta del regime”. il 29 Mubarak fece il suo primo discorso televisivo richiamando all'ordine la popolazione ma annunciando anche le dimissioni del governo in carica. Dopo che per pochi giorni sembrò che Mubarak potesse riprendere il potere, tuttavia la protesta ricominciò da piazza Tahrir per dilagare in tutto il paese. Il presidente Mubarak dava le sue dimissioni, trasferendo i suoi poteri allo Scaf, presieduto dal ministro della Difesa Tantawi, che nel suo primo comunicato aveva già annunciato di aderire alle legittime richieste del popolo. Anche in Egitto, come in Tunisia, le forze armate si opposero alla repressione militare e convincerò il presidente a farsi da parte. Diversamente che in Tunisia però , i militari egiziani non uscirono di scena ma si insediarono direttamente al potere per assicurare la continuità del regime. 5.2 La transizione guidata dallo Scaf, i fratelli musulmani al governo, il golpe al-Sisi (2011-2015) Iniziò così un complesso periodo di transizione, che durò due anni e mezzo, caratterizzato da un doppio processo politico: da un lato, lo scontro nelle piazze tra i movimenti popolari di protesta, composta dai giovani rivoluzionari e sul fronte opposto, gli oppositori del cambiamento rivoluzionario, identificati con lo scaf e dai fratelli musulmani giunti al vertice delle isituzioni politiche nel 2011 e 2012. Contemporaneamente si è svolto un più decisivo scontro di potere tra lo scaf, garante della continuità col vecchio regime, e l'organizzazione dei fratelli musulmani, interessata al cambiamento. Nella prima fase della transizione fratelli musulmani hanno cercato di usare la protesta di piazza contro lo scaf, ma nella seconda fase sono stati militari a sfruttare abilmente la pressione popolare contro i fratelli musulmani, e sono riusciti a sconfiggerli e a instaurare il loro nuovo regime dal 3 luglio 2013. L'inizio della transizione è stato segnato da una serie di eventi istituzionali: l'emendamento della costituzione proposto dallo SCAF; il referendum popolare confermativo dell’emandamento; la nuova dichiarazione costituzionale emessa dallo SCAF che fissava il calendario della transizione istituzionale: le elezioni parlamentari prima e le elezioni presidenziali poi; elaborazione di una nuova costituzione a opera di una costituente designata dal nuovo Parlamento; passaggio dei poteri ai civili dopo le lezioni presidenziali. Anteponendo le elezioni politiche a quelle presidenziali, favoriva i movimenti già ben organizzati e gli interessi della fratellanza musulmana, alleata di convenienza allo SCAF. I movimenti rivoluzionari e liberali erano invece contrari alla tenuta di elezioni in tempi brevi, e continuavano a manifestare per la rapida destituzione del vecchio regime. Dopo la dichiarazione del 30 Marzo i rivoluzionari si convinsero che lo SCAF non intendeva affatto sovraintendere a una transizione democratica, ma garantire solo un aggiornamento del regime precedenti. Intanto la fratellanza assumeva una posizione ambigua tra Scaf e rivoluzionari. Così le rivoluzioni continuarono per tutto il luglio 2011, ma senza l'aiuto dei fratelli musulmani, i manifestanti furono attaccati dall'esercito. Dopo questi attacchi, le proteste ebbero come obiettivo lo scaf, di cui i manifestanti chiedevano lo scioglimento. Alla vigilia delle elezioni parlamentari si ebbero gli scontri di piazza più violenti dopo le dimissioni di Mubarak, in cui morirono 40 manifestanti. L'inizio della seconda parte della prima fase della transizione egiziana fu segnato dallo svolgimento delle prime elezioni libere in Egitto. Il primo Parlamento egiziano post rivoluzionario fu dominato al 70% dalle forse islamiste, anche sei fratelli e i salafiti non erano alleati politici. Dopo l'inaugurazione del nuovo Parlamento, lo scontro tra scaf e fratelli musulmani divenne più esplicito e caratterizzato dalla “guerriglia istituzionale”. A maggio il primo turno delle elezioni presidenziali vide piazzarsi al primo posto Al-Morsi (candidato dei fratelli musulmani). Così lo scaf temendo la vittoria di Morsi, il 16 giugno 2012, adottò una nuova dichiarazione costituzionale, con la quale nuovamente evocava a sé il potere legislativo. il colpo di mano dello scaf fu contestato da una nuova grande ondata di proteste guidata questa volta dai fratelli musulmani. Quando il 24 giugno Morsi si fu dichiarato vincitore, la piazza esultò e sciolse le proteste. Ma gran parte del potere rimaneva allo Scaf secondo la costituzione. 5.3 Gli errori dei fratelli musulmani al governo, la collera popolare sfruttata dai militari, golpe e nuovo regime di Al-Sisi Il 5 agosto 2012 vi fu nel Sinai un attacco, attribuito ai jihadisti legati ad Al Qaida. Dopo l'attacco il presidente Morsi reagì con un ampia offensiva militare contro le postazioni dei jihadisti nel Sinai, ma anche con il licenziamento di una serie di responsabili della sicurezza. Pochi giorni dopo Morsi destituì anche i vertici militari dello scaf, con un gruppo di leader militari più giovani, tra i quali il generale Al-Sisi, e annullò la dichiarazione costituzionale dello scaf. Con il recupero dei pieni poteri da parte del presidente Morsi si aprì la seconda fase della transizione politica egiziana che si concluse con la totale vittoria dei militari sulla fratellanza. La dichiarazione costituzionale di Morsi fu denunciata come una svolta autoritaria dalla Corte costituzionale e provocò la protesta di piazza di tutte le forze non islamiste, che segnarono l'inizio della fine per il potere politico del presidente Morsi e della fratellanza. Ad Aprile 2013 prese il via a un iniziativa spontanea di opposizione guidata dal movimento giovanile Tamarrud (ribellione), che chiedeva la destituzione di Morsi. Oltre a questo movimento a chiedere ciò fu una moltitudine di egiziani, convinti che la rivoluzione fosse stata tradita e che la fratellanza non stesse risolvendo i problemi del paese ma solo occupando le istituzioni dello Stato a proprio esclusivo beneficio, mettendo a rischio la pace sociale con i suoi presunti legami con i jihadisti. Il 3 luglio dopo che Morsi, si rifiutò pubblicamente di dimettersi, il generale al Sisi annunciò alla televisione la destituzione del presidente eletto, la sospensione della costituzione e un piano per una nuova costituzione e nuove elezioni. Sotto la guida del generale al Sisi la politica egiziana ha intrapreso la strada del consolidamento di un nuovo regime avente la forma di una Repubblica presidenziale. Il nuovo regime si concentrò sul tentativo di ripristinare la sicurezza interna ed esterna del paese, attirare nuovi investimenti internazionali per sostenere la devastata economia del paese, e ottenere il consenso popolare. Per quanto riguarda la politica economica intrapresa da al Sisi si fonda su tre assi : lo sviluppo di mega progetti strutturali, tra i quali il raddoppio della larghezza del canale di Suez; la riforma del settore pubblico basata su una maggiore efficienza dell impiego; l'attrazione di capitali esteri. Queste politiche economiche non sembrano in grado di risolvere nessuno dei problemi strutturali dell'economia egiziana. Le domande di rinnovamento sociale e politico poste dalla rivoluzione del 2013 sono però rimaste disattese e il paese sembra tornato nella morsa dell' autoritarismo guidato da elite economicamente sempre più privilegiate.